DONNE MIGRANTI
BEN…ESSERE E MAL…ESSERE: STATI A CONFRONTO
Il tema che mi accingo ad affrontare oggi gioca, come potete intuire dal titolo, su un doppio piano interpretativo: l’analisi delle condizioni di benessere e di malessere vissute specificatamente dalle donne migranti, confrontate con altre due tipologie di stati dell’essere: lo stare là (ovvero nel paese di origine) e lo stare qua (ovvero nel paese di accoglienza). Stati che, nella persona migrante rimangono indissolubili in quanto coesistono contemporaneamente, e che portano a considerare quello che il sociologo algerino Abdelmalek Sayad (Sayad, 1999) aveva definito “la doppia assenza: dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato”, che è il titolo della sua opera postuma.
PARTIRE DALLE DEFINIZIONI
Partire dalle definizioni può aiutarci a entrare in un contesto interpretativo comune, che incasella in binari prefissati significati situati, pur dando spazio a libere raffigurazioni semantiche. Partiamo considerando il termine “benessere”, spesso usato come sinonimo di “salute”. Il benessere è uno stato armonico di salute fisica, psichica e mentale: partendo da questa definizione, è evidente come considerarlo solo “assenza di malattia” sia riduttivo. Rovesciando la medaglia, possiamo facilmente dare una definizione di “malessere” semplicemente inserendo la particella negativa “non” prima della parola “armonico”. Tuttavia il termine “malessere” racchiude intrinsecamente un quid di natura imprecisabile e, quando correlato allo stato psichico e mentale, richiama un senso di inquietudine, di turbamento, di scontento, di infelicità.
BENESSERE E MALESSERE: QUAL E’ IL PROBLEMA?
“Ogni studio dei fenomeni migratori che dimentichi le condizioni d’origine degli immigrati si condanna ad offrire del fenomeno migratorio solo una visione nel contempo parziale ed etnocentrica: da una parte, come se la sua esistenza cominciasse nel momento in cui arriva… è l’immigrante – e lui solo – e non l’emigrante a essere preso in considerazione; dall’altra parte, la problematica esplicita ed implicita, è sempre quella dell’adattamento alla società di accoglienza.”
A. Sayad, “La doppia assenza”
Per comprendere il grado di benessere/malessere e le strategie che il soggetto mette in atto per fronteggiare i belli e brutti accadimenti della vita è opportuno ricostruire il suo percorso migratorio, la storia di vita individuale, indagare sui progetti e le aspettative attese, le esperienze vissute, i significati attribuiti. Il tutto alla luce anche della sua provenienza geoculturale, del momento storico, del contesto familiare.
La capacità di adattarsi a nuovi ambienti e situazioni, di gestire eventi, imprevisti, difficoltà, ma anche la percezione di “stare bene” o “stare male” dipendono da una serie di fattori oggettivi e soggettivi. Di fronte a uno stesso accadimento, due persone possono reagire in modi diversi, persino diametralmente opposti. Esistono soggetti che riescono brillantemente a mettere in atto la resilienza, ovvero quella capacità di far fronte in maniera positiva agli eventi traumatici, di riorganizzare efficacemente la propria vita, di ricostruirsi nonostante le difficoltà. Ed esistono soggetti che, al contrario, si lasciano travolgere dalle avversità, soccombendo a esse, vittimizzandosi e alienando la propria identità. Su tali processi influisce senz’altro il capitale umano del singolo, le sue precedenti esperienze di vita, e soprattutto la sua voglia di rimettersi in gioco e di essere padroni del proprio destino.
LA TRIPARTIZIONE TERMINOLOGICA DI MALATTIA
ILLNESS à E’ il vissuto, la malattia caricata di aspetti psicologici e rappresentazioni culturali, la “dimensione vernacolare della malattia”, così come la definiva Ivan Illich (ad es. l’attribuzione terapeutica della tisana della nonna )
DISEASE à La nomenclatura medica della patologia, la malattia che mi diagnostica il medico e che mi conferisce lo status di malato o di “portatore di…” (quella specifica patologia)
SICKNESS à Malattia derivata da comportamenti a rischio, da errati stili di vita, dallo status socio-economico, allo stress
“Il ruolo dell’antropologo medico è quello di occuparsi della narratività. E’ uno che testimonia e racconta quello che succede nei contesti ospedalieri o nella relazioni con i medici. Oppure è qualcuno che si occupa di ascoltare le narrazioni dei pazienti di origine straniera. Proprio perché l’ascolto della storia dei vissuti è la prima cosa che serve per conoscere il paziente e, al contempo, il suo poterla raccontare ha già una dimensione terapeutica.”
