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Il vetro nella scienza antica

2005, KOS

In torno alla metà del I secolo a.C. alcuni artigiani mediorientali, combinando l'uso di due tecniche metallurgiche antichissime, perfezionarono un modo rivoluzionario di produrre il vetro. Fin dal XV secolo a.C., in effetti, la canna da soffio per alimentare il fuoco e la fornace per fondere i metalli erano due strumenti ben conosciuti dagli artigiani e orefici egiziani. Con la prima si controllava l'azione del fuoco e attraverso la seconda si otteneva una pasta metallica fusa facilmente lavorabile. Il vetro era un materiale ben conosciuto anche dagli egizi, ma l'impossibilità di costruire fornaci capaci di raggiungere temperature superiori ai 1000°C non aveva permesso di lavorare la materia fusa, limitando così notevolmente le varietà e le dimensioni degli oggetti che si potevano ottenere. Nonostante questi limiti, superati solo con l'introduzione della tecnica della soffiatura, il vetro esercitò un enorme fascino ed è difficile pensare a un altro materiale capace di giocare un ruolo così vario. A partire dal I secolo a.C., di vetro o di pasta vitrea erano molte decorazioni architettoniche, i mosaici parietali, la fritta per produrre alcuni colori per la pittura a fresco, in particolare l'azzurro e il blu egizio, le finestre per illuminare gli spazi interni degli edifici, le lucerne, i drappeggi, gli ornamenti e alcune parti anatomiche di molte sculture in marmo e pietra, il vasellame da mensa, gli acquari, gli ornamenti, le imitazioni delle pietre e gemme più preziose, le urne cinerarie e, forse, i sarcofagi di uomini illustri, gli unguentari, i balsamari, le lastre utilizzate per la costruzione di serre, i recipienti per la conservazione degli alimenti, strumenti e recipienti alchemici di varie fogge e funzioni, alcuni strumenti ottici per lo studio dei fenomeni della riflessione e della rifrazione, le coppette usate dai medici per la suzione degli umori e del sangue e, infine, gli specchi, sia quelli utilizzati per la cosmesi che quelli ustori. Inoltre il vetro, più dei metalli, poteva assumere qualsiasi colore e una straordinaria lucentezza, qualità quest'ultima che, accompagnata dalla possibilità tecnica di rendere il materiale lavorato perfettamente trasparente, superava i limiti imposti dalle lavorazioni dei metalli e delle pietre. Plinio (Naturalis Historia, XXXVI, 68) prestò la massima attenzione alle tecniche e, alla fine del capitolo dedicato al vetro, esaltando le molteplici e sospendenti qualità del fuoco, suggerì di collocare l'arte vetraria insieme a tutte quelle arti che, grazie all'ingegno, erano finalizzate all'imitazione della natura. Il lungo elenco delle proprietà del fuoco e la consapevolezza manifestata da Plinio di come, grazie all'uso sapiente di questo elemento, si possa trasformare la materia a piacimento, investendo la manipolazione e il dominio del più potente dei quattro elementi, non è, come si voluto spesso intendere, una semplice eco della filosofia Eraclitea, bensì un tentativo di collocare l'arte vetraria in un ambito disciplinare che non è quello del semplice artigianato. Si tratta ovviamente della chimica o dell'alchimia, una disciplina che ai tempi di Plinio poteva già contare su una autorevole tradizione e che, come vedremo, era ben conosciuta dal naturalista latino. Le tecniche antiche, infatti, non sono riconducibili esclusivamente ai progressi empirici che si realizzarono nei mestieri artigianali e nelle officine dei vetrai, ma anche, e in misura rilevante, alle ricerche condotte da parte di alcune categorie di studiosi per estenderne e perfezionarne l'uso in contesti apparentemente lontani dalla vita quotidiana. Esplorando il vetro dal punto di vista della storia della scienza e della tecnica, è legittimo domandarsi se gli antichi, in particolare i greci, non abbiano lasciato qualche testimonianza significativa circa la classificazione scientifica del vetro e la sua funzione in vari ambiti dell'attività

