UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA
Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata
Corso di Laurea Magistrale in
MANAGEMENT DEI SERVIZI EDUCATIVI E FORMAZIONE CONTINUA
Tesi di Laurea Magistrale
UNO SGUARDO INCLUSIVO SULLA FORMAZIONE PROFESSIONALE
RICERCA QUALITATIVA SUI BISOGNI FORMATIVI IN UN CONTESTO
VENETO DI IEFP
An inclusive look to vocational training
A qualitative research on educational needs in a Venetian IeFP context
Relatore:
Prof. Visentin Simone
Laureanda: Tuti Alessandra
Matricola: 1236632
Anno Accademico 2022-2022
INDICE
INTRODUZIONE
Pag. 4
CAPITOLO 1: EVOLUZIONE NORMATIVA E DI PENSIERO
Pag. 6
1.1 Diario di viaggio
Pag. 6
1.1.1 I biglietti
Pag. 7
1.1.2 La partenza
Pag. 8
1.1.3 Prima tappa: inserimento
Pag. 10
1.1.4 Seconda tappa: integrazione
Pag. 13
1.1.5 Terza tappa: inclusione
Pag. 16
1.2 Osservazioni di viaggio
Pag. 22
1.2.1 Linguaggio come compagno di viaggio
Pag. 22
1.2.2. Panorami futuri
Pag. 25
1.3 Disegni di viaggio
Pag. 27
CAPITOLO 2: UN QUADRO DI RIFERIMENTO TEORICO
Pag. 29
2.1 Educazione: significati, obiettivi, ruoli
Pag. 29
2.1.1 Educazione: l’utopia necessaria
Pag. 30
2.1.2 Il ruolo dell’educazione e della scuola
Pag. 32
1
2.1.3 Educazione come esperienza
2.2 Inclusione scolastica
Pag. 34
Pag. 36
2.2.1 Educatori e formatori inclusivi
Pag. 38
2.2.2 Didattica per competenze e IeFP
Pag. 43
2.3 L’UDL in primo piano
Pag. 48
2.3.1 La progettazione universale
Pag. 48
2.3.2 L’UDL come possibile risposta
Pag. 48
2.3.3 Principio I: Fornire molteplici mezzi di rappresentazione
Pag. 52
2.3.4 Principio II: Fornire molteplici mezzi di azione ed espressione
Pag. 54
2.3.5 Principio III: Fornire molteplici mezzi di coinvolgimento
Pag. 56
2.3.6 Le tecnologie informatiche
Pag. 58
CAPITOLO 3: LA RICERCA
Pag. 60
3.1 Index For Inclusion
Pag. 60
3.2 La ricerca-azione
Pag. 65
3.3 “Uno sguardo inclusivo sulla formazione professionale”
Pag. 67
3.3.1 La diagnosi
Pag. 67
3.3.2 Popolazione campione di riferimento
Pag. 68
3.3.3 Riferimenti teorici e dimensioni di indagine
Pag. 69
3.3.4 Rilevazione dei dati
Pag. 69
3.3.5 Analisi e lettura dei dati
Pag. 77
2
3.4 Riflessioni conclusive
Pag. 95
BIBLIOGRAFIA
Pag. 98
RIFERIMENTI NORMATIVI NAZIONALI
Pag. 100
RIFERIMENTI NORMATIVI INTERNAZIONALI
Pag. 101
3
INTRODUZIONE
Il mondo scolastico è coinvolto, nell’attuale momento storico, in una rivoluzione
pedagogica ed educativa che fonda i suoi principi nel concetto di inclusione, processo
attraverso il quale ciascuno, in base a caratteristiche sia proprie che del contesto di
appartenenza, è messo nelle condizioni di sviluppare ed esprimere al meglio il proprio
potenziale; è l’accoglienza di tutti, l’attiva partecipazione alla quotidianità, la
valorizzazione delle differenze; è uno strumento di risposta alle attuali esigenze di una
società che, sempre più varia e ricca di differenze, necessita di cittadini attivi e
consapevoli, capaci di compiere scelte in maniera responsabile e di contribuire alla
crescita della propria comunità.
Le scuole di oggi sono frequentate da bambini e bambine, ragazzi e ragazze, le cui
diversità sono sempre maggiori: ci sono coloro che manifestano una disabilità, fisica e/o
cognitiva, coloro che presentano difficoltà di apprendimento e/o di gestione del
comportamento; c’è anche chi ha bisogni educativi diversi, “speciali”, perchè non
comprende la lingua italiana o perchè sta vivendo situazioni particolari, di marginalità
sociale: le classi, insomma, appaiono sempre di più come grandi tavolozze ricche di
colori.
Questo variopinto scenario evidenzia maggiormente le sue sfumature nel mondo della
formazione professionale che, dato il recente incremento della popolazione straniera,
registra un’utenza sempre più varia e ampia, che manifesta bisogni e richieste sempre
diverse.
Come reagire davanti a tale panorama? Il concetto di inclusione offre una risposta, offre
“la” risposta: accogliere tutti valorizzando le differenze di ciascuno.
È un concetto che, seppur comparso nel nostro Paese non prima degli anni Novanta e
con un successivo non semplice percorso, si sta diffondendo rapidamente in tutti gli
ambiti di vita: è un processo attraverso il quale ciascuno, in base a caratteristiche sia
proprie che del contesto di appartenenza, è messo nelle condizioni di sviluppare ed
4
esprimere al meglio il proprio potenziale, di partecipare attivamente e responsabilmente
alla vita della comunità.
La diffusione di tale principio e la rivoluzione educativa e pedagogica in atto hanno
posto non poche questioni nel mondo scolastico: quali politiche adottare? Quali
strategie e pratiche mettere in atto? Quali linee guida seguire? Come rinnovarsi? Le
risposte e le proposte sono arrivate e continuano ad arrivare, sia dalla legislazione che
dalla letteratura, ma mancano spesso di concretezza e di praticità: le difficoltà che i
docenti devono quotidianamente affrontare permangono, anzi si intensificano.
La presente ricerca intende offrire un contributo concreto allo scenario descritto, fatto di
domande, richieste, bisogni e difficoltà, ma anche di potenzialità, risorse e ricchezze.
Verrà proposto, in una prima parte del lavoro, un excursus storico legislativo che
parallelamente all’evoluzione dei paradigmi di pensiero ha definito tappe e punti di
svolta fondamentali per il percorso di crescita inclusiva della nostra società.
Una seconda parte presenterà poi il quadro di riferimento teorico che sottende i costrutti
inclusivi, la letteratura che ne sostiene i principi.
Entrando poi nello specifico della formazione professionale, si intende offrire una
fotografia attuale, capace di mettere in evidenza le difficoltà e i bisogni degli insegnanti,
attori protagonisti del processo educativo; si vuole dare vita alla loro voce, ai loro punti
di vista, alle loro idee e alle loro proposte per poter affrontare al meglio le richieste di
un mondo in continua e rapida evoluzione: la ricerca, di tipo qualitativo, coinvolgerà
una rete di docenti di Centri di Formazione Professionale del Veneto in attività di
indagine partecipate, raccoglierà i dati emersi e ne offrirà una personale lettura.
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CAPITOLO 1
EVOLUZIONE NORMATIVA E DI PENSIERO
In una prima parte del presente lavoro di ricerca si intende proporre un excursus
storico-legislativo utile a collocare il concetto di inclusione nell’attuale contesto
socio-culturale.
