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Giacomo Bertonati
GIOVANNI SITTONI
gennaio 2006
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for V.
And he repelled, a short tale to make,
Fell into a sadness, then into a fast,
Thence to a watch, thence into a weakness,
Thence to a lightness, and, by this declension,
Into the madness wherein now he raves,
And all we mourn for.
(Shakespeare, Hamlet, II, II)
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INTRODUZIONE
Questo scritto si propone di tracciare il profilo dell'attività di ricerca di
Giovanni Sittoni, attraverso lo studio delle sue numerose pubblicazioni,
mettendone in evidenza i risultati più significativi ed interessanti, con lo scopo
precipuo di mantenere vivo il ricordo di uno degli studiosi più importanti che
la nostra città ha visto in piena attività tra Ottocento e Novecento.
Presentare l'opera di Sittoni, significa da un lato analizzare direttamente i suoi
scritti, dall'altro mostrare anticipatamente l'atmosfera culturale dell'epoca nella
quale sono stati generati.
Antropologo, etnologo, linguista, poeta, Giovanni Sittoni, ebbe infatti come
maestro l'altrettanto famoso antropologo Giuseppe Sergi, alle cui teorie il
nostro, rimase fedele per tutta la vita.
L'ambito delle ricerche di Sittoni si inserisce in una definizione dei compiti
dell'antropologia così come essa era stata definita proprio dal Sergi: non uno
studio avente come obbiettivo principale la classificazione dell'umanità
fondata sulle differenze culturali, soprattutto linguistiche, delle diverse
popolazioni della terra, come molti studiosi dell'epoca andavano sviluppando,
ma una indagine scientifica che mette in primo piano la raccolta di dati
antropometrici come condizione necessaria e talvolta sufficiente per delineare
le caratteristiche delle diverse varietà umane. Come vedremo in seguito, non
sarà né lo studio della lingua, né quello della cultura a costituire il nucleo
attorno al quale devono ruotare i principi di classificazione antropologica,
bensì il contrario: sarà un gruppo particolare di dati antropometrici a essere la
chiave di volta per l'interpretazione delle diverse origini delle varietà umane.
E' questa una delle caratteristiche principali del metodo di indagine del Sergi,
assieme alla indicazione della diversa significatività delle caratteristiche
antropometriche, in relazione al tentativo di studiare l'origine delle specie
umane.
Ecco quindi che il nostro studio inizierà con una esposizione delle teorie del
Sergi che costituiscono appunto il fondamento dell'attività scientifica di
Giovanni Sittoni. Nella prima parte infatti vedremo in quale atmosfera
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culturale e con quali aspettative si formerà l'ambito stesso di ricerca
dell'antropologo spezzino: verranno esaminati i grandi movimenti migratori
delle principali stirpi e varietà umane che si sono alternate nella preistoria,
previa una esposizione dei principi fondamentali che hanno permesso al Sergi
di procedere nell'identificare e classificare queste antiche varietà umane
mettendone in evidenza i tratti fisici e psichici peculiari.
Tenteremo inoltre di delineare i rapporti che all'inizio del secolo, il nuovo
metodo antropologico del Sergi andava diffondendo anche in Italia, tra la
filosofia e le cosiddette scienze positive; mancante proprio di scientificità la
prima infatti viene indicata dal Sergi come una disciplina che vaga priva di
fondamento nel campo del soprasensibile perdendo ogni contatto con la
realtà empirica. La verificabilità diventa quindi anche per gli antropologi e
scienziati italiani l'unico criterio per poter differenziare quelle forme di
conoscenza positive e utili per il progresso umano da quelle che invece
continuano a brancolare nel buio di una conoscenza priva di matematicità. La
matematizzazione stessa del dato empirico, della realtà, permette al Sergi di
poter accomunare la filosofia spiritualista alla religione stessa: queste due
forme di pseudo-conoscenza agli occhi del positivista sono entrambe ricche di
fantasia e dannose per l'uomo quanto povere di dati reali e verificabili
mediante l'osservazione.
Vedremo inoltre i risultati dell'attività scientifica del Sergi applicati alla
penisola italiana stessa, un tentativo cioè di delineare la storia della
successione delle diverse varietà umane che hanno abitato l'Italia della
preistoria.
Nella seconda parte invece inizieremo ad entrare nello specifico dell'attività di
studio propria di Giovanni Sittoni. Si passerà anche in questo caso, dal
generale al particolare: dopo una breve questione di metodo, passeremo a
delineare la ricostruzione della diffusione delle antiche popolazioni della
terra, iniziando dall'intera zona del Mediterraneo, passando poi dall'Europa
all'Italia, per terminare con l'analisi specifica della stessa Liguria Orientale.
In particolare infatti le ricerche di Giovanni Sittoni hanno per oggetto le
antiche popolazioni dell'Italia; affronteremo l'interessante questione dei
rapporti tra le diverse etnie che hanno abitato la nostra penisola: Liguri e Siculi
da una parte, Eurasici, Celti ed Illirici dall'altra, ma anche l'arrivo e la
diffusione degli Etruschi e l'imposizione stessa, in seguito, della romanizzazione.
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Esamineremo nel dettaglio le serie craniche analizzate nel corso degli anni dal
Sittoni, tentando di mettere assieme i risultati di tutte le sue osservazioni al
fine di ripercorrere la genesi della ricostruzione fisica e psichica del tipo ligure
nel suo puro classicismo, al di la delle sottovarietà che incroci, mescolanze e
variazioni ambientali possono creare.
Sarà interessante nello stesso tempo la descrizione dei luoghi della costa
ligure tra Monterosso e Luni e dell'entroterra, dalla Val di Vara alla Val di
Magra; all'epoca del Sittoni infatti, tra Otto e Novecento le antiche comunità
vivevano ancora in uno stato quasi totale di isolamento, a causa della
mancanza di strade e commerci con il resto del territorio, e delle innovazioni
che la modernità aveva già iniziato a portare nelle più grandi città. Anche dal
punto di vista delle tradizioni e della mentalità, tutto in questi paesi è rimasto
fermo da secoli, mentre solo in alcune località, soprattutto dell'entroterra
possono avvertirsi i primi mutamenti che la cosiddetta civiltà sta iniziando a
far sentire.
Le ricerche di Sittoni dunque non hanno un interesse puramente scientifico;
nel passare in rassegna le differenti misurazioni degli indici cefalici non
vogliamo fare una raccolta di semplici ed inutili dati statistici, ma desideriamo,
con Sittoni stesso e grazie a Sittoni, tentare di gettare lo sguardo sulla storia,
sulle tradizioni, sulla psiche dei nostri predecessori e quindi su ciò che noi
stessi da sempre siamo.
L'antropologia di Sittoni è dunque nello stesso tempo, psicologia, archeologia,
storia, e come vedremo nell'ultima parte, linguistica e poesia: essa è quello
sguardo che abbraccia la vastità dell'orizzonte che da sempre siamo destinati
ad apprendere: il nostro essere storico. Un guardare che non parte da punti di
vista, ma che ha già visto preliminarmente ciò a cui siamo assegnati quale
tratto fondamentale del nostro essere intonati con la determinazione stessa
del fondamento.
Nella terza parte vedremo infine in quale maniera e con quali felici intuizioni
Giovanni Sittoni affronta lo studio del dialetto spezzino e mostreremo un altro
lato della singolare personalità del nostro antropologo: la poesia.
Sittoni infatti, oltre ad essere un infaticabile raccoglitore di dati scientifici ed
empirici amava anche dedicarsi alla composizione di poesie e canzoni in
dialetto spezzino, nelle quali tenta di descrivere delineandolo con semplici
quanto essenziali tratti un mondo che sta inevitabilmente fuggendo e
scomparendo, proprio coll'arrivo di quella civiltà che il Sittoni antropologo si
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augura possa recare un cambiamento volto al benessere, in tutte quelle
remote ed inaccessibili località della Liguria Orientale stessa.
Per quanto riguarda il dialetto spezzino, Sittoni è tra i primi ad individuarne
con precisione ed originalità di vedute le regole fonetiche e morfologiche in
relazione soprattutto alle altre lingue e dialetti delle zone confinanti, dalla
Provenza alla Toscana, studiando inoltre l'influenza che rispettivamente il
latino e le lingue arie importate dagli invasori Eurasici hanno esercitato sulla
nostra parlata. L'antropologo spezzino sostenitore dell'indipendenza del
dialetto della Spezia rispetto alle parlare di confine, riuscirà a rintracciare nel
dialetto stesso delle sopravvivenze prearie ancora vigenti nella fonetica, che si
esprimono attraverso regole eufoniche ben determinate, mostrando inoltre
quale grande importanza deve avere lo studio della toponomastica; i nomi dei
luoghi infatti, come già aveva insegnato Giuseppe Sergi, sono talvolta la più
antica testimonianza della lingua di popoli estinti di cui non esiste nessun
documento scritto; laddove cioè mancano le fonti storiche, proprio la
toponomastica può essere un buon ausilio assieme all'antropologia
craniometrica per ricostruire le vicende della diffusione di una varietà umana.
L'opera di Giovanni Sittoni si presenta dunque per più aspetti estremamente
interessante pur essendo per tutti questi anni passata in secondo piano
laddove non sia stata addirittura dimenticata da chi non sa osservare ed
appropriarsi correttamente del proprio passato e quindi neppure sentire
l'autentica prossimità con il proprio futuro.
Questo libro non vuole tracciare nessuna biografia di Giovanni Sittoni, ma
solo presentare al lettore il contenuto delle sue opere, nella convinzione che
ogni autore voglia appunto farsi riconoscere solo per ciò che ha scritto e
voluto lasciare al pubblico, non per fatti inerenti alla sua vita privata, che
possono talvolta destare una curiosità infruttuosa e fuorviante, ma che
riguardano appunto un altro tipo di pubblicazioni: le biografie storiche.
Per un breve orientamento necessario ai nostri scopi diremo solo che Sittoni
nacque alla Spezia nel 1870 ed ivi morì nel 1954.
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PARTE PRIMA
Giuseppe Sergi
La ricerca delle cause dà il carattere
scientifico all'osservazione dei fenomeni
G. Sergi
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Una questione di metodo: filosofia e zoologia
Indicare il metodo di ricerca seguito da Sergi e Sittoni significa per noi tentare
di mostrare i presupposti teorici che ne hanno guidato l'indagine scientifica,
rappresentando nello stesso tempo l'atmosfera culturale carica di aspettative
della ricerca antropologica su basi scientifiche tra Ottocento e Novecento.
Secondo il Sergi, l'antropologia in quanto scienza, deve condividere con le
altre forme del sapere la fiducia verso un progresso indefinito della
conoscenza, basato sulla matematizzazione della realtà, e sulla concezione
positivista che il fondamento ultimo della verità di un'asserzione e quindi
della verificabilità di ogni teoria debba sempre essere trovato nei fatti; è reale
appunto solo ciò che è empiricamente verificabile e deve essere rifiutato
come privo di fondamento tutto ciò che non soddisfa tali requisiti.
Nell'opera del 1904, intitolata L'evoluzione umana, individuale e sociale (1),
Sergi inizia col ribadire che nell'uomo è insito un desiderio, quasi un istinto di
conoscere l'origine di tutte le cose, e che questa brama innata ha il suo
altrettanto naturale esito quando l'uomo riesce a fornire una spiegazione dei
fatti che lo soddisfi. Gli uomini primitivi trovano però soddisfacenti,
accontentandosene, spiegazioni ingenue delle origini della realtà, e per
questo motivo, essi non progrediscono, mentre invece gli scienziati moderni,
consapevoli che nulla di reale è conosciuto attorno alla origini, progrediscono
nella conoscenza proprio in quanto si attengono al concetto della verificabilità
empirica delle teorie e attribuiscono al significato di spiegazione quello di
risalire nella catena delle conseguenze, matematicamente, dagli effetti alle
cause dei fenomeni.
Per quanto riguarda il problema della vita, la filosofia e la teologia possono
proprio essere definite primitive in quanto esse basano le loro spiegazioni su
forze occulte e misteriose che superano la capacità intellettiva umana,
facendo sì che anche l'uomo più colto si accontenti allo stesso modo del
primitivo: la filosofia del più fine trascendentale, quale era Kant, non si
discosta in nulla da quella del primitivo americano o australiano, quando
trattasi di interpretare l'essenza delle cose, il noumeno e il fenomeno sono
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come il principio vitale e le manifestazioni della vita. (2)
E altrettanto primitiva è anche l'interpretazione creazionistica della vita, così
come quella dell'origine dell'uomo quale tipo separato dagli altri tipi animali:
la ricerca dei filosofi, teologi e biologi è una vana ricerca.
Di fronte ai progressi della scienza nelle applicazioni pratiche quali chimica,
fisica e meccanica, la filosofia è rimasta primitiva, per quanto riguarda gli stessi
principi fondamentali dello studio del reale. Non si può nemmeno
rimproverare, come alcuni fanno, alla scienza che essa non sia ancora riuscita
a dare una spiegazione della vita, perché in verità l'uomo è inabile a
comprendere questi problemi, molti dei quali sono un prodotto delle
concezioni primitive, e quindi esistono solo per quelle, ma non hanno
nessuna consistenza reale (3); non si deve quindi cercare l'occulto poiché nel
fenomeno la materia o la sostanza si manifesta quel che è e come è costituita
(4).
La strada giusta invece nell'interpretare i fenomeni, è quella indicata dalle
teorie di Darwin, Lamarck e Spencer: Sergi e Sittoni faranno proprie le teorie
della selezione naturale e soprattutto quella lamarckiana delle influenze
esterne di esistenza come causa delle variazioni, e quella dell'uso e disuso
delle parti. L'uomo discende attraverso l'evoluzione dalla animalità inferiore,
ed è quindi anche secondo il Sergi superiore rispetto agli altri viventi, come si
può notare osservando scientificamente il tessuto nervoso in generale e
l'encefalo in particolare. Sulla base di questa distinzione, e in pieno
entusiasmo positivo-evoluzionistico i nostri autori giungono addirittura ad
affermare la superiorità di alcune varietà umane su altre, in particolare il Sergi
sostiene la superiorità degli Europei, che considera progrediti, rispetto ad altre
razze umane che invece sono rimaste primitive, pur essendo antiche quanto i
primi.
Sempre in quest'opera infatti il Sergi mette a fondamento della violenza della
spinta espansiva degli Europei, non solo leggi puramente sociologiche, bensì
leggi antropologiche. Trasponendo letteralmente ciò che si verifica nel regno
animale si può quindi sostenere che ciò che accade nelle specie animali
accade anche nelle varietà umane, esse hanno attitudini e istinti differenti, in
conformità alla propria natura, e nell'uomo europeo è insita la tendenza a
sopprimere, secondo Sergi le altre varietà umane.
Inoltre per quanto riguarda l'unione degli uomini nella famiglia e nella società,
Sergi si fa promotore di una sorta di riduzionismo biologico, affermando come
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non sia la volontà o la convenzione a spingere gli uomini ad unirsi in gruppi
via via più grandi, ma solamente i fatti biologici sono la causa che ha dato
origine al formarsi delle società primitive, le quali sono, in ultima analisi
unioni puramente sessuali, tenute assieme da legami di parentela; e così si
passa da concentrazioni di piccole tribù a unioni che coinvolgono un numero
sempre maggiore di individui, sino ad arrivare al sorgere delle prime piccole
nazioni, le quali vedranno unirsi assieme gruppi eterogenei di individui, ma
questo solo per soggiogazione ed assimilazione. Dove però prevale questo
aspetto violento di fusione tra individui, l'unione non potrà che essere
temporanea e provvisoria; e così per il Sergi l'ultima fase del processo di
formazione delle nazioni sarà rappresentato dalla federazione di individui:
non fusione brutale di elementi vari, ma coesione di unità libere (5).
La volontà quindi e il libero arbitrio sono concetti puramente illusori,
invenzioni della filosofia, in quanto l'uomo è determinato nelle sue azioni,
solo da condizioni puramente esteriori che sono per di più nella maggior
parte, casuali ed accidentali.
A questo punto è interessante proseguire nell'esposizione delle teorie del
Sergi per mostrare come egli veda nell'evoluzione umana un movimento
destinato a raggiungere uno stato finale di equilibrio in cui tutte le differenti
società umane troveranno una coesione tendente a realizzare un ideale di
pace e di benessere universale.
Da un lato infatti l'evoluzione sociale, secondo Sergi, può essere riferita ad
una singola nazione, e allora essa è temporanea, poiché possono alternarsi
periodi di involuzione e decadenza a periodi di evoluzione e benessere,
mentre dall'altro essa può essere riferita alla umanità nel suo complesso e
allora si potrà parlare in generale di un movimento di evoluzione continuo in
riferimento all'umanità, che è in particolare un movimento traslatorio da una
società ad un altra in una successione temporale. Le singole società
rappresentano quindi delle fasi temporanee di progresso evolutivo all'interno
del grande movimento che coinvolge invece l'umanità tutta intera, e alla fine,
in un momento indefinito di questo progresso, avrà luogo l'unione di tutte le
società positive e la scomparsa di quelle ostili all'evoluzione civile.
E proprio sul concetto di civiltà si concentra tutto il processo evolutivo delle
società umane; per civiltà il Sergi intende infatti uno sviluppo sociale basato
sul sentimento umano della pietà: non infatti l'ordinamento politico,
dell'esercito e della religione di uno stato, né le produzioni intellettuali e l'arte
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sono la misura della civiltà, ma esclusivamente è il sentimento di pietà,
assieme al rispetto della vita altrui che costituisce il metro di ogni progresso
evolutivo civile. E' infatti considerata barbarie e non civiltà quella società in
cui il valore della vita umana non sia pienamente riconosciuto e stimato; i
sentimenti bellicosi sono considerati dal Sergi come primitivi e selvaggi e
quindi, l'evoluzione umana avrà raggiunto il suo culmine, quando il valore
della vita umana sarà pienamente riconosciuto, e tutto il lavoro utile e tutte
le applicazioni scientifiche serviranno al benessere di tutti gli uomini [...]
quando si sarà estinto in ogni uomo e nelle società umane, il sentimento di
reazione che porta alla vendetta, al sangue e alla guerra. (6)
A proposito del concetto dell'evoluzione all'interno della società umana
cosi come viene sviluppato dal Sergi, è necessario precisare ulteriormente
come nel descrivere il meccanismo che regola le dinamiche sociali egli non si
abbandoni ad un puro e semplice riduzionismo; il nostro autore è pienamente
consapevole che le leggi darwiniane non sono di per se stesse sufficienti a
rendere ragione della evoluzione sociale nella sua totalità: esse sono
condizione necessaria ma non sufficiente per interpretarne il senso
complessivo.
Ecco quindi che il concetto iniziale di spiegazione viene ad arricchirsi di un
ulteriore significato, andando oltre il semplice ricondurre nei fenomeni, gli
effetti alle cause che li precedono nel tempo; ma entra in gioco un nuovo tipo
di causa, una causa finale che è una vera e propria forza motrice dello
sviluppo delle nazioni: la causalità di questa causa è il concetto di un ideale
dell'umanità. Questo concetto raggruppa sotto di sé diversi elementi che
contribuiscono a delinearlo, elementi che Sergi definisce a loro volta ideali;
uno di questi è chiamato ideale socialistico, il quale non è nient'altro che la
ricerca del benessere economico per tutti. Gli elementi dell'ideale dell'umanità
che ne costituiscono il fondamento sono tutti legati alla soddisfazione di
bisogni, in linea con la tendenza che vede le azioni dell'uomo dirette verso la
diminuzione del dispiacere e l'aumento del piacere; ma questi bisogni, dice
Sergi, risultano per lo più indeterminati sia perché la soddisfazione dei bisogni
non può mai essere completa e la tendenza al meglio è continua e indefinita,
e sia perché tra gli elementi dell'ideale ci sono anche bisogni intellettuali,
libertà di pensiero, di azione, etc., tutti indeterminati e indeterminabili poiché
in continuo mutamento e soggettivi.
In polemica di nuovo con le concezioni filosofiche e teologiche che cercano
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di fornire spiegazioni del fenomeno biologico della vita, vagando nel campo
del mitologico, del divino, dell'illusorio e persino del trascendentale kantiano
(a nostro avviso ingenuamente interpretato), Sergi conchiude il suo
ragionamento dicendo come l'ideale non debba essere ricercato al di fuori
dell'umanità, ma in essa stessa: l'umanità, se vuole raggiungerlo, non deve
uscire fuori di sé medesima per ricercarlo altrove, o dove non è che illusione.
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L'evoluzione delle società non si spiega con le sole leggi di Darwin, perché
-dice Sergi- le società non sono specie morfologiche, né varietà
antropologiche, ma agglomerati di molte varietà umane.
L'ambito di indagine dove invece si fanno sentire con maggior forza le
tendenze riduzionistiche del Sergi è quello legato all'interpretazione dei
fenomeni psichici. Nell'opera l'origine dei fenomeni psichici e la loro
significazione biologica (8), il capitolo ottavo è intitolato proprio I fenomeni
psichici come funzioni dell'organismo; in esso Sergi sostiene con osservazioni
tratte dalla fisiologia dei nervi e basandosi sull'autorità di molti altri scienziati,
che tutti i fatti psichici sono, al pari di ogni altra funzione vitale, funzioni
dell'organismo animale. Anche in questo caso, egli ribadisce come l'autorità
ultima sulla verità degli enunciati teorici debba essere ricercata solo ed
esclusivamente nei fatti, senza fare ricorso ad altro tipo di spiegazioni. A meno
che non si provi l'esistenza dell'anima, continua Sergi, è assurdo tentare nel
ventesimo secolo di fornire descrizioni metafisiche o metaempiriche della
psiche, e questo proprio perché non ha senso nel campo in oggetto la ricerca
di spiegazioni di chissà quali sostanze o realtà, ma si devono solamente
ridurre nella loro sfera i fenomeni che cadono sotto l'osservazione. Qui il
psicologo e il fisiologo fanno come il fisico e il chimico, i quali studiano,
classificano i fenomeni e ne indagano le leggi, senza neppure conoscere che
cosa sia la materia, o le varie materie che compongono i corpi.(9)
Il rapporto che sussiste tra i processi fisici del sistema nervoso e gli atti psichici
non può ridursi ad una mera relazione di concomitanza, bensì esiste tra loro
una vera e propria relazione causale, una incondizionatezza nella successione
tra l'antecedente, in questo caso il processo fisico di trasmissione dell'impulso
nervoso, e il conseguente, l'atto psichico.
Sergi non riesce a vedere nessuna via di mezzo tra le due teorie secondo le
quali o l'attività psichica è strettamente correlata con quella nervosa, oppure
l'una è indipendente dall'altra; in questo secondo caso però ammettendo che
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l'attività psichica possa prodursi da se stessa, si arriverebbe all'assurdo poiché
l'energia nervosa non produrrebbe niente, anzi si disperderebbe
distruggendosi inutilmente.
Neppure vale l'obiezione che molti avanzano agli scienziati, secondo la quale
la scienza stessa non sa dare ragione del come una funzione cerebrale possa
diventare psichica, perché -sostiene Sergi- questo tipo di ignoranza, il non
conoscere cioè come avvenga la trasformazione, vale anche in molti altri
campi in cui dominano le forze naturali, come ad esempio nel regno dei fluidi
elettrici e magnetici, ma non ostante questo non si arrivano punto a negare le
trasformazioni stesse.
Queste semplici teorie scientifiche sono per di più chiare ed evidenti, ed è
solo colpa dei filosofi spiritualisti l'aver guastato questo tipo di chiarezza ed
evidenza cartesiana che la psicologia condivide con le altre scienze moderne.
I filosofi, afferma Giuseppe Sergi nella prefazione al testo, partono sempre da
preconcetti e pregiudizi, non hanno i piedi per terra e i loro pensieri sono
sempre campati in aria, e in questo sono di nuovo simili agli uomini di fede:
entrambi sono rimasti fermi nell'ignoranza degli antichi periodi della vita
selvaggia dell'uomo preistorico; le loro menti sono infatti dominate dall'idea di
una entità spirituale distinta dalla materia, dalla fede nell'esistenza dello
spirito, e non si devono neppure confutare le loro teorie, poiché è proprio
inutile l'occuparsene.
Il progresso della scienza è in questo campo inarrestabile, essa ha già risolto
l'eterna questione tra spiritualismo e materialismo; grazie all'analisi dei fatti
stessi, all'osservazione empirica dei fenomeni la lotta si riduce tra una visione
filosofica antiscientifica, corroborata dal sentimento universale plasmato sopra
quello religioso, il quale è trasmesso in eredità dall'educazione che si riceve in
società, e un metodo scientificamente induttivo, basato sulla certezza ed
evidenza degli esperimenti pratici; insomma la lotta è per il positivista Sergi,
tra l'ignoranza e la scienza, fra il buio della barbarie dei tempi primitivi
dell'umanità e la luce della moderna conoscenza senza preconcetti.
La psiche non è nient'altro che una funzione di protezione dell'organismo e il
metodo che la psicologia deve seguire è quello di trattare i fatti psichici
proprio come la biologia fa con gli altri organi e funzioni vitali; come questi
ultimi infatti, anche la psiche, ha subito durante la sua evoluzione una serie di
variazioni e trasformazioni che l'hanno resa più utile per l'esistenza animale.
Un altro elemento inoltre, contribuisce ad avvalorare la tesi che la psiche
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sia funzione dell'organismo animale; il fatto cioè che i fenomeni psichici si
compiono in un corso determinato di tempo, e sono quindi misurabili
matematicamente al pari di ogni altra grandezza fisica. Contrariamente a
quanto si è sempre creduto, che cioè i fenomeni mentali avvenissero
istantaneamente, trasmettendosi con una velocità incommensurabile, o
addirittura che avvenissero fuori dal tempo, si è potuto invece constatare non
solo che la loro velocità è misurabile, ma che la grandezza che la esprime è
per di più molto piccola rispetto a quella di una raggio luminoso, della
corrente elettrica o delle onde sonore. Un processo che si manifesta in un
determinato intervallo di tempo, indica che per tale manifestazione si è
dovuta superare una certa resistenza della materia, o inerzia, e quindi, ciò che
supera una resistenza materiale non può che essere in ultima analisi anch'esso
altrettanto materiale.
I fenomeni psichici non si distinguono quindi da quelli fisici, entrambi
dipendenti dalle caratteristiche fisico-chimiche della materia. Come accade
negli altri processi fisiologici, tutto si compie in intervalli di tempo precisi e
dati, e non istantaneamente come alcuni filosofi avevano ammesso a priori.
Una delle proprietà fondamentali del fenomeno psichico è la coscienza,
la quale è considerata dal Sergi come la condizione unica di subbiettività,
ovvero come l'ultima fase o l'ultimo processo del fenomeno stesso; possono
esistere tuttavia fenomeni psichici incoscienti ma in essi manca tuttavia il lato
soggettivo, quella proprietà cioè che li rende avvertibili dal soggetto stesso;
ma dal punto di vista fisico, gli atti coscienti e quelli incoscienti sono identici.
L'anima è quindi una funzione dell'organismo, ed è per questo che la
psicologia può essere di aiuto all'antropologo allo stesso modo della
craniometria.
Queste sono dunque le aspettative che l'antropologia come scienza aveva,
nella concezione del Sergi, tra Ottocento e Novecento, e questo è l'ambiente
e l'atmosfera entro la quale si è formato il nostro Giovanni Sittoni; vedremo in
seguito quello che egli raccoglierà di questa eredità trasmessagli dal suo
maestro e da tutto l'ambiente scientifico e accademico che lo circondava, e
come egli sviluppi, mettendole in pratica nell'osservazione diretta degli oggetti
dei suoi studi, queste teorie fondamentali.
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Le specie umane: metodi di classificazione
I metodi di classificazione delle specie umane utilizzati da Giovanni Sittoni
derivano direttamente da quelli sviluppati da Giuseppe Sergi nel corso della
pubblicazione delle sue diverse opere sull'argomento. In questo campo, a
fronte dei numerosi metodi di classificazione già esistenti nell'ambiente degli
antropologi, il Sergi cerca, pur mantenendo delle costanti di misurazione in
linea con gli standard dell'epoca, di sviluppare, riuscendovi efficacemente un
nuovo metodo di classificazione, o meglio di classificare secondo nuovi
criteri.
Da un lato, egli ritiene infatti che gli antropologi dell'epoca abusino un po'
troppo di misure e cifre numeriche per classificare le specie; in particolare gli
indici del cranio (10) e della faccia non possono di per se stessi essere l'unico
criterio per scoprire differenze fondamentali tra gruppi etnici, né tanto meno
per classificare i gruppi umani: tali indici infatti non possono servire che come
mezzi per determinare differenze individuali. Ciò che invece è significativo
allo scopo di discriminare differenti razze umane è quello che Sergi definisce
il tipo cranico, o meglio la forma del cranio (11). Quello di forma cranica è un
concetto puramente intuitivo, il cui significato non deriva unicamente dalle
misurazioni classiche degli indici, ma che invece si basa su una semplice
osservazione della geometria delle ossa scheletriche: avremo quindi forme
ellissoidali, ovoidali, sferoidali, pentagonali, etc. A questo concetto si
aggiunge quello di forma della faccia: entrambi sono considerati, e ne
vedremo ora il motivo, il perno attorno a cui deve ruotare ogni tentativo di
distinzione tra razze o stirpi umane.
Dall'altro lato, Sergi ritiene errato ogni metodo di classificazione che si basi
unicamente sul linguaggio, sulla cultura e sulla storia di un popolo, e questo
perché, come sarà dimostrato per gli Arii, le lingue si imparano e si
dimenticano in tempi relativamente brevi e in seguito a mescolanze tra popoli
dovute soprattutto a migrazioni e spostamenti, e non possono quindi essere
considerate, come fino ad ora hanno fatto e stanno facendo moltissimi tra gli
antropologi, come l'unico criterio fondamentale di classificazione.
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Ma andiamo con ordine: alla base delle teorie sul metodo di classificazione
del Sergi c'è una distinzione fondamentale che egli espone in diverse sue
opere; la differenza cioè tra caratteri fisici interiori, esteriori ed intermedi.
Una delle questioni principali che deve essere affrontata dall'antropologia
riguarda infatti il chiedersi se esistano dei caratteri fisici fondamentali di una
stirpe che siano stabili e persistenti nel tempo; una classificazione deve infatti
fondarsi proprio su questi caratteri, considerando come secondarie invece,
tutte quelle caratteristiche fisiche che tendono a mutare facilmente e
velocemente; e quindi ci si deve anche domandare se possano invece esistere
delle alterazioni somatiche, per influenza delle condizioni esteriori fisiche o
per mescolanze che possano portare a situazioni di ibridismo.
Con il termine caratteri interiori Sergi intende proprio ciò che è immutabile e
persistente nel tempo, ovvero principalmente i caratteri osteologici o
scheletrici, in particolare la testa col cranio cerebrale e la faccia; mentre per
caratteri esteriori si devono intendere soprattutto la colorazione della pelle,
degli occhi e dei capelli, di tutto il complesso dei peli e la forma stessa dei
capelli; mentre con il termine caratteri intermedi si raggruppano tutte le parti
molli che rivestono lo scheletro, forme e sviluppo muscolare e adiposo, le
parti molli che rivestono la faccia, guance, naso, labbra.
Sergi è riuscito a dimostrare con osservazioni dirette che i caratteri interiori
sono costanti nel tempo e non subiscono le influenze esterne dovute
all'ambiente, all'abitato, al clima e alla alimentazione, come invece accade per
quelli esterni e in parte per quelli intermedi. Il cranio cerebrale in alcune stirpi
si conserva inalterato nelle sue forme fino dai tempi preistorici e storici
antichissimi, e neppure l'influenza di mescolanze etniche ne fa variare le
forme; questa conservazione avviene non solo nel tempo, ma anche nello
spazio: così come accade per le piante e gli animali, una stirpe può diffondersi
in un vasto spazio sulla terra mantenendo inalterate le forme date dalla
disposizione dei caratteri interiori. Ma è importante qui notare come queste
forme, dice il Sergi, non si riducono a quelle che la craniometria classica ci dà
per indici cefalici, ma sono invece quelle intuitivo-geometriche già
menzionate che esistono dal tempo che si conosce l'uomo grazie ai reperti
scheletrici, e che si ripetono costantemente per ogni stirpe; oltre alle forme si
conserva in genere anche il volume del cranio. Se le forme mutassero per
l'influenza di civiltà, di temperatura, di mescolanze etniche, noi, continua il
Sergi, vedremmo in poco tempo formarsi nuove forme negli stessi luoghi, ma
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ciò non è dato osservare perché le forme si ripetono con continuità per
eredità. La situazione non è però cosi semplice, poiché è facile notare anche
come, a volte, un popolo non abbia soltanto un solo ed unico tipo cranico,
come credono molti antropologi, bensì molti: una stirpe cioè, benché
uniforme in alcuni elementi può avere molta varietà di forme e questo anche
per mescolanze etniche; ciò non contraddice quanto affermato sopra poiché il
tipo cranico è dato anche dalla forma della faccia, per cui può accadere che a
parità di forme craniche si abbiano differenti forme facciali, e quindi diversi
tipi cranici; ogni varietà cranica si suddivide quindi in numerose sottovarietà.
Sovrapposizione quindi e non fusione delle due parti del cranio, così che
nelle generazioni successive si può addirittura avere una regressione alle
forme pure, ovvero una separazione delle parti sovrapposte, e questo può
avvenire anche per il resto dello scheletro.
Anche questo ultimo aspetto della forma della faccia è una innovazione che il
Sergi è convinto di introdurre nell'antropologia; in effetti secondo le teorie
precedenti, la faccia veniva classificata alla stregua del cranio cerebrale,
secondo l'altezza e la larghezza massime, e così si avevano due o tre tipi di
faccia, lepto, meso e cameprosopa, cioè faccia lunga o sottile, media e larga o
bassa; in questo caso però venivano, continua il nostro antropologo, trascurati
proprio i contorni della faccia che non sono caratterizzati da tali misure,
quando invece sono proprio essi a fornire la vera discriminazione tra le forme
che risultano così sei:
1
2
3
4
5
6
faccia a tipo ellissoidale
a) dolicoellissoidale
“
“ ovoidale
“
“ tetragonale
“
“ pentagonale
“
“ orbicolare
“
“ triangolare (12)
Queste forme dipendono dalla struttura ossea e non dalle parti molli che
rivestono la faccia, e rappresentano quindi, allo stesso modo delle forme
craniche, uno dei caratteri interni più importanti per la classificazione delle
stirpi. Esse non dipendono infatti dalle variazioni climatiche e persistono
immutate nel tempo e nello spazio, ciò che non accade invece per i caratteri
22
esterni.
A parità di forme craniche e facciali noi potremmo così vedere una stessa
stirpe con, ad esempio, diverse colorazioni della pelle, a seconda delle zone
in cui questa si è distribuita. Ecco una delle innovazioni del metodo del Sergi:
l'insostenibilità di una classificazione basata sulla colorazione della pelle, così
come altrettanto insostenibile sarà quella basata sulle lingue.
I caratteri esterni dunque servono come base per discriminare forme diverse
di ibridismo, ma non costituiscono una base durevole per una classificazione
naturale dei tipi; una stirpe può infatti disperdersi sopra una vasta area
geografica nella quale si trovano differenti condizioni ambientali, separandosi
così in diversi gruppi umani, i quali mantengono inalterati i caratteri fisici
principali, ma assumono variazioni che li separano e distinguono; accade per
l'uomo esattamente ciò che si verifica, dal punto di vista biologico, per le
specie animali e vegetali. Le variazioni avvengono in maniera molto lenta e
costante, ma determinano la comparsa di caratteri acquisiti che non possono
pregiudicare l'unità di una stirpe, pur fissandosi per eredità, ma costituiscono
utili indizi per stabilire i sotto-gruppi di una specie. Lo stesso vale per i
caratteri fisici intermedi la cui variazione in funzione dell'ambiente, delle
mescolanze etniche, degli stili di vita, determina differenti fisionomie nelle
varietà e sottovarietà di una stessa stirpe.
Altrettanto insostenibile è, secondo il Sergi, ogni classificazione che si
avvalga esclusivamente delle differenze e analogie tra i linguaggi parlati dalle
popolazioni, come sarà evidente nella dimostrazione del caso degli Arii,
poiché il linguaggio, al pari dei caratteri fisici esterni e intermedi, può rivelarsi
un carattere non persistente; ciò che ha tratto in inganno molti linguisti ed
etnografi. Certamente, la lingua dei popoli non deve essere trascurata
all'interno delle classificazioni antropologiche, che devono comprendere tutti
i caratteri di una stirpe o razza; è necessario però distinguere tra le lingue che
risultano ad un attento esame essere primitive, e quelle invece che si
sostituiscono ad esse, in tutto o in parte, trasformandole radicalmente.
La variabilità della lingua come carattere etnico, dipende soprattutto dal fatto
che essa si perde o si acquista per influenze di altri popoli, ma non ostante
questo, costituisce un utile, anzi indispensabile indizio per dimostrare affinità
o parentele, proprio perché rimane sempre, secondo il Sergi, una traccia
profonda della lingua primitiva, che non viene mai del tutto cancellata dalle
sovrapposizioni di differenti linguaggi parlati o imposti. Questa teoria sarà
23
molto importante anche per il nostro Giovanni Sittoni, che la applicherà
nell'analisi dettagliata del dialetto spezzino.
24
Grandi movimenti: gli Eurafricani e gli Arii
Nel classificare le differenti specie umane, il Sergi arriva a stabilire quello che
sarà uno dei pilastri di tutte le sue teorie a proposito delle origini e
susseguenti migrazioni o spostamenti dei popoli della terra; egli arriva cioè a
distinguere tre diverse specie umane: l' homo neanderthalensis, l'homo
eurafricanus, e l'homo eurasicus.
L'uomo di Neanderthal è considerato il testimonio più antico dell'uomo
apparso in Europa, oggi estinto, anche se forse con qualche sopravvivenza;
esso è nato in Europa nelle epoche primitive quaternarie, o probabilmente
nell'ultima fase terziaria. La sua diffusione è piuttosto limitata; non discende al
sud d'Europa e si trova nelle regioni al là delle Alpi, al nord e in Inghilterra.
Importantissimo sarà seguire invece l'origine e lo sviluppo della specie
eurafricana; questa infatti, originaria dell'Africa, si è diffusa in Europa
nell'ultimo periodo quaternario e anche in Asia suddividendosi in varietà e
sottovarietà con caratteri fisici e lingue differenti, mantenendo però dei tratti
fondamentali in comune. L'homo eurasicus invece è asiatico di origine, ma è
poi immigrato in Europa mescolandosi con la stirpe eurafricana; dopo essere
entrati in contatto con gli Arii in Asia, gli Eurasici impararono le lingue arie e
sempre in tempi preistorici, probabilmente corrispondenti all'epoca neolitica
europea, migrarono in Europa invadendola e importandovi le lingue arie,
mutandone così definitivamente le caratteristiche antropologiche e le lingue
primitive. Questo ha generato un grande errore in molti antropologi che li
denominarono arii, scambiandoli per le popolazioni bionde e dolicocefale di
tipo scandinavo e germanico che si trovavano invece già in Europa, non
essendo nient'altro che la varietà nordica della stirpe eurafricana; gli invasori
provenienti dall'Asia parlanti lingue arie erano invece mongoloidi per caratteri
fisici, cosa che verrà ribadita più volte dal Sergi e che costituisce senz'altro uno
dei tratti più significativi delle sue teorie antropologiche.
Procediamo con ordine e ritorniamo quindi alla stirpe eurafricana, che il
nostro autore vede suddivisa in tre varietà: la prima è quella denominata
rosso-bruna o africana, originaria dell'Africa Orientale; la seconda è la bruna
25
o mediterranea che è suddivisa a sua volta in due sottovarietà, la camitica e
la semitica; la prima è tipica dell'area mediterranea, mentre la semitica si
diffuse in Asia occidentale, Mesopotamia, Iran e India. La terza varietà è
invece quella bianco-bionda, o nordica, che si diffuse nel nord dell'Europa.
Per quanto riguarda lo studio delle antiche popolazione che abitarono l'Italia,
in relazione anche ad una ricerca sullo sviluppo storico del linguaggio,
assumerà grande importanza l'analisi della varietà mediterranea della stirpe
eurafricana, assieme alle decisive migrazioni degli Eurasici brachicefali.
