Academia.eduAcademia.edu

Editoria e critica

L'editoria postmoderna è viceversa un'editoria senza editori (Schiffrin, 2000), vale a dire un'attività manageriale non più rivolta al prodotto ma esclusivamente al marketing e alla creazione di rappresentazioni. Può dunque fare a meno della mediazione intellettuale. Non a caso, proprio in questo periodo, il capitale extraeditoriale penetra a fondo nel mondo del libro e scompaiono i grandi editori-protagonisti italiani (Mondadori, Rizzoli, Bompiani, Feltrinelli, Einaudi) e anche i loro prestigiosi consulenti-critici e scrittori (come Vittorini, Sereni, Calvino) (cfr. Ferretti, 2004). Se, fino agli anni sessanta, resisteva ancora la figura del consulente-letterato, vale a dire un critico che partecipava alla politica editoriale, che manteneva rapporti con gli autori e che poteva proporre una propria idea di letteratura, a partire dagli anni settanta, invece, il consulente tende a perdere le proprie funzioni intermediarie tra scrittore, opera e lettore e tra valore testuale e strategie di mercato si determina un crescente cortocircuito, a completo vantaggio della mercificazione.

 Editoria e critica di Emanuele Zinato Editoria e critica: una premessa Ogni opera letteraria ha una sua fortuna, buona o cattiva: di critica favorevole o sfavorevole, di vendite alte o basse (cfr. Ferretti, ). Questo duplice processo investe non solo le opere più recenti ma anche quelle del passato e gli stessi “classici”: editoria e critica contribuiscono alla cosiddetta “canonizzazione” dei testi. Nel periodo che va dagli anni settanta a oggi, tuttavia, queste due forme di mediazione culturale sono pressoché inconfrontabili: la critica ha progressivamente contratto il suo margine di azione sociale, l’editoria al contrario si è espansa al punto da comprendere il settore televisivo e digitale, costituendo un universo comunicativo e merceologico integrato che influenza l’intera vita culturale, sociale, economica. La critica letteraria si differenzia dalla lettura perché consiste in un atto pubblico, là dove la lettura è silenziosa e individuale. Solo quando la lettura è un’esperienza rielaborata ai fini di una persuasione rivolta a un destinatario collettivo diventa critica letteraria. Il critico ha bisogno della legittimazione che gli viene concessa da un’istituzione culturale (scuola, università, editoria, giornalismo): è un intellettuale che deve tenere in ri-uso il patrimonio letterario, selezionarlo, renderne i significati attuali in situazioni storiche nuove rispetto a quelle del contesto originario. Non gli basta dunque la legittimazione delle istituzioni ma deve anche conquistarsi un pubblico mediante la forza del suo stile: la scrittura critica è, infatti, autocoscienza della letteratura ed è, anch’essa, un genere letterario (cfr. Luperini, , pp. -; Berardinelli, , pp. ; Zinato, , pp. -). Tradizionalmente, si distingue tra una critica erudita, degli accademici, rivolta ai testi del passato, e una critica militante, dei giornalisti, o dei critici-scrittori, impegnati nella polemica contemporanea a sostegno di una certa corrente letteraria: con reciproche accuse di improvvisazione o, viceversa, di aridità. In realtà, la critica oscilla sempre e necessariamente tra studio oggettivo e saggio persona MODERNITÀ ITALIANA le: il problema dei problemi, per il critico, infatti è dato dal diverso dosaggio di soggettività e di oggettività, dal grado di partecipazione agli oggetti della propria analisi. Il giudizio critico, pur essendo formulato da un singolo soggetto, intende presentarsi come universale, condiviso. La questione è stata posta con lucidità dai due più grandi critici italiani del Novecento: Giacomo Debenedetti e Gianfranco Contini. Il primo si mostra sempre compromesso con il testo ma avverte anche il bisogno di esorcizzare la latitudine autobiografica della propria scrittura, il secondo è convinto che il critico debba guardarsi dal proprio stesso io psicologico, abbandonandosi al quale rischia di venir meno alle proprie responsabilità. Da ciò consegue l’impossibilità di formulare qualsiasi giudizio critico senza tener conto «del testo nella sua materialità, spessore, storia» (Mengaldo, , p. ). Nel corso del quarantennio qui considerato, questi fondamenti etici e “deontologici” del fare critico sembrano subire una serie di scosse tali da vanificarne progressivamente la ragion d’essere: se il critico è un intellettuale umanista che ha bisogno di un pubblico e di un “mandato” sociale, e se la scrittura critica è un genere letterario, dagli anni settanta ai novanta entra in crisi la funzione intellettuale pedagogica e si conclude il processo di emarginazione della letteratura nel sistema culturale complessivo. È questa una tendenza di dimensioni planetarie, interna al postmodernismo, che in Italia, tuttavia, sembra presentarsi in modo estremo e repentino: l’ossessione espansionistica dell’audience e una maliziosa nozione di democrazia culturale, alla fine del secolo, fanno assoluto divieto di distinguere tra una letteratura di serie A e una di serie C. Nel nostro paese, passato dalla sua lunga fase premoderna a una postmodernità «andata a male» (Berardinelli, , p. ) in cui l’industria dell’intrattenimento si è fatta “partito-azienda”, tali fenomeni risultano particolarmente acuti. L’editoria moderna è un’attività imprenditoriale che consiste nel finanziamento, nella stampa e nella commercializzazione di testi altrui (cfr. Cadioli, ). Ogni atto editoriale è dunque, in questo quadro, espressione di un’idea di cultura e al contempo di una scelta di mercato: contribuendo alla ricezione di un testo, presuppone e costruisce un pubblico di acquirenti, di lettori, di interpreti. Intorno all’editoria moderna, oltre agli scrittori, orbitano altri intellettuali, come imprenditori di cultura, redattori e consulenti-scrittori, che “pensano i libri” (cfr. Mangoni, ) sia come oggetti culturali che come merci . . Sull’unione non districabile di funzioni culturali e di funzioni economiche e sulla “responsabilità morale” dell’editoria cfr. Turchetta ().  . EDITORIA E CRITICA L’editoria postmoderna è viceversa un’editoria senza editori (Schiffrin, ), vale a dire un’attività manageriale non più rivolta al prodotto ma esclusivamente al marketing e alla creazione di rappresentazioni. Può dunque fare a meno della mediazione intellettuale. Non a caso, proprio in questo periodo, il capitale extraeditoriale penetra a fondo nel mondo del libro e scompaiono i grandi editori-protagonisti italiani (Mondadori, Rizzoli, Bompiani, Feltrinelli, Einaudi) e anche i loro prestigiosi consulenti-critici e scrittori (come Vittorini, Sereni, Calvino) (cfr. Ferretti, ). Se, fino agli anni sessanta, resisteva ancora la figura del consulente-letterato, vale a dire un critico che partecipava alla politica editoriale, che manteneva rapporti con gli autori e che poteva proporre una propria idea di letteratura, a partire dagli anni settanta, invece, il consulente tende a perdere le proprie funzioni intermediarie tra scrittore, opera e lettore e tra valore testuale e strategie di mercato si determina un crescente cortocircuito, a completo vantaggio della mercificazione. Alle origini, vi è naturalmente la modernizzazione degli anni sessanta, l’industrializzazione, la crescita senza precedenti dei consumi, le migrazioni interne verso le aree urbane del Nord. Prima del boom economico, buona parte dell’editoria aveva ancora una dimensione artigianale, non esisteva un vero pubblico di massa e l’eventuale fortuna critica di un’opera o di un autore si traduceva nell’affermazione e nel consenso in ambiti ristretti, nei quali élite intellettuali e lettori tendevano a incontrarsi: terze pagine, riviste, premi letterari. A partire dagli ottanta, tuttavia, la mediazione editoriale  non si limita più ad essere solo una moderna attività industriale «a scopo di lucro» (Tatò, ), che ha lasciato alle proprie spalle la fase preindustriale: subisce anche un processo inedito di concentrazione che trasforma le case editrici più prestigiose (come Mondadori, Einaudi, Rizzoli) in periferiche filiali di grandi gruppi dominati dalla corsa all’audience, ossia al successo economico a brevissimo termine e, dunque, alla vendita di immagini e desideri, cartacei o virtuali, modellati sulla finzionalità mediatica. Solo nel corso degli “anni Zero” (cfr. Cortellessa, ), infine, all’apertura del nuovo millennio, la crisi economica, la nuova precarietà del lavoro intellettuale, la diffusione capillare di scritture in rete, i mutamenti dello scenario internazionale, tendono ad aprire delle crepe e a riproporre i vecchi dilemmi del moderno e, parallelamente, a delineare la domanda di nuove forme di diffusione ed elaborazione della cultura e un nuovo, generalizzato bisogno di responsabilità e di “biodiversità”, editoriale e critica. . Cfr. Cadioli, Decleva, Spinazzola (), che ospita interventi di studiosi italiani (Cadioli, Decleva, Spinazzola, Turi) e stranieri (Chartier, Escarpit, Mollier, Schulz-Buschhaus).  MODERNITÀ ITALIANA Editoria GLI ANNI SETTANTA Due dettagli, particolarmente significativi, permettono di far luce sull’intera costellazione dei rapporti fra editoria e società all’inizio del decennio settanta. . Nel -, per la prima volta, un gruppo finanziario estraneo al mondo editoriale interviene massicciamente nel settore: l’IFI (legato alla FIAT) acquista la maggioranza del pacchetto azionario della Fratelli Fabbri editori, dell’Etas Kompass, della Sonzogno e della Bompiani, giungendo alla creazione del primo pool editoriale di tipo “stellare”, in cui ciascuna casa editrice conserva il proprio marchio e può rivolgersi a mercati diversificati. . Nel , l’editore-protagonista forse più dinamico di quegli anni, Giangiacomo Feltrinelli (che nel - aveva pubblicato i primi veri best seller di qualità come Il Gattopardo e Il dottor Zivago, e poi nel  i libri della neoavanguardia), salta in aria a Segrate mentre sta applicando una bomba a un traliccio: era passato in clandestinità per organizzare i GAP, un gruppo guerrigliero di estrema sinistra destinato a contrastare un ipotetico colpo di Stato fascista. Mentre, nelle immagini postume diffuse dai media, gli anni settanta sono solo gli anni del terrorismo e della saturazione ideologica, questi due fatti allegorici relativi alle sorti dell’editoria, a ben guardare, confermano e smentiscono a un tempo lo stereotipo vulgato. Da un lato, la prima concentrazione e integrazione editoriale, infatti, prelude già alla battaglia per il controllo dell’informazione e all’editoria integrata multimediale: a metà del decennio, ad esempio, il gruppo Mondadori-Caracciolo affiancherà al settimanale “l’Espresso” il quotidiano “la Repubblica”; d’altro canto, la fine cruenta di un editore-intellettuale prefigura una crisi profonda dell’impegno culturale ed è il sintomo di una formula ideologica astratta, che consente l’immaginazione di una situazione insurrezionale prescindendo dai dati di realtà. Le trame golpiste di estrema destra certo non mancavano, in quel periodo, ma nel giro di pochissimi anni sia le ipotesi “rivoluzionarie” che quelle “controrivoluzionarie” sono destinate all’anacronismo per l’affermarsi della condizione postmoderna. L’espansione e penetrazione planetaria dei fenomeni connessi al termine postmoderno, in paesi “in ritardo” come il nostro, avvengono infatti dopo la recessione del , e soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni settanta: il dilagare di una nuova piccola borghesia onnivora, la trasformazione della comunicazione in colossale business, la colonizzazione dell’inconscio, l’avvio dell’ondata neoliberista (cfr. Jansen, ).  . EDITORIA E CRITICA La formula banalizzante “anni di piombo” (desunta da un film di Margarethe von Trotta) è dovuta, insomma, oltre che a necessità di rimozione, anche a un bisogno postumo di semplificare un periodo complesso e irto di paradossi. Se proprio in questi anni, infatti, si manifestarono in Italia le prime mutazioni dovute all’improvviso estendersi di una cultura postindustriale e ipercapitalistica, il più evidente paradosso culturale consiste nella parallela convinzione che fosse imminente un superamento del capitalismo: idea che oggi sembra irrealistica ma che allora era suffragata dalla sconfitta degli Stati Uniti in Vietnam, dalle crisi petrolifere del  e del , dalla popolarità del marxismo nelle scuole e nelle università, dalla estesa partecipazione ai movimenti collettivi e dalla stessa crescita elettorale del PCI. Del resto, mentre l’analisi sociologica della sinistra vecchia e nuova era ferma alla “centralità operaia”, a metà degli anni settanta in Italia solo il % dei lavoratori era ancora effettivamente impiegato in fabbrica, mentre il terziario assorbiva già il % della popolazione attiva. Ad essere liquidata, dunque, non fu solo l’Italia contadina tradizionale ma anche la moderna cultura impegnata, operaia e resistenziale: ne sono testimonianza, dopo il , la parodia della militanza politica, il diffondersi di temi di tipo personale e “privato”, incentrati sul corpo e sui desideri, e la parallela nevrosi belligerante e sanguinaria del terrorismo. Il movimento del  è, di fatto, culturalmente, del tutto postmoderno: disincantato, a-progettuale, nichilista, permeato dalla cultura dell’effimero, mostra bene fino a che punto le idee della sinistra operaia e industriale si fossero logorate. L’emergere di una cultura giovanile, apparentemente autonoma e separata dal resto della società, è insomma intrinsecamente legato all’ascesa di un modello culturale “giovanilistico” assai più generale, incentrato sulle pulsioni, sullo spettacolo e sui consumi. Nello specifico campo editoriale, oltre alla morte emblematica di Feltrinelli, va considerata anche la scomparsa di altri due grandi editori-protagonisti (Rizzoli nel  e Mondadori nel ) che avevano gestito in prima persona le linee culturali e mercantili delle loro case e che avevano spinto loro malgrado soprattutto verso l’intrattenimento di massa: si profila in tal modo all’orizzonte la futura affermazione di un apparato in cui editori, autori e funzionari saranno sempre più intercambiabili. Per il momento, la situazione si presenta ancora aperta e fluida, e lo spostamento di proprietà emergerà pienamente solo nei due decenni successivi. Anche se, nei primi anni settanta, il mercato editoriale inizia ad essere un settore appetibile per l’investimento dei capitali (il fatturato complessivo dell’editoria, nel , passa a  miliardi di lire, contro i  del ), la nuova domanda di cultura, tra il  e il , per certi aspetti può ancora assomigliare a quella dell’immediato dopoguerra, col moltiplicarsi di iniziative legate alle speranze politico-pedagogiche di cambiare la società.  