Francesco Spagna
Antropologo culturale, Università degli Studi di Padova
DISAGIO E STRATEGIE DI ADATTAMENTO
Le difficoltà di adattamento alla nuova realtà ospitante variano in rapporto a diversi fattori, oggettivi e soggettivi, ma in prima analisi a seconda del fatto se la donna emigra da sola o in seguito al ricongiungimento, il cui tempo di attesa è anch’esso influenzato da dinamiche di tipo geo-culturale. Le donne ricongiunte sembrano incontrare meno traumi rispetto a quelle che sono partite da sole, ma nella realtà spesso si trovano a vivere in un mondo del tutto separato, con rare occasioni di socializzazione e di apprendimento della nuova cultura. La lingua resta il primo degli ostacoli che alimentano l'isolamento, allontanano le relazioni sociali e impediscono, di fatto, l'accesso ai servizi. La conoscenza linguistica e l’apprendimento linguistico sono chiavi cruciali e strategiche per inserirsi meno problematicamente nel nuovo contesto, e spesso sono le donne appartenenti a determinate aree geo-culturali ad avere difficoltà nell’apprendimento dell’italiano.
Spesso le donne attivano un processo a pendolo (Tognetti Bordogna) fra il qui e il là, insostenibile dal punto di vista emotivo e psicologico. Questa tensione tra due poli può generare insicurezza, isolamento, crisi di pianto, depressione, astenia, attacchi di panico, disagio psichico e malattie psicosomatiche. Può subentrare anche un senso di colpa per non riuscire a condividere e a sentire come proprio il progetto migratorio del proprio partner/congiunto, una frattura della propria identità personale e sociale, un senso di inadeguatezza e conflittualità del proprio ruolo e della propria posizione nel mondo.
L’impatto legato al ricongiungimento può essere più o meno traumatico, in relazione all’età del soggetto ricongiunto, alle strategie comunicative adottate da chi decide il ricongiungimento (decisione “preparata” con anticipo, imposta o fatta con l’inganno “a fin di bene”), ai tempi in cui si prende coscienza di ciò che effettivamente sta succedendo, alla propria capacità di negoziazione tra i due universi socio-culturali.
Quando arriva, la donna si trova a dover affrontare quasi da sola (il marito è tutto il giorno al lavoro) i passaggi dell’ambientamento. Il grado di protezione, autonomia e libertà di cui beneficiava al suo paese di origine, in un ambiente a lei conosciuto e normativamente certo e scontato, vengono ora a mancare, non c’è più la sicurezza e il sostegno della rete familiare, deve provvedere da sola al nuovo ménage domestico, alla crescita e all’educazione dei figli, all’interpretazione della nuova realtà migratoria, senza adeguati strumenti interpretativi e sotto lo sguardo giudicante dei connazionali e degli stranieri (gli autoctoni). In molti casi, la donna ricongiunta ha rinunciato a uno status economico, simbolico, sociale riconosciuto nel proprio Paese, a una professione di grande soddisfazione o a una promettente carriera consentita dal suo titolo di studio. Arrivando qui si trova in una posizione di svantaggio rispetto al coniuge (in quanto costretta a rimanere a casa ad accudire ai figli), ma anche rispetto al mercato produttivo (in quanto ha accesso a lavori umili e al di sotto del suo profilo scolastico-educativo) o rispetto ai connazionali che in patria possedevano uno status socio-economico inferiore al suo.
