RIFLESSIONI SULLA RICONCILIAZIONE PERSONALE E SOCIALE
Guillermo Sullings - Luglio 2007
Introduzione
Queste considerazioni sul tema della riconciliazione, prendono ispirazione dal
discorso che Silo ha tenuto il 5 maggio del 2007 a Punta de Vacas. Non pretendono affatto
di essere una spiegazione su quello che lì è stato detto. Si tratta soltanto di alcune
semplici riflessioni personali su un tema che dovrebbe essere considerato in modo
speciale nel momento attuale, sia a livello individuale che a livello sociale.
Viviamo in un mondo segnato dalle guerre e da ogni forma di violenza e non sembrerebbe
che questo si possa fermare, ma piuttosto che aumenti giorno dopo giorno. Non servono a
nulla gli appelli formali alla pace degli ipocriti, compromessi con gli interessi di coloro che
promuovono le guerre. Men che mai servono le dichiarazioni di ripudio della violenza che
provengono da chi fa finta di aver paura ma allo stesso tempo è incapace di cedere un
unghia dei suoi meschini interessi che generano violenza. E a niente servirà qualunque
tentativo, anche animato da buone intenzioni, che non cominci col tentativo di
comprendere la radice del fenomeno.
E’ anche ovvio che la guerra e la violenza non finiranno ricorrendo alla stessa violenza
delle cosiddette "guerre preventive" o mediante la repressione sociale. È provato a
sufficienza che quel tipo di risposte, oltre ad essere incoerenti, producono l'effetto
contrario.
Deve risultare chiara la responsabilità di chi governa nell’origine di ogni tipo di violenza,
bellica e sociale. Deve risultare chiara la responsabilità di quelle organizzazioni che
pensano di prendere il potere attraverso la violenza. Ma deve risultare chiara anche la
responsabilità dei popoli che spesso alimentano quella stessa violenza.
La violenza vive grazie all'egoismo e all'indifferenza, al rancore ed al risentimento, alla
paura e alla mancanza di comunicazione, all'intolleranza e alla discriminazione,
all'ambizione e all'ingiustizia. Queste piaghe si annidano in molti esseri umani, provocando
contraddizione e violenza, e si potranno curare solo cominciando a percorrere il cammino
della Riconciliazione personale e sociale.
“Se cerchiamo la riconciliazione sincera con noi stessi e con quelli che ci hanno ferito
intensamente è perché vogliamo una trasformazione profonda della nostra vita. Una
trasformazione che ci tiri fuori dal risentimento nel quale, in definitiva, nessuno si riconcilia
con nessuno e neanche con sé stesso. Quando arriviamo a comprendere che dentro di
noi non abita un nemico ma bensì un essere pieno di speranze e fallimenti, un essere nel
quale vediamo in rapida successione di immagini, bei momenti di pienezza e momenti di
frustrazione e risentimento. Se arriviamo a comprendere che il nostro nemico è un essere
che ha vissuto anch’egli con speranze e fallimenti, un essere nel quale ci sono stati bei
momenti di pienezza e momenti di frustrazione e risentimento, avremo messo una
sguardo umanizzatore sulla pelle della mostruosità. (Silo, Punta de Vacas 5/5/2007).
Il risentimento
La ricchezza della Riconciliazione ci permetterebbe sicuramente di superare molti
degli aspetti negativi che hanno messo radici dentro di noi e nella società; ma
analizzeremo in particolare l'aspetto del risentimento perché ha una relazione diretta con
gran parte della contraddizione e della violenza e perché è forse una delle trappole da cui
risulta più difficile fuggire. Come abbiamo detto prima, analizzeremo questo tema sia nella
sua manifestazione individuale che in quella collettiva.
Alcuni richiami al tema
Max
Scheler,
filosofo
fenomenologico,
ha
definito
il
risentimento
un'autointossicazione psichica, che nasce dalla repressione delle scariche emotive.
Secondo questo pensatore il risentimento andrebbe covando gradualmente e rivivrebbe di
volta in volta con la sua carica emotiva di ostilità verso gli altri. Quindi Scheler, in un
tentativo di trasporre quel comportamento di risentimento individuale nei fenomeni sociali,
comincia con lo stabilire alcune categorie di tipi umani, "il distinto" e "il volgare",
quest’ultimo più predisposto a cadere nel risentimento. Quindi analizza quelle che
considera deviazioni della morale a partire dal risentimento. Da quest’ottica squalifica la
moderna filantropia poiché avrebbe la sua origine nel risentimento, essendo pertanto la
manifestazione di un sentimento di pena e sentimentalismo e non di un vero amore per il
prossimo. Così pure nella morale delle società, la sopravvalutazione del "merito del
proprio sforzo" al di sopra dei "doni o virtù naturali”, avrebbe per Scheler la sua radice nel
risentimento di coloro che non possiedono tali doni. Egli arriva ad affermare che quelli che
non hanno virtù negano per invidia i valori che altri hanno fino a suggerire che certi
ideologie egualitariste avrebbe la loro radice nel risentimento.
In questa interpretazione sociale del risentimento Scheler si avvicina abbastanza all'analisi
che fa Nietzsche, benché contemporaneamente prenda le distanze da lui e valorizzi la
morale cristiana originaria (che Nietzsche descrive come prodotto del risentimento nel suo
"Genealogia della morale”).
Scheler attribuisce al risentimento anche la degradazione dei "valori obiettivi", quelli che
sarebbero stati sostituiti a poco a poco dall’opinione universale, dove cio che è obiettivo si
riduce a ciò che possa essere dimostrabile all’intelligenza più stupida ("affinché qualcosa
si possa considerare obiettivo, deve potere passare attraverso i sensi e l'intelletto
dell'ultimo imbecille"). La scomparsa della solidarietà trasforma la comunità in un insieme
di individui isolati, legati soltanto dai contratti della società democratica e sarebbe
anch’essa una conseguenza della morale del risentimento.
Nietzsche, da parte sua, è molto più brutale dato che squalifica i valori morali della
modernità, quelli che, secondo lui, cominciano a svilupparsi nel risentimento della cultura
sacerdotale ebrea e che dopo continuerebbero col cristianesimo. Mette in discussione la
cosiddetta "morale della compassione” che insieme alla decadenza dei valori morali
sarebbero un freno a che l'umanità (o almeno alcuni eletti) raggiunga la piena potenzialità
e splendore. Da questa ottica cerca di riscattare i cosiddetti "valori nobili" delle antiche
aristocrazie, insieme al supposto diritto naturale alla conquista, alla depredazione e
all’assoggettamento dei più deboli, in una concezione crudamente darwiniana della
morale. Naturalmente non ci dilungheremo, in questo lavoro, ad analizzare "La
Genealogia della morale", ma soltanto in alcuni degli aspetti riferiti al risentimento. Se
riusciamo ad astrarci dal taglio intollerante dell'autore, che ovviamente non condividiamo,
possiamo forse recuperare alcuni concetti inerenti la contaminazione che può produrre il
risentimento in una società.
È evidente che in numerosi passaggi della sua opera, Nietzsche si riferisce alla morale
degradatoria, come ad una morale esterna che distorce le vere virtù e va via via
internalizzandosi come un narcotico che finisce con lo spegnere la vitalità e la volontà. Il
concetto di "buono" comincia ad applicarsi, da quello sguardo esterno, a quello che risulta
buono o utile per altri, è una bontà timorata, paurosa dello sguardo esterno o del castigo
divino. La felicità per gli "uomini nobili ed attivi", faceva parte della loro stessa natura
attiva; mentre per gli "uomini del risentimento” rimaneva solo la "felicità degli impotenti”,
sotto forma di narcosi, stordimento, quiete e rilassamento. Allora il risentimento sarebbe il
fattore che porterebbe la gente debole e mediocre a degradare tutto quello che sembri
superiore, come modo di essere coerenti con il proprio stato.
Indubbiamente in questo caso Nietzsche definisce la reazione comportamentale del
risentimento da parte de "i deboli", come una reazione di fronte alla superiorità dei "nobili".