MODERNITÀ ITALIANA La scolarizzazione di massa e lo stesso “biennio caldo” -, con il mutamento e la vivacità degli interessi culturali messi in campo, avevano infatti allargato il numero dei potenziali lettori. In un primo tempo, insomma, la domanda di dibattito politico-culturale determina, proprio come nel , un grande sviluppo della piccola editoria ( nuove sigle emergono tra il  e il ). La manualistica sociologica e politica, i saggi critici, le canzoni popolari impegnate, i manifesti di lotta verranno pubblicati soprattutto da case editrici “del movimento”, come Sugar, Samonà e Savelli, Bertoni, l’Erba Voglio, Mazzotta, esplicitamente rivolte a un pubblico giovanile di sinistra e, nella seconda metà del decennio, nascono anche le case editrici femministe: La Salamandra, La Tartaruga, le Edizioni delle Donne (cfr. Cadioli, ). Sull’onda della partecipazione di massa alle battaglie politiche, il mercato delle opere di saggistica registra un grande aumento di lettori: soprattutto insegnanti, studenti, donne e operai coinvolti in vario modo nelle lotte. I maggiori editori di saggistica sono Feltrinelli, il Saggiatore, Editori Riuniti, Boringhieri, il Mulino, Laterza e soprattutto Einaudi, che già negli anni sessanta aveva varato nuove collane inerenti i grandi temi sociali e politici: ad esempio, “Il Nuovo Politecnico”, ideata da Giulio Bollati nel , che pubblica le opere dell’antipsichiatria, i testi del marxismo critico e della linguistica strutturale, i saggi del dissenso dell’Est e del movimento anticoloniale. Basti pensare che nel -, edito da Einaudi, L’uomo a una dimensione di Marcuse aveva venduto . copie: una cifra sbalorditiva per un libro di saggistica. Dopo il “biennio caldo”, tuttavia, mentre il pubblico interessato alla saggistica, benché assai più largo che in ogni altra epoca della recente storia culturale italiana, inizia a contrarsi nell’ordine delle decine di migliaia di lettori, sono viceversa centinaia di migliaia, e perfino milioni, i potenziali acquirenti di una narrativa “evasiva” e “consolatoria”. Analogamente, in campo cinematografico, i successi di Fellini, di Bertolucci e di Pasolini non sono numericamente comparabili all’enorme popolarità di James Bond o della commedia all’italiana che, negli anni settanta, è variamente incentrata su uno stereotipo “erotico” degradato assai eloquente: un popolare attore comico dialettale (come Lino Banfi, Pippo Franco o Lando Buzzanca) si presenta nei panni di un maschio premoderno, dialettale e ingenuo, tormentato da qualche disinvolta attricetta sexy da spiare dal buco della serratura, in un contesto istituzionale e autoritario parodizzato: famiglia, scuola, ospedale o caserma. In campo più strettamente letterario, l’editoria invoca la fine degli avanguardismi e delle sperimentazioni e, fin dal , gli uffici-stampa e le pagine letterarie dei quotidiani insistono sulla riscossa del romanzo “popolare”: l’Almanacco letterario Bompiani pubblica nel  il  . EDITORIA E CRITICA volume dedicato al “Ritorno dell’intreccio”, curato da Umberto Eco, che manifesta l’interesse semiologico e narratologico per i prodotti seriali e di largo consumo. L’industria culturale mostra insomma, nel corso del decennio, nelle politiche delle comunicazioni di massa, una nuova capacità di intercettare e moltiplicare quella che Pasolini definiva proprio in quello stesso periodo “omologazione” antropologica, incentrata sui nuovi oggetti della vita quotidiana e sull’uso eterodiretto del corpo e dei piaceri. La stampa periodica, ad esempio, esibisce in quegli anni per la prima volta le icone di una tolleranza disinvolta, condivisa dai nuovi ceti medi. Il caso più evidente è dato da “l’Espresso”, che dal  adotta il formato ridotto in carta patinata, con copertine costantemente provocanti e moltissima pubblicità di beni di lusso, passando in tal modo, in pochi mesi, dalle . alle . copie settimanali. Analogamente, nelle edicole, “Panorama” e le nuove riviste femminili come “Cosmopolitan” (lanciata nel  da Mondadori), propagano, in forme iconiche prima che verbali, la “rivoluzione sessuale” banalizzata e degradata come una forma divertente e pepata di intrattenimento. Gli italiani cominciano insomma a essere educati a una sessualità prevalentemente feticistica e voyeuristica, indispensabile al consumismo. È esemplare a questo proposito il vasto successo (in pochi mesi . copie) ottenuto da Garzanti con la pubblicazione nel  di Love Story di Erich Segal, che in America aveva venduto in un anno  milioni di copie, e la cui quarta di copertina italiana avvertì il lettore che «il romanzo ha il colore preciso della nostra epoca: una storia di tenerezza dove non si pronuncia mai una parola tenera, dove la crudezza del linguaggio non è che il pudore dei sentimenti». Sui maggiori quotidiani il libro venne propagandato per la prima volta con una massiccia campagna di marketing: «Garzanti presenta il romanzo test degli anni ’. Il libro più letto nel mondo». L’industria dolciaria Buitoni Perugina stipulò con la Garzanti un accordo per regalare il romanzo agli acquirenti dei famosi “Baci” e il libro, abbinato ai cioccolatini “sentimentali”, venne venduto nei bar, nelle pasticcerie, nei supermercati. Love Story insomma non è un’esperienza letteraria immessa sul mercato, è viceversa, senza mediazioni, una merce simbolica, confezionata come tale, capace di dosare sapientemente, nel campo erotico-sentimentale, gli ingredienti della novità e della tradizione e di fornire al cliente una rassicurante trasgressione (Cadioli, , pp. -). La sua trasformazione in merce di culto, inoltre, è ulteriormente potenziata dal film distribuito dalla Paramount: il vero “test degli anni settanta” è consistito insomma nel dispiegamento di fattori promozionali e dell’intreccio fra diversi media nel costruire il successo di un libro. Qualcosa di analogo, su scala ridotta, ac MODERNITÀ ITALIANA cadrà anche quando il declino della militanza politica e l’emersione del “privato” influenzarono i mutamenti della linea editoriale della Savelli: nel  Porci con le ali, un finto “diario politico-sessuale” di due adolescenti di sinistra, scritto da due autori trentenni provenienti da “Il pane e le rose”, Lidia Ravera e Marco Lombardo Radice, diverrà un inatteso successo di massa. Si tratta infatti, a ben guardare, di una love story all’italiana, che descrive le esperienze sessuali di due studenti in termini audaci ma servendosi anche dei tradizionali modelli narrativi della letteratura “rosa”, in una forma diaristica oscillante fra il parlato privato, il “sinistrese” e il lessico giovanile (come mostra l’esibita sovrabbondanza del famigerato riempitivo “cioè”). Se si prescinde da questi primi esordi dell’economia finzionale, capaci di prefigurare il destino del mercato librario nei due decenni successivi, il caso culturale ed editoriale più emblematico degli anni settanta è invece costituito, anche per la sua irripetibilità e atipicità, dall’uscita per Einaudi di La Storia () di Elsa Morante, sia per le modalità della campagna promozionale che per il dibattito critico scatenatosi dopo l’uscita del libro. La Morante costruisce un romanzo tradizionale, che ripresenta i moduli della narrativa ottocentesca, ed è disposta a sacrificare parte dei propri diritti d’autore per far uscire un libro di  pagine a sole . lire. Il romanzo venne pubblicato infatti, per volontà dell’autrice, in un’accessibile edizione popolare, nella collana “Gli Struzzi”. La funzione pedagogica dell’intellettuale, minacciata negli anni settanta, è in tal modo rilanciata con forza disperata da Elsa Morante non nelle forme politiche del manifesto ideologico ma in quelle artistiche dell’affabulazione: una vicenda ricca di personaggi e di destini, in cui si mescolano il romanzo storico e il romanzo-saggio, la meditazione morale e l’anarchismo utopico. In questo caso, il successo straordinario del romanzo (. copie vendute in poche settimane) è quindi affidato a una combinazione di fattori: al marketing editoriale si affianca infatti il dibattito critico, di eccezionale ampiezza. La campagna pubblicitaria del romanzo insistette soprattutto sulla leggibilità, sul ritorno del romanzo popolare, mentre la critica si divise sul “libro che vuol parlare a tutti” e ne fece un “caso” culturale. Se da un lato La Storia acquista in pochi giorni fama di estrema “accessibilità”, dall’altro viene discusso animatamente non solo sui grandi quotidiani ma anche sui giornali della nuova sinistra. Sulle pagine del “manifesto”, ad esempio, scoppiò una accesa polemica che coinvolse i grandi problemi teorici che avevano caratterizzato il dibattito politico-culturale degli anni cinquanta: la questione del realismo e, soprattutto, il rapporto tra ideologia e letteratura. Vi fu infatti chi accusò il libro di essere un’elegia lacrimevole e reazionaria e chi invece sa . EDITORIA E CRITICA lutò La Storia come un capolavoro che permetteva il ritorno sulla scena del grande romanzo . Al successo di La Storia, insomma, contribuì sia la mediazione editoriale che quella critica. L’intento della scrittrice-intellettuale, eticamente impegnata, di creare un libro ecumenico e pauperistico, la campagna di marketing, il dibattito critico, fecero sì che La Storia poté conquistare alla narrativa fasce nuove di lettori, comprese quelle politicizzate e inclini alla saggistica piuttosto che al romanzo. La funzione pedagogica della letteratura, del resto, era inscritta nel progetto testuale stesso: si tratta di un romanzo che intendeva risolvere in forma narrativa un tema-chiave della saggistica anni settanta: la vita degli ultimi contrapposta al potere mortifero della storia. GLI ANNI OTTANTA Gli anni ottanta sono stati descritti come il periodo in cui mutò brutalmente il paradigma culturale, in cui, cioè, l’edonismo e l’individualismo sostituirono l’impegno pubblico e la solidarietà. Su scala internazionale, sono gli anni in cui le politiche economiche dei governi del presidente statunitense Reagan e del primo ministro inglese signora Thatcher relegano in soffitta le teorie di Keynes e varano il neoliberismo. In Italia, alla critica del capitalismo subentrò, in ogni settore della società e in pochissimo tempo, una diffusa, euforica accettazione delle sue regole. Dopo gli “anni di piombo”, ogni opposizione condotta fuori dai canali istituzionali venne presentata dai media come pericolosa in sé, fonte di minacce per la democrazia: sensi di colpa, riflusso, demotivazione alla conflittualità precedono e accompagnano una diffusa, rinnovata passione per i consumi individuali. Le strutture editoriali della controcultura extraparlamentare crollarono: il giornale “Lotta continua”, ad esempio, chiuse i battenti nel , e i piccoli editori legati al movimento come Savelli, Bertani, Mazzotta, De Donato entrarono in crisi o cessarono le attività. Il marxismo, che aveva costituito una fonte di stimoli vitali anche per la cultura estranea alla sinistra, passò di colpo di moda e i nomi dei grandi saggisti critici come Lukács, Adorno, Marcuse, Althusser, Baran e Sweezy vennero dimenticati come desueti o disprezzati come “ideologici”. La casa editrice Adelphi, che secondo il suo consigliere delegato e presidente Roberto Calasso doveva esercitare una funzione anti-Einaudi, conquistò una posizione di prestigio pubblicando o riproponendo viceversa nella collana . Per l’intero dibattito cfr. C. Cecchi, C. Garboli, Fortuna critica, in E. Morante, Opere, vol. II, Mondadori, Milano , pp. -.  MODERNITÀ ITALIANA “Biblioteca filosofica” i libri di Emanuele Severino, di Heidegger, di Nietzsche e di Kojève, e i testi della cultura orientale, nonché molte nuove opere di narrativa straniera, fra cui L’insostenibile leggerezza dell’essere () di Milan Kundera, che in un anno vendette . copie: la casa editrice di Calasso non risentì della grave crisi del mercato editoriale dei primi anni ottanta anche per il suo approccio, ostile alle ideologie degli anni settanta e disposto ad intercettare una nuova domanda di consumi librari, antiprogettuale, esoterica, aperta al sacro. Le attrattive del consumismo e della mobilità individuale si estesero in questo decennio fino a includere tutta la società. I corrispondenti stranieri riferiscono della febbrile attività economica in Italia, dell’intraprendenza di finanzieri e manager, del “rampantismo” di nuove figure professionali, dell’aumento di iscrizioni alle business school come la Bocconi di Milano e, soprattutto, della crescita vertiginosa del numero di azionisti. I media svolsero un ruolo rilevantissimo nell’enfatizzare questo fenomeno presentandolo come una vera e propria rivoluzione antropologica: vi fu, ad esempio, una fioritura di periodici che offrivano ai nuovi ricchi o a coloro che avrebbero voluto diventarlo, istruzioni su come vestirsi, cosa mangiare e bere, che vacanze fare, che tipo di arredamento e di auto scegliere. Queste riviste, come “Class”, “Moda”, “Il Piacere”, “Capital”, “Max”, permeate da un’atmosfera edonistica, proposero in copertina i guru del nuovo italian style e le nuove merci status symbol della classe medio alta: Armani, Versace, Valentino, Trussardi. Ma l’elemento decisivo della mutazione culturale degli anni ottanta fu la crescita delle reti televisive private, liberalizzate nel . Già nel  oltre il % degli italiani possedeva un televisore e negli anni ottanta le conseguenze culturali dell’irruzione delle TV private furono incalcolabili: il cinema perse il ruolo centrale che aveva avuto nel sistema culturale a partire dal dopoguerra e il video casalingo superò di gran lunga per impatto e capillare diffusione qualunque altra forma d’intrattenimento inventariata dalla SIAE: teatro, discoteche, jukebox. Il dato macroscopico fu che la televisione divenne onnipresente e che gli italiani furono drammaticamente esposti alla pubblicità. Morto Carosello (l’esperienza pubblicitaria che dal  aveva coinvolto registi, attori, fumettisti di valore, con lunghe scenette narrate in oltre due minuti), cadute le restrizioni vigenti al tempo del monopolio RAI, con le TV private trionfa la forma dello spot: schegge di pochi secondi che non argomentano nulla ma propongono con un solo flash visivo un intero stile di comportamento. Nel , la quota di pubblicità trasmessa dalle televisioni private era di dieci volte superiore a quella della TV pubblica: in