L’evoluzione del pensiero, delle ideologie, dei bisogni della società e l’evoluzione del
sistema legislativo corrono su binari paralleli il cui tragitto è reciprocamente
influenzato: la cultura e il suo sguardo verso la disabilità variano in base al periodo
storico-politico di riferimento; al contempo le normative e le strutture organizzative
sono determinate e richieste dalle pratiche di vita e dai paradigmi adottati. Sono due
binari su cui la società ha sempre viaggiato e viaggerà sempre.
Il viaggio dell’inclusione può dirsi iniziato negli anni Settanta, contestualmente
all’inserimento di alcune categorie di disabilità nei contesti scolastici; prima di allora si
parlava di esclusione. Negli anni Novanta l’inserimento si è rivelato non essere
sufficiente per una reale e concreta partecipazione, ed è stato introdotto il concetto di
integrazione. Si parla quindi oggi di inclusione, di cui inserimento e integrazione
dovrebbero essere i prerequisiti.
1.1 DIARIO DI VIAGGIO
Ripercorreremo quindi questo viaggio, apparentemente breve ma molto intenso, ricco di
prospettive e di panorami ideologici diversi: partendo dai valori fondanti, i “biglietti”
che hanno preparato al cambiamento, alla “partenza”, visiteremo le “tappe” principali
fino ai giorni nostri, intravedendo in fondo un “panorama futuro”.
6
1.1.1 I BIGLIETTI
La disabilità ha iniziato ad essere vista dalla società nell’età moderna. Fino ad allora le
persone con disabilità, coloro che nascevano con malformazioni o menomazioni, erano i
“figli del demonio”, esseri mostruosi e peccaminosi, indegni e miserevoli; venivano
condannati, allontanati e rifiutati (Gecchele & Dal Toso, 2019).
Nel XVIII secolo, con lo sviluppo della scienza, avvenne il primo concreto cambio di
prospettiva: iniziò a prendere forma una cultura fiduciosa nel progresso, basata
sull’osservazione, sullo spirito critico e sulla ragione e bisognosa di una reale diffusione
del sapere. Nacque l’illuminismo, movimento filosofico e culturale iniziato in Francia,
portato alla massima espressione con la Rivoluzione Francese (1789-1799) e diffusosi
in tutta Europa, che iniziò a diffondere gli ideali di libertà, eguaglianza e fraternità; in
nome della dignità umana riconosceva alcuni diritti come naturali e sacri.
La forza del cambiamento portò all’emanazione, in Francia, della Dichiarazione dei
Diritti dell’uomo e del cittadino (1789), documento fondamentale su cui si sono poi
basate le costituzioni dei moderni stati democratici; la prima proprio quella francese,
quattro anni dopo, che promulgò l’obbligo all’istruzione di tutti e all’assistenza: anche
se di fatto non andrà mai in vigore fu la prima esplicitazione dei bisogni della società.
Il movimento ideologico si fece sentire anche in Italia, contestualmente allo sviluppo
della medicina. La disabilità, illuminata ora dalla scienza e dalla ragione, uscì dal suo
oscuro mondo di credenze e superstizioni ed entrò a far parte della fisiologia della
natura umana. Tale condizione, seppur considerata di non perfezione, non doveva
pregiudicare la dignità della persona e doveva essere curata.
In quel periodo nacque anche la pedagogia speciale: venne ritrovato, nel 1799 nei
boschi dell’Aveyron, regione della Francia meridionale, Victor, un circa dodicenne
ritenuto “selvaggio” per aver vissuto forse sempre in una foresta, in isolamento, lontano
dalla civiltà e da qualsiasi forma di educazione. Il caso attirò l’attenzione di numerosi
studiosi tra cui Jean-Marc Gaspard Itard (1775-1838); presso un istituto di Parigi il
medico prese in carico il fanciullo e, procedendo per tentativi ed errori, provò metodi e
strumenti per poter educare quel “ragazzo selvaggio”, probabilmente con un ritardo
7
mentale o una forma di autismo) considerato ineducabile. Gli obiettivi posti
riguardavano la socialità, l’uso della parola e del linguaggio, le autonomie, la sfera
senso-motoria e intellettiva, l’affettività. Anche se il grande lavoro non ottenne i risultati
sperati (Victor non imparò mai a parlare), è noto per la sua ricca documentazione e per
l’attenzione che attirò in quegli anni di dibattito illuminista: per la prima volta vennero
evidenziate l’importanza e la forza, nell’azione educativa, della relazione empatica e
dell’esperienza; stava nascendo la pedagogia speciale (Gecchele & Dal Toso).
Nei decenni successivi vennero aperte numerose strutture specializzate dedicate alla
cura, alla riabilitazione, alla rieducazione di bambini con deficit cognitivi o con
disabilità psichica; sempre più studiosi si dedicavano alla ricerca di possibili interventi
educativi, di metodologie e strategie per l’apprendimento.
Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, a rafforzare il valore dell’esperienza
e della socievolezza nell’educazione, si diffuse (anche) in Italia l’attivismo pedagogico:
si intensificarono gli studi pedagogici e le sperimentazioni di scuole nuove; tra le
testimonianze più incisive e all’avanguardia sono note la Casa dei Bambini di Maria
Montessori (1870-1952) e l’Asilo delle Sorelle di Rosa (1866-1951) e Carolina Agazzi
(1870-1945) (Porcarelli, 2012).
I “biglietti” sono pronti e scritti nella Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino,
base sia ideologica che normativa per eccellenza; la pedagogia speciale, sua forma di
espressione e concretizzazione, ben prepara il terreno al cambiamento.
1.1.2 LA PARTENZA
Se si guarda allo specifico del contesto italiano, in un periodo di crescita e di sviluppo
della pedagogia e dei suoi valori fondanti, prese spazio poi il periodo fascista, purtroppo
caratterizzato da una sostanziale e significativa involuzione: la cultura razzista, fondata
sulla disuguaglianza, sulla superiorità della perfezione, sulla repressione e sull’odio,
riportò la persona ad una condizione di minorità, priva di capacità per esercitare i propri
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diritti. La disabilità, così come tutte le condizioni di diversità rispetto al modello
standardizzato, era una minaccia alla purezza della razza e andava pertanto eliminata.
I valori che si dovevano diffondere e che, seppur con fatica e sofferenza si stavano
diffondendo, erano completamente contrapposti rispetto a quelli verso cui era
indirizzata la società pre-fascista e questo rappresenta, a livello ideologico e culturale,
una grande regressione .
Lo Stato si fece promotore di tutte le questioni pubbliche, dei problemi della società e
dei bisogni dei cittadini tra cui i servizi educativi, sanitari, o di assistenza sociale;
aumentò il numero delle istituzioni educativo-assistenziali che si differenziavano per
categoria. La legislazione scolastica di quegli anni, definita con la Riforma Gentile nel
1923, istituì le scuole speciali per persone con gravi disabilità, sordità e/o cecità e classi
differenziali per alunni con ritardi lievi. Continuava a dominare una logica sì della
potenziale rieducazione, ma in contesti separati e isolati.
Le grandi devastazioni che portarono il totalitarismo e le Grandi Guerre della prima
metà del secolo generarono una forte emergenza ideologica ed educativa, l’esigenza, da
parte della società, di ricostruire sulle macerie sia materiali che morali nuovi principi e
valori (Porcarelli).
L’emergenza ideologica ed educativa, le battaglie combattute e le conquiste sociali fatte
portarono, nel 1946, alla nascita della Democrazia Italiana; l’anno successivo venne
varata la Costituzione Repubblicana, in vigore dal 1948, risultato di un grande lavoro di
compromessi tra le diverse forze politiche e ideologiche emergenti. Il documento
rappresenta uno snodo fondamentale per l’innovazione culturale e di pensiero e
legittima la partecipazione di una società che necessita di essere ricostruita in funzione
dei mutamenti avvenuti. Il terzo articolo conferisce a tutti i cittadini “pari dignità
sociale” e eguaglianza davanti alla legge “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua,
di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Si parla per la
prima volta di una scuola “aperta a tutti” (Art. 34) introducendo i principi di
uguaglianza di diritti per tutti i cittadini e di universalità del diritto all’istruzione.