E se a tale concezione naturalista aggiungiamo che considera i deboli come i plebei, ed
alcune delle virtù dei nobili sarebbero la loro rapacità e avidità, ("l'animale di rapina, la
magnifica bestia bionda") allora potremmo vederci tentati a scartare in toto tutta la sua
analisi. Tuttavia, se ci ponessimo la possibilità dell'esistenza di una vera morale interna,
invece dei moralismi esterni, e se la pietra di paragone per ogni essere umano non
fossero gli altri, ma la propria possibilità evolutiva, forse allora potremmo osservare come
la contaminazione del risentimento possa frenare le più elevate aspirazioni (che stanno
potenzialmente in ogni essere umano) e, quel che è peggio, possa anestetizzarlo e
rinchiuderlo nella trappola del nichilismo e del letargo esistenziale.
Un altro concetto che espone Nietzsche rispetto al risentimento è quello della
santificazione della vendetta, a cui dà il nome di giustizia",... questa nuova sfumatura di
equità scientifica a beneficio dell'odio, dell'invidia, dell’offesa, del sospetto, del rancore,
della vendetta, germoglia dallo spirito stesso del risentimento... ". naturalmente neanche
qui possiamo essere d’accordo con l'autore, quando progressivamente trasforma la sua
critica della giustizia nella rivendicazione dell'impunità dei "predatori", affinché non siano
catturati nelle reti dei "deboli agnelli risentiti". Tuttavia, quando vediamo che buona parte di
quello che si chiama giustizia non è altro che una forma istituzionale della vendetta che
cerca imporre una punizione proporzionale al danno causato ("occhio per occhio, dente
per dente") troviamo anche qui gli effetti del risentimento. Quando vediamo tanti codardi
che ricorrono alla giustizia per paura di parlare col vicino per risolvere problemi
insignificanti, scopriamo anche lì i segni del risentimento. Quando vediamo come, nel
corso della storia, la "giustizia" sia stata utilizzata per dare potere a codardi inquisitori di
ogni risma che hanno canalizzato il loro risentimento contro coloro che hanno osato volare
col pensiero più in alto della mediocrità. Quando vediamo che li spedirono al rogo o in
prigione o da psicologi dediti alla riabilitazione, o al circo mediatico degli "opinions makers"
autoeletti giudici pubblici, ogni caso secondo epoca e luogo, possiamo anche qui vedere
una certa contaminazione del risentimento nel tema della giustizia.
In definitiva ciò che Nietzsche chiama "interiorizzazione" dell'uomo, l'inibizione degli istinti
per potere adeguarsi alla vita in società, sarebbe l'origine della "cattiva coscienza" nella
quale il risentimento occuperebbe un spazio fondamentale.
Altri autori cercano di definire il risentimento e di classificarlo rispetto alla sua
origine. In generale c’è accordo sul fatto che si tratti di una reazione frustrata che si
stabilisce nello psichismo come un'emozione negativa e si conserva nel tempo, mentre la
persona lo coltiva e l'alimenta. Può sorgere dall’impotenza (non possibilità di dare risposta
di fronte ad un’aggressione esterna), per invidia o per frustrazione. Si parla anche di
risentimenti di insiemi sociali che si trasmettono di generazione in generazione (ad
esempio tra nazioni, etnie o razze). Tuttavia molte di queste analisi risultano superficiali e
non approfondiscono, come fanno Scheler e Nietzsche, la capacità del risentimento di
stabilirsi e retroalimentarsi che gli permette di trasformarsi in morale e trasformare i suoi
frutti in valori rispettabili per la società.
Tuttavia, più in là di quanto esposto da entrambi i filosofi tedeschi, se la società finisse per
prendere come modello i risentiti e assicurasse l'accettazione sociale di quel
comportamento; ci sarebbe da chiedersi su quanta sopportazione interna richiederebbe
una emozione così negativa. Perché se si tratta di un'intossicazione psicologica, come
dice Scheler, si dovrebbe supporre che lo psichismo dovrebbe reagire respingendola,
come farebbe il corpo davanti a ciò che gli causa malessere. Forse bisognerebbe
domandarsi se questo tipo di intossicazione non abbia internamente anche la sua parte
piacevole che la rende allettante e neutralizza il rifiuto della sua tossicità.
Krishnamurti, quando parla dell’odio e del risentimento, fa notare che possiamo avanzare
e superarci solamente quando c'è qualcosa che ci disturba, proprio perché desideriamo
liberarcene. Egli afferma che la maggioranza delle persone desiderano non essere
infastidite, preferiscono dormire, rimbambirsi, isolarsi, rinchiudersi. Considera il fastidio un
segnale d’allarme che impedisce che ci addormentiamo e permette di superarci. Ci
sarebbe allora da domandarsi come è possibile che qualcuno si addormenti nonostante il
fastidio del risentimento, al punto tale di adottarlo ed alimentarlo e soprattutto
bisognerebbe domandarsi come uscire da una simile trappola.
La trappola del risentimento
Esistono stati emotivi passeggeri ed altri più duraturi. In generale tanto la gioia
sfrenata che accompagna il ricevere una buona notizia, come la terribile pesantezza del
riceverne una molto brutta sono emozioni forti che si stemperano con una certa rapidità. Al
contrario la nostalgia, la tristezza autocompassionevole, il nichilismo ed il risentimento,
possono permanere più a lungo ed a volte tingere tutta la nostra condotta per molto tempo
al punto tale di finire per far parte della nostra personalità. Ci sono tra questi ultimi, alcuni
casi quasi patologici molto conosciuti, chiaramente osservabili; ma la maggioranza di
questi comportamenti, più sottili e generalizzati, finiscono col far parte di quelli socialmente
accettati.
"Quello che è perduto e mai ritornerà... ", sembrerebbe giustificare con logica
fatalista la tristezza cronica di chi si impantana in quel sentimento, forse alla ricerca della
commiserazione di un interlocutore esterno, reale o immaginario.
"Quello a cui aspirava e non potrà mai più essere... ", immutabile realtà che
sembrerebbe giustificare la disperazione ed il disfattismo.
"Il mondo mi ha indurito, con tanta ingiustizia e sofferenza... ", motivi più che
sufficienti ad alimentare il fuoco del rancore, il pregiudizio ed il nichilismo.
Prendendoci la libertà di includere sotto il termine risentimento non solo il rancore ma
anche tutti questi sentimenti negativi che si stabiliscono e si ri-sentono in modo
permanente, possiamo dire che una delle porte della trappola del risentimento è,
precisamente, la logica apparente di quello che si sente, giustificata da ciò che è successo
in passato. E’ ovvio che si tratta di una logica dotata di una grande dose di autoinganno.
Darío Ergas, umanista cileno, nel suo libro "Il Senso del Nonsenso", a proposito della
logica del risentimento dice: "Quanto ci sembra reale il risentimento! Che logica tanto
irrefutabile giustifica il nostro discorso! Quanto è evidente l’ingiustizia che ci è stata fatta,
la violenza che abbiamo subito, il miserabile inganno col quale ci hanno incantato! La
morte ci ha sorpreso come un incidente senza misericordia! Quanta logica c’è in quel
ragionamento per il quale siamo risentiti! E’ perfino corretto. Sarebbe strano il contrario. E’
evidente che mi hanno fatto del male e che questo ha condizionato la mia vita. E non mi
sono nemmeno vendicato, o forse sì...C’è solo un dettaglio. Soffro."
Sicuramente è questa sofferenza (o il fastidio che menzionava Krishnamurti) ciò che
dovrebbe motivarci ad uscire da quello stato. Ma pare che non sia tanto semplice. Perché
quando uno si scotta col fuoco ritira la mano ed in seguito prende precauzioni per non
scottarsi di nuovo. Ma il risentimento sembra trattenerci con un eccezionale attrazione.
Allora, o stiamo anestetizzando quella sofferenza fino a nasconderla o la sentiamo ma non
l'attribuiamo al risentimento. O forse entrambe le cose.