tal modo quotidianamente in Italia venivano inviati agli utenti circa . annunci pubblicitari (più che in tutti gli altri paesi europei messi insieme) (Forgacs, ,  . EDITORIA E CRITICA p. ). Furono le televisioni insomma a svolgere il ruolo dominante nel sistema culturale imponendo a un vastissimo pubblico, attraverso gli spot e i programmi, una nuova visione del mondo, sintetizzabile nel mito dei consumi e dell’arricchimento, nello slogan della “cultura d’impresa” e nel nuovo prestigio sociale della figura dell’“imprenditore”, che solo pochi anni prima veniva ancora chiamato polemicamente “padrone” e che ora veniva mediaticamente beatificato come una star. Del resto, i cambiamenti imponenti nel campo della comunicazione e le enormi risorse rese disponibili dall’aumento di capitali della borsa di Milano, a partire dal , resero possibile il passaggio del potere culturale direttamente nelle mani dell’élite economica. La cultura d’impresa divenne egemonica perché la FIAT, la Montedison e l’Olivetti s’impadronirono dei giornali e delle riviste più importanti e perché Silvio Berlusconi passò dall’edilizia all’industria della distribuzione e infine all’editoria e al settore delle TV private. A metà del decennio, la FIAT possiede “La Stampa”, il “Corriere della Sera”, “La Gazzetta dello Sport” e tutte le riviste della Rizzoli, Berlusconi è proprietario delle reti televisive della Fininvest, del “Giornale Nuovo” diretto da Montanelli e della rivista “Sorrisi e canzoni TV”, De Benedetti esercita un’influenza diretta sulla Mondadori e sul “Gruppo Editoriale L’Espresso-la Repubblica”, mentre il petroliere Attilio Monti possiede un impero editoriale con numerosi quotidiani in Toscana e in Emilia-Romagna. Il livello di commistione tra industria e comunicazione in Italia a partire dagli anni ottanta non ha eguali nei restanti paesi occidentali, dove vigono severe leggi antitrust. Le ragioni di questa corsa delle grandi imprese verso il controllo culturale ed editoriale sono molteplici, ma a dominare è soprattutto il fatto che i media e le attività ad essi collegate (marketing e pubbliche relazioni) divengono la merce finzionale di gran lunga più appetibile. Dal  Berlusconi accelerò la tendenza verso la concentrazione, acquistando Italia  da Rusconi e Rete  da Mondadori e imponendo il duopolio fra le tre reti RAI e i tre canali Fininvest, definitivamente sancito dalla legge Mammì del . Alla situazione precaria e incerta delle sue reti dal punto di vista legislativo, Berlusconi fece fronte stringendo una rete di alleanze politiche, che andavano dalla destra ai socialisti. Quando, nel  e nel , i magistrati ordinarono che le reti Fininvest venissero oscurate perché, infrangendo le regole, trasmettevano in tutto il territorio nazionale, il governo Craxi, con cui Berlusconi aveva un rapporto assai stretto, emanò all’istante dei decreti che permettevano la ripresa delle trasmissioni. Le reti Fininvest acquistarono a basso costo e in dosi massicce soprattutto prodotti seriali americani (Dallas, Dynasty, Falcon Crest), che  MODERNITÀ ITALIANA ebbero un forte richiamo in termini di audience e che rafforzarono l’idea americanizzante di una televisione commerciale che concepisce i propri utenti-spettatori non più come cittadini ma come consumatori e acquirenti. Nelle classi medio-basse, un’intera generazione di ragazzine italiane, nate in quel periodo, fu battezzata con i nomi delle protagoniste di questi serial piuttosto che coi tradizionali nomi dei santi e/o dei nonni: Sue Ellen, Samantha, Pamela, Jennifer. Berlusconi inoltre strappò alla RAI celebri intrattenitori italiani, tra cui il popolarissimo Mike Bongiorno, contribuendo a dare di sé e del suo impero un’immagine accattivante e familiare, potenziata dal suo ruolo di presidente del Milan, la squadra che vinse il campionato di calcio . In un simile contesto, si può ben capire come le sorti dell’editoria libraria negli anni ottanta siano ormai incluse in quelle dell’industria televisiva e come la letteratura di ricerca vada rapidamente marginalizzandosi. I confini tra case editrici, network televisivi, editori di periodici e di quotidiani sono destinati infatti a farsi sempre più labili e i prodotti culturali a rispondere a logiche e a modelli intercambiabili. In un primo momento, nei primissimi anni ottanta, l’editoria, incalzata dai nuovi processi di concentrazione, è attraversata da una crisi talmente profonda da essere letta da molti interpreti come la fine della civiltà del libro, travolta da quella delle immagini. Per alcune case editrici, come Einaudi (costretta nel  all’amministrazione controllata), Feltrinelli e Editori Riuniti, la crisi coincide con la fine della cultura critica, con il tramonto del progetto di cambiare in senso socialista, o anche solo liberalsocialista, la società e la cultura. Le tirature diminuiscono pericolosamente ma il numero dei titoli pubblicati aumenta. Parallelamente il mercato diviene oligopolistico, con contrazione del numero dei piccoli editori: nel  cinque aziende (Mondadori, Rizzoli, De Agostini, Garzanti) producevano il % del fatturato librario italiano. La ripresa, a partire dal , comporta un vero e proprio crollo della saggistica e la diffusione di nuovi generi creati appositamente per conquistare nuovi lettori nel segno dell’effimero: vendono milioni di copie il giallo e soprattutto il cosiddetto “rosa seriale”, con gli “Harmony” mondadoriani e i “Blue Moon” di Curcio. Si tratta di nuove modalità di produzione del racconto in larga parte collegate ai media audiovisivi (fotoromanzi e teleromanzi) e soprattutto agli ammassi segnici degli spot pubblicitari. La caratterizzazione ideologica e il pathos culturale dei marchi editoriali scompare a vantaggio della neutralità del fatturato, dell’“immagine” e dell’audience tipiche dell’universo mediatico. In tal modo, il gusto dell’immedesimazione e dell’intreccio e il ripudio della narrativa sperimentale, sbandierati negli anni settanta, si tradurranno in una rapida riduzione del letterario a pura fiction. Negli an . EDITORIA E CRITICA ni ottanta, i fenomeni del campo editoriale entro quelli più generali del campo socio-politico, attestano insomma come le mutazioni convulse degli anni settanta preludessero non tanto alla rivoluzione quanto all’ipercapitalismo nostrano. Non sfugge al processo di trivializzazione e mercificazione, anzi lo conferma e lo precede, il maggiore best seller italiano del decennio, destinato a un vertiginoso successo mondiale: Il nome della rosa () di Umberto Eco, che, con la sua indiscussa inclusione nel canone postmoderno, apre simbolicamente il decennio in questione (cfr. Ganeri, ). Nei primi cinque anni successivi alla pubblicazione, Il nome della rosa vendette in Italia .. copie, e conquistò il mercato statunitense raggiungendo i .. di copie: il best seller, tradotto in ventisette lingue, potenziato dal successo del film di Jean-Jacques Annaud uscito nel , divenne così un long seller, occupando le classifiche per molti anni e superando i dieci milioni di copie vendute in tutto il mondo. Quando, nell’ottobre del  la casa editrice Bompiani attiva la campagna per la promozione di questo romanzo, è significativo che la scelta dello slogan sia marcatamente antisaggistica: se l’autore, noto semiologo e già teorico del Gruppo , «avesse voluto sostenere una tesi, avrebbe scritto un saggio [...]. Se ha scritto un romanzo è perché ha scoperto, in età matura, che di ciò di cui non si può teorizzare, si deve narrare». A ben guardare, si tratta dell’esatto contrario dell’ibridazione fra saggio e narrazione che aveva caratterizzato il precedente successo di La Storia, romanzo emblematico degli anni settanta. Ora, dopo soli sei anni, qualcosa è cambiato in profondità: non basta più l’accessibilità del racconto, occorre porre una barriera insormontabile fra argomentazione e invenzione, ripudiare e caricaturizzare la saggistica, con le sue argomentazioni teoriche e i suoi progetti critici, per salvare viceversa il puro gioco indiziario, i generi seriali, l’intertestualità ludica. Il grande successo di un “libro fatto di libri”, che sa “fare il verso” ad altri testi e che esalta i piaceri della lettura e il gioco di riconoscimento accessibile a fasce diverse di lettori, prefigura in tal modo tutti i mutamenti dell’industria culturale e del senso comune nei decenni ottanta e novanta: l’impossibilità decretata di sostenere delle tesi, la fine delle ideologie, il trionfo dell’intrattenimento. L’autocoscienza del postmoderno, del resto, nasce in Italia proprio in questi anni: con la discussione sul «pensiero debole» di Vattimo, con la traduzione della Condition postmoderne di Lyotard, con la Biennale dell’Architettura intitolata da Portoghesi alla Presenza del passato, e con l’uscita delle Postille al Nome della rosa, dichiarazioni di poetica poste dall’autore in appendice all’edizione economica del romanzo. Il libro di Eco si pone, in sostanza, volutamente, come “palinsesto”, nel  MODERNITÀ ITALIANA quale trovano posto, come nelle trasmissioni televisive, i più diversi programmi destinati a fasce diverse di utenti da catturare con differenti richiami (Cadioli, , pp. -). E, del resto, lo stesso slogan accattivante “Cosa accadrà nel ?” e l’idea correlata di “medioevo prossimo venturo”, con cui il libro di Eco s’impose, sono inscindibili dal collasso delle categorie storiche, dall’affermazione dell’eterno presente tipica dell’ideologia del postmodernismo. Mentre i classici del romanzo storico, da Scott a Manzoni, erano sorretti da una concezione forte della storia, il genere neostorico di questo periodo, anche in sede internazionale (Ken Follet racconterà l’alto Medioevo e Colleen McCullough la Roma repubblicana) si appoggia a un immaginario mediale, in cui la storia diventa solo un surrogato della geografia, offrendo ai lettori un consumo metastorico “turistico” ed esotico, un’offerta di itinerari possibili. DAGLI ANNI NOVANTA A OGGI Gli anni ottanta finiscono con la caduta del muro di Berlino, con la dissoluzione dell’impero sovietico e con la fine della Guerra fredda; gli anni novanta sono inaugurati dalla guerra del Golfo e dalla guerra nei Balcani: fenomeni di segno opposto che attestano come il postmoderno si complichi nella globalizzazione. Gli emblemi della quale sono la diffusione di Internet (tra il  e il  il numero totale dei computer connessi in rete passa da un milione a duecento milioni e, nel , il motore di ricerca Yahoo! dichiarava di indicizzare oltre venti miliardi di pagine web) e l’avvio degli imponenti flussi migratori, la crisi degli Stati nazionali, l’indebolimento populistico delle democrazie, la nuova dimensione assunta dalle “operazioni di polizia internazionale”, con l’annessa minaccia terroristica culminata, nel , nell’attentato di New York. In Italia, sul piano editoriale, gli anni novanta si aprono con la lotta fra Berlusconi e il finanziere Carlo De Benedetti per il controllo della Mondadori. La posta in gioco non è, evidentemente, solo il controllo del marginale mercato librario ma del più ampio sistema integrato editoriaTV-quotidiani: nel , con la cessione di tutto il gruppo Mondadori alla Silvio Berlusconi Holding, dopo uno scontro con De Benedetti, che possedeva larghe quote della casa editrice, la catena editoriale mondadoriana si allarga ai canali televisivi. In tal modo, non è più un imprenditore librario a controllare un gruppo, ma un imprenditore del settore televisivo a entrare potentemente nell’editoria a stampa. Se la concentrazione editoriale comporta, nel campo della produzione, l’assoluta preminenza di pochi grandi gruppi (la FIAT che controlla  . EDITORIA E CRITICA Rizzoli, il “Corriere della Sera”, “La Stampa”, Fabbri; De Benedetti che controlla “l’Espresso”, “la Repubblica”, e fino al  Mondadori; Berlusconi che controlla “il Giornale”, Mondadori, la Elemond, Einaudi), l’integrazione del libro nel sistema multimediale è ben apprezzabile anche sul versante della distribuzione. A partire dagli anni novanta i libri vengono venduti, a prezzi scontati, attraverso il nuovo canale della “grande distribuzione”, ossia nei centri commerciali, negli aeroporti e negli autogrill. Questi punti vendita offrono solo titoli selezionati secondo una previsione di vendita certa: riducono la loro offerta all’ultimo best seller, alla manualistica della vita quotidiana (ricettari, giardinaggio, sentimenti, viaggi, fai da te), all’editoria parascolastica (atlanti, dizionari), ai libri per l’infanzia. Questo canale distributivo è in grado, insomma, di valutare in tempo reale la vendibilità dei titoli, preselezionando i prodotti e proponendo degli sconti per attirare anche i non lettori a passeggio negli ipermercati. Un altro polo della catena distributiva, l’edicola, ben manifesta i mutamenti intervenuti nel mercato editoriale italiano. Da pigro luogo di vendita dei soli tradizionali quotidiani, settimanali e mensili, l’edicola diviene di colpo negli anni novanta un caos di prodotti diversi affastellati alla rinfusa. Già alla fine degli anni ottanta proliferano in edicola i libri collana e i prodotti di genere (giallo, rosa, porno). Le grandi testate cartacee divengono veicoli di molteplici allegati eterogenei (libri, film, collane musicali a puntate, guide turistiche o web), o di brand extension di riviste e quotidiani, vale a dire di inserti patinati per soddisfare interessi economici, gastronomici, naturalistici, nonché di gadget di vario genere. Dominano, nel periodo considerato, soprattutto gli allegati su supporto magnetico e poi elettronico che affiancano il libro o la rivista, prima audio e video cassette poi CD ROM e DVD. Osservando attentamente un’edicola si ha in tal modo la netta sensazione che la carta stampata si stia progressivamente trasformando in allegato e l’allegato multimediale e digitale in merce principale . Nell’età del postmoderno e della globalizzazione, insomma, l’industria del tempo libero si annette il libro come un suo settore marginale, vincolandolo alle dinamiche dell’intrattenimento (cfr. Turchetta, ). Nel pulviscolo dell’intrattenimento, gli scrittori devono farsi notare in fretta, promettere agli editori di poter garantire un immediato successo di mercato. Il grande pubblico, infatti, si lascia sedurre da al. Cfr. la sezione “comprati in edicola” di “Tirature”, l’osservatorio annuale su opere, autori, editori e lettori diretto dal  da Vittorio Spinazzola, coordinato da Giovanna Rosa, Mario Barenghi, Gianni Turchetta, Alberto Cadioli e composto da giovani specialisti.  