La struttura accentrata dello stato fascista venne sostituita da una più “periferica” e
pluralista, specie in campo culturale e sociale; questo favorì una “mobilitazione dal
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basso” e gettò le basi per la creazione di un ambiente favorevole al cambiamento e
promotore di un’effettiva cittadinanza (Zago, 2017).
In Europa, contestualmente alla promulgazione della Costituzione, venne emanata dagli
Stati membri delle neonate Nazioni Unite, memori degli orrori della Seconda Guerra
Mondiale, la Dichiarazione dei Diritti Umani (1948). Data la consapevolezza
dell’indispensabile necessità di proteggere i diritti conquistati attraverso norme
giuridiche, tale documento si rivela il primo a sancire universalmente i diritti che
spettano all’essere umano e, come punto di non ritorno, è di importanza storica
fondamentale. L’articolo 26, che riguarda l’istruzione, specifica che “ogni individuo ha
diritto all’istruzione” e che questa “deve essere gratuita almeno per quanto riguarda le
classi elementari e fondamentali”; sancisce inoltre che “l’istruzione elementare deve
essere obbligatoria”. “L’istruzione deve essere indirizzata al pieno sviluppo della
personalità umana ed al rafforzamento del rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali. Essa deve promuovere la comprensione, la tolleranza, l’amicizia…”.
L’arrivo della Guerra Fredda (1947), il conseguente blocco del sistema politico e la sua
sostanziale continuità con il regime fascista però, andarono a limitare notevolmente la
portata innovativa di questa stazione di svolta. Nonostante l’esplicitazione dei principi e
dei diritti dichiarati la legislazione scolastica, dopo la riforma Gentile, rimase
sostanzialmente la stessa: i giovani con disabilità continuavano a vivere la loro
scolarizzazione in istituti appositi o strutture caritatevoli e, senza avere alcun contatto
con il contesto di appartenenza, erano oggetto di trattamenti medici e di protezione
sociale. Per una concreta applicazione dei principi costituzionali molto combattuti fu
necessario aspettare gli anni Sessanta e Settanta (Zago).
1.1.3 PRIMA TAPPA: INSERIMENTO
Negli anni Sessanta molte furono le contestazioni, specie in ambiente studentesco, ai
modelli e ai valori ormai persistenti e radicati; durante i noti “moti del ’68” vennero
occupate scuole e università per rivendicare una reale espressione delle libertà e dei
diritti conquistati, per dar voce ai “diversi” in un contesto socio-culturale e storico
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ancora segregante, per un loro concreto inserimento nella società. Contestualmente
molti insegnanti iniziarono a cercare risposte didattiche alle nuove richieste ed esigenze
del mondo scolastico, ancora assolutamente impreparato ad accogliere e a trattare la
disabilità.
Nel 1974, come risultato di un’indagine nazionale sui problemi degli alunni
“handicappati” (linguaggio contestualizzato alla società del tempo) venne presentata
una relazione che si rivelò rivoluzionaria. Il documento, meglio noto come “Documento
Falcucci” andò a sancire espressamente il diritto per tutti i bambini e le bambine con
disabilità a ricevere un’educazione adeguata alle capacità e pose per la prima volta al
centro dell’azione educativa la persona con le sue caratteristiche. Presupposto
fondamentale, esplicitato nella Premessa, è che
anche i soggetti con difficoltà di sviluppo, di apprendimento e di adattamento
devono essere considerati protagonisti della propria crescita. In essi infatti
esistono potenzialità conoscitive, operative e relazionali spesso bloccate degli
schemi e dalle richieste della cultura corrente e del costruire sociale. Favorire lo
sviluppo di queste potenzialità è un impegno peculiare della scuola,
considerando che la funzione di questa è appunto quella di portare a
maturazione, sotto il profilo culturale, sociale, civile, le possibilità di sviluppo di
ogni bambino e di ogni giovane. La scuola proprio perché deve rapportare
l’azione educativa alle potenzialità individuali di ogni allievo, appare la struttura
più appropriata per far superare la condizione di emarginazione in cui altrimenti
sarebbero condannati i bambini handicappati.
Venne proposto, nel primo capitolo, “un nuovo modo di concepire e di attuare la scuola,
così da poter veramente accogliere ogni bambino ed ogni adolescente per favorirne lo
sviluppo personale”.
Fondamentale è l’affermazione di un più articolato concetto di apprendimento,
che valorizzi tutte le forme espressive attraverso le quali l’alunno realizza e
sviluppa le proprie potenzialità e che sino ad ora sono state lasciate
prevalentemente in ombra. L’ingresso di nuovi linguaggi nella scuola, se
costituisce infatti un arricchimento per tutti, risulta essenziale per gli alunni che
non rispondono alle richieste di un lavoro formale, in quanto offre loro reali
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possibilità di azione e di affermazione. Si dovrebbe giungere per questa via ad
allargare il concetto di apprendimento affinché, accanto ai livelli di intelligenza
logica-astrattiva, venga considerata anche l’intelligenza sensorio-motrice e
pratica e siano soprattutto tenuti presenti i processi di socializzazione.
Tra i requisiti fondamentali del “prototipo di scuola dell’integrazione” presentati, la
presenza di un gruppo di insegnanti di classe, la flessibilità nella progettazione e
nell’organizzazione didattica, la disponibilità di insegnanti specializzati, la continuità
educativa, e il costante aggiornamento professionale di tutto il personale scolastico sui
temi dell’educazione speciale e dell’integrazione.
In un contesto di inserimento comparve per la prima volta il termine integrazione come
obiettivo di un graduale e necessario processo di risposta alle necessità sociali, processo
che richiede il coinvolgimento e la collaborazione di tutte le forze sociali.
Secondo ispirazione del Documento Falcucci venne emanata la “Legge Malfatti”
(Legge 4 agosto 1977, n.517) che abolì definitivamente le scuole speciali e le classi
differenziali per gli alunni svantaggiati e dispose l’inserimento di tutte le persone in
situazione di handicap nelle normali classi con il supporto di insegnanti specializzati ed
eventuali altri interventi specialistici. Vennero stabiliti i presupposti e gli strumenti
operativi necessari quali la flessibilità della programmazione didattica in base ai bisogni
della realtà contestuale, le modalità per una valutazione formativa, le attività integrative.
L’art. 2 (in riferimento alla scuola elementare) e l’Art.7 (in riferimento alla scuola
media) esprimono che
al fine di agevolare l’attuazione del diritto allo studio e la promozione della
piena formazione della personalità degli alunni, la programmazione educativa
può comprendere attività scolastiche integrative organizzate per gruppi di alunni
della stessa classe oppure di classi diverse anche allo scopo di realizzare
interventi individualizzati in relazione alle esigenze dei singoli alunni.
Prese forma il concetto di individualizzazione dell’insegnamento in base alle
caratteristiche della persona in apprendimento e alle esigenze del singolo: la scuola
stava diventando realmente “di tutti e per ciascuno”. Per garantire il superamento
dell’inserimento semplicemente fisico e architettonico e offrire una sostanziale
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integrazione, vennero definiti, negli stessi articoli, i requisiti e i parametri necessari: la
presenza di insegnanti specializzati nel sostegno, i cui compiti e ruoli vennero definiti in
normative successive, un numero massimo di alunni in presenza di portatori di handicap
(terminologia del tempo), un supporto psicopedagogico, la programmazione didattica, la
condivisione delle valutazioni e delle osservazioni con i genitori.
