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Un ritratto in divenire (Per il Duo Gazzana)

2023, De Musica

«Wellental der Emotionen» (Südwest Presse), «Italienishe blüten» (Crescendo), «Gazzana subtil» (Süddeutsche Zeitung), «imaginative playing, and willingness to color outside the customary lines» (Fanfare Magazine); sono solo alcune delle testimonianze che il Duo Gazzana ha collezionato e che permettono di comprendere i motivi di un primato tuttora integro: essere i soli nomi italiani nell'ambito della classica all'interno del catalogo della prestigiosa etichetta ECM Records. Costituito il Duo Gazzana, le sorelle Natascia e Raffaella Gazzana intraprendono studi paralleli che permettono loro di stabilire un orientamento poetico comune. Entrambe conseguono infatti la laurea in lettere presso l'Università "La Sapienza" di Roma: Natascia con indirizzo in Storia dell'arte e Raffaella in Musicologia, quest'ultima con una tesi sulla

Un ritratto in divenire (Per il Duo Gazzana)* Matteo Chiellino – Carlo Serra «Wellental der Emotionen» (Südwest Presse), «Italienishe blüten» (Crescendo), «Gazzana subtil» (Süddeutsche Zeitung), «imaginative playing, and willingness to color outside the customary lines» (Fanfare Magazine); sono solo alcune delle testimonianze che il Duo Gazzana ha collezionato e che permettono di comprendere i motivi di un primato tuttora integro: essere i soli nomi italiani nell’ambito della classica all’interno del catalogo della prestigiosa etichetta ECM Records. Costituito il Duo Gazzana, le sorelle Natascia e Raffaella Gazzana intraprendono studi paralleli che permettono loro di stabilire un orientamento poetico comune. Entrambe conseguono infatti la laurea in lettere presso l’Università “La Sapienza” di Roma: Natascia con indirizzo in Storia dell’arte e Raffaella in Musicologia, quest’ultima con una tesi sulla Toccata di William Walton. Al contempo, conducono gli studi musicali tra Roma, Ginevra, Bruxelles, Siena, Losanna, Fiesole e Salisburgo, frequentando maestri come Bruno Canino, Yehudi Menuhin, Corrado Romano, Uto Ughi, Piero Farulli, Pierre Amoyal, Pavel Gililov e Ruggiero Ricci. Tenendo frequentemente concerti e masterclass tra Americhe, Africa, Asia e Oceania, sviluppano un’intima relazione con l’Oriente grazie ai * Sebbene il presente lavoro si fondi sul continuo dialogo tra i due autori in un orizzonte di autorialità condivisa, è possibile precisare che l’introduzione all’intervista e la trascrizione della stessa sono a cura di Matteo Chiellino. Quest’opera è distribuita con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale De Musica, 2022 – XXVI (2) concerti in Giappone, Vietnam, Corea del Sud, Singapore e Hong Kong. Fra le innumerevoli esibizioni, è il caso di ricordare il concerto per il Principe Carlo di Inghilterra e il seguente in Myanmar per il Consigliere di Stato e Premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi. Il Duo Gazzana ha inoltre tenuto concerti al Quirinale in diretta euroradio ed è tra le poche formazioni femminili ad essersi esibite in Iran. Esemplari della posizione centrale che il Duo Gazzana occupa nell’attuale panorama musicale sono, da una parte, le opere ad esso dedicate da compositori come Valentin Silvestrov, Đặng Hữu Phúc, Fabio Maffei, Tonu Kõrvits e Bruno Canino e, dall’altra, le frequenti candidature che i loro album ricevono da parte di importanti premi quali l’International Classical Music Awards e l’Opus Klassik di Berlino. È stata l’etichetta tedesca diretta da Manfred Eicher a decretare il debutto discografico del Duo con l’album Five pieces (ECM, 23 settembre 2011) che riprende il titolo dal lavoro per violino e pianoforte di Valentin Silvestrov, collocato a conclusione del disco dopo i lavori di Takemitsu, Hindemith e Janácek. Wolfgang Sandner nel booklet scrive: «Il programma nel suo insieme è tipico dell’approccio curioso e sensibile al repertorio del Duo. Ciò che si percepisce è una freschezza vitale». Nel 2014 è il turno del loro secondo album (ECM, 4 aprile 2014) che mediante autori del XX e XXI secolo (Poulenc, Walton, Dallapiccola, Schnittke e Silvestrov) riunisce diversi paesi (Francia, Gran Bretagna, Italia, Russia e Ucraina) ponendo l’accento su antiche forme musicali (toccata, suite, canone, variazioni) attraversate da nuove tecniche compositive. Quattro anni più tardi il loro terzo album (ECM, 20 aprile 2018) è dedicato quasi interamente alla musica di area francofona con César Franck, Maurice Ravel e Olivier Messiaen, rendendo al contempo omaggio anche all’ungherese György Ligeti grazie alla prima incisione del suo Duo per violino e pianoforte. Rispetto al precedente, questo album punta i piedi nell’Ottocento con la Sonate posthume di Ravel e la monumentale Sonata in La Maggiore di Franck poste ad apertura. L’ingente successo ottenuto dal disco è stato ben riassunto dal BBC Music Magazine che ha 168 De Musica, 2022 – XXVI (2) definito la loro interpretazione della Sonata per violino di César Franck «una masterclass». Il quarto, e al momento ultimo, disco del Duo (ECM, 28 ottobre 2022) prosegue l’esplorazione del XIX secolo con le interpretazioni della Sonata op. 105 di Schumann e della Sonata op. 45 di Grieg. Oltre a queste, troviamo le prime incisioni della Stalker Suite e dei Notturni del compositore estone Tõnu Kõrvits, che costituiscono la sezione contemporanea dell’album. In questo numero di De Musica è presente un’ampia recensione del disco curata da Marco Targa, docente di musicologia e storia della musica, alla quale è possibile giungere attraverso un percorso privilegiato: l’intervista al Duo realizzata da Carlo Serra. L’intervista, tenutasi nel 2020 e della quale proponiamo la trascrizione qui di seguito, si posiziona in un momento fecondo: tra il ricordo di ciò che è stato – gli album precedenti, tra i quali spicca il più recente del 2018 –, e il desiderio di ciò che sarà – dunque il nuovo lavoro d’incisione che sembra fare capolino dietro quell’ultimo «ci sono tante cose che ci piacerebbe registrare, davvero molte» che chiude l’intervista. 1° novembre 2020, Museo del Palazzo Reale di Torino, mezzogiorno. Ad apertura, un battito di campane, a cui il Duo ha risposto telepaticamente esclamando un divertito «Arvo Pärt!». CS: «L’idea che accompagna questa intervista è evitare una conversazione troppo musicologica, per concentrare l’attenzione su un tema specifico: l’ascolto fra musicisti. Cosa vuol dire ascoltare e cosa vuol dire ascoltarsi?». Duo: «Ascoltare è la base della nostra arte, perché l’attenzione che dobbiamo riservare all’altro è il principio di ogni cosa, e quindi anche della musica da camera: è l’aspetto interessante di tutto quello che facciamo. Non si tratta di un’operazione in due tempi, prima ascoltare se stessi e poi gli altri, o 169 De Musica, 2022 – XXVI (2) viceversa, ma accade assieme: si tratta di ascoltarsi interiormente, capendo quando lasciar la parola all’altro o dire la propria opinione. Questo, che è il principio fondante della musica da camera, dovrebbe essere il principio della vita di tutti i giorni. Ieri, durante una conversazione dopo un nostro concerto, ci è stato detto che il Politecnico di Torino ha un coro, ma non un’orchestra. Li abbiamo invitati a provare ad aprirne una, pure studentesca, perché anche nel contesto orchestrale, che impone la stessa qualità di ascolto presente nella musica da camera, un giovane può comprendere cosa significhi interagire, mantenendo un proprio spazio: per evitare il caos, ma anche per mantenere la tensione di una propria presenza nello sviluppo dell’ascolto». CS: «In una vecchia intervista, Claudio Abbado raccontava di un viaggio in treno e della tensione che caratterizza una persona che sappia ascoltare, qualcosa di raro ormai da incontrare, facendo un elogio della passività, rovesciando quasi un luogo comune, che vede nell’ascolto un seguire neutralizzato. Nel 1951, Alfred Schütz scriveva che, per comprendere l’essenza del linguaggio, e non solo il suo senso comunicativo, bisognerebbe guardare al modello della musica da camera, alle sue forme di integrazione non verbale. Il punto di partenza della sua discussione è uno studio sulla natura delle forme del ricordo e del tempo in Maurice Halbwachs, un testo che pone nella memoria sociale, e nella scrittura musicale, l’essenza del ricordo musicale, il modo in cui esso viene tramandato di generazione in generazione. Schütz osserva che la pratica della musica da camera smentisce proprio questa idea conservativa della scrittura musicale, e che