La stessa cultura greco-latina, secondo il Sergi, deve essere considerata come
una continuazione e uno sviluppo di quella mediterranea: a questa varietà
infatti appartennero gli Egiziani, ed egualmente mediterranee furono le
popolazioni libiche; ma in generale si può dire che tutta la serie di popoli che
abitavano il territorio esteso dall'Asia Occidentale fino alle colonne d'Ercole,
pur avendo differenti nomi etnici erano identici nei caratteri fisici, e fu proprio
in questa zona che nacquero le diverse civiltà del passato, dalle preistoriche
alla micenea, alla ellenica e a quella latina.
Anche in Mesopotamia si trovava un ramo della stirpe mediterranea e così
pure le popolazioni chiamate arie dell'Asia, Irani e Indiani, i creatori cioè delle
lingue arie, erano di origine mediterranea.
Il dominio della specie eurafricana fu quindi assoluto per un lungo periodo,
fino cioè al periodo della prima introduzione dei metalli, quando giunsero gli
Eurasici e dalla mescolanza delle due stirpi nacquero le popolazioni e le
nazioni europee; compito dell'antropologo è descrivere questi grandi
movimenti di popolazioni, rendendo ragione delle differenze fisiche e
culturali che si riscontrano dall'osservazione diretta delle etnie.
Per quanto riguarda l'analisi craniometrica, il Sergi divide in poche varietà le
forme dei tipi cranici della stirpe eurafricana; secondo il suo metodo queste
forme risultano essere sempre identiche nel tempo antico e nel moderno e
nella distribuzione sulle diverse zone geografiche, in Africa come nella
Scandinavia; le forme predominanti sono le ellissoidali, le ovoidali e le
pentagonali, siano esse dolico o mesocefaliche, e così accade anche per le
forme della faccia; la convergenza di queste forme si mantiene anche nelle
sottoforme o sottovarietà, mentre variano invece i caratteri esterni. Ecco
l'applicazione diretta del metodo indicato al paragrafo precedente, il metodo
di classificazione antropologica basato sulla distinzione tra caratteri interni
inalterabili, gli scheletrici, e caratteri esterni, quali la colorazione del pigmento
26
cutaneo, che sono variabili e mutano a seconda delle influenze delle
condizioni esteriori; la convergenza delle forme facciali e craniche ci da per la
stirpe eurafricana il diritto di classificare sotto un'unica specie, varietà
apparentemente differenti di tipi umani, cosa che ha tratto in inganno molti
etnografi, come è evidente soprattutto nel caso dell'interpretazione
dell'origine degli Arii. I caratteri esterni della stirpe eurafricana ci permettono
così di differenziare tre distinte razze, che devono essersi originate nei
medesimi luoghi dove ancora si trova il maggior numero di individui che le
rappresentano: avremo così una razza africana, con pelle nera, rosso-bruna,
rosso-nera, da distinguersi però, scrive il Sergi, da quegli africani che hanno
caratteri scheletrici differenti da quelli sopra stabiliti per l'eurafricana, una
razza o stirpe mediterranea, caratterizzata da cute bruna, occhi e capelli scuri,
castani nella maggior parte e che si è diffusa lungo le coste del bacino
mediterraneo, Europa, Asia occidentale, Africa (dall'Egitto al Marocco),
Canarie, Sahara.
Infine avremo una razza nordica che si è formata nell'Europa settentrionale,
ed è quella tipica bionda e bianca, con occhi cerulei, denominata germanica e
della quale è difficile stabilirne un limite della diffusione nelle regioni del sud.
Ecco quindi una conferma della teoria secondo la quale persistendo le forme
osteologiche craniche, la colorazione del tegumento segue invece le
condizioni fisiche dell'abitato.
Il punto fondamentale delle interpretazioni antropologiche del Sergi è quindi
questa grande espansione della stirpe eurafricana; mentre il suo ramo
mediterraneo si spingeva fino alle regioni asiatiche creando civiltà
antichissime, forse addirittura, partendo dalla Mesopotamia una piccola
colonia gettò le basi della civiltà cinese, 2400 anni prima della nostra era (13),
il ramo africano si dirigeva verso settentrione, in Europa, dove gli individui
perdettero gran parte del pigmento scuro nel tegumento diventando bianchi e
biondi, come dei semi-albini, nell'arco di un periodo di tempo molto lungo,
millenario.
Eccoci quindi al problema degli Arii: ad un certo punto dell'evoluzione
umana, verso la fine del Neolitico, quando all'uso della pietra succedeva
quello dei metalli, in quel periodo di transizione che viene chiamato in Italia
Eneolitico, si trovano assieme agli scheletri che hanno le caratteristiche della
specie eurafricana, altri reperti con differenti strutture osteologiche,
soprattutto nel cranio; uno di questi nuovi caratteri è misurabile attraverso il
27
calcolo dell'indice cefalico, ed è la brachicefalia, in contrasto con la
dolicocefalia, tipica della stirpe eurafricana. Questa nuova razza, infatti ha la
peculiarità di avere la testa larga e relativamente corta, pur all'interno di una
consistente varietà di forme; dalle sferoidali alle platicefaliche e cuneiformi,
ovvero sfenoidali; con una faccia altrettanto larga e tendente all'appiattimento.
Queste sono tipiche forme asiatiche, simili a quelle che giungeranno grazie ad
un altra invasione dall'Asia nel periodo del Bronzo e che è rappresentata al
giorno d'oggi proprio dai brachicefali dell'Europa centrale e occidentale, e da
gruppi di individui che penetrarono al sud e al nord, dagli Arii cioè che
attualmente portano il nome di Celti, Germani e Slavi.
In conclusione quindi, le nuove caratteristiche etniche portate dall'invasione
del Neolitico, possono essere considerate come l'avanguardia di
quell'invasione asiatica posteriore, rappresentata da quella stirpe che venne in
seguito denominata indoeuropea o aria.
I germani biondi e dolicocefali quindi sono eurafricani che impararono la
lingua dai germani brachicefali come i Celti: due gruppi entrambi arii di
origine, ma con differenze nel linguaggio e nei caratteri fisici; ciò che accadde
analogamente anche in Italia, dove gli italici dolicocefali appresero la lingua
aria dagli stessi invasori eurasici, ma di questo sarà detto in seguito.
La patria degli Arii è dunque l'Asia, ed è importante notare che l'invasione aria
nell'Europa, secondo le ipotesi del Sergi, non portò nient'altro che
devastazione e barbarie: le due grandi civiltà mediterranee, la greca e la latina,
non ebbero origine dagli Arii, non ostante parlassero linguaggi arii.
Per di più gli Arii dell'Europa erano tali solo per il linguaggio che avevano
appreso, ma risultavano essere differenti di stirpe dagli Arii genuini, e non
avendo una cultura originale, una volta che si separarono dalle regioni dell'est
per arrivare in Europa, si trovavano con l'uso della pietra ignorando ancora i
metalli.
Gli Arii dell'Asia invece, Irani e Indiani, comparvero nella storia molto più
tardi rispetto a queste emigrazioni degli Arii d'Europa; in entrambi i casi
comunque, gli Arii formarono inizialmente la propria cultura su influenza di
quella afro-mediterranea, in particolare della zona del Mediterraneo Orientale,
e della valle del Tigri e dell'Eufrate; le popolazioni indiane e iraniche, cioè le
persiane primitive avevano infatti le stesse caratteristiche di quelle
mediterranee; si può anzi arrivare a sostenere l'ipotesi che fossero un ramo
staccatosi dallo stesso gruppo da cui derivavano gli Egiziani e gli altri
28
mediterranei, e che in seguito a delle emigrazioni attraverso le vie marine
occuparono dapprima la Mesopotamia, poi l'altipiano asiatico e l'Iran, donde
sempre in via ipotetica si portarono sino in India.
Per quanto riguarda i caratteri fondamentali quindi non vi era differenza tra le
popolazioni della Mesopotamia e gli Arii; entrambi dolicocefali, scuri di pelle e
capelli, barba e occhi, come il resto della varietà africana del Mediterraneo.
Nell'arco di un lungo intervallo di tempo i due rami che prima erano uniti
assieme come un popolo unico, l'indiano e l'iranico, si separarono e si andò
formando una nuova lingua, ciascun ramo andò sviluppando con peculiarità
differenti, gli impulsi di nuove civiltà e culture che provenivano in via diretta o
indiretta dalle popolazioni che incontrarono nei luoghi dove emigrarono. In
questo lungo periodo in cui si formarono i due rami arii avvenne infatti
l'incontro e la fusione con le popolazioni asiatiche.
Gli Arii irani entrarono in contatto con gruppi etnici asiatici mongolici,
alcuni dei quali ne subirono talmente l'influenza da impararne la lingua; ed
eccoci arrivati al punto decisivo della dimostrazione del Sergi: le popolazioni
che immigrarono come detto sopra, in Europa nelle epoche preistoriche, non
furono gli Arii genuini, ovvero i bruni dolicocefali, secondo il modello tipico
che vediamo nei persiani e indiani, ma gruppi etnici di origine e tipo
mongolico. Da questo Sergi è arrivato ad affermare la sostanziale differenza
tra gli Arii d'Europa e quelli dell'Asia, dove si trovano infatti gli Arii genuini e
originali, i creatori del linguaggio ario; quelli immigrati in Europa invece di
ario avevano solo il linguaggio che era per di più appreso, ed erano quindi di
una specie antropologica differente, appartenevano infatti al ramo eurasico.
Da queste osservazioni sulle popolazioni antiche e moderne dell'India e della
Persia emerge così il fatto che i gruppi arii primitivi erano dolicocefali e bruni,
proprio come i mediterranei, e non biondi di tipo scandinavo, come molte
teorie antropologiche vanno sostenendo senza alcun fondamento reale.
Si arriva così, scrive Giuseppe Sergi ad un fatto apparentemente curioso e
piuttosto strano: esiste, come abbiamo visto, una stretta relazione tra i popoli
asiatici arii, dolicocefali bruni, con i popoli europei che vengono classificati
nello stesso tipo, e cioè gli Eurafricani, relazione che si estende anche a tutte
le popolazioni che appartengono come varietà alla stirpe eurafricana stessa,
gli africani rosso-bruni e neri, e gli europei nordici, dolicocefali biondi; tutti
questi gruppi etnici, che hanno grandissime differenze nella cultura e nel
linguaggio, sono uniti da una stretta parentela antropologica; tutti i neolitici
29
europei cioè sono della stessa famiglia cui appartengono gli arii genuini
asiatici.
Sergi è convinto dell'esistenza di una stretta parentela antropologica tra gli Arii
e i biondi dolicocefali dell'Europa del nord, ai quali però nega l'origine aria,
nel senso cioè che non è stato questo tipo antropologico ad importare in
Europa il linguaggio ario. Relazione di parentela antropologica e non
etnologica, in quanto gli Eurafricani d'Africa e d'Europa, ebbero un linguaggio
diverso dall'ario, un linguaggio di tipo camitico, in analogia a quello libico ed
egiziano, e ricevettero in seguito il linguaggio ario da quel gruppo
mongoloide di cui si è detto sopra. Si ebbe così la trasformazione della lingua
precedentemente parlata, in analogia a quello che accadrà in Italia, dove,
sempre secondo la dimostrazione del Sergi, i linguaggi di tipo italico, tra cui il
latino, si formarono sotto l'influenza aria, ciò che si può affermare anche per il
greco e per tutte le lingue con morfologia aria.
Quello che avvenne per il linguaggio però non si verificò altrettanto per la
civiltà; quella aria infatti era rudimentale e barbara e i popoli di stirpe
mongolica che invasero l'Europa incontrarono una cultura avanzata, benché
neolitica ed eneolitica, e se distrussero in parte quella micenea, che era
avanzatissima, poterono nuocere poco alla mediterranea, nei confronti della
quale si può dire che non esercitarono che un dominio parziale.
Col passare del tempo, da quando iniziarono a fondersi le due stirpi, l'eurasica
e l'eurafricana, si ebbe una rinascenza della cultura anteriore pervasa però da
nuovi elementi orientali asiatici, in particolare, secondo Sergi, mesopotamici:
si formarono così le due grandi culture classiche, la greca e la latina.
Ecco quindi la rilevanza della teoria dei grandi movimenti migratori di
diffusione della stirpe eurafricana: l'Africa si attesta come la culla della più
attiva e civilizzatrice delle stirpi umane, l'iniziatrice delle grandi civiltà del
passato che hanno dato origine alle principali culture dell'antichità, da quella
egiziana a quella mesopotamica, dalla indoiranica in Oriente a quelle
mediterranee: la micenea e la greco-latina.
Due sono state quindi le grandi migrazioni dall'Asia; la prima verso il
finire del Neolitico, all'epoca del primo apparire dell'uso dei metalli col rame,
la seconda all'epoca del Bronzo in Europa. Per quanto riguarda così il
problema dell'origine dei differenti linguaggi parlati dalle popolazioni
europee possiamo ravvisare che le lingue formatesi sotto gli influssi degli
invasori parlanti ario mantengono al loro interno delle sopravvivenze prearie;
30
teoria questa importantissima per il Sergi e che sarà ripresa anche dal Sittoni.
Queste sopravvivenze si fanno soprattutto sentire nella toponomastica, in
particolare in quella ligure dove sono avvertibili reminiscenze pelasgiche,
etrusche e libiche; ma più in generale il fenomeno riguarda nel complesso
anche la formazione di tutti i dialetti della penisola italiana. Questi dialetti
infatti derivano dall'unione della lingua delle popolazioni preesistenti
all'invasione eurasica colle lingue arie. Lo stesso si verificò anche in altre
regioni dell'Europa, e questo fatto portò il Sergi ad affermare appunto che i
Germanici, non sono germanici, bensì germanizzati.
Per la precisione infatti tre sono i rami linguistici dell'ario: lo slavo, il
germanico e il celtico; mentre si può tralasciare il lituano perché assimilabile
allo slavo; le altre lingue, parimenti dette arie, in particolare l'ellenica e la
latina, le lingue scandinave, l'olandese e la danese ed i dialetti germanici col
nome di tedeschi si sono formati sul luogo stesso sotto la diretta influenza dei
rami primari e originari: il germanico genuino è quindi quello primitivo,
parlato e importato dalla stirpe degli invasori eurasici.
Le lingue italiche, nello specifico, si formarono sotto l'influenza del ramo
celtico e dello slavo; gli Slavi, o Illirici, secondo la terminologia romana,
invasero la nostra penisola da oriente, i Celti invece da occidente; entrambi
occuparono la valle del Po per discendere successivamente più a sud; questo
aspetto sarà esaminato nel paragrafo successivo, dedicato alla situazione in
Italia.
Sempre dall'analisi linguistica, o meglio dall'analisi della distribuzione
geografica delle lingue germaniche, celtiche e slave il Sergi trae indizi utili allo
scopo di tracciare lo sviluppo diacronico delle immigrazioni dei rappresentanti
dei tre rami eurasici che si insediarono nel continente europeo.
Dato lo stanziarsi del ramo celtico in regioni occidentali, si può dedurre che
esso sia stato il primo ad entrare in Europa, seguito poi da quello germanico,
che si trova al centro e al settentrione; infine gli slavi da ultimi si distribuirono
nelle zone centrali e in quelle del sud.
Riassumendo le considerazioni del Sergi sugli Arii, si può affermare
quindi che gli Arii d'Europa non sono quindi dello stesso tipo di quelli
dell'Asia; i primi, che importarono la lingua cosiddetta aria, furono
brachicefali, tipo mongoloide con cranio sfenoide, a forma di cuneo o
sferoide, a forma di sfera e platicefalico; i secondi invece erano dolicocefali,
31
con forme craniche ellissovoidali e bruni di pelle, capelli e occhi. Nel
secondo gruppo si collocano gli Arii invasori dell'India del nord ovest e gli Arii
irani, e il loro tipo non era quindi quello biondo degli scandinavi e tedeschi
del nord; sono perciò in errore i filoarii che persistono nell'affermare il
contrario. Gli Arii veri dal punto di vista linguistico sono i dolicocefali bruni,
gli altri, i brachicefali a cranio mongolico lo sono per influenza, e la loro
lingua, in quanto appresa non poteva non essere alterata rispetto a quella
madre. Il termine ario ha il significato di varietà umana non in senso
zoologico, ma solo in quello linguistico. Il cranio germanico vero, per di più
non è dolicocefalo, ma è simile a quello celtico, tagicco e galcia, cioè
brachicefalo. Ecco dimostrate le ipotesi antropologiche iniziali del Sergi:
lingue e razze non sono necessariamente connesse e di questo si deve tenere
conto nel metodo usato nella classificazione delle diverse razze umane ; le
lingue si perdono e si acquistano mentre i caratteri fisici interni persistono
immutati nel corso del tempo; possono invece rimanere, come delle
sopravvivenze, alcuni residui di lingue ormai perse sul fondo di quelle vive
apprese o imposte.
Avevamo visto che la specie eurafricana si suddivide in tre grandi gruppi: la
varietà rosso-bruna o africana, quella bruna o mediterranea e quella biancobionda o nordica; per quanto riguarda la seconda poi, essa si suddivide nelle
due sottovarietà della camitica e semitica. Anche questa classificazione
antropologica, fondata sopra caratteri fisici esterni e interni, non corrisponde
alla classificazione linguistica. Nel tipo semitico si trova prevalentemente
l'occhio tagliato a mandorla, il naso curvilineo ed il viso ellissoidale, mentre il
cranio nelle sue forme, la statura, il colorito della pelle, capelli e occhi è
ugualmente bruno come nei mediterranei; di nuovo i caratteri fondamentali
degli arii asiatici non differiscono da quelli camito-semitici.
Per quanto riguarda le lingue invece, le camitiche sono parlate in gran parte
dalla varietà rosso-bruna africana, mentre all'interno del gruppo dei bruni
mediterranei solo ai camiti stanziati in Africa si possono attribuire lingue
camitiche, mentre gli stessi camiti d'Europa, eccetto i Baschi, e il gruppo
camitico-semitico indiviso in Asia, parlano nella maggior parte lingue arie.
Le invasioni barbariche che portarono alla disgregazione dell'impero romano,
furono determinate dalla sinergia delle due diverse stirpi, i dolicocefali
eurafricani, rappresentati dalla varietà nordica ed i brachicefali eurasici,
testimoniati dagli Arii d'Europa, tra cui i Celti; popolazioni dal carattere
32
selvaggio e violento che trasformarono radicalmente, soprattutto dal punto di
vista linguistico, le etnie con cui entrarono in contatto, come emergerà
chiaramente dal paragrafo che segue.
33
La situazione in Italia: da Alba Longa a Roma
Altrettanto feconde quanto le teorie sull'origine e diffusione della stirpe
eurafricana furono per il nostro Giovanni Sittoni quelle riguardanti i destini
della penisola italiana che il Sergi aveva lungamente elaborato e di cui
possiamo vederne sistematicamente espressi i risultati fondamentali e più
significativi nel volumetto intitolato Da Alba Longa a Roma (14).
Anche in questo campo, Giuseppe Sergi resta fedele al suo metodo di
indagine basato sulla distinzione tra caratteri fisici interni ed esterni e sulla
conseguente classificazione delle razze umane, elaborata tenendo
principalmente in considerazione la forma del cranio e della faccia, e in
secondo luogo sulla base dell'analisi dell'origine e dello sviluppo dei differenti
linguaggi, o meglio dialetti, parlati dalle differenti popolazioni.
Sorprendente sarà però nell'analisi del caso italiano la posizione di
preminenza, cioè la valenza che verrà invece ad assumere l'analisi linguistica
all'interno del metodo di classificazione antropologica; parimenti accadrà con
Sittoni, che riprenderà le fila del discorso sviluppandole in una personale
analisi dettagliata del dialetto spezzino.
Senza entrare nel dettaglio delle dimostrazioni di Sergi, tentiamo di riassumere
gli aspetti principali della teoria sulle antiche popolazioni dell'Italia.
L'autore tenta di rispondere soprattutto a due quesiti: quali furono i primi
abitanti dell'Italia e come si formarono i dialetti italiani.
E' possibile che Alba Longa sia stato un insediamento ligure? È noto che
all'interno del Lazio non è attestata nessuna tradizione che ricordi la presenza
di Liguri, cosa che non accade invece per i Siculi, che vengono annoverati
dalla storia tra i più antichi abitatori dei questa regione; mentre però vi sono
moltissimi scrittori dell'antichità che fanno dei Liguri e dei Siculi due razze
differenti, noi, dice il Sergi, ne stabiliamo l'identità: essi erano due rami dello
stesso ceppo umano, ed entrambi un ramo molto esteso della grande stirpe
mediterranea.
Questa evidenza risulta in larga misura proprio dall'analisi dei toponimi
italiani: i primi abitanti d'Italia infatti diedero il nome ai luoghi che
34
occuparono; con le invasioni degli Eurasici però, al formarsi di nuovi
linguaggi si accompagnò lo stabile persistere di alcuni vecchi toponimi,
mentre la maggior parte di essi venne obliata col mutarsi in tutto o in parte in
altri vocaboli a seconda dei nuovi usi linguistici. Le vecchie parlate si estinsero
per il sopravvento di lingue di tipo ario, importate da popolazioni di stirpe
differente da quella che si trovava nella penisola.
Questi invasori furono principalmente Celti e Illirici e a seguito del loro
sopraggiungere si formarono i nuovi dialetti: l'umbro, il latino arcaico, il
sabellico, l'osco, il volsco, il falisco; a seconda dei dialetti già parlati da queste
antichissime popolazioni dell'Italia. E' errata così, secondo Sergi, la teoria di
alcuni storici moderni, sostenitori della venuta nella nostra penisola di un
popolo italico già fornito di un linguaggio di tipo ario.
Le nostre regioni italiche erano infatti già popolate da un grande numero di
abitanti che si trovavano sul territorio almeno dall'epoca neolitica e forse
anche da prima, mentre gli esogeni che alcuni identificano con gli italici
indoeuropei denominati Villanoviani, sarebbero emigrati in Italia tra la fine
del IX secolo e il principio dell'VIII a.C., quando l'Età del Bronzo aveva
lasciato il posto alla prima Età del Ferro. E' una ferma convinzione del Sergi, il
dimostrare che il linguaggio preesistente delle popolazioni indigene fosso
proprio il ligure-siculo.
Gli stessi Umbri ad esempio appartenevano al ramo della medesima stirpe da
cui discesero i Siculi; essi costituivano un ethnos grandissimo e antichissimo e
il territorio che occupavano confinava a settentrione con il Po e con il Reno, a
occidente con il mare Tirreno, a Sud con i Sabini che stavano ai confini col
Lazio; tutto questo però era già stato territorio dei Liguri e dei Siculi, la cui
impronta rimase indelebile proprio nei nomi degli abitati e dei luoghi.
Quello che oggi infatti si chiama territorio ligure rappresenta solo una parte di
quello antico e primitivo, il quale venne ridotto a seguito delle invasioni
celtiche, retiche e venete o illiriche, ma in origine comprendeva tutte le Alpi,
la valle del Po con i laghi e i fiumi. La zona di stanziamento dei Liguri si estese
sino al Rodano ed anche oltre, in Gallia e in Spagna. Ma c'è di più; persino i
Siculi erano un ramo ligure, se non liguri essi stessi e così pure i Sabini.
Due relazioni legano dunque questi popoli, la prima è una relazione di
parentela antropologica, tutti sono cioè un ramo dei Mediterranei; la seconda
è una relazione di contemporaneità: Liguri, Siculi, Ombrici, Sabini, Osci,
Lucani e altri ancora sono tutti del pari, antichissimi.
35
Anche per quanto riguarda l'esposizione della storia dell'occupazione
etrusca, si può parimenti affermare che essi pur distruggendo numerose città,
ne conservarono i nomi che queste avevano in origine, alterandoli
naturalmente, secondo l'indole del linguaggio tirrenico; cosa che non accadde
invece con i Romani, i quali alterarono maggiormente i nomi delle città e dei
luoghi, in parte traducendoli direttamente da quelli etruschi.
Ricordiamo che gli Etruschi occuparono un territorio già conquistato dagli
Ombrici, che avevano scacciato e sottomesso i Siculi, anche se la storia
dell'Etruria è un po' più complicata; questo territorio infatti prima dell'arrivo
degli Etruschi era stato oggetto di una invasione di popolazioni esotiche,
dissimili dalle sicule o affini, quali erano gli Ombrici. Questa gente che
proveniva da regioni situate al di là degli Appennini, erano proprio i
Villanoviani stessi, ovvero popolazioni Illiriche che occuparono le sedi
ombriche invadendo anche il Lazio nell'epoca della prima Età del Ferro.
Questi villanoviani, con le loro tombe ad incinerazione, furono però
erroneamente dagli archeologi considerati e denominati umbri e ritenuti italici
indoeuropei.
Non ostante però queste quattro invasioni, di Ombrici, Illirici, Tirreni e
Romani, i nomi corografici, pur traslitterati e deformati in altre lingue rimasero
quale testimonianza delle antichissime popolazioni che li avevano creati,
resistendo in parte sino ai nostri giorni.
Essendo gli Etruschi Pelasgi dell'Asia Minore, essi erano mediterranei e
affini quindi nei tratti fondamentali ai Liguri, Siculi e Ombrici; si può anche
ipotizzare tra loro una certa affinità di linguaggio. Vero è che quando giunsero
in Italia, era già avvenuta la crisi per la trasformazione delle lingue italiche
primitive, come risulta evidente dall'esame dei vari dialetti italici: ombrico,
sabellico, osco e latino arcaico; per questo la lingua etrusca dovette risultare
per questi popoli incomprensibile, finché si estinse al pari di questi nuovi
dialetti italici a seguito della latinizzazione generale.
La lingua etrusca deve, a sua volta, aver subito l'influenza del nuovo
linguaggio, trasformato da Celti e Illirici, ed è proprio da questo fatto che
nacque, secondo Giuseppe Sergi, l'illusione di molti tra i più eminenti
glottologi, di credere di poter assimilare l'Etrusco alla famiglia indoeuropea.
Per il nostro antropologo infatti, i dialetti primitivi erano come i rami di uno
stesso ceppo linguistico non ario, e tra questi egli colloca anche la lingua
etrusca, come un dialetto pelasgico del medesimo tipo mediterraneo.
36
Quando invece si verificò la crisi linguistica, dovuta alle invasioni della prima
Età del Ferro, i nostri dialetti originari e primitivi subirono allora le influenze
della nuova lingua, la quale soltanto era indoeuropea: nacquero così i nuovi
dialetti italici, di cui oggi avvertiamo i residui.
È quindi vero che allo stadio primitivo, tutti erano dialetti di una medesima
lingua, la mediterranea ( e così il Trombetti); è falso invece unirle assieme nel
ceppo indoeuropeo, aggregare cioè tutti i dialetti, vecchi e nuovi ad uno
stesso tipo indoeuropeo, che è l'italico.
È pur vero infatti che tutti questi nuovi dialetti, tranne l'Etrusco, possiedono il
carattere italico, poiché formatisi sugli originari dialetti italici che
preesistevano alle invasioni arie, ma l'Etrusco, pur subendo alterazioni, rimase
sempre nei suoi tratti fondamentali una lingua prearia.
Da dove provenivano gli Etruschi? Secondo Sergi essi erano una colonia
proveniente dall'Asia Minore. Ciò risulta evidente dall'analisi di tre reperti
archeologici: la stele di Aules Feluskes di Vetulonia, quella di Larthi Aninies di
Fiesole, e quella di Larthi Atharnies di Pomarance.
La prima rappresenta un guerriero con un elmo alla greca, armato di ascia
bipenne (labrys) usata proprio in Asia Minore, simbolo inoltre di Giove
stratioda che secondo Erodoto si venerava in Caria.
In origine la labrys era un simbolo divino del culto pelasgico aniconico,
diffuso in Asia Minore e nell'Egeo; gli Elleni lo conservarono mantenendolo
aggregato al loro culto iconico e politeistico, associando così la labrys a Zeus,
Apollo, Dioniso e Artemis; da qui lo Zeus stratios o labrantenos di Labranda
in Caria.
E così gli anche Etruschi migrando conservarono, portandolo con loro il
simbolo della labrys.
La seconda invece, raffigura un guerriero, armato di scure e lancia, con capo
scoperto e capigliatura propria degli Etei ed ha un corto giubbotto, come
quello indossato dai micenei e così anche il terzo soldato, vestito di una lunga
e pesante tunica, con spada ricurva, richiama le caratteristiche di un guerriero
heteo, così come i calzari ricurvi, propri del costume tradizionale di queste
popolazioni. Alla base di queste considerazioni, c'è naturalmente l'ipotesi del
Sergi che gli Etei non fossero una popolazione indoeuropea.
Fu solo dopo qualche tempo dalla loro venuta in Italia, che gli Etruschi
abbandonarono in tutto o in parte il costume asiatico.
Riassumendo quindi, si può in conclusione dire che fu proprio dai Siculi
37
che incomincia l'inizio dell'incivilimento e la prima storia d'Italia, o meglio
ancora, dai Liguri-Siculi; in quanto, Sicani, Siculi e Liguri erano rami dello
stesso tronco etnico. In Sicilia infatti, le colonie fenicie o elleniche si
stanziarono su insediamenti già abitati in precedenza da Sicani e Siculi che
avevano, come in altre zone, quali l'Italia e l'Iberia, già gettato le fondamenta
delle prime comunità sedentarie, ma che soprattutto avevano già attribuito i
nomi alle località.
Senza citare l'ampia varietà di esempi delle analogie esistenti tra i toponimi
italiani, che il Sergi riporta nel suo libro, si può semplicemente ricordare
quello di Lerici. Il monte Erice, dice il nostro autore, ha corrispondente il
nome di una città Eryce o Erice, e il fiume Eryces; inoltre ha corrispondenza
con Erice nel porto di Luni, ligure: da ciò risulta chiara l'origine comune
ligure-sicula.
Tutta l'Italia centrale e meridionale era quindi Sicula, i Liguri occuparono la
Pianura Padana e le valli alpine, spingendosi ad occidente oltre la valle del
Rodano ed anche ad oriente, sino alla destra del Danubio; si può dire quindi
che la penisola era sicula, mentre la parte continentale era ligure.
Le etimologie dei luoghi rilevano e confermano la comunanza di ethnos e
linguaggio di Liguri e Siculi, di cui i Latini sono un ramo.
La stessa Roma quindi, secondo Sergi ha origini sicule: un condottiero latino, e
per questo siculo, chiamato Romolo, occupò Saturnia stabilendovisi e
attribuendo il suo nome al popolo conquistato e di Roma alla città.
Probabilmente Saturnia era colonia di Alba, Sicula anch'essa come Alba
Longa.
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Note alla parte prima
1. G. Sergi, L'evoluzione umana individuale e sociale: fatti e pensieri.
Fratelli Bocca, Torino 1904.
2. ivi, pag. 3.
3. ivi, pag. 4.
4. ivi, pag. 5.
5. ivi, pag. 21.
6. ivi, pag. 36.
7. ivi, pag. 46.
8. G. Sergi, L'origine dei fenomeni psichici e la loro significazione biologica.
Dumolard, Milano 1885.
9. ivi, pag. 116.
10. Rimandiamo il lettore all'appendice, per la definizione dei principali
concetti della craniometria che saranno impiegati nella presente
pubblicazione.
11. cfr. appendice, per la definizione del tipo cranico elaborata da Giuseppe
Sergi.
12. G. Sergi, Africa: antropologia della stirpe camitica (Specie Eurafricana),
Fratelli Bocca, Torino 1897, pag. 387.
13. G. Sergi, L'evoluzione umana, individuale e sociale: fatti e pensieri.
Fratelli Bocca, Torino 1904, pag. 239.
14. G. Sergi, Da Alba Longa a Roma, Fratelli Bocca, Torino 1934.
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40
PARTE SECONDA
Giovanni Sittoni
...noi, fedeli ai nostri metodi sperimentali, vogliamo
qualche cosa di più: vogliamo le prove antropologiche.
G. Sittoni
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42
Antropini e Antropoidi
Dopo aver esposto a grandi linee il pensiero di Giuseppe Sergi, che costituisce
una parte di quel contesto culturale in cui si è formato il nostro Sittoni,
passiamo in questa seconda parte a trattare direttamente ed in modo analitico
dei risultati principali delle ricerche dell'antropologo spezzino.
Nel proprio metodo di indagine Sittoni resta fedele nel corso degli anni, da un
lato ai principi antropologici stabiliti dal Sergi: discriminazione delle stirpi
umane sulla base della distinzione tra caratteri fisici interni ed esterni e ausilio
secondario della linguistica all'interno delle classificazioni antropologiche;
dall'altro ad una estrema attenzione verso i fatti, ad un attaccamento verso il
dato concreto, le misurazioni craniometriche, che lo porterà sempre ad
interpretare in modo dubitativo tutte quelle teorie basate su osservazioni
empiriche limitate nella quantità dei reperti, sino a rivedere talvolta le proprie
ipotesi, come ad esempio nel caso di Luni.
Questo attaccamento ai dati provenienti dall'esperienza conferisce alle analisi
del Sittoni una estrema chiarezza nella esposizione delle evidenze
antropologiche ed etnografiche fondamentali, allontanandolo un po' da quel
poco di retorica fantasiosità che emerge talvolta dalla dichiarata fede
positivista del Sergi, il quale filosofeggiando condanna la filosofia e fa della
libertà umana una questione di trasmissioni elettro-chimiche all'interno del
cervello umano. Sono assenti infatti negli scritti del Sittoni le prese di
posizione filosofiche, tipiche del Sergi, a condanna degli errori della filosofia
spiritualista e dello spirito religioso, scortate dall'affermazione nella fede verso
la riduzione dell'anima a funzione dell'organismo. Solo nella prima attività di
ricerca del Sittoni infatti possiamo riscontrare una evidente, seppur minima
affermazione delle teorie positiviste in campo neurologico. Parliamo degli
articoli in cui descrive la fisiologia degli Antropini nelle loro differenze ed
analogie con gli Antropoidi.
Nell'articolo La Sistematica dei Primarii (1) ciò che emerge è la riflessione
che le facoltà mentali nell'uomo vengono considerate funzioni dell'organismo
al pari di tutte le altre del corpo umano: funzioni ben precise che hanno una
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ragione e un significato della propria esistenza all'interno dell'ottica
evoluzionistica, e in questo le facoltà umane non differiscono che
quantitativamente da quelle degli Antropoidi.
Le potenzialità mentali, dice infatti Sittoni, non sono una dotazione
esclusivamente caratteristica dell'Antropino, e neppure sono tali da dover
essere considerate differenti per natura da quelle proprie degli altri animali,
mentre esse si sono evidentemente formate nel tempo, sotto l'influenza
dell'ambiente esterno. Inoltre se è possibile affermare che nell'Antropino si
trova una minore quantità di istinti rispetto agli Antropoidi, tuttavia non è
invece possibile negare in questi una certa potenzialità di ragionamento,
originata proprio da una somiglianza di bisogni in entrambi i componenti
della stessa Famiglia; ciò che è evidente, ad esempio dall'osservazione del
comportamento dell'Orang e dello Chimpanzé, così come lo stesso Darwin ci
ha descritto.
Si può persino arrivare a dire che all'interno della Famiglia dei Primari tutti e
cinque i componenti hanno le stesse intuizioni, passioni ed emozioni: solo
una differenza quantitativa sussiste tra di esse.
Tutti sono accomunati dalle medesime facoltà di attenzione, memoria,
immaginazione e raziocinio.
Differenza di grado quindi e non di qualità sussiste tra la mente dell'Antropino
e quella dell'Antropoide, e se la coscienza di sé e la capacità di astrazione
sono una caratteristica peculiare dell'Antropino, esse dovranno essere
considerate solo come un effetto incidentale, dovuto ad un uso ripetuto della
facoltà del linguaggio, poiché l' Homo mantiene infatti lo stesso stampo
cerebrale antropoide che caratterizzava il suo progenitore.
Il cervello dell'Orang è simile a quello di un bambino, nel quale certe facoltà e
potenzialità si sviluppano solo in seguito ad un uso continuo del linguaggio
sulla base di determinate sollecitazioni ambientali esterne, così come
l'Antropoide in contatto con comunità selvagge è intellettualmente più
evoluto rispetto a quello che si mantiene lontano da ogni rapporto con tribù
confinanti: le osservazioni dirette sul comportamento degli Orang non
lasciano dubbi nell'interpretarne alcune azioni come veri e propri atti
volontari e consapevoli, derivanti da istinti controllati dalla ragione.
Lasciando inalterato il principio biologico della continuità evolutiva nella serie
dei Primari si può sostenere che il grande distacco intellettuale tra l'Homo
primigenius e gli Antropoidi possa con tutta probabilità essere stato
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determinato da una serie di adattamenti successivi sulla base di una
successione fortuita di combinazioni fortunate. La parte anteriore del cervello
è la sede degli atti psichici superiori ed è in essa che risiedono le differenze
che, dice Sittoni, il tempo e l'evoluzione hanno portato e che sono
maggiormente rappresentate dall'articolazione del linguaggio umano, la cui
assenza nell'Antropoide, pur in presenza degli organi vocali, è il sintomo di
uno scarso progresso intellettivo, poiché non si può scindere la formazione
delle facoltà che determinano l'individualità antropina dall'uso di un
linguaggio che si perfeziona nelle tappe di una continua evoluzione.
Sulla base delle teorie del Broca sulla soppressione della memoria
dell'articolazione verbale, che vedevano nel cervello tante regioni distinte,
corrispondenti alle regioni dello spirito, e sulla base della più moderna teoria
della localizzazione delle funzioni cerebrali, fondata sopra alcune esperienze
di faradizzazione delle aree cerebrali, Sittoni è determinato nell'asserire che le
funzioni psichiche superiori sono condizionate dalla relazione tra zone
eccitabili e non eccitabili delle circonvoluzioni corticali.
L'esperienza della faradizzazione ha mostrato che le capacità psichiche più
elevate sono direttamente proporzionali al grado di complessità delle
connessioni tra le zone eccitabili nel loro essere separate e divise da tratti di
corteccia ineccitabile.
Non ostante il linguaggio, dice Sittoni, possa essere considerato, o meglio
ridotto, ad un complesso di segni che l'uomo utilizza per esprimere i propri
pensieri, al punto che la sua povertà corrisponde ad una altrettanto povera
capacità intellettuale, cosa che accomuna il grado di sviluppo del bambino a
quello delle tribù primitive, mentre la ricchezza del linguaggio è il sintomo più
espressivo delle civiltà più progredite e degli uomini geniali, nel cervello le
zone dell'ideazione sono distinte e separate da quelle che controllano il
linguaggio: il perfezionarsi delle capacità intellettive e verbali è direttamente
in funzione alla facilità di conduzione tra le vie associative che congiungono i
centri corticali, tra cui quello di werniche o delle immagini fonetiche verbali, e
quello delle immagini motrici dell'articolazione verbale, o di Broca.
Facilità di conduzione che si acquista o si perde a seconda dell'uso o del
disuso delle diverse zone corticali interconnesse. Il grado di sviluppo
intellettuale ha quindi il suo correlato fisico nella struttura dei solchi e delle
circonvoluzioni corticali; le facoltà mentali non risiedono in singole parti del
cervello ma dipendono dai collegamenti esistenti nell'intero organo in
45
proporzione con lo sviluppo della sostanza grigia della corteccia.
Da questo punto di vista, allo stesso modo in cui si riconosce agli organi vocali
degli Antropoidi una rassomiglianza con quelli degli Antropini, non si può
non riconoscere ai solchi ed alle circonvoluzioni antropoidee una innata
predisposizione di sviluppo ed evoluzione simile a quella verificatasi
nell'Uomo.
Ecco quindi che il Sittoni può arrivare ad affermare che la zona del linguaggio
tipica dell'encefalo umano non può non essere considerata quale un puro e
semplice carattere di adattamento a delle differenti condizioni di vita, facendo
cadere ogni tentativo di considerare il distacco tra l'Antropino e l'Antropoide
talmente profondo da dover ipotizzare un tipo ipotetico di precursore
intermedio.
La diversità intellettuale tra l'Uomo e gli altri Primarii è solo un prodotto
dell'evoluzione nel tempo: anche l'Antropoide avrebbe potuto differenziarsi,
come ha fatto l'Uomo dai suoi progenitori, se le condizioni ambientali in cui si
trovava lo avessero esposto alle stesse sollecitazioni che hanno portato
l'Uomo ad evolversi, perdendo tutti gli istinti primitivi.
Tutto rientra quindi nella leggi fisse dell'evoluzione e non esistono quindi salti
o distacchi profondi nella catena evolutiva che caratterizza la famiglia dei
Primarii, all'interno della quale l'acquisizione di un linguaggio articolato è
dovuta esclusivamente ad un perfezionamento dei lobi frontali della corteccia
nella loro connessione con le circonvoluzioni temporali, occipitali e parietali
dovute a particolari e favorevoli condizioni ambientali.