Ad estendere tali principi alla scuola superiore venne pronunciata, nel 1987, la Sentenza
della Corte Costituzionale n. 215: una famiglia laziale aveva fatto ricorso al TAR
denunciando una scuola superiore che aveva rifiutato l’iscrizione della figlia, con
disabilità; il Tribunale, ammettendo che, a livello normativo, l’integrazione scolastica
era garantita solo nelle scuole dell’obbligo e ritenendo tale mancanza legislativa
“incostituzionale”, dichiarò che tutti gli alunni con disabilità di qualunque livello
avevano il diritto pieno e incondizionato di frequentare le scuole di ogni ordine e grado.
A distanza di mezzo secolo è evidente come quello che oggi può apparire un paesaggio
banale e scontato abbia in realtà percorso una lunga strada, spesso in salita, tortuosa e a
tratti dissestata.
1.1.4 SECONDA TAPPA: INTEGRAZIONE
Si concretizzò quindi, negli anni Novanta, il concetto di integrazione, di cui
l’inserimento risulta un panorama di fondo. L’integrazione prevede il potenziamento
della reale partecipazione degli alunni con disabilità alle attività scolastiche, azioni
riabilitative e formative di gruppo, il completo superamento dei pregiudizi sociali e
delle barriere emarginanti e segreganti.
Davanti ad una sostanziale scarsa preparazione del sistema scolastico di fronte a
richieste di cambiamenti così radicali e alla povertà di mezzi e strumenti disponibili,
molti pedagogisti contemporanei, sostenuti dalla Università, cercarono di offrire
soluzioni e risposte valide ed efficaci.
A livello legislativo l’Italia rispose con la promulgazione, nel 1992, della Legge 104,
“Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone
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handicappate”. Raccogliendo tutti gli interventi normativi fino ad allora effettuati, la
legge diventò il punto di riferimento italiano per l’integrazione e l’inclusione.
Nel primo articolo la Repubblica:
a) garantisce il pieno rispetto della dignità umana e i diritti di libertà e di
autonomia della persona handicappata e ne promuove la piena integrazione
nella famiglia, nella scuola, nel lavoro e nella società;
b) previene e rimuove le condizioni invalidanti che impediscono lo sviluppo
della persona umana, il raggiungimento della massima autonomia possibile e
la partecipazione della persona handicappata alla vita della collettività,
nonché la realizzazione dei diritti civili, politici e patrimoniali;
c) persegue il recupero funzionale e sociale della persona affetta da minorazioni
fisiche, psichiche e sensoriali e assicura i servizi e le prestazioni per la
prevenzione, la cura e la riabilitazione delle minorazioni, nonché la tutela
giuridica ed economica della persona handicappata;
d) predispone interventi volti a superare stati di emarginazione e di esclusione
sociale della persona handicappata.
In particolare, nell’articolo 12
È garantito il diritto all’educazione e all’istruzione della persona handicappata
nelle sezioni di scuola materna, nelle classi comuni delle istituzioni scolastiche
di ogni ordine e grado e nelle istituzioni universitarie.
L'integrazione scolastica ha come obiettivo lo sviluppo delle potenzialità della
persona handicappata nell’apprendimento, nella comunicazione, nelle relazioni e
nella socializzazione.
L’esercizio del diritto all'educazione non può essere impedito da difficoltà di
apprendimento né da altre difficoltà derivanti dalle disabilità connesse
all’handicap.
L’articolo successivo, non ultimo, estese la necessità di attività didattiche di sostegno,
preferibilmente sperimentali e realizzate da docenti specializzati che assumono la
contitolarità delle classi in cui sono inseriti, anche nella scuola superiore.
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Da non dimenticare la fondamentale importanza, per l’operatività pratica, degli
strumenti introdotti dalla legge, tutt’ora in utilizzo: sulla base della diagnosi clinica
dell’alunno o dell’alunna con disabilità, viene formulata dai servizi sanitari e
socio-assistenziali di riferimento la Diagnosi Funzionale, che descrive le sue modalità di
funzionamento. Segue la compilazione, da parte della scuola e dei servizi socio-sanitari
e socio-educativi coinvolti, del Profilo Dinamico Funzionale (PDF), volto ad allargare
ai diversi contesti le osservazioni sulla persona e a prevedere un suo livello di sviluppo
in tempi definiti. Dalla lettura e analisi di tali documentazioni, i servizi scolastici
(insegnanti curricolari e di sostegno) e quelli socio-sanitari, in condivisione con la
famiglia, redigono il Piano Educativo Individualizzato (PEI), strumento di validità
annuale che definisce gli obiettivi, sia didattici che di socializzazione, del progetto
didattico-educativo, gli interventi e le strategie da attuare per il raggiungimento di tali
obiettivi, nonché le risorse necessarie; tutti i contesti di appartenenza dell’alunno.
All’introduzione e all’utilizzo di questi strumenti seguiranno una serie di normative che
ne definiranno le caratteristiche, gli utilizzi e i dettagli specifici.
Scuola, Enti, famiglia e tutti i contesti di appartenenza dell’alunno dovevano lavorare in
maniera coordinata, con atteggiamento collaborativo e propositivo, seguendo un
principio di continuità negli interventi attuati e da attuare, al fine di promuovere
un’integrazione trasversale a tutti gli ambiti di vita: scuola, lavoro e società.
Quasi a riaffermare e a convalidare i principi e i diritti riconosciuti e per garantire
un’applicazione reale e universale, nel 1994 l’UNESCO sottoscrisse la Dichiarazione di
Salamanca. Viene qui proclamato che:
-
ogni bambino ha caratteristiche, interessi, predisposizioni e necessità di
apprendimento che gli sono propri;
-
i sistemi educativi devono essere concepiti e i programmi devono essere
messi in pratica in modo da tenere conto di questa grande diversità di
caratteristiche e di bisogni;
-
le persone che hanno bisogni educativi speciali devono poter accedere alle
normali scuole che devono integrarli in un sistema pedagogico centrato sul
bambino, capace di soddisfare queste necessità;
15
-
le scuole normali che assumono questo orientamento di integrazione
costituiscono il modo più efficace per combattere i comportamenti
discriminatori, creando delle comunità accoglienti, costruendo una società di
integrazione e raggiungendo l’obiettivo di un’educazione per tutti, inoltre
garantiscono efficacemente l’educazione della maggioranza dei bambini,
accrescono il profitto e, in fin dei conti, il rendimento complessivo del
sistema educativo.
Invita inoltre ed esorta i Governi degli Stati a:
-
dare la priorità nelle politiche e nei bilanci al miglioramento dei sistemi
educativi al fine di poter accogliere tutti i bambini, indipendentemente dalle
differenze o difficoltà individuali;
-
adottare, come legge o politica, il principio dell’educazione inclusiva,
accogliendo tutti i bambini nelle scuole normali, a meno che non si
oppongano motivazioni di forza maggiore.
Si parlò, per la prima volta, di bisogni educativi speciali e di educazione inclusiva,
ponendo attenzione alla persona, alle sue caratteristiche, predisposizioni e necessità,
indipendentemente dalla presenza o meno di una disabilità. La Dichiarazione può
considerarsi dunque il manifesto della scuola inclusiva, l’espressione del diritto di tutti
ad una Education for All che prende in carico il singolo nella sua globalità.