STORIA DELLA SCIENZA Il vetro nella scienza antica di Marco Beretta* Ispirati dalle sue proprietà multiformi, filosofi e naturalisti greci manifestarono un vivo interesse verso il vetro: da qui è scaturita una serie di riflessioni originali sui suoi possibili usi in discipline scientifiche, quali la sperimentazione alchemica, la preparazione dei rimedi farmaceutici, la diagnostica medica e l’ottica. L’uso del vetro in questi quattro ambiti di ricerca non fu meramente strumentale, ma generò perfezionamenti capaci di accrescere in modo significativo le conoscenze che gli antichi avevano di questo materiale I ntorno alla metà del I secolo a.C. alcuni artigiani mediorientali, combinando l’uso di due tecniche metallurgiche antichissime, perfezionarono un modo rivoluzionario di produrre il vetro. Fin dal XV secolo a.C., in effetti, la canna da soffio per alimentare il fuoco e la fornace per fondere i metalli erano due strumenti ben conosciuti dagli artigiani e orefici egiziani. Con la prima si controllava l’azione del fuoco e attraverso la seconda si otteneva una pasta metallica fusa facilmente lavorabile. Il vetro era un materiale ben conosciuto anche dagli egizi, ma l’impossibilità di costruire fornaci capaci di raggiungere temperature superiori ai 1000° C non aveva permesso di lavorare la materia fusa, limitando così notevolmente le varietà e le dimensioni degli oggetti che si potevano ottenere. Nonostante questi limiti, superati solo con l’introduzione della tecnica della soffiatura, il vetro esercitò un enorme fascino ed è difficile pensare a un altro materiale capace di giocare un ruolo così vario. A partire dal I secolo a.C., di vetro o di pasta vitrea erano molte decorazioni architettoniche, i mosaici parietali, la fritta per produrre alcuni colori per la pittura a fresco, in particolare l’azzurro e il blu egizio, le finestre per illuminare gli spazi interni degli edifici, le lucerne, i drappeggi, gli ornamenti e alcune parti anatomiche di molte sculture in marmo e pietra, il vasellame da mensa, gli acquari, gli ornamenti, le imitazioni delle pietre e gemme più preziose, le urne cinerarie e, forse, i sarcofagi di uomini illustri, gli unguentari, i balsamari, le lastre utilizzate per la costruzione di serre, i recipienti per la conservazione degli alimenti, strumenti e recipienti alchemici di varie fogge e funzioni, alcuni strumenti ottici per lo studio dei fenomeni della riflessione e della rifrazione, le coppette usate dai medici per la suzione degli umori e del sangue e, infine, gli specchi, sia quelli utilizzati per la cosmesi che quelli ustori. Inoltre il vetro, più dei metalli, poteva assumere qualsiasi colore e una straordinaria lucentezza, qualità quest’ultima che, accompagnata dalla possibilità tecnica di rendere il materiale lavorato perfettamente trasparente, superava i limiti imposti dalle Applicazione di giallo d’argento (sempre sulla superficie esterna del vetro), portato a fusione a circa 800°C, e successiva lavorazione (sempre sulla superficie interna) con la grisaille, riportando il vetro a circa 560°- 620°C. 12 lavorazioni dei metalli e delle pietre. Plinio (Naturalis Historia, XXXVI, 68) prestò la massima attenzione alle tecniche e, alla fine del capitolo dedicato al vetro, esaltando le molteplici e sospendenti qualità del fuoco, suggerì di collocare l’arte vetraria insieme a tutte quelle arti che, grazie all’ingegno, erano finalizzate all’imitazione della natura. Il lungo elenco delle proprietà del fuoco e la consapevolezza manifestata da Plinio di come, grazie all’uso sapiente di questo elemento, si possa trasformare la materia a piacimento, investendo la manipolazione e il dominio del più potente dei quattro elementi, non è, come si voluto spesso intendere, una semplice eco della filosofia Eraclitea, bensì un tentativo di collocare l’arte vetraria in un ambito disciplinare che non è quello del semplice artigianato. Si tratta ovviamente della chimica o dell’alchimia, una disciplina che ai tempi di Plinio poteva già contare su una autorevole tradizione e che, come vedremo, era ben conosciuta dal naturalista latino. Le tecniche antiche, infatti, non sono riconducibili esclusivamente ai progressi empirici che si realizzarono nei mestieri artigianali e nelle officine dei vetrai, ma anche, e in misura rilevante, alle ricerche condotte da parte di alcune categorie di studiosi per estenderne e