Un ritratto in divenire
(Per il Duo Gazzana)*
Matteo Chiellino – Carlo Serra
«Wellental der Emotionen» (Südwest Presse), «Italienishe blüten»
(Crescendo), «Gazzana subtil» (Süddeutsche Zeitung), «imaginative playing,
and willingness to color outside the customary lines» (Fanfare Magazine);
sono solo alcune delle testimonianze che il Duo Gazzana ha collezionato e
che permettono di comprendere i motivi di un primato tuttora integro: essere
i soli nomi italiani nell’ambito della classica all’interno del catalogo della
prestigiosa etichetta ECM Records.
Costituito il Duo Gazzana, le sorelle Natascia e Raffaella Gazzana
intraprendono studi paralleli che permettono loro di stabilire un
orientamento poetico comune. Entrambe conseguono infatti la laurea in
lettere presso l’Università “La Sapienza” di Roma: Natascia con indirizzo in
Storia dell’arte e Raffaella in Musicologia, quest’ultima con una tesi sulla
Toccata di William Walton. Al contempo, conducono gli studi musicali tra
Roma, Ginevra, Bruxelles, Siena, Losanna, Fiesole e Salisburgo,
frequentando maestri come Bruno Canino, Yehudi Menuhin, Corrado
Romano, Uto Ughi, Piero Farulli, Pierre Amoyal, Pavel Gililov e Ruggiero
Ricci. Tenendo frequentemente concerti e masterclass tra Americhe, Africa,
Asia e Oceania, sviluppano un’intima relazione con l’Oriente grazie ai
*
Sebbene il presente lavoro si fondi sul continuo dialogo tra i due autori in un orizzonte di
autorialità condivisa, è possibile precisare che l’introduzione all’intervista e la trascrizione
della stessa sono a cura di Matteo Chiellino.
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concerti in Giappone, Vietnam, Corea del Sud, Singapore e Hong Kong. Fra
le innumerevoli esibizioni, è il caso di ricordare il concerto per il Principe
Carlo di Inghilterra e il seguente in Myanmar per il Consigliere di Stato e
Premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi. Il Duo Gazzana ha inoltre
tenuto concerti al Quirinale in diretta euroradio ed è tra le poche formazioni
femminili ad essersi esibite in Iran. Esemplari della posizione centrale che il
Duo Gazzana occupa nell’attuale panorama musicale sono, da una parte, le
opere ad esso dedicate da compositori come Valentin Silvestrov, Đặng Hữu
Phúc, Fabio Maffei, Tonu Kõrvits e Bruno Canino e, dall’altra, le frequenti
candidature che i loro album ricevono da parte di importanti premi quali
l’International Classical Music Awards e l’Opus Klassik di Berlino.
È stata l’etichetta tedesca diretta da Manfred Eicher a decretare il debutto
discografico del Duo con l’album Five pieces (ECM, 23 settembre 2011) che
riprende il titolo dal lavoro per violino e pianoforte di Valentin Silvestrov,
collocato a conclusione del disco dopo i lavori di Takemitsu, Hindemith e
Janácek. Wolfgang Sandner nel booklet scrive: «Il programma nel suo
insieme è tipico dell’approccio curioso e sensibile al repertorio del Duo. Ciò
che si percepisce è una freschezza vitale». Nel 2014 è il turno del loro secondo
album (ECM, 4 aprile 2014) che mediante autori del XX e XXI secolo
(Poulenc, Walton, Dallapiccola, Schnittke e Silvestrov) riunisce diversi paesi
(Francia, Gran Bretagna, Italia, Russia e Ucraina) ponendo l’accento su
antiche forme musicali (toccata, suite, canone, variazioni) attraversate da
nuove tecniche compositive. Quattro anni più tardi il loro terzo album (ECM,
20 aprile 2018) è dedicato quasi interamente alla musica di area francofona
con César Franck, Maurice Ravel e Olivier Messiaen, rendendo al contempo
omaggio anche all’ungherese György Ligeti grazie alla prima incisione del
suo Duo per violino e pianoforte. Rispetto al precedente, questo album punta
i piedi nell’Ottocento con la Sonate posthume di Ravel e la monumentale
Sonata in La Maggiore di Franck poste ad apertura. L’ingente successo
ottenuto dal disco è stato ben riassunto dal BBC Music Magazine che ha
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definito la loro interpretazione della Sonata per violino di César Franck «una
masterclass».
