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Sezione
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Il primo libro di filosofia teoretica
Una guida per orientarsi tra parole e concetti
A cura di Rossella Fabbrichesi
© 2023 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
www.einaudi.it
ISBN
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978-88-06-00000-0
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Indice
p. vii
Prefazione
Il primo libro di filosofia teoretica
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Filosofia. Una breve introduzione
i. Metafisica. I primi principÎ
ii. Ontologia e gnoseologia. Cosa è la realtà? Come la
conosciamo?
iii. Fenomenologia ed ermeneutica. Analisi dell’esperienza e
percorsi dell’interpretazione
iv. Genealogia. Pratiche, dispositivi, abiti
Avvertenza bibliografica
Gli autori
Indice dei nomi
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capitolo terzo
matematica dello spazio-tempo. Possibilità di prevedere e di agire
che il filosofo tedesco riconduce alla nietzschiana volontà di potenza. Tutto questo toglie identità all’ente, che diviene un mero
oggetto di calcolo. È de-sostanzializzato, ossia non è piú concepito
come una «sostanza» aristotelica ma come un ente in movimento il
cui moto è determinato dal rapporto con altri enti in movimento:
ogni cosa non è che un punto dentro una griglia spazio-temporale
matematizzata e l’essere di quel punto è determinato dal rapporto
dinamico con tutti gli altri punti. Ogni cosa sembra svuotata della propria essenza e vista solo in relazione agli effetti che produce
su altre cose. Per Heidegger va rintracciato qui – nella moderna
matematizzazione della natura e nella desostanzializzazione degli
enti – uno fra gli snodi fondamentali che conducono la cultura e
la civiltà occidentali verso il loro approdo nichilistico.
Struttura/Decostruzione
1. Le origini dello strutturalismo.
Nel corso del Novecento si fa strada una tendenza generale che
attraversa diversi campi disciplinari: la propensione a svuotare gli
oggetti di qualsivoglia contenuto mettendo in primo piano le relazioni. Lungo tutto il secolo scorso lo sguardo del matematico, del
fisico, del linguista, dell’antropologo, del filosofo si è sempre piú
spostato dall’oggetto alla relazione, concependo l’oggetto come
semplice effetto di una rete di relazioni strutturali.
È quanto avviene in matematica, ad esempio, con la teoria delle categorie, sviluppatasi subito dopo la seconda guerra mondiale.
In questa teoria l’oggetto della matematica è trattato alla stregua
di una scatola nera di cui contano solo azioni e reazioni. Numeri
e figure geometriche non hanno piú alcuna sostanza, né essenza.
Dopo averli sottoposti a una poderosa cura dimagrante, la matematica novecentesca ce li restituisce cosí: semplici lettere e frecce.
Nient’altro. Nella teoria delle categorie i dati di partenza sono infatti oggetti indifferenziati, mere lettere sprovviste di ogni interiorità, e frecce (o morfismi) che vanno da un oggetto a un altro.
Le frecce indicano le relazioni, le lettere indicano i punti di partenza o i punti di arrivo di tali relazioni. Il filosofo Alain Badiou,
grande appassionato di matematica, scrive che nella teoria delle
categorie «un oggetto è solo una marcatura di una serie di azioni,
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di una costellazione di corrispondenze»133. È cioè solo una lettera
nella sua materialità insignificante, che acquista un senso unicamente per via estrinseca o posizionale: la sua determinazione dipende dalla rete di relazioni in cui è inserito, ossia dai morfismi
che vanno verso questo oggetto (le frecce che lo colpiscono) e da
quelli che muovono da esso (le frecce che partono di lí).
Questo principio posizionale era già stato anticipato in matematica all’inizio del xx secolo da Henri Poincaré che nel volume La
scienza e l’ipotesi scrive: «I matematici non studiano oggetti, ma
relazioni fra oggetti; per loro, dunque, è indifferente sostituire alcuni oggetti con altri, a condizione che le relazioni non cambino»134.
Se prendete questa frase e sostituite «matematici» con «linguisti»
e «oggetti» con «segni linguistici» ottenete il punto di partenza
della linguistica di Saussure, sviluppatasi negli stessi anni in cui
opera Poincaré (i due muoiono a pochi mesi di distanza).
Con il suo Corso di linguistica generale, pubblicato nel 1916, il
linguista ginevrino Ferdinand de Saussure ha gettato le basi dello
strutturalismo linguistico, che, oltre a rivoluzionare le scienze della lingua, ha influenzato molte altre discipline assurgendo verso la
metà del secolo scorso a modello metodologico esemplare nell’ambito delle scienze umane. Il programma della scuola linguistica di
Parigi, che contribuisce a fondare, è insieme scientifico e geopolitico, volto a sottrarre lo scettro degli studi della lingua alle università tedesche. Si tratta di mettere fine al mito dell’origine, che in
Germania si configurava come leggenda di una lingua ancestrale,
l’indoeuropeo, parlata da un popolo altrettanto leggendario: gli indoueropei. Sulla base di questo mito gli studiosi tedeschi avevano
istituito il nucleo originario della linguistica, ossia la grammatica
comparata, non senza accarezzare il sogno nazionalista di un’antichità indo-germanica piú remota di quella greca e romana in grado di riunire e dar lustro ai due grandi esclusi del mondo classico,
Germania e India. Dal punto di vista scientifico, si tratta per Saussure di tagliare la radice romantica degli studi sulla lingua e fare
della linguistica una scienza rigorosa, completamente autonoma,
non piú al servizio di altri discorsi (storici o politici). Fenomeno
sociale, ma regolato da leggi costanti quanto quelle naturali, la lingua deve essere studiata, nella prospettiva saussuriana, come un
sistema differenziale di segni o, per dirla con Badiou, come una
133
134
alain badiou, Ontologia transitoria, Mimesis, Milano 2007, p. 121.
jules henri poincaré, La scienza e l’ipotesi, Edizioni Dedalo, Bari 1989, p. 45.