perfezionarne l’uso in contesti apparentemente lontani dalla vita quotidiana. Esplorando il vetro dal punto di vista della storia della scienza e della tecnica, è legittimo domandarsi se gli antichi, in particolare i greci, non abbiano lasciato qualche testimonianza significativa circa la classificazione scientifica del vetro e la sua funzione in vari ambiti dell’attività STORIA DELLA SCIENZA intellettuale e, più specificatamente, in quella naturalistica. Ispirati delle sue proprietà multiformi, molti filosofi e naturalisti greci manifestarono un vivo interesse verso questo materiale e, da questa fascinazione, è scaturita una serie di riflessioni originali sui suoi possibili usi in discipline scientifiche, quali la sperimentazione alchemica, la preparazione dei rimedi farmaceutici, la diagnostica medica e l’ottica. L’uso del vetro in questi quattro ambiti di ricerca non fu meramente strumentale ma, in casi che esamineremo tra poco, generò perfezionamenti capaci di accrescere in modo significativo le conoscenze che gli antichi avevano di questo materiale. Platone e Aristotele sono stati i primi a tentare una classificazione scientifica del vetro, inserendola nella più ampia riflessione sulla composizione ultima della materia e sulle cause dei suoi cambiamenti macroscopici. La materia in quanto tale era esaminata in modo tale da fornire una spiegazione razionale non solo dei fenomeni naturali ad essa associati, ma anche e soprattutto per dar conto dei risultati ottenuti attraverso la sua manipolazione tecnica. Diversamente da quanto stabilito dai risultati della chimica moderna, gli antichi non credevano che il vetro fosse una combinazione di ingredienti ottenuta grazie all’esclusivo intervento della tecnica, ma la consideravano una materia naturale dotata di particolari caratteristiche del tutto simili, se non identiche, a quelle manifestate dai metalli fusibili. I greci infatti avevano identificato i metalli con i prodotti d’estrazione mineraria suscettibili di essere fusi o solubili. Tali erano non solo i metalli veri e propri come l’oro, l’argento e il rame, ma anche corpi composti come il vetro e alcuni pigmenti minerali che non erano distinguibili, all’interno delle filosofie della materia antiche, da quello che noi oggi designiamo con il termine di sostanza metallica. Per dare conto di queste similitudini tra sostanze apparentemente del tutto differenti, Aristotele credeva che nei metalli fosse presente l’elemento acquoso: “L’oro, l’argento, il bronzo, lo stagno, il piombo, il vetro e molte pietre che non hanno un nome sono composti d’acqua: sono infatti tutti fusi dal caldo” Giovanni Damasceno istituisce nel convento una scuola per fanciulli, particolare. È evidente la padronanza dell’uso della grisaille nelle varie modalità della sua stesura. STORIA DELLA SCIENZA Giovanni si ritira in convento. È uno degli antelli più significativi dell’intera vetrata di Niccolò. Si devono apprezzare: la ritmica cadenza dei corpi, gli sguardi intensi e indagatori dei monaci, il volto gioioso e innocente del postulante, il forte contrasto cromatico delle vesti, mondano rosso per il giovane, nero per i religiosi ottenuto, per ovvii motivi di trasparenza, con una sapiente scelta di vetri viola di varia intensità. (Aristotele, Meteorologica, 389a). Ciò che accomunava i metalla dunque non era solo la proprietà di essere dei prodotti di estrazione mineraria ma, soprattutto, la qualità di essere delle materie fusibili, suscettibili di mutare forma se sottoposti all’azione del fuoco e delle tecniche metallurgiche. In aggiunta a questa proprietà chimica si moltiplicarono le considerazioni filosofiche sull’aspetto esteriore del vetro, inducendo i filosofi greci a pensare a una nuova definizione di questo materiale. La sostituzione nel V secolo a.C. degli antichi termini kyanos (ovvero blu, usato da Omero) e lithos chytê (pietra fusa, termine usato da Erodoto) con hyalos, sembra essere il riflesso di una consapevolezza del progresso tecnologico raggiunto dalla metallurgia e, in particolare, dell’arte vetraria. Secondo alcuni filologi il sostantivo hyalos, derivato dal verbo hyein (piovere), significherebbe goccia d’acqua; secondo altri, quali Daremberg e