Il quarto, e al momento ultimo, disco del Duo (ECM, 28 ottobre 2022)
prosegue l’esplorazione del XIX secolo con le interpretazioni della Sonata
op. 105 di Schumann e della Sonata op. 45 di Grieg. Oltre a queste, troviamo
le prime incisioni della Stalker Suite e dei Notturni del compositore estone
Tõnu Kõrvits, che costituiscono la sezione contemporanea dell’album. In
questo numero di De Musica è presente un’ampia recensione del disco curata
da Marco Targa, docente di musicologia e storia della musica, alla quale è
possibile giungere attraverso un percorso privilegiato: l’intervista al Duo
realizzata da Carlo Serra.
L’intervista, tenutasi nel 2020 e della quale proponiamo la trascrizione qui
di seguito, si posiziona in un momento fecondo: tra il ricordo di ciò che è
stato – gli album precedenti, tra i quali spicca il più recente del 2018 –, e il
desiderio di ciò che sarà – dunque il nuovo lavoro d’incisione che sembra
fare capolino dietro quell’ultimo «ci sono tante cose che ci piacerebbe
registrare, davvero molte» che chiude l’intervista.
1° novembre 2020, Museo del Palazzo Reale di Torino,
mezzogiorno. Ad apertura, un battito di campane, a cui
il Duo ha risposto telepaticamente esclamando un
divertito «Arvo Pärt!».
CS: «L’idea che accompagna questa intervista è evitare una conversazione
troppo musicologica, per concentrare l’attenzione su un tema specifico:
l’ascolto fra musicisti. Cosa vuol dire ascoltare e cosa vuol dire ascoltarsi?».
Duo: «Ascoltare è la base della nostra arte, perché l’attenzione che dobbiamo
riservare all’altro è il principio di ogni cosa, e quindi anche della musica da
camera: è l’aspetto interessante di tutto quello che facciamo. Non si tratta di
un’operazione in due tempi, prima ascoltare se stessi e poi gli altri, o
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viceversa, ma accade assieme: si tratta di ascoltarsi interiormente, capendo
quando lasciar la parola all’altro o dire la propria opinione. Questo, che è il
principio fondante della musica da camera, dovrebbe essere il principio della
vita di tutti i giorni. Ieri, durante una conversazione dopo un nostro concerto,
ci è stato detto che il Politecnico di Torino ha un coro, ma non un’orchestra.
Li abbiamo invitati a provare ad aprirne una, pure studentesca, perché anche
nel contesto orchestrale, che impone la stessa qualità di ascolto presente nella
musica da camera, un giovane può comprendere cosa significhi interagire,
mantenendo un proprio spazio: per evitare il caos, ma anche per mantenere la
tensione di una propria presenza nello sviluppo dell’ascolto».
CS: «In una vecchia intervista, Claudio Abbado raccontava di un viaggio in
treno e della tensione che caratterizza una persona che sappia ascoltare,
qualcosa di raro ormai da incontrare, facendo un elogio della passività,
rovesciando quasi un luogo comune, che vede nell’ascolto un seguire
neutralizzato. Nel 1951, Alfred Schütz scriveva che, per comprendere
l’essenza del linguaggio, e non solo il suo senso comunicativo, bisognerebbe
guardare al modello della musica da camera, alle sue forme di integrazione
non verbale. Il punto di partenza della sua discussione è uno studio sulla
natura delle forme del ricordo e del tempo in Maurice Halbwachs, un testo
che pone nella memoria sociale, e nella scrittura musicale, l’essenza del
ricordo musicale, il modo in cui esso viene tramandato di generazione in
generazione. Schütz osserva che la pratica della musica da camera smentisce
proprio questa idea conservativa della scrittura musicale, e che l’esecutore,
non può limitarsi a interpretare la propria parte, che, come tale, rimane
necessariamente
frammentaria,
ma
deve
prevedere,
in
anticipo,
l’interpretazione che l’altro deve dare della sua parte, meglio ancora le
anticipazioni che l’altro ha, della propria esecuzione. La libertà di ciascuno di
interpretare il pensiero dell’autore, è limitata dalla libertà accorpata dall’altro,
oltre che dall’autore. E così, ascoltando l’altro, effettuo continuamente
proiezioni di me stesso, teso verso una continua riplasmazione del suono nel
tempo, che accade nel risuonare della musica, nella forma di un’anticipazione
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quasi istantanea, per poter sostenere, nello stesso momento, la parte del
conduttore e quella del gregario, cogliendo in anticipo la dimensione che
potrà assumere l’interpretazione dell’altro. I due condividono non solo la
durata interna, lo scorrere del tempo nel quale si realizza il contenuto della
musica eseguita, ma ciascuno, simultaneamente e nell’immediato, condivide,
nel presente vivido, il flusso di coscienza dell’altro. Con queste espressioni,
il viaggio nella musica sembra più un viaggio nel tempo che uno
sprofondamento nella coscienza dell’altro. Voi come la vedete?».