FATTORI CHE RENDONO DIFFICILE L’ADATTAMENTO ALLA NUOVA REALTA’ OSPITANTE
Tipologia del percorso migratorio (migrazione autonoma, imposta, a chiamata nominativa, ricongiungimento, tratta, motivi umanitari, rifugio politico)
Modalità del “viaggio” (confortevole, disagevole, a rischio)
Fattori oggettivi
Fattori soggettivi (età, provenienza geoculturale, capitale umano…)
Grado di conoscenza della lingua autoctona
Grado di separatezza in/out
Non condivisione del progetto migratorio del partner
Difficoltà di interpretare i nuovi modelli culturali e normativi
Incapacità di accettare il cambiamento di status
Difficoltà a ricomporre la propria identità personale e sociale
ONERI E ONORI DELLA DONNA IMMIGRATA
Assunzione di maggiori capacità decisionali
Responsabilità individuale (per sé e per i propri figli) nel suo rapporto con il mondo
Combinare un nuovo modo di essere e di fare con l’immagine di sé che la tradizione esige e richiede
Cambiamento del ruolo all’interno della coppia e della famiglia
Capacità di negoziazione, aggiustamenti, fronteggiamento delle ambivalenze e delle giustapposizioni
Restituzione di senso ai gesti, ai riti, e reinterpretazione di tradizioni e norme
LA SINDROME DI ULISSE
E’ l’insieme dei disturbi psicosomatici e somatici che colpiscono alcuni immigrati sottoposti a un martellante stress conseguente ai disagi e alle preoccupazioni dovuti alla precarietà della loro condizione e all’ansia di non farcela. Si manifesta con mal di testa, emicrania, dolori addominali o al torace, inappetenza, astenia, attacchi di panico, irritabilità, pianto, insonnia, depressione, propositi suicidi. Non si tratta di una semplice “nostalgia della terra lontana”, ma di una vera e propria sindrome che si inquadra nell’area della salute mentale. “L’immigrato – sostiene Edgar J. Serrano in un suo articolo online – interpreta spesso questi sintomi come frutto della cattiva sorte provocata dal malocchio che “qualcuno” gli ha fatto o dalla stregoneria. Altri interpretano la propria situazione come un castigo divino per aver infranto qualche norma sociale del gruppo di appartenenza come, per esempio, l’aver rifiutato di sposare la parente indicata dalla famiglia, oppure per aver offeso qualcuno”. Oltre alla Sindrome d’Ulisse, lo studioso dell’Università di Padova ricorda anche la “Sindrome Italia”, conosciuta prevalentemente nei Paesi dell’Est europeo, che colpisce i migranti di ritorno, quelli cioè che dopo una più o meno lunga permanenza in Italia decidono di rientrare definitivamente nel loro paese di origine. Tale sindrome racchiude un “complesso di malattie mentali invalidanti, con illusioni di persecuzioni, di maltrattamenti e ossessioni ricollegabili alle attività lavorative svolte in Italia”
SALUTE DISEGUALE
“La repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.”
Art. 32 della Costituzione italiana
La salute è un diritto fondamentale garantito dalla nostra Costituzione. Ciò nonostante, all’interno della società italiana esistono disuguaglianze in materia di salute che richiederebbero una maggiore attenzione e riflessione sulle determinanti sociali della salute nonché la messa in atto strategica di politiche di contrasto di tali disparità. Le donne immigrate non hanno la stessa capacità di accesso al sistema sanitario delle donne italiane. I motivi di questo sbilanciamento sono sia di carattere psicosociale (difficoltà di adattamento, crisi identitarie, mancanza di reti di supporto), sia di carattere materiale (scarse risorse economiche, segregazione lavorativa, mancanza di residenza, alloggio, documenti in regola), sia di carattere culturale (il corpo “nascosto” sia a sé che agli altri, resistenza a sottoporsi a visite mediche preventive, poca attenzione ai sintomi e ai segnali del corpo, scarsa partecipazione ai corsi pre-parto, diffidenza verso la “troppa” medicalizzazione). Su quest’ultimo punto va considerato il legame che intercorre tra la cultura di riferimento e l’espressione dei sintomi, dell’angoscia e dello stato di malessere e malattia. Tale legame può avere un forte impatto sulle disuguaglianze di salute in quanto influenza la richiesta di aiuto e di cure.