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capitolo terzo
«costellazione di corrispondenze», prescindendo da ogni problema
di origine. Dunque la lingua è una struttura che – al pari della matematica nella teoria delle categorie – può configurarsi come una
tela di relazioni dalla quale ogni singolo elemento riceve la propria
identità. Si fonda sull’arbitrarietà del segno. Diversamente dalla
nozione di segno in Peirce, Saussure intende con questo termine
l’unione, appunto arbitraria, che si viene a istituire tra un significante (la parola intesa nella sua essenza puramente sonora) e un
significato (il concetto cui quei suoni rimandano). Se per Peirce il
segno è una pura struttura relazionale di rimando tra un Representamen (un rappresentante segnico) e un Oggetto, attivata da un
Interpretante, per Saussure il segno è invece dato dalla coppia significante/significato (ad esempio la parola «casa» unita al significato cui rimandano tali suoni). E il valore di un segno dipende
unicamente dal posto che occupa all’interno del sistema della lingua, ossia dal rapporto differenziale con tutti gli altri segni (con
tutte le altre coppie di significante/significato).
L’intuizione e l’intelligenza politica di Antoine Meillet, successore di Saussure a Parigi, hanno dato lustro al programma di ricerca lanciandolo a livello internazionale. Alla fine della prima guerra
mondiale, Roman Jakobson, formatosi nel Circolo linguistico di
Mosca, lascia la Russia per Praga, dove, nel 1928, presenta la nascente fonologia, citando Saussure tra i propri ispiratori. La sua
alleanza con la Scuola di Parigi, promossa da Meillet, dà vita a un
asse strategico: da Parigi a Mosca, passando per Praga, la nuova
linguistica – scientifica, positiva, strutturale – riunisce l’Europa
continentale uscita vincitrice dalla Grande guerra.
2. L’ascesa dello strutturalismo.
A partire dalla fine degli anni Venti il metodo strutturale esce
dai confini della linguistica e conquista via via altri territori influenzando, oltre alla linguistica di Émile Benveniste (1902 -1976),
allievo di Meillet, anche l’antropologia di Claude Lévi-Strauss
(1908-2009), lo studio dei miti di Georges Dumézil (1898-1986),
la critica letteraria di Roland Barthes (1915-1980), la psicoanalisi di Jacques Lacan (1901-1981), la filosofia di Michel Foucault
(1926-1984), il marxismo di Louis Althusser (1918-1990). Cosa
leghi questi nomi a Saussure, propulsore del metodo strutturale
e delle sue molteplici applicazioni e modulazioni, è presto detto: il segno non ha proprietà se non per differenza dall’intero
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sistema di segni in cui è inserito. In base a questo principio ispiratore, ogni singolo elemento del sistema va pensato – piuttosto
che come un atomo dotato di una propria unicità e sussistenza –
come un puro valore differenziale, simile in questo alla funzione
di scambio propria della moneta. Se lo strutturalismo linguistico
trova qui i propri fondamenti, lo strutturalismo generalizzato –
che a partire dagli anni Cinquanta si affermerà come un nuovo e
promettente paradigma di ricerca in ambito umanistico, vedendo protagonisti i nomi appena citati – ne estenderà la validità a
tutti i campi dell’esperienza: ogni elemento (sia esso un fonema,
un concetto, un mitologema, una funzione sociale, un’istituzione politica) ha valore unicamente per la posizione differenziale
che occupa entro una rete di relazioni (la struttura).
È ciò che in antropologia compie Lévi-Strauss, ispirandosi a Jakobson, con Le strutture elementari della parentela135: che cosa significa essere «padre» o essere «figlio»? Nient’altro che occupare una
posizione all’interno di una struttura, ossia un ruolo determinato
dai rapporti differenziali con tutti gli altri ruoli («madre», «sorella», «zio» ecc.). Come l’oggetto matematico nella teoria delle
categorie, identificato interamente da frecce di cui esso è sorgente o bersaglio, anche «padre» è – nelle società indigene studiate
dall’antropologo – un punto terminale privo di interiorità determinato unicamente dai suoi morfismi, ossia da quelle frecce che sono
gli scambi con altri punti terminali (obblighi, o debiti simbolici, e
prerogative, o crediti simbolici, nei confronti degli altri ruoli familiari e sociali: frecce in entrata e frecce in uscita). Non per nulla
il capolavoro di Lévi-Strauss esce nel 1949 con un’appendice del
matematico bourbakista André Weil (fratello di Simone Weil) al
quale l’antropologo chiede di trascrivere un sistema di parentela
particolarmente complesso in termini algebrici.