Dato che abbiamo fatto l'esempio del dolore fisico, nel quale il riflesso fa sì che ci
allontaniamo dalla fonte del dolore, abbiamo anche esempi dove non è tanto chiara la
fonte del dolore e pertanto non c'allontaniamo da lei e capita perfino che ci avviciniamo di
più. Quando mangiamo in abbondanza certi piatti saporiti è ovvio che non dispiacciono né
alla bocca né alla lingua, bensì tutto il contrario. E’ probabile che dopo ci venga un bel mal
di testa dovuto a problemi al fegato che cercheremo inutilmnete di farci passare
prendendoci la testa tra le mani o bestemmiando. E finché un medico non ci spiega la
relazione tra quello che mangiamo ed il mal di testa, certo non potremo risolvere il
problema.
Qualcosa di simile succede col risentimento, non sempre ci è chiaro che un certo tipo di
sofferenza ha lì la sua radice. E peggio ancora se quella sofferenza prodotta dal
risentimento si va anestetizzando e trasformando per mezzo di comportamenti che la
compensano, nelle quali il risentito trova un modo di autoaffermarsi nei ruoli nei quali si
sente sicuro di sé stesso e superiore agli altri e perfino a si sente stimato in un certo
ambiente sociale adeguato a quei ruoli.
Alcuni esseri brutali, nel risentirsi, si autoaffermano nella "bellezza" ed ostentano la
violenza fisica come fattore di prestigio.
Il debole risentito si autoafferma nei suoi "talenti" e degrada coloro che non "stanno alla
sua altezza", esercitando violenza psicologica.
Il frustrato risentito si autoafferma nel suo nichilismo, dichiarando che tutti coloro che
credono in qualcosa sono ingenui e così, in un mondo di idioti, egli si sente, per contrasto,
un vincitore.
Chiaro che, come dice Darío Ergas, “…Quel malessere si anestetizza e si anestetizza
anche il futuro e la motivazione ad agire nel mondo." E questo, a un certo punto, può
provocare una crisi e lì ci può essere un'opportunità di cambiamento.
Affinché esista quella possibilità di cambiamento, bisognerà comprendere che la radice di
tale crisi sta nel risentimento ed a volte non è tanto semplice smontare l'impalcatura delle
credenze. Come abbiamo già visto la trappola del risentimento ha una prima porta che
bisogna attraversare per uscire che è quella della supposta logica tra "quello che gli altri
mi fanno e quello che mi succede a me". Forse potremmo mettere in discussione la logica
del risentito, ricorrendo al procedimento inverso:
A chi giustifica il suo odio con il fatto che tutti sono contro di lui, bisognerebbe
domandargli se non sarà l’ annebbiamento causato dal suo odio a fargli vedere nemici da
tutte le parti.
A chi giustifica il suo nichilismo dicendo che tutto va a finire male, bisognerebbe
domandargli se non sarà il pantano della sua impotenza a fargli vedere solamente i
problemi e mai le soluzioni.
A chi discrimina gli altri perché li considera inferiori, bisognerebbe domandargli se non
sarà che dal piedistallo della sua superbia, non può vedere nient’altro che difetti negli altri.
Tuttavia, anche se disarticolassimo l'apparente ed assurda logica a cui si afferrano coloro
che sono in questi stati di risentimento, ci troveremmo con una seconda porta difficile da
varcare, quella dell'adesione a quel particolare stato, il "gusto" per quello stato, come
avevamo visto nell'esempio che coloro che si abbuffavano di cibi saporiti. L'unica maniera
di uscire è quella di riuscire a sperimentare che questa "intossicazione" che menzionava
Scheler ha odore, sapore e colore da "sostanza tossica", per poterla così rigettare. E per
questo è necessario comprendere che il veleno colpisce se stessi e non quel nemico
interiorizzato. Perché in colui che è risentito, mentre cova il suo risentimento, c'è un certo
morboso piacere nel sentire che si fa danno ai supposti colpevoli delle sue frustrazioni e
dei suoi dispiaceri, senza rendersi conto di star lanciardo un boomerang nel vuoto.
L'acido del rancore non corrode quell'odiato nemico, ma l'interno di chi odia.
Il nichilismo spegne le speranze dello scettico ma non ferma i supposti colpevoli delle sue
frustrazioni.
Si tratta di comprendere che il risentimento è un atto di una persona contro se stessa che
genera direttamente o indirettamente sofferenza.
Infine, per quanto si evidenzi l'illogica del risentimento ed anche quando si capisca
la sofferenza interna che genera, rimane ancora una terza porta in questa trappola del
risentimento: la mancanza di volontà e di forza interna per uscirne.
Perché anche se si capisse che non esistono più vere ragioni, né motivazioni per restare
impantanati in quella trappola, se non c'è una forte luce che ci attragga verso la fine del
tunnel, non ci saranno neanche le forze per rompere con la seducente attrazione dell'
abbattimento. Per coloro che abbiano la risoluzione di uscire da quel pantano il
risentimento sarà solo un scoglio da superare; ma per coloro che desiderano rimanere lì,
continuerà ad essere il pretesto che giustifica il loro abbattimento di cui dare la colpa agli
altri.
Inevitabilmente l'uscita del risentimento e la ricerca di una trasformazione interna,
dipendono dalla decisione di ognuno. Ma, a sua volta, le decisioni che ognuno prende
potrebbero essere diverse se almeno per un istante si potesse sperimentare che è
possibile vivere in un altro modo. Per fortuna nella vita personale non è tanto difficile
arrivare a sperimentare alcuni momenti di pienezza, per quanto brevi; però in generale
vengono considerate mere parentesi nell’ambito della sofferenza quotidiana. Magari
bisognerebbe pensare che quei momenti eccezionali non sono nascosti in posti
inaccessibili ma a portata di mano di chiunque, nei vissuti quotidiani, mentre e non appena
si depurino questi vissuti da ogni risentimento. Allo stesso modo le società, quando tutto
sembra precipitare ed immergersi nel caos, per rendersi conto che la soluzione della crisi
non è il suicidio collettivo ma un salto qualitativo della specie umana, hanno bisogno a
volte di un segno, di una luce in fondo al tunnel, ed a volte devono anche ricordare che ci
sono stati momenti umanisti, momenti di convivenza e tolleranza in molte civiltà.
Le conseguenze sociali del risentimento
È chiaro che l'odio, il rancore, la discriminazione ed il rifiuto sistematico di
qualunque speranza di cambiamento, come prodotti del risentimento, non solamente
rendono avvilente la vita di chi lo soffre, ma generano anche violenza intorno a lui. Ma,
come dicevamo prima, non stiamo parlando di particolari patologie estreme di individui
eccezionali, ma del risentimento abituale e generalizzato che contamina, in misura
maggiore o minore, gran parte degli esseri umani. E’ proprio questa generalizzazione,
attraverso l'intersoggettività, che fa sì che si vada avvalorando l'illusione che tale stato è
logico e giustificato; "mal comune, mezzo gaudio". (in spagnolo il proverbio dice “mal de
muchos, consuelo de tontos”, letteralmente “male di molti, consolazione da tonti”; mi pare
che questo sia l’equivalente italiano; n.d.t.)
Data la generalizzazione di questo stato di disumanizzazione degli altri a livello sociale, la
conseguenza diretta è la violenza sociale di ogni tipo e la corsa agli armamenti in tutto il
mondo. Il fatto che si pretenda di spiegare con argomenti logici l'irrazionalità delle guerre e
che questo sia accettato da molti cittadini è un indicatore dell'irrazionalità collettiva.
A questo livello ci sarebbe da domandarsi se i "nobili predatori" di Nietzsche non siano
quelli che si stanno ergendo di nuovo a trionfatori, approfittando del risentimento della
"plebe" ed utilizzandola come carne di cannone per i loro mostruosi obiettivi. E ci sarebbe
da domandarsi allora se questa generalizzazione del risentimento, non sia in un certo
modo il "comportamento naturale" di un precario stadio evolutivo. Indubbiamente in quel
caso questo pietoso stato non sarebbe patrimonio di una classe sociale, né di una razza,
né di una religione, bensì di tutta la specie umana, attualmente infognata
nell'individualismo, nella mancanza di comunicazione, nell'ingiustizia e nella violenza.
Perché è preda del risentimento colui che fa esplodere una bomba in un centro
commerciale, così come lo è chi invade e mette a ferro e fuoco altre nazioni.
Perché è preda del risentimento chi rapina ed ammazza, come colui che manifesta
a favore della pena di morte.