1.1.5 TERZA TAPPA: INCLUSIONE
In un ambiente fertile al cambiamento lo sguardo iniziava a rivolgersi concretamente
verso la globalità della persona nella sua unicità e nel suo potenziale, verso la
partecipazione e l’appartenenza ai contesti di vita per un pieno sviluppo della
personalità.
Il mondo scolastico si trovava però sempre impreparato di fronte ai rapidi cambiamenti
avvenuti, a livello di progettazione didattica, di approccio al contesto, di azione
educativa, di utilizzo di strategie e metodologie efficaci.
16
Si intensificarono gli studi, le sperimentazioni e le ricerche di docenti e pedagogisti
volte a offrire un’istruzione e un’educazione inclusiva di qualità e a rispondere ai
bisogni e alle richieste della comunità educativa. Grazie al lavoro di numerosi studiosi
tra cui Andrea Canevaro, Walter Fornasa, Salvatore Nocera, Roberto Medeghini, Dario
Ianes e altri, si stava concretizzando a livello operativo e pratico l’inclusione scolastica
in Italia; si stava realmente diffondendo quel principio di Education for All espresso
nella Dichiarazione di Salamanca, universalmente riconosciuto come diritto umano e
base dell’evoluzione umana.
Il concreto cambio di paradigma venne esplicitato nella Convenzione ONU sui Diritti
delle Persone con Disabilità, adottata nel 2006 ma in vigore dal 2008. Non si trattava di
riconoscere altri diversi diritti alle persone con disabilità ma, come espresso
nell’articolo 1, di “promuovere, proteggere e garantire il pieno ed uguale godimento di
tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone con
disabilità". Lo stesso articolo definisce la disabilità come “il risultato dell’interazione tra
persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono
la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri”.
L’articolo 24, dedicato all’educazione, ribadisce il diritto delle persone con disabilità
all’istruzione senza alcuna discriminazione e su una base di eguaglianza di opportunità e
impegna gli stati membri a garantire un sistema educativo inclusivo a tutti i livelli e che
capace di offrire, lungo tutto l’arco della vita, possibilità di istruzione finalizzate:
(a) al pieno sviluppo del potenziale umano, del senso di dignità e dell’autostima
ed al rafforzamento del rispetto dei diritti umani, delle libertà fondamentali e
della diversità umana;
(b) allo sviluppo, da parte delle persone con disabilità, della propria personalità,
dei talenti e della creatività, come pure delle proprie abilità fisiche e mentali,
fino alle loro massime potenzialità;
(c) a porre le persone con disabilità in condizioni di partecipare effettivamente a
una società libera.
A delineare quindi la diversa logica di pensiero, il nuovo concetto di inclusione non
pone più l’attenzione alle persone con disabilità ma al contesto di vita e agli attori che lo
compongono; l’inclusione mira ad assicurarsi che i contesti siano in grado di garantire
17
ad ogni persona, nella sua unicità e singolarità, la partecipazione attiva alla vita sociale e
civile, il riconoscimento della dignità e il beneficio di tutti i diritti e libertà
fondamentali.
Le pratiche di individualizzazione e personalizzazione degli interventi iniziarono a
coinvolgere tutte le scuole e tutte le figure educative del contesto territoriale; la
progettazione curricolare doveva prestare ora più attenzione ai bisogni dei singoli.
A rinforzo e supporto del nuovo scenario pedagogico e culturale, nel 2009 il Miur
emanò le Linee Guida per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità. In una
prima parte il documento richiama alcuni principi costituzionali, riferimenti
internazionali e normative italiane, “non per ripetere conoscenze già note a chi lavora
nel mondo della scuola, ma per ricapitolare un percorso davvero eccezionale di
legislazione scolastica” (Premessa); nella seconda parte “si riconosce la responsabilità
educativa di tutto il personale della scuola e si ribadisce la necessità della corretta e
puntuale progettazione individualizzata per l’alunno con disabilità, in accordo con gli
Enti Locali, l’ASL e le famiglie”; l’ultima parte dettaglia infine le dimensioni inclusive
della scuola: la cultura e la leadership dell’integrazione, la programmazione, la
flessibilità, il progetto di vita, le reti di scuole, la corresponsabilità educativa degli
insegnanti, le strategie didattiche, gli strumenti, la valutazione, il clima classe, la
collaborazione con le famiglie.
Le linee guida intendevano offrire elementi concreti per un’efficace azione inclusiva,
sottolineandone e definendone gli aspetti organizzativi, didattici, progettuali e
relazionali e favorendo il coinvolgimento della rete territoriale attraverso l’integrazione
tra attività educative extrascolastiche e scolastiche. I principali ambiti di intervento
prevedevano una specifica formazione all’inclusione di tutto il personale scolastico, la
messa a disposizione dei sostegni necessari, sia di natura professionale (insegnanti di
sostegno, educatori…) sulla base della continuità educativa, che di natura economica e
strumentale (sussidi, tecnologie…).
La didattica inclusiva, che si fonda sul concetto di equità delle opportunità, intendeva
quindi dare vita a processi educativi che considerano l’eterogeneità e le differenze,
garantendo supporti e facilitazioni in grado di rispondere al meglio alle esigenze dei
singoli.
18
Per rispondere a tali necessità e per raggiungere gli obiettivi posti, alcuni presupposti
risultano essere indispensabili: la conoscenza dell’alunn* (linguaggio in via di
sviluppo), del suo funzionamento e delle sue caratteristiche, la gestione del gruppo
classe quale terreno per lo sviluppo intellettivo, dell’affettività, della comunicazione e
delle capacità relazionali; la corresponsabilità del team educativo orientato verso i
bisogni sia del singolo che del gruppo. Tutti gli attori coinvolti devono collaborare per
costruire un progetto di vita dell’alunn* rispondente alle sue predisposizioni, ai suoi
interessi e alle sue caratteristiche.
Pochi anni dopo entrarono nel panorama inclusivo anche i Disturbi Specifici
dell’Apprendimento (DSA) regolamentati dalla Legge n. 170 del 2010 “Nuove norme in
materia di disturbi specifici di apprendimento in ambito scolastico”; si tratta di deficit di
funzionalità che, nonostante capacità cognitive nella media, ostacolano l’acquisizione di
abilità, deficit che hanno un carattere evolutivo e che possono essere diagnosticati
all’inizio dell’istruzione.
Vengono riconosciuti DSA la dislessia, la disgrafia, la disortografia e la discalculia, che
richiedono una programmazione didattica personalizzata, individualizzata e flessibile,
che utilizza strumenti compensativi e misure dispensative in base alle esigenze del
singolo, nonché forme di valutazione appropriate. In seguito entreranno a far parte di
questa categoria anche gli alunn* con disturbo dell’attenzione e dell’iperattività
(ADHD), che comprende il disturbo oppositivo provocatorio (della condotta in
adolescenza), dell’umore, d’ansia, delle fobie sociali.
Le misure a sostegno devono essere esplicitate nel Piano Educativo Personalizzato
(PDP) che non propone una programmazione diversificata, ma che espone le strategie
necessarie per raggiungere gli obiettivi curricolari.
Tutte le normative e i riferimenti a sostegno dell’inclusione continuavano però a
riguardare solo alcuni, non tutti come dichiara l’eguaglianza di diritti; vedevano solo le
persone con disabilità o disturbi, condizioni entrambe certificate da una diagnosi
medica. Se l’obiettivo inclusivo è rispondere ai bisogni di tutti e a valorizzare le
potenzialità di ciascuno, le attenzioni e le azioni inclusive dovrebbero essere rivolte non
solo ad un gruppo ristretto, ma a tutti.