La stessa logica posizionale che Lévi-Strauss trae da Jakobson
era stata adottata prima ancora in sociologia da Marcel Mauss che,
ispirandosi all’altro erede di Saussure, Meillet, l’aveva applicata
nel Saggio sul dono136. In questo testo Mauss studia la pratica rituale
dello scambio di doni, attestata tra i cosiddetti «primitivi» in ogni
parte del mondo, mostrando come strutturi la vita sociale, politica,
135
Cfr. claude lévi-strauss, Le strutture elementari della parentela, Feltrinelli, Milano 2010.
136
Cfr. marcel mauss, Saggio sul dono, in id., Teoria generale della magia, Einaudi,
Torino 2000.
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capitolo terzo
economica e religiosa di queste popolazioni. Chi dona è costretto
a ricambiare con un altro dono, al quale si corrisponderà con un
dono ulteriore e cosí via. Tutta una rete di scambi di doni attraversa queste società come una ragnatela, sulla base della quale si
istituiscono ruoli e funzioni sociali. Per questo motivo per alcune
popolazioni indigene il dono ricevuto non è mai un mero oggetto
inerte ma una cosa animata, abitata da uno spirito (hau nella cultura maori) che costringe a ricambiare. Tale eccedenza insita nel
dono rinvia dunque al tutto, ossia al circuito complessivo degli
scambi, entro cui soltanto ogni dono e ogni gesto (dare, ricevere,
restituire) trovano il loro senso. Il termine hau, con cui i Maori
alludono all’essenza del dono, rinvia in questo senso all’intera comunità e ai rapporti in essa istituiti: anziché avere un significato
specifico in sé stesso – scatola nera per definizione assente e alla fine indicibile – esso è indice dell’intera rete di relazioni cui è
riducibile lo scambio. Una sorta di «significante fluttuante», come lo definisce in seguito Lévi-Strauss, che non a caso, nella sua
Introduzione all’opera di Marcel Mauss, tenta di fare del sociologo
francese, collocato tra i propri numi tutelari, un precursore del
metodo strutturale al di fuori degli studi linguistici137.
Proprio nel periodo in cui scrive quel testo, che recluta a posteriori Mauss tra i pensatori della struttura, Lévi-Strauss si prodiga affinché lo strutturalismo assurga a metodologia generale delle
scienze umane, dedicando diversi saggi all’argomento, alcuni poi
raccolti nel volume Antropologia strutturale, e favorendo un confronto transdisciplinare con la linguistica strutturale138. È sicuramente grazie a questa sua intensa attività intellettuale che il termine «struttura» – cui egli dà un senso completamente nuovo rispetto al suo precedente uso – assume una fama internazionale che
travalica gli steccati disciplinari, diventando negli anni Sessanta il
contrassegno di una vera e propria moda culturale.
3. Le regole del gioco.
È difficile definire cosa sia una struttura per Lévi-Strauss perché
essa non è nulla di empirico: non è una delle parti che compongono
un sistema e non è nemmeno la semplice somma di tutte le parti.
137
claude lévi-strauss, Introduzione all’opera di Marcel Mauss, in mauss, Teoria generale della magia cit.
138
id., Antropologia strutturale, il Saggiatore, Milano 2015.
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Per ricorrere a una metafora molto cara all’antropologo francese,
quella del gioco, ci si può raffigurare la struttura come le regole che
presiedono un gioco da tavola, ad esempio la dama o gli scacchi: a
differenza delle pedine, le regole non sono visibili sulla scacchiera,
eppure queste governano i movimenti di quelle. Le regole raccolgono virtualmente in sé stesse tutte le possibili relazioni tra le pedine e in tal senso sono puramente «virtuali» (un’espressione cui
Lévi-Strauss ricorre in alcune occasioni139), mentre «attuali» sarebbero le mosse delle pedine e le relazioni che si determinano tra esse di volta in volta. Un’altra metafora che ricorre nei testi dell’antropologo francese, avendo egli la linguistica come faro e modello
di scientificità, è naturalmente quella delle regole che presiedono
l’uso della lingua (anch’esse virtuali rispetto alle loro applicazioni).
Queste regole devono costituire, per Lévi-Strauss, l’oggetto di
studio proprio delle scienze umane, che, grazie a esse, possono essere accomunate e guidate da un unico metodo. Ognuna di queste
discipline analizza infatti «sistemi simbolici»140, ossia sistemi di segni
le cui relazioni sono appunto determinate da un gruppo di regole (la
loro «struttura»). Ad esempio, tanto lo scambio economico quanto
il linguaggio sono sistemi entro cui vengono scambiati segni (siano
essi cose o parole) secondo specifiche norme che, laddove non siano esplicite, lo studioso ha il compito di far emergere. La struttura che regola un sistema simbolico deve anzitutto essere portata in
luce, affinché sia poi possibile un raffronto tra discipline diverse:
come scrive l’autore di Antropologia strutturale, «la proprietà di un
sistema di segni è di essere trasformabile, o, in altri termini, traducibile nel linguaggio di un altro sistema, con l’aiuto di permute»141.
Quindi, tra i gruppi di regole (le strutture) che configurano ciascun
sistema simbolico è possibile trovare «correlazioni»142 tali che il loro studio porterà forse le rispettive discipline a unificarsi in futuro
in una sola scienza dei segni, secondo un auspicio che Lévi-Strauss
formula cosí:
Se è permesso sperare che l’antropologia sociale, la scienza economica e la
linguistica si associno un giorno, per fondare una disciplina comune che sarà
Cfr. ad esempio id., Il crudo e il cotto, il Saggiatore, Milano 1966, pp. 20 e 35.
id., Introduzione all’opera di Marcel Mauss cit, p. xxiv.