E sono anche preda del risentimento milioni di egoisti, capaci di indignarsi e
reclamare giustizia (per se stessi) perché gli hanno rigato la macchina o perché il cane del
vicino ha fatto le sue cose sul marciapiede, mentre guardano in TV senza scomporsi le
notizie sui massacri e le miserie che avvengono in tutto il mondo. Perché il risentimento è
uno dei fattori che continua ad anestetizzare la sensibilità per l’umano e continua a far sì
che ognuno si chiuda nei suoi meschini interessi personali. E se qualche volta qualcuno
pretende di mettere in discussione quell’atteggiamento egoista, si trova contro gli
argomenti del risentimento che cercheranno di giustificarlo.
Quell'impossibilità di vedere il mondo e le altre persone in un modo nuovo.
Quell'impossibilità di vedere negli altri la stessa sensibilità umana che abbiamo visto a
volte in un essere caro. Quella negazione del futuro basata su esperienze passate
registrate male; molto ha a che fare con il veleno del risentimento.
Ma se almeno qualche volta si è riuscito a sentire l’umano negli altri, anche se
quell'esperienza fosse stata seppellita dalla memoria risentita, è possibile che, attraverso
la Riconciliazione, possa emergere un essere meraviglioso che cerca di superarsi.
E se qualche volta, almeno per un giorno, gli insiemi umani si sentissero come quello che
sono, fratelli in viaggio verso il futuro in questo remoto pianeta, potrebbe diventare
evidente che questa è la vera realtà e che il resto è stato solo un incubo.
La Riconciliazione
Alcuni richiami
Allo stesso modo che per il risentimento sono varie le interpretazioni che si fanno
sulla riconciliazione. Tuttavia, nel caso del risentimento, le variabili erano riferite più che
altro all'ampiezza del termine poiché per alcuni era semplicemente un sinonimo di rancore
o un desiderio di vendetta represso mentre per altri si trattava di un sentimento più
generalizzato che superava la soggettività per trasformarsi in fenomeno sociale. In queste
riflessioni che stiamo facendo, adottiamo quest’ultimo criterio più ampio.
Nel caso della riconciliazione troviamo punti di vista molto differenti. Ci sono quelli che
parlano della riconciliazione di ciascuno con se stesso o davanti a Dio, quelli che parlano
della riconciliazione come sinonimo di perdono di chi ci ha offeso, e quelli che parlano
della riconciliazione come atteggiamento reciproco tra nemici per tornare a convivere
pacificamente.
Nella religione cattolica c’è il cosiddetto "Sacramento della Riconciliazione” che consiste
nella possibilità che siano perdonati i peccati di ognuno attraverso la potestà di Gesù
Cristo trasmessa agli apostoli e quindi ai sacerdoti. I passi di questa riconciliazione
implicano: un esame di coscienza, provare dolore i peccati commessi, proporsi la
correzione degli stessi, confessarli davanti ad un sacerdote ed infine compiere la
penitenza che questi imponga.
Naturalmente questa "intermediazione" sacerdotale per ottenere il perdono di Dio per i
peccati commessi si è prestata per secoli ad ogni tipo di situazioni pittoresche. Una di
esse era la possibilità di concedere indulgenze da parte della Chiesa in cambio di
contributi economici da parte dei peccatori. Già nel XVI secolo Lutero fu uno dei principali
nemici di questa pratica commerciale: "Mera dottrina umana predicano quelli che
affermano che appena suona la moneta che si getta nella scatola, l'anima esce volando"
(tesi 27). Lutero proponeva che fosse molto meglio destinare il denaro ad opere di carità,
prima di comprare indulgenze e contemporaneamente affermava che la vera contrizione
cercava la pena e non l'indulgenza.
Lasciando da parte le superficiali ed ingenue pratiche nelle quali è finito questo concetto di
riconciliazione quello che possiamo vedere è che, ad ogni modo, nella sua concezione di
base condiziona questa riconciliazione interna ad un gesto di pentimento davanti ad un
giudice esterno (l'intermediario sacerdotale o direttamente la propria immagine di Dio) ed
al compimento successivo di una punizione. Questo meccanismo di compensazioni è
sfociato in ogni sorta di flagellazioni per coloro che credevano che la sofferenza fosse una
via di contatto con il divino ed in ogni sorta di ipocrisie per coloro che rendevano conto
solo a Dio per le loro azioni o gli bastava pagare la multa agli intermediari.
E’ ovvio che per gli umanisti niente di tutto questo ha a che vedere con la vera
riconciliazione: né il sentimento di colpa, né la punizione, né il timore di Dio. Ed ancor
meno ne hanno le ipocrite giustificazioni di coloro che violentano sistematicamente gli altri
e di tanto si riposano un attimo per negoziare con Dio o i suoi intermediari un'indulgenza
che conceda loro "nuovi crediti" per continuare a violentare.
"Riconciliarsi internamente è proporsi di non passare per lo stesso cammino due
volte, ma disporsi a riparare doppiamente i danni prodotti." Silo, Punta de Vacas,
05/05/2007.
La vera riconciliazione interna, rispetto al danno causato ad altri, non può limitarsi a
supposte pene compensatorie concordate con qualche divinità (o con i suoi
rappresentanti) né ad un pentimento sospetto, più preoccupato del timore di Dio che del
danno causato al prossimo. Deve implicare necessariamente la comprensione
dell'umanità dell'altro. Da quella sguardo umanizzatore sorgerà la necessità di un'azione
coerente che tenda a riparare il danno causato.
Ci sono coloro che, a differenza degli esempi menzionati sopra, non si occupano
del tema dal punto di vista della riconciliazione con i propri errori, bensì rispetto ai danni
che altri ci hanno causati. In molti casi si mischia il concetto di riconciliazione con quello
del perdono e si pensa quasi sempre che, affinché ci sia riconciliazione, questa debba
essere reciproca tra le parti in conflitto. Nel caso della riconciliazione tra insiemi umani,
normalmente si condiziona la stessa al gesto di buona volontà da parte dell'altra parte o
ad azioni dei governi che tendano a ristabilire condizioni di convivenza per entrambi le
parti.
Ovviamente i temi più trattati, relativi al ruolo della riconciliazione, sono le situazioni di
conflitto generate dalle guerre tra nazioni, dalle guerre civili, dalle violazioni dei diritti
umani e dalla violenza sociale in generale.
In un seminario internazionale tenutosi nel giugno del 2007 in Bolivia sul ruolo dei
parlamenti nel promuovere la riconciliazione, la deputata boliviana del MAS (movimento al
socialismo, il partito du Evo Morales, n.d.t.) Elizabeth Salguero Carrillo, diceva "...
sebbene u modi di promuovere la riconciliazione siano differenti in ogni paese, hanno in
comune il fatto di non dare per scontato il perdono ed ancor meno l’oblio. Si tratta di
analizzare ed investigare il fondo del problema, perché accadde quella repressione, quali
sono le vere cause della povertà e dell'ingiustizia. Inoltre il percorso della democrazia
deve riconoscere la diversità includente ed equa... "; ".... non è possibile pensare alla
riconciliazione se coloro che hanno violato i diritti umani non sono stati nemmeno
giudicati... ".
Da parte sua Agustín Morán (La Heine) scrive in un lavoro sulla riconciliazione: "La forza
della riconciliazione non deriva solo dalla memoria, dalla sincera volontà di pace dei
contendenti e dalla generosità di tutte le vittime. Deriva, soprattutto, dal ristabilimento dei
diritti e della giustizia la cui violazione ha generato il conflitto e la correlata catena di
violenza. La riconciliazione, grazie al ristabilimento della giustizia, sarà reciproca o non
sarà."
A sua volta, a Bogotà, all'Università de Los Andes, è stato realizzato un studio delle
situazioni post-conflitto, nella stessa Colombia ed anche in Salvador, Argentina e
Sudafrica. Tra le conclusioni possiamo citare le seguenti: "Il perdono è uno delle risposte
possibili della vittima di fronte al danno subito. È un processo psicologico intrapersonale
che, come tale, non equivale a condonare la pena per il crimine - questa decisione è
eminentemente giuridica e stabilita dai governi. Per perdonare la vittima deve essere
disposta e non essere forzata a farlo, conoscere la verità su quanto è successo e sentire
che, in qualche modo, si è fatta giustizia e non si ripeteranno i fatti. Perdonare è più che
accettare, tollerare o scusare in forma incondizionata un'ingiustizia perpetrata."