19
Per allargare la cerchia si concretizzò l’espressione Bisogni Educativi Speciali, già
comparsa per la prima volta nella Dichiarazione di Salamanca. Nel 2012 venne emanata
dal MIUR la Direttiva Ministeriale “Strumenti d’intervento per alunni con bisogni
educativi speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica”.
In ogni classe ci sono alunni che presentano una richiesta di speciale attenzione
per una varietà di ragioni: svantaggio sociale e culturale, disturbi specifici di
apprendimento e/o disturbi evolutivi specifici, difficoltà derivanti dalla non
conoscenza della cultura e della lingua italiana perché appartenenti a culture
diverse. Nel variegato panorama delle nostre scuole la complessità delle classi
diviene sempre più evidente. Quest’area dello svantaggio scolastico, che
comprende problematiche diverse, viene indicata come area dei Bisogni
Educativi Speciali (in altri paesi europei: Special Educational Needs). Vi sono
comprese tre grandi sotto-categorie: quella della disabilità; quella dei disturbi
evolutivi specifici e quella dello svantaggio socioeconomico, linguistico,
culturale.
I Bisogni Educativi Speciali necessitano di un Piano Didattico Personalizzato
analogamente a quanto previsto per i Disturbi Specifici dell’Apprendimento, articolato
in strumenti compensativi, misure dispensative, valutazioni adeguate e strategie
programmate. Il Bisogno Specifico, non essendo diagnosticabile, è riconosciuto tale
dall’equipe scolastica di riferimento, in accordo con i servizi socio-educativi territoriali
se presenti, sulla base di osservazioni e considerazioni di carattere didattico e
psicopedagogico.
Grazie a una sinergia tra sistema normativo e paradigmi pedagogici venne quindi
allargato ulteriormente il campo visivo inclusivo e rafforzata maggiormente la cultura
dell’inclusione: la diversità non si limita alla disabilità o al disturbo, ma si estende ora
alla complessità della normalità.
Contestualmente vennero affinati, attraverso l’emanazione di Decreti specifici, i dettagli
relativi agli strumenti utilizzati (DS, PDF, PEI e PDP), alle loro tempistiche di
aggiornamento e revisione, ai compiti e ai ruoli degli attori sociali coinvolti.
20
Gli studi condotti continuarono, e continuano tutt’ora, a offrire ampio spazio a
sperimentazioni in campo pedagogico e didattico, a progetti pilota innovativi, alla
ricerca di strumenti e metodologie capaci di affrontare le nuove sfide educative, di
rispondere alle richieste della comunità sia scolastica che, generalmente, territoriale.
Nel 2015 la Legge 107 del 2015, meglio conosciuta come “Legge della Buona Scuola”,
incentivò ulteriormente la spinta inclusiva. La lettera c del comma 181, che riguarda la
“promozione dell’inclusione scolastica degli studenti con disabilità e riconoscimento
delle differenti modalità di comunicazione” riconosce
-
la ridefinizione del ruolo del personale docente di sostegno al fine di favorire
l’inclusione scolastica degli studenti con disabilità, anche attraverso
l’istituzione di appositi percorsi di formazione universitaria;
-
la revisione dei criteri di inserimento nei ruoli per il sostegno didattico, al
fine di garantire la continuità del diritto allo studio degli alunni con
disabilità, in modo da rendere possibile allo studente di fruire dello stesso
insegnante di sostegno per l’intero ordine o grado di istruzione;
-
l’individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni scolastiche, sanitarie e
sociali, tenuto conto dei diversi livelli di competenza istituzionale;
-
la previsione di indicatori per l’autovalutazione e la valutazione
dell’inclusione scolastica;
-
la revisione delle modalità e dei criteri relativi alla certificazione, che deve
essere volta a individuare le abilità residue al fine di poterle sviluppare
attraverso percorsi individuati di concerto con tutti gli specialisti […] che
partecipano ai gruppi di lavoro per l’integrazione e l’inclusione […];
-
la revisione e la razionalizzazione degli organismi operanti a livello
territoriale per il supporto all’inclusione;
-
la previsione dell’obbligo di formazione […] per i dirigenti scolastici e per i
docenti sugli aspetti pedagogico-didattici e organizzativi dell’integrazione
scolastica;
-
la previsione dell’obbligo di formazione in servizio per il personale
amministrativo, tecnico e ausiliario, rispetto alle specifiche competenze,
sull’assistenza di base e sugli aspetti organizzativi ed educativo-relazionali
relativi al processo di integrazione scolastica.
21
Vennero inoltre riconosciute una maggiore autonomia scolastica dei singoli Istituti
Comprensivi, l’importanza dell’innovazione digitale, dell’alternanza tra scuola e lavoro;
venne predisposta la Carta del Docente, bonus economico destinato a spese relative
all’aggiornamento professionale, alla formazione e a tutto ciò che può essere
considerato fonte di cultura.
La didattica inclusiva, che fino a pochi anni fa era terreno di lavoro solo per la
pedagogia speciale, diventa ora materia di studio e di ricerca per l’intero sistema
scolastico ed educativo.
1.2 OSSERVAZIONI VI VIAGGIO
Nel nostro viaggio abbiamo visitato ideologie, filosofie di pensiero, costrutti e
paradigmi pedagogici in continuo divenire, segnati da momenti storici, da strutture
politiche e sociali.
1.2.1 LINGUAGGIO COME COMPAGNO DI VIAGGIO
Per nulla taciturno nelle sue espressioni è stato il linguaggio, compagno che ha sempre
ruotato accanto al nostro vagone modificandosi in base ai modelli in divenire e
comparendo nelle normative con la sembianza del momento. Rivisitando le immagini
fotografate ricordiamo quindi le sue fasi di mutazione.
Abbiamo conosciuto linguaggio come una scura ombra, di aspetto tagliente, capace di
accusare, di ferire, di isolare, di rendere la persona che lo ascolta indegna e priva di
diritti, disarmata.
Negli anni Ottanta iniziò a dominare il panorama dell’inserimento, si vedevano
chiudersi le scuole speciali, i luoghi di segregazione; l’Organizzazione Mondiale della
Sanità specificò allora, in linea con i modelli adottati, le definizioni di alcuni termini
che segnano notevolmente il mutamento di linguaggio.
22
La menomazione rappresenta la deviazione dalla norma sul piano biomedico
dell’individuo e rappresenta la esteriorizzazione di una condizione patologica.
La disabilità è la limitazione o perdita (conseguente a menomazione) della
capacità di effettuare una attività nel modo o nei limiti considerati normali per
un essere umano. […] La disabilità rappresenta la oggettivazione di una
menomazione e come tale riflette disturbi a livello della persona.
Handicap è situazione di svantaggio sociale, conseguente a menomazione e/o
disabilità, che limita o impedisce l’adempimento di un ruolo normale per un dato
individuo in funzione di età, sesso e fattori culturali e sociali. L’handicap
riguarda il valore attribuito ad una situazione od esperienza individuale quando
essa si allontana dalla norma. È caratterizzato da una discordanza fra la
prestazione e la condizione dell’individuo e le aspettative dell’individuo stesso o
del particolare gruppo di cui fa parte.
Secondo la classificazione proposta, la menomazione portava ad una disabilità che, nel
momento in cui ci si attendevano “risultati standard”, diventava handicap. Alle radici di
queste definizioni compare un modello biomedico, incentrato sulla “persona disabile”,
“handicappata”, “invalida”, la cui diversità funzionale, responsabile del suo stato, ai
tempi, di non integrazione, andava curata.
Linguaggio iniziò a mostrare qualche bagliore di luce attraverso cui traspariva un
segnale di attenzione, di considerazione: rendeva visibile quello che prima non si voleva
vedere.