141
id., Elogio dell’antropologia, in id., Antropologia strutturale, il Saggiatore, Milano 2018, p. 28.
142
Lévi-Strauss parla di «correlazioni tra taluni aspetti e a taluni livelli», con riferimento in generale ai rapporti tra lingua e cultura, nel testo Linguistica e antropologia, in id.,
Antropologia strutturale cit., p. 75.
139
140
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capitolo terzo
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la scienza della comunicazione, riconosciamo però che questa scienza consisterà soprattutto in regole143.
Forse memore di queste parole, Michel Foucault tenta una simile impresa con Le parole e le cose (1966), in cui linguistica, economia e biologia sono confrontate come sistemi di segni ordinati da
un insieme di regole, che egli chiama episteme144. Salvo che questo
insieme di regole cambia nel tempo, sicché l’episteme, anziché essere qualcosa di stabile, come vorrebbe l’etimologia della parola145,
muta di epoca in epoca: la sua evoluzione può divenire persino oggetto di studio di una specifica disciplina che, negli anni Sessanta,
Foucault battezza «archeologia del sapere»146.
Lévi-Strauss non ha in mente un’archeologia del sapere, come la
penserà poi Foucault, ma si limita ad auspicare una futura scienza
– definita anche «un’antropologia intesa nel senso piú largo», volta
a rivelare i «moventi segreti» dello «spirito umano»147 – che avrà
come proprio oggetto di studio differenti regole. La vera posta in
gioco dello strutturalismo non è dunque la descrizione di questo o
quel sistema simbolico, inteso come insieme delle parti e dei loro
rapporti differenziali, ossia di ciò che è attuale. L’obiettivo, assai
piú ambizioso, è agguantare quella totalità virtuale che è la matrice
a partire da cui si viene strutturando questo o quel sistema simbolico nei suoi rapporti differenziali. Tale matrice, nell’ottica di LéviStrauss, è qualcosa dell’ordine di un algoritmo cioè un insieme di
regole. Queste quindi, piuttosto che una metafora, costituiscono
per l’antropologo strutturalista un vero e proprio traguardo da raggiungere, come testimoniano sia il tentativo di matematizzazione
delle strutture elementari della parentela messo in atto nel capolavoro del 1949 sia la celebre «formula canonica» cui ricondurre
ogni mito «considerato come l’insieme delle sue varianti»148 e alla
quale l’autore è rimasto fedele per tutto il corso delle sue ricerche
in campo mitologico (la riportiamo giusto per curiosità)149:
id., Il concetto di struttura in etnologia, ibid., p. 253.
Cfr. m. foucault, Le parole e le cose cit.
145
Episteme, dal greco epi (su) + istemi (stare), indica letteralmente «ciò che sta su»
cioè un sapere fondato.
146
Cfr. m. foucault, L’archeologia del sapere cit.
147
c. lévi-strauss, Linguistica e antropologia cit., p. 76.
148
id., La struttura dei miti, in id., Antropologia strutturale cit., p. 198.
149
La formula canonica compare la prima volta nel saggio del 1955 La struttura dei miti poi raccolto in id., Antropologia strutturale cit. e ancora trent’anni dopo in id., Vasaia gelosa, Einaudi, Torino 1997, nonché in id., Storia di lince, Einaudi, Torino 1993, attiran143
144
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Fx(a) : Fy(b) :: Fx(b) : Fa-1(y)
Dobbiamo perciò intendere la struttura come un insieme di regole a priori, riconducibili a una sorta di algebra del pensiero che
opera silenziosamente nella mente umana e che un giorno verrà
interamente portata in luce?
4. Il mana.
Lévi-Strauss è continuamente tentato da questo sogno algebrico, che lo conduce verso una forma di trascendentalismo kantiano, tanto da non rigettare la definizione di «kantismo senza soggetto trascendentale» [#empirico/trascendentale] con cui Paul
Ricoeur ha criticamente etichettato il suo metodo150. Da questo
punto di vista le strutture sarebbero assimilabili a forme a priori
dell’inconscio collettivo o a una sorta di grammatica implicita della cultura umana in generale. Nello stesso tempo, però, l’antropologo travalica continuamente questa impostazione, sulla spinta di
qualcosa che, nella struttura, non si lascia mai catturare, né da un
algoritmo né da alcuna grammatica.
Infatti, come egli stesso indica chiaramente già nel 1950, nella sua
Introduzione all’opera di Marcel Mauss, in ogni sistema composto da
elementi differenziali c’è sempre uno squilibrio, un elemento paradossale che è pieno/vuoto, presente/assente, eccedente/mancante.
Quello che, per intenderci, nel mazzo di carte è rappresentato dal
jolly: un elemento vuoto (privo di valore in sé) ma anche pieno (in
grado di assumere qualunque altro valore). Indica uno squilibrio,
una mancanza che, guardata nel suo rovescio, si rivela come una eccedenza: è infatti proprio la mancanza (di un valore specifico) a rendere possibile l’eccedenza (la possibilità di assumere qualunque altro
valore). Ogni sistema contiene un elemento paradossale di questo
tipo, una sorta di squilibrio che attraversa ogni struttura.