E, riprendendo quello che dice la Chiesa Cattolica sulla riconciliazione, ma non più
riferendosi alla riconciliazione interna davanti a Dio ma tra insiemi umani, troviamo le più
diverse versioni, quante sono le versioni del cristianesimo. A titolo d’esempio possiamo
citare da un lato quella di un teologo della liberazione, come Jon Sobrino, e dall’altra
quella di uno dei suoi maggiori critici, Joseph Ratzinger (oggi Benedetto XVI).
Jon Sobrino, riferendosi in particolare alla situazione del Salvador, paese nel quale egli si
salvò dal massacro di un gruppo di gesuiti durante la guerra civile, afferma che il cammino
della riconciliazione consta di tre passi: verità, giustizia e perdono. Rispetto alla difficoltà di
arrivare alla verità, denuncia gli ostacoli che sorgono a partire dagli interessi dei carnefici,
dei potenti e dei mezzi di comunicazione chi pretendono che ci siano solamente oblio e
perdono. Rispetto alla giustizia, dice che bisogna difendere la vita del povero, che si deve
stare dalla sua parte; non si tratterebbe allora di un’imparzialità neutrale tra le parti ma di
una posizione di parte a favore dell'oppresso. Rispetto al perdono lo definisce come un
"oblio di se stessi", come un modo di evitare l'egocentrismo che fa che ognuno si
preoccupi solamente dei propri diritti; il perdono implicherebbe, in questo caso, cedere in
un certo modo un diritto.
Da parte sua Ratzinger, che critica Sobrino, tra le altre cose, per il fatto di presentare un
profilo troppo umano di Gesù Cristo, ha utilizzato la parola riconciliazione in un’infinità di
occasioni. Già durante il papato di Giovanni Paolo II, quando Ratzinger era a capo della
Congregazione per la Dottrina della Fede (nome moderno del Sant’Uffizio o Inquisizione)
promuoveva il dialogo tra i vertici religiosi, prima con i protestanti del cristianesimo, poi con
gli ebrei; e, più recentemente, dopo di alcuni "errori diplomatici", si è tentato
l'avvicinamento con i vertici dell'Islam. Si suppone che attraverso questo lavoro
diplomatico, si potrebbe arrivare alla riconciliazione di almeno la metà dell'umanità,
abbracciata dalle tre religioni monoteistiche che discendono dal patriarca Abramo. E come
conseguenza di questa riconciliazione tra i vertici religiosi, ci sarebbe riconciliazione in tutti
gli altri campi.
Su un altro piano, nei documenti intitolati "Memoria e Riconciliazione" e scritti per il
Giubileo del 2000 dalla Commissione Teologica presieduta da Ratzinger, si pretende di
chiedere perdono per le atrocità commesse nel passato dalla Chiesa (Inquisizione,
evangelizzazione durante la conquista dell'America, ecc..). In questi documenti zeppi di
eufemism, si definiscono tali atrocità come "l'utilizzo di mezzi dubbiosi per ottenere fini
buoni". È evidente che questo è un modo puramente formale di affrontare la
riconciliazione.
Naturalmente anche il trattamento superficiale ed asettico del tema della riconciliazione fa
parte della diplomazia ipocrita dei politici di questa epoca che, mentre assoggettano la vita
ed i diritti delle popolazioni in tutto il mondo, fanno continui e ferventi appelli per la pace e
la giustizia.
Sembrerebbe che alcuni, sia nel personale come nel sociale, concepiscano la
riconciliazione come una specie di "punto e a capo" che permette loro di passare varie
volte per la stessa strada.
" Niente di buono si ottiene personalmente o socialmente con l’oblio o col perdono.
Né oblio né perdono! Perché la mente deve rimanere fresca ed attenta senza
dissimulazioni né falsificazioni…." “Non saremo noi a giudicare gli errori, nostri o altrui, a
questo fine ci saranno i risarcimenti umani e la giustizia umana e sarà la statura dei tempi
quella che eserciterà il suo dominio, perché io non voglio giudicarmi né giudicare... voglio
comprendere in profondità per pulire la mia mente da ogni risentimento." Silo, Punta de
Vacas, 05/05/2007.
Siamo d’accordo con chi dice che la riconciliazione richiede una buona memoria di
quello che è accaduto e non ammette né la falsificazione, né l’oblio. Ma c'è un punto nel
quale poche volte ci troviamo d’accordo ed è quello di non condizionare la propria
predisposizione alla riconciliazione alle azioni dell'altro nello stesso senso. Questo punto
unilaterale o non-reciproco della riconciliazione, come lo formula Silo, non è quello che
siamo soliti ascoltare da parte di coloro che sicuramente hanno buone ragioni per sentirsi
danneggiati. Forse perché non si riesce a comprendere che una cosa è chiedere giustizia,
chiedere verità e lavorare per esse, ed un'altra cosa è conservare dentro il veleno del
risentimento.
L’inquadramento corretto della Riconciliazione
Un errore molto comune in coloro che hanno resistenze a cercare una
riconciliazione interna rispetto a situazioni nelle quali gli è stato fatto qualche danno è
quello di credere che tale riconciliazione sarebbe una specie di favore o concessione
verso qualcuno che non si merita tale gesto, cioè la persona che ha causato il danno. È
come se si trattasse di un nemico interno che abbiamo condannato ad essere risentito a
vita, e non c’è amnistia alcuna che preveda di cancellare un così grande crimine. Qui
l’errore è doppio. In primo luogo non si tratta di non applicare la giustizia umana (se il
danno fosse tale da meritare il suo intervento); e se si trattasse di un'offesa personale,
neanche si tratta necessariamente di diventare amici con chi ci ha offeso o umiliato,
(potrebbe essere o non essere, ma non è questo il punto, perché potrebbe perfino trattarsi
di qualcuno che non vedremo mai più). Bisogna comprendere che la riconciliazione è un
atto di trasformazione interna. Un altro errore è credere che se manteniamo ed
alimentiamo il nostro risentimento infliggeremo il suo meritato castigo a chi ci ha offeso,
quando in realtà ci stiamo autocastigando avvelenandoci dall'interno.
La riconciliazione non implica di dimenticare il passato ma di evitare che il passato
ci si imponga come se fosse il presente, oscurando e condizionando il futuro.
È soprattutto un atto positivo verso se stessi, aldilà che possa avere anche
conseguenze per altri.
Il risentito che cerca di riconciliarsi non dovrebbe chiedersi se quell'atto significa
"farsi amico con" ma se significa "curarsi da".
Se effettivamente quel nemico che una volta ci ha fatto male avesse voluto
danneggiarci in eterno, allora potremmo dire che ha avuto un grande successo nel suo
compito poiché ci ha iniettato il virus del risentimento, che ci farà autoflagellare per il resto
dei nostri giorni!
Questi nemici, benché abbiano la loro esistenza reale come persone in qualche
tempo e qualche spazio, nel quotidiano hanno illusoria esistenza nella nostra mente e nel
nostro cuore danneggiati. Se tali nemici interni potessero avere voce propria, (invece di
suonare come un disco graffiato nel palxoscenico interno come marionette del nostro
rancore) sicuramente sorriderebbero trionfanti vedendoci infognati nel risentimento.
Daremo loro il gusto di vederci arresi o ci alzeremo in piedi grazie all’antidoto della
riconciliazione?
Sicuramente sceglieremo di alzarci in piedi. Solo che probabilmente, man mano che
cominciamo a riconciliarci, i nostri terribili nemici interni non si inginocchieranno per
chiederci perdono come sarebbe nostro desiderio, ma cominceranno a sfumarsi e a
svanire come le ombre davanti alla luce. E le persone reali, rappresentate dai nostri
fantasmi interni del risentimento, continueranno con la loro vita, con i loro fallimenti e le
loro illusioni, mentre noi inizieremo con freschezza una vita nuova. Chiaro che anche essi
potrebbero riconciliarsi con le loro azioni ed i loro rancori ma questo riguarda loro e non è
nostra responsabilità.