Fede positivista quella che animava quindi le ricerche del giovane
Sittoni, espressa però senza le polemiche condanne retoriche tipiche delle
opere del Sergi verso sistemi filosofici non troppo al passo colla modernità del
ventesimo secolo.
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Italia neo ed eneolitica
Nel passaggio alla esposizione degli studi antropologici di Giovanni Sittoni,
intendiamo dichiarare innanzitutto che procederemo col descrivere in un
primo momento, cioè nel presente paragrafo, la interpretazione ricostruttiva
che il ricercatore spezzino intraprende a proposito dei movimenti delle due
grandi stirpi, l'eurafricana e l'eurasica per quanto riguarda l'esclusivo
riferimento in generale alla penisola italiana ed a parte del nord d'Europa, per
poi procedere nel dettaglio a tutto ciò che pertiene all'analisi del territorio
della Liguria Orientale.
Muoveremo quindi dal generale al particolare, per terminare infine con la
descrizione sittoniana della profonda valenza antropologica ed etnologica del
dialetto spezzino.
Unendo i dati antropometrici, più di un centinaio di crani esaminati, agli studi
toponomastici, Sittoni riprenderà le teorie che il Sergi ha espresso nella sua
Da Alba Longa a Roma (2), confermandole con la precisione e l'accuratezza
che caratterizza il suo metodo d'indagine.
Per quanto riguarda la ricostruzione della storia della penisola italiana,
emergerà che in questo territorio si sono alternate o hanno talvolta coesistito
in contemporaneità quattro varietà umane, due per ciascuna delle due grandi
stirpi discriminate dal Sergi: l'eurafricana e l'eurasica.
Per quanto riguarda la razza mediterranea della stirpe eurafricana si possono
infatti trovare in Italia conferma dell'esistenza di due sue varietà, la ligure da
una parte e l'etrusca dall'altra.
La varietà ligure, risalente all'epoca neolitica presenta come caratteristica
fondamentale la platicefalia, assieme ad una particolare caratteristica, come
vedremo in seguito, del tratto sotto-iniaco; la varietà etrusca, invece ha tra le
sue qualità principali, la ipsicefalia, la cui singolarità emergerà nella serie
cranica proveniente dalla città di Sarzana e dalle grotte di Finalmarina.
Entrambe le varietà sono dolicomorfe.
I mediterranei platicefali invece risulteranno distribuiti nelle zone della Val di
Vara, Val di Magra e nel versante costiero delle Cinque Terre; in particolare
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Sittoni esaminerà crani provenienti da Pontremoli, Monterosso, Vernazza,
Biassa, Campiglia e dalla stessa Spezia.
Per quanto riguarda invece la stirpe eurasica, il Nostro è convinto di poterne
riscontrare due varietà: la celta o golasecchiana da un lato, e la slava o
villanoviana dall'altra. Anche in questo caso la prima è platicefala mentre la
seconda presenta una tendenza verso l'ipsicefalia. Quest'ultima varietà verrà
riscontrata nella serie cranica di Filattiera composta da mediterranei frammisti
ad eurasici brachi-ipsicefali.
L'invasione degli Eurasici in Val di Magra potrà essere datata attorno al IX
secolo a.C., mentre sulla loro provenienza verranno confrontate dal Sittoni,
due ipotesi: essi provenivano infatti o dall'Etruria o dalla Pianura Padana; la
prima interpretazione sembra più verosimile sulla base dei dati provenienti da
Genicciola e dall'analisi della stele di Filetto, anche se non può essere esclusa
una invasione eurasica nella Valle Padana attorno alla prima Età del Ferro.
Inoltre la presenza degli ipsicefali nella valle del Po emerge dall'esame di una
serie cranica di 166 unità provenienti da Costageminiana di Bardi,
nell'Appennino ligure parmense; nella serie, 107 unità sono eurasiche e 59
mediterranee; tra questi vi sono 18 ipsicefali e 13 camecefali.
Per quanto riguarda la presenza della stirpe eurafricana in Italia, secondo
il Sittoni, è possibile arrivare alla conclusione che le due varietà mediterranee
sono giunte nei nostri territori in tempi diversi e secondo due modalità
altrettanto differenti, alle quali corrispondono i due principali gruppi etnici
analizzati anche dal Sergi e discriminate sulla base delle indagini
toponomastiche: i Liguri e i Siculi. Mentre i primi infatti arrivarono nella nostra
penisola via terra, passando dall'Africa in Europa per la via di Gibilterra, i
Siculi invece approdando dapprima proprio nelle coste della Sicilia, giunsero
via mare in Italia. Se i Liguri infatti possono essere considerati come una
popolazione essenzialmente montana, che si stanziò prevalentemente nel
nostro sistema alpino e nelle sue vallate, i Siculi invece sono i rappresentanti
di una popolazione fondamentalmente marittima, di pescatori cioè e cacciatori
costieri.
Entrambe le due varietà sono caratterizzate dal possedere una forte tendenza
espansionistica, che li ha portati a diffondersi per vasti territori, ciò che è
evidente, come ha mostrato il Sergi, dall'analisi dei toponimi. La presenza ad
esempio della Segesta e dell'Erice in Sicilia, accanto alle due Segesta e all'Erice
nella riviera ligure, denotano, dice Sittoni che tribù di un medesimo popolo
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hanno occupato col tempo l'intera costa tirrenica. Certo non si può pensare
che i fondatori delle tre Segesta fossero gli stessi, ma si può invece credere
che provenissero da una medesima zona delle coste africane dove vigeva una
identica toponomastica.
A questo popolo deve essere riferita la tribù dei Tigulli, dato che, continua
l'antropologo spezzino, proprio la tribù marittima dei Tigulli deteneva la
Segesta Orientale, estendendosi fino a Rapallo, dove ancora oggi si ritrova la
denominazione di Tigullo per designarne il golfo; inoltre nella zona occupata
dai Tigulli si trova il fiume Entella, così come in Sicilia. Secondo Sergi poi, ci
ricorda Sittoni, anche il porto di Luna nel cagliaritano sarebbe in relazione con
il porto ligure di Luni.
A seguito della loro forte tendenza espansionistica i due rami mediterranei
dovettero poi in alcune zone mischiarsi e fondersi assieme, in modo tale che
gli stessi storici dell'epoca dovettero sotto uno stesso nome, unire tribù
evidentemente differenti dal punto di vista antropologico; sotto il nome di
Liguri alcuni storici dovettero accomunare quegli elementi marittimi e montani
che lottavano assieme contro la stessa Roma.
E' cosi infatti che mentre troviamo i siculi Tigulli nella riviera ligure, ai confini
col Lazio troviamo, secondo le deduzioni toponomastiche del Sergi i Liguri
sabini: analogie tra i termini Sebinus (lago d'Iseo) , gli abitati Sabium, Sabio,
presso l'Adige, Vada Sabata (Vado Ligure) ed il fiume Sabatus nel Sannio; ma
soprattutto si hanno conferme dalla serie cranica proveniente da Aufidena,
città situata negli Appennini ad una quota di 1000 metri, in linea con le
tipologie degli insediamenti tipici dei Liguri. Questa serie, dice Sittoni
rivelandosi dolicomorfa e fortemente camecefala, rappresenta quello che può
essere definito il puro classicismo delle forme tipiche delle valli e montagne
apuane e briniate, essa rientra negli standard delle serie craniche analizzate in
Val di Vara e Val di Magra, mentre nella serie neolitica di Finalmarina e nelle
due sarzanesi sono stati riscontrati quegli elementi ipsicefali, tipici della serie
dei Romani antichi del Sergi che ci fanno pensare alla presenza di elementi
siculi, ricordandoci i Sicani di Saturnia, e rappresentano quindi nella sua
purezza il ramo marittimo della stirpe eurafricana.
A fronte di queste prime analisi craniologiche si può quindi affermare che i
caratteri osteologici mediterranei, non ostante l'invasione eurasica subita in
più zone e in tempi differenti, si sono dimostrati molto resistenti ad ogni tipo
di modificazione sulla base delle mescolanze ed incroci.
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Per quanto riguarda infatti il grado di persistenza dei caratteri facciali
mediterranei, anche nella serie di Costageminiana di Bardi e in quella di
Filattiera, dove è maggiormente rappresentato l'elemento eurasico, si può
notare l'insistenza del profilo mediterraneo puro, senza cioè che l'elemento
eurasico cancelli o diminuisca in maniera significativa la mediterraneità del
profilo facciale. Nelle serie si riscontra infatti una prevalenza di leptoprosopia,
leptorrinia e ipsiconchia forte. A Costageminiana ad esempio, il profilo
facciale, misurabile in 122 unità, dette come risultato 98 leptoprosopi, 18
mesoprosopi e 5 cameprosopi; per l'indice nasale 54 leptorrini, 47 mesorrini e
27 platirrini, mentre per gli indici orbitari si hanno 64 ispiconchi, 42
mesoconchi e 15 cameconchi.
La serie di Costageminiana è molto significativa perché in essa sono presenti
tutte e quattro le varietà che si trovano in Italia, le due mediterranee e le due
eurasiche. Per quanto riguarda le prime, troviamo infatti la platicefala o ligure,
la quale è fortemente dolica, ha la norma superiore ellissoide, la laterale
trapezoidale, con fronte bassa, leggermente inclinata e appianata; la volta
parimenti appianata, a decorso orizzontale e rettilineo. L'occipitale ha decorso
inclinato con forte sporgenza a calcagno, e il tratto sotto iniaco, buon
discriminante come avevamo anticipato sopra della varietà ligure, a decorso
orizzontale e rettilineo, quasi parallelo alla volta. Per la norma posteriore
invece si ha un pentagonoide acuto con i due lati laterali quasi paralleli tra di
loro.
L'altra varietà invece, la ipsicefala è caratterizzata dalla norma superiore
ovoide e pentagonoide, norma laterale del pari ovoide; il cranio presenta
curvatura anche nel tratto sotto iniaco e così per la regione frontale, volta e
occipitale; norma posteriore a pentagonoide lungo con i lati laterali
convergenti verso il basso, inclinati.
Ecco quindi l'aiuto che ci fornisce questa serie nel delineare la composizione
etnica della nostra penisola nell'epoca preistorica: è confermata l'esistenza di
un elemento neolitico nelle tribù Friniate di Costageminiana e di Finalmarina,
mentre non è invece riscontrabile in quelle apuane, briniate, e tigullie
cinqueterresi, dove la varietà mediterranea ipsicefala non ha grande rilevanza.
I pochi elementi neolitici di cui abbiamo constatato l'esistenza in Italia,
possono probabilmente indicare che l'invasione africana del Neolitico, a base
di elementi a cranio alto, non è stata una invasione in forze, come lo fu invece
quella dell'Eneolitico, a base di elementi a cranio basso.
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E così l'elemento neolitico sembra non essersi stanziato in Val di Vara e in Val
di Magra e neppure nelle coste de Monterosso a Luni, come vedremo nella
descrizione dettagliata delle serie craniche provenienti da queste zone.
Dal fatto che il tipo eurasico non abbia frequentato la costa marina emerge
invece come questo gruppo di invasori eurasici fosse composto in prevalenza
da genti dedite all'agricoltura, che si stanziarono in zone più adatte a questa
attività senza interessarsi alla pesca marina.
Dati analoghi si hanno, anche se provenienti dall'analisi di pochi casi, dalle
serie di Compiano, quattro crani e Bedonia, due soli crani. Sittoni riscontra le
quattro varietà già trovate a Costageminiana, con la medesima mescolanza
etnica: forte leptoprosopia, ipsiconchia e mesorrinia.
E' notevole, però che a Bardi ed a Costageminiana, ci dice Sittoni, si sia
conservata una pronuncia ligure simile a quella che si ritrova a Biassa e alle
Cinque Terre, non ostante la stirpe sia a maggioranza eurasica; e questo a
conferma della attenzione, in linea con quanto abbiamo visto nel Sergi, che
l'antropologo deve porre nell'attribuire la diversa priorità ai criteri di
classificazione, tra cui quello linguistico.
Riassumendo quindi gli esiti delle ricerche dell'antropologo spezzino fin
qui descritti, a proposito delle due immigrazioni neo ed eneolitiche dei popoli
mediterranei dell'Africa in Europa, possiamo dire che la prima immigrazione
fu essenzialmente a base di elementi marittimi sbarcati in un primo tempo
sulle coste della Sicilia, dove in piccoli gruppi iniziarono poi a
sedentariezzarsi come agricoltori e allevatori, spinti dal bisogno e dalle
necessità. Questi marittimi, cacciatori e pescatori, provenivano dalle coste
orientali algerine, tripoline e tunisine, e occuparono dopo la Sicilia,
gradualmente la Sardegna, la Corsica e il litorale tirrenico. A conferma di
questo, ci sarà come vedremo una prova dell'unità di una stessa varietà
antropologica tra i Sardi e le popolazioni marittime delle Cinque Terre, mentre
tale relazione non appare così altrettanto evidente tra questi ultimi e gli
abitanti delle montagne dalla Val di Magra. La prevalenza della dolicomorfia
tra i Cinqueterresi è infatti inferiore a quella che emerge dalle serie craniche
provenienti dalle vallate del retroterra.
L'altra invasione invece, quella eneolitica, avvenne in grandi masse,
prevalentemente ad opera di popoli migratori dediti al nomadismo pastorale
che giunsero in Europa, via terra, attraverso Gibilterra.
A queste due varietà corrispondono, come abbiamo visto, due differenti tipi
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cranici, la camecefalia e l'ipsicefalia; la tesi del Sittoni è che queste due varietà
non siano un prodotto ambientale avvenuto in Italia, ma entrambe si
sarebbero differenziate prima di arrivare nella nostra penisola.
Possiamo anticipare ora che il problema della presenza dell'ipsicefalia è
collegato anche con quello della provenienza e diffusione di un altro popolo:
gli Etruschi.
Molti li ritengono infatti una popolazione marittima proveniente dal
Mediterraneo orientale, dalla Lidia in particolare; Sittoni invece è del parere
che non fossero originari di questa regione, bensì ipotizza che facessero
anch'essi parte degli stessi migratori africani marittimi dell'epoca neolitica, i
quali si diressero in un primo momento verso la Lidia, ma che nelle
generazioni successive si spostarono nella penisola italiana mischiandosi alle
genti che incontrarono. E infatti, dalle osservazioni dirette del nostro
antropologo emerge che laddove si verificò questa mescolanza, l'identità
antropologica Ligure e Sicula risulta alterata proprio dall'elemento ipsicefalo.
Sittoni non nega quindi che anche altri elementi mediterranei possano essere
la causa della presenza dell'ipsicefalia in Italia, ma fa rientrare questi elementi,
come gli Etruschi ad esempio, negli stessi movimenti dei popoli marittimi del
Neolitico, collegandoli cioè tutti ad una stessa origine comune nello spazio e
nel tempo.
Ciò risulta anche dalla serie dolico-mesocefala di crani etruschi esaminati dal
Frassetto (3), dove non si trovano camecefali, ma 3 ipsicefali e 4 ortocefali, e
un po' meno in quella del Sergi, che è a forte ortocefalia: su 33 crani, 23 sono
ortocefali, 6 camecefali e 4 ipsicefali.
E così l'assenza o quasi di ipsicefali nelle valli della Vara e della Magra, così
come ad Aufidena, va di pari passo con l'assenza di sepolcreti etruschi.
Una piccola conferma a questa teoria delle immigrazioni neo ed eneolitica si
trova anche dall'analisi di serie africane, studiate anche in questo caso da
Giuseppe Sergi; ciò che emerge è una divisione tra il versante mediterraneo
occidentale dell'Africa, dove prevale una dolico-camecefalia e quello
orientale, dove invece si riscontra l'affermarsi della mesati-ipsicefalia; proprio
da qui partì, per il Sittoni la prima migrazione, quella cioè del Neolitico, la cui
presenza non è stata ancora riscontrata ad esempio nella penisola iberica,
dove invece sono stati trovati resti di insediamenti eneolitici, epoca a cui
risale proprio la seconda invasione, in grandi masse attraverso Gibilterra, di
gruppi a cranio dolico-ortocefalo e came-dolicocefalo. A differenza della
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prima, questa fu una vera e propria invasione, a giudicare dalla
sproporzionata distribuzione delle due varietà quale ci appare nelle zone
analizzate. A causa di questa preponderanza che influì grandemente nelle
mescolanze etniche che si crearono col tempo, risulta, scrive Sittoni, al giorno
d''oggi impossibile ritrovare nella sua purezza l'elemento neolitico, che ha
come unica testimonianza del tipo nel suo puro classicismo quello rinvenuto
nelle grotte di Finalmarina.
Il preponderante influsso dell'elemento camecefalo su quello ipsicefalo si
esprime proprio con la forte affermazione dell'ortocefalia. Questo rapporto
sarà evidente, e possiamo anticiparne i risultati, dall'esame delle unità
craniche della costa ligure, tra Levanto e La Spezia. Tranne le Cinque Terre, in
particolare Monterosso, l'attitudine marinaresca ha dovuto lasciare il posto
all'invadenza dei coltivatori e allevatori delle vallate retrostanti: l'elemento
eneolitico ha ridotto a coltivazione, mediante terrazzamenti creati con muri a
secco riempiti di terra trasportata a mano, persino le aride zone a picco sul
mare.
Nel complesso dalle serie craniche degli abitanti della costa, dalla Marina di
Tramonti a Luni emergeranno 31 camecefali, 28 ortocefali e 4 ipsicefali; la
stessa proporzione tra orto e camecefali si ha in Val di Vara, Val di Magra e Val
di Taro; tuttavia mentre nelle valli domina la camecefalia, a Monterosso si ha
la dominanza, nella misura del 54 %, della ortocefalia; fatto che non si
riscontra ad esempio nelle zone marine di Biassa e di Luni, dove la
camecefalia è dominante per il 60% a Biassa, e per il 56% a Luni. Questo
risultato, continua Sittoni non è per nulla casuale, se si pensa che la zona di
Biassa subì una invasione da parte di un grande nucleo di fuorusciti dalla Val
di Vara e che il territorio di Luni è, fino alla spiaggia, favorevole all'agricoltura
e allevamento.
Attitudine che si è tramandata fino agli attuali discendenti di queste antiche
popolazioni, cosa che risulta evidente proprio dal rapporto tra gli abitanti di
Tramonti con quelli delle Cinque Terre; i primi infatti, pur a diretto contatto
con l'attività marinara dei Cinqueterresi, non dimostrano dice Sittoni alcuna
inclinazione naturale alla vita marinara, né sono presenti in essi segni atavici
che i loro predecessori si comportassero diversamente.
A Tramonti – scrive Sittoni- si guarda il mare con indifferenza e in vano si
cercherebbe localizzato un pescatore od un marinaio.
Eccettuate le Cinque Terre, il marinaio ha ceduto ovunque all'invadenza del
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coltivatore e dell'allevatore del retroterra. (4)
A fronte di questi risultati, nel tornare ad occuparci più in generale delle
sorti che hanno riguardato il succedersi delle popolazioni nella penisola
italiana, noi possiamo estendere le considerazioni fin qui elaborate e fare
della discriminazione delle due invasioni neo ed eneolitica un punto fermo
per poter considerare nella loro sincronia e diacronia gli sviluppi dei rapporti
tra i Liguri e le altre etnie, tra cui Pelasgi e Piceni.
Il fondamento delle nostre considerazioni, il fatto cioè che non sia possibile
estendere genericamente il nome di Liguri agli elementi arrivati nel Neolitico
come a quelli dell'Eneolitico, ci permetterà innanzitutto di poter fare un a
passo avanti anche nel problema della spiegazione descrittiva dell'ipsicefalia,
permettendoci di poter distinguere all'interno di questa varietà mediterranea
due sotto varietà.
Queste sottovarietà saranno determinate come vedremo da una differenza
nella norma superiore. Anche in questo caso, Sittoni e Sergi lavorano assieme;
a confermare infatti la prima divisione tra le due varietà, la came e la
ipsicefala, si aggiungono altre serie studiate da Giuseppe Sergi che riguardano
i Piceni di Novilara, Belmonte e Cupramarittima (Ancona): anche in questi casi
è evidente la stratificazione delle due etnie differenti sulla base della
discordanza degli indici di altezza. La dolico-camecefalia tipica dell'elemento
ligure si alterna a numerosi esemplari dolico-mesocefali camecefali; quello
che maggiormente stupisce è però la presenza di un ulteriore fattore
discriminante: la sostanziale presenza, 21 unità su 42, a Novilara della norma
superiore del tipo ellissoide-pelasgico. Quello che stupisce, dice il Sergi, non è
tanto la presenza di questo tipo cranico, bensì il numero rilevante di unità in
un sepolcreto dell'Età del Ferro.
L'altra sottovarietà ipsicefala è quella riscontrata nelle grotte di Finalmarina,
che risale però ad un'epoca diversa, al Neolitico.
In quale relazione stanno allora gli ipsicefali di Novilara con quelli di
Finalmarina, differenti per l'epoca del loro arrivo in Italia?
Nel caso di Novilara siamo in presenza di un gruppo di Pelasgi provenienti
dall'Egeo in piccole colonie; secondo il Sergi infatti i Pelasgi devono essere
considerati come dei pre-Elleni in Asia Minore e nell'Europa continentale,
dove fondarono le grandi civiltà Minoica e Micenea; mentre in Italia la loro
presenza fu esigua, essi non invasero certo in forze il nostro continente come
le popolazioni liguri e sicule. L'origine dall'Africa orientale dei Pelasgi è
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confermata dal fatto che il loro tipo di forma cranica è stata trovata anche tra
gli Egiziani antichi e si può riscontrare tuttora tra gli Abissini attuali, assieme
alla testimonianza della loro forte espansione nell'Egeo.
Allo stesso modo la zona che occuparono, il litorale adriatico è l'indizio che la
loro direzione di provenienza sul nostro territorio debba essere ricercata nelle
isole dell'Egeo, mentre la mancanza di reperti attestanti una diffusione al di là
della stessa Novilara, è il segno della composizione numericamente esigua
delle loro colonie marittime, della loro mancanza di intendimenti
espansionistici e della loro tendenza a vivere tranquillamente.
A Novilara siamo quindi in presenza di una mescolanza etnica, data dalla
diversa norma superiore, tra due sotto-varietà mediterranee; è probabile che
al loro arrivo i Pelasgi incontrarono una popolazione preesistente, la quale
non dovette opporre troppa resistenza, data la persistenza del convivere delle
due forme craniche. Secondo Virgilio, la zona era già anticamente occupata
dai Siculi che rappresentano quindi l'altra sotto-varietà, la quale rientra sia per
la norma superiore che per la prevalente dolico-ipsicefalia, tra gli eneolitici
delle grotte di Finalmarina.
Continuando nel nostro intento di descrivere in generale le caratteristiche
antropologiche delle varie popolazioni che occupavano anticamente la
penisola italiana, così come ce le ha rappresentate il Sittoni nelle sue
pubblicazioni, non possiamo non soffermarci in maniera un po' più
particolareggiata sulla presenza degli Ombrici nella Valle Padana, nei loro
rapporti con le altre etnie che li circondavano.
Appartenevano gli Umbri alla varietà mediterranea? In quale relazione si
trovavano con i Liguri e con i Siculi?
Il problema viene affrontato dall'antropologo spezzino nel contributo
intitolato Gli Ombrici in Val Padana (5) estratto dagli atti della XXVI
Riunione della Società Italiana per il Progresso delle Scienze, tenutasi a
Venezia dal 12 al 18 settembre del 1937.
Partendo anche in questa occasione dalle riflessioni del Sergi, vengono subito
passate in rassegna le analogie toponomastiche esistenti nella corografia
italiana ed europea in parte, così come ce le hanno tramandate gli storici
dell'antichità. Secondo Erodoto, il fiume Carpis, affluente del Danubio si
trovava nei pressi di un insediamento degli Ombrici, mentre Strabone ci
riferisce della loro presenza nella zona dell'Adriatico, attorno a Ravenna; Livio
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inoltre ce li descrive come insediati nella zona tra Viterbo, nei Monti Cimini ed
il lago di Bracciano, lago Sabatinus; infine Porcio Catone, secondo quanto ci
tramanda Dionisio sostenne che gli Ombrici appartenessero allo stesso ethnos
dei Sabini. Sergi stesso poi annota la presenza di un Ager Camara in Lucania,
un insediamento, Camerio, nel Lazio, ed un fiume Camarino in Sicilia, tutti in
apparente relazione con gli Ombrici Camertes, assieme ad altre analogie che
tralasciamo.
Sulla scorta di queste osservazioni, nel ricordare innanzitutto che il nome di
Ombrici fu attribuito agli Umbri dai Greci, proprio come avvenne per gli
antichi Raseni, Sittoni è determinato nel sostenere che queste popolazioni non
fossero nient'altro che parte di gruppi di tribù sicule.
Così, quegli stessi uomini che Erodoto cita nei pressi del Danubio,
rappresentano proprio le estreme propaggini degli invasori siculi del Neolitico
che abbiamo descritto in precedenza; una popolazione antichissima quindi,
come li descrive anche Plinio ( gens antiquisima existimatur ) e Dionisio.
Per la precisione gli Umbri rappresenterebbero l'espansionismo siculo in
direzione dell'Adriatico.
Probabilmente, continua Sittoni, essi dipartirono proprio dalla zona del
Gargano in Apulia, dove infatti oltre ad esservi la città sicula di Luceria, che
aveva relazioni economiche con la Grecia, vi è il bosco di Umbria, luogo
dove, sempre per ipotesi, i Greci iniziarono a denominare questi Siculi come
Ombrici; anche il nome di questa località dovette essere stato attribuito dai
greci, dato che i Camertes non usarono mai il nome di Ombrici per la loro
toponomastica e gli stessi romani per identificarli, al termine Ombrici facevano
seguire il Camertes, chiamandoli appunto Ombrici Camertes. Da questo luogo
comunque iniziò il movimento di espansione verso il settentrione, e questo
movimento determinò per il nostro antropologo la mescolanza degli Umbri
con altre genti, in particolare con i Liguri: da Siculi quindi essi diventarono
Liguri e Siculi assieme; e così poi nel movimento di retrocessione; perché essi
discesero, in un secondo momento, a causa della pressione degli Illirici dal
Danubio e si riportarono stanziandovisi, nell'Umbria vera e propria.
In questo movimento di retrocessione transitarono nella valle del Po, come ci
conferma la toponomastica: l'ombrica Sirmio sul Savus e Altinium sul
Danubio hanno i loro omonimi rispettivamente sul Benaco ed alla foce del
Piave.
La zona di confine dei loro insediamenti potrebbe essere proprio delineata dal
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fiume Trebbia; in questa zona si trova infatti la città di Ombria e dal fiume
Enza, nei pressi del quale abbiamo l'abitato di Luceria, omonima della Luceria
d'Apulia.
Ecco che il quadro si ricompone facendosi più completo: l'invasione
eneolitica, quella cioè proveniente da Gibilterra, arrivò nella Valle Padana per
la via delle Alpi occidentali arrestandosi proprio nei pressi del fiume Trebbia,
trovando la zona padana adriatica già occupata dagli Umbri; a conferma di
questa teoria ci torna in aiuto la serie di Costageminiana che come abbiamo
visto racchiude in sé quasi in parti eguali le due varietà mediterranee, la
camecefala e la ipsicefala. Questa equivalenza nella quantità dei due tipi
potrebbe proprio far pensare ad una zona di confine, ipotesi che si addice,
data la posizione geografica, anche alla zona del fiume Trebbia, proprio nelle
vicinanze della città di Ombria.
L'essersi arrestati dei Liguri, in linea di massima al di qua della Trebbia è
testimoniato anche dal fatto che la loro espansione in seguito avvenne dal
versante tirrenico e non in quello adriatico; essi non furono così i primi
abitatori di ogni luogo che incontravano: gran parte della toponomastica era
preesistente al loro arrivo, tra cui il nome Trebbia.
Un altro indizio, prosegue Sittoni, dell'identità tra Siculi e Ombrici si può
rintracciare proprio nelle quattro Segesta già citate: sul fondamento della
segnalazione erodotiana della presenza degli Umbri nel territorio del
Danubio, anche la Segesta danubiana può considerarsi fondata dagli Ombrici
stessi, a seguito del movimento di espansione lungo l'Adriatico.
In conclusione quindi, l'intima relazione etnica che sussiste tra la Luceria
padana e quella di Apulia si basa proprio sul fatto che entrambe furono
fondate da quegli stessi Siculi che i greci chiamarono Ombrici e che poi
furono sopraffatti come vedremo, dalle invasioni degli Slavi nel IX secolo a.C.
Quando si parla di Ombrici si deve sempre pensare ai Camertes, dato che
questo è proprio il loro nome etnico, e infatti troviamo in Sicilia, Camarino; in
Lucania, Ager Camara; nell'Umbria, Camaria e nel Lazio, Camers. Dove poi gli
storici antichi segnalano gli Ombrici, si riscontra sempre la presenza di un
fiume: il Clanis. Clanis nel Danubio, nell'Umbria, come affluente del Tevere,
come antico nome del Liris e in Campania. Altre analogie nella toponomastica
le abbiamo viste nella Trebbia, presente in Sicilia, nell'Umbria e in Val Padana;
così come per le quattro Segesta.
L'invasione eurasica del IX secolo a.C. non eliminò radicalmente dalla valle
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del Po gli Umbri; fu invece il sopraggiungere dei Celti nel IV secolo, come ci
ricorda Livio, che li ridusse nel territorio dell'Umbria vera e propri: Padus
ractus traiectus (Galli) non Etruscos modo, sed etiam Umbros agro pellunt
(6).
Sempre dall'esempio della serie di Costageminiana, si può dedurre che la
Trebbia divenne, così come prima lo era per le due varietà mediterranee, il
confine anche per le due varietà eurasiche, quella proveniente dalle Alpi
orientali e quella dalle Alpi occidentali.
Ecco quindi la storia degli Umbri: popolo antichissimo, si trovavano in Italia
già dal Neolitico, mentre i Liguri posteriori ad essi, vi arrivarono
nell'Eneolitico, furono poi sconfitti dagli Illirici nella valle del Danubio, dagli
Etruschi nella valle del Po e del Tevere, e in seguito mescolati agli Etruschi
furono dai Galli del IV secolo a.C. soggiogati e ridotti definitivamente
nell'attuale Umbria.
Le invasioni eurasiche, conclude Sittoni, hanno sconfitto solo numericamente
gli indigeni preesistenti, poiché dal punto di vista della civiltà, quella italica è
un prodotto creato unicamente ad opera di mediterranei, tra i quali un posto
di prim'ordine spetta proprio ai Raseni.
Passiamo quindi ora ad analizzare più dettagliatamente la questione
etrusca. Come abbiamo visto in precedenza, il Sittoni, in linea anche con le
indagini antropologiche di Sergi e di Frassetto, interpreta i movimenti dei
Raseni come parte di quel grande e globale fenomeno di migrazione di tutta la
stirpe eurafricana nel Mediterraneo; la loro dipartita dalla Lidia, non ne indica
l'originaria provenienza, ma ha solo il significato di mostrarci una delle prime
tappe dei loro spostamenti. Certo in Lidia, scrive Sittoni, si verificò una
singolarità: l'atavico carattere nomade proprio degli Eurafricani lasciò il posto
ad una persistente sedentarietà che li portò ad apprezzare maggiormente i
vantaggi della quiete di una stabile civiltà aliena da ogni forma di nomadismo.
Altrettanto singolare è però quello che accadde in Italia; qui lo spirito di
sedentarietà che avevano acquisito da generazioni in Lidia, si trasformò
proprio nel suo opposto, in un impulso di conquista ed espansione tale da
ricordare proprio l'avito nomadismo che era scomparso.
A questo punto si può notare un fatto importante: i Liguri che si erano
insediati in Italia avevano conservato inalterata l'anima nomade della stirpe,
dedicandosi dapprima all'attività pastorale e in seguito anche a quella
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dell'agricoltura, essi erano però rimasti chiusi verso ogni influenza di culture
allofile, grazie alla forte coesione sociale delle proprie tribù, ed alla diretta
mancanza di contatti con altre civiltà, conservando quindi, scrive Sittoni, un
insieme di costumi e una mentalità piuttosto primitive, ancora eneolitici nel
periodo in cui sopraggiunsero i Raseni. Questi ultimi infatti, arricchitisi
culturalmente grazie all'intensità degli scambi anche economici con l'oriente
mediterraneo, ma soprattutto alla loro permanenza in Lidia, si scontrarono in
Italia con popolazioni tanto rudi quanto socialmente erano coese.
Fu in questo clima, continua l'antropologo spezzino, che si ridestò nel
profondo dello spirito etrusco l'antico richiamo all'attiva dinamicità di una vita
nomade e spinta verso imprese di conquista, che si concretizzò in una
maestosa attività di guerrieri e di intraprendenti fondatori di nuove città,
allargando quelle già esistenti, navigando e stabilendo un fiorente commercio
marittimo per i porti del Tirreno.
Attaccarono vincendoli i Villanoviani della Valle Padana, destreggiandosi
anche contro i Galli, contro gli stessi Romani ed i Greci; fondarono città quali
Caere, Veji, Volterra e Tarquinia; e proprio a Roma si mescolarono con la
cittadinanza gettando le basi di quel fondamento da cui, nei tempi successivi,
si generò proprio la grandezza della potenza romana.
Dal punto di vista dell'analisi antropologica, è chiaro che si può riscontrare in
tutto questo un fondo comune che vincola assieme, per quanto riguarda la
parentela etnica, Etruschi e Liguri: entrambi capaci di manifestare una forte
tendenza all'espansione, all'invasione di territori ed al soggiogamento dei
popoli vicini e confinanti. Caratteristica che accomuna come abbiamo visto,
ciascun ramo della stirpe mediterranea e quindi propria di questa stirpe in se
stessa.
E così Liguri ed Etruschi, simili per indole, differenti per cultura, uniti assieme
estesero il loro dominio su gran parte della penisola, e crebbero
numericamente anche in virtù della coesione con elementi eurasici, come
risulterà dall'analisi delle serie craniche, occupando oltre l'Etruria, anche parte
della valle del Po, dell'Umbria e della Campania.
Non importa che si parli di Liguri e di Etruschi, ciò che preme al Sittoni di
constatare è il comune sostrato di combattività proprio di una intera stirpe,
che si attua indipendentemente da ogni fine prestabilito: distruzione o
conservazione di civiltà, razzia o colonizzazione, guerre o commercio, tutto è
determinato da un elemento di nomadismo che sta alla base.
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Siamo in questo caso, nel campo di quella che può essere definita psicologia
etnica; dall'analisi della storia del popolo etrusco nella sua assimilazione e
contrasto con gli indigeni italiani si possono infatti trarre conclusioni che
riguarano, più in generale la psicologia di un intero popolo.
Ciascuna varietà e anche sotto-varietà di ogni stirpe è determinata nelle
manifestazioni dei propri comportamenti dalla peculiarità di un'indole che
trae la forza del proprio sviluppo da un substrato fondamentale e congenito.
Le eventuali varie differenze nell'esternazione di questi tratti caratteristici
dipendono esclusivamente da differenti reazioni di adattamento alle
condizioni esterne di vita. E così l'unità della stirpe mediterranea, nello
specifico tra Liguri ed Etruschi è testimoniata, oltre che dai dati antropologici,
anche dalla comunanza degli aspetti più profondi della psiche dei popoli.
Veniamo ora ai dati dell'antropologia craniometrica. Le riflessioni del
Sittoni si originano dalle serie analizzate innanzitutto da Sergi e da Frassetto. I
risultati delle analisi del primo (7) sono i seguenti: di 27 crani, 21 possono
essere considerati come della varietà mediterranea della specie eurafricana, e
solo 5 risultano invece appartenenti alla stirpe eurasica.
Tra i primi la forma prevalente è quella ellissoide, seguita dall'ovoide (11
ellissoidi, 8 ovoidi); nei cinque eurasici invece prevalgono gli sfenoidi (4 su
5). La convinzione del Sergi è dunque questa: i primi abitatori della nostra
penisola, provenienti dall'Africa e appartenenti alla varietà mediterranea
rimasero isolati senza mescolanze etniche sino alla fine del Neolitico, epoca in
cui si verificò una prima invasione di popolazioni eurasiche, seguita poi da
una ulteriore e sostanzialmente più devastante infiltrazione di elementi etnici
definiti dai linguisti indogermanici o arii, che portò ad un grande mutamento
di costumi, tra cui il funerario; si passò infatti dall'inumazione all'incinerazione
dei defunti. In seguito sopraggiunsero gli Etruschi che si trovarono di fronte
un popolo composto proprio dalla mescolanza dei due caratteri, il
mediterraneo e l'ario: gli Umbri.
Fisicamente è possibile, secondo il Sergi distinguere il tipo etrusco dall'ario. Il
primo appartiene al tipo sottile, ha la testa allungata e stretta di forma
ellissoidale od ovoidale, e così pure il volto; ha inoltre il collo lungo, le spalle
strette e la vita sottile, in generale presenta carnagione e capelli bruni. Il tipo
eurasico invece può essere definito come tipo obeso: testa larga, il più delle
volte piana al vertice, faccia larga dalla forma sostanzialmente quadrata, collo
corto e grosso con spalle larghe; occhi, pelle e capelli bruni. Questo tipo fisico
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si trovava già in Italia prima dell'invasione degli etruschi, che secondo Sergi
deve datarsi attorno all'ottavo secolo a.C., ed è numericamente inferiore
all'altro. Analoghe conclusioni il Sergi le aveva espresse nell'articolo Die
Etrusker und die alten Schädel des etruskischen Gebietes (8) dove si legge
infatti che il tipo etrusco appartiene proprio alla varietà dei dolicomorfi
mediterranei:
...so müssen vir auch annehmen, dass die Etrusker ein Volk von der
Mittelmeervarietät mit folglich dolicomorphem Schädel waren (9) , e anche
che il loro tipo fisico è proprio all'opposto di quello obeso descritto, ad
esempio da Catullo, come proprio degli Etruschi:
Der wahre etruskische Typus ist der, welcher die Mittelmeervarietät an sich
trägt, d.h., der feine...(10)
Analoghe conclusione le aveva tratte il Frassetto (11), su 15 crani si
hanno, per quanto riguarda le forme, 8 ellissoidi, 4 ovoidi e 3 pentagonoidi,
con prevalente dolico-mesocefalia per l'indice cefalico e di orto-ipsicefalia per
l'indice verticale. Le forme craniche rientrano quindi nel gruppo degli
Eurafricani così come sono stati definiti dal Sergi.
Anche il Frassetto riscontra quindi la presenza di due elementi etnici,
l'eurasico (che è però assente nella sua serie) e il mediterraneo; andando però
oltre nel porre il problema della distinzione, nei mediterranei, tra quelli che
possono ritenersi Italici etruschizzati, cioè gli Umbri mescolatisi con gli
Etruschi, e gli Etruschi veri e propri.
Questione che rimane senza risposta, data lo stato attuale delle conoscenze.
L'assenza di elementi eurasici e di platicefali nella serie del Frassetto ci pone
però di fronte ad elementi etruschi selezionati.
Sulla base di queste considerazioni si inseriscono le ulteriori osservazioni
del Sittoni; anche per il nostro antropologo, per quanto riguarda la Bassa
Etruria ciò che emerge è la commistione di quattro elementi: due
mediterranei, i Liguri e gli Etruschi, e due eurasici, gli Armenoidi e
Mongoloidi. Rispetto alla domanda senza soluzione del Frassetto, però Sittoni
tenta di fornire una risposta; che cosa può differenziare il cranio ligure
dall'etrusco? Un criterio significativamente interessante lo possiamo trovare
nella norma laterale: tra i liguri infatti troviamo prevalentemente la forma
trapezoide, mentre caratteristica peculiare dell'etrusco sembrerebbe essere la
norma ovoide o ellissoide, anche laddove il cranio tende alla platicefalia.
Questo dipende, come si era già notato in precedenza, dall'andamento del
61
tratto sotto-iniaco, che risulta parallelo o quasi, nei platicefali, alla volta. Alla
luce di questa considerazione, Sittoni può all'interno della serie esaminata dal
Sergi distinguere su 34 crani, 20 appartenenti al tipo etrusco vero e proprio e
14 al tipo ligure; mentre tra i 10 eurasici, 4 rientrano nella forma celta e 6 in
quella slava. Così i Liguri furono i primi abitatori di quella zona che poi
diventerà l'Etruria marittima, e nella prima età del ferro furono sconfitti e
soggiogati dall'elemento eurasico proveniente dalla Valle Padana, mentre con
la venuta degli Etruschi, l'elemento mediterraneo tornò ad essere
predominante.