Lévi-Strauss ravvisa tale elemento anzitutto nelle opere di Mauss:
come già visto nello studio maussiano dello scambio di doni, se
do l’attenzione degli studiosi solo a partire dalla fine degli anni Ottanta [cfr. in particolare
lucien scubla, Lire Lévi-Strauss. Le déploiement d’une intuition, Odile Jacob, Paris 1998 e
pierre maranda (a cura di), The Double Twist. From Ethnography to Morphodynamics, University of Toronto Press, Toronto 2001].
150
Cfr. c. lévi-strauss, Il crudo e il cotto cit., p. 26.
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su un lato troviamo un «significante fluttuante» (il termine maori hau), ossia un segno cui manca un preciso significato, sull’altro
troviamo un eccesso di significazione (l’intera rete dello scambio
di doni), ossia un significato non racchiudibile in alcun significante. Sempre in questo libro Lévi-Strauss ravvisa il medesimo squilibrio in un altro contesto studiato da Mauss, quello delle pratiche
magiche delle popolazioni melanesiane, dove troviamo un altro
esempio di «significante fluttuante», il termine mana. Anch’esso
è un significante senza un significato. Questa parola melanesiana
non ha infatti un significato preciso, ma può assumerne diversi,
riconducibili all’alveo della forza e dell’azione, e può avere diversi valori, essendo usata come sostantivo, aggettivo e verbo. Nel
linguaggio melanesiano è una sorta di jolly che indica il funzionamento generale della magia e i suoi effetti su individui e cose (la
loro «differenza di potenziale», come dicono Mauss e Hubert)151.
Anche il mana, come il dono, si delinea dunque come un elemento
paradossale della struttura (in questo caso, la struttura simbolica
delle relazioni magiche tra individui e cose) che rinvia direttamente all’insieme dei suoi rapporti differenziali.
Tale elemento pieno/vuoto non solo attraversa come uno squilibrio ogni tipo di sistema simbolico (lo scambio di doni o il sistema
della magia, studiati da Mauss, sono solo alcuni esempi), sia esso
arte, linguaggio, mito o rito; ma, come chiarisce Lévi-Strauss, è
esattamente ciò che lo fa funzionare:
Noi crediamo che le nozioni di tipo mana, per quanto diverse possano essere,
considerate nella loro funzione piú generale […] rappresentino esattamente
quel significante fluttuante, che costituisce […] la garanzia di ogni arte, di ogni
poesia, di ogni invenzione mitica o estetica152.
Paradossalmente, è l’eccezione alle regole (il jolly) a rendere possibile il sistema e le sue regole (il gioco delle carte). Questa eccezione – o «differenza di potenziale» – non solo impedisce di concepire
la struttura stessa come statica, ma impedisce anche di pensarne
e predirne l’eventuale evoluzione sulla base di una grammatica o
di un insieme di regole a priori. La presenza di qualcosa che si sottrae alle regole, infatti, impedisce di formulare delle meta-regole
che spieghino come evolvono le regole di un sistema, ossia come
avvenga il passaggio da un sistema all’altro. Il sogno algebrico di
151
marcel mauss e henri hubert, Saggio di una teoria generale della magia, in mauss,
Teoria generale della magia cit., p. 123.
152
c. lévi-strauss, Introduzione all’opera di Marcel Mauss cit., p. lii.
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Lévi-Strauss è sin dall’inizio minacciato da qualcosa che non si lascia assorbire in un algoritmo, che eccede la struttura, che la manda anzi fuori dai cardini essendo ciò che ne innesca il mutamento.
Questo aspetto imponderabile e imprevedibile, che all’interno del
sistema si dà a vedere come uno squilibrio costitutivo, è la traccia
nel sistema della sua stessa origine: è ciò che in seguito molti autori strutturalisti o post-strutturalisti (tra cui Michel Foucault, Gilles Deleuze e Jacques Derrida) chiameranno evento [#fenomeno/
evento] o anche differenza [#identità/differenza]. Ed è ciò che
conduce Lévi-Strauss a pensare sempre piú la struttura in termini
dinamici e metamorfici e a concepire in modo piú fluido il rapporto tra la struttura e i suoi elementi, ovvero tra la regola e la sua
applicazione, tra ciò che è virtuale e ciò che è attuale.
5. La casella vuota.
In che modo l’elemento paradossale interno a ogni struttura
conduce gli strutturalisti a pensare questa in termini piú dinamici?
Un antico gioco cinese, chiamato huarong dao e diffusosi in Francia col nome di Asino rosso, può aiutare a chiarirlo. Il gioco, citato
da Lacan in uno dei suoi Scritti, consiste in un quadrante con delle
tessere in legno, una sorta di puzzle cui però manca una tessera. La
casella vuota lasciata dalla tessera mancante è esattamente ciò che
permette di giocare, ossia di muovere le tessere spostandole sulla
superficie finché l’unica tessera rossa, che rappresenta un asino,
non sia fatta scivolare verso la base del quadrante, permettendo
all’asino di uscire dal recinto, che è lo scopo finale del gioco. La
casella vuota ha dunque la stessa funzione del jolly: rappresenta
una mancanza che può essere riempita da qualunque altro elemento del sistema. E costituisce lo spazio di gioco, il vuoto su cui fa
perno l’azione, la garanzia del movimento e del cambiamento: ciò
che permette di riconfigurare il sistema (una determinata conformazione di elementi) e di disporne le parti assegnando loro nuovi
posti e rinnovate relazioni.