Kisa, deriva da hals (sale). Nel primo caso si esalterebbero le caratteristiche fisiche del vetro e in particolar modo la sua lucentezza e trasparenza, nel secondo la sua costituzione chimica. Quale che sia la soluzione adottata, in entrambi i casi sono delle considerazioni scientifiche a dare fondamento alla ridefinizione greca del vetro. Questo è poi confermato dal fatto che le prime chiare associazioni tra il nuovo termine e il vetro appaiono in contesti scientifici. Questo è il caso del celebre passo della commedia Le Nuvole di Aristofane (423 a.C.) dove si narra di una tecnica, basata sulla proprietà ustoria del vetro, per distruggere a distanza una citazione scritta su cera. Dal momento che non è possibile far convergere i raggi del sole in punto senza usare un mezzo trasparente, è evidente che per hyalos Aristofane intendeva un vetro o cristallo le cui proprietà principali erano la trasparenza e, a seconda della forma, la capacità di far convergere i raggi solari in un punto. Conformemente alla predilezione dei filosofi greci ad usare il termine hyalos per richiamare le connessioni tra il vetro e concetti scientifici generali, Filoloao, un seguace di Pitagora a cui si attribuisce, tra le altre cose, un’originale cosmologia eliocentrica, descrive il sole come un immenso STORIA DELLA SCIENZA specchio di vetro (hyaloëidés), “che riceve la luce riflessa dal fuoco dell’universo e la trasmette a noi”. Il passaggio del termine hyalos nella lingua latina manifesta ancora più chiaramente come i filosofi e i naturalisti guardassero a questo materiale con la più viva attenzione. È interessante notare a questo riguardo che Lucrezio, uno dei più originali sostenitori dell’atomismo epicureo, non solo pensava che la visione fosse possibile attraverso la luce, ma riteneva anche che la sua propagazione fosse condizionata dalla trasparenza dello spazio intermedio. Studiando la peculiare caratteristica degli atomi di luce di passare attraverso mezzi trasparenti e di dare vita alle immagini (simulacra), nel IV libro del De rerum natura (vv. 143-149) così scriveva: “Diciamo ora con quale facilità, con quale leggerezza si formino queste immagini e, come un flutto inesauribile, non smettano mai di staccarsi dai corpi. Elementi superficiali sgorgano e si irraggiano senza tregua da tutti gli oggetti. Se incontrano corpi porosi, come il vetro, li attraversano ma se urtano contro le asperità della roccia, o contro del legno, vi si lacerano, senza poter produrre l’immagine”. (Corsivo mio, nda). A queste caratteristiche Lucrezio aggiungeva che i simulacri erano corpi leggerissimi dotati di una velocità rapidissima, pari a quella della luce, proprio perché costituiti del medesimo tessuto materiale. La trasmissione del simulacro era analoga a quella della luce e il passo richiama la questione già sollevata da Aristotele secoli prima per spiegare il fenomeno della visione. Del resto, che Lucrezio avesse bene in mente Aristotele quando parlava dei simulacri lo si evince da un altro passo del libro IV (vv. 559-603) dove, nel passare in rassegna le differenze tra la propagazione dei suoni e delle immagini, scriveva: “La voce può attraversare senza danni i canali sinuosi dei corpi, e i simulacri vi si rifiutano, perché si spezzano se non viaggiano per condotti rettilinei, come quelli del vetro che ogni immagine riesce ad attraversare col suo volo”. È pertinente a questo punto sottolineare che i passi citati dal De rerum natura presentano forse la prima occorrenza del lemma vitrum nella lingua latina. Anche in questo caso, in analogia con quanto abbiamo appena accennato circa l’introduzione di hyalos, è un contesto scientifico, e più specificatamente ottico, a ispirare Lucrezio all’uso di un nuovo termine. L’etimologia di vitrum sottolinea l’attenzione di Lucrezio per il conio di termini tecnici e scientifici che fossero altrettanto, se non maggiormente, espressivi di quelli greci. Isidoro di Siviglia e Salmasio furono i primi a derivare vitrum, più o meno direttamente, dal verbo videre e questa lezione è stata precisata dai filologi moderni individuando nel lemma vitrum un composto dalla radice vid-, presa appunto dal verbo videre, a cui si aggiunge il