MODERNITÀ ITALIANA cuni opinion makers capaci, in forza del loro potere mediatico, di far vendere migliaia di copie: basta apparire per pochi minuti a un talk show come Maurizio Costanzo Show per conquistare i lettori. La preistoria di questo fenomeno è collocabile negli anni ottanta, quando Roberto D’Agostino, critico di costume nella trasmissione televisiva condotta da Renzo Arbore Quelli della notte, ripetendo ossessivamente il titolo del romanzo di Kundera, decretò il successo di L’insostenibile leggerezza dell’essere e della casa editrice Adelphi. Gli scrittori di successo devono proporsi dunque come star mediatiche, e i loro libri come immediati veicoli di un’immagine seducente e appetibile. Si spiega anche così, ad esempio, il proliferare del giallo, genere nel quale non mancano negli anni novanta esordienti di buon livello come Carlo Lucarelli, Cesare De Marchi e Andrea Camilleri ma che, nel complesso, si caratterizza per l’“effetto doping”, ossia per le fortissime dosi di intensità emotiva necessarie al rapido consumo. Noir e thriller infatti, dal  al  tra i generi più letti e venduti, conquistano il lettore agendo come gli spot, vale a dire secondo i principi dell’ipersollecitazione. All’ideologia dello spettacolo che tende sempre all’estremo, rincorrendo la saturazione, ai principi cioè della serialità isterica del consumo tradotta in serialità violenta, sembra rispondere, oltre al noir e al thriller, anche la cosiddetta narrativa “cannibale”, splatter e pulp degli anni novanta (La Porta, ), spesso riconducibile alla rappresentazione estrema del ripugnante e del sanguinolento, con intenti insieme trasgressivi e parodistici. Lo scrittore, l’intellettuale umanista e il critico della cultura lasciano il posto all’intrattenitore: negli anni novanta, Aldo Busi, Vittorio Sgarbi e Giuliano Ferrara inaugurano in televisione una comunicazione spettacolare e invettivale, interpretando sé stessi in modo esibizionistico. Anche gli autori, per essere letti, devono necessariamente agire secondo queste stesse modalità, e trasformarsi a loro volta in icone pubbliche. In questa direzione si muove, ad esempio, Alessandro Baricco, studioso di musica e star librario-televisiva, creatore nel  della scuola di scrittura Holden di Torino, della casa editrice Fandango e «sapiente amministratore della sua fortuna e del suo culto, attraverso mass media tradizionali e on line» (Ferretti, , p. ): il suo Seta, edito da Rizzoli e tradotto in oltre trenta paesi, vende nel  ben . copie. Divenuto periferia inessenziale del campo mediatico e spettacolare, il campo letterario ed editoriale subisce tra gli anni novanta e il decennio successivo un ridimensionamento e una semplificazione imponenti: a farne le spese è soprattutto il sistema dei generi. S’impongono infatti in questo periodo alcuni transgeneri, più simili a dei container merceologici che a delle categorie culturali: il best seller, la “giovane novità”, la  . EDITORIA E CRITICA fiction, la non fiction. È grazie a tali “caselle” che il libro si autopubblicizza in quanto merce, comunica un messaggio preventivo a un “destinatario modello” in grado di decodificarlo . I più onnicomprensivi tra i contenitori nell’epoca della subalternità del libro all’intrattenimento sono la “giovane novità” e il best seller. Il puro bisogno di novità (e non più l’idea di una letteratura nuova, come ricerca in progress, dominante dai Gettoni di Vittorini al progetto Under  di Tondelli) è alla base della categoria dell’esordiente o del “giovane scrittore”: in questi anni i grandi editori allestiscono freneticamente apposite collane, come ad esempio Einaudi “Stile libero”, per offrire in gran numero esordienti, spesso effimeri e “formattati”. In direzione degli esordienti si rivolgono, oltre alle specifiche collane dell’editoria maggiore, anche piccoli editori come Transeuropa, Marcos y Marcos, Theoria, Baldini & Castoldi, Sellerio. In alcuni casi, come Andrea Camilleri per Sellerio o Susanna Tamaro per Baldini & Castoldi , il grande successo di un solo autore esordiente garantisce il decollo della casa editrice dalla piccola alla media editoria. D’altro canto, il best seller diviene un transgenere che ingloba la categoria merceologica di novità e la affianca a quella del libro “già venduto” prima ancora di invadere il mercato editoriale: gli ingredienti che la formula best seller garantisce all’utente fin dal paratesto sono la sicura, accattivante consumabilità delle storie raccontate, nella fiction; la capacità cordiale, morbida e seduttiva di passare tra le diverse discipline senza suscitare imbarazzo o senso di inferiorità, nella non fiction (Rollo, ). Il best seller vende insomma la letteratura come entertainment secondo modelli mutuati da pubblicità, cinema e musica pop-rock: sono così costruiti, in primo luogo, i libri di più vasto successo mondiale di autori come King, Crichton o Grisham. . Cfr. Floch () e in particolare il capitolo VII, L’immagine, per turbare i letterati. I rapporti tra editore e lettore in dieci anni di comunicazione PUF, pp. -. . Andrea Camilleri è un regista e sceneggiatore televisivo e teatrale il cui tardivo successo è dovuto all’invenzione del commissario Montalbano: potenziato dalle versioni televisive, ogni romanzo di Camilleri è un best seller (complessivamente, dal  al ,  milioni di copie vendute). Grazie a questo scrittore, la casa editrice Sellerio passa dai  miliardi di lire di fatturato del  ai  miliardi del . Susanna Tamaro, dopo aver esordito presso Marsilio nel , passa a Baldini & Castoldi ed esplode nel  con Va’ dove ti porta il cuore, che vende solo in Italia  milioni di copie in cinque anni e ottiene un vastissimo successo internazionale con circa  milioni di copie vendute. Il libro dispensa, in forma epistolare, certezze consolatorie e aforismi pacificanti e garantisce l’identificazione del lettore con la destinataria delle lettere: il testamento morale dell’ultraottantenne alla giovane nipote intercetta una diffusa domanda di senso perché mette in scena, in forme semplici, il tema antropologico dell’eredità fra generazioni.  MODERNITÀ ITALIANA Emblema librario della globalizzazione, in campo editoriale, è in tal modo il global-novel transnazionale (Calabrese, ): alla fine degli anni novanta, dei . volumi che l’editoria italiana produce annualmente, . sono titoli tradotti, e nella maggior parte dall’inglese. Fenomeno americano, il best seller è sempre più legato al mercato delle traduzioni e ha scalzato anche la nozione di genere: un autore, prima che di romanzi thriller o di detective story, è un autore di best seller, un’icona merceologica collegata alla nozione di novità e di consenso di massa che rassicura preventivamente l’utente sull’estrema consumabilità delle storie raccontate. Al medesimo principio di packaging editoriale risponde la tendenza, dominante dagli anni novanta nel linguaggio della produzione libraria, a ripartire tutte le opere in due super-generi: fiction e non fiction. L’industria internazionale del libro smista i prodotti in questi due “grandi scatoloni”: si tratta di un’operazione semplificante ma non innocente (di lontana origine strutturalista) che estirpa dal concetto di letteratura l’ibridazione tra immaginazione e reportage, la confusione tra invenzione e argomentazione, l’andirivieni tra visionarietà e autocoscienza, vale a dire gli elementi costitutivi sia del romanzo che della lirica moderna. La letteratura è inclusa in tal modo nell’onnicomprensivo campo della fiction, così vasto da comprendere nientemeno che i maggiori processi economici in atto: con il termine “fiction economy” si intende infatti, a fine secolo, l’allargamento della legge del valore a tutti gli aspetti del simbolico e dell’immaginario (Carmagnola, ). A partire dagli anni novanta, tuttavia, alcuni grandi scrittori, su scala internazionale, tendono a porsi controcorrente rispetto al sistema derealizzante della fiction. L’attenzione alla contemporaneità di autori come Saramago, Philip Roth, Yehoshua, Oz, Coetzee, Houellebecq pone al centro l’esperienza di personaggi credibili, ritratti nella loro complessità psicologica e nel bel mezzo di rapporti e conflitti sociali e morali (Donnarumma, ). Il fenomeno è ancora in corso ma, secondo alcuni critici, anche in Italia stiamo probabilmente assistendo a uno spostamento rispetto al campo figurale del postmoderno (Simonetti, ). La costante che caratterizza questo recente fenomeno è la caduta dell’opposizione tra fiction e non fiction: il romanzo costeggia il reportage, tra documentazione e denuncia, e la scrittura si presenta come testimonianza veridica, recuperando i modi dell’autobiografia, come accade in Austerlitz () dello scrittore tedesco Winfried Georg Sebald. Campo del sangue () di Eraldo Affinati, ad esempio, è il diario di un viaggio verso Auschwitz in cui si mescolano racconto, saggismo e testimonianza. La trilogia composta da Scuola di nudo (), Un dolore normale () e Troppi paradisi () di Walter Siti mescola finta autobiografia  . EDITORIA E CRITICA e saggismo, includendo, nel terzo libro, alcune acute riflessioni sui reality e sui format televisivi come realtà impoverita, ritoccata e riadattata secondo le esigenze degli sponsor. Una sorta di “ritorno alla realtà”  sembra interessare sia scrittori precedentemente rubricati nell’area pulp e “cannibale” che autori in precedenza postmoderni, giovanilistici, “cremosi” e rarefatti: Mi chiamo Roberta, ho  anni, guadagno  euro al mese () di Aldo Nove unisce interviste ai lavoratori precari a una riflessione paratattica; Tiziano Scarpa nel diario-romanzo Kamikaze d’Occidente () dichiara: «È iniziato un decennio nuovo. Ci sarà una diminuzione della fiction, cadrà il velo della teleipnosi. Dopo la sbornia di narrativa, invenzione, fantasia, rappresentazione, è tornata la necessità della presenza». A testimoniare la svolta in corso è soprattutto il best seller di Roberto Saviano Gomorra (), l’evento letterario più clamoroso dell’ultimo decennio sia per il successo di vendite, potenziato nel  dall’uscita del film di Garrone (oltre  milione e . copie vendute), sia per l’impatto sociale (il libro svela lo scandalo dell’imprenditorialità criminale e l’autore, condannato a morte dalla camorra, vive sotto scorta). Il libro, infatti, suscita alla sua uscita una contesa categoriale perché si sbarazza della gabbia della fiction fondendo invenzione, testimonianza e inchiesta. Non a caso, Gomorra è stato accostato a Se questo è un uomo di Primo Levi e a Lettere luterane di Pasolini (cfr. Santoro, , pp. -; Palumbo Mosca, ; Cortellessa, ): il Pasolini “corsaro”, del resto, è per Saviano il modello principale cui esplicitamente rifarsi. Ma si pongono su questa lunghezza d’onda anche altri libri di diversissimo registro stilistico, da Cosa cambia () di Roberto Ferrucci a Il tempo materiale () di Giorgio Vasta. Soprattutto a partire dagli “anni Zero”, insomma, nuove scritture in situazione pongono domande nuove all’editoria e ai lettori, e sembrano esigere che l’editoria torni ad essere espressione di un’idea di cultura oltre che rappresentazione di una scelta di mercato. Parafrasando il titolo di un’inchiesta pubblicata dalla Fondazione Agnelli nel  (Silva, ), circola con insistenza la richiesta che il libro sappia porsi ancora come bene culturale e non solo come icona economica. Un’attestazione di queste nuove linee di tensione e di resistenza viene a esempio dall’inchiesta pubblicata nell’ottobre del  su “Il Verri” (n. , ottobre ) in relazione al tema della Bibliodiversità, con interventi di Andrea Cortellessa, Niva Lorenzini, Gabriele Frasca, Milli Graffi, Maria Antonietta Grignani. In questa iniziativa viene messa a frutto l’acuminata analisi . Sul “ritorno alla realtà” cfr. il n.  () della rivista “Allegoria” e la discussione polemica accesasi nel novembre  sulla rivista on line “Nazione indiana” tra Andrea Cortellessa e Raffaele Donnarumma.  MODERNITÀ ITALIANA di Schiffrin () per criticare le conseguenze del passaggio, nell’editoria italiana, dall’“imprenditorialità” alla “managerialità”: in sostanza, l’impoverimento, l’appiattimento e la “desertificazione” culturale connesse alla metafora della “monocoltura”. Più in generale, negli “anni Zero”, la situazione editoriale è resa più fluida dalla rete e, soprattutto, dal fenomeno più diffuso e innovativo del web .: quello dei blog che si occupano di libri, un vasto panorama in continua crescita che muta le modalità stesse di trasmissione delle informazioni, smussando le gerarchie e le barriere fra siti ufficiali di case editrici o di autori, siti di gruppi letterari e di appassionati lettori o di professionisti del libro (Ferretti, Guerriero, , pp. -). È assai significativa, ad esempio, nel  la nascita di “Slowbookfarm”, un bookshop in rete nato con lo scopo di rilanciare la piccola e media editoria di qualità e di indicare i titoli “da salvare”. Alberto Casadei, Andrea Cortellessa e Guido Mazzoni, per ovviare alla strage dei libri meritevoli, hanno in quest’ambito inventato le “classifiche di qualità” in collaborazione con la rassegna “Pordenonelegge”: un elenco di titoli votati da una speciale giuria, aggiornato ogni due mesi sul sito. Nel  il numero dei giurati (scrittori, critici, artisti, redattori editoriali) è giunto a , i libri sono stati riuniti in classifiche (“Narrativa”, “Poesia”, “Saggi”, “Altre scritture”) che riabilitano la suddivisione in generi anziché l’omologazione in container mercantili, e gli autori selezionati possono far sentire la loro voce in dialogo con i critici sulla rivista web “Stephen Dedalus”. Forse anche in Italia, paese bloccato in una logica vetero-commerciale, con le televisioni che riducono a offerta pubblicitario-finzionale ogni aspetto della vita associata, all’assunto ideologico secondo il quale la comunicazione mediatica avrebbe ormai creato «un mondo privo di referenzialità, ma idoneo ad appagare desideri indotti, e quindi a smorzare le componenti utopiche», si può opporre la constatazione che, dalla seconda metà degli anni novanta in poi, anche grazie alla rete, in molti scrittori e nella coscienza comune di un pubblico non ristretto torna a farsi strada l’idea della scrittura come stile, e al contempo come responsabilità e come demistificazione (cfr. Casadei, , p. ). Critica GLI ANNI SETTANTA Il critico letterario emblema della prima metà del decennio settanta è anche uno scrittore, un poeta, un saggista e un regista cinematografico: Pier Paolo Pasolini.  . EDITORIA E CRITICA La stessa biografia intellettuale pasoliniana attesta esemplarmente la presenza di una svolta all’altezza dei settanta: la capacità di agire sull’intera gamma della comunicazione culturale è una conquista tardiva della produzione pasoliniana, conseguente alle modificazioni impetuose del panorama sociale. Fino agli anni sessanta, la scrittura saggistica di Pasolini è infatti ancora critica di soli testi letterari mentre solo negli anni settanta diviene di colpo globale: sulle pagine “corsare” del “Corriere della Sera” la sua critica stilistica, appresa da Gianfranco Contini, diventa ora critica dell’intera società. L’aspra polemica contro il “nuovo fascismo” consumistico e contro il “genocidio” culturale delle forme di vita umana premoderne inizia ad avvalersi di una serie di concetti-bersaglio, evidenziati dalla lettera maiuscola (il Potere, il Palazzo, l’Omologazione). Fra questi concetti trova spazio anche la Letteratura: ad esempio, in un articolo del  dicembre  intitolato I giovani che scrivono, uscito sul settimanale “Il Tempo”, Pasolini traccia un quadro assai fosco della nuova situazione della critica militante: È questo Potere che, in realtà, non sa più cosa farsene della Letteratura. [...] Ecco che i nostri critici, ancora burbanzosi per i loro trascorsi neo-avanguardistici e sessantotteschi, sono nelle sue mani come burattini, senza nemmeno un po’ di dignità. Le terze pagine di tutti i giornali sono il trionfo del qualunquismo: i libri di cui si parla sono scelti casualmente – come appunto dei prodotti – un po’ secondo le regole del lancio industriale, un po’ secondo le regole del sottogoverno. [...] E ciò non accade solo nei critici giovani o di mezza età, ma anche negli anziani e nei vecchi (Pasolini, , pp. -). Dall’articolo sulla critica risulta, con eccezionale trasparenza, come sul dibattito letterario, alla fine del decennio sessanta, gravino due eredità piuttosto pesanti: la contestazione della neoavanguardia sul terreno specifico dell’innovazione formale e il rifiuto politico-ideologico della letteratura propagandato dai movimenti del Sessantotto. Ma traspare anche, con chiarezza, l’angoscia davanti alla crisi di ogni progetto umanistico, compreso quello stilcritico e neosperimentale propugnato negli anni cinquanta dalla rivista pasoliniana “Officina”, per l’incalzare repentino della modernizzazione. Questa perentoria negazione delle possibilità di sopravvivenza della critica, intesa come mediazione culturale e impegno civile, nelle condizioni culturali di un’Italia mercificata e imbarbarita dalla “mutazione”, è amplificata a dismisura dalla fine cruenta a cui andò incontro, meno di due anni dopo, la voce scomoda ed eretica che la proclamava: dall’assassinio, cioè, di Pasolini, avvenuto il  novembre . Per quanto riguarda, tuttavia, questo specifico aspetto del pensiero dell’ultimo Pasolini, ossia la dichiarata subalternità del giudizio critico  MODERNITÀ ITALIANA all’industria culturale, occorre considerare che da oltre un decennio era uscito Astuti come colombe () di Franco Fortini, il saggio che, intervenendo nel dibattito su industria e letteratura lanciato da Elio Vittorini, recava precocemente l’avvertimento che il mercato aveva ormai assunto in sé, in maniera diretta, i compiti in precedenza affidati alla mediazione intellettuale (cfr. Leonelli, , pp. -): Basta confrontare quello di oggi col mondo letterario o semplicemente colto, di cinquant’anni fa. Cinema, radio TV, grande editoria periodica, uffici stampa e centri studi delle industrie: lo scrittore non dipende più oggi, insegnante o funzionario, dallo Stato come rappresentante della collettività, che interveniva con la cattedra, l’incarico, l’erogazione; né dal reddito agrario, col suo carattere di aristocratica eternità; e neppure dalla lotta pubblicistica delle militanze politiche: ma direttamente dall’industria culturale privata e di Stato (Fortini, , p. ). Nello stesso saggio, Fortini sentì la necessità di criticare con acume ironico la specializzazione linguistica della teoria letteraria di cui, nel , non si avvertivano che le prime deboli avvisaglie: Che la letteratura debba proporsi come discorso universale, quindi umanistico, è sogno del passato pre-elettronico. La letteratura si è fatta maggiorenne, accetta senza strilli di ribellione le strutture organizzative nelle quali la colloca l’occidentale società contemporanea [...]. Nel senso rigoroso del termine, sarà un capitolo della semantica e della linguistica (Fortini, , pp. -). Fortini, insomma, nel , guardava assai avanti. Negli anni settanta, nel circoscritto territorio della critica letteraria italiana, gli indirizzi tradizionali, di tipo storicistico (secondo il grande modello della Storia di De Sanctis) o di tipo stilistico (affermatosi negli anni cinquanta in seguito alla pubblicazione nel  di Critica stilistica e storia della lingua di Spitzer e, nel , di Mimesis di Auerbach), furono affiancati e poi travolti dai “nuovi metodi” dello strutturalismo e delle “scienze umane” (sociologia, antropologia, psicoanalisi). In generale, in questo periodo domina nella critica una forte volontà di rinnovamento e di aggiornamento, già preannunciata negli anni sessanta dalla neoavanguardia. Il Gruppo  si era fatto spazio, nell’editoria, nel giornalismo e nel sistema radiotelevisivo, accumulando un capitale simbolico fondato sulla denigrazione, senza esclusione di colpi, del “naturalismo”, del neorealismo, dell’idealismo crociano, dello storicismo, accomunati, nella condanna, dalla sordità e chiusura a tutte le “novità” d’oltralpe: il romanzo del Novecento, la fenomenologia, la linguistica, e, a ben guardare, soprattutto, dall’incompatibilità rispetto al nascente settore dell’Information and Communication Technologies, vero interlocutore dei neoavanguardisti. Gli adepti  . EDITORIA E CRITICA del Gruppo  (Arbasino, Porta, Barilli, Eco, Giuliani, Guglielmi, Sanguineti), insomma, avevano legittimato sé stessi attraverso un’opera di semplificazione binaria del campo letterario: cercando cioè di scalzare l’ordine intellettuale precedente, riducendo a caricatura ideologica e a vecchiume le parole naturalismo, impegno e realismo . Quando, alla fine del decennio sessanta, a opera di critici e filologi come Cesare Segre, D’Arco Silvio Avalle, Maria Corti, Dante Isella si iniziano a elencare i metodi attuali della critica in Italia (Avalle, ; Corti, Segre, ), si tende implicitamente ad assumere un’assiologia vecchio vs nuovo per certi versi analoga a quella già diffusa dalla neoavanguardia, incentrata sull’ambizioso imperativo dello svecchiamento metodologico. A dire il vero, il migliore strutturalismo italiano s’innestò sul precedente filone della stilistica, della filologia e della critica delle varianti di Gianfranco Contini e il gruppo della rivista “Strumenti critici” produsse le sue raffinate indagini coniugando, a metà del decennio settanta, storia e filologia, semiotica e cultura e importando gli studi di Jurij M. Lotman e di Michail Bachtin (Segre, ). D’altro canto, l’esito più alto dell’esperienza strutturalista in Italia è dato dall’originale rilievo che la significatività storica, vista come ritorno di costanti e intreccio di varianti tematiche, assume nei lavori di Francesco Orlando, in rapporto alla densità figurale dei testi e grazie all’assunzione di una prospettiva freudiana (Orlando, , ): un esito destinato a durare ben oltre il perimetro degli anni settanta e oltre il tramonto della “stagione d’oro” della teoria. Il nucleo trasmissibile e originale della critica di Orlando, infatti, è evidente sia in Illuminismo e retorica freudiana (), che rilegge la storia della cultura letteraria europea alla luce delle alterne fortune di due antitetiche figure retoriche, la metafora e l’ironia, che in Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura (), concepito anch’esso negli anni settanta, ma che uscì negli anni novanta, quando storia e senso erano divenute le «due grandi dimensioni [...] sotto processo o fuori moda» (Orlando, , p. ). I tratti originali del “metodo” di Orlando trascendono, dunque, le mode: per l’amplissimo arco cronologico considerato, per la possibilità di storicizzare una costante di lunga durata e, dunque, per la strenua fiducia nel valore di verità della letteratura. Negli anni settanta, tuttavia, per una parte considerevole della critica italiana, il “significante” o l’“Altro” sono valutabili solo in sé, nella loro autonomia strutturale (cfr. Beccaria, ), e dunque scomponibili in . Ad esempio, Renato Barilli ha assimilato in quegli anni il tragitto dell’ultimo Vittorini interpretandolo come un superamento della “barriera del naturalismo”, e ha salutato l’ospitalità data dalla rivista “Il Menabò” al Gruppo  come una “apertura a sinistra” della rivista einaudiana (Barilli, ). Cfr. Sisto ().  MODERNITÀ ITALIANA polarità semiche elementari, costruite per opposizione, con importazione, nel linguaggio critico, dei metodi della statistica e della matematica e con rimozione dei dati storici. La critica italiana negli anni settanta, incentrata sul “Testo”, iniziò a esibire in tal modo una terminologia specialistica, desunta dalle varie forme dello strutturalismo parigino: da quello antropologico di Lévi-Strauss a quello psicoanalitico di Lacan, da quello marxistico di Althusser a quello linguistico-letterario di Barthes, Todorov e Kristeva. L’ambizione di dare rigore e unità d’intenti alle “scienze umane” e di identificare, su base linguistica, i rapporti fra tutti i fenomeni culturali si coniugò con l’inquietudine politica diffusa nei dintorni del Sessantotto: il primo Roland Barthes, con le sue Mythologies (), aveva del resto dimostrato come si potessero decodificare con strumenti semiologici tutti i fenomeni della cultura di massa (dalla pubblicità agli oggetti di consumo) e, nel fuoco della contestazione, il gruppo della rivista francese “Tel Quel” aveva poi contaminato, con un atteggiamento a metà strada tra l’attacco militare e la subalternità affascinata, psicoanalisi, semiologia e marxismo con i più svariati aspetti della comunicazione culturale. Nel corso del decennio settanta, insomma, la critica cerca di ottenere una sua legittimazione sia dalle istituzioni culturali sempre più specializzate che dai movimenti di contestazione: dotandosi da un lato del rigore metodologico della semiologia, dall’altro assumendo un orizzonte di lettura dei fenomeni letterari in larga parte desunto dal lessico del marxismo critico. Quest’ultimo, vitale negli anni a cavallo della contestazione, aveva avuto in Scrittori e popolo () di Alberto Asor Rosa un suo importante manifesto: un violento atto d’accusa contro tutta la letteratura italiana contemporanea (colpevole di populismo piccolo-borghese) e, al contempo, un congedo funebre dall’intera letteratura grande-borghese europea (il decadentismo come specchio della crisi della borghesia nell’epoca delle rivoluzioni operaie). La critica marxista sessantottesca segnò, insomma, nella mentalità dei militanti di sinistra, il passaggio dalla storia della letteratura alla critica alla letteratura, condotta in nome della classe rivoluzionaria e dello smascheramento dell’ideologia. L’eredità del Gruppo , la koiné politica successiva al biennio caldo - e la fortuna dello strutturalismo sono dunque i tre fatti che in campo critico letterario determinano, a metà degli anni settanta, la prevalenza organizzativa delle scuole e delle poetiche, la saturazione teorico-ideologica e la rarefatta specializzazione. La critica letteraria, in questo periodo, può ancora convertire la storia della letteratura in storia dei movimenti intellettuali, secondo l’impianto illustre dei Quaderni gramsciani (Luperini, ), può allestire operazioni storiografiche fortemente “di tendenza” o “fiancheggiatrici”, in cui perfino l’avanguardia si cristallizza in un canone (da Lucini, ai futuristi fino ai “no . EDITORIA E CRITICA vissimi”), come accade con l’antologia di Edoardo Sanguineti Poesia del Novecento (), e al contempo può insistere, secondo le suggestioni del New Criticism statunitense, sulla specificità e sull’assoluta autonomia dei sistemi letterari (Pagnini, ). Non bisogna dimenticare tuttavia che, in questi stessi anni, scrivono anche molti critici-scrittori (come Zanzotto, Fortini, Pasolini, Calvino) e critici tout court (come Garboli, Baldacci, Cases, Mengaldo) influenzati solo parzialmente dal nuovo clima culturale (cfr. Leonelli, ; Mengaldo, ). Dallo stile di questi critici (pur con diversissimi dosaggi di saggismo, storia della lingua, filologia e filosofia) si può apprezzare come la critica letteraria possa ancora, a quest’altezza, esser distinta dalla “scienza della letteratura”. È ciò che Fortini probabilmente auspicava quando affermava, proprio all’inizio degli anni settanta, che il critico, distinto dallo specialista, è colui che parla dell’opera confrontando il messaggio letterario con tutti gli altri messaggi che lo attraversano. L’attività di mediazione del critico non si colloca infatti solo fra autore e lettore ma anche fra l’opera e quel che l’opera non è: lo scopo della critica consiste «nell’implicazione di vari ordini di conoscenze in occasione e a proposito della conoscenza di un oggetto letterario» (Fortini, , p. ). Il critico letterario potrebbe essere colui che parla ad altri (non in quanto specialisti di alcuna specialità né in quanto definiti da una funzione ma in quanto raggruppati, o in conflitto, per situazione di cultura, ideologia, classe) e pone l’opera letteraria ed i suoi significati in rapporto con tutto quel che egli sa del pensiero, delle ideologie, delle credenze, della società: sapere nel senso di sapienza e non solo in quello delle scienze positive (ibid.). Il vero problema, tuttavia, dopo il decennio settanta, è dato soprattutto dalla sopravvivenza dei destinatari del discorso critico: nel corso degli ottanta, tenderà a venir meno progressivamente un qualunque pubblico della critica, tacerà il conflitto delle poetiche e dei metodi, spariranno le riviste di critica dagli scaffali delle librerie e l’informazione libraria sarà gestita sempre più direttamente dall’editoria o «da gruppi di pressione prodotti occasionalmente dalla convergenza di interessi immediati o dalla solidarietà generazionale» (Luperini, , p. ). GLI ANNI OTTANTA Nel marzo  Italo Calvino, nel riproporre i propri saggi maggiori scritti dagli anni cinquanta in poi sul tema dei rapporti tra letteratura e società, fece ricorso al titolo di Una pietra sopra (), esibendo senza equivoci la necessità di una rimozione:  MODERNITÀ ITALIANA L’ambizione giovanile da cui ho preso le