Da questo punto di vista è dunque il vuoto a generare il sistema di relazioni che struttura un sistema. Per questo nel linguaggio
degli strutturalisti la casella vuota viene a indicare l’evento della
struttura – ovvero lo strutturarsi delle relazioni differenziali di un
sistema –, cosí come si dà a vedere dall’interno della struttura stessa: la traccia, entro il sistema, della sua stessa origine. Sarebbe il
corrispettivo della «radiazione cosmica di fondo» per il big bang,
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capitolo terzo
quell’evento che è all’origine dell’universo, e dunque non fa parte
dell’universo (è fuori dallo spazio e dal tempo), ma di cui è rimasta
traccia nell’universo sotto forma di radiazione. E che forma assume questa traccia? Ovvero, come la genesi di una struttura si dà
a vedere entro quella stessa struttura? Come un suo elemento paradossale, un posto vuoto che, non avendo un contenuto positivo
specifico, può essere occupato da qualsiasi altro elemento: come
il mana, esso rinvia potenzialmente a tutti gli altri elementi del sistema (ovvero all’intera struttura nei suoi rapporti differenziali).
In quanto punto di riconfigurazione del sistema, la casella vuota
ne indica l’origine ma anche il declino, ossia la soglia di transito
e di trasformazione, ciò che impedisce di considerare le strutture
come «blocchi monolitici» immutabili, garantendone piuttosto la
dinamicità e l’apertura al cambiamento.
Nello Strutturalismo Gilles Deleuze indica la casella vuota come
elemento caratteristico e determinante di ogni struttura. In ogni
sistema composto da una rete di elementi differenziali ve n’è uno
paradossale che è «sempre spostato rispetto a se stesso» e «ha per
proprietà di non essere mai dove lo si cerca, ma in compenso anche di essere trovato dove non è»153. Non avendo di per sé alcun
posto e alcun valore, come il jolly può potenzialmente occupare
tutti i posti e assumere tutti i valori. Una sorta di segno instabile che, vibrando, simboleggia l’intera rete dei rapporti differenziali, come il «significante fluttuante» che Lévi-Strauss ricava da
Mauss. Tra gli esempi di casella vuota riportati da Deleuze, vi è
infatti proprio il mana studiato da Mauss nel commento che ne dà
Lévi-Strauss. Altri esempi sono il fonema zero nella linguistica di
Jakobson, il fallo (e successivamente l’oggetto a piccolo) nella psicoanalisi di Jacques Lacan, il valore del «lavoro in generale» nella
lettura marxista dell’economia svolta da Louis Althusser, il «posto
del re» nelle Parole e le cose di Foucault, il debito nel caso clinico
dell’Uomo dei topi di Freud154. Sono tutti casi di elementi che non
hanno un ruolo specifico all’interno del sistema in cui si trovano:
si tratta cioè sempre di una parte che, non dovendo rappresentare alcunché, mette in tensione tutte le altre parti e si presta cosí
ad alludere alla struttura nel suo complesso, ossia a quel tutto che
non c’è e che non si dà mai come tale.
Questo squilibrio transitorio – questo elemento pieno/vuoto
153
154
deleuze, Lo strutturalismo cit., p. 47.
Cfr. ibid., pp. 45 sgg.
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che sempre abita ogni struttura e ne rende possibile il funzionamento, ossia il gioco di rinvii simbolici – ha dunque molti nomi:
«casella vuota», come vuole Deleuze, «significante fluttuante»,
come predilige il padre dell’antropologia strutturale, «differenza di potenziale», come scrivono Mauss e Hubert nel loro saggio sulla magia. Ma è infine il nome di «differenza» a imporsi,
soprattutto negli scritti di Jacques Derrida, che farà di quell’elemento paradossale la leva per decostruire ogni struttura, mostrandone la storicità e l’estrema precarietà. Prende le mosse da
qui il decostruzionismo.
6. Decostruzione.
Con la nozione di différance Derrida trova la via per pensare in
modo dinamico l’elemento pieno/vuoto interno a ogni struttura,
trattandolo non come un elemento, per quanto paradossale, bensí
come un’azione, un divenire, un movimento che accade155. Per esemplificare la prospettiva del filosofo francese si potrebbe dir cosí:
la casella vuota non va intesa alla stregua di un sostantivo ma di
un verbo, non è dell’ordine delle cose ma dell’ordine della prassi,
non è un oggetto (per quanto bizzarro) ma un gesto. Bisogna cioè
immaginare il jolly non come una semplice carta, ma come se fosse un flusso: il vortice che lega tutte le carte tra di loro, l’insieme
dinamico delle relazioni e dei rapporti differenziali che intercorre
tra tutte le figure del gioco. Per questo la chiama différance. Il termine, che gioca sulla parola francese différence, è infatti utilizzato
da Derrida per indicare un’azione. In altre parole, quella dinamica
che è il prodursi delle differenze e perciò anche dei rapporti differenziali di un sistema simbolico: il movimento attraverso cui una
struttura viene a istituirsi, ma attraverso cui viene anche a destituirsi, trasformandosi in altro.