l’esecutore, non può limitarsi a interpretare la propria parte, che, come tale, rimane necessariamente frammentaria, ma deve prevedere, in anticipo, l’interpretazione che l’altro deve dare della sua parte, meglio ancora le anticipazioni che l’altro ha, della propria esecuzione. La libertà di ciascuno di interpretare il pensiero dell’autore, è limitata dalla libertà accorpata dall’altro, oltre che dall’autore. E così, ascoltando l’altro, effettuo continuamente proiezioni di me stesso, teso verso una continua riplasmazione del suono nel tempo, che accade nel risuonare della musica, nella forma di un’anticipazione 170 De Musica, 2022 – XXVI (2) quasi istantanea, per poter sostenere, nello stesso momento, la parte del conduttore e quella del gregario, cogliendo in anticipo la dimensione che potrà assumere l’interpretazione dell’altro. I due condividono non solo la durata interna, lo scorrere del tempo nel quale si realizza il contenuto della musica eseguita, ma ciascuno, simultaneamente e nell’immediato, condivide, nel presente vivido, il flusso di coscienza dell’altro. Con queste espressioni, il viaggio nella musica sembra più un viaggio nel tempo che uno sprofondamento nella coscienza dell’altro. Voi come la vedete?». Duo: «Sicuramente vi è una compenetrazione che mette in gioco lo studio della forma complessiva del brano non fermandosi sul singolo strumento, ma, di fatto, per quanto si provi, il momento del concerto è altro, perché sei di fronte al pubblico e devi gestire delle emozioni che, in sede di prova, avverti in modo diverso, e questo flusso devi mediarlo e tenerlo sotto controllo, in qualche modo [si guardano e ridono]. In quei momenti è bello sentire che fai parte di un’unità. In alcuni momenti ti senti più debole, o avverti la debolezza dell’altro, e in quei momenti può accadere di trovare un nuovo modo di bilanciarsi, e senti che respiri, proprio per questo, nella stessa maniera. Poi, andrebbe detto che il rapporto non è mai a due ma è sempre almeno a tre, perché l’autore esiste, e, a dirla tutta, a quattro, perché il pubblico c’è, si sente, partecipa, entra, anche se non vuole, in gioco». CS: «Mi sembra che emerga perentoriamente un tema da quanto detto: cosa vuol dire condividere un ritmo? O, in altri termini, scegliere insieme una condotta temporale per un brano musicale? In che modo condividete un ritmo? La musica scorre tutta nel tempo e lo aveva capito bene Leonardo Da Vinci quando sostenne che “la musica mentre si fa si disfa”, e per questo la musica non può diventare un’arte dell’armonia perché si brucia tutta nel tempo. Eppure qualcosa la preserva: la scansione che il musicista dà al brano, la sua articolazione. Quando si studia, però, i metronomi e le indicazioni in chiave possono sembrare castranti dato che poi, dentro la musica, sembra che 171 De Musica, 2022 – XXVI (2) ci sia un metro interno alla natura del brano che va completamente da un’altra parte…» Duo: «Occorre dire che il metronomo serve solo da indicazione. Sono invece fondamentali per noi le indicazioni agogiche perché è lì che si annida il senso del brano, la sua natura. In generale, importante è lo sforzo di rispettare ciò che l’autore ha scritto. Ad esempio, studiando la Sonata in La maggiore di César Franck ci siamo rese conto che alcune scelte che ancora oggi si sentono nelle diverse incisioni sono presenti per abitudine, in forma dunque di consuetudine. Infatti se poi si va a guardare la partitura si scopre che il compositore scrive tutt’altro. D’altro canto nella Sonata postuma di Ravel che abbiamo registrato ci siamo rese conto che il compositore segnalava ogni cosa con un’attenzione tanto meticolosa quanto impressionate!». CS: «A proposito di Ravel, nella Sonata l’irrompere del pianoforte è unico. Mentre in Franck sono presenti nel testo molte rarefazioni inevitabili: come sosteneva Richter, Franck va suonato misticamente. La vostra esecuzione invece permette di far emergere la struttura della composizione e, per certi versi, anche di disambiguare elementi che altrimenti rimarrebbero abbuiati. Questo non significa semplificare, ma è un fecondo ritorno al testo, non trovate?». Duo: «La nostra formazione culturale è classica, e questo credo abbia stimolato un contatto diretto con il testo. Non a