suffisso -trum per designare la funzione di strumento. Dunque, l’etimologia di vitrum starebbe a significare uno strumento trasparente per vedere o per far vedere. Dal momento che, per Aristotele e successivamente per Lucrezio, il vedere avviene solo attraverso il diafano, cioè un mezzo trasparente, non è privo di importanza che lo sforzo linguistico di Lucrezio per trovare una parola latina efficace per designare il vetro si sia concretizzato in un termine capace di esprimere con efficacia una precisa teoria della visione. È ovvio che in questa operazione Lucrezio cercasse anche di rendere in latino l’espressività di hyalos, ma non si può non sottolineare come l’occorrenza del termine vitrum nel De rerum natura si trovi sempre in contesti nei quali si parla dei simulacri e dei meccanismi di trasmissione di questi particolari atomi. È una circostanza assolutamente singolare che un materiale assai comune tra i romani come il vetro venisse ridenominato solo nella metà del I secolo a.C. in un’opera scientifica di carattere eminentemente teorico. Prima del conio lucreziano gli autori latini usavano traslitterare il greco, usando di preferenza hyalus o crystallus, senza apparentemente preoccuparsi troppo delle proprietà scientifiche di questo materiale. Inoltre, il conio lucreziano di vitrum coincide, almeno cronologicamente, con la tecnica della soffiatura, e - anche se potrebbe trattarsi di una coincidenza fortuita - è comunque interessante che proprio nel momento in cui fu possibile, grazie alla nuova tecnica, produrre manufatti sempre più diversificati e sofisticati, venisse introdotto un termine 15 destinato ad avere un immediato successo e a sostituire molto rapidamente i vecchi nomi usati per designare il vetro. Che la riflessione di Lucrezio sulla relazione tra vetro e visione non fosse casuale lo dimostra la riforma della nomenclatura delle parti anatomiche dell’occhio introdotta dai medici greci e latini nel I secolo della nostra era. L’idea che la visione fosse possibile grazie alla trasparenza delle tuniche oculari e del mezzo nel quale agiva la luce era molto antica. Per Alcmenone, medico e filosofo pitagorico, “si vede grazie a ciò che l’occhio ha di luminoso e di trasparente, quando la luce è riflessa, e tanto meglio quando più essa è limpida”. Dunque, l’occhio percepisce la luce e la forma degli oggetti grazie alla sua conformazione che è costituita da una membrana trasparente, simile all’acqua, che ha la duplice funzione di ricevere e di riflettere i raggi visivi. L’arte vetraria fu certamente una tecnica guida nelle conoscenze anatomiche dell’occhio. L’attenzione posta dai medici dei secoli seguenti allo studio di questi problemi prova che essi sapevano bene di poter arricchire la loro comprensione del fenomeno naturale della visione attraverso la mediazione dei manufatti vitrei. In effetti, le conoscenze sull’anatomia dell’occhio sono progredite in modo deciso con l’opera di Erofilo, medico alessandrino vissuto intorno al 300 a.C., a cui vengono attribuite numerose scoperte anatomiche, in particolare intorno alla natura del sistema nervoso. Della sua opera, però, ci sono stati tramandati solo pochi frammenti, e tutto quello che sappiamo delle sue osservazione sull’occhio ci è stato trasmesso da Celso e da Rufo di Efeso, medici entrambi vissuti nel I secolo d.C. In particolare il secondo, nella sua opera sui nomi delle parti del corpo umano, ci offre un’idea precisa dei progressi realizzati nell’anatomia dell’occhio dai tempi di Aristotele. Scrive Rufo: “Delle diverse tuniche oculari quella che appare per prima si chiama ‘simile a un corno’ [la cornea]; quanto ai nomi delle altre, la seconda è chiamata ‘simile a un acino d’uva [l’uvea o l’iris]. Il termine ‘a forma d’acino d’uva’ deriva dal fatto che se si considera la parte che è soggiacente la cornea essa è dal lato esterno liscia come la pelle di un acino mentre STORIA DELLA SCIENZA nella parete interna, come l’acino, la sua superficie è rugosa.