Che svaniscano i fantasmi interni associati agli avvenimenti del passato non significa che
cancelliamo della nostra memoria l’accaduto ma che collochiamo ogni ricordo al suo posto
e che arricchiamo la nostra memoria con un'informazione più completa ed equilibrata.
Perché sebbene in principio quelle cose tanto terribili che mi hanno fatto sono esistite,
forse non sono state così tante le volte che mi sono successe. Per quanti minuti nella mia
vita ho subito danno e per quanti sono stato trattato bene o almeno in modo neutro?
Perché solamente la campana negativa continua a vibrare? E quante volte ho sentito che
mi hanno defraudato solo perché non hanno soddisfatto le mie speranze? E quante volte
mi sono sentito offeso da qualcuno che semplicemente non conosceva una mia particolare
irritabilità su certi temi? E quante volte ho causato io ad altri danni equivalenti?
D'altra parte, quelle persone che mi hanno fatto male sono esseri maligni che si dedicano
a causare danno 24 ore al giorno? O per caso sono esseri con debolezze e forze, con
frustrazioni e risentimenti, con paure e suscettibilità, con affetti e rancori, come me, come
altri?
Riconciliarsi non significa dimenticare, significa ricordare meglio, ma ricordare tutto.
Perché coloro che hanno una visione negativa del mondo e della loro vita, se realmente
mettessero sul piatto della bilancia fatti concreti, le loro sventure e le loro soddisfazioni, si
sorprenderebbero di scoprire che quello che ha fatto inclinare la bilancia verso il negativo,
è stata la tremenda zavorra del risentimento.
Riconciliarsi non significa chiudere gli occhi per non vedere il negativo del presente ma
significa aprirli di più, per vedere anche il positivo e non tingere la realtà con i pregiudizi.
Significa ritrovare il sapore di ogni piccolo vissuto quotidiano e poterselo godere,
togliendogli l'amaro condimento col quale lo ha imbevuto un risentimento diffuso e
generalizzato.
Riconciliarsi non significa avere un sguardo ingenuo sul futuro, significa semplicemente
riconoscere che non lo conosciamo ancora perché non è arrivato ed è ugualmente
possibile che arrivi con vissuti negativi come positivi. E significa comprendere che
predisporsi a un futuro negativo riuscirà solo a rendere amaro il presente, mentre
predisporsi a che sia positivo ci farà sentire come un bambino alla vigilia del suo
compleanno, quando si divertirà con i suoi nuovi giocattoli.
L’inquadramento della riconciliazione sociale
Abbiamo visto già fino a che punto la sommatoria dei comportamenti individuali
legati al risentimento possa tingere il comportamento di una società, potenziando il
rancore, la discriminazione, l'individualismo, l'indifferenza e la violenza di ogni tipo.
Tuttavia non potremmo pretendere che una società cambi aspettando che ognuno degli
individui che la compongono si riconcili e disintossichi, come se si trattasse di una terapia
individuale.
E’ chiaro che, al di là di quello che succeda in una società, ognuno si dovrebbe occupare
dei propri risentimenti e fare il suo sforzo di riconciliazione per diminuire la contraddizione
e la sofferenza. Ma sarà anche necessario realizzare questo sforzo a livello sociale se
vogliamo farla finita col circolo vizioso della violenza e per fare questo sarà necessario far
diventare la riconciliazione un nuovo modello collettivo.
Da un lato, se si volesse incoraggiare una campagna che promuova la riconciliazione
individuale (come si promuove "la vita sana" o "il comportamento solidale") non dovremmo
cadere nell'innocua retorica dalla morale esterna ma bisognerebbe cercare la
comprensione profonda del fenomeno, affinché ognuno possa collocare la necessità di
riconciliazione nel piano profondo del senso della sua vita e non nell'esteriorità del
"sembrare buono per lo sguardo degli altri". Se si riuscisse a fare questo, anche
continuando a parlare di cambiamenti del comportamento individuale, sicuramente
comincerebbero ad esserci conseguenze a livello sociale, grazie alla rottura di alcuni anelli
nella catena della violenza e della frammentazione.
D'altra parte, se si volesse promuovere la riconciliazione tra settori sociali, etnie, razze o
nazioni, sicuramente che non saranno sufficienti sterili (ed a volte ipocriti) appelli alla
riconciliazione ed alla pace da parte dei vertici politici o religiosi, ma bisognerà lavorare
fortemente a smontare l'impalcatura sulla quale si basa il risentimento collettivo. Il
risentimento collettivo non è la semplice somma di risentimenti individuali ma è relazionato
con sistemi di valori sociali che vengono dichiarati verità assolute, con la memoria
collettiva e con la visione collettiva del mondo.
Una società che promuove l'individualismo e la competizione selvaggia, nella quale chi
arriva per primo è il gran vincitore e quello che arriva secondo è il primo dei falliti,
predispone a vedere il prossimo come un rivale ed a volte come un nemico. Sentirsi un
perdente, perché così propongono i valori sociali, potenzia il risentimento e la frustrazione.
E sebbene sia chiaro che ognuno si deve fare carico di quello che sente e non dare la
colpa agli altri, è evidente che la difficoltà è più grande sotto il bombardamento
permanente in senso contrario da parte dei modelli sociali.
Una società che fomenta il consumismo e dà prestigio all’ascesa sociale non solo ha
nefaste conseguenze sulla distribuzione diseguale e iniqua della ricchezza (altro fattore
che alimenta il risentimento) ma anche frammenta e divide culturalmente, generando
discriminazione in entrambi i sensi. Quando milioni di persone sono bombardate dalla
pubblicità di una carta di credito che mostra bei fusti e belle signore che se la godono su
una spiaggia tropicale, una lussuosa automobile ed un hotel a cinque stelle. Quando
succede non solamente ci sono alcune migliaia di imbecilli che spendono fortune affinché
la loro vita assomigli a quella pubblicità; ci sono anche altre migliaia che si indebitano e
lavorano dall'alba al tramonto per accumulare il denaro che permetta loro di "essere
speciali per alcuni giorni", e per dopo potere mostrare il video delle vacanze agli amici
invidiosi. E ci sono anche milioni di frustrati che si riempono di risentimento e complessi
perché non hanno potuto realizzare un desiderio inventato dalla pubblicità.
Ci sono molti governi che, mentre milioni di persone muoiono per mancanza di cure
medica, si sono preoccupati solamente di fare leggi che obbligano la aziende del tabacco
a specificare che fumare fa male alla salute. Ma già che si sono occupati della regolazione
delle pubblicità ai prodotti nocivi, bisognerebbe domandarsi se non dovrebbero imporre
alle pubblicità consumistiche di ogni tipo che includano il seguente chiarimento:
"l'esacerbazione del desiderio incrementa la stupidità di chi lo persegue ed il risentimento
e la frustrazione di chi si rassegna a non poterlo compiere."
Dicevamo prima che, oltre al sistema di valori che bisognerebbe smontare, si dovrebbe
rivedere anche la configurazione della memoria collettiva. Esistono molti pregiudizi e
risentimenti che si trasmettono di generazione in generazione riguardo a un certo paese,
una etnia, razza o classe sociale, e che pretendono di giustificarsi con conflitti del passato
lontano o recente. Un meccanismo analogo a quello che vediamo quando analizziamo il
risentimento individuale, ma in questo caso collettivo, è una specie di memoria sociale che
si trasmette in forma verbale o scritta o attraverso i mezzi di comunicazione. In questo
caso i risentimenti individuali si canalizzano su un capro espiatorio, si retroalimentano
socialmente e vengono convalidati da una sedicente "logica obiettiva" che suppone che la
memoria di tutti sia memoria vera. Ci sono innumerabili casi nei quali questo tipo di
risentimento sociale è stato coltivato ed esacerbato da leader sociali, religiosi o politici che
hanno portato i loro popoli alla guerra, usandoli come carne di cannone per i loro interessi.
Ma anche i popoli hanno la loro responsbilità nel cadere nel risentimento e nella violenza.