Sempre per quanto riguarda gli Etruschi non è da trascurarne la presenza
anche nei pressi e all'interno della stessa Roma; Sittoni ci ricorda infatti
l'importanza del ruolo che la tribù dei Luceres assunse per quanto riguarda
l'origine e il popolamento dell'Urbe. Durante l'Età del Ferro infatti, il territorio
alla sinistra del Tevere corrispondente al Lazio primitivo non subì il dominio
dei Villanoviani, che erano invece concentrati nei colli Albani; la differenza
delle estensioni dei vari insediamenti è fornita proprio dalle indagini
archeologiche che hanno portato alla luce numerosi sepolcreti ad
incinerazione, anche se nel complesso si ha una forte prevalenza di tombe ad
inumazione: con la fondazione della città scompare il costume preromano
della incinerazione assieme alla presenza della colonia eurasica del Foro
romano.
Sittoni può così tranquillamente asserire che il dominio delle piccole colonie
eurasiche ebbe una estensione molto limitata anche nel territorio della Roma
antica, i cui fondatori ed abitanti erano mediterranei. I due elementi infatti che
contribuirono maggiormente alla fondazione della città debbono essere
ricercati nelle tribù sabelliche dei Ramnes, insediati sul Quirinale e dei Tities,
stanziati sull'Esquilino. A queste due tribù si aggiunse in seguito, ma con
maggior peso per le sorti di Roma, proprio la tribù etrusca dei Luceres.
Anche per quanto riguarda Roma, l'elemento dominante è sempre il
mediterraneo, all'interno del quale fa sentire la propria influenza, dopo il VII
secolo a.C. l'elemento ipsicefalo dovuto alla presenza etrusca, mentre il cranio
eneolitico era della varietà dolico-platicefala; questo fenomeno sarà
particolarmente presente nella serie di Sarzana, il cui territorio infatti fu
proprio zona di colonizzazione romana.
Alla luce di queste considerazioni è possibile quindi fare una distinzione tra
quelli che Sittoni definisce i fondatori e quelli che invece chiama i civilizzatori
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di Roma. I primi infatti erano una popolazione in possesso di una cultura
piuttosto primitiva e rozza, con usi e costumi neo ed eneolitici e vita da
allevatori ed agricoltori. I civilizzatori invece furono quegli elementi più
dinamicamente attivi dal punto di vista dei commerci e degli scambi e
culturalmente più avanzati della tribù etrusca dei Luceres.
Senza il contributo degli Etruschi, i Romani non si sarebbero innalzati al di
sopra dei popoli vicini uscendo dalla barbarie primitiva nella quale si
trovavano.
Tuttavia, per costituire la grandezza futura di Roma non furono sufficienti gli
apporti degli Etruschi, ma ad essi dovettero aggiungersi quelli delle tribù,
parimenti mediterranee dei sabini Ramnes e dei latini Titiis che
determinarono la nascente forza di volontà, combattività e tenacia che fu alla
base delle tendenze espansionistiche guerriere della città.
L'ultima fase della formazione della cultura mediterranea fu egualmente
opera di tribù appartenenti alla stirpe mediterranea, tribù laziali della varietà
ligure ed etrusca. Nel Lazio, destino degli Eurasici invece fu quello di
estinguersi lentamente; dapprima nella stessa zona di Roma, per opera della
potenza di tribù sabelliche, e poi nelle zone circostanti.
La storia della Roma repubblicana, fu invece, scrive Sittoni, interamente
determinata nei secoli seguenti dall'urto di due elementi: il ligure e l'etrusco,
soprattutto all'interno della struttura della sua organizzazione. Il
temperamento ligure, tendente all'ostinatezza, alla tenacia ed alla combattività
nella difesa della terra fu sempre inquadrato e controbilanciato
dall'ordinamento civile, militare e giuridico apportati dall'elemento etrusco;
entrambi nella loro unione determinarono la grandezza delle imprese militari
dei Romani. La forza dell'anima ligure unita alla saggezza dello spirito etrusco
costituiranno quel tratto fondamentale che sarà alla base di questa nuova fase
della civiltà mediterranea caratterizzata dalla creazione del vasto impero che si
espanderà per secoli.
Questi due temperamenti determinarono però talvolta estreme lotte intestine:
l'anima ligure, scrive Sittoni, concepiva benissimo la possibilità di lotte
interne, di Mario contro Silla, oltre che di Mario contro i Teutoni, cosa che
invece non era assolutamente compresa all'interno della mentalità etrusca che
non voleva nessun possibile indebolimento dell'unità della patria per servire
allo scopo della conquista comune. L'anima di un popolo, l'anima ligure si
riscontra maggiormente in Mario, in Catilina, nei Gracchi; e tutto questo
63
determinò una fatale, poiché causata da virtù congenite, quanto duratura,
lotta intestina.
Anche all'esterno dell'organizzazione civile e militare di Roma, lo scontro tra
queste due varietà mediterranee si fece sentire, o meglio maggiormente
sentire all'interno della stessa varietà ligure. Lo scontro di Roma con i Liguri
Apuani fu infatti tra i più feroci ed estenuanti. Fu uno scontro singolare, che si
prolungò per due secoli e che provò significativamente Roma che dovette
scontrarsi contro l'implacabilità della strenua resistenza della difesa della
propria terra, boschi e montagne dei Liguri.
In questa lotta, continua il nostro antropologo, era proprio lo spirito ligure
indisciplinato a scontrarsi con quello ligure disciplinato delle legioni romane;
in entrambi vigeva l'ostinatezza propria dell'intera stirpe.
Una volta sconfitti non furono sterminati, ma deportati nel Sannio e
considerati sempre con un rispetto ed una deferenza particolari; di essi il
console Fabrizio al Senato dirà quanto fossero forti ed impavidi e di averli
sconfitti non con l'abilità dell'esercito, ma con l'ausilio della fortuna,
raccomandando ai senatori di accettarli come federati, piuttosto che reprimerli
con crudeltà.
E' il trattamento tipicamente etrusco del rispetto verso i popoli conquistati
contrariamente ad esempio a ciò che avevano fatto i Sabelli con gli Eurasici
del Foro romano.
Tutta la storia interna della Repubblica è nella lotta di queste due differenti
concezioni dell'anima di una stessa stirpe. (12)
La psicologia etnica fornisce così una chiave di interpretazione delle
dinamiche storiche alla luce di un timido fatalismo che ha per base le prove
antropologiche fornite proprio dalle misurazioni craniometriche. La storia di
Roma, dell'Italia, dell'Europa non avrebbe potuto svolgersi diversamente
proprio perché determinata da un impulso primitivo ed originario che
generandola ne ha determinato le vie essenziali di sviluppo: l'espansione della
stirpe eurafricana, che ha disposto così in un attimo una direzione destinale
all'unione di passato, presente e futuro, facendo accadere la storia.
Per concludere, tornando alla realtà dei fatti antropometrici, anche dalle
analisi sulle serie etrusche e romane sono emersi dati che confermano le
ipotesi antropologiche fatte all'inizio dal Sittoni. Innanzitutto si può dire che
l'ortocefalia non deve essere intesa come una varietà di tipo, bensì, dice
64
l'antropologo spezzino, come un caso di sconfinamento tra le due vere
varietà, la platicefala e la ipsicefala; questo vale sia per le forme mediterranee
che per le eurasiche. Mentre cioè metricamente si può riscontrare la presenza
dell'ortocefalia, dal punto di vista morfologico invece, il cranio ortocefalo
rientra sempre o nella varietà platicefala o in quella ipsicefala. E cosi, per
quanto riguarda l'Italia tutto può rientrare all'interno di quattro grandi varietà;
due mediterranee, la platicefala o Ligure, e la ipsicefala o Etrusca; e due per
quanto riguarda le eurasiche: la platicefala o Celta o Golasecchiana e la
ipsicefala o Slava o Villanoviana. Senza ricorrere ad ulteriori sottovarietà, per
amore della semplicità, si possono così far rientrare tutti gli altri gruppi etnici,
siano essi Sabini, Campani, Volsci o Latini, in queste due grandi categorie,
oppure se il caso lo consente si può, come abbiamo appena visto per i
Romani, considerare un popolo nella sua mescolanza di entrambe le varietà.
Ciò che fondamentalmente distingue le due principali varietà è, come si è
detto, oltre all'indice di altezza o verticale, anche la norma laterale, che
permette soprattutto di discriminare tra i casi di ortocefalia; la platicefalia è
accompagnata dalla norma trapezoide o pentagonoide mentre l'ipsicefalia da
quella ovoide ed ellissoide.
Tra i platicefali poi sono frequenti i casi di forte dolicocefalia, tra gli ipsicefali
invece prevale la mesocefalia.
Ciò che distingue poi maggiormente la varietà platicefala nei suoi tratti
fondamentali è il decorso rettilineo o quasi della fronte, volta, occipite e nel
tratto sotto-iniaco; così come altrettanto frequente è la forte inclinazione
dell'occipitale con la tipica sporgenza a calcagno.
La forma pentagonoide è invece determinata dal decorso rettilineo, ma non
perfettamente orizzontale del tratto sotto-iniaco, che si stacca ad angolo acuto
dall'occipitale.
Passiamo ora a trattare nel dettagli la descrizione antropologica ed etnologica
della Liguria Orientale.
65
L'estensione della Liguria Orientale
Dopo aver ricostruito nel precedente paragrafo la descrizione della
composizione etnica dell'Italia nel suo complesso, passiamo ora a trattare più
diffusamente delle ricerche antropologiche che il nostro Sittoni ha svolto nella
zona della Liguria Orientale.
L'estensione di questo territorio non coincide però con i limiti attuali della
regione Liguria, ma ha una vastità ben maggiore in quanto la sua ampiezza è
determinata fondamentalmente dalle località di insediamento degli antichi
liguri:
Noi -scrive Sittoni- non limitiamo la Liguria Orientale né nei confini antichi
d'Augusto, né in quelli della moderna legislazione italiana. Noi intendiamo
per Liguria Orientale quella regione alla quale le razze liguri diedero la
fisionomia etnografica attuale e definitiva. (13)
E così, ad esempio la Garfagnana è Liguria apuana ed il Frignano è Liguria
friniata poiché in queste zone si trovano fin dal Neolitico i caratteri etnografici
propri del Liguri orientali; in questo senso la ricerca antropologica ed
etnografica diventa anche un tentativo di ristabilire tracciandoli, i vecchi
confini che delimitavano le estensioni delle influenze delle antiche etnie.
Sempre in Garfagnana poi, nell'antichità i confini fra Liguri ed Etruschi erano
molto incerti, a causa delle frequenti incursioni che i primi facevano sui
Raseni; inoltre non è sufficiente, per Sittoni limitarsi a descrivere la
composizione qualitativa delle diverse etnie insediate sul territorio, ma è
necessario discriminante quantitativamente l'intensità numerica con cui
ciascuna varietà fa sentire il proprio peso sulle altre, mostrando quanto ed in
che modo, le eventuali mescolanze etniche abbiano alterato la fisionomia
originaria del rapporto tra un popolo ed il suo territorio.
Verrano passate in rassegna diverse serie craniche dell'entroterra, dalla Val di
Vara alla Val di Magra, e lungo la costa, dalle Cinque Terre alla foce della
Magra, esaminate direttamente dal nostro antropologo. Emergeranno risultati
molto interessanti, dovuti talvolta alla peculiarità che alcuni di questi
insediamenti hanno nel loro essere rimasti fondamentalmente isolati per
66
secoli dalle altre comunità circostanti; sarà ad esempio il caso di Biassa,
singolare paese che all'epoca in cui fu esaminato dal Sittoni, nei primi del
Novecento cioè, aveva mantenuto custodendole tenacemente, le vecchie
usanze e gli antichi costumi di vita tramandati dai predecessori, mantenendosi
anche sostanzialmente privo di mescolanze etniche.
Alle consuete indagini dell'antropologia craniometrica si aggiungeranno
quelle etnografiche e psicologiche, mentre le riflessioni sulla toponomastica
saranno accompagnate da studi sulle differenze dialettali delle varie parlate
delle popolazioni; in particolare poi tratteremo nella terza parte dello studio
approfondito che Giovanni Sittoni ha svolto sul dialetto spezzino.
Studiare l'antropologia della Liguria Orientale però, per Sittoni, riveste un
significato tutto particolare, che va al di là di quello semplicemente scientifico
che le fredde analisi craniometriche raccolte in tabelle possono rappresentare;
e riguarda invece il portare alla luce, mantenendolo vivo, lo spirito di un
popolo, quella parte di noi stessi che giace da sempre nel profondo delle
nostre origini e che solo un pensiero che non rammenta può mantenere celata
nella dimenticanza, ma che invece, dalle radici profonde della storia, può
ritornare a germogliare se custodita e lasciata accadere nell'essere che le è
proprio.
La mentalità ligure -scrive Sittoni- nelle sue virtù e nei suoi difetti, non potrà
mai svolgersi sotto l'amministrazione di altre mentalità incapaci di
comprenderla e di svilupparla. Non si cancella un popolo dalla storia
nemmeno smembrandolo, e se anche si tratta di boscaglie, ebbene che ci
ritornino le nostre boscaglie, con le loro anime incolte. Dove gli altri non
hanno visto finora che un'anima incolta, noi vediamo una fonte di energie
ignorate. (14)
Procediamo così, analizzando paese per paese le differenti situazioni
riscontrate dal nostro ricercatore, iniziando proprio dalla zona costiera in
prossimità del Golfo della Spezia: è il caso di Biassa, Campiglia e Tramonti.
La fondazione di Biassa innanzitutto viene fatta risalire ad una orda di
nomadi giunta nel Golfo della Spezia e diventata successivamente sedentaria;
la scelta della località in se stessa è già indicativa dell'indole e del
temperamento di questi coloni: la sua posizione scomoda, in una zona
angusta e inospitale dal suolo non adatto né all'agricoltura e neppure
all'allevamento, rende perfettamente l'idea dell'ambiente natio da cui si
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staccarono queste popolazioni di nomadi; inoltre la caratteristica principale di
questa zona, come si era anticipato prima, è che la maggior parte della
cittadinanza si è mantenuta, mercé la posizione isolata, pura da ogni incrocio
e mescolanza, conservando quindi nella quasi totale integrità l'indole
trasmessa nei secoli dalle vecchie generazioni, serbando inalterato persino il
tipo fisico.
Un ambiente ideale insomma per studiare dal punto di vista della psicologia
etnica, le attitudini, il comportamento e le usanze degli stessi coloni, e dal
punto di vista dell'antropologia fisica le caratteristiche tipiche della stirpe
antica.
In origine l'attività economica degli abitanti dovette essere in relazione
con il mare, ma in un secondo tempo si sentì il bisogno di ricorrere alla
lavorazione del terreno, in quell'unica modalità che la conformazione
geologica del luogo poteva concedere: la coltivazione della vite.
Un terreno montuoso e arido, infatti, di schisto gallestrino, fornì a prezzo di
un lavoro titanico una possibilità di attecchimento alla vite; e così quindi la
vecchia generazione di nomadi si trasformò in una colonia viticola. Ma l'antico
temperamento non subì mutamenti di sorta; ed anche di fronte alle mutate
condizioni degli abitati circostanti, che instauravano felici rapporti di scambio
culturale e commerciale con le popolazioni stanziate più a valle, gli abitanti di
Biassa si mantennero immuni da ogni commistione ed al di fuori di ogni
consorzio.
In realtà, continua Sittoni, Biassa è composta da due nuclei abitativi separati,
che vengono abitati in relazione al tipo di lavoro che la stagione richiede; il
primo infatti, quello più antico è situato in una posizione difensiva molto
favorevole dal punto di vista strategico: è localizzato nel centro della
montagna, circondato da un folto bosco e invisibile a chi proviene dal mare, e
costituisce la normale residenza dei coloni; l'altro insediamento invece è
arroccato sul pendio che precipita a picco sul mare di Tramonti. Le piccole
casette che lo compongono vengono abitate durante i periodi necessari al
lavoro che la produzione del vino richiede. Questo secondo nucleo abitativo,
separato dal primo da una discreta distanza, è quindi più recente dell'altro e
risale proprio al periodo in cui la colonia trasformò le prime sue abitudini di
vita.
Singolare appare al Sittoni l'architettura delle abitazioni biassee: le case
piccole, anguste, sono addossate l'una accanto all'altra; i due piani di cui si
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compongono sono collegati da una scaletta interna che unisce appunto la
stalla, al piano inferiore e la camera da pranzo e da letto, spesso unica, al
piano superiore.
Simile è la condizione della borgata di Tramonti, dove, al posto delle stalle, si
trovano le cantine per la preparazione del vino. Nel complesso si possono
contare circa centosessanta case e per quanto riguarda l'allevamento sono
presenti all'incirca duecento ovini, cinquanta suini, due vacche lattifere ed un
solo cavallo.
Tutto si è mantenuto, scrive il Sittoni, ad uno stato primitivo: sia per quanto
riguarda le tecniche dell'allevamento che per la produzione enologica: la
comunità è rimasta estranea all'influsso dei più moderni principi di viticoltura,
facendo sopravvivere invece le antiche tradizioni tramandate nei secoli.
Per quanto riguarda la psicologia della popolazione, il nostro antropologo
annota come l'antica indole combattiva delle pristine generazioni si sia, del
pari mantenuta quasi del tutto inalterata anche negli attuali discendenti, che
dimostrano un carattere piuttosto litigioso e poco portato alla conciliazione ed
alla sociabilità, unito nello stesso tempo però ad una forte solidarietà morale
assieme ad un grande senso di ospitalità verso gli estranei alla comunità.
Questa tendenza alla chiusura ed all'isolamento, questo spirito combattivo
non si riscontra in altre popolazioni della zona: esso dovette essere tipico
degli abitanti di Biassa già prima del loro arrivo nel Golfo della Spezia; i primi
popolatori di questa colonia erano quindi una tribù di nomadi predatori, che
avevano come scopo principale delle loro attività la corsa sui mari, nel segno
di una vita avventurosa e sempre esposta ai pericoli.
Anche l'abbigliamento dei coloni si è mantenuto, dice Sittoni, fedele a quello
stabilito dalla tradizione. Sebbene le generazioni più giovani inizino a vestirsi
alla foggia della città, i più vecchi invece indossano ancora il costume
tradizionale: un unico vestito valido per tutte le quattro stagioni, caratterizzato
da una giacca portata su calzoni che arrivano a mezza gamba e calzettoni di
lana pesantissima fino al ginocchio; come accessori si hanno un berretto rosso
all'esterno e nero all'interno, lungo, cadente da un lato fino a toccare la spalla;
una pipa di gesso, ed un bastone.
La lana mantiene il suo colore naturale e le stoffe vengono create direttamente
dalle massaie della colonia, la cui occupazione principale era appunto la
tessitura.
Le donne invece portano una gonna della stessa stoffa dell'abito maschile,
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piuttosto rialzata da terra, ed un corpetto di panno, modellato a busto e legato
da stringhe; mentre dalle spalle si dipartono delle lunghe fettucce. I capelli
possono essere legati a treccia oppure fissati assieme da una fettuccia, ma di
questo diremo più sotto.
Dal punto di vista intellettuale il colono è scaltro e caparbio, tardo però alle
innovazioni, irremovibile nei propositi e dal contegno piuttosto riserbato. E'
tipica, scrive Sittoni, la grande gelosia degli uomini.
Fisicamente, tralasciando per ora i risultati delle osservazioni craniometriche,
che esamineremo a breve, si possono notare due tipologie caratteristiche di
persona: in prevalenza i coloni sono bassi e tarchiati, ma non mancano, ed
erano più frequenti in passato, i tipi alti e regolari. Questo è un fatto
interessante: pur nell'isolamento e nella assenza di ogni mescolanza troviamo
dal punto di vista antropologico una certa irregolarità, che è dovuta secondo
Sittoni proprio al fatto che già in partenza questa schiatta non era pura né
omogenea. Nel complesso si ha però la prevalenza del sangue arabo-cabilo;
inoltre il fisico stesso rispecchia le dure condizioni di vita a cui è sottoposto:
muscoloso, agile e capace di sopportare ogni grande sforzo e privazione;
anche le donne portano in volto i segni di una vita faticosa.
Negli uomini, ai due tipi corrispondono due forme diverse della testa e del
volto; una minoranza è caratterizzata da fronte alta e larga, volto breve ed
ovale e naso talvolta aquilino. Nella maggioranza si riscontra invece un viso
rotondo e pienotto, la forma cranica parimenti rotonda, base del naso e lobi
decisamente larghi e zigomi sporgenti.
La carnagione è prevalentemente bruno-giallognola, ed i capelli e gli occhi
sono scuri; una caratteristica peculiare sono le sopracciglia molto lunghe.
Le donne presentano nel complesso gli stessi tratti caratteristici degli uomini.
Passiamo all'ipotesi sulla provenienza della colonia, o meglio, alla prima
ipotesi circa la provenienza dei Biassei, poiché il nostro antropologo
elaborerà, come vedremo, nel corso del tempo, due distinte teorie sull'inizio
della storia di Biassa.
Secondo Giovanni Sittoni, per rintracciare le origini storiche dei Biassei
dobbiamo risalire indietro, almeno fino al IX secolo dopo Cristo, alla dinastia
araba degli Aglabiti che regnò nella Tunisia e nelle regioni confinanti, e
intraprese, rendendosi indipendente dal califfato, una vasta azione di pirateria
indirizzata specialmente verso L'Italia e la Francia. Questa dinastia si
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impadronì col tempo di territori in Sicilia, Sardegna e Corsica devastando
anche le coste liguri e tirrene.
Le loro scorribande trovarono però la ferma opposizione di Genova e Pisa che
si unirono assieme per fare fronte al pericolo, respingendoli dalla Sardegna,
nel 1017; intraprendendo successivamente una spedizione proprio contro la
stessa Tunisi. I pisani in particolare recuperarono anche la Corsica
precludendo agli arabi superstiti la via di fuga nel ritorno verso l'Africa.
Fu così che, per scampare alle persecuzioni, una parte di questi arabi si rifugiò
nelle zone più inaccessibili delle coste della Liguria Orientale, continuando
per un periodo di tempo a praticare razzie e scorrerie fino a che non fu più
possibile scampare alla sorveglianza pisana e genovese; allora mutarono le
condizioni di vita, ed i corsari divennero coltivatori di vite e cerali: fu così che
nacque Biassa.
A queste osservazioni, datate Aprile 1907, si aggiungono quelle
sull'abitato di Campiglia, paese caratterizzato, come vedremo, da una stretta
ed intima relazione con la colonia di Biassa.
Dal punto di vista statistico esso annovera per l'anno 1905 una popolazione di
445 abitanti distribuiti in 90 case coloniche; la produzione di vino è di 1300
ettolitri, quella dell'olio di 5, mentre per quanto riguarda i cereali, scrive
Sittoni, siamo attorno ai 90 quintali. Il bestiame allevato è composto da 150
ovini ed una ventina di suini.
Stretta relazione dicevamo con Biassa: lo spirito dei Campioti ha dei tratti in
comune con quello dei Biassei, poiché comune è la provenienza di entrambe
le colonie; questi naufraghi della Corsa, come li definisce Sittoni,
partecipavano anch'essi alle antiche scorribande e razzie e furono parimenti
combattuti ed osteggiati dalla forza dell'unione di genovesi e pisani.
Da nomadi divennero quindi sedentari coltivatori di viti piantate su terrazze
faticosamente strappate, dal lavoro incessante dei coloni, ai pendii delle aride
montagne a picco sul mare.
Col tempo diminuì l'importanza dell'allevamento ed iniziarono ad aumentare i
contatti con gli abitanti delle vallate circostanti; al pari di Biassa, anche
Campiglia sta uscendo da una situazione di isolamento durata otto secoli;
stanno aumentando i rapporti di scambio con le popolazioni delle zone
circostanti che portano ad un mutamento nei costumi e ad una mescolanza
etnica, tale da condurre, prevede Sittoni, in breve tempo, al quasi totale
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assorbimento con il tipo prevalente delle zone circostanti e dell'entroterra
spezzino.
L'abitato poggia a cavallo di un agglomerato roccioso a 405 metri sul livello
del mare, che domina due opposte spiagge. Dalla parte rivolta verso il Golfo
della Spezia si trovano le dimore dei coloni, mentre dall'altra, quella a picco su
Tramonti vi sono le zone coltivate. Mentre la prima è collegata con la città da
una viabilità discretamente praticabile, seppur faticosissima e ricca di tratti
impervi, la seconda parte, scende a picco sul mare, e si attraversa con relativa
difficoltà, data l'asprezza e la pericolosità dello scosceso crinale.
Ciò che colpisce maggiormente Sittoni, nella descrizione del paese è la netta
precisione e pulizia, rispetto agli altri insediamenti delle Cinque Terre, che si
riscontra nelle case e nelle piccole strade che le collegano tra di loro; la
viabilità interna insomma è regolarmente pavimentata e ben mantenuta anche
dal punto di vista igienico.
A fronte di questa considerazione resta pur sempre notevole la scelta di
questa località impervia come zona di insediamento, e la fatica nel
raggiungere la valle o nel scendere al mare è resa soprattutto manifesta dal
percorso quotidiano che sono costretti a compiere gli abitanti che percorrono
le ripide scalinate con grossi carichi di legna sulle spalle, che vengono usati
come merce di scambio per acquistare farina e olio ed altri generi di prima
necessità.
Il peso della fatica di questa piccola via crucis dovette però essere ben
ricompensato dalla protezione che le qualità strategiche del luogo garantivano
verso attacchi provenienti dal basso; inoltre rispetto a Biassa, dall'alto del
monte su cui poggia Campiglia era possibile, per i Campioti, grazie al grande
colpo d'occhio che si ha sull'orizzonte, avvistare da molto lontano le
imbarcazioni in transito nell'antistante specchio d'acqua, con la possibilità di
segnalare per tempo il sopraggiungere di galeoni pisani o genovesi, o
addirittura, scrive Sittoni, di poter essi stessi praticare attività di saccheggio sui
legni mercantili di passaggio.
Solo la sconfitta per fame, dovuta ad un maggior pattugliamento dei galeoni
genovesi e pisani dovette costringerli a mutare le antiche abitudini e ad
orientare le attività della colonia verso la sedentarietà del lavoro agricolo.
Questo nuovo stile di vita è pero, scrive Sittoni, destinato a scomparire
anch'esso, grazie alla modernità che si fa sempre più sentire e cambia le
abitudini di vita ed i costumi; e in questo Campiglia si differenzia dalla vicina
72
Biassa: essa ha già iniziato il cammino verso la modernità; le case stesse infatti
vengono già ristrutturate e ricostruite senza seguire i dettami dello stile
genuino, e anche la viabilità interna sta perdendo quell'aspetto selvaggio che
dovette appartenerle nel passato; e la correttezza delle lungimiranti previsioni
del nostro antropologo va oltre, nel prevedere, nel giro di pochi anni, la
costruzione di una nuova strada carrettabile che congiunga il paese con La
Spezia, mentre l'antico viottolo resterà quale ultima testimonianza della
faticosa durezza delle condizioni di vita del passato.
Veniamo alla descrizione degli abitanti. Abbiamo visto per il Sittoni
esserci una sorta di circolarità tra l'indole di un popolo e l'ambiente in cui si
stanzia: un popolo caparbio, combattivo, poco socievole si sceglie un
territorio impervio, difficile da raggiungere, in una posizione strategica per
l'attacco e la difesa, scomodo per viverci e povero di risorse; nello stesso
tempo, questa vita rude e carica di privazioni finisce per aumentare ancora di
più l'indole originaria lasciando la colonia in una sorta di isolamento e
immobilità. Da un lato quindi c'è una sorta di predisposizione nel
temperamento, dall'altro è la natura stessa dell'ambiente a determinare la
psiche collettiva e individuale di ciascun colono. I Campioti però, come
abbiamo visto, hanno già fatto un passo avanti per uscire da questa
condizione, dice Sittoni; e ciò è maggiormente evidente negli usi delle
generazioni più recenti: dopo otto secoli di quiete, di colpo e quasi
inspiegabilmente, le cose, e ricordo che siamo nel 1905, stanno cambiando;
mentre Biassa sta evolvendo in modo graduale, Campiglia lo sta facendo
molto più rapidamente: da un atteggiamento di resistenza ed avversione verso
gli estranei si passa ad una vera e propria amicizia e desiderio di mescolanze;
la discesa ufficiale dei giovani abitanti, vestiti con abiti da città, verso il mare e
la spiaggia è simile, rammenta Sittoni, al procedere dei decemviri romani
inviati a copiare le leggi della Grecia; anche la litigiosità delle vecchie
generazioni sembra messa da parte in favore di un amichevole spirito
conciliativo, pur diminuendo il senso di ospitalità, che invece accomuna il
vecchio campiota con gli attuali Biassei.
Come si spiega la differenza nella velocità dell'evoluzione? Potrebbe, si
domanda l'antropologo, risalire proprio ad una antica separazione, che ha
portato alla differenziazione dei due paesi, Campiglia e Biassa, dell'elemento
meno turbolento da quello un po' più irrequieto?
73
La risposta è negativa, poiché la spinta al differenziamento viene solo dalle
nuove generazioni, mentre quelle vecchie di entrambi i paesi si rassomigliano
nei caratteri fondamentali del loro comportamento, per gli usi e costumi; la
storia tramanda poi l'esistenza di lotte sanguinose e continue tra le due
frazioni per stabilire i confini dei rispettivi territori e i limiti delle reciproche
influenze nelle normali attività quotidiane, quali caccia, pesca e commercio.
La ragione della differenza sta quindi nella diversità delle condizioni di vita in
cui si trovarono le nuove generazioni: mentre i giovani di Biassa entrarono
maggiormente in contatto con popoli agricoltori, quelli di Campiglia invece
instaurarono una duratura frequentazione con i popoli della marina, i quali
sono per indole più socievoli nel loro essere in contatto con nazionalità
sempre diverse, rispetto al comportamento più diffidente e riserbato dei
solitari contadini delle nostre valli.
Sulla base della antica comunanza tra l'indole dei Biassei e quella dei
Campioti è possibile ricostruire un ipotetico tipo comune, che può essere
chiamato il tipo biasseo-campiota, le cui doti naturali vengono nel dettaglio
passate in rassegna da Sittoni. Storicamente, il biasseo-campiota si è evoluto
passando da nomade a pirata ed infine ad agricoltore, mantenendo però
inalterati i tratti fondamentali della psiche della sua antica schiatta, che dopo
otto secoli trovano ancora una manifestazione, seppur deformata col mutare
dei tempi e delle situazioni: non più in lotta diretta, si scontra nelle aule
giudiziarie, astuto e calcolatore nei propri interessi economici quanto
irriflessivo ed impulsivo nelle lotte che si incendiano tra fazioni interne;
diffidente verso le innovazioni, anche a scapito di una minor rendita
economica delle attività della vinificazione; irresoluto ed irremovibile nei
propositi, l'antico biasseo-campiota non ebbe, a giudicare dall'assenza di
testimonianze e di vestigia, nessuna forma di culto religioso, mentre
attualmente la pratica dei riti cattolici viene affidata all'elemento femminile
della colonia; per quanto riguarda Biassa, significativa è poi anche la scelta di
San Martino quale patrono del paese: un santo guerriero e ...nomade, scrive
Sittoni.
In generale comunque, le competenze e le attività dell'uomo e della donna
erano molto distinte all'interno della colonia: l'uomo si occupava della
manutenzione dei vigneti, della caccia e della pesca, anche se queste due
ultime attività dice Sittoni, non fanno parte dell'indole autentica del colono,
mentre la donna si dedicava alla tosatura delle pecore, alla tessitura delle
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stoffe e quindi alla confezione degli abiti.
I compiti principali invece di quella parte della popolazione a cui era affidata
la cura del patrimonio mentale e culturale consistevano esclusivamente nel
conservare le conoscenze imparandole a memoria e tramandandole alle
nuove generazioni.
Per quanto riguarda i rapporti extracoloniali, la tendenza del biasseocampiota a mantenersi indipendente da qualsiasi autorità, oltre quella
religiosa, era ben nota anche ai differenti Governi liguri che si succedettero
nel tempo, i quali si accontentavano unicamente di riscuotere tributi, senza
tentare di immischiarsi in altre forme dirette di gestione e controllo del
territorio. Le autorità in passato ebbero anche grande difficoltà nel
distinguere le identità personali dei coloni, a causa dell'uso di attribuire ai figli
e nipoti lo stesso nome del padre, che è quindi quello del nonno, e così via; a
questo si aggiunge la tendenza alla mancanza di incroci, per cui, scrive Sittoni,
i cognomi dei coloni si riducono, a Biassa per esempio, a tre o quattro. Per
identificarsi tra di loro, evitando le omonimie i coloni dovettero sempre fare
uso di soprannomi, che si riscontrano anche negli atti ufficiali fino a tutto il
XIX secolo.
La grande solidarietà morale che si riscontra tra le diverse fazioni è
accompagnata dalla scarsa collaborazione verso ogni tentativo delle forze
dell'ordine di controllare l'andamento delle vicende interne; anche nei casi
più eclatanti, come ad esempio, ricorda Sittoni, nell'omicidio per mandato del
consigliere comunale di Biassa, Antonio Rossi, nel 1892, i coloni preferiscono
affidarsi ai propri organi di controllo interni.
Dagli attuali indizi che altro possiamo dedurre circa le caratteristiche
antiche del biasseo-campiota prima del suo arrivo nella Liguria Orientale?
L'arte edificatoria innanzitutto, prosegue Sittoni, ci riporta con la mente
indietro fino alle primitive costruzioni in pietra; lo stile infatti le rende
rassomiglianti alle costruzioni dei paesi occidentali dei Berberi: sembrano cioè
costruzioni di nomadi che hanno fatto un primo timido accenno verso una
vita sedentaria; le case in pietra, si sviluppano, come è stato detto sopra, su
due piani, ma nessuna camera risulta essere più alta di un metro e due terzi e
nessuna porta più di un metro e un terzo.
Un altro indizio significativo, sulle antiche abitudini di vita ci viene fornito
proprio dall'arte della tessitura; l'avanzata abilità del tessere, accompagnata al
75
confezionamento di abiti in lana prova che i coloni dovettero essere già in
precedenza del loro arrivo, un popolo di allevatori di bestiame, in quanto il
territorio su cui da secoli sono stanziati non possiede per nulla caratteristiche
tali da spingere alla pastorizia; inoltre il loro metodo di lavorazione del tessuto
è estraneo e sconosciuto tra il resto delle popolazioni della valle. La tradizione
ci rammenta come nell'abito femminile vi fosse anche una distinzione tra
vedove, vergini e maritate: tutte le donne avevano in capo una specie di
turbante nero, chiamato turchino, che era invece bianco per la vergine,
mentre la vedova portava una fettuccia nera che dalla fronte passava dietro,
allacciando i capelli sulla nuca; inoltre le donne giravano armate di forbice,
che tenevano sempre al loro fianco.
Anche una indagine sul dialetto potrebbe fornirci ulteriori interessanti indizi,
poiché la parlata del biasseo-campiota si differenzia da quella quella degli altri
linguaggi delle zone circostanti, anche se il processo di assimilazione ha già
quasi del tutto modificato l'antica pronuncia.
Passiamo così all'indagine craniometrica. Da questo punto di vista Sittoni
agisce come un pioniere, dato che non è mai stato eseguito questo tipo di
analisi e studio su questi abitanti; i dati quindi non sono molti, ma rivelano lo
stesso caratteristiche significative per derminare la composizione della
schiatta. Vedremo tuttavia, come abbiamo già anticipato, che nel corso degli
anni, la teoria sull'origine di Biassa e la stessa interpretazione dei dati
craniometrici subiranno una modificazione, portando così al formarsi di due
distinte ipotesi sulla provenienza di questi coloni.
La serie si compone di 31 crani di Biasseo-Campioti, asportati con molte
difficoltà ed impedimenti da parte degli stessi coloni, sui quali non fu
nemmeno possibile eseguire indagini cefalometriche, data la loro refrattarietà
a prestarsi a questo tipo di ricerche.
Nella serie non c'è però nessun cranio di Campiglia, ma tutti provengono da
Biassa.
I crani sono discretamente conservati, in tutti è possibile misurare l'indice
cefalico e quello verticale, anche se le misurazioni complete sono possibili
solo in nove esemplari. Nel complesso, scrive Sittoni, i crani maschili risultano
essere grandi, rozzi e pesanti,(15) in otto di essi la norma orizzontale è
poliedrica, in undici a cuneo, mentre nei restanti oscilla tra queste due forme;
sempre su otto crani il tratto sotto-iniaco è decisamente a decorso orizzontale.
76
La fronte è nel complesso stretta, bassa e sfuggente e poco convessa.
Normalmente quindi il cranio-biasseo campiota ha la forma di un baule.
Tuttavia questa serie non permette, dice l'antropologo spezzino, di esprimersi
in modo decisivo sull'origine di questi coloni, siamo anzi di fronte ad uno dei
più delicati ed intricati argomenti antropologici (16). I dati craniometrici
rivelano in questo primo esame, essenzialmente una composizione
antropologica non omogenea: l'indice cefalico è di 76,6, quello verticale di
72,4: il tipo dolico-mesati-basso è quindi il predominante, mentre i
brachicefali sono in minoranza; gli indici verticali danno invece 7 platicefali,
16 ortocefali e 8 ipsicefali. Composizione varia di difficile interpretazione; la
maggior parte dei crani sono ortocefali senza però una netta tendenza a
sconfinare da una parte o dall'altra e si ha inoltre un numero quasi uguale di
platicefali e ipsicefali.
In breve, si possono quindi riassumere questi primi risultati dicendo
innanzitutto che la presenza di brachicefali e dolicocefali alti e bassi incide
nella serie con la medesima intensità, e se il tipo dolico-mesati-basso è il
prevalente, tuttavia è significativamente presente anche la forma fortemente
dolica.
Sittoni è dubbioso: queste considerazioni devono essere accettate, in
mancanza di altri dati, con qualche riserva, come cioè un primo contributo ad
eventuali altri studi futuri; è possibile infatti che manchi proprio qualche
forma cranica tipica di alcuni coloni, tra cui ad esempio quella ovale dolicoipsicefala. Il problema delle origini del biasseo-campiota rimane quindi
insoluto anche per l'antropologia: la mancanza di altri dati e la forte
disomogeneità non permettono di chiarire in modo definitivo la provenienza
di questa popolazione.
È importante, a questo punto, dire però che nelle pubblicazioni seguenti, il
Sittoni interpreterà in modo differente il rapporto tra platicefali e ortocefali
della serie biassea: prevarranno infatti i platicefali (17).
La mescolanza di tipi differenti di cranio tuttavia persiste, e non è sostenibile
che essa sia avvenuta dopo lo stanziamento di questa gente nel territorio del
Golfo della Spezia; né psicologicamente, né craniologicamente, scrive Sittoni,
è possibile sostenere l'ipotesi della formazione di questo popolo tramite
l'unione, col passare dei secoli, di individui provenienti un po' da tutti gli
abitati vicini.
Senza dubbio esistono delle affinità con le altre popolazioni delle Cinque
77
Terre, come vedremo in seguito; però è difficile credere, afferma Sittoni, che
l'arrivo dei Biasseo-Campioti sia contemporaneo a quello degli altri abitanti
della costa; una cosa sembra certa, il ritenere che la colonia possa avere al
massimo sette od otto secoli di vita, come altrettanto certa è l'affermazione
della loro provenienza dalla zona mediterranea dell'Africa. Ci troviamo quindi,
di nuovo in relazione con i grandi movimenti della stirpe eurafricana: nei
Biasseo-Campioti il Sittoni crede di poter rintracciare anche la genuinità
dell'indole della stirpe, mantenutasi pura. Se i caratteri osteologici del cranio e
della faccia non forniscono indizi decisivi per dirimere la questione della loro
provenienza, tuttavia vi sono ugualmente dei caratteri esteriori che non
possono essere considerati come conseguenza dell'ambiente esterno, ma
devono ritenersi come propri della antica stirpe. Il colorito bruno-chiaro della
pelle, scrive Sittoni non si riscontra in altre popolazioni della valle, ma dovette
essere quindi già proprio delle prime generazioni arrivate. Il tipo originario del
biasseo-campiota era probabilmente caratterizzato anche dall'avere gli occhi
orizzontali, neri e castano-scuri assieme ai capelli lisci altrettanto scuri; la
faccia dolico-ellissoidale ed ovoidale.