[…]. La terza tunica comprende l’umore vitreo [hyaloëidés hygrón]; il nome antico è ‘membrana simile a una tela di ragno’ e deriva dalla sua tenue consistenza. Dal momento che Erofilo l’ha paragonato a una rete da pesca, alcuni medici l’hanno chiamata ‘retiforme’; altri la chiamano ‘vitrea’ a causa dell’umore che contiene; la quarta tunica contiene l’umore cristallino [krystalloëidés hygrón]. Prima non aveva nome, poi è stata chiamata tunica ‘lenticolare’ [phakoëidés hytón], a causa della sua forma, e ‘cristallina’, a causa dell’umore cristallino che contiene”. Si tratta di un passo di grande importanza, poiché la maggior parte dei nomi attribuiti alle tuniche dell’occhio non subiranno più, almeno nella lingua greca e latina, radicali mutamenti e costituiranno la base della nomenclatura anatomica moderna. Non è chiaro quando e da chi siano stati introdotti nella lingua greca questi neologismi, è però solo a partire dal I secolo d.C. che essi vengono adottati da molti autori - latini e greci - di trattati di medicina, ed è perciò ragionevole pensare che tale riforma linguistica non fosse troppo anteriore all’inizio della nostra era. Altri esempi di questo tipo di denominazioni anatomiche precisano meglio il quadro delle fonti. In un trattato anonimo sull’anatomia delle parti del corpo, attribuito allo stesso Rufo, troviamo, nella parte relativa all’occhio, una variazione interessante rispetto all’opera sulle denominazioni delle parti. Secondo questo autore, infatti, la retina è “liquido analogo al bianco dell’uovo che viene chiamato liquido simile al vetro fuso”. In questa radicale riforma della nomenclatura oculistica, due termini in particolare diventano di uso comune: vetro e cristallo. Cosa ha indotto Celso, Rufo, Galeno e i loro contemporanei ad applicare alla fisiologia nomi tratti direttamente dall’arte vetraria e dalla mineralogia? Come mai all’improvviso si è preferito descrivere la trasparenza delle tuniche dell’occhio sostituendo l’acqua con il vetro e il cristallo? Come mai, infine, le lente cristallina assume un’importanza così rilevante nella formazione delle immagini? Anche se non è facile rispondere a questi interrogativi, possiamo schematicamente richiamare l’attenzione su alcuni fattori che probabilmente giocarono un ruolo importante. In primo luogo, lo sviluppo dell’arte vetraria all’inizio della nostra era aveva favorito il perfezionamento delle tecniche per produrre vetri di una trasparenza simili al cristallo, e questo progresso tecnico, accompagnato alla massiccia diffusione del vetro, deve aver ispirato medici a definire la trasparenza delle tuniche oculari e del cristallino ispirandosi alle qualità fisiche dei principali prodotti dell’arte vetraria. Del resto i richiami di Celso e Galeno al colore del vetro fuso non lasciano dubbi al proposito. In secondo luogo, l’esistenza piuttosto diffusa di lenti di ingrandimento, per lo più di cristallo di rocca, deve aver ispirato la definizione del cristallino la cui funzione, più che di ingrandire l’immagine, era quella di formarla o comunque di permettere alla facoltà visiva di crearne una adeguata all’oggetto visto. La forma biconvessa delle lenti d’ingrandimento usate dagli artigiani e orefici mostrava chiaramente l’analogia con la forma della lente cristallina, e sembra perciò aver suggerito ai medici la ridefinizione anatomica della sede della vista. A questo punto diventa difficile pensare, come ancora sostengono molti studiosi, che le lenti prodotte nell’antichità non servissero per guardare, ma fossero semplicemente degli ornamenti che, del tutto casualmente, avevano anche delle proprietà ottiche particolari. Tale scetticismo può essere giustificato solo se si pone attenzione ai reperti in modo isolato, decontestualizzandoli dalla storia a cui appartengono. Se però si allarga l’esame di questi reperti esplorando a fondo ciò che le fonti ci trasmettono, siamo guidati a considerare le cose sotto tutt’altra prospettiva. Se le principali auctoritates della letteratura medica greca e latina usavano il termine lente cristallina per designare quella che per loro era la principale sede anatomica della formazione delle immagini, sicuramente guardare attraverso le lenti doveva essere, almeno a partire dal I secolo d.C., un’esperienza estremamente diffusa. Stabilire con precisione poi se queste lenti siano state utilizzate per ingrandire gli oggetti o per correggere la vista, è molto più