caso, entrambi i nostri genitori sono laureati in filologia classica e questo rigore, metodo e senso della misura nei confronti del testo crediamo possa derivare proprio da lì, e diventa l’obiettivo da rispettare nelle nostre incisioni. Poi, certo, ciò che dice l’autore è sacro: va prestata la massima attenzione». CS: «È proprio vero: ciò che indica l’autore è una trappola. Mi viene in mente un’intervista di Toscanini: andò a trovare Verdi dopo aver eseguito il suo Requiem aggiungendo un rallentando là dove il compositore non aveva indicato nulla. Credeva di essere redarguito da Verdi ma invece, quest’ultimo, 172 De Musica, 2022 – XXVI (2) gli disse che aveva fatto bene ad aggiungerlo. A quel punto Toscanini chiese al compositore perché non lo avesse scritto in partitura e Verdi rispose che questo è compito dell’esecutore, capire dove ad esempio va inserito un rallentando. In questo senso il vostro “facciamo tutto com’è scritto” mi sembra sia in realtà una scommessa incredibile con se stessi perché tutto quello che è scritto nasconde un sacco di cose…». Duo: «Senz’altro. Ad esempio, nel terzo movimento della Sonata di Poulenc è presente un accelerando che noi non eseguiamo. A nostro avviso, infatti, questa indicazione non porta a una trasparenza del testo, ma anzi confonde la natura del brano. Il tema, in quel punto, deve uscire dal pianoforte in mezzo a mille accordi distinti e un accelerando non fa altro che confondere ancor di più le cose. Allora abbiamo deciso di smussare quell’indicazione, alleggerendola con un tempo più moderato affinché possano ascoltarsi le varie voci interne. In generale, la paura di non fare quello che il compositore vorrebbe è il sintomo di un’altra paura forse ancora più grande: travisare il testo, andare fuori dalla poetica del compositore, fuori dal suo stile». CS: «Quello dello stile è un tema interessante se pensiamo al trasversale repertorio che vi trovate a frequentare, spesso proveniente da differenti stagioni della storia della musica. Franck, Hindemith, Takemitsu, solo per citarne alcuni. Mi sembra che queste scelte siano sintomi della volontà di riflettere in merito a ciò che del Novecento si è detto e a ciò che del Novecento non si è detto – pensiamo al trattamento ricevuto da Hindemith in Italia. Allora mi verrebbe da chiedervi, forse un po’ troppo temerariamente, come lo vedete voi il Novecento musicale? Dato che la mia generazione l’ha visto troppo spesso in termini dialettici: uno per tutti Stravinsky contro Schönberg, quando poi non era affatto così. Che cosa è stato per voi? Come lo vedete?». Duo: «Il Novecento è senz’altro estremamente variegato: Scuola di Vienna, Neo-classicismo e così via. Però ciò che a noi interessa sono le voci fuori dal coro: pensiamo a Messiaen, che abbiamo inciso, e al suo uso del ritmo; oppure 173 De Musica, 2022 – XXVI (2) a Ligeti, anche questo da noi inciso, che insieme a Messiaen costituisce un gruppo di grandi isolati mai pienamente ascrivibili a correnti». CS: «Grandi isolati, è vero. La questione di Messiaen incuriosisce molto: è sempre stato considerato dai suoi allievi e colleghi una sorta di geniale ferro vecchio; ma se si vanno ad ascoltare le sue composizioni da Mode de valeurs et d’intensités in poi, la qualità di scrittura è immensa. Inoltre tutti i suoi allievi lo hanno omaggiato: da Stockhausen a Boulez. Questo è interessante perché racconta un altro aspetto del Novecento: una cosa sono le riflessioni filosofiche/musicologiche/sociologiche, un’altra è la stima che i compositori ripongono tra loro. Messiaen rappresenta poi un’apertura a 360 gradi su tutta la musica del mondo: non è un compositore eurocentrico, pur avendo una cultura europea…». Duo: «Certamente. Basti pensare all’influenza della musica giapponese oppure all’uso dei silenzi. Ci sono in lui degli elementi extra-europei che diventano per noi alcuni dei fili rossi su cui basare le nostre incisioni. Ad esempio nel suo Théme et variations da noi inciso troviamo dei clusters: accordi che, secondo noi, fanno parte della sua visione mistica ma anche della sua formazione da ornitologo. Sono uccelli che parlano un linguaggio che non è il nostro, eppure li capiamo. Ci viene in mente, a questo proposito, Roma e l’onnipresente canto degli uccelli; lì, la