Nel corso del viaggio e per circa vent’anni, con i cambiamenti di paesaggi e di panorami
culturali e normativi, le definizioni date iniziarono a risultare problematiche, le luci di
linguaggio iniziavano a scurirsi e a diventare sempre più discriminatorie: si
contestavano il concetto del “normalmente atteso”, il principio di “incapacità ad agire
normalmente”, l’idea di “persona minorata”. Critiche che, accompagnate e sostenute
dall’evoluzione normativa e di pensiero, hanno fatto emergere la necessità di ri-creare
un linguaggio comune come guida per descrivere la salute e la disabilità. La stessa
Organizzazione Mondiale della Sanità ha quindi riconsiderato i costrutti e ha introdotto
la Classificazione Internazionale del Funzionamento della Disabilità e della Salute
(ICF), modello di descrizione e di classificazione delle componenti della salute e di
23
eventuali restrizioni sia a livello personale che di partecipazione sociale. Il modello di
riferimento ora utilizzato è quello bio-psico-sociale, attento all’interazione fra la
capacità di funzionamento di una persona e il contesto sociale, culturale e personale in
cui essa vive; ciascuno ha potenzialità e risorse che possono esprimersi o rimanere
latenti in base a facilitazioni o barriere presenti.
Si tratta di un modello che appare come il risultato dell’associazione tra il modello
medico, approccio precedente, e quello sociale; se il primo vede la disabilità come la
conseguenza individuale di una menomazione, il secondo la ritiene una conseguenza di
limiti della società, non attrezzata per accogliere la menomazione; se uno considera
“disabile” la persona, l’altro vede “disabilitante” il contesto. Il loro aggregato è un
approccio multidimensionale che fa della salute un composto di elementi fisici,
biologici, psicologici, relazionali, sociali e culturali e della disabilità uno stato di salute
laddove l’ambiente non è favorevole.
La disabilità diventa quindi la conseguenza di una relazione complessa tra l’individuo e
l’ambiente, dell’interazione tra fattori multipli, aspetti biologici, sociali e psicosociali; è
la conseguenza di un rapporto tra la persona, con le sue condizioni di salute, e il
contesto, che può proporre ostacoli o facilitazioni.
Viene quindi superata la terminologia basata sul deficit per essere sostituita da una
terminologia che sottolinea i contesti, le risorse e le abilità; la “persona handicappata”
(terminologia che compare anche nella Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione
sociale e i diritti delle persone handicappate) e “disabile” e diventa “persona con
disabilità”: “persona” è rivolto a tutta la natura umana senza discriminazioni;
“disabilità” dipende da particolari circostanze contestuali; la particella “con” fa della
disabilità non un attributo della persona, quanto piuttosto una temporanea condizione di
cui essa non è responsabile.
Linguaggio si illumina e si schiarisce, diventa un foglio quasi bianco su cui poter
raccontare l’inclusione delle persone.
A rimarcare e a ufficializzare il cambiamento, la Convenzione sui diritti delle persone
con disabilità va a sottolineare che
24
Il concetto di disabilità non indica più un assoluto della persona come in passato
ma riguarda il rapporto tra la persona e il suo ambiente di riferimento. […] La
disabilità è un concetto in evoluzione […] è il risultato dell’interazione tra
persone con minorazioni e barriere attitudinali ed ambientali, […]. Per persone
con disabilità si intendono coloro che presentano durature menomazioni fisiche,
mentali, intellettive o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura
possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base
di uguaglianza con gli altri.
Il processo inclusivo non si ferma, linguaggio si riempie di sfumature, come riflesso dei
colori che le persone riescono ora a mostrare.
1.2.2 PANORAMI FUTURI
Il panorama all’orizzonte propone una società sempre più inclusiva. La bussola che
orienta il viaggio di oggi è rappresentata dall’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile,
programma d’azione per le persone, il pianeta e la prosperità, sottoscritta nel 2015 da
193 Paesi membri dell’ONU. Si vedono qui definirsi e formalizzarsi gli obiettivi, a
medio-lungo termine, che gli interventi attuati e da attuare devono raggiungere, in
campo educativo così come in tutte le aree di sviluppo della società. Ad assicurare
un’istruzione inclusiva di qualità,
L’obiettivo 4 mira a garantire che tutti i bambini, i giovani e gli adulti, in
particolar modo i più emarginati e vulnerabili, possano accedere a un’istruzione
e a una formazione adeguate alle loro esigenze e al contesto in cui vivono.
L’istruzione contribuisce infatti a creare un mondo più sicuro, sostenibile e
interdipendente.
Delineando tutti i campi coinvolti (lo sviluppo infantile, l’accesso alle cure, l’istruzione
primaria, secondaria, tecnica e terziaria, la formazione professionale, l’educazione alla
sostenibilità del pianeta e delle persone…), l’Agenda pone agli obiettivi l’attributo “di
qualità”, pregevole, con caratteristiche di alto livello.
25
Linguaggio vorrebbe abbracciare tutte le persone che, nell’unicità dei propri colori,
spiccano il volo verso un mondo senza barriere. Non sa che forma assumerà; l’unica
forma che sa di non voler mai più assumere è quella dell’etichetta: le persone vanno
chiamate con il proprio nome, e se è presente una disabilità, questa è una condizione
della persona, non è la persona.
Il panorama che si può intravedere all’orizzonte non vuole essere un futuro punto di
arrivo ma, piuttosto, un ulteriore punto di partenza, un’altra nuova tappa del nostro
interminabile viaggio inclusivo.
1.3 DISEGNI DI VIAGGIO
Nel percorrere il nostro viaggio sono stati fotografati i paradigmi culturali incontrati,
interpretazioni e colorazioni di grafiche già note nel mondo educativo; linguaggio ne fa
da sfondo.
Disegno 1. Segregazione/esclusione: sistemi chiusi e isolati, nascosti in un paesaggio di ombre
scure e cupe, disarmanti.
26
Disegno 2. Inserimento: imprigionato ingresso nel mondo colorato; qualche spiraglio di luce
sullo sfondo.
Disegno 3. Integrazione: le barriere sono invisibili, il campo di gioco è pronto per essere
ridisegnato.
Disegno 4. Inclusione: escono i colori, spariscono i confini e lo sfondo si tinge di tonalità.
27
Disegno 5. Panorami futuri: i colori prendono il volo verso un orizzonte sconfinato; linguaggio li
abbraccia tutti.
28
CAPITOLO 2
UN QUADRO DI RIFERIMENTO TEORICO
Il percorso che ha portato l’attuale società a parlare di inclusione può essere quindi letto
in maniera integrale: ha coinvolto la cultura, i valori, le ideologie, i paradigmi ma anche
i momenti storici, il progresso, le normative. Tra i diversi aspetti il rapporto è
intrecciato, di influenza reciproca. Il presente non è un punto di arrivo, è “solo” un
punto di passaggio, una veloce sosta lungo l’infinito cammino della società verso il suo
stesso progresso.
Il quadro attuale su cui si disegna la nostra ricerca è ampio: l’immagine in primo piano,
nostro punto di riferimento, raffigura la Progettazione Universale dell’Apprendimento,
considerata come la più completa risposta al complesso sfondo del sistema educativo;
come cornice, indispensabile per dar luce all’immagine stessa, si ritrovano i modelli
teorici che fondano le loro radici nei principi di equità, pari opportunità, partecipazione,
appartenenza.
In questo capitolo si intende offrire uno sguardo completo del quadro all’interno del
quale verrà collocata la presente ricerca.