Uniamo ora a questa serie di crani Biasseo-Campioti i risultati relativi alle
indagini svolte dal Sittoni su crani provenienti direttamente dalle Cinque
Terre: il gruppo si compone di 29 unità di Monterosso, 2 di Vernazza, 12 di
Corniglia e Riomaggiore.
Premettiamo una breve descrizione dell'abitato e dell'indole dei Cinqueterresi.
Analogamente a quanto accade con Biassa e Campiglia, siamo anche qui di
fronte a delle comunità isolate da secoli e piuttosto arretrate con il progresso
che la modernità sta diffondendo ormai ovunque. Rispetto a Biassa si sono
fatti però numerosi passa avanti, forse proprio grazie al persistente contatto
con il mare che li espone a maggiori incontri con etnie differenti. Quello che
colpisce Sittoni è però l'arretratezza unita alla mancanza di spirito di iniziativa
che sembra caratterizzare il settore economico della zona in relazione alla
produzione del vino. Riprendendo alcune analisi di Girolamo Guidoni, il
nostro antropologo fa notare come la rendita e la qualità del prodotto della
vinificazione siano molto scarsi ed in peggioramento rispetto al passato,
proprio perché è assente nell'organizzazione stessa della produzione uno
spirito aperto verso le innovazioni ed un coordinamento tra i produttori che
potrebbe, qualora attuato risolvere gran parte dei problemi economici degli
78
abitanti del luogo.
A ben guardare però questa mentalità un po' chiusa verso tutto ciò che
proviene dall'esterno non dovrebbe destare troppa meraviglia, poiché, e
questa è l'ipotesi del Sittoni, anche con gli abitanti delle Cinque Terre, come
nel caso di Biassa, siamo di fronte ad un popolo nomade, dall'indole
predatrice, che aveva come principale attività non l'agricoltura e neppure
l'allevamento, bensì la razzia ed il saccheggio, un'indole che si è mantenuta,
continua Sittoni inalterata benché nascosta nel fondo della psiche della
popolazione.
Questi marinai sono dei dissimulatori: dietro l'innocente attività della pesca
nascondevano in passato una pericolosa ed avventurosa attività di pirati e
banditi, capaci di attaccare una nave mercantile scrutata all'orizzonte con la
stessa velocità con cui poi tiravano su a forza di braccia le proprie
imbarcazioni legandole al massiccio della scogliera a picco sul mare. Si
ricordano anche numerose incursioni effettuate nei villaggi dell'entroterra:
questo popolo, scrive il nostro autore, usava molto di più la scure come arma
d'attacco che la rete da pesca.
Già la scelta dei luoghi stessi degli abitati è un buon indizio, come per Biassa,
per conoscere la natura dei primi coloni; l'inaccessibilità, l'impraticabilità dei
luoghi dovette sembrare ai primi abitanti proprio un mezzo difensivo ideale
per rendere questi piccoli villaggi a picco sul mare simili a delle fortezze che la
natura stessa rende inespugnabili, e inoltre dei perfetti luoghi favorevoli sia
alla difesa che all'attacco.
A questa indole da corsari nomadi e primitivi corrisponde naturalmente anche
un ben determinato tipo fisico, la cui presenza è diventata molto rara tra i
discendenti attuali degli antichi abitatori.
Si possono notare infatti, scrive Sittoni, due distinte tipologie fisiche nei
Cinqueterresi. Oltre al tipo già riscontrato come prevalente a Biassa e
Campiglia, il biasseo-campiota cioè, dalla statura bassa, cranio piccolo, volto
ovale, ma breve ed allungato, tendente alla magrezza, con naso sottile,
leptorrino, occhi e capelli chiari, pelle scura, si riscontra anche un tipo dalla
statura alta e corporatura robusta, dalle spalle ampie e collo taurino, con
cranio e faccia grossa e larga, naso molto largo ai lobi e prominente, occhi
grandi verdi o azzurri, o talvolta gialli, con baffi e sopracciglia molto folte e dai
capelli rossi oppure biondi. Esso è il rappresentante moderno del tipo
cavernicolo dei Balzi Rossi. Questo elemento che tende a scomparire, ed è
79
presente in numero di una o due unità a Vernazza e Corniglia, in quantità
leggermente superiore a Riomaggiore e Monterosso, scrive Sittoni all'inizio del
secolo scorso, dovette essere proprio il coefficiente più temuto nell'attività di
pirateria e razzia.
Esiste però una notevole differenza tra l'indole dei rappresentanti delle
Cinque Terre e quella dei Biassei; mentre questi ultimi come abbiamo visto,
sono piuttosto litigiosi, i primi invece vivono nella quiete ed in assenza di
scontri; tuttavia, e questo è importantissimo, non bisogna riferire queste
ultime qualità anche ai primi abitatori del luogo: Sittoni cioè è convinto che si
tratta in entrambi i casi di una medesima indole, che però ha subito
modificazioni a causa delle influenze dell'ambiente esterno che ha
determinato bisogni e necessità differentemente avvertiti. La turbolenza del
biasseo-campiota è simile anche se inferiore alla ferocia ora latente dei
Cinqueterresi, come emerge da quei pochi casi conosciuti di cronache
giudiziarie antiche.
Se la resistenza al progresso è dunque un tratto simile dell'indole dei Biassei
come dei Monterossini, le Cinque Terre oggi sono in cammino verso una
civiltà più moderna che porterà nel giro di anni, annuncia Sittoni a significativi
mutamenti nella vita sociale ed economica degli abitanti. Il progresso arriva,
verranno instaurate scuole e portata l'energia elettrica e la nuova civiltà delle
ultime generazioni non porta alla manifestazione l'antico carattere aggressivo
latente.
Alla tolleranza ed al clima di accoglienza amichevole verso lo straniero tipica
di Campiglia, corrisponde una sorta di indifferenza nei coloni delle Cinque
Terre verso l'elemento allofilo, così come a Biassa persiste una certa diffidenza
ed intransigenza nei confronti dei rapporti con gli abitati circostanti. Nel ciclo
delle “Cinque Terre”, scrive Sittoni, Campiglia è il tempio dove si accettano
tutti gli Iddii (18).
Abbandonate a se stesse le Cinque Terre non potranno evolversi, ma in
contatto con uno spirito più attivo, intraprendente e moderno potranno
invece svilupparsi al meglio e sfruttare con maggiore produttività le proprie
risorse naturali.
Anche il ruolo della donna denota la fissità e l'immobilità nella quale da secoli
sono confinate queste popolazioni; la sua posizione è infatti molto inferiore a
quella occupata dalle donne delle città moderne. Alla donna delle Cinque
Terre sono affidati i lavori più penosi e faticosi nelle campagne, al punto che
80
l'uomo sembra quasi essere un ausiliario della propria compagna.
Fisicamente la donna presenta un volto breve ed ovale, con occhi e capelli
neri, mentre se ne riscontra anche un tipo con capelli ed occhi chiari, dal viso
più rotondo e di statura piuttosto bassa; entrambe presentano però nel fisico i
segni di una continua sofferenza dovuta alle fatiche opprimenti del lavoro. Tra
le Cinque Terre è Monterosso a sembrare la più attivamente incamminata
verso la modernità; sta per arrivare, come abbiamo detto, la luce elettrica e
verrà instaurata, così è negli intenti del Sindaco, una scuola elementare.
Inoltre la stessa vicinanza con la più progredita Levanto sembra apportare
continuamente uno slancio verso le innovazioni ed il miglioramento dei
traffici e commerci. A Monterosso si conoscono persino i mercati americani,
ma i prodotti locali non sono sufficientemente valorizzati per poter essere
esportati e molti tra gli abitanti più acculturati e con maggiore spirito di
iniziativa hanno risieduto per un certo periodo proprio in America. Sittoni si
augura che uno spirito di innovazione possa definitivamente instaurarsi per
rendere meno povera la vita di questi coloni e pescatori.
Torniamo alla craniometria. Anche in questa occasione, prevale il tipo
mediterraneo su quello eurasico che è presente in tutta la serie delle Cinque
Terre, facendoci rientrare anche Biassa, in soli 6 elementi; il resto appartiene
nelle sue linee fondamentali alla varietà che il Sergi stesso ha definito un ramo
della stirpe eurafricana. Per quanto riguarda la norma laterale, è la forma
trapezoide a costituire il fondamento dell'unità del tipo, caratterizzato dal
decorso orizzontale e rettilineo del profilo della volta e del tratto sotto-iniaco,
accompagnato da un profilo occipitale assai inclinato e rettilineo, e dalla
fronte parimenti rettilinea e leggermente inclinata: nel complesso infatti
abbiamo 22 trapezoidi, 6 ellissoidi e 7 ovoidi. Per la norma superiore si
riscontra una grande maggioranza di ellissoidi, seguita da una discreta
quantità di ovoidi. Si ha nel complesso il predominio del gruppo dolicomesaticefalo, con numerosi casi di dolicocefalia forte: 31 crani su 45 dolici
hanno l'indice cefalico fino a 74.
Per quanto riguarda l'indice verticale, dominante è la platicefalia, seguita però
da un altrettanto importante numero di ortocefali, mentre l'ipsicefalia incide
nella serie in modo trascurabile.
L'indice facciale è di leptoprosopia, mentre in quello orbitale prevale
l'ipsiconchia e la leptorrinia per il nasale.
81
Nella serie specifica di Monterosso, dei 29 crani, 27 risultano corrispondere
alla varietà mediterranea e solo 2 all'eurasica; la media degli indici orizzontali
è di 73,3 e nel totale 22 sono i dolici e solo 4 i mesocefali, con maggioranza di
dolicocefalia forte. Per il verticale la media è di 71,5, anche se nel complesso
domina la platicefalia con una quindicina di unità, rispetto ad una decina di
ortocefali, in completa assenza di ipsicefali nel gruppo dolico-mesaticefalo.
Ben rappresentata è la leptorrinia, 15 unità, seguita dalla mesorrinia e
platirrinia con rispettivamente 3 e 2 unità. La norma superiore ci dà invece 20
ellissoidi e 4 ovoidi. La norma posteriore è generalmente pentagonale, con i
lati rettilinei ed un po' convergenti verso il basso. Infine la stessa norma
laterale ci conferma l'essere in presenza di una predominante
dolicoplaticefalia; abbiamo infatti 13 trapezoidi, 3 ellissoidi e 6 ovoidi. Il tratto
sotto iniaco, il nostro buon carattere discriminane del tipo ligure, mostra il suo
decorso orizzontale e rettilineo in 17 casi contro 6 in questa serie
monterossese, e in tutti e due i crani di Vernazza, caratterizzati anch'essi
entrambi da una norma laterale trapezoidale e dall'occipitale fortemente
inclinato. Con questa piccola serie platicefala di Vernazza siamo di nuovo di
fronte al cranio ligure nel suo puro classicismo: leggero, piccolo e delicato,
dolico-mesocefalo, con prevalenza di dolici forti (16 crani su 22 hanno l'indice
cefalico orizzontale inferiore a 74) e platicefalo. Prognatismo a 100,
leptoprosopia, orbite ampie e quadrate, ipsiconchia talvolta forte.
In particolare poi per la sola serie di Corniglia e Riomaggiore abbiamo 11
mediterranei e un solo eurasico, e in conclusione si può quindi affermare che
in tutta la costa orientale ligure, da Monterosso a Luni, non ci furono
infiltrazioni allofile così intense da modificare la composizione antropologica
della popolazione; gli indigeni cioè non avvertirono le infiltrazioni eurasiche
come avvenne invece, e lo vedremo tra breve, per le zone dell'entroterra della
Val di Vara e Magra.
Alla luce di questi dati, prosegue Sittoni è possibile quindi considerare le
attuali popolazioni cinqueterresi tra le più arcaiche della Liguria, rimaste
isolate a causa della ristrettezza dell'ambiente in cui vivono e della tipica
immobilità che caratterizza, nell'attaccamento alle tradizioni, la mentalità di
questi coloni-pescatori e che ha permesso alle antiche forme di conservarsi
intatte.
È importante rilevare però che tra le 29 unità costituenti la serie di
Monterosso, è presente un cranio che contrasta di molto con i restanti tipi, sia
82
dal punto di vista metrico che morfologico; ma c'è di più: questa unità
presenta delle caratteristiche tali da non essere mai state riscontrate in nessuna
delle altre serie della Liguria Orientale. La varietà ligure che abita la parte
orientale della regione, è contraddistinta da un cranio piuttosto piccolo,
delicato e leggero, mentre l'unità in questione risalta per la robustezza,
pesantezza e rozzezza generale.
Questo tipo dovette senz'altro corrispondere, rileva Sittoni, ad un tipo fisico di
grossa corporatura, ampio torace ed alta statura, che si riscontra raramente, e
con le dovute modificazioni, ancora oggi tra gli abitanti della zona, e che
dovette in passato senz'altro rappresentare il diretto discendente di quello
spirito corsaro e nomade, tipico dei primi abitatori delle Cinque Terre.
Dal punto di vista metrico, il cranio facciale è mesopropsopo, mesorrino e
cameconco, ed appartiene senza dubbio ad un tipo cameprosopo, platirrino e
cameconco, dimostrando la sua rassomiglianza con i crani del tipo CroMagnon, anche per quanto riguarda l'indice cefalico orizzontale, che è di 73,7.
(19)
Alla serie cranica di Monterosso si dovrebbe in verità aggiungere anche
un'altra unità, un cranio ritrovato nel 1928 di uno scheletro sepolto
clandestinamente nella spiaggia (20); si trattava probabilmente di un
assassinato, dice Sittoni, data l'intaccatura del frontale per opera di un corpo
contundente.
Il nostro antropologo fa rientrare anche questo cranio nella stessa varietà degli
altri 29 esaminati nel 1908; l'indice cefalico è infatti di 76,2 e quello verticale di
73,6; la norma superiore è ovoide, quella laterale è tra l'ovoide e il
pentagonoide, mentre la posteriore è decisamente pentagonoide. Siamo in
presenza di un mesati-ortocefalo.
Questo piccolo scritto però è di una fondamentale importanza, perché sulla
base della questione della ortocefalia, permette al Sittoni di rimettere in gioco
le ipotesi sulla provenienza dei Biassei.
Il problema è legato alle sotto-varietà: non c'è dubbio infatti che entrambi gli
abitanti di Monterosso e quelli di Biassa facciano parte della medesima varietà
mediterranea, tuttavia resta il dubbio, dipendente dalla interpretazione della
ortocefalia, se con questi popoli ci si possa trovare o meno in presenza di due
sotto-varietà della stessa varietà mediterranea. Si possono considerare i 7
ortocefali della serie biassea come una variazione estrema dei 14 platicefali,
ed allo stesso modo i 14 ortocefali di Monterosso una altrettanto estrema
83
variazione dei 7 platicefali? La risposta, per Sittoni sembra essere negativa
(sempre con il beneficio del dubbio in relazione alla scarsezza dei dati in suo
possesso); e quindi potremmo essere con i Biassei e i Monterossini proprio in
presenza di due sottovarietà, una montana e l'altra marina e così cadrebbe
l'ipotesi di provenienza dei Biassei dal mare; mentre questa reinterpretata
ortocefalia rende il cranio biasseo più armonico con quello degli abitanti delle
valli e quello monterossino invece simile alle serie dell'appennino ligure
parmense, come ad esempio quella di Costageminiana.
Sia Monterosso cioè che Costageminiana sembrano in relazione con la
mediterraneità della Liguria centro occidentale, mentre Biassa è più in
armonia colla mediterraneità dell'estremo oriente ligure, differenza che è la
stessa tra Friniati e Briniati apuani. In definitiva non si può stabilire se la
provenienza ultima, corrispondente all'epoca in cui si fissarono
definitivamente Biassei e Monterossini sia la stessa, e 20 anni dopo le sue
prime indagini Sittoni sconvolge i risultati affermando che è tra le valli degli
allevatori e agricoltori della Val di Vara che deve essere ricercata l'origine dei
Biassei; lo dicono del resto, dice, gli stessi nomi della borgata Carro e
Carrodano, corrispondenti a due comunità della Val di Vara. Il dubbio c'era
sempre stato e l'ipotesi della provenienza dei Biassei quali rappresentanti
della parte più ribelle degli abitanti della Val di Vara, si era già affacciata nella
mente del Sittoni, già verso il 1912.
Due opinioni differenti quindi sull'origine di Biassa e sui rapporti tra le
popolazioni dell'entroterra, a vent'anni di distanza Sittoni è sempre
determinato, grazie al suo spirito di incessante ricerca ed indagine sui dati
reali, nel rivedere continuamente i risultati raggiunti, che sono solo delle
tappe momentanee di un lungo cammino ancora in gran parte da elaborare
ma che ha avuto il merito di aver iniziato.
Tra queste due fasi di sviluppo delle riflessioni antropologiche erano
subentrati nuovi elementi proprio in relazione alla antropologia ed etnografia
delle altre zone della Val di Vara e Magra che contribuirono certo a
determinare in parte questa revisione. Ed è proprio ciò che esamineremo tra
breve, descrivendo le indagine sugli abitati dell'entroterra, prima però ci
occuperemo di un'altra serie della costa e cioè dei crani di Portovenere.
Sittoni la descrive nel 1938 (21) e il gruppo si compone di 8 unità, tra
crani e calotte che provengono dal sepolcreto annesso alla chiesa di S. Pietro,
84
già tempietto pagano in onore di Venere poi trasformato in tempio cristiano.
Molto probabilmente questi crani devono risalire attorno al 1100, poiché nel
1113 una colonia di Genovesi si stanziò a Portovenere, edificando la nuova
chiesa di S. Lorenzo che fu consacrata nell'anno 1118 e il cui suolo dovette
quasi certamente essere utilizzato subito per l'inumazione dei defunti.
La serie non apporta nessun elemento nuovo, essa conferma l'unità etnica
degli antichi abitanti della Liguria Orientale; il tipo predominante infatti ha il
cranio nel complesso dolico-camecefalo con presenza di dolicocefalia forte,
l'indice facciale è invece di decisa leptoprosopia. Per quanto riguarda le
norme si riscontra la presenza di 4 ellissoidi stretti, 2 ovoidi stretti e 2 ovoidi
larghi. Solo due unità risultarono totalmente misurabili, mentre in due calotte
fu possibile rilevare esclusivamente l'indice cefalico orizzontale, l'indice
facciale e nasale in tre e l'orbitario in cinque.
Una relazione interessante è invece quella tra il tipo rappresentato da
questa serie, e quindi quello delle valli dell'entroterra, e gli ipotetici abitatori
dell'età miolitica dell'Isola Palmaria, che dista appena un centinaio di metri da
Portovenere. Ciò che emerge è il netto distacco tra le due serie.
Ma vediamo innanzitutto che cosa intenda il nostro antropologo con il termine
miolitico:
A proposito del termine “miolitico” dato da me agli arcaici abitatori della
“Grotta dei Colombi” faccio osservare che il miolitico comprende come facies
il grimaldiano, cioè l'età corrispondente al quaternario nella sua terza fase
incominciando dopo la glaciazione di Wurm, e comprende tutte le culture di
questa terza età nella cerchia mediterranea, e nel retroterra europeo fino al
neolitico.
Il miolitico corrisponde al “Paleolitico superiore” (22)
Detto questo, è possibile ora determinare il rapporto tra i miolitici della
Palmaria ed i Liguri dell'immediato entroterra sulle base delle precedenti
considerazioni fatte a proposito dei Liguri e dei Siculi. Se vogliamo infatti,
scrive Sittoni, conservare alle due varietà mediterranee fondamentali la
denominazione di Liguri e Siculi, alle quali corrispondono due differenti modi
di vita: l'alpina e la marittima, allora questi antichi abitatori dell'isola Palmaria
devono essere proprio i rappresentanti dei Siculi: nessuna relazione cioè
esisterebbe tra loro e i Portoveneresi, i quali rientrano invece nella varietà
mediterranea ligure, che ha i suoi rappresentanti nelle caverne dell'Eneolitico
ed è arrivata in Europa, e quindi in Italia, come abbiamo già visto, attraverso
85
Gibilterra, a differenza dell'altra che era già approdata, durante il Capsiano
sulle coste della Sicilia per poi diffondersi verso settentrione.
Dal punto di vista craniologico, le due unità della Palmaria, secondo l'analisi
del Frassetto, hanno una caratteristica particolare: la caduta a picco
dell'occipitale, che si allontana dal decorso proprio delle serie tipicamente
liguri, dove Sittoni riscontra invece una forte sporgenza. Pur in presenza di
due sole unità, si può senza esagerare, escludere che si tratti di un caso di
variazione estrema del tipo Ligure; così proprio per la norma laterale questi
due crani differiscono maggiormente dal tipo rappresentato nelle serie della
Liguria Orientale.
Prima di passare alla descrizioni delle serie craniche dell'entroterra ligure,
è interessante passare in rassegna l'esame dei crani e delle calotte,
direttamente trovate alla Spezia.
Il gruppo si compone di nove unità, tra crani e calotte. Due di essi sono molto
antichi, e furono rinvenuti sulla pianura del Lagora, ad una certa profondità in
occasione di scavi per la costruzione del Regio Arsenale, mentre gli altri si
attestano attorno al periodo medievale e furono rinvenuti più recentemente a
seguito di scavi eseguiti per ragioni edilizie ed appartengono ai sepolcreti
cristiani contigui all'oratorio di S. Antonio, dell'XI secolo, oggi demolito, ed
alla chiesa di S. Maria.
Esaminiamo i primi due, molto interessanti soprattutto per la loro antichità.
Uno di essi fu ritrovato nel 1886, dal professor Davide Carazzi a 8 metri di
profondità all'interno di uno scavo, dove poco tempo prima il professor
Giovanni Capellini aveva portato alla luce, sepolte ad una profondità di 12
metri, due stele di arenaria di fattura molto più arcaica rispetto a quelle
ritrovate in Val di Magra. Una di esse è di forma ellittica con un peduncolo,
mentre l'altra è rettangolare e presenta su una delle facce un rilievo a forma
della lettera U.
Veniamo al cranio. Esso viene descritto dal Sittoni come appartenente ad un
adulto, probabilmente maschio, ed è piccolo, rozzo e pesante; la norma
superiore è ovoide, mentre quella laterale cuboide; il profilo occipitale è
verticale, la fronte larga sale verticalmente, la norma occipitale è orbicolare.
La faccia è corta e rozza, senza arcate sopraorbitarie; è cameprosopo, con un
indice facciale superiore di 47,4, ai limiti della mesoprosopia; platirrino, con
indice nasale di 54,5; cameconco, indice orbitale di 81 (mesoconco secondo i
86
criteri del Sergi) e ortognato. Le orbite sono piccole e basse, mentre i nasali
sono larghi, piatti e prominenti. Per gli indici cefalici invece risulta essere un
brachi-camecefalo, con un indice di larghezza di 87,8.
Siamo quindi in presenza, scrive Sittoni, a giudicare anche dalle stele
rinvenute, di reperti molto più antichi degli altri brachi-camecefali trovati in
Val di Magra frammisti ai mediterranei, quegli elementi allofili di cui si è
parlato in precedenza. Il nostro cranio potrebbe benissimo appartenere ad un
gruppo di proto-celti; esso infatti è del tipo mongoloide e rappresenta quindi
il tipo celta nella sua purezza all'epoca della sua diffusione nel territorio a sud
della Senna, nel periodo del Bronzo.
Le forme craniche invece degli allofili della Valle del Magra si presentano,
sostiene Sittoni, con variazioni strutturali, dovute soprattutto alla
sovrapposizione di più forme, a causa di incroci con crani facciali del tipo
mediterraneo.
L'altro cranio, o meglio la calotta, fu rinvenuta nella stessa zona dove sorge
l'Arsenale, il 22 gennaio del 1914 a 15 metri di profondità nel terreno
sabbioso. A differenza del cranio precedente, questa calotta appartiene alla
varietà mediterranea, rientrando quindi negli standard morfologici delle serie
degli antichi liguri costieri. Essa infatti è leggera, piccola e delicata, di belle
curve. La norma superiore è ellissoide lungo e stretto, secondo il piano
antero-posteriore; la fronte è bassa, stretta, piatta e un po' inclinata; le arcate
sopracciliari sono molto sporgenti; è inoltre ovoide secondo la norma laterale
e pentagonoide, con i due lati laterali paralleli secondo la norma occipitale,
con tipica sporgenza a calcagno dell'occipite e torus decisamente pronunciato.
L'indice cefalico orizzontale è di 74, dolicocefalia quindi, in linea con la media
di 73,7 riscontrata ad esempio a Biassa, Monterosso e Vernazza.
Sittoni è dell'opinione che questa calotta assieme al cranio precedente non
siano stati sepolti nel luogo dove furono poi ritrovati, ma devono senz'altro
provenire da qualche zona sovrastante la sede acquitrinosa dove sorse
l'Arsenale; e furono poi trascinati in basso da movimenti alluvionali. La zona
paludosa non si prestava certo all'interramento di cadaveri.
Tra gli altri crani provenienti dalla città della Spezia, si può constatare la
presenza di elementi appartenenti sia alle due varietà mediterranee presenti in
Italia, con prevalenza dei camecefali sugli ipsicefali, sia la presenza di
entrambi i tipi eurasici. Gli indici orizzontali dei dolicocefali, oscillano attorno
a 74 e in media quelli verticali attorno a 70. Per la varietà eurasica invece si
87
hanno chiaramente due rappresentati del ceppo armenoide, ovvero i brachiipsicefali e ipoteticamente almeno un mongoloide, brachicefalo e platicefalo.
Passiamo ora alla descrizione delle serie craniche esaminate da Giovanni
Sittoni riguardanti la zona di Sarzana e Luni. Accade qui, come avevamo già
anticipato un fatto interessantissimo: il dominio incontrastato della varietà
platicefala, scrive il nostro antropologo, su tutto il territorio della Liguria
Orientale è contrastato proprio a Sarzana, dall'emergere di elementi ipsicefali;
altrettanto sorprendente è inoltre anche il fatto che nella contigua Luni, questo
rapporto non si verifica, ma torna invece ad essere prevalente la varietà
dolico-platicefala, stando ad una serie di elementi del V secolo d. C., che
risulta essere priva di ipsicefali e di elementi eurasici. Il fatto è sorprendente
poiché è altamente probabile l'esistenza di una intima relazione tra le due
città, basata soprattutto sulla tradizione che farebbe risalire la fondazione di
Sarzana ai superstiti della distruzione di Luni.
Dall'analisi antropologica quindi Sarzana sembra essere quasi un'isola, o
meglio una colonia separata dal resto degli abitanti del suo contado, forse
etrusca o romana, e di cui non è possibile datarne con certezza la fondazione;
quel che è certo comunque è la frattura, la discontinuità dal punto di vista
etnico esistente tra la città e il resto del territorio ligure-lunense. Quali furono
le cause di questa differenziazione? Innanzitutto vediamo che da un primo
raffronto delle misurazioni, la serie della città di Sarzana si allontana dalle altre
serie liguri e si avvicina invece a quelle mediterranee esaminate dal Sergi nel
territorio etrusco e romano, sia per gli indici orizzontali che per quelli verticali:
nella serie romana del Sergi infatti si hanno 12 unità ipsicefale contro 7
platicefale, e 4 ortocefale, mentre in quella etrusca abbiamo 9 platicefali, 8
ortocefali e 6 ipsicefali. La serie sarzanerse ci dà invece 9 platicefali, 8
ortocefali e 9 ipsicefali.
Per l'indice cefalico orizzontale abbiamo una analoga concordanza:
prevalgono i dolici sui mesaticefali, con una bassissima percentuale di
brachicefali, tranne nella serie etrusca.
Quello che colpisce maggiormente, nel caso di Sarzana, è che, in questo caso
non si può parlare di infiltrazione di elementi confinanti, ma al contrario,
scrive Sittoni nel 1924 (24), siamo in presenza di gente arrivata da un altro
territorio ed ivi stanziatasi. Al momento infatti l'archeologia non ci ha fornito
reperti etruschi e neppure romani, all'opposto di Luni che era una città
88
romana fondata da romani; come si spiega la mescolanza tipica della serie
sarzanese? Quale fu il rapporto tra Luni e Sarzana? Anche in questo caso,
come in quello di Monterosso e Biassa il Sittoni procede con la dovuta cautela
nell'interpretare i dati sperimentali: il nostro antropologo è perfettamente
consapevole del carattere pionieristico delle sue indagini, dovuto non ad una
incertezza nel metodo, ma esclusivamente ad un scarsa quantità di dati da
esaminare. Le sue indagini quindi, ci tiene a precisare nuovamente, devono
essere accettate come l'inizio di una lunga strada verso l'interpretazione della
composizione etnografica del terriorio lunense, sul qual c'è ancora molto da
fare.
Se i fuggiaschi di Luni ripararono in Sarzana, perché sussiste questa forte
disarmonia tra le due serie? In quella di Luni infatti, come vedremo subito
sotto, del V secolo, si riscontra con grande significatività la presenza
dell'elemento indigeno, il platicefalo cioè: 27 delle 29 unità sono infatti
decisamente liguri.
La serie sarzanese, quindi ad un primo esame, indicherebbe per Sittoni, la
persistenza sullo stesso territorio di Liguri ed Etruschi in parti eguali, o meglio
Liguri e Romani.
Vediamo di approfondire questo confronto tra la serie di Sarzana e quella
della Bassa Etruria.
Quest'ultima fu studiata dal Sergi nel 1914 e comprende 40 crani provenienti
dalle principali città dei Raseni, tra cui Cerveteri, Tarquinia, Chiusi e Faleria;
dal punto di vista antropologico sappiamo che questi territori videro la
commistione di differenti etnie: oltre alla popolazione primitiva infatti, quella
mediterranea ligure, vi fu la presenza di altre tre varietà: la villanoviana o
illirica, la golasecchiana o celta ed infine l'etrusca. Nel complesso, nella Bassa
Etruria questi elementi differenti si controbilanciarono nel tempo e ciò che
possiamo vedere negli indici cefalici sembra coincidere, mediamente con la
serie di Sarzana: l'indice cefalico della serie etrusca è di 75,2, mentre nella
seconda è di 75,4; e le stesse analogie si hanno anche per gli indici verticali,
che si assestano su valori attorno a 72. Simile è anche l'incidenza dei
mesaticefali, che sono piuttosto numerosi in entrambe le serie, al contrario
della popolazione della costa ligure e di Luni: i crani di Sarzana sono molto
più corti rispetto agli altri. Ciò che invece differenzia le unità sarzanesi dalle
etrusche del Sergi è naturalmente la presenza dell'elemento eurasico, ario, che
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è significativamente presente tra i Raseni. Inoltre la serie etrusca è
decisamente ortocefala, per un buon 75 per cento, contro il 30 per cento in
quella sarzanese.
Ecco invece che il confronto con l'altra serie del Sergi, quella romana,
fornisce un maggior indice di compatibilità. Si tratta qui di romani
appartenenti anche al periodo della Repubblica e quindi si possono ben
ritenere quali diretti discendenti dei fondatori della stessa Roma. Entrambe le
serie, quella di Sarzana e quella romana sono accomunate dalla quasi totale
assenza di brachicefali e da un analogo grado di intensità dell'elemento
ipsicefalo. Le due serie sono tanto armoniche grazie all'elemento ipsicefalo
quanto sono disarmoniche con quelle che rappresentano il tipo ligure
classico, caratterizzato dalla bassezza cranica.
Ecco delinearsi l'ipotesi del Sittoni: con Sarzana siamo in presenza di una zona
di colonizzazione romana, precisamente quella colonizzazione che seguì alle
vittorie del console Muzio, da qui la corrispondenza con la serie del Sergi, e
da qui anche la deduzione del fatto che questa colonizzazione influì
certamente, ma senza mutare nel profondo la composizione etnica della zona,
dato il rapporto nella stessa Sarzana di entrambe le varietà mediterranee, gli
ipsicefali ed i platicefali; senza creare turbamenti, come è evidente nel cranio
facciale, poiché entrambi gli elementi sono a faccia dolicomorfa.
È utile a questo punto esaminare anche la serie cranica di Falcinello, zona
nelle immediate vicinanze di Sarzana. Essa comprende sei unità di cui quattro
risultano appartenere al tipo mediterraneo e due all'eurasico. Dalle
misurazioni emerge che i mediterranei sono dolicocefali con indice di 74,9;
platicefali, con indice 69,9; leptoprosopi, leptorrini e ipsiconchi. Per la norma
superiore si hanno due ellissoidi e due pentagonoidi, per quella laterale due
trapezoidi, un pentagonoide e un ovoide. Quelle eurasiche invece sono
brachicefale con 81,9 di indice di larghezza, ipsicefale, 75,3; leptoprosope,
platirrine e cameconche.
Anche la serie di Falcinello si armonizza quindi con quelle rappresentanti il
tipo ligure classico, dalla costa di Monterosso fino a Luni e nell'entroterra,
come vedremo a Pontremoli, staccandosi così dalla contigua Sarzana,
dimostrando anche di non aver sentito in maniera significativa l'influenza
della presenza eurasica come avvenne invece nelle zone sulla riva sinistra
della Magra, tra cui Beverone e Filattiera.
A Falcinello non sembrano avvertirsi quindi gli influssi della colonizzazione
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romana, ma domina invece la varietà indigena della costa ligure.
Il cranio della costa ligure e quello di Falcinello sono quindi della stessa
varietà, come ci testimonia anche la norma laterale, trapezoide nella
maggioranza, con decorso rettilineo della volta, parallela al decorso parimenti
orizzontale del tratto sotto-iniaco, con fronte inclinata e forte inclinazione del
tratto occipitale; essa è turbata solo da cause anomale, quali la fronte
sfuggente che determinano una conformazione ovale. A Sarzana invece, la
norma laterale trapezoide non subisce mutamenti, ma è affiancata da un'altra,
quella ovoide ed ellissoide, con debole sporgenza occipitale e inclinazione
del tratto sotto-iniaco.
Per quanto riguarda la norma superiore, degna di nota in quanto non proprio
in linea con la norma prevalente nelle serie liguri, e cioè l'ellissoide lungo e
stretto assieme all'ovoide, è la norma pentagonoide, che è presente nella serie
di Falcinello in due unità; altre due furono trovate a Biassa e cinque a Luni.
La serie di Sarzana, in conclusione comprende due varietà ben distinte
dello stesso tipo mediterraneo: la dolico-platicefala, autoctona della Liguria
Orientale e la mesati-ipsicefala.
A conti fatti comunque il risultato è il seguente, in tutta la serie della costa si
possono contare, scrive Sittoni nel 1929, 66 platicefali contro 9 ipsicefali,
compreso anche Falcinello; mentre nella serie di Sarzana, abbiamo 9
platicefali contro 9 ipsicefali.
Di fronte alle due ipotesi sulla provenienza di questo elemento ipsicefalo,
quella solamente etrusca e quella romana, e quindi anche etrusca, dato che la
colonizzazione avvenne per opera di tribù liguri laziali e tribù etrusche laziali,
per il Sittoni sembra prevalere la seconda: certamente tra gli etruschi ci sono
rappresentanti del tipo a cranio basso di stirpe mediterranea, ma nella loro
compagine è presente in misura significativa anche l'elemento eurasico, che è
invece assente nella serie di Sarzana e in quella dei Romani antichi del Sergi.
Da qui si può trarre una conclusione importante, che ci conferma parte delle
teorie precedentemente esposte a proposito della diffusione di Liguri e Siculi,
condivise dal Sergi e dal Sittoni, e cioè che il cranio alto, l'ipsicefalia è propria
di una soltanto delle due varietà della stirpe mediterranea, ovvero di quella
che invase l'Europa nell'epoca neolitica partendo dalle coste mediterranee
dell'Africa, mentre l'altra caratteristica, il cranio basso, è tipico di quella varietà
che invase lo stesso territorio ma in epoca successiva, ovvero durante
l'Eneolitico.
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Di entrambe le varietà si hanno tracce in Liguria, e in questo senso si può
benissimo affermare che il termine Liguri non ha qui valore etnico, bensì
storico, in quando designa tutto il gruppo di elementi mediterranei a cranio
alto e basso che hanno occupato la zona che venne chiamata poi Liguria.
Anche il termine etrusco allora non ha valore etnico, in quanto i Raseni non
sono che una piccola parte staccatasi dalla varietà mediterranea a cranio alto;
ma Sittoni va oltre, distanziandosi così questa volta anche dallo stesso Sergi, il
quale aveva dichiarato l'impossibilità di poter distinguere nel territorio
etrusco, per l'identità delle forme, gli etruschi dai restanti mediterranei. Per
Sittoni invece la separazione del cranio etrusco da quello ligure è possibile,
mentre l'impossibilità risiede nel tentativo di separare la sottovarietà etrusca
da quella neolitica, cioè a cranio alto, alla quale infatti sembra appartenere.
Vediamo ora nel dettaglio anche la serie di Luni. La città che fu colonia
romana, fondata dai Romani, rappresenta in un certo senso il confine
settentrionale della Bassa Etruria con i Liguri, anche se dal punto di vista
antropologico è Liguria pura. La serie infatti, si compone di 29 unità, 27 delle
quali appartengono al tipo mediterraneo ligure. I crani provengono dal
sepolcreto annesso alla chiesa di S. Maria, dove si iniziò ad inumare attorno al
V secolo dopo Cristo.
Ventisette su ventinove quindi sono mediterranei della varietà platicefala,
quasi tutti fortemente dolici, assieme ad un solo mediterraneo ipsicefalo e ad
un brachicefalo villanoviano.
Nel dettaglio abbiamo 22 dolici, 6 mesocefali, un brachicefalo, 11 platicefali, 6
ortocefali, un ipsicefalo per quanto riguarda il cranio cerebrale, mentre per il
facciale si hanno 5 leptoprosopi, un mesoprosopo, 6 leptorrini, 4 mesorrini, 2
platirrini e 13 ipsiconchi. Mentre per le norme abbiamo: 17 ellissoidi, 6 ovoidi
e 5 pentagonoidi per la norma superiore; 14 trapezoidi, 4 ellissoidi, 3 ovoidi
per quella laterale e 16 pentagonoidi e 3 orbicolari per quella posteriore.
La fronte in genere è bassa, stretta, poco inclinata, appianata e ben delineata;
la volta decorre orizzontalmente come il tratto sotto-iniaco a cui è parallela, il
vertice coincide col bregma; l'occipitale è molto inclinato con la tipica
sporgenza a calcagno.
Riassumendo quindi, il cranio di Luni risulta essere proprio del tipo ligure
eneolitico; escludendo però gli elementi brachicefali, che all'epoca della
fondazione di Luni non erano rappresentati in modo numeroso tra i Romani,
rimane privo di risposta il quesito iniziale, dove siano cioè finiti gli elementi
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mediterranei ipsicefali così tanto rappresentati nella stirpe dei discendenti dei
fondatori dell'Urbe.
Passiamo ora all'alta Val di Magra esaminando i casi di Filattiera e
Pontremoli, facendo riferimento inoltre ai sepolcreti di Genicciola.
Per quanto riguarda Filattiera, possiamo brevemente dire, anticipando il tema
della necropoli di Genicciola, che essa fu una colonia eurasica, dato che
recentemente, scrive Sittoni nel 1924 (25), è stato individuato, in modo del
tutto casuale, da parte di addetti ai lavori per la ferrovia, proprio un cimitero
ad incinerazione, che però venne in parte accidentalmente distrutto, mentre
gli elementi autoctoni dovettero unirsi in un secondo momento,
probabilmente dopo la battaglia dell'Aulella, agli Eurasici, mescolandosi con
essi.
Le unità esaminate dal Sittoni sono invece medievali e vennero asportate dagli
ossari della Pieve di Santo Stefano, tranne uno proveniente da quella di San
Giorgio, nelle quali si inumava dal XIII al XVIII secolo circa.
Nel complesso la serie è costituita da 10 unità, di cui 6 mediterranee e 4
eurasiche. La presenza dei 4 brachicefali, per di più della stessa varietà è
significativa; fino ad oggi infatti, scrive Sittoni, i brachicefali rinvenuti in tutte
le zone esaminate sono dieci: due a Biassa, due a Monterosso, uno a
Pontremoli, come vedremo, uno a Sarzana e questi quattro a Filattiera.
Nel riassumere brevemente i risultati delle misurazioni vediamo che nella
serie dolicomorfa sono presenti tre dolicocefali puri, due di essi con indice
cefalico orizzontale inferiore a 74, e tre mesaticefali; per gli indici nasali e
orbitali abbiamo tre leptorrini, due platirrini e due ipsiconchi e mesoconchi ed
un cameconco; per quanto riguarda gli indici facciali, sono tutti leptoprosopi.