mosse è stata quella del progetto di costruzione d’una nuova letteratura che a sua volta servisse alla costruzione d’una nuova società. Quali correzioni e trasformazioni abbiano subito queste attese verrà fuori dalla successione dei testi qui raccolti. Certo il mondo che ho oggi sotto gli occhi non potrebbe essere più opposto all’immagine che quelle buone intenzioni costruttive proiettavano sul futuro. La società si manifesta come collasso, come frana, come cancrena (o, nelle sue apparenze meno catastrofiche, come vita alla giornata); e la letteratura sopravvive dispersa nelle crepe e nelle sconnessure, come coscienza che nessun crollo sarà tanto definitivo da escludere altri crolli (Calvino, , p. VII). Quando, alla fine degli anni settanta, cominciò a esser chiaro che la rivoluzione non ci sarebbe stata e che la letteratura più che “morire” nei conflitti sociali si sarebbe rapidamente “espansa” nell’universo audiovisivo, ai critici variamente ispirati al marxismo e/o allo strutturalismo non rimase che ridurre la loro azione allo spazio sociologico della lettura, alla ricognizione cognitiva delle strutture testuali e ideologiche conformi alle comunicazioni di massa e al mercato: in questa linea si muovono, ad esempio, sia l’approccio semiotico di Umberto Eco a Fleming, Steve Canyon e Sue (Eco, ) che gli studi sul “mercato delle lettere” e sui rapporti fra autore e pubblico di Gian Carlo Ferretti e di Vittorio Spinazzola (Ferretti, ; Spinazzola, ). Si tratta di studi di grande valore, capaci di far luce in modo assai efficace sui mutamenti del “campo” letterario. L’interlocutore ideale di questo tipo di critica è tuttavia un esperto in comunicazioni, unico “intellettuale” legittimato a operare in una società destinata a funzionare secondo il meccanismo dell’Auditel, secondo cui il criterio di valore di tutte le merci culturali è lo stesso di quello vigente per valutare un programma televisivo: non tanto dunque un prodotto fabbricato per esser venduto al pubblico quanto per vendere alle aziende inserzioniste il pubblico stesso. Negli anni ottanta, con l’avvento delle televisioni private, gli spettatori, da soggetti del mercato culturale diverranno infatti in breve tempo il suo oggetto: è appunto la presenza della merce-pubblico che determina, sulla base delle percentuali di ascolto, il valore degli spazi pubblicitari che finanziano i programmi e consentono i profitti ai possessori di reti televisive. Questo generale rovesciamento semiotico e merceologico, che realizza in pieno il vaticinio del primo libro del Capitale a proposito del feticismo delle merci (Mordenti, , p. ), è forse una delle cause occulte della generalizzata sostituzione, verificatasi nel medesimo periodo, della parola chiave “Lettore” alla parola chiave “Testo” nel lessico della critica letteraria.  . EDITORIA E CRITICA Anche in questo caso, come per la precedente fortuna dello strutturalismo, si tratta comunque, in parte, di un fenomeno d’importazione: s’affaccia infatti negli anni ottanta in Italia il poststrutturalismo franco-statunitense che, in generale, mira «a capovolgere la centralità del testo a vantaggio di una centralità della lettura e del momento ermeneutico» (Di Girolamo, , p. ). In Francia i metodi strutturalisti sembrarono a un certo punto ruotare intorno a un centro vuoto: si scopriva che la scomposizione dei testi e le divaricazioni binarie non avevano un loro statuto scientifico ma potevano valere solo come decostruzioni, attraversamenti. Esemplare a questo proposito l’ultimo Barthes in cui prevale una deriva soggettivistica incentrata sul “piacere” (Il piacere del testo,  e I frammenti di un discorso amoroso, ). La prospettiva linguistica lasciava così il posto a tendenze decostruzioniste, tese a liquidare il “logocentrismo” della tradizione occidentale e a inseguire le molteplici articolazioni in cui la cultura ha espresso il discorso del potere: secondo le suggestioni di Michel Foucault (Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, ) destinate a grandissima fortuna nella teoria letteraria statunitense. Negli Stati Uniti, il decostruzionismo (uno degli esponenti maggiori del quale è Paul de Man) spostò «l’accento sull’iniziativa del destinatario e sull’irriducibile ambiguità del testo, cosicché il testo diventa un puro stimolo per la deriva interpretativa» (Eco, , p. ). Il testo insomma ora viene visto come centro vuoto, proiezione di un’assenza, scomposizione spaesante di punti di fuga anziché come modello logico, decodificabile e cristallino. Anche l’estetica della ricezione, nata a Costanza in Germania, considerò il primato dell’“orizzonte d’attesa” e del rapporto che un’opera ha con i suoi lettori. Per la Scuola di Costanza si può fondare sulla ricezione anche il giudizio di valore del critico nei confronti dell’opera. L’opera si colloca così al centro di una relazione, come un elemento dinamico e attivo. In Italia, la compatta egemonia della linguistica strutturale fu incrinata, a cavallo tra il decennio settanta e il successivo, da alcune proposte di tipo pragmatico, variamente incentrate sull’esperienza del lettore: soprattutto Critica della letterarietà di Costanzo Di Girolamo () e La mappa dell’impero di Franco Brioschi () che limitano il “letterario” a ciò che di volta in volta è percepito come tale dal pubblico, e Il critico senza mestiere () di Alfonso Berardinelli, che attribuisce al “formalismo” la responsabilità della crisi della mediazione discorsiva. L’applicazione della linguistica strutturale allo studio letterario ha portato soprattutto nel corso degli ultimi vent’anni ad una progressiva specializzazione e tecnicizzazione della critica. Il critico letterario tende ormai sempre più a pre-  MODERNITÀ ITALIANA sentarsi come specialista e come scienziato della letteratura. [...] Accade così che il discorso sulla letteratura, invece di illuminare il suo oggetto, tende piuttosto ad occultarlo. Lo assume come puro pretesto: luogo di applicazione di categorie preordinate. O ne disarticola le parti fino a renderne quasi irriconoscibile l’insieme. Stretta fra gli estremi della chiacchiera gergale e del laboratorio d’avanguardia, la critica in senso classico, come commento, mediazione discorsiva e valutazione, si dissolve (Berardinelli, , p. ). La stessa larga fortuna, iniziata verso la fine degli anni settanta, del concetto di postmoderno e la sua estensione dal campo dell’architettura, come indicazione di uno stile, a «quello, totalizzante, di “condizione” dell’uomo nell’età del tardo-capitalismo» (Leonelli, , p. ), spinge prepotentemente in direzione di una critica sempre più reader-oriented. Le pratiche di scrittura-lettura caratteristiche del postmodernismo, infatti, tendono tutte al primato del lettore: assai significativa, a questo proposito, è la larga diffusione del concetto di intertestualità, messo in circolazione da Julia Kristeva e poi sistematizzata da Gerard Genette con il suo Palinsesti. La letteratura al secondo grado (). La scrittura, cessata ogni pretesa di parlare del mondo, cerca ora con disincantata arguzia di parlare soprattutto di sé stessa e dei propri modelli: ciò determina, nel destinatario, effetti di riconoscimento di tipo piacevole e ludico, derivanti dall’individuazione della rete di riferimenti messa in gioco nel testo. L’insistenza sulla citazione, sull’allusione, sulla ripresa parodica è tipica sia della riflessione critica che della pratica romanzesca di Eco (Lector in fabula,  e Postille al Nome della rosa, ) e del romanzo metaletterario, incentrato sul lettore, Se una notte d’inverno un viaggiatore () di Calvino. I mutamenti nello statuto della critica italiana e dei suoi rapporti col pubblico, intervenuti nel corso degli anni ottanta, sono ben apprezzabili sia prendendo in considerazione alcune riviste del periodo (ad esempio, “Alfabeta”, “Diario” e “Linea d’ombra”) che analizzando le nuove storie letterarie per la scuola e l’università (ad esempio, quelle di Ceserani e De Federicis e di Asor Rosa). La rivista milanese “Alfabeta”  uscì come mensile dal  al , con un direttivo eterogeneo, formato da “pezzi” della precedente cultura semiologica (Maria Corti, Eco) e neoavanguardista (Porta, Balestrini), da scrittori che avevano partecipato all’esperienza pasoliniana di “Officina” (Volponi, Leonetti), e da studiosi di estetica e filosofia aperti al postmoderno e al “pensiero debole” (Ferraris, Rovatti, Omar Ca. Cfr. Alfabeta -. Antologia della rivista, a cura di R. Bossaglia, M. Ferraris, C. Formenti, C. Martignoni, Bompiani, Milano .  . EDITORIA E CRITICA labrese). La prospettiva della rivista è dunque marcatamente transdisciplinare: in sede critico-letteraria, “Alfabeta” promosse convegni (come Il senso della letteratura, Palermo, novembre ) e discussioni (come il dibattito su Se una notte d’inverno un viaggiatore o la polemica sul possibile ripristino o meno dell’intreccio nella narrazione) in cui antiromanzo e sperimentalismo venivano accostati al gioco intertestuale e, in sede politico-ideologica, la rivista intrecciò i temi del garantismo e dei movimenti ai dibattiti sulla crisi della ragione o sulla comunicazione mediale. Con il suo tentativo di mettere insieme semiologia, postmodernismo, pensiero debole e sperimentalismo avanguardistico, “Alfabeta” può essere considerata come l’ultimo bagliore di una critica interdisciplinare, così come poteva concepirla un ventennio prima l’ultimo Vittorini, affiancato dal giovane Leonetti, nell’atto di fondare una rivista come “Il Menabò”: ebbe infatti successo fra la generazione di giovani orfana dei movimenti, fra il  e il , poi iniziò inevitabilmente a declinare e a divenire rivista di nicchia. “Linea d’ombra” e “Diario”, invece, nascono entrambe dalla precedente esperienza dei “Quaderni Piacentini”, fondata da Piergiorgio Bellocchio nel  con Grazia Cherchi, Goffredo Fofi, Luca Baranelli, Giovanni Jervis, Giovanni Raboni, Alfonso Berardinelli: la più vivace, indipendente e originale tra le riviste della nuova sinistra. “Linea d’ombra”, «mensile di storie, immagini, discussioni e spettacolo», venne creata nel  da Goffredo Fofi con un gruppo redazionale di ex piacentini, come Grazia Cherchi e Alfonso Berardinelli, e con dei giovani come Gianfranco Bettin, Gad Lerner, Marino Sinibaldi. Nel folto gruppo dei collaboratori spiccano gli allievi di Spinazzola più attenti alle novità librarie, come Gianni Turchetta, Paolo Giovannetti, Mario Barenghi, Bruno Pischedda, Bruno Falcetto, Luca Clerici e narratori come Stefano Benni, Alessandro Baricco, Vincenzo Consolo. “Linea d’ombra” anticipa e discute, nel cinema e nella narrativa, tendenze generazionali emergenti. Qui si affaccia una generazione di scrittori che sarà la prima a essere battezzata e ad autopercepirsi come “giovane narrativa” (Piersanti, De Carlo, Del Giudice, Palandri). Si annunciano così su “Linea d’ombra” i primi conflitti fra la critica e la giovane narrativa, il primo divorzio tra la generazione nata nel “miracolo” e quella precedente. Del resto, nel  e nel  nasceranno il progetto “Under ” per Transeuropa e “Mouse to mouse” per Mondadori, curati da Pier Vittorio Tondelli ed entrambi luoghi di gestazione della narrativa emergente: da Giuseppe Culicchia a Romolo Bugaro, da Gabriele Romagnoli a Silvia Ballestra. Una nuova saldatura si va realizzando in tal modo fra vissuti giovanili, scarti generazionali e provinciali, scrittura e musica rock, da un lato, e nuove  MODERNITÀ ITALIANA esigenze editoriali dall’altro: è l’alba del fenomeno poi stabilizzatosi come “scrittura creativa”. “Diario” nasce invece, nel , come rivista scritta in proprio da Piergiorgio Bellocchio e da Alfonso Berardinelli sul modello di Kierkegaard, che pubblicava da solo il foglio periodico “L’istante”. È un opuscolo sobrio, non contiene pubblicità né illustrazioni e ha il formato desueto di un vecchio quaderno di scuola. Il titolo è programmatico: in ogni numero i due autori si impegnano in prima persona ad attaccare con divagazioni, appunti e aforismi sarcastici i luoghi comuni, la retorica e la volgarità degli anni ottanta, quelli del rampantismo, dell’italian style, del trionfo dell’ideologia dei ceti medi. A ben guardare, sul piano dello stile, la scrittura saggistica di “Diario” è l’esatto opposto della “scrittura creativa” ed è la conferma di una conclamata frattura tra gli scrittori, il pubblico e la critica: su “Diario” si invitano infatti i critici a passare dal noi all’io, alla rivista “privata”, confrontandosi a modelli illustri lontanissimi dalla postmodernità, come Leopardi, Kraus, Thoreau, Tolstoj, Weil. La cultura critica dei “Piacentini”, vale a dire il patrimonio di intellettuali e poeti come Fortini, Giudici, Raboni, Cases, dunque, si sdoppia ora fra “integrati” e “apocalittici”, o meglio fra una sostanziale accettazione sia pur assai critica del postmodernismo e il suo netto rifiuto. A loro volta, le maggiori operazioni antologiche e storiografico-letterarie degli anni ottanta attestano la sfortuna dello storicismo, del marxismo e dello strutturalismo. La monumentale Letteratura italiana einaudiana diretta da Asor Rosa, il cui ultimo volume uscì nel , bandisce fin dal titolo la parola “storia”, include le prospettive “deboli” che propugnano la fine delle ideologie, teorizza un approccio prevalentemente antropologico e approda all’eclettismo, con accostamento di contributi eterogenei e montaggio per argomenti, temi e problemi. Il più innovativo tra i progetti manualistici e storiografici degli anni ottanta, Il materiale e l’immaginario di Remo Ceserani e Lidia De Federicis, uscito nel decennio - presso Loescher, tenta di correlare le strutture dell’immaginario e i sistemi formali a quelli materiali, della produzione economica, grazie a una griglia tematica in cui prevalgono le grandi costanti antropologiche. L’idea soggiacente all’intera operazione è la nuova equiparazione postmoderna del lavoro critico-storiografico alla narrazione: secondo Ceserani, la Storia della letteratura italiana di De Sanctis risponde al modello di narrativa chiuso, di tipo naturalista, così come Mimesis di Auerbach risponde alla struttura romanzesca aperta del Novecento o lo stesso Materiale e immaginario al modello narrativo labirintico e combinatorio del postmoderno (Ceserani, ).  . EDITORIA E CRITICA DAGLI ANNI NOVANTA A OGGI Il tramonto dei modelli forti di analisi testuale ha portato a una situazione di disorientamento e di pluralità degli approcci. La critica letteraria italiana di fine secolo pare aver sostanzialmente reagito in due modi opposti: proclamando la propria crisi oppure celebrando, contro ogni teoria, la verginità soggettiva del giudizio estetico. All’inizio degli anni novanta, è lo stesso titolo del libro di Cesare Segre Notizie dalla crisi (Segre, ) a innescare una lunga riflessione sulla crisi della critica (cfr. Barbuto, ). La nozione stessa di crisi si presenta, fin dall’esordio, in due accezioni diverse: la fine del programma orientato sul modello della linguistica, che propugnava una scienza della letteratura, e la fine della centralità delle discipline umanistiche nel sistema dei saperi e nei luoghi deputati alla trasmissione della cultura. La difesa della critica formalistica avanzata in Notizie dalla crisi e riaffermata in seguito in Ritorno alla critica  (Segre, ), ha mostrato evidenti punti deboli: Segre, nei suoi due libri, ha pronunciato giudizi negativi sul decostruzionismo ma non ha preso in esame né la critica di ispirazione psicanalitica né le nuove correnti dei Cultural Studies, «probabilmente perché non sono accordabili in nessun modo con i principi di base dello strutturalismo e si allontanano troppo dalla centralità del testo» (Ceserani, , p. XII). Tuttavia, non solo i Cultural Studies (in modo spesso irriverente nei confronti del dato testuale), ma anche la critica freudiana (più attenta agli elementi specifici del testo letterario, e vitale da un trentennio in Italia), hanno posto questioni ineludibili intorno all’extratesto, accordando favore al combinarsi “indebito” di figuralità e pensiero e, d’altra parte, alla critica intesa come esercizio dialettico, ossia come investigazione del represso, delle antitesi o delle dissociazioni operanti all’interno dei testi . . In Ritorno alla critica Segre afferma l’imperitura maestà del testo che «resta lì» coi suoi «tesori di bellezza» (Segre, , p. ), che rappresenta «tutto il nostro bene», e che «nella sua maestà coincide con la verità» (ivi, p. ). Questo ritorno al testo-verità costituisce il «primo comandamento» del «giuramento d’Ippocrate» (ivi, pp. -) che Segre intende proporre ai critici letterari, a fronte del dilagare del decostruzionismo readeroriented. Non a caso, nel libro si distingue nettamente tra un’ermeneutica interna all’operare filologico e una nuova ermeneutica inevitabilmente votata, in tutte le sue manifestazioni recenti, a una «dichiarazione di resa». Tuttavia, tale testualismo, nell’evitare la deriva delle interpretazioni, rischia di rendere la critica istituzionalmente stabile ma priva di vitalità conoscitiva. . Ci si riferisce soprattutto alle ipotesi critiche avanzate da Francesco Orlando, per il quale l’opera si configura come un campo di forze che ha raggiunto un compromesso e che dice altro rispetto all’intentio auctoris (Orlando, , , ). I nostri critici hanno riservato invece un rispettoso silenzio a queste ipotesi. Fra le eccezioni cfr. Brioschi ().  MODERNITÀ ITALIANA Per quanto riguarda la seconda accezione del concetto di crisi, ossia il confino della cultura umanistica ai margini della società, è stato soprattutto Giulio Ferroni a denunciare la condizione postuma (Ferroni, ) della letteratura e lo stato di degrado residuale (Ferroni, ), a cui le nuove tecnologie digitali, con l’azzeramento della memoria e la «costipazione delle immagini», condannano il cosiddetto immaginario. Caduta ogni distinzione tra cultura alta e cultura bassa, per la nuova classe media divengono indispensabili surrogati di letteratura “seria” che simulino una profondità confortevole e senza rischi: è il fenomeno, dominante in Italia dagli anni ottanta in poi, definibile secondo Romano Luperini come «nichilismo morbido» (Luperini, ). All’attacco concentrico mosso alla letteratura muove ora, inoltre, la stessa ideologia neoliberista, con la riduzione di ogni “operatore culturale” a mero impaccio o costo superfluo, e con l’ipostatizzazione mediatica degli stili di vita della nuova “élite di massa”, a forte tasso di impoverimento antropologico (Calabrese, , p. XI). Il declassamento della letteratura è ben apprezzabile, infine, nel campo dell’istruzione, dove alla lettura viene anteposta la retorica ludica e a-sequenziale delle “nuove tecnologie”: fenomeno ben presente negli scenari dei disegni di riforma della scuola ed estremizzato dallo slogan delle “tre i” (inglese, impresa, informatica). Anziché ammettere con pacata fermezza che le trasformazioni del processo di lettura-scrittura in ambiente digitale necessitano di un più forte spirito critico e di occhiuti «avvisi ai naviganti» (Cadioli, ), schiere di “integrati” si sono lasciati andare all’euforia liquidatoria dell’“aggiornamento”. Nel decennio novanta, in modo speculare rispetto all’emarginazione delle discipline umanistiche, nell’orto conchiuso della critica militante italiana penetra in profondità il soggettivismo come forma difensiva paradossale. La scrittura critica en artiste, infatti, è una variante nostrana della post-Theory propugnata soprattutto in alcune università inglesi come Cambridge, Edimburgo e Glasgow: gli anni ottanta si chiudono con l’esortazione di George Steiner (Vere presenze, ) a depotenziare la critica per evitare i guasti prodotti nel rapporto tra i lettori e le opere dalla proliferazione di commenti, saggi e recensioni. La celebrazione di una verità soggettiva e il conseguente fastidio per la teoria, insomma il ritorno al mimetismo artistico, sembrano infatti le cifre dominanti della prosa dei critici italiani “giovani” alla fine degli anni ottanta. Manifesti della critica italiana “giovane” a metà del decennio novanta si possono considerare l’Introduzione in forma di dialogo (Perrella, ), che Silvio Perrella ha preposto a un’edizione del Critico come artista di Oscar Wilde, e la Lettera sulla critica di Emanuele Trevi, indirizzata a Marco Lodoli e intitolata Istruzioni per l’uso del lu . EDITORIA E CRITICA po (Trevi, ). Perrella afferma, citando Wilde, che la critica è «la forma più pura di impressione personale», ed è «più creativa della creazione»; aggiungendo Con un’affermazione del genere vengono buttate a mare tante petizioni di principio riguardanti l’oggettività scientifica che sarebbe necessaria a quest’attività (Perrella, , p. ). Un’analoga “verginità” dell’approccio ai testi è celebrata in Istruzioni per l’uso del lupo, con cui Trevi accusava a metà degli anni novanta l’accademia di aver «castrato» il patrimonio estetico della nostra civiltà . Non a caso per Trevi Vere presenze di Steiner è «uno dei pochi libri di critica che faccia sospettare un’anima nascosta fra le pagine». Il forte tasso di diarismo di queste prose, e perfino il loro andamento mimetico, nascondono una pulsione al saggismo come reazione, speculare, a troppa oggettività. Ma l’atteggiamento en artiste e il fastidio per la teoria sembrano nascere in paradossale sintonia col più generale bisogno di eliminare la categoria della mediazione intellettuale, percepita in ogni settore della società come un relitto ingombrante. A metà degli anni novanta Massimo Onofri, con Ingrati maestri (), ribalta il più duraturo fra i luoghi comuni della critica secondonovecentesca, almeno a partire dalla stagione della neoavanguardia: la rimozione di Croce. Benedetto Croce viene posto da Onofri alle radici di tutta la critica letteraria italiana mentre Gramsci, Contini, la critica ermetizzante (Bo) e lo strutturalismo (Segre) vengono potentemente ridimensionati, a vantaggio dell’autonomia e della irriducibilità dell’opera letteraria al reale. La polemica di Onofri, ripresa più di recente (Onofri, ), riguarda anche l’esibizione dell’ oscurità, della concettualità e dei tecnicismi del linguaggio critico, dominanti a partire dagli anni settanta in poi e, a suo parere, funzionali all’eliminazione dell’anomalia letteraria, sola vera opposizione ai totalitarismi del Novecento (Onofri, ). La polemica contro la critica “ufficiale”, che dilaga variamente negli anni novanta, è nel suo complesso interpretabile come dettaglio del processo assai più ampio di crisi degli intellettuali “legislatori” descritto dal sociologo polacco-inglese Zygmunt Bauman e dell’abbandono di ogni ambizione universalistica. Per la varietà delle voci polemiche e per la fragilità del bersaglio, sembra di assistere infatti al fuoco incrociato contro la croce rossa: la critica è accusata di tradimento, di soffocare con la propria ingombrante presenza secondaria la vera presenza della . Emanuele Trevi esordisce chiedendo a Marco Lodoli: «Caro Marco, si può recensire un tramonto?» (Trevi, , p. ).  MODERNITÀ ITALIANA grande letteratura occidentale, di non avere più padri ma padrini, di essere sorda davanti a ogni vitale novità e arroccata sui propri magri privilegi accademici. Il tradizionale rapporto fra critici e scrittori assume ora anche la forma di un perdurante conflitto fra generazioni. Il primo a rendere palese la frattura generazionale è Bruno Pischedda, ex collaboratore di “Linea d’ombra”, col romanzo-diario Com’è grande la città () in cui si accusano i maestri o “fratelli maggiori” Fofi, Ferroni e Berardinelli di un atteggiamento ideologicamente antimoderno, aristocraticamente ostile rispetto a ogni manifestazione della cultura di massa. Ma il più aggressivo fra i critici di fine secolo è forse Carla Benedetti, che nel , con Il tradimento dei critici, un titolo d’effetto (Benedetti, a) modellato su quello di Julien Benda (Il tradimento dei chierici), sembra voler colpire al cuore l’insieme menzognero dei professionisti della critica, a vantaggio delle verità veicolate da un ristretto gruppo di scrittori, tra i quali campeggia Antonio Moresco. Dietro l’invettiva fa capolino il bisogno di rompere l’autoreferenzialità della critica letteraria, ponendola al cospetto della nuova situazione socio-culturale conseguente all’attentato di New York del  e alla prospettiva di una guerra permanente (Benedetti, b). Alla cecità automatica del dominio neoliberista, capace di promuovere guerre, merci culturali e consenso in proprio, senza più bisogno degli intellettuali, Benedetti contrappone la formulazione del critico come parresiastés, come colui che «dice la verità in un contesto a rischio» (Benedetti, , pp. -). Anche Romano Luperini aveva posto, già nel , la questione delle responsabilità della critica nell’epoca aperta dall’operazione di polizia internazionale in Iraq, in un saggio pubblicato su “Belfagor” intitolato Tendenze attuali della critica in Italia (Luperini, , pp. -) e, mentre infuriavano altre stragi nella medesima parte del mondo, tra febbraio e marzo del , un’altra polemica ha percorso le pagine di alcuni quotidiani nazionali, con la partecipazione di numerosi critici e scrittori di diverse generazioni. All’origine, ancora uno scritto di Luperini che, ponendo a confronto i prodotti intellettuali odierni con quelli di trent’anni fa (di Sciascia, Fo, Volponi, Morante, Fellini, Zanzotto, Calvino, Pasolini, Fortini), giungeva a constatare «un declino della civiltà italiana, o comunque di una sua parte consistente, avviatosi già a partire dagli anni ottanta e accentuatosi poi con il passare degli anni sino a toccare in questo inizio di millennio il suo punto più estremo» (Luperini, , p. ). Carla Benedetti, con Tiziano Scarpa e Moresco, rispose però polemicamente, accusando Luperini di ignorare i tanti critici e scrittori capaci di mettersi in gioco e i molti siti letterari di opposizione nel frattempo sorti in rete.  . EDITORIA E CRITICA Un altro episodio della polemica che oppone dagli anni novanta in poi critici e scrittori è lo scontro fra Baricco e Ferroni sulla “Repubblica” nel  (Baricco, ) e la collocazione “sul banco dei cattivi” di alcuni scrittori, tra cui lo stesso Baricco e Tiziano Scarpa, da parte di Ferroni, Berardinelli, Onofri e La Porta (Berardinelli, Ferroni, La Porta, ). Queste polemiche, dalla fine degli anni novanta in poi, vengono di tanto in tanto rilanciate e banalizzate dalle pagine culturali dei quotidiani, bisognosi di brutali semplificazioni esemplate sul modello della rissa televisiva. Il Regesto dei dibattiti sulle annate di “Tirature” rileva infatti queste periodiche discussioni, ridotte a sconsolati “tormentoni” (Clerici, Falcetto, ), sullo stato di salute della letteratura e sul ruolo della critica. Fra i sintomi della banalizzazione della critica vi è anche la rivisitazione, nel corso degli anni novanta, dei due grandi maestri del Novecento, Gianfranco Contini e Giacomo Debenedetti. Dedenedetti è contrapposto a Contini in quanto «critico-uomo», autobiografo capace di un incontro coi testi «senza nessuna rete protettiva» (Perrella, , p. ), da cui sortiscono «pagine nude» prive dei cosiddetti «infingimenti culturali». È probabile che l’esaltazione in Debenedetti del soggettivismo e il rifiuto di Contini, accusato di micro-tecnicismo disciplinare, sia un tributo che ciò che resta della critica a fine millennio debba pagare allo “spirito dei tempi” che richiede a gran voce di allontanare sempre di più la descrizione dei testi dalla loro interpretazione, confinando la prima nel piccolo recinto delle indagini erudite e rendendo la seconda volatile e disponibile alla tuttologia mercificante. L’estetismo impressionista e il culto dell’effimero finiscono in tal modo per occultare ciò che, nella lezione sia di Contini che di Debenedetti, risulta decisamente poco trendy, vale a dire: nell’uno e nell’altro, una strenua lotta per affermare il valore non tanto estetico quanto conoscitivo e della lirica e della narrativa, cui il mondo moderno – è bene ricordarlo – ha dato involontariamente una delega diversa che in passato e certo più impegnativa: si pensi per la lirica solo a Hölderlin e Leopardi, e alle incontrovertibili riflessioni di quest’ultimo sul rapporto tra l’essenza del tutto antipoetica del mondo moderno e la necessità, proprio per questo, di tener viva la lirica (Mengaldo, , p. ). L’immagine “eroica” del critico militante, incline a un rapporto diretto con le opere, libero nei propri giudizi di valore, contrapposto all’accademico, servo delle istituzioni, sembra insomma diventare vera e propria caricatura nella nuova situazione della critica precarizzata nell’epoca della globalizzazione. Quanto più il sistema culturale, nel suo comples MODERNITÀ ITALIANA so, tende a fare a meno della mediazione intellettuale, tanto più ciò che resta della critica “tradizionale” si arrocca su posizioni difensive mentre, specularmente, una critica “giovane” e irregolare simula le possibilità di verginità di approccio, manifestando crescente risentimento e aggressività verbale. Sul versante della critica cosiddetta “tradizionale” non tutto sembra tuttavia sterile e difensivo. A fine secolo sono apparsi alcuni bilanci “reattivi” e non solo sconsolati, in cui circola la prefigurazione di una necessaria svolta della teoria . La condizione di stallo o di perdita di certezze, secondo alcuni, può trasformarsi in un vantaggio, restituendo la critica «alle modalità e ai limiti di una conoscenza eminentemente dialogica: con i rischi, i dubbi, le avventure, le approssimazioni e le strategie che le sono proprie» (Lavagetto, , p. XII), e lo stesso eclettismo dei metodi viene percepito come indispensabile. In tal modo, i critici più reattivi al declino dell’umanesimo e alla marginalizzazione della letteratura iniziano a ipotizzare una fuoriuscita dall’atmosfera culturale poststrutturalista, intesa come riduzione del mondo a “narrazione”. La letteratura tende a non esser più intesa solo come comunicazione o intertestualità ma come esperienza. Ciò che accomuna queste nuove ipotesi è l’accento posto tanto sulla nozione di interpretazione, intesa in senso forte, «come ricerca di significati, strutture, valori latenti sotto i significati, le strutture, i valori manifesti» (Brioschi, , p. ) e, soprattutto, sulla responsabilità sociale dell’interprete. Il testo può tornare a ricevere un senso dall’atto interpretativo perché «non è il linguaggio a decidere sull’essere, ma è l’essere – che è l’essere sociale – a decidere sul linguaggio» (Luperini, , p. ). Caduta ogni illusione scientista, in sostanza, si è anche consumata l’illusione sulla libertà assoluta dell’interpretazione. Si comincia a sospettare che George Steiner, immaginando una Città dove il recensore e il critico sarebbero messi al bando, non ha descritto, come forse pensava, una città felice; ha dato forma a una lugubre fantasia concentrazionaria [...]