Duo: «Sicuramente vi è una compenetrazione che mette in gioco lo studio
della forma complessiva del brano non fermandosi sul singolo strumento, ma,
di fatto, per quanto si provi, il momento del concerto è altro, perché sei di
fronte al pubblico e devi gestire delle emozioni che, in sede di prova, avverti
in modo diverso, e questo flusso devi mediarlo e tenerlo sotto controllo, in
qualche modo [si guardano e ridono]. In quei momenti è bello sentire che fai
parte di un’unità. In alcuni momenti ti senti più debole, o avverti la debolezza
dell’altro, e in quei momenti può accadere di trovare un nuovo modo di
bilanciarsi, e senti che respiri, proprio per questo, nella stessa maniera. Poi,
andrebbe detto che il rapporto non è mai a due ma è sempre almeno a tre,
perché l’autore esiste, e, a dirla tutta, a quattro, perché il pubblico c’è, si sente,
partecipa, entra, anche se non vuole, in gioco».
CS: «Mi sembra che emerga perentoriamente un tema da quanto detto: cosa
vuol dire condividere un ritmo? O, in altri termini, scegliere insieme una
condotta temporale per un brano musicale? In che modo condividete un
ritmo? La musica scorre tutta nel tempo e lo aveva capito bene Leonardo Da
Vinci quando sostenne che “la musica mentre si fa si disfa”, e per questo la
musica non può diventare un’arte dell’armonia perché si brucia tutta nel
tempo. Eppure qualcosa la preserva: la scansione che il musicista dà al brano,
la sua articolazione. Quando si studia, però, i metronomi e le indicazioni in
chiave possono sembrare castranti dato che poi, dentro la musica, sembra che
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ci sia un metro interno alla natura del brano che va completamente da un’altra
parte…»
Duo: «Occorre dire che il metronomo serve solo da indicazione. Sono invece
fondamentali per noi le indicazioni agogiche perché è lì che si annida il senso
del brano, la sua natura. In generale, importante è lo sforzo di rispettare ciò
che l’autore ha scritto. Ad esempio, studiando la Sonata in La maggiore di
César Franck ci siamo rese conto che alcune scelte che ancora oggi si sentono
nelle diverse incisioni sono presenti per abitudine, in forma dunque di
consuetudine. Infatti se poi si va a guardare la partitura si scopre che il
compositore scrive tutt’altro. D’altro canto nella Sonata postuma di Ravel che
abbiamo registrato ci siamo rese conto che il compositore segnalava ogni cosa
con un’attenzione tanto meticolosa quanto impressionate!».
CS: «A proposito di Ravel, nella Sonata l’irrompere del pianoforte è unico.
Mentre in Franck sono presenti nel testo molte rarefazioni inevitabili: come
sosteneva Richter, Franck va suonato misticamente. La vostra esecuzione
invece permette di far emergere la struttura della composizione e, per certi
versi, anche di disambiguare elementi che altrimenti rimarrebbero abbuiati.
Questo non significa semplificare, ma è un fecondo ritorno al testo, non
trovate?».
Duo: «La nostra formazione culturale è classica, e questo credo abbia
stimolato un contatto diretto con il testo. Non a caso, entrambi i nostri genitori
sono laureati in filologia classica e questo rigore, metodo e senso della misura
nei confronti del testo crediamo possa derivare proprio da lì, e diventa
l’obiettivo da rispettare nelle nostre incisioni. Poi, certo, ciò che dice l’autore
è sacro: va prestata la massima attenzione».