LA MATERNITA’ NEGATA
Le storie delle donne immigrate spesso racchiudono storie di maternità negata o procrastinata. Oltre al triste fenomeno della maternità transnazionale (che riguarda le donne che migrano a sole, lasciando i propri figli in patria, accuditi da famigliari o da altri care giver) vi è anche l’allontanamento del proprio progetto di maternità dovuto a problemi di stabilità familiare (precarietà lavorativa, economica, sociale), alla segregazione occupazionale (pensiamo alle badanti che coabitano con il proprio datore di lavoro e che pertanto non possono ricongiungere il proprio compagno), alla mancanza di una rete parentale che impedisce di poter conciliare serenamente famiglia e lavoro. Per molte coppie la rinuncia a mettere al mondo un figlio viene considerata solo temporaneamente ed è proprio attorno alla figura del figlio o dei figli che verranno che ruota il processo di radicamento migratorio nella terra di elezione. Per molte donne immigrate il mezzo utilizzato per il controllo della fertilità non è la contraccezione bensì l’interruzione volontaria della gravidanza (IVG). Il ricorso a tale pratica non è sempre dovuto a una scelta libera e personale della donna o a una scelta forzata dalle contingenze economiche o dalle difficoltà di sussistenza: in alcuni casi la rinuncia a un figlio è dovuta all’imposizione del coniuge o forme di coercizione provenienti dall’ambiente esterno. Un valido supporto medico- sociale-psicologico potrà riuscire a cogliere le vulnerabilità della donna che si vede, per vari motivi, costretta a ricorrere all’IVG , ma è doveroso giocare sulla prevenzione, puntando sulla corretta informazione e il corretto utilizzo dei metodi contraccettivi.
L’ACCESSO AI SERVIZI
La forte componente femminile nei flussi migratori condiziona l’accesso ai servizi sociali, sanitari, educativi, lavorativi e le risposte all’utenza messe in campo dagli enti pubblici e del privato sociale. Alcuni fenomeni sono tendenzialmente irreversibili; la “stanzializzazione” degli immigrati (che porta all’incremento dei ricongiungimenti familiari e della presenza di bambini e adolescenti di origine straniera nelle nostre scuole) e l’arrivo di numerose donne sole produce nuove domande e nuovi bisogni a cui è doveroso rispondere con interventi specifici e mirati e di cui bisogna tener conto per la costruzione di un efficace ed efficiente modello di welfare.
Eppure vi sono ancora difficoltà nell’accesso delle donne immigrate ai servizi territoriali, dovute a una serie di fattori: i tempi lunghi di apprendimento della lingua italiana e di socializzazione nel contesto di immigrazione, le difficoltà di accesso al mercato del lavoro, la solitudine e la scarsa autonomia di spostamento sul territorio. Il problema più rimarcato dalle donne immigrate con le quali si è affrontata tale carenza è la mancanza di conoscenza dei servizi disponibili sul territorio.
La dipendenza economica dal capofamiglia porta alcune donne immigrate a vivere in un mondo “a parte”. Secondo gli operatori dei servizi, la presenza e la mediazione del coniuge (anche dopo molti anni che la donna è arrivata in Italia) costituirebbe un ostacolo in quanto aumenterebbe la soggezione nei confronti dei servizi territoriali e influenzerebbe le risposte delle donne stesse, in genere più concise e sintetiche se è presente il marito (soprattutto su tematiche prettamente femminili quali il corpo della donna, la gravidanza, il parto).