La norma superiore si attesta nella forma ellissoide.
I brachimorfi invece dimostrano ipsicefalia, anche se solo due unità hanno gli
indici cefalici misurabili e leptoprosopia, con prevalente platirrinia ed
ipsiconchia; per la norma superiore si hanno tre sfenoidi ed un ovoide.
Filattiera e Genicciola, come vedremo tra breve, costituiscono quindi una
tappa importante per le analisi antropologiche del territorio della antica
Liguria Orientale; esse infatti attestano in modo significativo, la presenza
dell'infiltrazione dell'elemento eurasico in Val di Magra di cui si può
addirittura tentare di ricostruire la storia. Secondo Sittoni infatti, si può
ipotizzare che un ramo della grande invasione preistorica di Eurasici, lo stesso
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che edificò i sepolcreti di Genicciola, discese sino al fiume Magra, e
probabilmente ancora più a sud; al contrario però di ciò che accadde nella
valle del Po, qui in Val di Magra la popolazione indigena mediterranea
resistette all'invasione, mantenendo fondamentalmente i propri caratteri
antropologici. Come si può vedere infatti dal rapporto tra i due diversi tipi,
non vi fu né trasformazione antropologica né un grande mutamento di
composizione etnica dovuta all'immigrazione dei nuovi elementi allofili, i
quali vennero poi, col tempo, assorbiti dalla popolazione mediterranea.
Esaminiamo ora brevemente il sepolcreto di Genicciola. Innanzitutto
questo cimitero è il più grande della zona ed il più importante tra quelli fino
ad oggi ritrovati, scrive Sittoni nel 1924.
Fu scoperto nel 1878, e dopo 45 anni solo un terzo di esso venne esplorato, il
rimanente è ancora nascosto nel sottosuolo. Vennero portate alla luce più di
cento tombe cinerarie a cassetta, assieme al corrispondente forno crematorio
e ad un corredo di armi e oggetti ornamentali.
Dalla relazione degli scavi di Paolo Podestà, si legge che ciascun sepolcro è
formato da sei lastre di roccia argillosa, disposte in modo tale che una di esse
forma la base, l'altra il coperchio e le restanti quattro i lati della cassetta; il
tutto poi veniva circondato e coperto da un cumulo di pietre, per lo spessore
di circa mezzo metro per ogni lato, e ricoperti poi da un piccolo strato di terra.
I sepolcri erano disposti tra di loro in maniera irregolare, a gruppi, senza un
ordine in base a file regolari e a distanze differenti.
All'interno di ciascun sepolcro vi erano una o due urne cinerarie, coperte da
una ciotola assieme ad uno o più vasi; qualche arma ed oggetti ornamentali, e
talvolta qualche moneta.
Su alcune patere, tutte di fattura locale, eseguite a mano oppure al tornio, si
riscontrano incisi dei caratteri che sembrano del tutto simili a quelli impiegati
dagli etruschi, e di cui il nostro Sittoni tenterà una interpretazione (26).
Tra le armi si annoverano alcune spade complete di fodero, qualche lancia ed
alcuni giavellotti; tra gli ornamenti invece ci sono armille, fibule di argento,
bronzo e ferro.
Assai importanti sono le monete, poiché ci permettono di datare con certezza
alcune delle tombe; a seguito del parere dei competenti in numismatica, il
Podestà scrive nella sua relazione che il sepolcreto era utilizzato già dall'anno
537 di Roma, e proseguì almeno fino all'anno 665, fino cioè all'89 a.C.
Che cosa può dedurre l'antropologo da questi dati? Innanzitutto, oltre a quello
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di Genicciola, scrive Sittoni si conoscono nella zona altri sepolcreti ad
incinerazione, benché molto più piccoli e addirittura tombe isolate; quel che è
certo è che gli Eurasici di Genicciola, sono proprio i diretti rappresentanti di
quell'elemento allofilo che abbiamo visto nelle serie craniche della zona
assieme a quello predominante, ovvero il mediterraneo; resta pur sempre da
stabilire a quale varietà eurasica questi allofili appartenessero. Da un altro
indizio importante si può dedurre una dato altrettanto significativo: la
presenza di monete del I secolo a.C. assieme alla persistenza della antica
tecnica di costruzione delle stesse tombe e di fabbricazione delle ceramiche,
ci testimonia il fatto che questa colonia di Eurasici rimase in un certo senso
isolata verso l'esterno, e priva cioè di rapporti di scambio e commercio con le
altre popolazioni che avrebbero dovuto portare ad un apprezzabile
mutamento degli usi e tradizioni. Né gli influssi degli etruschi prima, né la
dominazione romana dopo riuscirono a mutare in modo significativo
l'attaccamento alle avite forme di lavorazione, se si eccettua qualche
sporadico vaso di fattura etrusca, e alle antiche tradizioni dei rituali funerari.
Questi Eurasici quindi, ribadisce Sittoni rimasero immobili ed isolati (27),
senza grandi relazioni con i loro vicini.
Accettando la datazione delle monete si può inoltre dire, per quanto riguarda
la storia dell'invasione di questi Eurasici, che essi penetrarono nell'Alta Val di
Magra attorno al III secolo a.C. circa, a seguito della più grande invasione del
IV secolo o addirittura di quella del IX, dato appunto il contenuto e l'aspetto
preistorico delle tombe. Essi arrivarono dalla Valle Padana e probabilmente
non si spinsero troppo oltre Pontremoli, considerando la composizione delle
diverse serie craniche.
Se la parte esplorata del sepolcreto ci fa propendere per il IV secolo, tuttavia
non bisogna dimenticare che la maggior parte di esso, e forse proprio la più
antica giace ancora inesplorata e c'è un indizio che ci fa propendere più verso
il IX secolo.
Si chiede infatti Sittoni come sia possibile che dopo la battaglia dell'Aulella,
con la conquista da parte dei Romani, guidati dal console Muzio, di tutto il
territorio strappato ai Liguri e con la ripartizione delle terre fra i coloni romani,
la colonia di Genicciola sia stata lasciata intatta, senza neppure la confisca
delle armi o la deportazione dei coloni. Inoltre, se gli Eurasici di Genicciola
fossero stati proprio quelli che nel IV secolo osteggiarono i Romani nella valle
del Po, è forse possibile che essi non aiutarono in questa occasione i loro
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ospiti liguri contro le legioni del console Muzio? Ed inoltre, a seguito della
vittoria romana, è parimenti possibile che i vincitori non infierirono contro
quei discendenti della stirpe che era ancora in lotta contro di loro nella
Pianura Padana?
Nel fare risalire questi Eurasici all'invasione del IX secolo, si può spiegare
l'apparente condiscendenza dei Romani nei loro confronti. E' noto infatti che
questi antichi invasori si frammentarono in piccole tribù, infiltrandosi in
diverse zone dell'Italia centrale e meridionale, rimanendo però isolati ed
indipendenti, e si estinsero col tempo senza esercitare nessuna influenza
significativa nelle popolazioni autoctone, lasciando come testimonianza del
loro passaggio i diversi sepolcreti, tra cui ad esempio quello di Golasecca ed il
nostro di Genicciola.
Vedremo anche cosa ci dirà la stele di Filetto, sempre a proposito della
provenienza di questa colonia eurasica.
All'epoca della sconfitta dei Liguri, quindi la stessa Roma si sarebbe limitata a
far spostare questa colonia eurasica semplicemente da una riva all'altra del
fiume Magra, lasciandoli vivere indisturbati.
Passiamo ora ad esaminare brevemente il caso di Pontremoli; come si è
già detto prima, in questa serie troviamo rappresentato il tipo ligure nel suo
puro classicismo; la serie composta da 22 unità comprende ben 19 dolicomorfi
e 3 brachimorfi. Tra i primi, 15 sono dolici puri e 10 hanno l'indice cefalico
orizzontale inferiore a 74; mentre per quanto riguarda l'indice cefalico
verticale, si hanno 10 platicefali, 8 ortocefali ed un solo ipsicefalo; mentre per
ciò che concerne i brachicefali due sono della varietà armenoide.
Siamo in presenza di un vero e proprio domino del cranio di tipo eneolitico:
dolico-platicefalia con dolicocefalia e leptoprosopia forte, leptorrinia ed
ipsiconchia.
Pontremoli rappresenta in un certo senso dunque il confine settentrionale del
domino in Val di Magra dell'elemento eneolitico, che invece divide il proprio
territorio con il cranio di tipo neolitico nel confine meridionale, rappresentato
come abbiamo visto, da Sarzana.
Prima di passare a descrivere più nel dettaglio le indagini antropologiche
ed etniche di Giovanni Sittoni nella zona della Val di Vara, è interessante
seguire una curiosa ma significativa ipotesi che il nostro antropologo elabora a
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proposito di due popolazioni in relazione proprio con il fiume Magra, il Vara e
Genicciola, applicando quel metodo di studio che già era del Sergi, di unire
alle indagini antropologiche quelle sulla toponomastica: si tratta delle tribù dei
Macrales e dei Bolani, e Sittoni ne tratta all'interno di una pubblicazione del
1941 (28).
A conferma delle teorie più generali sulle frequenti migrazioni e spostamenti
delle tribù liguri e sicule nella nostra penisola, si può leggere in Plinio il caso
esemplare di due antiche tribù, quella dei Medulli e quella dei Consuentes.
Queste due popolazioni infatti le troviamo dapprima annoverate tra i più
antichi abitatori del territorio latino e in seguito la loro presenza è segnalata
sulle Alpi.
Una frazione quindi di queste due tribù, i liguri Medulli ed i siculi Consuentes
si stanziò su territori molto lontani tra di loro, mantenendo però intatta la
denominazione, e come vedremo, attribuendo nomi simili a luoghi differenti.
Sabini, Medulli e Consuentes sulle Alpi quindi, scrive Sittoni e Sabini, Medulli
e Consuentes pure nel vetus Latium, a testimonianza della grande mobilità di
queste tribù frazionatesi autonomamente e conservanti il nome originario.
Dovrebbe destare meraviglia quindi il trovare la stessa cosa anche in Val di
Magra?
Facendo riferimento sempre a Plinio, egli colloca tra i populi Albeneses del
vetus Latium le tribù dei Macrales e dei Bolani, anch'essi liguri in quanto
sabini. Questi ultimi infatti erano tribù montane stanziatesi in quel territorio
che fu successivamente denominato Liguria padana, come risulta evidente
dall'analisi dei nomi lasciati ai luoghi: lago Sabinus, e abitato Sabium.
Nell'enumerare gli abitati però Plinio non nomina né Macra, né Bola,
segnalando unicamente il fatto che queste appartengono a quel genere di
abitati del Lazio che sparirono col tempo senza lasciare alcuna traccia.
Ecco l'ipotesi interessante del Sittoni: è possibile, si chiede il nostro
antropologo, mettere in relazione i Macrales con il nostro fiume Magra ed i
Bolani con il nostro Bolano e il piccolo centro Bola lungo il torrente Pénolo?
Essendo poi Bola e Bolano nei pressi di Genicciola, non si potrebbe ritenere
che l'invasione eurasica che in questa zona ha gravitato in maniera molto
intensa non abbia fatto sì che i Bolani lasciassero l'antichissima Bola per
ritirarsi sui monti e fondare Bolano?
Per i Macrales l'ipotesi è un po' diversa poiché non esiste, o meglio non è
noto un abitato chiamato Macra; una doppia indagine sarebbe quindi
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necessaria, analizzare il territorio dal punto di vista dell'antropologia e da
quello della toponomastica.
Sappiamo innanzitutto che gli antichi denominavano i gruppi etnici, ma non
designavano il territorio occupato (Bola, Macra). Solo tardivamente, gli storici
latini distinsero gli abitanti aggiungendovi suffissi (Bolani, Macrales).
Nel caso dei Macrales dovremmo, scrive Sittoni, far riferimento a quelle tribù
che lasciarono il proprio nome sia al fiume ma anche al laghi della zona in cui
si stanziavano.
Così come in Lucania, abbiamo ad esempio un Cosuentus fiume ed un
Cosuentum oppidum, si può ipotizzare per i Macrales, oltre al fiume, anche un
abitato chiamato Macra.
Negare a priori la presenza dei Macrales in Val di Magra significa quindi, per
Sittoni non riconoscere nella giusta misura i grandi spostamenti delle
antichissime tribù in Italia. La prima stabilizzazione dei Liguri e dei Siculi; nella
pianura padana, nelle valli alpine, in quelle del Rodano e Danubio gli uni, e
nel sud della nostra penisola e nel versante orientale degli Appennini gli altri,
era continuamente turbata da lotte per la conquista del territorio contro gli
invasori allofili, ed è molto improbabile che la valle della Magra e quella della
Vara fossero esenti da questi grandi movimenti.
La strada per la corretta investigazione di questi fenomeni ci viene soprattutto
dalla toponomastica; quando mancano documentazioni scritte, fonti dirette o
indirette una via privilegiata ce la offre proprio lo studio dei nomi dei luoghi; è
noto infatti che spesso questi nomi rimanevano inalterati o quasi nel
succedersi delle diverse dominazioni sul territorio. È molto probabile quindi
che gli stessi nomi dei fiumi, Magra e Vara preesistettero salvandosi poi nel
tempo, alla romanizzazione della zona, così come altrettante piccole località,
oppure i luoghi più reconditi.
Se il linguaggio dei Liguri e dei Siculi è ignoto, sappiamo però che essi
attribuivano talvolta alle città il nome dei propri condottieri; lo stesso metodo
che usava Roma nella denominazione delle colonie agricole. Alcuni suffissi
liguri, o più in generale mediterranei antichissimi, sono quelli in -usco, -asco,
-asca, come troviamo ad esempio in Barbarasco, l'abitato vicino a Bola, che fu
probabilmente occupato dagli invasori di Genicciola, dato il ritrovamento
accidentale di alcune tombe a cassetta; oppure il suffisso -ella, che si trova ad
esempio in Tavella, sempre vicino a Bola.
Bola potrebbe essere, ipotizza Sittoni, il nome del primo condottiero dei
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Bolani che Plinio annovera tra i populi Albenses del Vetus Latium; inoltre il
tipo che domina attualmente dal punto di vista etnico a Bola, ha i capelli
biondi e caratteri facciali della varietà mongoloide o celta.
Su queste due considerazioni Sittoni fonda la propria ipotesi: Bola fu di
fondazione laziale proprio come Subio, Cosa e Medullia sulle Alpi vennero
fondate sai Sabini, Consuentes e Medulli fondatori dei Clara oppida del Vetus
Latium. O meglio, potrebbe essere che le tribù si accamparono nel Lazio dopo
aver retrocesso proprio a causa delle invasioni eurasiche del IX secolo; risulta
infatti che la valle del Tevere fu una zona di rifugio per i mediterranei che
dovettero lasciare la valle del Po e alcune zone dell'Appennino, incalzati dai
Celti e dagli Illirici, la cui avanzata è testimoniata dai diversi sepolcreti
rinvenuti e dalle diverse stele. Ora la domanda più incalzante, ma che è
destinata per il momento, data anche l'assenza di serie craniche sia antiche
che moderne, a restare senza risposta certa è se fu la Bola che poi divenne
Bolano ad essere la prima fondata dai Bola o lo fu invece quella in prossimità
del torrente Pénolo. Probabilmente, dato il suffisso, Bolano fu compreso nel
territorio di colonizzazione romana, mentre la Bola del Pénolo venne
trascurata mantenendo il nome originario; a meno che, ipotizza in secondo
luogo Sittoni, quando Bolano, già Bola, fu occupato, una piccola parte degli
abitanti abbia oltrepassato il monte Castellaro, stabilendosi nella valle del
Pénolo, e fondando una nuova Bola.
Dopo questa interessante ricostruzione della ipotetica diffusione in Val di
Magra dei Macrales e dei Bolani, torniamo a seguire la descrizione etnografica
delle altre zone dell'entroterra della Liguria Orientale.
Per quanto riguarda la Val di Vara, esaminiamo nello specifico le serie
craniche di Beverone e Varese Ligure. Il primo è una paese a 702 metri sul
livello del mare con un centinaio di abitanti, molto isolato e raggiungibile
mediante una faticosissima, scrive Sittoni, ascesa su ripidi e pericolosi sentieri
tracciati sul macigno. La popolazione è molto cortese e gentile con i forestieri,
e anche nei confronti del nostro antropologo, non si mostra ostile, come le
altre popolazioni liguri, pur conoscendone lo scopo della visita: il
prelevamento di crani.
Il paese sembra isolato dai traffici e commerci con gli abitati circostanti ed è
autosufficiente; vi si trova bestiame, grano, patate e castagne in abbondanza e
viene coltivata anche la vite. Per quanto riguarda l'architettura delle case, non
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vi è nulla di rilevante da segnalare, si ha infatti l'usato stile degli arcaici paesi
di queste contrade.
La serie prelevata e studiata da Sittoni si compone di 12 crani che provengono
da un sepolcreto non più utilizzato da una cinquantina di anni, il quale
presenta però una caratteristica molto significativa che l'antropologo spezzino
definisce come un tramando nostalgico in tempi storici del vecchio rito
cavernicolo (29). I cadaveri infatti non venivano né interrati né incassati, ma
collocati direttamente all'interno di una grande stanza scavata nel macigno,
alla quale si accede da un foro praticato nel suolo roccioso; una specie di
cisterna naturale dalla cui apertura Sittoni ha come l'impressione di trovarsi
sull'orlo di un baratro oscuro.
Il defunto veniva collocato vestito in questa stanza con un rito particolare:
veniva portato nella stanza e messo a sedere su una banchina di pietra, dove
col tempo, l'azione della decomposizione lo faceva cadere lasciando il posto
libero per un altro corpo.
Inoltre esistevano due stanze separate, alle quali si accedeva da due distinte
entrate, una per gli uomini e l'altra per le donne, assieme alle quali venivano
collocati anche i bambini.
Dei dodici crani, nove appartengono alla varietà mediterranea dolicoplaticefala, mentre i restanti tre sono del tipo eurasico. Ignorando in un primo
momento l'usanza della separazione tra cadaveri femminili e maschili, Sittoni
attinse tutti i crani dal settore delle donne; tuttavia il gruppo si compone di
cinque unità femminili e sette maschili poiché i crani risalgono proprio
all'epoca del colera del 1884, periodo in cui si mescolarono senza distinzione
di generi.
Niente di particolarmente sorprendente per quanto riguarda le misurazioni,
anche qui siamo in linea con gli altri risultati: prevalenza dell'elemento
mediterraneo, con sensibile influenza dell'eurasico di tipo celta; influenza che
si fa sentire negli indici del cranio facciale.
Tra i mediterranei 4 sono dolicocefali e 5 mesaticefali, media di 75,9; mentre
per gli indici verticali abbiamo 7 platicefali e 2 ortocefali con media di 69; per
gli altri indici si riscontrano 6 leptoprosopi, 5 platirrini e 2 leptorrini; 2
mesoconchi, 3 cameconchi e 7 ipsiconchi. Per la norma superiore abbiamo 7
ellissoidi e 2 ovoidi.
Per i brachicefali invece la media degli indici orizzontali è di 87,1, mentre per
quelli verticali è di 76,4; secondo la norma superiore abbiamo 2 sfenoidi ed
100
un ovoide.
Rispetto alle serie della costa ligure ed a quella di Pontremoli si nota appunto
un leggero attenuamento negli indici del cranio facciale, segno della maggior
vicinanza all'elemento eurasico; siamo infatti anche per Beverone, poco
distanti da Genicciola.
La leptoprosopia, leptorrinia ed ipsiconchia del classico tipo ligure cede il
posto alla leptoprosopia ai confini con la mesoprosopia, platirrinia,
mesoconchia di Beverone e tra le due si può collocare la leptoprosopia,
mesorrinia e mesoconchia della serie di Filattiera.
Tra gli indici del cranio facciale il più significativo sotto questo riguardo è il
facciale superiore (secondo Kollmann) che per le serie della costa e di
Pontremoli si attesta in media attorno a 59, mentre per Beverone e Filattiera è
di 56; gli altri indici infatti, osserva Sittoni, di platirrinia e cameconchia non
necessariamente sono tutti di importazione eurasica, come si vede ad esempio
nel caso di Finalmarina ed in altre grotte eneolitiche liguri.
Passiamo ora alla serie di Varese Ligure. Nel proseguire il compito di
indagare dal punto di vista antropologico il territorio corrispondente all'antica
Liguria Orientale, per ricostruirne la storia, Sittoni si occupa del caso di Varese
Ligure anche spinto da un altro, seppur simile motivo: l'interpretazione della
stele funeraria di Zignago, di cui tratteremo poco più oltre. Questo studio
infatti ha determinato nel nostro antropologo un desiderio di indagare più
approfonditamente le zone attorno al Passo delle Cento Croci, in particolare
Varese Ligure e Bedonia.
La serie di Varese si compone di 12 unità, di cui 8 mediterranee e 4 eurasiche;
la vicinanza degli Eurasici si fa dunque maggiormente sentire in questo caso,
anche se prevale sempre la dominante vitalità dell'elemento mediterraneo,
come a Bedonia, dove si hanno 9 mediterranei contro 6 eurasici.
Proprio a Bedonia poi, la dolicocefalia ci dimostrerà come la zona ai piedi
dell'Appennino ligure nel versante padano sia diventata nel tempo un rifugio
per i Liguri padani a seguito dell'invasione eurasica del IX secolo a.C. Si
riscontra anche in questa serie la tipica attenuazione degli indici del cranio
facciale dovuta alla maggiore intensità dell'infiltrazione di elementi eurasici. Le
sette unità misurabili sono tutte leptoprosope; per gli indici nasali e orbitali
abbiamo quattro leptorrini, un platirrino e tre mesoconchi e tre ipsiconchi.
Come media generale comunque anche Varese rientra nei valori standard
101
delle altre serie ad elementi mediterraneo-eurasici, anche se le serie della
costa ligure e Pontremoli rimangono più doliche e platicefale, data la
maggioranza delle unità con indice cefalico orizzontale al di sotto di 74, cosa
che invece non si verifica a Beverone, Filattiera, Falcinello e appunto a
Varese.
Possiamo riassumere a questo punto le caratteristiche complessive
principali dell'indole psichica e del tipo fisico della popolazione della Val di
Vara, come abbiamo fatto per quella della costa.
Innanzitutto, scrive Sittoni, anche nel caso degli agricoltori della Val di Vara ci
troviamo di fonte a quello spirito inerte ed a quella repulsione per le
innovazioni che abbiamo riscontrato nel tipo biasseo-campiota e nel
monterossese. Il tratto fondamentale della gente della Val di Vara, dell'inizio
secolo, scrive il nostro antropologo, è infatti l'indolenza, così come un tempo
dovette essere la repulsione ancor più decisa contro ogni specie di
innovazione. Tale sentimento è talmente radicato da sembrare come una
specie di ricordo atavico di un antico stato psichico generale che si tramanda
da generazioni, come un tratto fondamentale dell'anima della stirpe delle
passate generazioni.
Non è che l'abitante di queste zone sia incapace di svolgimento e progresso, è
che semplicemente non ne sente il bisogno, grazie anche al forte isolamento
che la mancanza di strade e l'asperità delle montagne impongono; ma al
contrario gli individui hanno sviluppato un forte senso del lavoro, o meglio
hanno raggiunto una capacità di lavoro fisico ben superiore a quella dei loro
vicini.
Tuttavia i liguri della Val di Vara sono pur sempre quelli che conservano di
meno le caratteristiche dell'indole arcaica, rispetto ad esempio agli abitanti
della costa. La sostituzione infatti di quella che Sittoni definisce indolenza, alla
passata repulsione, è già un tratto di ingentilimento che contraddistingue le
presenti generazioni rispetto alle antiche, e nel giro di poco tempo, prospetta
l'antropologo spezzino, nulla ci vieta di ipotizzare che il grado di civiltà di
queste vallate raggiunga quello delle più progredite e meno intransigenti alle
innovazioni, non ostante appunto le difficoltà che le condizioni esterne
impongono, quali la mancanza di strade, ponti e ferrovie, assieme alla ridotta
azione che gli stimoli del mondo esterno producono sugli abitanti, per
superare proprio le avversità delle forze naturali; l'unico mezzo di trasporto è
102
il mulo, e l'unica viabilità sono sentieri impervi e faticosissimi.
Dal punto di vista delle attività, la Val di Vara è una regione prevalentemente
agricola, sebbene l'agricoltura sia, anche qui, praticata con mezzi poverissimi e
senza le innovazioni che le moderne cognizioni scientifiche hanno apportato
nelle più evolute regioni; inoltre la popolazione di queste zone è anche in
generale dedita alla pastorizia, ma, scrive l'antropologo spezzino, più per
atavismo, che per speculazione, poiché molte famiglie hanno un gregge
talmente ridotto da far ricordare i tempi in cui si allevava solo per avere una
provvista di lana sufficiente per ogni fuoco.
Non si parla però di difetto nelle doti naturali di questi coloni, ma anzi di
ricchezza di forza di volontà e potenze tenute deste dalle sfide che la natura
provoca per la sopravvivenza, e che un giorno potranno essere sicuramente
rivolte verso altri fini, che recheranno un benessere sempre più grande e
duraturo.
È manifesta inoltre la differenza tra gli abitanti della Val di Vara e quelli delle
Cinque Terre; lo si vede anche nella condizione e nella posizione sociale della
donna. Nei paesi della costa, avevamo visto infatti, scrive Sittoni, a quale duro
lavoro fosse sottoposta la donna: essa lavorava nei campi molto più dell'uomo
stesso, con grande fatica e impiegando una notevole forza fisica; cosa che non
accade nelle zone della valle, dove invece l'attività principale della donna è
quella della filatura dei tessuti. Qui le donne aiutano pur sempre l'uomo nelle
sue mansioni agricole, ma non in maniera così sistematica come avviene nelle
Cinque Terre.
Ecco una regola generale della psicologia etnica: le doti naturali degli
individui non sono mai in contrasto con le caratteristiche e le condizioni
dell'ambiente in cui vive. L'indole cinqueterrese, meno favorita dall'ambiente
geografico, conserva una maggior quantità di germi atavici, scrive
l'antropologo spezzino, che costituiscono un grave ostacolo al progresso
morale e materiale del territorio, e la posizione della donna nella comunità ne
è una diretta conseguenza; a questo si accompagna la maggiore robustezza
fisica e forza della complessione degli uomini delle Cinque Terre, che vivono
in territori troppo isolati ed inadatti perciò alle influenze della civiltà.
Mentre il lavoro agricolo nella Val di Vara è lento e duraturo, nelle Cinque
Terre il lavoro della terra richiede un grande dispiegamento di forze in tempi
relativamente brevi; nella fertile valle si puo' arare, coltivare e mietere per
tutta la durata dell'anno, mentre nella costa la terra è arida e l'uomo deve
103
crearsi le zone da poter coltivare, trasportando in spalla dentro grosse ceste
proprio quel poco di terreno che è riuscito a strappare al massiccio a picco sul
mare, creando piccole terrazze rette da muretti a secco; sono questi i caratteri
che la psicologia etnica deve mostrare e interpretare: la Lunigiana per i Liguri,
le altre terre per gli altri popoli, come il fondamento etnico, storico e
psicologico di ogni popolazione.
I Cinqueterresi, grazie alle sole loro forze, non potranno mai divincolarsi da
questa lotta che il lavoro impone contro la natura arida, e non potranno
quindi sotto questa sola condizione, mai dirigersi verso altri tipi di civiltà;
mentre invece in Val di Vara accade il contrario, qui la maggior parte
dell'energia resta imprigionata negli stessi individui proprio e soltanto per la
mancanza delle grandi correnti di scambio che limitano ogni libero sviluppo
di qualsiasi traffico di prodotti.
La corretta interpretazione che l'antropologia psicologica ci deve mostrare di
questi fenomeni ci porta quindi a comprendere correttamente la direzione
dello sviluppo delle energie insite nel popolo ligure, smascherando tutte
quelle teorie che vedono invece negli stessi Liguri un popolo, scrive Sittoni, in
possesso di una minore quantità di stimoli mentali. È una questione di corretta
interpretazione.
Naturalmente non si deve ridurre la spiegazione circa l'indole degli individui
mediante il ricorso esclusivo all'azione dell'ambiente esterno; oltre alle
condizioni esterne infatti sono necessari quei tratti innati che
contraddistinguono ciascuna stirpe rispetto alle altre. Nei Liguri infatti,
l'attitudine al lavoro ed il conseguente sviluppo della forza fisica non sono
tanto una dote acquisita, quanto una delle caratteristiche proprie delle
arcaiche generazioni; e ciò è magistralmente esemplificato proprio dalle stesse
Cinque Terre: qui infatti senza le particolari doti innate dei primi coloni,
l'ambiente roccioso ed arido avrebbe schiacciato qualsiasi tentativo a lasciarsi
modificare operato da individui non in possesso di quella attitudine ad un
lavoro titanico e secolare, accompagnata dalla grandissima forza di volontà e
combattività, che sono appunto proprie dei Cinqueterresi, il cui spirito ci
mostra quindi delle qualità preesistenti, che non sono per certo determinate
direttamente dall'ambiente.
Prima di giudicare i Liguri, quindi, scrive Sittoni è necessario attendere che si
mettano in atto quelle condizioni che possano garantire un completo e senza
ostacoli sviluppo delle loro facoltà fisiche e psicologiche, e vedere appunto
104
come essi reagiranno nei confronti della cosiddetta civiltà; se si sottrarranno,
oppure no, ai doveri che quest'ultima impone.
È di nuovo il tema della civiltà, della modernità dei positivisti, che Sittoni però
elabora in modo decisamente differente da come ad esempio abbiamo visto
fare dal Sergi. Nessuno slancio ottimistico verso la modernità accompagnato
dal disprezzo per tutto ciò che non è positivo troviamo in Sittoni, ma un
osservare quasi rassegnato, l'incalzante futuro. Certamente vi è fiducia verso il
progresso, se questo può portare al benessere ed al miglioramento delle
condizioni di vita della popolazione, sembra dire, da un lato, il Sittoni
antropologo e scienziato; ma dall'altro, come emergerà nell'ultima parte del
nostro libro, la parte poetica e sensibile del nostro autore, sembra invece
guardare con malinconia e tristezza tutto ciò che è destinato a fuggire e
scomparire, dal dialetto che il poeta custodisce nei versi, alle usanze popolari
che l'etnografia cerca di trattenere raccogliendole negli archivi.
L'intima virtù della civiltà - scrive così Sittoni- consiste nel rendere più forte
chiunque a lei serva, e nell'indebolire chiunque le resista. (30)
Oltre all'influenza dell'ambiente, dunque, per il Sittoni è di fondamentale
importanza, nei riguardi del metodo che l'antropologia deve seguire, anche la
considerazione delle disposizioni fisiche e psichiche delle popolazioni; le
forze fisiche e le attitudini al lavoro sono ad esempio proprio una funzione di
queste disposizioni, che sono capaci pertanto di poter modificare lo stesso
ambiente esterno. È il sentire di un popolo dunque ciò che determina le rotte
dell'assegnazione che il destino impone: le stesse differenti direzioni percorse
dai popoli migratori sono in questo senso, scrive Sittoni, predeterminate dai
fattori fisici e da quelli antropologici.
I diversi gradi di sviluppo delle civiltà dunque devono essere interpretati alla
luce di una apprensione profonda delle disposizioni fisiche e psichiche degli
abitanti, oltre che dell'analisi dell'abitato. E così, conclude il suo ragionamento
Giovanni Sittoni, quando si afferma con Goethe che l'impronta di una civiltà
non deve considerarsi come il semplice prodotto della natura di un dato
luogo, si intende proprio dire che le avite e primitive generazioni presero
inizialmente possesso di un territorio che si addimostrava, per la
conformazione tipica del paesaggio, già in armonia colle loro disposizioni
fondamentali. Libera scelta dunque in quanto determinata dall'intonazione del
fondamento.
Così resta nel nostro antropologo ferma la convinzione che né il tempo e
105
neppure la civiltà possono influire, come molti invece vogliono, direttamente
sull'indice cefalico, così come essi non possono eliminare completamente il
tratto fondamentale dell'anima di un popolo. Il fattore ambientale, in
definitiva, è una condizione dell'evoluzione etnica di un popolo, che è a sua
volta condizionata dalle caratteristiche della stirpe, della razza delle
popolazioni. Psiche e ambiente sono sempre intonati: di volta in volta si
possono creare nuovi accordi, ma l'armonia si verifica solo se all'ambiente che
dà il dono, corrispondono le disposizioni etniche stesse.
Dopo aver brevemente descritto l'indole degli abitanti della Val di Vara
passiamo ora ad elencarne le caratteristiche fisiche sia interne che esterne. Da
questo punto di vista possiamo affermare con Sittoni, che la popolazione di
questa valle non presenta nessun tratto nuovo rispetto a quanto già visto in
precedenza nelle serie della costa e dell'entroterra della Liguria Orientale. Si
notano anche in questo caso le forme facciali tipiche del cranio cavernicolo
ligure; le qualità specifiche della stirpe si rispecchiano nella fisionomia fine e
delicata del cranio contrapposta ad un tipo più pesante e rozzo, che è
presente in quantità decisamente limitata.
Alle due tipologie del cranio, quella dolico-ellissoidale e quella ovoidale più
rozza corrispondono anche due diverse forme facciali, ma la prevalenza è
sempre dei tipi facciali lunghi e stretti.
Tra i rappresentanti del tipo ligure possiamo riscontrare un gruppo a colorito
chiaro e uno bruno; questi ultimi presentano capelli castagno scuri, occhi grigi
o castagni, sopracciglia folte, naso allungato, leptorrino, labbra e bocca fine,
mandibola delicata e collo lungo, fronte bassa e stretta, con forma facciale nel
complesso rappresentata da un ovoide lungo e stretto. La loro statura è
compresa tra il metro e sessanta ed il metro e settanta e la costituzione nel
complesso è delicata e tendente alla magrezza. Il tipo a colorito più chiaro,
presenta del pari le stesse caratteristiche fondamentali del bruno, anche se tra
i suoi rappresentanti si può trovare qualche tipo biondo o rosso di capelli che
senz'altro dovette essere più numeroso nel passato; è il tipo quest'ultimo,
dalla statura alta, dalla corporatura robusta, collo taurino, cranio grosso e
pesante che abbiamo già trovato in sporadiche unità anche nelle serie della
costa.
Prima di concludere questa seconda parte dedicata alla descrizione
106
antropologica della Liguria Orientale, ci è sembrato opportuno riportare anche
le interpretazioni che Giovanni Sittoni ha elaborato delle statue stele della Val
di Magra. Questo argomento, nel mostrare tanto la vastità del campo di
indagine del nostro antropologo quanto l'acutezza delle sue deduzioni nei più
disparati campi della cultura (vedremo anche un Sittoni poeta) dimostra
invero un particolare interesse perché ci introduce in quello che sarà
l'argomento principale della terza parte di questo libro, e cioè l'esposizione
delle ricerche del Sittoni in campo linguistico, in particolare in quello del
dialetto spezzino; e d'altronde, anche studiando le lingue non ci allontaniamo
poi di molto dagli obiettivi che si pone l'antropologia craniometrica; sappiamo
infatti quanta cura hanno messo sia Giuseppe Sergi che il suo allievo spezzino
nel tentare di unire, delineandone i rispettivi limiti e confini e le reciproche
quanto necessarie influenze, le misurazioni craniometriche agli studi sulla
toponomastica e quindi sulle antiche lingue dei popoli estinti.
Uno tra i problemi principali legati alle statue stele, per Sittoni è il
seguente: quale relazione sussiste tra i grandi spostamenti delle stirpi
eurafricana ed eurasica con la diffusione delle stele nella Liguria Orientale?
Esiste infatti una intima quanto indubbia relazione tra la presenza dei popoli
celti in Italia ed il rinvenimento delle statue: non si può negare infatti, scrive
Sittoni, che le popolazioni eurasiche stanziatesi in Val di Magra erano solite
erigere nei pressi delle loro sepolture proprio le statue ivi rinvenute, poiché in
nessuna altra località della Liguria Orientale si rinvennero, dice il nostro
antropologo nel 1934, delle simili pietre scolpite.
E' infatti necessario precisare che le stele furono trovate unicamente in quella
zona della Val di Magra dove maggiore era la diffusione dei sepolcreti ad
incinerazione, come ad esempio nelle località attorno a Genicciola, Filattiera e
Barbarasco.
Se le statue stele sono in relazione ai sepolcreti con tombe a cassetta, nel caso
volessimo attribuirle proprio ai Liguri, bisognerebbe allora affermare che
questi ultimi avessero tra le loro usanze quella di incenerire i loro defunti,
cosa che non è stata ancora dimostrata per la Val di Magra, ma neppure per il
resto della Liguria, né per l'Italia e per la Francia.
Nel caso non si volesse accettare questa ipotesi di relazione tra stele e
sepolcreti ad incinerazione, bisognerebbe allora ammettere, in modo
altrettanto poco probabile, che gli stessi Liguri andassero a posizionare le loro
107
statue proprio nel territorio di pertinenza degli incineratori.
Inoltre il fatto che gli Eurasici dei sepolcreti di Val di Magra usassero mettere
per ogni tomba dei segni esterni visibili, delle pietre piantate a mo' di lapide,
ci risulta proprio dalla relazione degli scavi di Genicciola del 1878 di Paolo
Podestà. Anche dal rinvenimento, poi, di cui abbiamo parlato poco sopra, dei
crani della Spezia durante la costruzione dell'Arsenale nel 1886, proprio
Giovanni Capellini ci informa, nella relazione, della presenza di due piccole
stele assieme ai resti di un cranio umano.
Sembra sostenibile dunque l'ipotesi, scrive Sittoni, della stretta connessione tra
gli incineratori eurasici e le statue stele, tanto più che nelle zone dove la
presenza degli Eurasici era avvertita con minore intensità, non si rinvenne
nessuna statua; e quindi prima di attribuire le stele ai Liguri sarebbe necessario
dimostrare, apportando argomenti di valore, che non soltanto quelli della Val
di Magra erano soliti scolpire questo tipo di cippi funerari, ma perlomeno che
tale usanza fosse comune alle altre zone della Liguria Orientale; quello che è
certo invece è la concomitante presenza dei sepolcreti eurasici ad
incinerazione e delle nostre statue.
Nella zona dove si rinvennero le due statue di Zignago e Filetto, vi sono
talmente tante tombe a cassetta, e in continuazione se ne stanno ritrovando,
da far dubitare persino che il territorio fosse già abitato prima dell'arrivo degli
Eurasici da popoli praticanti l'inumazione; nessun sepolcreto promiscuo e
nessun resto scheletrico venne mai rinvenuto.
Esamineremo così due stele, quella di Filetto e quella di Zignago di cui
Sittoni tenta una interpretazione, partendo dalle epigrafi presenti in entrambi.
Per quanto riguarda la fattura della prima, lo spezzino è del parere che si tratti
dell'opera di un nordico etruschizzato: essa presenta in parte uno stile che la
allontana dalle altre stele nordiche rinvenute in Val di Magra, lasciando
trasparire nell'arte del lapicida un qualcosa di orientale, ma nello stesso tempo
mantiene intatti i caratteri di rappresentazione, l'ingenuità del disegno, la
fattura delle gambe, la posizione e la fattura delle armi, tipici dello spirito e
della esecuzione nordica.
Carattere nordico del complesso del disegno e influenza orientale
nell'ispirazione sono dunque entrambi presenti in questa lapide.
L'indiscutibile influenza etrusca traspare poi maggiormente dai caratteri con
cui è impressa l'epigrafe, che Sittoni riesce per primo, nel 1929 ad identificare,
108
nella zona immediatamente superiore alla scure, e trascrivere con un
particolare metodo di calco, e che recita:
Vezaru.
La scritta risulterà però, come vedremo, incompleta nella parte finale.
Nel complesso siamo di fronte, dice l'antropologo spezzino ad una stele
scolpita da un lapicida che è venuto in contatto con l'arte etrusca prima di
sopraggiungere nelle nostre valli e che ha voluto mantenere in alcuni tratti
fondamentali, senza però rinunciare alle forme originali del rito di antica
fattura nordica.