CS: «È proprio vero: ciò che indica l’autore è una trappola. Mi viene in mente
un’intervista di Toscanini: andò a trovare Verdi dopo aver eseguito il suo
Requiem aggiungendo un rallentando là dove il compositore non aveva
indicato nulla. Credeva di essere redarguito da Verdi ma invece, quest’ultimo,
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gli disse che aveva fatto bene ad aggiungerlo. A quel punto Toscanini chiese
al compositore perché non lo avesse scritto in partitura e Verdi rispose che
questo è compito dell’esecutore, capire dove ad esempio va inserito un
rallentando. In questo senso il vostro “facciamo tutto com’è scritto” mi
sembra sia in realtà una scommessa incredibile con se stessi perché tutto
quello che è scritto nasconde un sacco di cose…».
Duo: «Senz’altro. Ad esempio, nel terzo movimento della Sonata di Poulenc
è presente un accelerando che noi non eseguiamo. A nostro avviso, infatti,
questa indicazione non porta a una trasparenza del testo, ma anzi confonde la
natura del brano. Il tema, in quel punto, deve uscire dal pianoforte in mezzo
a mille accordi distinti e un accelerando non fa altro che confondere ancor di
più le cose. Allora abbiamo deciso di smussare quell’indicazione,
alleggerendola con un tempo più moderato affinché possano ascoltarsi le
varie voci interne. In generale, la paura di non fare quello che il compositore
vorrebbe è il sintomo di un’altra paura forse ancora più grande: travisare il
testo, andare fuori dalla poetica del compositore, fuori dal suo stile».
CS: «Quello dello stile è un tema interessante se pensiamo al trasversale
repertorio che vi trovate a frequentare, spesso proveniente da differenti
stagioni della storia della musica. Franck, Hindemith, Takemitsu, solo per
citarne alcuni. Mi sembra che queste scelte siano sintomi della volontà di
riflettere in merito a ciò che del Novecento si è detto e a ciò che del Novecento
non si è detto – pensiamo al trattamento ricevuto da Hindemith in Italia.
Allora mi verrebbe da chiedervi, forse un po’ troppo temerariamente, come
lo vedete voi il Novecento musicale? Dato che la mia generazione l’ha visto
troppo spesso in termini dialettici: uno per tutti Stravinsky contro Schönberg,
quando poi non era affatto così. Che cosa è stato per voi? Come lo vedete?».
Duo: «Il Novecento è senz’altro estremamente variegato: Scuola di Vienna,
Neo-classicismo e così via. Però ciò che a noi interessa sono le voci fuori dal
coro: pensiamo a Messiaen, che abbiamo inciso, e al suo uso del ritmo; oppure
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a Ligeti, anche questo da noi inciso, che insieme a Messiaen costituisce un
gruppo di grandi isolati mai pienamente ascrivibili a correnti».
CS: «Grandi isolati, è vero. La questione di Messiaen incuriosisce molto: è
sempre stato considerato dai suoi allievi e colleghi una sorta di geniale ferro
vecchio; ma se si vanno ad ascoltare le sue composizioni da Mode de valeurs
et d’intensités in poi, la qualità di scrittura è immensa. Inoltre tutti i suoi
allievi lo hanno omaggiato: da Stockhausen a Boulez. Questo è interessante
perché racconta un altro aspetto del Novecento: una cosa sono le riflessioni
filosofiche/musicologiche/sociologiche, un’altra è la stima che i compositori
ripongono tra loro. Messiaen rappresenta poi un’apertura a 360 gradi su tutta
la musica del mondo: non è un compositore eurocentrico, pur avendo una
cultura europea…».
Duo: «Certamente. Basti pensare all’influenza della musica giapponese
oppure all’uso dei silenzi. Ci sono in lui degli elementi extra-europei che
diventano per noi alcuni dei fili rossi su cui basare le nostre incisioni. Ad
esempio nel suo Théme et variations da noi inciso troviamo dei clusters:
accordi che, secondo noi, fanno parte della sua visione mistica ma anche della
sua formazione da ornitologo. Sono uccelli che parlano un linguaggio che non
è il nostro, eppure li capiamo. Ci viene in mente, a questo proposito, Roma e
l’onnipresente canto degli uccelli; lì, la primavera, c’è sempre. A Berlino
questo manca, e ci dispiace molto».