Come nel caso del risentimento individuale non si tratta di manipolare la memoria,
riguardo ai fatti concreti che hanno provocato frizioni e conflitto tra le parti. Si tratta di
completare ed equilibrare la memoria, toglierli il taglio risentito, incominciando a conoscere
integralmente la "parte opposta" nelle sue aspirazioni, nelle sue virtù, nelle sue frustrazioni
e nei suoi risentimenti. Si tratta di mettere i conflitti del passato in un contesto, riconoscere
anche gli errori e le debolezze della "propria parte", approfondire la memoria, superando la
semplificazione data dai pregiudizi e dagli slogans.
E, come abbiamo già visto, non si tratta né di oblio né di perdono, né si cerca di vedere
buono ciò che è stato cattivo. Si tratta di curarsi dal risentimento, perché un popolo
risentito è un popolo malato e la follia collettiva porta sempre alla catastrofe e alla
sofferenza.
È stato uso comune e politica di stato di molti governi quella di diffondere una versione
distorta della storia come metodo per fomentare il nazionalismo. Non solo hanno messo i
loro personaggi su piedistalli immacolati, ne hanno mitizzato le epopee nel migliore stile
hollywoodiano, ma anche hanno demonizzato gli avversari, come modo di dare coesione
al popolo. Non hanno trovato nulla di meglio che avere un nemico comune per unire una
nazione. Stiamo parlando della "storia ufficiale", quella che arriva alla maggioranza, quella
su cui si batte la grancassa in permanenza. Spesso abbiamo un po’ di revisionismo storico
(quando non mettono in galera lo storiografo revisionista come traditore della patria) ma
molte volte tale revisionismo si è dedicato più a demistificare i propri eroi che a rivendicare
supposti cattivi altrui. A volte i risultati del revisionismo sono rimasti nell’ombra delle
versioni apocrife, perché la censura gli ha sbarrato la strada verso la diffusione di massa e
l'educazione ufficiale, ed altre volte i revisionisti sono stati giustamente squalificati per aver
dato versioni manipolate della storia, anche se contrarie alle versioni ufficiali.
Come dicevamo prima la "logica del risentimento” nell'individuo consisteva in una pretesa
giustificazione in base ad esperienze reali, ma chiusa ad altri dati ed altre esperienze della
realtà. Spesso succede la stessa cosa con la storia. Le cronache su fatti reali ordinati per
data, come le statistiche, si usano per portare a conclusioni false basate su mezze verità.
Come dice Silo, in "Discussioni Storiologiche", da Erodoto in poi gli storiografi hanno
presentato i fatti storici con l'interesse di far emergere quello che più si adattava alle loro
intenzioni precedenti alla ricerca, selezione ed organizzazione dell'informazione ottenuta.
Lo sviluppo di una vera scienza come la Storiologia a cui Silo fa riferimento nell’opera
citata richiederebbe un faticoso lavoro che contempli, oltre all'informazione sui fatti, la
soggettività dello storiografo e dei lettori, condizionati a loro volta dalla prospettiva
dell'epoca dalla quale si osserva al passato. Ma al di là del tempo e del lavoro che tale
compito potesse prendere, almeno si potrebbe cominciare a lavorare per arrivare ad una
visione riconciliatrice dei fatti storici.
Un vero impegno dei governi verso la riconciliazione e la pace mondiale dovrebbe
comprendere una revisione delle versioni parziali e tendenziose della storia e l’impegno ad
educare il popolo in base alla verità completa e contestualizzata. E tale impegno avrà
successo quando i popoli cominceranno a pretendere dai loro governi che li educhino con
la verità e che smettano di raccontargli favole e telenovelas.
Quando qualche popolo si stancherà di soffrire per l'intossicazione del suo risentimento, si
potrà mettere in moto la "ribellione dei saggi ignoranti", quelli che, ancora senza sapere
tutta la verità, sapranno che gli si stanno raccontando menzogne e non vorranno
continuare ad essere manipolati. Ma per fare ciò sarà necessario che i popoli comincino a
rifiutare i loro stessi sentimenti negativi, come chi respinge una sostanza velenosa.
Abbiamo detto prima che tra i fattori che potenziavano il risentimento sociale
c’erano i sistemi di valori individualisti, la memoria collettiva frammentata e la visione del
mondo collettiva. La memoria collettiva ha avuto sempre una forte influenza sulla visione
del mondo, soprattutto prima dello sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa. Una
volta la visione del mondo della maggioranza delle persone si limitava a quello che
vedevano giornalmente nel loro villaggio ed al massimo agli aneddoti raccontati da
qualche viaggiatore; rispetto ai fatti del passato, la loro visione era basata su racconti degli
anziani, leggende, miti e la narrazione confusa di alcuni fatti storici. Ma nell'epoca attuale,
la maggior parte dell'informazione che riceve la gente ogni giorno proviene dai mezzi di
comunicazione.
Ovviamente ogni individuo continua ad avere le sue esperienze personali che possono
andare un po' oltre la sua città, a seconda di quanto abbia potuto viaggiare. Naturalmente
ogni individuo continua ad avere a scuola qualche lezione di storia (anche se di parte e
ristretta) di cui dopo in buona parte si dimenticherà. Ma ogni individuo oggi, oltre alle sue
esperienze personali, oltre alla sua limitata visione della storia, oggi si sente in relazione
con tutto il mondo attraverso i mezzi di comunicazione.
Oggigiorno la visione collettiva del mondo è completamente influenzata dai mezzi di
comunicazione. Quello che cade sotto l’occhio delle telecamere esiste; il resto,
semplicemente non esiste. Quello che i media dicono che è accaduto, è accaduto, e così
come l’hanno fatto vedere; il resto dei fatti non sono mai accaduti o non sono rilevanti.
La scomparsa di una creatura può commuoverci…se i mezzi di comunicazione la
mettono in onda, altrimenti commuoverà solo i suoi parenti.
Un crimine che diventa pubblico può provocare manifestazioni di migliaia di persone
…se i media lo mandano in onda, altrimenti sarà un solo un capitolo in più della cronaca
giudiziaria.
Un esercito invasore può essere visto come un'orda di selvaggi assassini o come
un gruppo di coraggiosi eroi cinematografici, a seconda di come i media vogliano
presentare il tema.
Quando parliamo di quello che possono fare i media con la testa dalla gente e la
loro visione del mondo non stiamo parlando dei media in se stessi ma dei poteri che li
manovrano: il potere politico ed il potere economico. È curioso osservare quei paesi nei
quali il potere economico ed il potere politico non coincidono, perché le versioni della
realtà che presentano i media del governo sono completamente differenti da quelle
presentate dai media del potere economico. Non solamente perché varia la versione degli
stessi fatti ma perché si mettono a fuoco anche fatti differenti. E molti sostenitori del
governo guardano solo i media ufficiali e quelli dell’opposizione solamente i media privati,
così sembra che ogni fazione viva in un paese differente, il che aumenta la schizofrenia ed
il risentimento.
È evidente che attualmente molto del risentimento sociale e collettivo è in relazione con
quello che si trasmette e a cui si dà importanza nei mezzi di comunicazione. Come è pure
evidente che, se si mettesse l'intenzione nella riconciliazione delle società e dei popoli, i
mezzi di comunicazione di massa potrebbero trasformarsi in un formidabile strumento di
pace.
È molto importante il ruolo che ha l'industria cinematografica nella formazione della visione
collettiva del mondo; non è per caso che il maccarthismo in Usa abbia dedicato buona
parte dei suoi sforzi al controllo dell’ideologia di Hollywood. Lo spettatore sa che le storie
ed i personaggi sono finti ma la sua memoria registra come veri certi valori, contesti,
ambientazioni e classificazioni di buoni e cattivi. I belli ed intelligenti eroi rappresentano
sempre "i buoni"; sia essi che i loro alleati sono presentati nella loro dimensione umana
(amano la loro famiglia, sono amici leali, sono di buon umore e salvano la vita perfino ai
cani randagi) e pertanto le loro vite sono molto preziose. "I cattivi", invece, oltre a essere
brutti, stupidi ed avere una pessima mira nelle sparatorie, vengono presentati come
semplici macchine, come una specie di androidi, capaci di morire a dozzine senza che lo
spettatore si commuova perché le loro vite non sono tanto preziose come quelle dei
"buoni". Non hanno famiglia, né amici, né cani affezionati. A volte questi esseri
"infraumani" dei film sono stati indiani, a volte tedeschi o giapponesi, poi sovietici e
vietnamiti e più recentemente musulmani. E tutto questo lavaggio del cervello, per quanto
sembri piuttosto grottesco, con la maggioranza della popolazione funziona.