La nostra stele dunque sembra proprio l'opera di un etruschizzato
appartenente alla stessa stipe degli incineratori che si rifugiarono
nell'Appennino dopo lo sbandamento delle colonie etrusche nella Pianura
Padana, composte da ex-combattenti celti, illirici e liguri etruschizzati. Una
influenza etrusca piuttosto indiretta quindi, secondo Sittoni, a seguito di
questo internamento nel versante padano dell'Appennino che proseguì poi
anche in quello tirrenico; una infiltrazione di elementi che avevano recepito la
cultura etrusca non in Val di Magra e neppure nella valle del Po, bensì in
precedenza nella stessa Bassa Etruria. Questi lapicidi quindi non sono i diretti
rappresentanti della prima generazione eurasica arrivata nelle nostre valli; non
bisogna considerare le invasioni eurasiche stesse come un fenomeno unitario,
ma concepire invece una successione di immigrazioni anche tardive, a base di
elementi eurasici. Ai primi arrivati dobbiamo attribuire ad esempio il grande
sepolcreto di Golasecca, mentre ai successivi etruschizzati debbono essere
ricondotte proprio le due stele, di Zignago e Filetto.
E veniamo all'iscrizione in lingua etrusca. L'epigrafe:
Vezaru,
viene letta da Sittoni come:
vez-aru
velii-aruns (=Arunte di Velio)
Nel patronimico fa notare l'antropologo, il vez in luogo di ves non rappresenta
un problema, dato che nell'Etrusco la z si scambia molte volte con la s, come
ad esempio in raze=rase, ezri=esri, aviz=avils. L'interpretazione si presta
invero ad alcune obiezioni, come riconosce l'autore stesso, che sottopone
l'epigrafe all'etruscologo Buonamici. È singolare infatti la posposizione stessa
109
del prenome rispetto al patronimico, che si riscontra però nella tomba della
famiglia Alethna di Viterbo, dove leggiamo: Alethnas Larthi = Lartia Alethnia.
Si potrebbe anche scartare il patronimico e leggere una parola sola: ezaru
potrebbe corrispondere ad esempio con aizaru, ezeri già trovate in altre
iscrizioni. È incerto poi se davanti alla v debba leggersi un altro carattere,
probabilmente una a, come vorrebbe ad esempio Giulio Buonamici.
L'etruscologo infatti, dopo aver preso visione del calco fornitogli da Sittoni,
non ha dubbi nel leggere la scritta Vezaru, e non crede che si tratti qui di una
posposizione del prenome, anche se in via ipotetica non si può del tutto
escludere che il prenome Arnt, possa divenire per corruzione Arus e poi Aru,
come nel latino etrusco si ha Aros e simili. Escludendo un segno iniziale,
comunque, l'interpretazione del Buonamici porta all'ipotesi di due distinte
divisioni della parola:
v'ezaru o ve-zaru,
In etrusco infatti si trovano aizaru, aisaru, eseri, ezrei, ecc., e zara, zarua,
ecc., cosa che porterebbe a pensare che la V o il Ve possano essere
abbreviazioni del prenome Vel (Velio) e Zaru o Ezaru il nome stesso.
L'iscrizione però manca della parte finale che venne portata alla luce dal calco
eseguito da Ubaldo Formentini e che Sittoni interpreta come Arus; e così
l'epigrafe completa recita:
Vezaruarus:
Vez.aru.arus,
che il nostro antropologo interpreta come (sepulcrum) Velii Aruns Aruntiae
(filius).
Al di là comunque dei problemi più prettamente linguistici quel che importa
all'Antropologia etnica, dice Sittoni concludendo, è l'aver constatato la
presenza di elementi nordici etruschizzati ai quali far risalire la fabbricazione
della stele, ed averne circoscritto la diffusione territoriale nella zona attorno a
Filetto e Filattiera, escludendo invece l'ipotesi di una continuità territoriale in
Val di Magra e Val di Vara delle colonie di etruschizzati, come apparirà anche
dall'analisi del cippo di Novà.
La stele di Zignago, o cippo di Novà, ha incuriosito molto il nostro
Sittoni, soprattutto per l'epigrafe che riporta inscritta nella parte anteriore, nel
110
senso della lunghezza, e che l'antropologo spezzino ha tentato di interpretare
senza fare riferimento alle precedenti traduzioni e tentativi di lettura di altri
illustri autori.
Innanzitutto si può dire che anche questa statua rivela subito una certa
influenza etrusca quale emerge nel contorno più aggraziato del volto, e gli
usati contrassegni del defunto sono sostituiti questa volta da una specifica
iscrizione, molto più identificativa che ne richiama infatti il nome. Il fatto che
siamo in presenza di una lapide funeraria viene suggerito dalla
rassomiglianza con la stele funeraria di Stabio; simili sono infatti anche le
rispettive epigrafi. Quella di Zignago recita:
mezunemusus,
mentre quella di Stabio, che corrisponde al 2bis a del Corpus Inscriptionum
Italicarum del Fabretti:
minakakonono.
L'iscrizione, che è indubbiamente etrusca, sembra secondo il nostro autore,
appartenere per la tipica forma della m e della e, al periodo tra il V e VI
secolo. Sittoni legge:
me. zune. musús.
Musús è il genitivo del nome Musu, che si ritrova anche in due epigrafi
funerarie di Chiusi:
Vel musu titial,
Larthi titnei mususa,
Ar musu an anial;
mususa è qui al genitivo con l'aggiunta dell'a finale, che è una forma errata
molto comune, scrive Sittoni, come si può leggere nel sepolcro dei Volumni,
dove si ha Tefrisa per Tefris.
Del nome Musu però non si può dire con certezza se esso sia maschile o
femminile: nell'epigrafe 2326 del C.I.I. Appare come nome femminile:
Larthi titnei mususa =Lartia titinia musae (filiae),
Ar musu an anial =Aruntia Musa Annii Anniae (filia);
mentre nella 2323 compare al maschile:
Vel Musu titial = Velius musa titiae (filius),
così nel caso di Zignago si avrà:
me zune musús = - - musae (filius o filia).
Per quanto riguarda il nome Zune, si ha un riscontro simile nell'urna cineraria
di Perugia, 1952 del C.I.I. che riporta scritto:
111
zuma, m...,
che dovrebbe corrispondere al sostantivo zumius o zumia; così la nostra
epigrafe diventa:
me zune musús = - (zunio o zunia) musae (filius o filia).
Il paragone con la stele di Stabia, diventa quindi più evidente:
mi naka konono = ego (sum) naka cononii (filius o filia),
ed esaminando anche l'epigrafe di Busca (Saluzzo) 42 C.I.I., notiamo:
mi suthi lartial mutikus = ego (sum) sepulcrum lartiae muticae [vel Mutici
(filius)],
che ci permette di far corrispondere al mi il me di Zignago, che il Fabretti
traduce con sum; mentre Martelli lo rende con ego, restando tuttavia il sum
sottinteso.
E così, in definitiva il Sittoni può concludere la sua interpretazione della stele
di Zignago, scrivendo:
me zune musus = ego (sum) zunius o zunia musae (filius o filia),
che tradotto significa:
io sono Zunio (o Zunia) figlio (o figlia) di Musa.
Per quanto riguarda la statua nel suo complesso, l'antropologo spezzino, sulla
base delle osservazioni precedenti, è portato a ritenere che l'autore
dell'epigrafe e quello della stele siano la medesima persona; è improbabile
infatti che il cippo sia stato modellato, nel volto da un nordico e che poi
successivamente un etrusco l'abbia arricchito dell'iscrizione. E' inaccettabile
inoltre, data la singolarità della stele, che un nordico abbia lasciato da parte le
vecchie maniere di rappresentazione del defunto, lo scolpire simbolicamente
il corpo e le armi, per connotarlo mediante una iscrizione con dei caratteri per
giunta estranei alla sua cultura. È singolare inoltre che questa idea non si sia
manifestata in più punti del continente, ma sembra invece, dati i ritrovamenti
attuali, scrive Sittoni nel 1927, un prodotto limitato ad una singola località. È
più probabile invece che il lapicida abbia modellato la stele basandosi
sull'influenza di una cultura che aveva appreso durante la permanenza in una
zona lontana dalla propria terra d'origine. La stele dunque a caratteri etruschi
in territorio non etrusco non rappresenta un mutamento globale della
mentalità nordica verso quella orientale, bensì deve essere interpretata come
una influenza limitata e sporadica della forma orientale su quella nordica
circoscritta a determinate località.
Non è da escludere inoltre la presenza di Etruschi nel territorio di Zignago,
112
che era in mano a Liguri e Celti; inoltre siamo proprio vicino a Genicciola,
dove si sono trovati alcuni vasi di fattura etrusca all'interno delle stesse tombe
ad incinerazione, il che sembrerebbe indicare un minimo di relazione
economica con la Bassa Etruria.
A quale stirpe apparteneva in definitiva il defunto di Zignago? Si tratta di un
inumato o di un incenerito? Nei casi sopracitati di Larzia, Arunzia e Velio
(2326, 2323 C.I.I.) siamo di fronte a dei cremati, e quindi non etruschi; mentre
Fabretti non riporta nulla circa il defunto corrispondente alla stele di Stabio;
anche se sappiamo, scrive Sittoni che il territorio in cui venne ritrovata non era
sotto il dominio etrusco, ma invece era in possesso dei Celti già dall'invasione
del IX secolo.
Per quanto riguarda invece la stele di Busca, la numero 42 del C.I.I., sappiamo
che si tratta di un inumato, dal nome tipicamente etrusco, ma siamo in
territorio celta. Non potrebbe essere questo un caso analogo a quello di
Zignago? A Busca siamo in Piemonte, in un territorio in pieno dominio dei
Celti, dove le influenze etrusche sul modo di trattare i defunti non erano certo
diffusissime, mentre qui invece siamo di fronte ad un inumato, dal nome
etrusco e ad una epigrafe in caratteri ed in lingua etrusca.
Se un etrusco quindi morì e si fece seppellire con rito etrusco in territorio non
etrusco, non è altrettanto possibile che ciò accadde anche a Zignago,
territorio dove era sicuramente, almeno quanto in Piemonte sentita l'influenza
commerciale etrusca? Tuttavia è altrettanto probabile che il Musa di Zignago
appartenesse alla stirpe degli incineratori. Come dirimere la questione? Sittoni
cerca qui di unire tutte conoscenze a sua disposizione, partendo innanzitutto
dai risultati delle investigazioni antropologiche nella zona della valle del Taro
e della Vara.
Bedonia in particolare interessa al nostro Sittoni. La questione fondamentale è
la seguente: in quale rapporto si trovavano queste due valli con il popolo
etrusco, e quanto influì l'invasione eurasica sul territorio? Sappiamo che a
Bedonia sono presenti numerosi elementi brachicefali; inoltre in questa zona,
scrive Sittoni, è diffusissimo il cognome Musa; l'ipotesi del Nostro è dunque la
seguente: i Musa di Bedonia erano di stirpe eurasica al pari dei Musa che
hanno lasciato le loro ceneri nei sepolcri di Chiusi, anche se non è noto a
quale varietà della stirpe eurasica questi ultimi appartenessero.
Sappiamo invece che nella Liguria Orientale gli elementi allofili sono della
varietà mongoloide della stirpe eurasica, e così a Bedonia, dove sei unità su
113
quindici sono brachicefale con indici cefalici corrispondenti agli allofili Liguri.
Questo ci permette, continua Sittoni, di dedurre un fatto altrettanto
importante, e cioè che l'infiltrazione eurasica nella Liguria Orientale si attuò
proprio dalla valle del Taro, probabilmente attraverso il passo delle Cento
Croci, e che si trattò di elementi golasecchiani. Questo è dimostrato anche
dall'attenuazione degli indici del cranio facciale che si riscontra avvicinandoci
nella Val di Vara seguendo proprio la direzione Bedonia-Cento Croci, e non
attraverso il passo della Cisa e Pontremoli. Pur conservandosi mediterranei
infatti, gli indici facciali di Varese si sono, come abbiamo visto in precedenza,
attenuati; mentre a Pontremoli si conservano alti, come nelle zone dove
l'elemento brachicefalo è in decisa minoranza.
La fisionomia etnografica ligure di Varese è stata dunque attenuata dal cranio
dei brachicefali provenienti dalla valle del Taro.
Sittoni può così categoricamente affermare che nelle nostre valli, ogni cosa
che appare in relazione con la cultura etrusca deve essere riferita all'elemento
eurasico. Così è per la stele di Filetto, realizzata da un eurasico venuto in
contatto con il mondo etrusco, ad esempio con disegni visti su qualche
oggetto importato, così è per quella di Zignago che denota quindi un defunto
di stirpe eurasica, ed una certa pratica con suthi o tularu; e così deve essere
anche per i vasi di fattura etrusca di Genicciola.
Le indagini sulla stele di Zignago devono dunque concentrarsi nella valle del
Taro, dato che il Musa di Zignago sembra provenire proprio dalla zona di
Bedonia; la riva destra del Po infatti, ci dice Sittoni fu una zona molto attiva
della colonizzazione Etrusca, e non si può escludere una loro influenza nella
valle del Taro, fino ai piedi dell'Appennino ligure, proprio al confine con il
territorio dominato dagli Eurasici infiltratisi nella Liguria Orientale.
Ed è chiaro che tra i due popoli si instaurò una sorta di convivenza pacifica,
come ci è testimoniato dai ritrovamenti nella valle del Po di sepolcri che erano
contemporaneamente di Etruschi ed Eurasici mescolati assieme. E fu proprio
così infatti che si passò dal suthi al tularu (ollarium = ularu = tularu), e le
stele nordiche mutarono il loro aspetto secondo lo stile del cippo di Novà.
In conclusione quindi il defunto indicato dalla stele di Zignago era un
eurasico, dato che Musa è un nome eurasico ed è molto diffuso nella zona di
Bedonia e dato che a Chiusi si riferisce a degli incineriti. Inoltre, sempre
secondo l'ipotesi di Sittoni, il morto di Zignago era un immigrato proveniente
proprio dalla Valle del Taro, posto che proprio da Bedonia vi fu una invasione
114
di Eurasici nella Liguria attraverso il passo delle Cento Croci e Varese Ligure.
Per quanto riguarda il periodo a cui appartiene il cippo, possiamo fare
riferimento al V secolo, data la forma della m e della e, che corrisponde
proprio al periodo in cui gli Etruschi oltrepassarono l'appennino per spingersi
verso Bologna.
Nel terminare quindi questa parte sull'antropologia della Liguria Orientale
possiamo riassumere le caratteristiche fondamentali che contraddistinguono il
tipo ligure nel suo puro classicismo. Non ostante la presenza di tutte e quattro
le varietà principali che si riscontrano anche nel resto della penisola, le due
mediterranee, Siculi e Liguri, e le due eurasiche, Celti ed Illirici è incontrastato
nel complesso il predominio del tipo che ha i seguenti caratteri fondamentali:
cranio leggero, piccolo, di belle forme, dolicomorfo e plati-ortocefalo, con
prevalenza del tipo fortemente dolico e platicefalo. La norma superiore è di
solito molto lunga e stretta, ellissoide secondo il piano del diametro anteroposteriore, con i contorni laterali rettilinei. La norma laterale, con occipitale
prominente presenta un decorso rettilineo del tratto frontale, sotto-iniaco, e
della volta, che risulta essere parallela alla base; la fronte è piatta, bassa e
stretta. Il vertice coincide con il bregma. Le arcate sopraorbitarie sono
lievemente accennate. La norma posteriore è pentagonoide, con i lati laterali
rettilinei, convergenti appena nella parte bassa. Prognatismo evidente e faccia
molto leptoprosopa dalle orbite ampie con decisa ipsiconchia; il naso è
tipicamente leptorrino, con apertura nasale stretta.
Dal punto di vista storico non si po' ritenere il cranio rappresentato dal tipo
degli abitanti della costa, quali ad esempio i dolico-mesocefali cinqueterresi
come una diretta evoluzione del cranio di Cro-Magnon. Senza dubbio il tipo
del cranio attuale degli abitanti della costa della Liguria Orientale rappresenta
il diretto proseguimento di quello della Liguria eneolitica, tuttavia non si può
ritenere il cranio eneolitico come un lineare miglioramento di quello neolitico.
Secondo l'antropologo spezzino, il cranio eneolitico è invece la conseguenza
diretta di una mescolanza avvenuta fra due crani entrambi neolitici: quello
delle Arene Candide e quello dei Balzi Rossi, l'uno di tipo pelasgico e l'altro
Cro-Magnon. Il tipo dei Balzi Rossi è dolico-mesocefalo, camecefalo e
leptorrino, con cranio grande e faccia larga, dal fisico robusto e di alta statura;
simile al tipo che Sittoni ha incontrato, seppur raramente tra gli abitanti delle
Cinque Terre. Quello delle Arene Candide è dolico, talvolta fortemente
115
dolico, ma è un cranio alto con le caratteristiche dell'ellissoide pelasgico, con
faccia alta e molto stretta, ipsiconca e platirrina. Da queste due
contemporanee forme neolitiche si origina il cranio eneolitico ligure: cranio
cerebrale dei Balzi Rossi unito al facciale delle Arene Candide, alto e stretto
con attenuazione della platirrinia.
Queste sono dunque le caratteristiche del cranio di quel popolo
appartenente alla varietà mediterranea che prese il nome di Liguri,
specificatosi nell'Eneolitico; e possiamo concludere questa parte lasciando le
parole direttamente a Sittoni:
Quattro varietà, due stirpi, si incrociano volontariamente ed
indifferentemente da secoli in Italia, educate e guidate da uno stesso
finalismo: la Romanità ai tempi di Roma, l'Italianità dopo l'unificazione
dell'Italia la Latinità sempre. Etnia, dunque, ma né Etnia né Razzismo se
l'Antropologia etnica dovesse agire sopra un substrato politico.
Perché in tal caso, tanto Dante nel suo “Sordello” che Carducci nel suo
“Cadore” ci suggeriscono il grido di Virgilio: “Italiam!, Italiam!”.(10)
116
Note alla parte seconda
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
G. Sittoni, La sistematica dei Primarii (La Famiglia dei Primarii, fasc. IV)
op. cit.
F. Frassetto, Crani rinvenuti in tombe etrusche, (Atti della Società
Romana di Antropologia, Vol. XII, Fasc. II, 1905) e Crania Etrusca
(Rivista di Antropologia, vol XXVIII, 1928-1929).
G. Sittoni, Le immigrazioni neo ed eneolitica dei popoli mediterranei
dell'Africa in Europa, in rapporto alla loro distribuzione nel versante
tirrenico dell'Appennino Ligure orientale (XXV Riunione della S.I.P.S.,
Tripoli 1936), pag. 6
G. Sittoni, Gli Ombrici in Val Padana ( XXVI Riunione della S.I.P.S.,
Venezia 1937)
Livio, Ab urbe condita (V, 25) e G. Sittoni, I primi svolgimenti della
civiltà italiana ed i probabili popolatori del parmense durante la
“facies” appenninica (Quaderno n.32 de La giovane Montagna, anno
1939), pag. 7
G. Sergi, Studi di crani antichi, in Atti della Società Romana di
Antropologia, Vol. VII, Fasc. II, 1900
G. Sergi, Die Etrusker und die alten Schädel des etruskischen Gebietes,
Sonderabdruck aus dem Archiv für Anthropologie, Braunschweig, Druck
Von Friedr. Vieweg & Sohn, s.d.
“...noi dobbiamo così ammettere che gli Etruschi furono un popolo della
varietà mediterranea, e quindi con cranio dolicomorfo...”
“...il vero tipo etrusco, è quello della varietà mediterranea, e cioè quello
fine...”
F. Frassetto, crani rinvenuti in tombe etrusche (Atti della Società
Romana di Antropologia, Vol. XII, Fasc. II, 1905)
G. Sittoni, Ligures (crania nova et vetera) (Memorie della Società
Lunigianese G. Capellini, Vol. V, Fasc. 2, 1924), pag. 92.
G. Sittoni, Liguri e Celti nella Liguria Orientale (Atti della Società
Romana di Antropologia, Vol. XXVIII, 1928-29), pag. 4.
117
14. ibid.
15. G. Sittoni, Le Cinque Terre, III a) I Biasséo-Campioti, I dati craniologici
sui biasséi, ( Archivio per L'Antropologia e la Etnologia della Lunigiana,
Vol. XXXVIII Fasc. II, 1908) pag. 197.
16. G. Sittoni, ivi.,pag. 198
17. Ecco le differenti conclusioni circa gli indici cefalici verticali, elaborate
nel corso degli anni: nel 1907 Sittoni scrive che la serie cranica di Biassa
risulta essere composta da 7 platicefali, 16 ortocefali e 8 ipsicefali; nel
1921 abbiamo 19 platicefali, 5 ortocefali e 4 ipsicefali; nel 1923, 19
platicefali, 7 ortocefali e 2 ipsicefali; nel 1929 18 platicefali, 7 ortocefali e
3 ipsicefali.
18. G. Sittoni, La Costa tra il Montenegro e il Mesco (Archivio per la
Etnografia e la Psicologia della Lunigiana, Vol. 2, Fasc. 1-11-12) , pag.11.
19. G. Sittoni, Un cranio del tipo di Cro-Magnon, come unità isolata nelle
serie craniche dei Liguri orientali (XXII Riunione della S.I.P.S., Bari
1933)
20. G. Sittoni, A proposito di uno scheletro monterossese (Il Comune della
Spezia, anno VII, nn. 1-3).
21. G. Sittoni, Intorno ad una serie cranica medievale proveniente da
Portovenere (Il Comune della Spezia, anno XVII, n. 4).
22. ivi, pag. 9.
23. G. Sittoni, Ligures (crania nova et vetera) ( Memorie della Società
Lunigianese G. Capellini, Vol. V, Fasc. 2, 1924), pag. 84.
24. ivi, pag. 87.
25. G. Sittoni, Intorno ad alcuni segni grafiti su di una patera etrusca
proveniente dal sepolcreto eurasico di Genicciola (XLII Riunione della
S.I.P.S., Roma 1949).
26. G. Sittoni, Brachimorfi e Dolicomorfi in Valdimagra ( Atti della Società
Romana di Antropologia, Vol. XXVI, 1924-25).
27. G. Sittoni, Le Tribù dei Macrales e dei Bolani in Valdimagra (Quaderno
n.85 de La Giovane Montagna, anno 1941).
28. G. Sittoni, Liguri e Celti nella Liguria orientale (Atti della Società
Romana di Antropologia, Vol. XXVIII, 1928-29), pag. 6.
29. G. Sittoni, Il Ciclo della Vara (Archivio per la Etnografia e la Psicologia
della Lunigiana, Vol II Fasc IV, 1914), pag. 159
118
PARTE TERZA
Il dialetto Spezzino
Il carattere della vita viene espresso colla
maggiore chiarezza nel dialetto d'un popolo.
G. Sittoni
119
120
La psicologia è archeologia
Abbiamo già sottolineato l'importanza che assume lo studio dell'evoluzione
storica delle lingue per determinare la provenienza e le successive
mescolanze etniche che ogni popolazione può subire nel corso dei secoli.
Giuseppe Sergi prima e Giovanni Sittoni dopo, fanno della conoscenza
linguistica un ausilio fondamentale della stessa ricerca antropologica, ed il
rapporto tra le due discipline deve essere bene distinto: non si deve infatti
classificare attraverso le lingue, ci insegna il Sergi, poiché ciò può trarre molto
spesso in errore, come abbiamo visto nel caso degli Arii, poiché le lingue si
imparano e dimenticano con relativa facilità e non possono perciò costituire
un criterio stabile di classificazione delle stirpi umane, dal momento che ogni
buon criterio deve invece persistere immutabile indipendentemente dal
mutare dei caratteri distintivi esteriori. Subordinata alle indagini
craniometriche, ma tuttavia di fondamentale importanza per l'antropologo, la
linguistica assume così un ruolo decisivo anche e soprattutto diremo, nelle
ricerche del nostro Sittoni. Prima di tutto infatti abbiamo visto come alcune
dimostrazioni antropologiche stesse siano profondamente condizionate dallo
studio dei toponimi: in assenza di documenti storici scritti, l'unica cosa che ci
rimane di antico è talvolta proprio la corografia delle diverse regioni della
terra, poiché la stessa tradizione orale ha salvato, custodendoli, gli antichi
toponimi, che ci rivelano così non solo la diffusione delle antiche popolazioni
che hanno dato per prime i nomi ai luoghi in cui erano stanziate, ma sono
inoltre un utile indizio per comprendere i rapporti intercorrenti tra etnie
differenti e conoscerne talvolta le antiche tradizioni; la tolleranza di un popolo
conquistatore sui sottomessi si comprende in certi casi proprio dalla
persistenza, non ostante la nuova dominazione, degli antichi toponimi; inoltre
dal nome stesso dei differenti luoghi si può anche comprendere ad esempio
l'usanza che alcuni popoli avevano di dare alle città o colonie proprio i nomi
dei loro condottieri, e così via.
Certo, bisogna andare cauti, perché a volte le analogie tra i toponimi possono
trarre in inganno; ma è indubbio che certe questioni antropologiche si
121
dirimano proprio con l'ausilio della corografia.
Studiare le lingue ed i dialetti, però è qualcosa di più per Giovanni Sittoni che
una semplice questione antropologica: è una questione psicologica e di
identità.
Nelle lingue infatti si esprime la psiche di ogni popolo, tutto ciò che si
tramanda oralmente e il modo in cui si tramanda, le varie pronunce, i vari
suoni, non sono solamente ciò che rimane di un passato ormai cancellato, ma
sono soprattutto ciò che è stato inconsapevolmente degno di essere
tramandato da una generazione all'altra. Le differenti condizioni di vita, le
differenti situazioni hanno determinato il “che cosa” ed il “come” del detto, i
contenuti e le modalità della manifestazione di ogni forma di vita autentica.
Ciascuno non sceglie il proprio dialetto, non sceglie che cosa dire e come
dirlo, ma è determinato in questo dal linguaggio stesso, che si impone, che
domina l'uomo, nelle diverse epoche del suo manifestarsi.
Il dialetto conserva l'essenza di ogni modo particolare dell'imporsi della vita.
Come un carico pesante l'uomo trasporta da una generazione all'altra, nel
tempo, le parole che lo rendono schiavo, ma proprio per questo libero per il
servizio della retta custodia di ciò che si impone.
Dal punto di vista psicologico poi, il linguaggio ci dice molto: da ogni
parola traspare lo stato d'animo di chi se ne fa carico trasportandola e
conservandola nel dialetto a cui appartiene, e di chi ha assistito alla sua
generazione; le condizioni di vita del passato, lo spirito dei tempi antichi ci si
mostrano proprio nelle parole. E così l'antropologo può a mo' di un
archeologo rinvenire per ogni parola una antica testimonianza della psiche
individuale e collettiva dei diversi popoli nella loro evoluzione storica. La
psicologia etnica trova in ogni parola un reperto delle passate civiltà: la
psicologia è archeologia.
Ma il nostro Sittoni va oltre, egli studia il dialetto spezzino perché sente in
questo modo di poter mantenere in vita quell'antico modo di vivere che la
moderna uniformità del linguaggio ha iniziato a sradicare; e scopriremo così
un altro aspetto dello scienziato spezzino: la poesia.
Oltre ad essere un instancabile uomo di scienze infatti Giovanni Sittoni era
anche un poeta: scrisse alcuni componimenti che vennero pubblicati
all'interno di riviste locali ed altri che rimasero in forma manoscritta e
sembrano essere oggi introvabili. (1)
Alacre nel suo lavoro scientifico di composizione di tabelle craniometriche da
122
un lato, ma nello stesso tempo sensibile per tutta la vita allo studio nella
poesia dialettale e nella letteratura (come testimonia anche la copiosa
donazione di libri, che Sittoni fece alla sua morte, alla Biblioteca Civica U.
Mazzini della Spezia).
Nelle sue poesie Sittoni ama descrivere situazioni ed atmosfere di un passato
ormai irrimediabilmente perduto o destinato a volgere nell'oblio nell'arco di
poco tempo.
In questa terza parte esporremo quindi le ricerche di Sittoni attorno al dialetto
spezzino, tentando di elaborarne una piccola grammatica, sulla scorta delle
riflessioni che egli stesso ci ha lasciato, e delle sue importati intuizioni in
campo grammaticale, anche a proposito di alcuni toponimi locali.
Infine riporteremo direttamente alcuni dei suoi versi a testimonianza di un
significativo talento espresso anche nella composizione poetica.
123
Genesi e grammatica del dialetto
Assieme allo scopo che la psicologia etnica si propone, di voler indagare e
trasmettere la testimonianza dello spirito antico e della vita dei nostri
progenitori, lo studio del dialetto spezzino si colloca, dal punto di vista
antropologico, nel problema della nascita e formazione delle lingue italiche in
relazione alla diffusione delle differenti popolazioni che abitavano in tempi
preistorici e storici il territorio italiano.
Abbiamo già esaminato infatti, nella prima parte, quale era l'ipotesi di
Giuseppe Sergi sull'origine delle lingue arie in riferimento alla distinzione tra
popoli genuinamente arii, creatori cioè della parlata di tipo ario e popoli
invece che avevano solamente appreso la lingua, senza essere però
specificatamente arii dal punto di vista delle origini.
Gli Arii genuini infatti sono i cosiddetti Arii dell'Asia di stirpe eurafricana,
mentre gli altri, gli Arii d'Europa, sono solamente gli importatori del linguaggio
ario nelle nostra regioni ed appartengono ad una specie antropologica
differente, a quella eurasica. Gli Eurafricani d'Europa infatti maturarono un
linguaggio differente dall'ario, un linguaggio di tipo camitico, mentre
ricevettero solo in seguito le influenze della parlata aria che venne immessa
nel suolo europeo proprio dagli stessi invasori mongoloidi. Fu così quindi che
le lingue europee si trasformarono modificandosi profondamente dal punto di
vista morfologico, mantenendo però pur sempre, al loro interno, delle
sopravvivenze prearie, che si rendono manifeste soprattutto nella
toponomastica e in alcuni termini dialettali che conservano ad esempio delle
reminiscenze pelasgiche od etrusche.
I dialetti italiani quindi, e un fatto analogo avvenne anche in altre zone
d'Europa, si sono originati grazie all'unione della lingua delle popolazioni
preesistenti all'invasione eurasica colle stesse lingue arie importate dagli
invasori.
Tre inoltre abbiamo visto essere, secondo il Sergi, i rami linguistici dell'ario: lo
slavo, il germanico ed il celtico; mentre le altre lingue analogamente dette
arie, il greco e il latino ad esempio e gli stessi dialetti germanici, si sono
124
formati proprio sotto la diretta influenza di questi tre rami primari e originari;
le lingue italiche in particolare furono determinate dal ramo celtico e dallo
slavo: Slavi e Celti infatti invasero, a più riprese, entrambi la nostra penisola; i
primi da oriente ed i secondi da occidente, occupando dapprima la valle del
Po, per discendere in seguito nelle zone dell'Italia centrale.
Veniamo al nostro Sittoni. L'antropologo spezzino riprende queste teorie
fondamentali del Sergi per svilupparle applicandole ad un caso particolare: il
dialetto spezzino.
A proposito delle lingue italiche, scrive il nostro autore, esistono diffusi da
glottologi, storici ed archeologi numerosi errori; il processo di formazione dei
dialetti della penisola deve infatti essere ricercato all'interno e non all'esterno
della stessa Italia.
All'epoca infatti delle invasioni eurasiche, cioè degli Slavi e Celti, in Italia
erano stanziati numerosi popoli, tutti appartenenti al ramo mediterraneo della
varietà eurafricana, aventi ciascuno una propria lingua, che non aveva niente
in comune con quelle arie, che possedevano tutt'altra fonetica e morfologia.
Al suo arrivo in Italia, quindi la parlata aria subì una serie di profonde
trasformazioni sulla base delle attitudini fonetiche e di flessione proprie degli
indigeni, differenti da regione a regione. Ciascuna trasformazione linguistica
porta dunque al suo interno l'impronta delle due lingue che costituiscono la
nuova, di quella indigena e di quella importata. Ogni dialetto quindi non può
essere semplicemente ridotto, come vogliono alcuni glottologi, scrive Sittoni,
al comune indoeuropeo, ma deve essere portata alla manifestazione proprio
l'irriducibilità stessa della particolarità dei caratteri peculiari, delle formazioni
locali e di quegli elementi lessicali che recano l'impronta intraducibile della
lingua primitiva.
È proprio sulla base del rispetto di questa irriducibilità che bisogna accingerci
ad analizzare i dialetti italici, quali formazioni derivate dell'ario. L'italico non è
dunque una lingua del ceppo ario, ma solamente una lingua influenzata
dall'ario, così come gli italici sono propriamente gli indigeni dell'Italia.
Dall'indagine dei dialetti della Liguria Orientale quindi, Sittoni si propone di
mettere in luce proprio gli aspetti primitivi ed originari che persistono nella
flessione e nella fonetica.
In particolare saranno evidenziate le numerose divergenze fonetiche, che non
sono certo dovute all'ario, il quale subì esso stesso invece i più profondi
mutamenti; non bisogna dimenticare infatti che la presenza dei Celti in Liguria
125
non fu simile al dominio che si ebbe nella Valle Padana, ma si trattò invece di
semplice influenza. Ben più pesante fu invece l'influsso delle conquiste
romane che determinarono una globale quanto intensa latinizzazione delle
regioni dominate, imponendo cioè il latino quale lingua ufficiale, oscurando
nel contempo gli altri dialetti dell'Italia.
Il dialetto spezzino può essere considerato come un dialetto ligure-toscano,
ovvero come influenzato dalla confinante lingua etrusca che ne ha
determinato in parte anch'essa fonetica e flessione. Ma vediamo che cosa,
secondo Sittoni è rimasto di originario e caratterizzante l'antica forma della
parlata.
Innanzitutto si può notare una certa tendenza generale ad aggiungere qualora
possibile delle vocali eufoniche iniziali o terminali: le voci verbali di quasi tutti
i verbi sono caratterizzate infatti da una a eufonica; ad esempio, per il verbo
venire:
io vengo = me a vègno,
oppure:
a m'a-rido, a l'a-refemo;
e cosi anche per moltissime forme dell'infinito:
a-ride = ridere, a-refae = rifare,
ed infine anche per molti sostantivi:
a-ride = riso, a-oa = ora, a-iei = ieri.
Senza questa vocale iniziale le parole diventerebbero simili a quelle dei
dialetti liguri, e questa tendenza riguarda non soltanto le vocali ma anche le
consonanti, come ad esempio accade per la s eufonica:
s-gonfiae = gonfiare, s-voae = volare,
oppure per la g, che è una caratteristica propria, scrive Sittoni, della vecchia
fonologia mediterranea che ha agito in modo innegabile sul linguaggio ario,
adattandolo alle proprie leggi:
a-g-iuto = aiuto, g-nente = niente, ve-g-nie = venire;
altri adattamenti si verificano, come vedremo, anche nel caso delle doppie
consonanti, che non esistono e non si pronunciano; ad esempio la doppia m
si risolve in nm:
en-maginae = immaginare,
che mostra anche una analogia per ciò che accade con i suoni mp, mb, mn,
che si trasformano in np, nb, nm:
en-barco = imbarco, sen-pre = sempre,
126
oppure la mm tende a diventare una semprelice m:
ensoma = insomma,
oppure viene sostituita da altra consonante:
armiralio = ammiraglio.
Per quanto riguarda le aggiunte eufoniche quindi, il dialetto spezzino segue
delle regole tutte particolari, che lo differenziano persino dalle zone
immediatamente confinanti colla città: la zona compresa tra S. Terenzo e
Marola non è unita in modo continuo, ma è interrotta bruscamente dal
dialetto spezzino che si pone, sotto questo riguardo, come elemento di
discontinuità tra i dialetti Toscani e Liguri.
Per quanto riguarda flessione e suffissi si nota sia un passaggio graduale che
una rottura decisa, entrambe condizionate però dalla fonetica indigena. Con
l'arrivo dell'ario molti vocaboli si trasformarono, distaccandosi talvolta dalla
pronuncia toscana per avvicinarsi ad esempio a quella francese:
Toscano: forn -aio,
spezzino: forn -ao,
ligure: forn -à;
frè = fratello = fr. frere,
bé = bue = fr. boeu,
fègo = fuoco = fr. feu.
Questi ultimi vocaboli nello specifico sono molto interessanti perché
mostrano la particolarità del suono della è spezzina che corrisponde al suono
oeu che manca nel nostro dialetto; per questa ragione probabilmente, fa
notare Sittoni, mentre abbiamo il frè = fratello dei liguri occidentali, non
abbiamo invece il soeu = sorella ( fr. soeur), e si è attinto invece dal Toscano :
soèla. Il soeu a suono celta finisce proprio a Marola, così come il Toscano
fratello : fradèlo arriva fino a S. Terenzo e non è presente nel dialetto
spezzino, se non come eccezione.
Così il termine ligure zoeugia (fr. jeudi) alla Spezia suona giovedì, mentre a
Biassa ed a Marinasco si ha zobia (giovedì).
Un'altra caratteristica importante del dialetto spezzino è la tendenza alla
soppressione di tutte le vocali e consonanti possibili:
aiéi = ieri, aòa = ora, mae = mare, madre, tiae = tirare,
e così via. Questo fenomeno, assieme all'aggiunta eufonica che abbiamo visto
127
sopra, è per il Sittoni la testimonianza di quanto affermato in linea teorica:
come dal punto di vista antropologico, la varietà mediterranea della stirpe
eurafricana ha resistito alle invasioni allofile, così nel linguaggio questi due
fenomeni sono ciò che di caratteristico della lingua mediterranea primitiva è
rimasto dopo le forzature imposte sia dalla latinizzazione che dalle lingue
degli arii eurasici.
Anche con l'articolo determinativo siamo di fronte ad una fonetica insita nel
dialetto originario. L'articolo il infatti diventa o od er a seconda della
consonante iniziale della parola che segue; un fenomeno tale da creare un
dubbio a proposito dell'esistenza stessa dell'articolo determinativo nella lingua
mediterranea, cosa che non accade per l'indeterminativo en = un, na = una,
che non corrisponde però, come si verifica nell'italiano, all'aggettivo
numerale:
articolo: en = uno, na = una,
aggettivo: un = uno, una = una.
I liguri, quindi, dice Sittoni, hanno accettato per il numero la forma uno, una;
mentre per eufonia hanno conservato l'arcaica forma degli articoli; infatti nel
dialetto i numeri sono tutti italici, tranne il due che ha mantenuto ad esempio
una forma per il maschile: doi, ed una per il femminile: doa. E questo sempre
per ragioni eufoniche, dato che la parola che segue è sempre di genere ben
specificato:
doi libri, doa pagine.
Nell'articolo determinativo invece si vede bene che le nostre forme dialettali
sono adattamenti di quelle importate; ad esempio agli articoli la, gli, le
corrispondono a, i ed e. L'evidenza è data anche dal fatto che tra le
consonanti, la l è quella soggetta a subire il maggior numero di soppressioni, e
quindi si tratta per questi articoli di una importazione adattata alla fonologia
locale.
Il confine occidentale e quello orientale della Spezia, Marola e S. Terenzo,
rappresentano proprio i due limiti in cui si arrestano le pronunce liguri e
toscane degli articoli determinativi il e lo.
Fino a S.Terenzo infatti, questi due articoli sono rappresentati dall'unica forma
er, così come negli altri dialetti liguri, proprio fino a Marola, si ha il suono della
u. Alla Spezia sono presenti entrambe le forme, con una fonetica però tutta
particolare: l'u toscano non esiste, ed il suono ligure corrispondente viene
reso da un suono intermedio tra quello di una o chiusa e quello della u.
128
L'articolo er = il, lo dei dialetti toscani viene invece pronunciato talmente
rapidamente da ridursi al suono di una semplice 'r.
Esiste anche una regola, scrive Sittoni, che stabilisce proprio le ragioni
dell'alternarsi della o e della 'r come articoli: questa suddivisione dell'articolo
determinativo infatti nel dialetto spezzino è collegata agli accostamenti ritmici
che si producono nella pronuncia a seguito della distensione e contrazione
dei muscoli labiali.
Nella pronuncia della 'r si ha infatti una contrazione, mentre nel caso della o
una distensione; la regola che disciplina il loro alternarsi stabilisce che la
forma 'r dell'articolo deve essere usata quando la parola seguente inizi
proprio con una consonante la cui pronuncia porti ad una distensione dei
muscoli labiali; mentre per la o accade il contrario; ad una distensione segue
una contrazione:
'r bosco = ('r) contrazione + (bosco) distensione;
o legno = (o) distensione + (legno) contrazione.
A Marola invece si ha indifferentemente:
u boscu, u legno;
mentre a San Terenzo:
er bosco, er legno.
Per quanto riguarda le consonanti c e g inoltre accade questo: davanti a ca,
che, chi, co; ga, ghe, ghi, go si usa la forma articolare er; mentre per ci, ce e gi,
ge si usa la o:
'r can, 'r chego, 'r gato, 'r gran;
o ciao, o cielo, o gianco, o giorno.