CS: «É assolutamente vero. A questo proposito, occorre dire che, tutte le volte
in cui Messiaen fa cantare un uccello, è sempre un uccello simbolico. In
Alouette lulu la tottavilla è la voce del cielo, mentre l’usignolo la voce della
terra; si cercano ma non si riescono ad incontrare. Così Messiaen ci insegna,
ad esempio, che l’ascolto è una struttura composta ed è da qui che
l’etnomusicologia ha imparato a lavorare un suono nello sfondo dal quale si
staglia. Messiaen ci fa sentire la voce degli uccelli e gli intrecci che si
riempiono di strutture simboliche portatrici di infiniti elementi di senso. Da
Messiaen però vi spostate su compositori del tutto differenti, tagliando spesso
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trasversalmente un periodo storico e ponendo insieme compositori diversi
temporalmente e geograficamente. Nel Novecento in sessant’anni è successo
di tutto, a differenza del Settecento o, volendo, anche dell’Ottocento. Perché
questa scelta? Gusto personale, senso della ricerca o genuino piacere
dell’accostamento?».
Duo: «Un po’ tutte le cose insieme. Senz’altro interesse e curiosità nel cercare
il dialogo tra compositori diversi sia cronologicamente che geograficamente.
Ma soprattutto perché si tratta di un repertorio inesplorato: quando abbiamo
studiato la Sonata in Mi maggiore di Hindemith abbiamo avuto difficoltà nel
reperire registrazioni. Sembra che pochi apprezzino Hindemith…».
CS: «Hindemith è stato un compositore del Novecento schiacciato e, i motivi
sui quali si è fondata questa operazione di abbuiamento, erano in realtà le sue
virtù. Hindemith ha mille elementi in un secolo in cui ognuno ha fatto finta
di cercare un unico linguaggio attraverso cui tradurre tutto: ciascuno cercava
delle sintesi e, quella di Hindemith, era la sintesi meno spettacolare di tutte.
Eppure Abbado lo ha diretto moltissimo. Però sì, c’è una ritrosia da parte del
pubblico ma dovuta solo al fatto che non lo si conosce abbastanza».
Duo: «Noi abbiamo avuto la fortuna di avere come maestro Corrado Romano,
che aveva studiato composizione proprio con Hindemith: fu lui a introdurci
al suo mondo. E, a dirla tutta, doveva essere anche un uomo molto spiritoso
Hindemith: abbiamo visto molte fotografie che ci hanno dato questa
sensazione alla “Hindemith Fondation”, a Blonay in Svizzera».
CS: «Non solo simpatico, direi anche generoso! Fu Hindemith a dirigere per
la prima volta in Italia i pezzi per orchestra di Webern al Maggio Fiorentino.
E voi, invece, perché vi siete rivolte a Hindemith?».
Duo: «La risposta è secca: perché ci piaceva troppo!».
CS: «Il piacere che l’ascolto di una musica suscita: meravigliosa risposta!».
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Duo: «Tutte le nostre decisioni nascono da una scelta di piacere; anche
compositori che non conosciamo vengono messi alla prova per vedere se,
dopo lo studio, possa nascere un piacere sincero verso le loro composizioni.
Per noi un’appagante giudizio estetico è conditio sine qua non per
intraprendere lo studio di un brano. Spesso, andando in cerca del puro piacere,
ci si rende conto di quanto si erano trascurate composizioni meravigliose.
L’attitudine non appartiene solo alla dimensione dell’ascolto, ma anche a
quella dello studio: noi studiamo sempre con felicità. Nonostante ci siano
brani, nei nostri dischi, scomodissimi ci scontriamo con il fatto che si tratta
di musica talmente bella che ci si riesce a passare sopra. Schumann, in
particolar modo, è molto scomodo al violino; e al pianoforte è terribilmente
difficile la resa sonora. Ma il gioco vale sempre la candela…».
CS: «Va anche detto che intorno a Schumann si è costruita una mistificazione
ad opera di Brahms e Clara Schumann, che hanno corretto le sue partiture ed
è solo da poco che gli originali vengono eseguiti. Il problema è che Schumann
ha sempre in mente qualcosa che sa solo lui. Le citazioni di Haydn, ad
esempio, sono spettrali, non trionfanti, volutamente deboli. Questo lo aveva
capito bene Mahler che, provando a trascrivere Schumann, ottiene questo
effetto ingigantendole. Ma tutto Schumann è stato falsificato dai suoi due
eredi testamentari che hanno voluto mettergli un abito che non era il suo. E
invece, in questo repertorio trasversale, il Giappone come lo collocate? Come
arrivate alla scelta di Takemitsu?».