difficile. Tuttavia, se spostiamo la nostra attenzione su 16 un altro settore disciplinare della scienza antica, possiamo stabilire fino a che punto gli scienziati greci avessero compreso le potenzialità scientifiche del vetro. Il geografo e astronomo alessandrino Claudio Tolomeo (II secolo d.C.) propose nell’Ottica alcuni fondamentali esperimenti per dimostrare geometricamente gli effetti della rifrazione del raggio visuale sulla superficie di separazione fra materiali trasparenti di diversa densità: aria/acqua, aria/vetro e vetro/acqua. La constatazione della differenza tra la capacità rifrattiva del vetro e la sua precisa quantificazione attraverso diversi strumenti di vetro, consentì a Tolomeo di dimostrare e verificare sperimentalmente la legge di rifrazione della luce ed estenderla nell’ambito delle osservazioni astronomiche. È difficile credere che Tolomeo sia stato l’unico scienziato dell’antichità a comprendere a pieno i risultati che si potevano ottenere guardando l’universo attraverso il vetro. Oltre alla medicina e all’ottica, un altro ambito scientifico in cui l’uso del vetro si dimostrò di enorme importanza fu quello dell’alchimia. I chimici antichi compresero immediatamente che il vetro, diversamente dei metalli con cui costruivano tutti gli utensili e gli strumenti, era chimicamente neutrale: non rilasciava e non assorbiva particelle durante le reazioni. Questa consapevolezza è chiarita in un passo del De Materia medica di Dioscoride (I secolo d.C.) ove, nel descrivere un processo di trasmutazione dell’argento, si conclude: “L’argento vivo è estratto dal minio, impropriamente chiamato cinabro. Si mette un recipiente di ferro contenente del cinabro su un piatto di terra, lo si ricopre con un coperchio ricoperto d’argilla e lo si riscalda con dei carboni ardenti: il residuo che, raffreddandosi, aderisce al coperchio è argento vivo. Si ottiene anche fondendo dell’argento dal momento che si raccoglie, goccia per goccia, sui coperchi dei crogioli. C’è chi dice che si trova dell’argento vivo naturale nelle miniere. Si conserva in vasi di vetro dal momento che corrode qualsiasi altra materia”. La trattazione del vetro nella letteratura farmaceutica è attestata in un’altra opera, pubblicata nel II secolo d.C. dal medico greco STORIA DELLA SCIENZA Claudio Galeno, la figura più importante della medicina classica dopo Ippocrate. Nel De simplicium medicamentorum temperamentis et facultatibus libri undecim, Galeno esamina la natura dei metalli e la loro composizione chimica affermando che alcuni di essi sono composti da una terra non fusibile: “Una delle particolarità della terra è quella di non fondere quando viene sottoposta all’azione del fuoco, proprietà che non possiedono il piombo e lo stagno, l’argento e l’oro. Di conseguenza, quando si sente parlare di terra argentifera, aurifera o ferrosa - dal momento che alcuni chiamano così le terre che cavano dalle miniere - non si deve pensare che l’argento, l’oro o il ferro siano perfettamente mischiati con la terra, ma che delle piccole particelle di terra sono giustapposte alla rinfusa a delle piccole particelle d’oro nella terra aurifera, d’argento in quella argentifera, di ferro nella ferrosa, e che nella fornace queste particelle si liquefanno a causa del fuoco. Allo stesso modo, la terra che contiene il vetro è sabbiosa, perché è soprattutto nella sabbia che si trovano delle piccole pagliuzze di questo materiale”. Ancora una volta il vetro serviva a illustrare la natura dei principali metalli. Che il vetro rappresentasse una sostanza importante per mostrare la plausibilità della trasmutazione tra sostanze lo dimostra un alchimista, Enea di Gaza, vissuto nel V secolo d.C., che scrisse: “Non c’è niente di incredibile nella metamorfosi della materia in uno stato superiore. Coloro che sono versati nell’arte alchemica prendono argento e stagno, ne cambiano l’apparenza e li trasmutano in oro eccellente. Il vetro si trasforma in una sostanza nuova e brillante, combinando sabbia divisibile e natron solubile”. L’arte vetraria offriva dunque un bellissimo esempio di come alcune sabbie comuni potessero trasformarsi nella fornace in un materiale nobile e brillante. La vitalità dei