primavera, c’è sempre. A Berlino questo manca, e ci dispiace molto». CS: «É assolutamente vero. A questo proposito, occorre dire che, tutte le volte in cui Messiaen fa cantare un uccello, è sempre un uccello simbolico. In Alouette lulu la tottavilla è la voce del cielo, mentre l’usignolo la voce della terra; si cercano ma non si riescono ad incontrare. Così Messiaen ci insegna, ad esempio, che l’ascolto è una struttura composta ed è da qui che l’etnomusicologia ha imparato a lavorare un suono nello sfondo dal quale si staglia. Messiaen ci fa sentire la voce degli uccelli e gli intrecci che si riempiono di strutture simboliche portatrici di infiniti elementi di senso. Da Messiaen però vi spostate su compositori del tutto differenti, tagliando spesso 174 De Musica, 2022 – XXVI (2) trasversalmente un periodo storico e ponendo insieme compositori diversi temporalmente e geograficamente. Nel Novecento in sessant’anni è successo di tutto, a differenza del Settecento o, volendo, anche dell’Ottocento. Perché questa scelta? Gusto personale, senso della ricerca o genuino piacere dell’accostamento?». Duo: «Un po’ tutte le cose insieme. Senz’altro interesse e curiosità nel cercare il dialogo tra compositori diversi sia cronologicamente che geograficamente. Ma soprattutto perché si tratta di un repertorio inesplorato: quando abbiamo studiato la Sonata in Mi maggiore di Hindemith abbiamo avuto difficoltà nel reperire registrazioni. Sembra che pochi apprezzino Hindemith…». CS: «Hindemith è stato un compositore del Novecento schiacciato e, i motivi sui quali si è fondata questa operazione di abbuiamento, erano in realtà le sue virtù. Hindemith ha mille elementi in un secolo in cui ognuno ha fatto finta di cercare un unico linguaggio attraverso cui tradurre tutto: ciascuno cercava delle sintesi e, quella di Hindemith, era la sintesi meno spettacolare di tutte. Eppure Abbado lo ha diretto moltissimo. Però sì, c’è una ritrosia da parte del pubblico ma dovuta solo al fatto che non lo si conosce abbastanza». Duo: «Noi abbiamo avuto la fortuna di avere come maestro Corrado Romano, che aveva studiato composizione proprio con Hindemith: fu lui a introdurci al suo mondo. E, a dirla tutta, doveva essere anche un uomo molto spiritoso Hindemith: abbiamo visto molte fotografie che ci hanno dato questa sensazione alla “Hindemith Fondation”, a Blonay in Svizzera». CS: «Non solo simpatico, direi anche generoso! Fu Hindemith a dirigere per la prima volta in Italia i pezzi per orchestra di Webern al Maggio Fiorentino. E voi, invece, perché vi siete rivolte a Hindemith?». Duo: «La risposta è secca: perché ci piaceva troppo!». CS: «Il piacere che l’ascolto di una musica suscita: meravigliosa risposta!». 175 De Musica, 2022 – XXVI (2) Duo: «Tutte le nostre decisioni nascono da una scelta di piacere; anche compositori che non conosciamo vengono messi alla prova per vedere se, dopo lo studio, possa nascere un piacere sincero verso le loro composizioni. Per noi un’appagante giudizio estetico è conditio sine qua non per intraprendere lo studio di un brano. Spesso, andando in cerca del puro piacere, ci si rende conto di quanto si erano trascurate composizioni meravigliose. L’attitudine non appartiene solo alla dimensione dell’ascolto, ma anche a quella dello studio: noi studiamo sempre con felicità. Nonostante ci siano brani, nei nostri dischi, scomodissimi ci scontriamo con il fatto che si tratta di musica talmente bella che ci si riesce a passare sopra. Schumann, in particolar modo, è molto scomodo al violino; e al pianoforte è terribilmente difficile la resa sonora. Ma il gioco vale sempre la candela…». CS: «Va anche detto che intorno a Schumann si è costruita una mistificazione ad opera di Brahms e Clara Schumann, che hanno corretto le sue partiture ed è solo da poco che gli originali vengono eseguiti. Il problema è che Schumann ha sempre in mente qualcosa che sa solo lui. Le citazioni di Haydn, ad esempio, sono spettrali, non trionfanti, volutamente deboli. Questo lo aveva capito bene Mahler che, provando a trascrivere Schumann, ottiene questo effetto ingigantendole. Ma tutto Schumann è stato falsificato dai suoi due eredi testamentari che hanno voluto mettergli un abito che non era il suo. E invece, in questo repertorio