Per i sostantivi femminili invece si usa la a (=la):
la donna = a dona.
Le stesse regole valgono anche per le preposizioni articolate, ed in tutti quei
vocaboli che contengono il gruppo al seguito da una consonante:
al bosco = ar bosco, dal naso = dao naso;
caldo = caodo, albero = arbeo.
L'esempio dell'articolo determinativo, quindi è per Sittoni una chiara
prova dell'indipendenza della fonologia spezzina rispetto ai dialetti di confine;
la differenza nell'uso delle due forme, poi, indicherebbe proprio la persistenza
di forme preesistenti all'arrivo di influenze linguistiche allofile; forme che
dovettero essere tipiche dell'epoca in cui si formò il dialetto spezzino stesso.
La regola dell'alternanza delle due forme dell'articolo potrebbe essere un
129
buon esempio dell'armonizzazione eufonica che le generazioni dei nostri
predecessori dovettero creare per conciliare le nuove parlate, tra cui quella
sopraggiunta colla latinizzazione, all'antico modo di pronunciare che vigeva
nel loro dialetto. Si può quindi addirittura pensare, ad esempio, continua
Sittoni, che la forma er dell'articolo determinativo non provenga dalla
Toscana, ma al contrario si diparta, dopo essere nata per via di adattamenti
eufonici, proprio dalla Spezia verso la Toscana stessa, quale segno
dell'originalità della nostra parlata.
A fronte di queste prime considerazioni, è interessante mostrare
l'ulteriore intuizione di Giovanni Sittoni: egli arriva infatti ad individuare una
analogia tra il dialetto spezzino e l'etrusco stesso. Innanzitutto l'uso della a
eufonica era presente, scrive l'antropologo anche nella lingua etrusca:
a-vils, a-tumics;
poi la mancanza di consonanti doppie, con sostituzione o soppressione, che
non si verifica nello stesso modo negli altri dialetti liguri era anch'essa una
caratteristica dell'etrusco, dove le doppie sono rimpiazzate mettendo appunto
una consonante diversa:
tisl = tiss, fusle = fusse, avils = aviss.
Infine, anche l'etrusco secondo il nostro autore non possedeva l'articolo
determinativo; mentre quello che accade con l'articolo indeterminativo uno,
la sua differenza cioè con l'aggettivo numerale, si verifica esattamente anche
nell'etrusco, dove l'articolo uno = un è differente dal numerale uno = max.
Come articolo lo ritroviamo nelle fasce della Mummia di Agraam:
une (=una) mlax, unum (=unam) mlax;
mentre come aggettivo numerale lo troviamo nel dado di Toscanella (C.I.I.
2552):
max= uno.
Nelle fasce della mummia l'articolo indeterminativo viene usato per indicare
che di più oggetti ne deve essere usato soltanto uno.
Lo stesso fenomeno riguardante l'articolo determinativo il, si verifica
anche quando la consonante l si trovi, all'interno di una parola, assieme ad
una vocale colla quale faccia sillaba: se la vocale è diversa da una a, allora la l
si trasforma in r:
sor- dato = sol- dato,
se invece la vocale è proprio una a, allora la l può essere sostituita si da o che
130
da r:
ar-beo = al-bero, ao-to = al-to.
Sempre a proposito di consonanti, Sittoni annota come sia comune nel
dialetto spezzino la trasposizione di alcune di esse:
premesso = permesso, drento = dentro, staca = tasca.
Oltre alla trasposizione, la r è soggetta anche ad una forte soppressione, come
per la l:
miae = mirare, feie = ferire, spaae = sparare,
e questa è un'altra nota caratteristica della antica fonologia mediterranea,
analogamente alla l cioè anche la r viene annullata dove possibile, oppure
sostituita e accettata solo se strettamente necessario; il dialetto spezzino
sopprime tutto quello che può, cioè tutto ciò che non è fondamentale per
intendersi.
E così vengono anche eliminati nel dialetto spezzino il suono mouillé (= ll) e
ji francesi e gl e gi toscani:
fogia = foglia, famigia = famiglia, lugio = luglio;
zove = giovane, razon = ragione, zugno = giugno,
e così via.
Talvolta la g sostituisce altre consonanti, quali ad esempio la b, oppure il
gruppo chi-, che però in linea generale viene sostituito da ci-:
gianco = bianco, gese = chiesa, ciao = chiaro, ciodo = chiodo.
Il gl francese diventa una g nel dialetto spezzino, se ad esso corrisponde un
gh nell'italiano:
gl-ace, gh-iaccio, g-iasso;
mentre il b italiano si modifica in g nel nostro dialetto, se nel corrispondente
vocabolo francese si ha un bl; e così anche per il ch italiano che corrisponde
al c spezzino se nel francese si ha il gruppo cl:
bl-anc, b-ianco, g-ianco;
cl-air, ch-iaro, c-iao.
Così dunque, secondo Sittoni, allo stesso modo in cui si formarono le
lingue neo-latine, la ligure ad esempio e la toscana, così si formò una lingua
neo-latina spezzina, con una fonetica propria ed originale, che rende la
parlata spezzina un elemento autonomo rispetto ai dialetti di confine. Così ad
esempio, la vocale è spezzina, termina il suono dell'oeu dei dialetti liguri,
rifiutando nello stesso tempo il suono toscano della o aperta, sostituendolo
131
con uno intermedio tra la o chiusa e la u:
toscano: cuoco, spezzino: chègo, ligure: coeugu;
toscano: fuoco, spezzino: fègo, ligure: foeugu;
toscano: olio, spezzino: èio, ligure: oeuiu.
Analogamente, l'indipedenza del dialetto spezzino da quello toscano e ligure
appare manifesta anche nel suono di sce, sci, che diventa se, si (con s aspra),
oppure nel suono toscano di ce, ci, sostituito da s dolce, mentre nei dialetti
liguri si ha je, ji:
toscano: fascia, spezzino: fassa, ligure: fascia,
toscano: croce, spezzino: crose, ligure: cruje;
così anche il suono cc diviene nello spezzino una s aspra:
risso=riccio,
anche se esistono molti vocaboli dove l'eufonia agisce pure nelle lettere che
vengono prima e dopo il gruppo cc, come ad esempio nel caso singolare di
lucciola e nocciola:
nìssoa = lucciola, nissèa = nocciola;
in questo caso si nota anche un altro fatto interessante, e cioè che il
cambiamento della o in è, che abbiamo descritto in precedenza, avviene solo
se la vocale o aperta è tonica:
vièa = viola, pignèo = pinolo,
e così via; curiosamente invece il termine nòcciolo viene reso con nocio, e
questo perché il cio di nocio non corrisponde, scrive Sittoni, al ciolo di
nocciolo, ma al chio di nocchio, che è un vocabolo italico arcaico, e quindi
segue la regola generale secondo la quale chio = cio.
In altri vocaboli la modifica è più decisa e coinvolge tutto il radicale:
Lessìa = Lucia, lessoa = lucertola;
il ci ed il cer diventano una s aspra, mentre generalmente il cia viene reso con
un sa dalla s dolce:
camisa = camicia,
ma nei dialetti francesi avviene la stessa cosa:
Lucie (s aspra) = Lucia,
chemise (s dolce) = camicia.
Anche nelle altre consonanti troviamo, secondo l'ipotesi del Sittoni, una
conferma dell'esistenza di una pronuncia spezzina tutta particolare, che
differisce tanto da quella toscana quanto da quella degli altri dialetti liguri, e
che rimase immutata nel tempo quale testimonianza dell'adattamento dei neo
132
vocaboli allofili a quelli preesistenti nel suolo spezzino. Così ad esempio per
quanto riguarda la b, si può notare come, per legge generale essa rimanga
inalterata quando si trovi ad inizio parola:
besogno = bisogno, baso = bacio,
tranne in alcuni casi particolari come ad esempio:
gianco = bianco;
questo mutamento della b in g, dice Sittoni non deriva certo per influenze
esterne, dato che sia in Toscana che in Francia, la b rimane tale; e quindi
siamo di fronte ad un caso di formazione della nuova parola in base a delle
inflessioni che si trovavano già nella lingua primitiva.
Un fenomeno analogo avviene anche per la consonante p, che rimane tale in
molti casi, ma per il resto subisce delle variazioni trasformandosi in c, in v, in b
o in g:
pietà = pietà, cianto = pianto, peve = pepe,
ecc. In particolare, la p diventa c nel dialetto spezzino, quando alla p del
vocabolo italiano, corrisponde il pl francese:
pl-ante, p-ianta, c-ianta;
pl-ume, p-iuma, c-iuma.
In questo caso è interessante osservare quanto il termine spezzino si discosti
dal francese e dall'italiano: il suono del pl francese e del p italico vengono
entrambi rifiutati.
Per quanto riguarda le altre consonanti, vediamo che la c diventa s nelle
combinazioni ce, ci, oppure g in ca, che, chi, co, cu:
crose = croce, sima = cima, fègo = fuoco, encargo = incarico.
Sempre per ragioni eufoniche la t si muta in d:
prado = prato, frade = frate, vedro = vetro.
Gli effetti più interessanti del processo di formazione del dialetto, si avvertono
quindi proprio in quelle eccezioni alle regole generali, che devono essere
intese appunto, secondo la teoria di Sittoni, come delle preesistenze, ovvero
delle reminiscenze prearie degli strati più arcaici del dialetto in seguito
trasformato; e così nella formazione dei nuovi vocaboli intervennero
senz'altro i suoni presi dai vecchi vocaboli corrispondenti; e questa ultima
considerazione è importantissima perché deve farci evitare di cadere
nell'errore di attribuire tutti quei termini che risultano incomprensibili ed
indecifrabili alla luce dell'ario, ad un dialetto mediterraneo preesistente;
mentre invece di preesistenti ci sono solo alcuni suoni, che intervengono
133
secondo le regole di eufonia viste sopra, di modifica (è = o), trasposizione,
soppressione, aggiunte al radicale o al suffisso. Seguendo queste regole, la
traduzione è quasi sempre possibile, anche se talvolta l'interpretazione risulta
più difficile e persino discutibile, come ad esempio, riporta Sittoni, per il verbo
scrinciae = saltare, lanciare, scattare. Questo termine è presente anche in altri
dialetti: in Piemonte ad esempio suona come sbrinciar. Lo stesso termine lo
troviamo ufficialmente nello Spagnolo, che riporta un brincar. A parte la
soppressione eufonica della s iniziale, si può instaurare un confronto diretto:
spezzino: s-crinc-iae; piemontese: s-brinc-iar; spagnolo: brinc-ar.
Da non dimenticare l'interessante osservazione di Sittoni, a proposito delle
relazioni con la lingua francese da un lato, e l'italiana dall'altro, che
dimostrano quanto sia indipendente l'antica fonetica spezzina, nel sua
posizione intermedia tra la fonologia etrusca e quella ligure:
Francese:
pl
bl
cl
gl
Italiano:
p
b
ch
gh
Spezzino:
c
g
c
g
Oltre ad aver delineato le principali caratteristiche fonetiche e
morfologiche del dialetto spezzino, che abbiamo qui brevemente esposto,
Giovanni Sittoni ritorna a più riprese sul tema dei rapporti tra le varie parlate
locali, analizzando puntualmente l'etimo di numerosi vocaboli spezzini, per lo
studio dei quali rimandiamo direttamente alle sue pubblicazioni.(2)
Tra i tanti però che egli passa in rassegna, ne esaminiamo uno in particolare,
che è legato ad una questione interpretativa tuttora irrisolta: l'origine del
nome La Spezia.
Innanzitutto, nell'analisi di questo toponimo il problema principale che si è
sempre presentato è il seguente: quale relazione sussiste tra il termine
dialettale indicante la città ed il corrispondente termine latinizzato? A quale
epoca, a quale lingua si deve risalire per trovare un significato alla parola?
Sittoni è convinto che si debba partire dalla forma dialettale del nome, dalla
quale emerge in primo luogo come già nella forma autoctona sia presente
l'articolo la, che non può dunque essere messo in secondo piano nei tentativi
di interpretazione; ogni omissione dell'articolo infatti porterebbe ad un errore
ermeneutico, ed equivarrebbe a negare persino il significato storico del nome
della nostra città.
Ma è esatta innanzitutto l'equivalenza:
134
A Speza = La Spezia?
La risposta di Sittoni è negativa: dal punto di vista eufonico non c'è
eguaglianza tra i due termini; secondo le nostre regole infatti si dovrebbe
avere, e nessuna eccezione è stata trovata:
A Spè-za = La Spè-gia;
La Spe-zia = A Spe-ssia.
Per di più nessuno dei due termini può essere direttamente riportato al nome
latinizzato: Spedia, poiché il suffisso edia resta immutato passando nel
dialetto:
comedia = commedia, ecc.
Sappiamo, scrive Sittoni, che anticamente La Spezia era circoscritta alla zona
del Poggio, ed è quindi su questo vocabolo che dobbiamo basarci per iniziare
la nostra interpretazione; quale relazione sussiste tra questi due nomi? Quale
relazione sussiste tra le zone indicate da questi due nomi? E' improbabile,
scrive l'antropologo spezzino che si sia verificato un cambiamento di nome
attorno al X secolo, o prima, ma piuttosto si può ipotizzare anche in questo
caso, un adattamento eufonico di un termine già presente nel dialetto
primitivo.
Dopo aver indicato che anche il toponimo Il Poggio presenta l'articolo, e
infatti in dialetto si ha:
a son der Pozo = io sono del Poggio,
a vago ar Pozo = io vado al Poggio,
Sittoni tenta di risalire agli adattamenti eufonici che il termine può aver subito
nel corso dei secoli.
Nelle tribù galliche, scrive il nostro autore, Poggio si pronunciava Puey, Puy,
Peu, Pic, Poy, Puui, ecc., e altrettante variazioni si ebbero nei dialetti italici:
podium, poggium, pugium, pogio, poios, poya, e così via. Quale adattamento
si verificò dunque alla Spezia? Pozo non è infatti la prima traduzione, ma deve
essere inteso come adattamento eufonico del tardivo pogio latino:
po-gio = po-zo;
forma che dovette essere senz'altro preceduta da un'altra derivazione
eufonica proveniente dai dialetti provenzali. In Italia infatti sembra accertato
che il puey provenzale sia passato sotto forma di pueya, mentre il poy nordico
sotto forma di poya; quest'ultimo infatti ha molta probabilità di sussistere
quale unità di derivazione eufonica per tutti i termini corrispondenti dei
dialetti italici, pogio, poius, pugium, ecc., che si modificarono colla
135
latinizzazione imposta.
Derivazione che deve essere considerata sempre sulla base di quel legame
che lo steso Sittoni ha chiaramente evidenziato tra il dialetto spezzino da un
lato, e quello delle tribù liguri della Gallia e quelle stanziate nel territorio
compreso tra la Provenza e La Spezia stessa, dall'altro.
Talvolta infatti il legame tra un termine spezzino ed uno provenzale non è
coinvolto dal fenomeno della latinizzazione, essendo molto più antico
dell'incorporazione stessa di questo termine nei dialetti delle tribù laziali; si
hanno cioè quei casi che abbiamo visto poco sopra di variazione autonoma
delle unità fonetiche di vocaboli provenienti dal provenzale antico.
Anche in presenza della latinizzazione si riscontra lo stesso un accostamento
eufonico col dialetto delle tribù provenzali:
italiano: tu puoi, egli può, essi possono;
spezzino: te te pè, lu i pè, loo i pèno;
gallico: tu peux, il peut, ils peuvent;
oppure in altri casi dove il termine spezzino subisce parimenti l'influenza
italica senza però rinunciare ai propri suoni interni, come nell'esempio della
parola pepe, dove il v eufonico prevale sul p italico:
italiano: pe-p-e;
spezzino: pe-v-e;
gallico: poi-v-re.
Alla luce di queste considerazioni, prende forma l'ipotesi di Sittoni: si può
ammettere che il termine poggio sia arrivato direttamente dalle tribù liguri
provenzali, subendo poi delle modificazioni sulla base dei suoni tipici della
parlata spezzina. Mentre cioè nelle altre regioni della nostra penisola, esso si
diffuse a partire dalla forma di poya, da noi dovette arrivare invece come
pueya, da puey, andando in contro a questi mutamenti: la u diventava e,
mentre la y si trasformava in z.
Si ebbe così:
(S) pè-z-a = (S) puè-y-a.
Così, mentre la forma pozo è da considerarsi una tardiva importazione
romana, puey e poy sono, scrive Sittoni, variazioni eufoniche galliche, cioè
differenze tra il nord e sud della Gallia nella pronuncia di un medesimo
vocabolo, a cui corrispondono in Italia, il pueya ed il poya.
Accadde poi che, mentre il Lazio fu invaso dalle tribù celtiche del nord, la
Liguria aveva già appreso, subendone l'influenza dell'espansionismo, i dialetti
136
dalle tribù del sud, acquisendoli così molto tempo prima rispetto al Lazio. In
seguito, colla latinizzazione, ovvero con la imposizione del latino quale lingua
ufficiale, avvennero ulteriori modifiche e si crearono quasi due distinti
linguaggi: uno spezzino autentico parlato dal popolo, ed un altro ufficiale
parlato dalla cosiddetta classe signorile. E così mentre il pèza di pueya
divenne il pècia di loco de Specia, dal Podium latino si formò il pèdia di
Spedia, allo stesso modo in cui, in seguito, si ebbe il pozo dal pogio.
Il fatto poi che sia giunta a noi solo la forma pozo, dal tardo pogio, non
significa che non siano esistite altre forme in passato nel dialetto spezzino;
sappiamo infatti quante alterazioni subisce una lingua col tempo, soprattutto a
causa dell'influsso di scuole, educazione e culture differenti, come si può
vedere tutt'oggi e come è accaduto per la stessa lingua italiana, dai tempi di
Dante, dice Sittoni, sino ai nostri giorni. Anche il dialetto spezzino quindi non
è atemporale, e una parte di quello che si parla nella nostra epoca può
benissimo essere inteso come una modifica di un ipotetico dialetto spezzino
classico.
Così mentre il pèza di S-pèza è l'eguaglianza eufonica di puèya, lo Spècia è
traduzione eufonica di Spèsa: nel dialetto parlato infatti, ci ricorda Sittoni, si
ha: za = sa, poiché il suono di z non esiste nello spezzino. Solo nel dialetto
scritto si ricorre alla distinzione, in quanto si mette il za in corrispondenza del
gia italiano ( giallo = zalo), e il sa in corrispondenza del cia (camicia =
camisa) mentre il suono è identico. È quindi proprio secondo la pronuncia
che si ha Spèza = Spesa, mentre solo nello scritto si dovrebbe avere Spèza =
Spègia e Spèsa = Spècia; così dal loco de Spècia = a Spèsa, venne fuori molto
tardivamente il burocratico La Spezia.
Podium dunque in via ufficiale, e pèza in via dialettale; il primo divenne
subito podio e quindi pèdia, secondo le regola viste sopra: p-è-dia = p-o-dio; e
quindi in definitiva, pèdia secondo l'adattamento delle classi abbienti, e pèza
secondo il popolo.
Come avvenne però, si chiede Sittoni l'aggiunta della s iniziale? Secondo
l'antropologo spezzino ciò accadde in seguito al crescere della popolazione
ed al conseguente allargamento della città: col ritirarsi poi delle onde, per i
depositi dei torrenti e quindi con l'allungarsi della spiaggia, il vecchio Podium
si estese nei nuovi terreni sottostanti, diventando così l' ex podium, nella
parlata ufficiale e quindi ex pèdia, cioè s-pèdia per l'adattamento al dialetto
delle classi abbienti, ed ex pèza, cioè s-pèza nel dialetto del popolo:
137
l'ex pèdia = s-pèdia;
a ex pèza = a s- pèza.
Lo Spedia venne tramandato dalla storia come nome latinizzato, mentre dall'A
Spèza si arrivò ad un altrettanto ufficiale loco de Spècia quando non si volle
usare la forma latina; da qui si ebbe l'odierno Spezia.
Queste dunque le interessanti intuizioni e riflessioni di Giovanni Sittoni a
proposito del dialetto spezzino e della relazione tra antropologia e linguistica:
la persistenza del tipo ligure mediterraneo di fronte alle invasioni allofile di
Eurasici da un lato, e l'indipendenza e originalità del nostro dialetto di fronte
alle neo parlate infiltratesi o imposte, dall'altro.
138
Le Canzoni della Vara
La sensibilità di Sittoni per il dialetto della Spezia, va però oltre l'interesse per
gli studi linguistici e storici per estendersi, come abbiamo annunciato all'inizio,
alla poesia.
Dai selezionati componimenti che il nostro antropologo ci ha voluto lasciare,
pubblicandoli, emerge tutta la sua convinzione poetica: essere un tutt'uno con
l'ambiente in cui si è nati e vissuti. Nell'ambiente in cui ciascuno si trova
destinato ad avere radici profonde, il poeta trae la fonte di ispirazione più
genuina e fondamentale: il tratto del fondamento determina da sempre ogni
stato d'animo non nel senso di ciò che si può provare o non provare, ma nel
senso che la determinazione e lo stato d'animo sono la stessa cosa: essere ed
essere determinato, sono, nel linguaggio, il medesimo.
A fronte delle differenze che il tempo genera all'interno del dialetto, per cui il
linguaggio delle precedenti generazioni differisce per vocaboli e forme
grammaticali da quello parlato al giorno d'oggi, il poeta tuttavia è
permanentemente caratterizzato nel profondo dall'ambiente e dallo spirito
delle tradizioni che lo determinano, e che vengono proiettate nel futuro,
proprio in quanto appartengono ad un passato che poeticamente è accaduto.
Quelli che apparentemente sembrano essere semplici stati d'animo, non sono
una pura manifestazione soggettiva di una astratta interiorità del poeta che si
esternerebbe nel verso scritto; non esiste nessuna interiorità e nessuna
esteriorità proprio perché già da sempre l'uomo è in un fuori di sé, ovvero
collocato e disposto nell'ambiente. Negli stati d'animo, scrive Sittoni, il
carattere locale non manca, essi colgono l'essenza lirica del paesaggio, e forse
possono portare alla manifestazione di quel folklore autoctono che
sonnecchia ed è custodito originariamente dove si nasconde nel proprio
apparire inosservato.
Vogliamo così concludere, dopo queste brevi considerazioni, lasciando la
parola al nostro Giovanni Sittoni, riportando direttamente un suo
componimento appartenente al ciclo delle Canzoni della Vara.
139
Le Canzoni della Vara
I.
Se stenda lenta 'n te 'r verde - lazù dar ponte
l'onbra der monte,
carmo sa spècia l'antigo – ponte 'n t'a ciaa
aigoa da Vaa.
Fila lenta a corente – e 'n t'o se bèlo
coloe d'o celo,
rica, o se verde la spècia – fresca e giuliva
l'erba dea riva,
II.
O bèla fantèla, i sorido
a l'aigoa der fiume e te sponde native,
vèga lento su e onde
'n santo poèma d'amoe.
E e onde e a corente i sorido
ao santo poèma dee magiche rive,
d'i fioi ch'è 'n te e sponde
sposando i coloi.
III.
E i t'anvita dee linpide onde
o strano rimoe,
E i t'anvito i fioeti dee sponde,
te, come loo, fioe,
E blando 'n tee rive, tra e èrbe e tra i fioi,
er mogogno de l'onda,
cossì come 'n lento susuro de taciti amoi
140
soave i zionda
e i somi aretorna o fantèla
a 'n pèsso svani,
e torna coi somi a canson mea ciù bèla
e l'estro asopì.
Dar ponte de Vaa, Arvì 1931
141
Note alla parte terza
1.
2.
A. Paita, Giovanni Sittoni, in La Spezia, Rivista del Comune, A. XXII, n.12, 1954.
La Spezia che fugge, Edizioni de “L'Opinione”, La Spezia 1927.
142
Appendice
Definizioni
Si riportano in questa appendice le scale di valutazione dei principali indici
del cranio cerebrale e facciale, così come sono stati determinati ed espressi da
Giuseppe Sergi, nel libro Specie e varietà umane (op. cit.).
1.
Indice di larghezza o cefalico (orizzontale).
È dato dal rapporto percentuale tra la larghezza e lunghezza del
cranio: 100*larghezza/lunghezza.
Dolicocefalia forte (Sittoni)
Dolicocefalia
Mesocefalia ......
Brachicefalia ......
Iperbrachicefalia ......
2.
Indice di altezza o verticale. E' dato dal rapporto percentuale tra
l'altezza e la lunghezza del cranio: 100*altezza/lunghezza.
Camecefalia ......
Ortocefalia ......
Ipsicefalia ......
3.
fino a 74
fino a 75
da 75,1 a 80,0
da 80,1 a 85,0
da 85,1
fino a 70
da 70,1 a 75,0
da 75,1
Indice facciale secondo Kollmann. È dato dal rapporto percentuale
tra l'altezza della faccia e la larghezza bizigomatica: 100*altezza/larghezza bizigomatica.
a) Totale:
Cameprosopia ......
Leptoprosopia ......
fino a 90
da 90
b) Superiore:
143
Cameprosopia ......
Leptoprosopia ......
fino a 50
da 50
A proposito dell'indice facciale, è necessario ricordare che proprio Giuseppe
Sergi introdusse nel 1891, una categoria mediana tra la cameprosopia e la
leptoprosopia, modificando così i valori di riferimento:
a) Totale:
Cameprosopia ......
Mesoprosopia ......
leptoprosopia ......
fino a 85
da 85,1 a 91
da 91,1
b) Superiore:
Cameprosopia ......
Mesoprosopia ......
leptoprosopia ......
fino a 48
da 48,1 a 52
da 52,1
4.
Indice orbitale: 100*altezza/larghezza.
Cameconchia ......
Mesoconchia ......
Ipsiconchia ......
5.
fino a 80
da 80,1 a 85,0
da 85,1
Indice nasale: 100*larghezza/altezza.
Leptorrinia ......
Mesorrinia ......
Platirrinia ......
Iperplatirrinia ......
fino a 47
da 47,1 a 51
da 51,1 a 58,0
da 58,1
Credo sia interessante riportare anche le definizioni dei termini usati nelle
formule delle misurazioni, indicando le modalità secondo le quali si prendono
le misure stesse:
1.
La lunghezza massima del cranio si prende dalla glabella alla
massima sporgenza occipitale.
144
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
La larghezza massima si misura verso la metà della lunghezza, o
indietro secondo che le gobbe parietali siano in avanti o indietro,
quindi nel massimo ingrossamento del cranio, ma non verso la parte
mastoidea.
L'altezza o è quella basilo-bregmatica del Broca, ovvero è quella del
piano perpendicolare all'orizzontale.
La lunghezza frontale minima è la distanza minima fra le linee curve
temporali.
L'altezza totale della faccia si prende dalla sutura naso-frontale al
mento, quella superiore, dalla sutura naso frontale al punto
alveolare superiore.
L'altezza nasale si prende dalla sutura naso frontale alla spina
nasale.
La larghezza nasale si rileva nell'apertura piriforme, dove è
maggiore la distanza dei margini.
La larghezza dell'orbita, dalla parte mediana del margine interno alla
parte mediana del margine esterno.
L'altezza dell'orbita è la distanza perpendicolare alla massima
larghezza.
Secondo il congresso di Francoforte, ci ricorda il Sergi, venivano stabiliti, oltre
ai criteri di misurazione, anche dei piani da utilizzare come base per le
misurazioni stesse (cfr. Frankfurter Verständigung über ein gemeinsames
craniometrisches Verfahren, in “Archiv für Anthropologie”, XV, 1884).
Il piano orizzontale è quello che passa per il margine inferiore dell'orbita ed il
margine superiore del forame auditivo esterno. Questo piano inizialmente
doveva servire anche per misurare la lunghezza massima del cranio, che
doveva appunto essere parallela ad esso. In seguito da alcuni venne
abbandonata questa condizione, e fu concesso di misurare il massimo
diametro della lunghezza nel punto dove effettivamente tale distanza è
massima, senza la necessità del parallelismo tra i due piani. E così, secondo le
convenzioni di Francoforte la massima altezza del cranio doveva essere quella
che passa per un piano perpendicolare all'orizzontale. Anche questa regola
venne abbandonata da alcuni antropologi, che continuarono ad usare i criteri
stabiliti da Broca.
Riportiamo inoltre la definizione di “tipo cranico”, che costituisce uno dei
145
fondamenti principali delle innovazione introdotte dal Sergi nella
antropologia di fine Ottocento:
Intendo per tipo un insieme di caratteri morfologici misurabili e non
misurabili anche, impressioni d'occhio, cioè, che derivano senza dubbio da
forme più o meno varie delle parti costitutive del cranio; i quali caratteri
colla loro composizione danno al cranio un aspetto particolare da farlo
distinguere da un altro che abbia nell'insieme una compagine differente. Ma
questo tipo, benché evidente nella serie di parecchi crani, ha variazioni nei
molti elementi che compongono il cranio e perciò anche nel carattere
generale dell'insieme. [...] Queste variazioni sono di carattere individuale, e
perciò le chiamerò variazioni individuali. (Cranii africani e cranii
americani. Considerazioni generali craniologiche e antropologiche, in
Archivio per l'antropologia di Firenze, vol. XXI. Firenze, 1891)
146
Bibliografia
Opere di Giuseppe Sergi
Riportiamo di seguito le opere di Giuseppe Sergi utilizzate per la presente
pubblicazione.
Arii e italici: attorno all'Italia preistorica. Fratelli Bocca, Torino, 1898.
Studi di crani antichi, in «Atti della Società Romana di Antropologia», Vol. VII,
Fasc. II, 1900
Specie e varietà umane, saggio di una sistematica antropologica. Fratelli
Bocca, Torino 1900
Gli Arii in Europa e in Asia: studio etnografico. Fratelli Bocca, Torino 1903
L'evoluzione umana, individuale e sociale: fatti e pensieri. Fratelli Bocca,
Torino 1904
Forme craniche estranee alla varietà mediterranea in Italia, in «Rivista di
Antropologia», Vol XXII, 1917-18
Il posto dell'uomo nella natura. Fratelli Bocca, Torino 1929
La più antica umanità vivente. Fratelli Bocca, Torino 1930.
Psiche: genesi, evoluzione. Fratelli Bocca, Torino 1930
Da Alba Longa a Roma. Fratelli Bocca, Torino 1934
Die Etrusker und die alten Schädel des etruskischen Gebietes, Sonderabdruck
aus dem «Archiv für Anthropologie», Braunschweig, Druck Von Friedr. Vieweg
& Sohn, s.d.
L'origine dei fenomeni psichici e loro significazione biologica. Dumolard,
Milano 1885
Psicologia del ragionamento
147
Opere di Fabio Frassetto
Riportiamo di seguito le opere di Fabio Frassetto utilizzate per la presente
pubblicazione.
Cranii rinvenuti in tombe etrusche, in «Rivista di Antropologia» (Atti della
Società Romana di Antropologia), Vol. XII, Fasc. II, 1905)
Crania Etrusca: le forme craniche degli Etruschi e il problema delle origini
etrusche, in «Rivista di Antropologia» (Atti della Società Romana di
Antropologia), Vol. XXVIII, 1928-1929
Les formes normales di crane humain, (extrait du «Bulletin de la Société de
Morphologie», 1929, nn.3-4)
Opere di Giovanni Sittoni
Riportiamo di seguito una bibliografia essenziale delle opere di Giovanni
Sittoni, secondo l'impostazione e l'ordine che lui stesso ci ha lasciato (cfr. A.
Paita, Giovanni Sittoni, in «La Spezia, Rivista del Comune», A. XXII, n.1-2,
1954).
Pubblicazioni in:
Atti della Società Italiana per il Progresso della Scienza (S.I.P.S.):
1.
2.
3.
4.
5.
Intorno all'investigazione del cranio etrusco e la sua probabile
presenza nel territorio sarzanese (XXII Riunione, Roma 1932)
Un cranio del tipo di Cro-Magnon, come unità isolata nelle serie
craniche dei Liguri orientali (XXII Riunione, Bari 1933)
Intorno al grado di persistenza dei caratteri facciali mediterranei
nel versante padano dell'Appennino Ligure-Parmense (XXII
Riunione, Bari 1933)
Un cranio del tipo Cro-Magnon come unità isolata nelle serie
craniche dei liguri orientali (XXII Riunione, Bari 1933)
Sardi e Cinqueterrensi (XXIII Riunione, Napoli 1934)
148
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
14.
15.
16.
17.
18.
Il Cippo di Novà e la stele di Filetto (XXIII Riunione, Napoli 1934)
Intorno alla stele di Valdimagra (XXIII Riunione, Napoli 1934)
Intorno ad una Luni olocenica (XXIV Riunione, Palermo 1935)
Le immigrazioni neo ed eneolitica dei popoli mediterranei della
dell'Africa in Europa, in rapporto alla loro distribuzione nel
versante tirrenico dell'Appennino Ligure orientale (XXV Riunione,
Tripoli 1936)
I primi movimenti etnici preistorici nelle Venezie (XXVI Riunione,
Venezia 1937)
Gli Ombrici in Val Padana ( XXVI Riunione, Venezia 1937)
Neo ed eneolitici in Italia (XXVII Riunione, Bologna 1938)
Intorno alla necessità di profonde indagini antropologiche nella
Garfagnana (XXVII Riunione, Bologna 1938)
Intorno ad una serie cranica proveniente da Portovenere ed agli
abitatori dell'isola Palmaria durante l'età miolitica (XXVIII
Riunione, Pisa 1939)
La posizione della “Varietà” Ligure nella classificazione della stirpe
mediterranea (XLII Riunione, Roma 1949)
La presenza di tribù umbre in Lunigiana (XLII Riunione, Roma
1949)
Intorno ad alcuni segni grafiti su di una patera etrusca
proveniente dal sepolcreto eurasico di Genicciola (XLII Riunione,
Roma 1949)
Aufidena (XLIV Riunione, Perugia 1952)
Atti della Società Romana di Antropologia:
1.
2.
3.
4.
Brachimorfi e Dolicomorfi in Valdimagra (Vol. XXVI, 1924-25)
Liguri e Celti nella Liguria orientale (Vol. XXVIII, 1928-29)
Intorno alla faccia di due “Meduse” provenienti dall'Ipogeo dei
Volumni (Vol. XXIX, 1930-32)
La posizione degli elementi etnici nel versante padano
dell'Appennino Ligure orientale (Vol. XXX, 1933-34)
Memorie della Società Lunigianese “G. Capellini”:
149
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
Archivio antropologico lunigianese (Vol. II, Fasc. 3, 1921)
I contributi all'Antropologia etnica della Lunigiana (Vol. II, Fasc 4,
1921)
La discriminazione delle forme craniensi in Valdimagra (Vol. III,
Fasc. 3, 1922)
I mediterranei in Lunigiana (Vol. IV, Fasc. 3-4, 1923)
Ligures (crania nova et vetera) (Vol. V, Fasc. 2, 1924)
Profili di Antropologia sarzanese (Vol. X, Fasc. 1, 1929)
Il “lupo” nella tradizione popolare spezzina (Vol. XI, Fasc. 2, 1930)
Archivio per la Etnografia e la Psicologia della Lunigiana:
1. I viticultori di Tramonti (Vol. 1, Fasc. 1-2-3-, 1911, La Spezia)
2. Il motivo ornamentale nella Lunigiana apuana (Vol. 1, Fasc.1,
1911)
3. La torre di Cacciaguerra nella conocchia pontremolese (Vol.1,
Fasc.2, 1911)
4. Tessitori, agricoltori ed allevatori nella Valle di Vara inferiore (Vol.
1, Fasc. 2-3-4, 1911)
5. La discriminazione delle forme craniensi in Lunigiana (Vol. 1, Fasc.
3, 1912)
6. Il motivo ornamentale tra i Zeraschi ( Vol 1, Fasc. 3, 1912)
7. Su di 4 rocche provenienti dal fivizzanese ( Vol 1, Fasc. 4, 1912)
8. La Costa tra il Montenegro e il Mesco (Vol. 2, Fasc. 1-11-12)
9. Il Ciclo della Vara (Vol.2, Fasc.4, Vol.3, Fasc. 1-2, 1914)
10. A Vinca con i Pastori (Appunti Apuani) (Vol. 1, Fasc. 1-2, 1920)
11. Due crani di Riccò del Golfo (Vol. 1, Fasc. 1, 1920)
12. La stirpe Mediterranea (Vol. 1, Fasc. 2, 1920)
Archivio per l'Antropologia e la Etnologia:
1.
2.
3.
Le Cinque Terre, I Biassa (Vol. XXXVII, Fasc. 2, 1907)
Le Cinque Terre, II Campiglia (Vol. XXXVII, Fasc. 3, 1907)
Le Cinque Terre, III I Biasseo-Campioti (Vol. XXXVIII, Fasc. 1-2,
1908)
150
La Giovane Montagna:
1.
2.
3.
4.
I primi svolgimenti della civiltà italiana ed i probabili popolatori
del parmense durante la “facies” appenninica (Quaderno n.32,
anno 1939)
Da Pontremoli a Drusco (Quaderno n.160, anno 1941)
Le Tribù dei Macrales e dei Bolani in Valdimagra (Quaderno n.85,
anno 1941)
Setterone (Quaderno n.120, anno 1943)
Il Comune della Spezia:
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
14.
15.
16.
17.
18.
A proposito di uno scheletro monterossese (Fasc. 1-3, 1929)
I documenti etnici lunigianesi nella Storia Naturale dell'Arte (Fasc.
7-9, 1929)
Tra i compiti della Etnologia (Fasc. 3, 1937)
Intorno ad una serie cranica medievale proveniente da
Portovenere (Fasc. 4, 1938)
Etnia (Fasc.3, 1938)
Intorno ad alcune caratterizzanti eufoniche degli antichi
popolatori del Golfo della Spezia (zona centrale) (1948, n.2)
Per un nuovo orientamento della poesia vernacola sprugolina – Le
Canzoni della Vara (anno 1950, n.2)
Profili di Meteorologia spezzina (nn.1-9, 1930)
La pioggia alla Spezia nel biennio 1930-1931 (nn. 1-3, 1931)
L'umidità alla Spezia nel biennio 1930-1931 (nn. 10-12)
L'inverno alla Spezia nel quadriennio 1929-1932 (n.3, 1932)
I temporali alla Spezia nel quadriennio 1931-1934 (n.4, 1933)
Il clima di Chiavari e quello della Spezia (n.2, 1937)
Primavera Spezzina (n.1, 1937)
Estate sprugolina (n.1, 1939)
Due note sul dialetto spezzino
La presenza di Tribù Umbre in Lunigiana (n.4, 1953)
Necessità di indagini antropologiche nella Lucchesia (nn. 1-2, 1954)
Atti del IV Congresso Nazionale di Arti e Tradizioni Popolari:
151
1.
Etnologia della Liguria Orientale (Venezia 1940, Vol. I)
Lunigiana Etnica:
1.
2.
3.
Archivio antropologico lunigianese (anno 1926)
Appunti craniologici pontremolesi (anno 1926)
I contributi all'antropologia della Lunigiana (anno 1926)
La Spezia che fugge, Edizioni de “L'Opinione”, La Spezia 1927.
Intorno all'epigrafe etrusca della lapide nordica di Filetto, La Spezia,
Tipografia Moderna 1929
Il lobo temporale ed i generi: Antropino ed Antropoide, in «Famiglia dei
Primarii», Fasc IV
La sistematica dei Primarii, in «Famiglia dei Primarii», Fasc. IV
Il “tipo medio” ed i criteri della “Sistematica”, La Spezia 1907 (dalla
«Sistematica dei Pithecinae» 1906)
152
153
154
Indice
Introduzione
pag.
7
pag.
pag.
pag.
pag.
pag.
13
20
25
34
39
pag.
pag.
pag.
pag.
43
47
66
117
La psicologia è archeologia
Genesi e grammatica del dialetto
Canzoni della Vara
pag.
pag.
pag.
121
124
139
Appendice - Definizioni
pag.
143
Bibliografia
pag.
147
Parte Prima - Giuseppe Sergi
Una questione di metodo: filosofia e zoologia
Le specie umane: metodi di classificazione
Grandi movimenti: gli Eurafricani e gli Arii
La situazione in Italia: da Alba Longa a Roma
Note alla parte prima
Parte Seconda - Giovanni Sittoni
Antropini e antropoidi
Italia neo ed eneolitica
L'estensione della Liguria Orientale
Note alla parte seconda
Parte Terza - Il dialetto Spezzino
155
Finito di stampare nell’aprile 2006
presso Ferdeghini Tipografia – La Spezia
156