Quando, nella vita reale, muoiono persone dei "buoni" o di "razze rispettabili", appaiono
foto dei parenti che piangono ed ogni tipo di immagini e commenti che cercano valorizzare
la vita di quelle persone. Sono morti importanti. Ma quando muoiono centinaia di migliaia
di persone di fame in Africa o massacrati in Medio Oriente si tratta solo di un numero. E
nessuno si sorprende di questo modo differente di presentare le cose, perché Hollywood
ha già fatto la sua parte.
Quando nella vita reale un presidente dei "buoni" invia le sue truppe ad invadere altri paesi
massacrando la popolazione, ha l'appoggio di una parte del popolo che vede nel suo
esercito un'eroica avanguardia liberatrice, tipica dell’epopea cinematografica. E conta
anche sull'indifferenza di molti altri che non valutano come un fatto tanto grave il genocidio
di esseri tanto anonimi e tanto lontani. Hollywood ed i mezzi di comunicazione hanno fatto
la loro parte.
I mezzi di comunicazione di massa hanno contribuito molto alla formazione di una visione
collettiva del mondo risentita e discriminatoria. Così come hanno influenzato tutti gli aspetti
della soggettività umana. Ma nel caso che stiamo analizzando, in riferimento al
risentimento ed alla riconciliazione, sarà necessario che le popolazioni si vadano a poco a
poco rendendo conto che buona parte dell'intossicazione arriva per via mediatica e
comincino a fare il vuoto agli ipnotizzatori. E sarà necessario che qualche giorno, grazie
alla pressione della gente, si cominci a neutralizzare il controllo che hanno sui mezzi di
comunicazione tanto il potere economico quanto quello politico, per metterli al servizio
dell'umanizzazione e della riconciliazione sociale e non al servizio della disintegrazione,
dell'individualismo e dell'intolleranza.
Come iniziare il processo di riconciliazione
Tanto nell’ambito individuale che in quello sociale si sarà in condizioni di cominciare
a riconciliarsi quando ci si renda conto dalla sofferenza che genera l'intossicazione del
risentimento e la lunga catena di violenza e di contraddizione che provoca. Naturalmente
questa presa di coscienza non sarà possibile a partire dall’assopimento del nichilismo, né
dalla cecità dell'odio, bensì nella convulsa crisi che sta arrivando, davanti alla mancanza di
senso e di futuro individuale e sociale. Una crisi che è già cominciata e che continuerà ad
acuirsi.
Senza la forza che nasce da una grande necessità di cambiamento, conseguenza di una
crisi, non si potrà intraprendere il cammino verso la riconciliazione. E’ possibile che molte
persone che hanno sentito gli effetti della loro crisi personale possano cominciare
personalmente a percorrere quel cammino, ma non sarà un fenomeno sociale fino alla
presa di coscienza di grandi insiemi umani.
Tuttavia, quando aumenterà la crisi dei popoli, per fare in modo che in mezzo al caos si
riesca a scorgere come possibile uscita il cammino verso la riconciliazione, sarà
necessario che quel cammino sia ben segnalato. Sarà necessario che d'ora in poi tutti
quelli che comprendano questa necessità comincino a lavorare per segnalare l'accesso a
quel cammino.
Sul piano individuale ognuno dovrà cominciare a riconciliarsi con quelle esperienze del
passato nelle quali si è sentito offeso, tradito o violentato, o nelle quali ha sentito frustrate
le sue speranze. Ma questo non sarà sufficiente perché, come abbiamo già detto, il
risentimento è un veleno che contamina tutto e sebbene si possano trovare le sue radici in
determinati fatti del passato, normalmente succede che in seguito si siano andati tingendo
con lo stesso colore tutta una catena di esperienze fino a configurare una visione risentita
del mondo e della vita. Sarà allora necessario, oltre a chiudere le fessure attraverso cui
spirano gli oscuri venti del risentimento, togliere la polvere ad ognuno dei nostri vissuti che
sono stati insudiciati dalla sua influenza. Dopo di ciò, a poco a poco, ogni piccolo vissuto
passato e presente, tornerà a brillare di luce propria, ed il nostro futuro tornerà ad essere
luminoso.
Nel sociale sarà necessario comprendere fino a che punto il risentimento ci chiude e ci
avvolge in una catena di violenza. Bisognerà comprendere che non esistono paesi amici e
paesi nemici, razze superiori e razze inferiori, nazioni giustiziere e nazioni canaglia. Non
esistono gruppi sociali rispettabili e gruppi sociali detestabili, culture ammirabili e culture
denigrabili. In ogni caso quello che esiste sono atti umani unitivi ed atti umani
contraddittori, atti solidali ed atti meschini, comportamenti sublimi e comportamenti
perversi.
Bisognerà comprendere non solamente che la violenza genera violenza ma che inoltre la
passività di coloro che dicono di non essere aggressivi può trasformarsi nell'ipocrita
complicità di coloro che lasciano il lavoro sporco ad altri o nella meschina indifferenza
dell'individualismo. Bisognerà comprendere che solamente andare verso la Nonviolenza
Attiva ci permetterà di far cessare la violenza nel mondo. Ed a partire da quella
comprensione bisognerà cominciare ad esigere ai governi che facciano quello che devono
fare per iniziare il cammino della riconciliazione.
Che incominci il disarmo nucleare totale, da parte di tutte le nazioni che possiedono
quel tipo di armi.
Che le truppe invasore si ritirino immediatamente dai territori occupati e che si
riparino doppiamente i danni umani causati.
Che si riducano rapidamente i bilanci bellici e che si destinino quelle risorse alla
soluzione delle situazioni di estrema povertà nel mondo.
Che cessi di agire il terrorismo e coloro che lo fomentano o lo proteggono.
Che si riprenda il metodo del dialogo per risolvere i conflitti tra nazioni o tra le
fazioni di un stesso paese.
Sicuramente molti cittadini non si decideranno ad esigere dai loro governanti ciò
che intimamente considerano utopico. Penseranno che è più realistico far pressione sui
governanti solamente quando aumentano la benzina o le tasse. Penseranno che "fare la
cosa giusta" è appoggiare qualche ONG che spende alcuni centesimi per salvare la vita di
qualche denutrito, mentre i loro governi spendono fortune in armamenti che spazzano via
milioni di vite. Altri penseranno semplicemente che questo mondo è per pochi, che le cose
sono state e sempre saranno così, anche se non ci piace.
Allora abbiamo per i cittadini una cattiva notizia ed una buona!
La notizia cattiva è che dovranno assumersi la responsabilità della violenza
nel mondo.
Ed è una cattiva notizia, perché a partire da ora non potranno incolpare solamente i
potenti della sofferenza propria ed altrui.
La buona notizia è che dovranno assumersi la responsabilità della violenza nel
mondo.
Ed è una buona notizia, perché a partire da ora starà nelle loro mani farla finita con
la violenza.
E per farla finita con la violenza dovremo incominciare a percorrere il
cammino della riconciliazione, a partire dalla necessità di un profondo cambiamento delle
nostre vite.
Forse la stessa necessità che spinse una volta il primo ominide ad alzarsi ed a
poter guardare il cielo, affinché dopo si alzassero altri e infine tutti.
Forse la stessa necessità che fece sì che il primo uomo perdesse la paura del
fuoco, affinché dopo la perdessero altri e dopo tutti, fino ad arrivare a dominarlo.
Quella stessa necessità vive forse ancora nell'essere umano di oggi che si dibatte
nella rete della contraddizione, invischiato nel pantano del risentimento e della violenza. E
forse presto, salendo faticosamente per i gradini della riconciliazione, comincino ad
apparire alcuni e dopo molti e finalmente tutti, in un nuovo salto qualitativo che ci faccia
uscire dalla preistoria umana.