trasversale, il Giappone come lo collocate? Come arrivate alla scelta di Takemitsu?». Duo: «Tutto nasce dalla curiosità di scoprire la musica dei paesi che visitiamo. Quando ci rechiamo in posti così lontani come il Giappone sentiamo la necessità di effettuare delle ricerche sulla loro cultura musicale. In Vietnam e Corea, ad esempio, abbiamo conosciuto dei compositori locali, e in Giappone è successo qualcosa di simile. Io sono molto appassionata [parla Raffaella Gazzana] della cultura giapponese: letteratura, film e, persino, calciatori giapponesi [ridono insieme]. Mi aveva incuriosito Takemitsu per le colonne sonore dei film come, ad esempio, La donna di 176 De Musica, 2022 – XXVI (2) sabbia di Hiroshi Teshigahara, e ho cominciato ad ascoltarlo. Fondamentale, a mio avviso, è che lui pur avendo studiato in Giappone sostiene di aver ascoltato jazz. Questo mi ha incuriosito perché è sintomo di un’apertura enorme: all’inizio del Novecento il Giappone era molto chiuso ma, nonostante ciò, Takemitsu è riuscito a trovare il giusto equilibrio tra recupero della tradizione e innovazione. Insieme con l’apertura alla cultura occidentale ha infatti voluto integrare nella sua musica anche strumenti musicali giapponesi, come lo shamisen». CS: «Sono d’accordo, è un segno di profonda apertura. A questo proposito ricordo che, tanti anni fa, tenni un seminario con due musicisti di Takemitsu presso la Civica di Milano. In quell’occasione mi hanno raccontato che Takemitsu è stato il primo a ridare un’identità nazionale al Giappone perché la musica nazionale giapponese nasce con un forte gesto di cancellazione della tradizione, che Takemitsu invece rimette in gioco. È possibile parlare, con Takemitsu, di un Rinascimento della cultura giapponese dato che è riuscito a creare intorno a sé un circuito di cantanti, registi, compositori, strumentisti e letterati giapponesi che prima non esisteva. Ed era senz’altro apertissimo alle influenze del mondo occidentale, aperto al punto tale da cercare persino dei rumoristi. In questo è stato davvero un precursore: voleva riaprire la tradizione giapponese attraverso una musica popolare che si era fantasmizzata, come accaduto anche per quella cinese». Duo: «Durante le lezioni con il maestro Canino quest’ultimo ci raccontava che, molte delle melodie giapponesi che oggi noi reputiamo “tradizionali”, sono state scritte invece da tedeschi…». CS: «Purtroppo è una situazione spiacevole nonché estremamente complessa. Dopo aver perso la guerra cancellarono tutto: alcune isole culturali si sono salvate, ma gran parte della cultura giapponese antica è un’invenzione moderna, e credo che Takemitsu sapesse molto bene questo. A proposito di apertura verso la tradizione occidentale, le trascrizioni di Takemitsu per chitarra di brani dei Beatles sono meravigliose!». 177 De Musica, 2022 – XXVI (2) Duo: «Una chiara dimostrazione di apertura della cultura orientale verso quella occidentale, ma non sempre avviene il contrario. Ad esempio, ci siamo sforzate molto di comprendere il pensiero della cultura orientale prima di eseguire questo autore. A questo proposito il concetto di “ripetizione” presente nella poetica compositiva orientale per noi occidentali è noioso o addirittura ingestibile. Al contrario, prendersi del tempo per ripetere e, dunque, arricchire la ripetizione poco a poco, è un’operazione che accumuna molti artisti non solo musicali: anche performers o artisti dell’arte figurativa. Quello della ripetizione è un aspetto che ci è piaciuto moltissimo e che, crediamo, possa aver influenzato molti compositori contemporanei, come Arvo Pärt». CS: «Arvo Pärt, nel suo spogliarsi dal serialismo, ha certamente inteso Takemitsu come un polo di riferimento, dato che in lui è presente una ripetizione che non è però minimalismo…». Duo: «É come se mancasse uno sviluppo, non c’è una catarsi!». CS: «‘non c’è una catarsi’, è una frase sublime su cui concordo: c’è una sospensione delle nostre attese, una rarefazione ma intrisa di un lirismo spaventoso, anche nei pezzi più arditi. Toglietemi una curiosità: prossimo progetto discografico?». Duo: «Non ne abbiamo ancora parlato, ci sono tante cose che ci piacerebbe registrare, davvero molte. Uno dei nostri sogni sarebbe l’op. 80 di Prokofiev…». 178