Duo: «Tutto nasce dalla curiosità di scoprire la musica dei paesi che
visitiamo. Quando ci rechiamo in posti così lontani come il Giappone
sentiamo la necessità di effettuare delle ricerche sulla loro cultura musicale.
In Vietnam e Corea, ad esempio, abbiamo conosciuto dei compositori locali,
e in Giappone è successo qualcosa di simile. Io sono molto appassionata
[parla Raffaella Gazzana] della cultura giapponese: letteratura, film e,
persino, calciatori giapponesi [ridono insieme]. Mi aveva incuriosito
Takemitsu per le colonne sonore dei film come, ad esempio, La donna di
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sabbia di Hiroshi Teshigahara, e ho cominciato ad ascoltarlo. Fondamentale,
a mio avviso, è che lui pur avendo studiato in Giappone sostiene di aver
ascoltato jazz. Questo mi ha incuriosito perché è sintomo di un’apertura
enorme: all’inizio del Novecento il Giappone era molto chiuso ma,
nonostante ciò, Takemitsu è riuscito a trovare il giusto equilibrio tra recupero
della tradizione e innovazione. Insieme con l’apertura alla cultura occidentale
ha infatti voluto integrare nella sua musica anche strumenti musicali
giapponesi, come lo shamisen».
CS: «Sono d’accordo, è un segno di profonda apertura. A questo proposito
ricordo che, tanti anni fa, tenni un seminario con due musicisti di Takemitsu
presso la Civica di Milano. In quell’occasione mi hanno raccontato che
Takemitsu è stato il primo a ridare un’identità nazionale al Giappone perché
la musica nazionale giapponese nasce con un forte gesto di cancellazione
della tradizione, che Takemitsu invece rimette in gioco. È possibile parlare,
con Takemitsu, di un Rinascimento della cultura giapponese dato che è
riuscito a creare intorno a sé un circuito di cantanti, registi, compositori,
strumentisti e letterati giapponesi che prima non esisteva. Ed era senz’altro
apertissimo alle influenze del mondo occidentale, aperto al punto tale da
cercare persino dei rumoristi. In questo è stato davvero un precursore: voleva
riaprire la tradizione giapponese attraverso una musica popolare che si era
fantasmizzata, come accaduto anche per quella cinese».
Duo: «Durante le lezioni con il maestro Canino quest’ultimo ci raccontava
che, molte delle melodie giapponesi che oggi noi reputiamo “tradizionali”,
sono state scritte invece da tedeschi…».
CS: «Purtroppo è una situazione spiacevole nonché estremamente complessa.
Dopo aver perso la guerra cancellarono tutto: alcune isole culturali si sono
salvate, ma gran parte della cultura giapponese antica è un’invenzione
moderna, e credo che Takemitsu sapesse molto bene questo. A proposito di
apertura verso la tradizione occidentale, le trascrizioni di Takemitsu per
chitarra di brani dei Beatles sono meravigliose!».
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Duo: «Una chiara dimostrazione di apertura della cultura orientale verso
quella occidentale, ma non sempre avviene il contrario. Ad esempio, ci siamo
sforzate molto di comprendere il pensiero della cultura orientale prima di
eseguire questo autore. A questo proposito il concetto di “ripetizione”
presente nella poetica compositiva orientale per noi occidentali è noioso o
addirittura ingestibile. Al contrario, prendersi del tempo per ripetere e,
dunque, arricchire la ripetizione poco a poco, è un’operazione che accumuna
molti artisti non solo musicali: anche performers o artisti dell’arte figurativa.
Quello della ripetizione è un aspetto che ci è piaciuto moltissimo e che,
crediamo, possa aver influenzato molti compositori contemporanei, come
Arvo Pärt».
CS: «Arvo Pärt, nel suo spogliarsi dal serialismo, ha certamente inteso
Takemitsu come un polo di riferimento, dato che in lui è presente una
ripetizione che non è però minimalismo…».
Duo: «É come se mancasse uno sviluppo, non c’è una catarsi!».
CS: «‘non c’è una catarsi’, è una frase sublime su cui concordo: c’è una
sospensione delle nostre attese, una rarefazione ma intrisa di un lirismo
spaventoso, anche nei pezzi più arditi. Toglietemi una curiosità: prossimo
progetto discografico?».
Duo: «Non ne abbiamo ancora parlato, ci sono tante cose che ci piacerebbe
registrare, davvero molte. Uno dei nostri sogni sarebbe l’op. 80 di
Prokofiev…».
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