Come si producono le differenze, ossia come si istituisce un sistema differenziale? Si pensi al vuoto nel gioco cinese dell’Asino
rosso: rappresenta il punto di partenza per istituire un nuovo sistema, una nuova configurazione delle tessere del gioco, per cui
ciascuna si differenzia dall’altra in base alla posizione che occupa. Ogni volta che una tessera viene spostata, andando a occupare il posto vuoto, una nuova configurazione compare mentre la
155
Cfr. j. derrida, La différance, in id., Margini della filosofia cit.
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configurazione precedente svanisce, un sistema di differenze tramonta e un nuovo sistema di differenze viene alla luce. La casella vuota è dunque tanto lo spazio in cui una nuova disposizione
emerge quanto quello in cui la precedente disposizione viene meno. Se pensiamo questo vuoto non come un mero niente ma come un vortice, un movimento – il movimento di nascita e declino
di una configurazione, di strutturazione e destrutturazione di un
sistema –, otteniamo ciò che Derrida intende come différance in
quanto movimento del differenziarsi (costituirsi e sciogliersi delle
differenze) [#identità/differenza]. Essa è dunque un processo
in corso, poiché sempre, in ogni momento, la différance accade:
qualsiasi sistema di elementi si prenda in considerazione, si vedrà
che non è mai completamente chiuso e statico, qualcosa lo erode
dall’interno, una spinta lo porta a modificarsi, lo conduce a una
lenta e inesorabile trasformazione. E questo vale tanto per un sistema politico, una istituzione, un gruppo sociale, quanto per un
testo, una teoria, un sistema filosofico.
Questo inevitabile trasformarsi di ogni sistema è il punto di
partenza della decostruzione. Decostruzione e différance sono infatti strettamente legate. Nel significato che tale parola ha finito
per assumere nella recente storia della filosofia, la decostruzione
è una strategia di lettura dei testi – quella adottata da Derrida e
da altri autori – che fa leva sullo squilibrio interno a ogni sistema.
Si pensi ad esempio ai grandi sistemi del pensiero metafisico, da
Platone ad Aristotele, da Cartesio a Leibniz, da Kant a Hegel. La
lettura decostruttiva mostra che vi è sempre, in un sistema filosofico di questo genere, un punto debole, una contraddizione intrinseca, una casella vuota, una pietra angolare difettosa che nello
stesso tempo lo sostiene e lo minaccia, che ne è insieme la condizione di possibilità e il limite. È ciò che Derrida chiama appunto
différance. Decostruire un testo o un sistema di pensiero significa
porsi sulle tracce della différance, indagando i margini del sistema,
perlustrandone gli angoli, insinuandosi tra le sue pieghe, saggiandone l’orlo. Si tratta di spingere l’acceleratore sul movimento della
différance sino a farla diventare un vortice che destruttura l’intero sistema. L’intento della lettura decostruttiva è infatti mostrare che il sistema non è mai «chiuso», sospendere la cogenza delle
sue leggi, esibirne la contingenza, liberare il campo dall’idolatria
delle sue «verità».
La pratica decostruttiva è dunque anzitutto una pratica critica,
che si propone di smontare ogni pensiero metafisico come ogni
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pensiero sistemico e che eredita, in questo senso, il gesto interrogativo e ironico di Socrate volto a mettere in questione ogni conoscenza acquisita e ogni punto fermo. Richiama, nel nome oltre che
negli intenti, la distruzione heideggeriana dell’ontoteologia – con
cui Heidegger intendeva mettere in questione tutta la tradizione
filosofica occidentale – ma anche altri gesti critici simili, quali la
critica nietzschiana della metafisica e la critica freudiana della coscienza e del soggetto presente a sé stesso.
Se per sistema si intende un insieme di elementi che pretende
chiuso e definito, con una collocazione e confini ben precisi,
allora la decostruzione, pur non essendo anti-sistemica, è però non solo la
ricerca, ma la conseguenza deliberata del fatto che il sistema è impossibile;
spesso consiste in modo regolare e ricorrente, nel fare apparire in ogni preteso sistema, in ogni autointerpretazione del sistema, una forza di dislocazione,
un limite nella totalizzazione156.
Vi è però anche un secondo senso della decostruzione, che è
quello rivendicato dal filosofo francese, al di là dell’accezione
che tale termine ha assunto nel corso degli anni. Per Derrida decostruire non è una strategia di lettura della tradizione (quella
che egli compie magistralmente su un gran numero di testi e di
autori), è semmai ciò che accade. Ogni testo, come piú in generale ogni sistema simbolico, è già da sempre in decostruzione,
senza bisogno dell’intervento di un decostruttore, perché è sin
dall’origine attraversato da uno squilibrio interno, appunto la
différance.
Scrive Derrida:
Non sono io che decostruisco, è l’esperienza di un mondo, di una cultura, di
una tradizione filosofica cui avviene qualcosa che io chiamo «decostruzione»:
qualcosa si decostruisce, non funziona, qualcosa si muove, si sta dislocando,
disgiungendo o disaggiustando, e incomincio a prenderne atto157.
Come dicevamo, la différance accade, essa è anzi l’accadere
stesso: l’accadere del senso, il suo articolarsi in figure, ogni volta
storicamente finite, limitate e prospettiche, sino al punto in cui
queste stesse figure si disarticolano. Questo accadere è lo strutturarsi della struttura, il suo determinarsi come insieme di rapporti differenziali, ma anche il suo inesorabile destrutturarsi. Perciò
Derrida scrive che la decostruzione «non dipende da un soggetto
156
157
j. derrida e m. ferraris, Il gusto del segreto, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 5-6.