. Chi apre un testo – e si accinge, perché . Per un Bilancio su La crisi della critica letteraria e per una esauriente bibliografia fino al , si rinvia al fascicolo monografico, II,  di “Moderna”, con interventi di F. Brioschi, N. Lorenzini, R. Luperini e L. Lenzini. Cfr. inoltre Ganeri, Merola (), con interventi di A. Berardinelli, F. Brioschi, A. Cortellessa, R. Deidier, P. Febbraro, G. Lo Castro, R. Luperini, R. Nisticò, P. Pellini, M. Polacco, I. Pupo, E. Zinato; Olivieri (), con contributi di G. Bottiroli, S. Calabrese, R. Ceserani, G. Ciuffreda, A. Compagnon, F. Conrotto, L. Dallenbach, L. J. Davis, G. Didi-Huberman, T. Eagleton, P. Fabbri, G. Ferroni, F. Fontaneau, E. Giammattei, Ph. Hamon, M. Lavagetto, R. Luperini, F. Marenco, E. Raimondi, P. Ricoeur, H. Weinrich, S. Zatti.  . EDITORIA E CRITICA quello è il suo lavoro, a parlare partendo dai segni che si allineano, riga dopo riga, sotto i suoi occhi – è investito da una duplice, onerosa responsabilità (Lavagetto, , pp.  e ). Una panoramica sul passato prossimo è offerta dal Dizionario della critica militante () firmato per Bompiani da Giuseppe Leonelli e Filippo La Porta (La Porta, Leonelli, ). Mentre Leonelli dipinge alcuni grandi ritratti (Calvino, Garboli, Praz, Macchia, Citati, Fortini, Baldacci, Pampaloni, Calasso, Magris, Raboni, Asor Rosa, Mengaldo, Berardinelli), La Porta, in brevi paragrafi, dà conto di esempi più recenti e si pone la cruciale questione del pubblico a cui riferirsi, anche se si tratta oggi di «un pubblico molto esiguo, o anche solo immaginato» (ivi, pp. -). Il Dizionario individua in tal modo nuove generazioni di critici, dalle diversissime vocazioni e dai diversi stili, ma accomunati da un talento “di frontiera”, nati tra il  e il  e cresciuti in situazioni di difficoltà e disagio della critica: Mario Barenghi, Marco Belpoliti, Carla Benedetti, Stefano Calabrese, Luca Clerici, Andrea Cortellessa, Bruno Falcetto, Paolo Febbraro, Roberto Galaverni, Raffaele Manica, Massimo Onofri, Fulvio Panzeri, Gabriele Pedullà, Silvio Perrella, Generoso Picone, Massimo Raffaeli, Domenico Scarpa, Emanuele Trevi, Gianni Turchetta. La Porta, del resto, definisce la critica come domanda sul senso, «su ciò che gli uomini riescono a sapere di se stessi attraverso le opere letterarie» (ivi, p. ), come lettura capace di non perdere «il legame col passato», pur nella consapevolezza di essere «orfani di qualsiasi filosofia della storia». In un’epoca postideologica, il critico deve contare solo su sé stesso, «sul suo apparato percettivo e intellettuale, su quanto vi è in lui di non clonabile e di non replicabile, sulla sua residua capacità di dire sì o no» (ivi, p. ). Di qui la rivendicazione (come accade anche nella proposta di Berardinelli) della vitalità della saggistica letteraria. Sia pur con diversi dosaggi di soggettività e di saggismo personale, sembra insomma che, nelle condizioni rese sempre più fungibili e flessibili dalla nuova precarietà del lavoro intellettuale, la critica abbia superato il rimpianto per i maestri perduti e abbia elaborato il lutto per la sconfitta nella guerra con i media (cfr. Muzzioli, ). Sul finire del primo decennio del nuovo secolo, la questione della crisi o decadenza della critica, le lamentele ricorrenti sulla barbarie montante e sull’insensibilità delle nuove sfere decisionali sembrano metabolizzate a sufficienza: Di recente, a me è capitato di associare la solitudine dei critici, e la loro impotenza, alla favola del barone di Münchhausen (e alla celebre poesia di Zanzotto,  MODERNITÀ ITALIANA Al mondo, che la evoca): in effetti è difficile, se non impossibile, uscire dal pozzo tirandosi su per il proprio codino. Non è più che una scommessa, o una individuale testimonianza: tuttavia, io credo, per rispetto almeno di noi stessi, siamo condannati a provarci (Raffaeli, ). Gli “anni Zero”, diversamente dal ventennio che li precede, sembrano attraversati da una nuova paradossale esigenza di uno spazio per la critica intesa nel senso etimologico del “distinguere” e del “valutare” (Raffaeli, , p. VII). A dimostrarlo è anche l’interessante discussione avviata nel  e riguardante il campo di forze del reale e la possibilità di una sua auerbachiana mimesi letteraria. Il dibattito, “cartaceo” e in rete (“Lo Specchio”, “Allegoria” e “Nazione indiana”)  ha coinvolto numerosi critici e scrittori con ricorso a toni aspri ma anche con grande ricchezza di argomenti teorici e senza più contrapposizioni generazionali. Questa discussione, destinata a problematizzare il modo in cui le più recenti narrazioni italiane (da Siti a Saviano a Affinati) parlano della realtà nell’epoca della postrealtà, sembra alludere a una ripresa del dialogo critico su un tema cruciale. Le teorie basate su una concezione della mimesi romanzesca, intesa come rispecchiamento di una realtà extratestuale, sono state infatti l’oggetto di illustri dispute prima di diventare normative e di essere infine screditate nel corso del Novecento, e, d’altra parte, la grande enfasi sul concetto di “finzione” in epoca postmoderna ha ampliato sia lo scarto tra narrazione e vita che quello fra critica e società. Così si esprime in proposito, con grande maturità, un giovane critico: Io credo che si possa anche da un punto di vista critico salvaguardare il percorso che va dall’opera al mondo, riconsiderando il concetto di mimesi, ma abbandonando la teoria gnoseologica che era implicita nelle varie concezioni incentrate sull’idea di rispecchiamento. Non abbiamo bisogno di una concezione della narrazione come adeguazione di una proposizione a un dato di fatto. Non ci serve, però, neppure constatare che tutte le proposizioni contenute in una narrazione romanzesca sono “false” e quindi elementi di un universo “finzionale”. Tutto ciò non ci fa avanzare un passo, rispetto alla domanda fondamentale: perché proprio queste finzioni mi riguardano, come lettore concretamente determinato, e non altre? [...] Affinché i libri cessino di apparire come una foresta pietrificata di segni, costantemente sopravanzata da una realtà precipitosa e fuggevole, c’è bisogno di ricostituire ogni volta un solido ponte tra il libro e il mon. Cfr. il dossier per “Lo Specchio” introdotto da un saggio di Andrea Cortellessa (Reale, troppo reale) con interventi di G. Pedullà, D. Giglioli, A. Scurati, L. Pugno, T. Ottonieri, il fascicolo , , della rivista “Allegoria” sul “ritorno alla realtà” e la polemica fra Cortellessa, Donnarumma, e G. Policastro su “Nazione indiana”.  . EDITORIA E CRITICA do, per constatare come l’universo di finzione riguardi la nostra più intima identità (Inglese, ). Tutte e quattro le “antitesi” che tra vecchio e nuovo millennio hanno “bloccato” la critica, individuate con spregiudicato acume da Paolo Giovannetti (, pp. -) – vale a dire la colpevole assenza di comunicazione tra critica militante e accademica, la coppia moderno/postmoderno, la tendenza a parlare di canone senza parlare di tradizione, la forcella sistema letterario/popular culture –, vengono ripensate a fine del decennio Duemila con impiego, da più parti, di nuove strumentazioni concettuali. Circola l’insistenza sulla necessità di una condivisione di strumenti di cui gli interpreti dovrebbero far uso per rispondere alle sfide di un mondo sempre più complesso e globale: ad esempio Elena Porciani, consapevole del pericolo di trasformare in sconforto la condizione di precarietà della critica nell’epoca della globalizzazione, suggerisce tre rimedi per estendere il campo della ricerca letteraria e per affrontare le situazioni intraculturali: «la tematologia per cogliere le radici e le appartenenze, l’interdisciplinarietà per favorire la collaborazione e le sinergie, la comparazione per render conto dell’interculturalità» (Porciani, , p. ). I tre “rimedi” sono concretamente operativi nell’impianto di una rivista come “Contemporanea” che, con contributi di Pierluigi Pellini, Marina Polacco, Francesco Ghelli, Gianluigi Simonetti e di molti altri, lavora sul crocevia tra spazio letterario e spazio della comunicazione. Un’altra giovane studiosa, Silvia Camilotti, ha intelligentemente campionato e interpretato l’intero fenomeno della letteratura della migrazione in lingua italiana, aprendo la strada anche da noi alla lettura critica di un campo letterario rilevante e vitale: quello delle scritture di seconda generazione (Camilotti, ). Termini e concetti a lungo considerati inconciliabili, come postmoderno e impegno, vengono accostati nelle più recenti riflessioni sull’autobiografia, sul saggismo, sul cinema e sulla non fiction-novel (cfr. Antonello, Mussgnug, ). Infine, torna l’interesse per le qualità specifiche del linguaggio letterario (come la narratologia e la creazione metaforica) sia pure collocate fuori dal loro specifico ambito disciplinare (Ceserani, ; Calabrese, ). In bilico fra storia culturale e scienza delle opere, e sulla lama di rasoio della precarietà che contraddistingue in ogni ambito i lavoratori della conoscenza, la critica del nuovo millennio può insomma di nuovo pensare che la letteratura “colpisca ancora”, che un’invenzione sia “trasmissibile” e che un “libro ben fatto” sia dotato di un suo specifico “plusvalore” (cfr. Alfano et al., ). La principale risorsa della critica degli “anni Zero” sembra consistere nei blog e nei forum di discussione in rete dedicati alla letteratu MODERNITÀ ITALIANA ra. È ancora presto per valutare in modo equilibrato il mutamento imposto da Internet nelle modalità di informarsi e di fare ricerca, nell’accessibilità e nei metodi di condivisione degli archivi e delle idee e, soprattutto, negli stili della scrittura. Internet oscilla infatti tra l’enciclopedia illimitata e la superficialità diffusa, ma non vi è dubbio che questo strumento rechi in sé le potenzialità di una nuova consapevolezza nella domanda di cultura e migliori possibilità di sopravvivenza di prodotti minoritari, di ricerca e di opposizione (Ferretti, Guerriero, , pp. -). Molte delle riviste letterarie on line, come “I Miserabili” di Giuseppe Genna, “Vibrisse, bollettino” di Giulio Mozzi, “Lipperatura” di Loredana Lipperini o “Carmilla” di Valerio Evangelisti, al loro sorgere si propongono come luoghi di radicale opposizione al mercato e alla critica “ufficiale” e utilizzano un registro linguistico mordace, sarcastico, stroncatorio. “Nazione indiana”, ad esempio, forse la più robusta di queste esperienze in rete, dal , si propone come luogo di riflessione critica e di indipendenza dall’industria culturale e rivela intenti apertamente aggressivi rispetto all’establishment letterario, dichiarati nel manifesto programmatico del sito: Nella cultura italiana vige la pratica dello scambio di favori. Ci impegniamo a non accettare nessun clientelismo. Non solo i “do ut des” immediati, ma anche le soggezioni, gli atteggiamenti reverenziali in vista di futuri tornaconti o per timore di essere esclusi o danneggiati dai “padrini della cultura”: boss grandi e piccoli del giornalismo e dell’editoria, amministratori pubblici, funzionari, giurie di premi, organizzatori di eventi ecc. I blogger nel nuovo millennio svolgono un ruolo analogo a quello in precedenza assolto dai critici militanti, producendo risultati controversi. Da un lato, inevitabilmente, molti fra quelli che intervengono in rete mancano di quegli strumenti, culturali, linguistici e retorici, anche minimali, che consentono di affrontare un testo in quanto testo. Dall’altro, le riviste on line, così come le scuole di “scrittura creativa”, tendono a svolgere una funzione vicaria di rivitalizzazione dell’esperienza letteraria, sia pure nell’ambito della cosiddetta “mutazione”, rendendo accessibili a un pubblico proteiforme il dialogo interpretativo e la lettura-scrittura attiva che nei luoghi tradizionali o “cartacei” (giornali, riviste, editoria scolastica, università), paiono condannati a insterilirsi o a diventare “di nicchia” (Guglieri, Sisto, ). Sul finire degli “anni Zero”, insomma, sembra che i grandi temi della modernità di nuovo sulla scena (crisi economica, precarizzazione dei ceti medi e del lavoro intellettuale, ritorno massiccio dei conflitti) siano  . EDITORIA E CRITICA ben presenti nell’orizzonte di ricerca di una critica “under ”: nel , ad esempio, un sito come “Punto critico” può al suo esordio progettare un ragionamento plurale intorno alla critica della contemporaneità, coinvolgendo le voci di un folto gruppo di giovani (Cecilia Bello Minciacchi, Gherardo Bortolotti, Alessandro Broggi, Federico Francucci, Marco Giovenale, Antonio Loreto, Giulio Marzaioli, Camilla Miglio, Renata Morresi, Andrea Raos, Jennifer Scapettone, Italo Testa, Michele Zaffarano, Paolo Zublena) e qualificandosi come punto di partenza per una critica futura. 