PUNTARE SUL BENESSERE DELLA DONNA
Puntare sul benessere della donna immigrata attraverso buone pratiche di promozione e miglioramento della sua “salute globale”, in particolare riproduttiva, è senz’altro una scommessa vincente. La donna non solo svolge un ruolo centrale di produzione e riproduzione sociale, ma in molti casi si trova a essere l’unico care giver all’interno della famiglia: il suo benessere psicofisico comporta delle ricadute positive non solo sui propri figli e congiunti, ma sull’intera comunità migrante. Pensiamo al ruolo attivo di mediazione e di aggregazione che singole donne o associazioni femminili hanno nel tenere unita la comunità di riferimento attraverso l’organizzazione di eventi, feste, incontri religiosi. L’individuazione di queste buone pratiche deve necessariamente passare attraverso 1) la formazione degli operatori socio-sanitari, dei mediatori interculturali e di altre figure professionali di supporto (come ad esempio le mentor di comunità); 2) la costruzione e il rafforzamento di reti tra i diversi attori del pubblico e del privato sociale coinvolti; 3) incontri mirati che offrano strumenti di empowerment alle singole donne e alle comunità migranti, con una particolare focalizzazione sugli aspetti della salute dell’area materno-infantile. Fondamentale per la buona riuscita di ogni progetto è naturalmente l’individuazione di strategie adatte al raggiungimento del target selezionato attraverso strumenti e modalità di comunicazione (brochure e audiovisivi multilingua, attività di counseling nei consultori e nei punti nascita degli ospedali, etc.) atte a raggiungere anche donne che non fruiscono o fruiscono poco dei servizi socio-sanitari o che non hanno dimestichezza con la lingua autoctona e il linguaggio burocratese. L’obiettivo da prefiggersi è quello di portare più donne possibile a percepire la propria salute (diritto fondamentale inderogabile) come un bene prezioso da preservare e di considerare i servizi sanitari in base al loro diritto di fruizione, alla loro offerta e a un’assistenza di qualità. Gli ambiti su cui puntare prevalentemente sono la promozione del percorso nascita e post partum, l’informazione sulla contraccezione come prevenzione all’interruzione volontaria della gravidanza (IVG), la conoscenza sullo screening e la cura dei tumori femminili.
L’APPROCCIO CON L’UTENTE/PAZIENTE
Riconoscere l’umanità di chi ci sta di fronte significa riconoscere la legittimità della diversità e di visioni e punti di vista “altri”
Mettersi in una condizione di ascolto “attivo” e partecipativo senza esprimere giudizi di valore
Saper cogliere le vulnerabilità, interpretare i silenzi, le lacrime, i non detti e le frasi a metà
Saper consigliare lasciando alla donna la propria autonomia di scelta
Guidare la donna affinché sia lei stessa a intravedere le soluzioni più adeguate per lei (empowerment)
Dare informazioni corrette e accertarsi che queste siano state correttamente comprese
Non aver fretta di “incasellare” il caso: darsi il tempo sufficiente anche per (ri)conoscere i propri errori di valutazione
Lavorare in equipe per un approccio olistico e multidisciplinare
Trovare il tempo per una formazione specifica competente, costante e continuativa
Avere sempre la percezione di fare del proprio meglio eaccettare il limite che nessuno è onnipotente
BIBLIOGRAFIA
AVO- Associazione Volontari Ospedalieri Padova, “Donne migranti e maternità. Atti del Convegno Avo Padova, 14 marzo 2013”, Tecnicamista Studio, Montegrotto Terme, settembre 2013).
Hassan, Cadigia (2014), “Percorsi migratori femminili e pratiche di adattamento” in “Riflessioni di etnopsicologia”, Rivista di Psicodinamica criminale, Anno VII n. 4 dicembre 2014.
Kleinman, Arthur (1998), “The Illness Narratives: Suffering, Healing and the Human Condition”, Basic Books, New York.
Sayad, Abdelmadek (1999), “La double absence”, Paris, Edition du Seuil, 1999”, (“La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato”, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2002).
Serrano, Edgar J., “Sindrome d’Ulisse: La salute mentale degli immigrati e la latitanza delle istituzioni pubbliche”, articolo online su www.academia.edu/3529478/La_sindrome_dUlisse (ultima consultazione: 23 giugno 2015).
Spagna, Francesco (2014), “Antropologia medica ed Etnopsichiatria: metodologie e impegno civile” in “Riflessioni di etnopsicologia”, Rivista di Psicodinamica criminale, Anno VII n. 4 dicembre 2014.
Tognetti Bordogna, Mara (a.c.d.) (2004), “Ricongiungere la famiglia altrove. Strategie, percorsi, modelli e forme dei ricongiungimenti familiari, Franco Angeli, Milano.
Tognetti Bordogna, Mara (a c. d.) (2007), “Arrivare non basta. Complessità e fatica della migrazione”, FrancoAngeli, Milano.