Ibid., p. 98.
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(individuale o collettivo) che ne avrebbe l’iniziativa e l’applicherebbe a un oggetto, un testo, un tema»158. E in un’altra circostanza è ancora piú chiaro:
la decostruzione non è una teoria, né una filosofia. Né una scuola, né un metodo. Neanche un discorso, un atto, una pratica. È ciò che accade, che sta
accadendo in ciò che si chiama società, politica, diplomazia, economia, realtà
storica, e cosí via. La decostruzione è l’evento159.
7. Il punto di fusione.
La dimensione verticale della rottura con la tradizione, della
differenza instabile, dell’evento imprevedibile è costantemente
richiamata, oltre che da Derrida, tanto da Foucault quanto da
Deleuze, con una terminologia non dissimile: come già osservato,
evento e differenza sono parte di un vocabolario comune a tutti e
tre [#fenomeno/evento, #identità/differenza]. Se gli esiti delle loro riflessioni sono in genere piuttosto differenti, per quanto
invece riguarda lo strutturalismo e la nozione di struttura l’effetto dei loro lavori è in larga parte analogo: l’archeologia delle
epistemai di Foucault, la casella vuota di Deleuze, la différance
di Derrida costituiscono tre esempi che mettono in evidenza,
in modi e declinazioni di volta in volta diversi, come non vi sia
struttura che non sia attraversata da uno squilibrio, residuo del
suo evento, che ne regola la dinamica aprendola al divenire e
alla sua stessa consumazione. È insistendo su questa instabilità intrinseca di ogni struttura che i tre filosofi francesi portano
di fatto alla dissoluzione dello strutturalismo inteso come metodologia delle scienze umane, sebbene il principale promotore
di tale metodo, Lévi-Strauss, sia proprio colui che per primo ne
ha ravvisato l’elemento paradossale e dinamico nella forma del
«significante fluttuante».
A partire dalla metà degli anni Sessanta e in modo sempre piú
deciso negli anni Settanta, seguendo strade autonome ma in parte
forse anche influenzati da queste nuove istanze, sia Lévi-Strauss
sia l’amico che sin dall’inizio aveva condiviso con lui la passione
per lo strutturalismo, lo psicoanalista Jacques Lacan, iniziano,
ciascuno nel proprio ambito di ricerca, a mettere in questione la
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nozione di struttura rimodulandola in termini decisamente meno
rigidi, sino a renderla quasi irriconoscibile.
Leggendo di seguito i volumi che compongono la tetralogia Mythologiques160 si può notare come Lévi-Strauss concepisca sempre
piú la struttura in modo dinamico attraverso la nozione di trasformazione tratta dalla morfologia di Goethe161 e dalla morfologia biologica di ispirazione goethiana di D’Arcy Wentworth Thompson162.
Anche nei Seminari di Lacan di questo periodo si può notare come
negli stessi anni lo psicoanalista francese faccia ricorso alla topologia, poi allo studio dei nodi borromei e della scrittura cinese nel
tentativo di pensare in modo innovativo e piú plastico ciò che in
precedenza gli permetteva di fare la nozione di struttura applicata
all’ambito psicoanalitico163.
Piú si è imposta, insomma, l’attenzione sulla dimensione verticale e dinamica di ogni sistema – la si chiami evento o differenza
– piú la concezione della struttura si è andata fluidificando, come
se lo squilibrio che l’attraversa avesse via via contagiato ogni suo
elemento divampando come una fiamma sino a portare l’intera
struttura a un punto di fusione.
160
La tetralogia Mythologiques raccoglie i quattro principali volumi lévi-straussiani dedicati allo studio dei miti: id., Il crudo e il cotto cit.; id., Dal miele alle ceneri, il Saggiatore,
Milano 1970; id., Le origini delle buone maniere a tavola, il Saggiatore, Milano 1971; id.,
L’uomo nudo, il Saggiatore, Milano 1974.
161
Cfr. id. e didier eribon, Da vicino e da lontano. Discutendo con Claude Lévi-Strauss,
Rizzoli, Milano 1988, pp. 161-62. Sulla relazione dello strutturalismo lévi-straussiano con
la morfologia goethiana, cfr. petitot, Morphology and structural aesthetics: from Goethe to
Lévi-Strauss, in boris wiseman (a cura di), The Cambridge Companion to Lévi-Strauss, Cambridge University Press, Cambridge 2009, pp. 275-95.
162
Cfr. c. lévi-strauss, Dal miele alle ceneri cit., p. 159.
163
L’evoluzione è visibile a partire almeno dal Seminario XVI (cfr. j. lacan, Il seminario. Libro XVI. Da un Altro all’altro 1968-1969, a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2019) in poi. Per un quadro complessivo delle sperimentazioni e delle innovazioni del
tardo e dell’ultimo Lacan, cfr. gioele p. cima, Il Seminario Perpetuo. Il tardo e l’ultimo Lacan, Orthotes, Napoli-Salerno 2020.
158
jacques derrida, Lettera a un amico giapponese, in id., Psychè. Invenzioni dell’altro,
Jaca Book, Milano 2009, vol. II, p. 11.
159
id., Come non essere postmoderni, Medusa, Milano 2002, p. 45.
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