rapporti tra filosofia alchemica e arte vetraria non è dimostrata solo dalle tecniche inventate per produrre artificialmente smeraldi e dagli esempi sulla trasmutazione, ma anche dagli apparati utilizzati dagli alchimisti nei loro laboratori per perfezionare le tecniche di ricerca. L’attenzione posta dagli alchimisti antichi agli strumenti e le pratiche sperimentali è sufficientemente nota; meno conosciuta è l’introduzione del vetro nel laboratorio per la costruzione di vasi, recipienti e veri e propri strumenti. L’uso del vetro negli apparati chimici infatti non è, come si potrebbe pensare, un’acquisizione moderna e contemporanea, ma getta le sue radici in tempi di poco successivi all’introduzione della tecnica della soffiatura. Numerosi sono i riferimenti nelle fonti greche a questi strumenti. In una ricostruzione, composta intorno al 425 d.C., delle dottrine di Democrito, Maria, Zosimo e altri alchimisti di epoche precedenti, Olimpiodoro di Tebe forniva la seguente ricetta per tingere di bianco il rame per mezzo dell’arsenico: “L’impiego del sale è stato immaginato dagli antichi per evitare che l’arsenico aderisca ai vasi di vetro. Questo vaso di vetro è chiamato asympoton, da Africanus [Sextus Julius Africanus II secolo d.C.]. È ricoperto con l’argilla; un coperchio di vetro a forma di coppa vi è collocato sopra. Sulla parte superiore un’altra coppa ricopre il tutto [di modo che non venga disperso l’arsenico bruciato]”. Nei primi decenni della nostra era Maria l’Ebrea, di origine mediorientale, fornisce dettagli ancora più circostanziati su altri strumenti utilizzati per la produzione di tinte artificiali, esaltando sia la neutralità chimica del vetro sia la sua trasparenza. Si tratta di storte, alambicchi, recipienti e altri apparati che, nella chimica moderna, diventeranno gli strumenti caratterizzanti l’attività di laboratorio. Di questi strumenti la tradizione manoscritta ci ha trasmesso anche dei disegni che permettono di apprezzare l’alta tecnica raggiunta dai costruttori di strumenti di vetro dell’antichità. A questo riguardo è interessante notare che le fonti antiche ci hanno trasmesso i titoli di due trattati, oggi perduti, interamente dedicati alla fabbricazione e colorazione del vetro, un segno dell’importanza scientifica che questa arte aveva acquisito nella letteratura tecnica del tempo. In conclusione, ci sembra che il caso del vetro antico abbia offerto un esempio di straordinaria importanza nel mostrare come lo sviluppo di teorie e conoscenze che gli 17 storici hanno sempre considerato come frutto esclusivo della creatività intellettuale dipendessero in larga misura, e in alcuni casi addirittura del tutto, dalle tecniche di lavorazione di questo materiale e dalle conoscenze che gli artigiani erano riusciti a ricavare dalle loro pratiche. Se nel Rinascimento il vetro fu un materiale che servì a costruire strumenti capaci di verificare sperimentalmente delle teorie ottiche, fisiche e astronomiche, nell’antichità il vetro rappresentò una tecnica guida, una inesauribile fonte di ispirazione che condusse a esplorare empiricamente degli ambiti di ricerca che solo molti secoli dopo trovarono una sistemazione teorica adeguata. Queste lacune teoriche, però, non impedirono ad abili artigiani di giungere alla costruzione di strumenti che potevano correggere o amplificare la sola conoscenza dei sensi e, soprattutto, che potevano stimolare gli studiosi della natura ad approfondire temi che - senza un modello materiale sotto gli occhi non avrebbero saputo altrimenti affrontare. Il vetro dunque fornì ai naturalisti dell’antichità la possibilità di vedere una serie di fenomeni, apparentemente inspiegabili e meravigliosi, che potevano essere replicati artificialmente, fornendo così le basi materiali per formulare ipotesi di carattere scientifico. ● *Vice Direttore dell’Istituto e Museo di Storia della Scienza (IMSS), Firenze Bibliografia Marco Beretta e Giovanni Di Pasquale (a cura di), Vitrum. Il vetro fra arte e scienza nel mondo romano, Giunti, Firenze, 2004. Marco Beretta (a cura di), When Glass Matters. Studies in the History of Science and Art from Graeco-Roman Antiquity to Early Modern Era, Leo S. Olschki, Firenze, 2004.