2.1 EDUCAZIONE: SIGNIFICATI, OBIETTIVI, RUOLI
Le sfide che la società impone con i suoi rapidi cambiamenti rendono necessario
definire alcuni principi fondanti dell’educazione, la sua anima valoriale, il suo ruolo, le
aspettative su di essa nutrite.
29
2.1.1 EDUCAZIONE: L’UTOPIA NECESSARIA
Punto di riferimento attuale per lo sviluppo dell’educazione è il Rapporto all’UNESCO
“Nell’educazione un tesoro” scritto dalla Commissione Internazionale sull’Educazione
per il XXI secolo presieduta da Jacques Delors (1996). Il documento offre una base di
riflessione e di dibattito su principi morali e pedagogici volti a promuovere uno
sviluppo integrale della persona e della società in cui è inserita.
Nel Proemio, che reca il significativo titolo “L’educazione: l’utopia necessaria” Delors
riporta che l’educazione
ci appare come un mezzo prezioso e indispensabile che potrà consentirci di
raggiungere i nostri ideali di pace, libertà e giustizia sociale. […] uno dei mezzi
principali a disposizione per promuovere una forma più profonda e più
armoniosa dello sviluppo umano, […] e per costruire rapporti tra individui,
gruppi, nazioni”. […] il suo compito è quello di consentire a ciascuno di noi,
senza distinzioni, di poter pienamente sviluppare i propri talenti e le proprie
potenzialità creative (pp.11, 12, 15).
Nel Rapporto la Commissione sottolinea la speranza per una società basata sul rispetto
dei diritti di tutti e sulla comprensione reciproca, necessari per non creare ulteriori
distinzioni tra gli esseri umani; è necessario formare una “società educante” in cui “la
scuola dovrebbe instillare sia il desiderio che il piacere dell’apprendimento, la capacità
d’imparare a imparare, la curiosità intellettuale”, immaginando “una società in cui
ciascun individuo sia alternativamente insegnante e discente” (p.17).
Un’utopia, secondo Delors, ma un’utopia necessaria, vitale.
“Nessuno dei talenti che sono nascosti come un tesoro sepolto in ciascuna persona deve
essere lasciato inutilizzato” (p.19) scrive Delors. La frase, che giustifica il titolo del
Rapporto, richiama immediatamente al concetto di universalità, di educazione per tutti.
Nel rapporto Delors identifica quattro pilastri che rappresentano sia le richieste
dell’attuale società della conoscenza che, in risposta, gli scopi dell’educazione stessa.
30
1. Imparare a vivere insieme
Il primo pilastro si fonda sul riconoscimento dell’interdipendenza tra le persone
e sottolinea l’importanza di sviluppare una comprensione degli altri, della loro
storia, delle loro tradizioni e dei loro valori spirituali.
Si sottolinea quindi l’importanza di trasmettere valori quali il pluralismo e la
reciproca comprensione attraverso l’ascolto, la condivisione di progetti, la
gestione dei conflitti, l’apprezzamento dell’interrelazione.
2. Imparare a essere
Il secondo pilastro riconosce la responsabilità personale come parte di una
responsabilità collettiva ed evidenzia la necessità di promuovere lo sviluppo di
una personalità capace di agire con autonomia, capacità di giudizio e forte senso
di responsabilità.
3. Imparare a fare
La persona deve essere capace di leggere i contesti, di affrontare la varietà di
situazioni spesso imprevedibili che si presentano, deve essere capace di
rapportarsi e di lavorare con gli altri.
Secondo Delors i metodi educativi dell’attuale società mancano di tali obiettivi:
lo scopo deve essere l’acquisizione non solo di conoscenze specifiche e di abilità
professionali, ma soprattutto di competenze generali quali l’osservazione e
l’analisi del contesto, la ricerca e il riconoscimento di soluzioni e strategie
efficaci per affrontare ostacoli anche in gruppo, specialmente in gruppo.
Molto efficaci per l’acquisizione di capacità e competenze sono le esperienze
vissute in contesti informali, in attività lavorative, in esperienze sociali e
professionali vissute in parallelo al percorso di studi.
4. Imparare a conoscere
L’ultimo pilastro presentato sottolinea infine l’importanza di saper cogliere le
opportunità educative, formative e di crescita personale e professionale durante
l’arco di tutta la vita, per il piacere di apprendere e di migliorarsi.
Si consolida quindi l’imminente necessità di una riforma dell’educazione: si richiede
un’educazione fondata sul rispetto dei diritti umani, estesa a tutti, che riesca a
promuovere al massimo qualsiasi forma di talento, valorizzare l’amore per la
conoscenza, il desiderio di apprendimento, impedendo la sensazione di esclusione.
31
Nel Rapporto emerge anche che, per realizzare tali riforme, la posizione degli insegnanti
deve essere presa in primaria considerazione. Il contesto conferisce al loro ruolo grandi
responsabilità, pone la figura in una posizione centrale tra gli attori sociali; allo stesso
tempo però tende a isolarla, rendendosi quasi sordo alle sue richieste di aiuto. È
fondamentale stabilire un dialogo efficace tra gli insegnanti e la società, ridurre il loro
senso di isolamento, garantendo loro sia una valida formazione che efficaci strumenti al
fine di offrire un’educazione di alto livello capace di evidenziare i suoi stessi principi
culturali e morali.
Educatori prima e discenti poi devono saper comprendere l’individualità degli altri,
cogliere le opportunità con consapevolezza, partecipare attivamente al progredire della
società, vivere le esperienze con autocritica e riflessione.
2.1.2 IL RUOLO DELL’EDUCAZIONE E DELLA SCUOLA
Avendo individuato quali sono le aspettative della società, ci si chiede ora quali siano
esattamente i ruoli dell’educazione e della scuola, quali i compiti delle figure educative;
sono domande che la pedagogia si è sempre posta e alle quali, in base al contesto di
riferimento, ha dato risposte differenti ma in certi aspetti convergenti.
Una delle figure eminenti della pedagogia italiana che si vuole citare è Gesualdo
Nosengo, (1907-1968), pedagogista, professore, educatore, scrittore di saggi di diverse
tematiche, tra cui la politica scolastica: offrì un contributo significativo all’introduzione
dell’insegnamento dell’educazione civica, contribuì alla battaglia per la scuola media
unificata, e lavorò sulla formazione degli insegnanti.
La sua filosofia, una delle modalità con cui in quegli anni si stava affermando il
personalismo in Italia, riprendeva esplicitamente San Tommaso: in opposizione
all’educazione trasmissiva e tradizionale, il pensiero Tomista evidenzia che l’educatore
non deve trasferire le proprie conoscenze nella mente dell’educando, ma deve metterlo
nelle condizioni di saper utilizzare la propria intelligenza per allargare la sua stessa
32
conoscenza. L’apice dell’azione educativa viene raggiunto quando l’educatore riesce a
generare nell’educando il piacere per la conoscenza.
La modalità didattica presentata come la più efficace è quella del dialogo interrogante,
che stimola al pensiero e alla riflessione, facilita la comunicazione, l’immaginazione, la
costruzione di relazioni e di significati.
Si può riconoscere l’attualità di alcuni pensieri che possono fornire valide basi per
affrontare le sfide anche del mondo presente. Nosengo, nella rivista “La scuola e
l’uomo” da lui stesso fondata, li riporta nei primi numeri con una guida-saggio che può
essere utile anche all’insegnante di oggi.
Altro importante pedagogista appartenente alla stessa generazione di intellettuali è Aldo
Agazzi (1906-2000), anch’esso di ispirazione cattolica. Egli sottolinea che il processo
dell’educazione, per lui intrinseco solo all’essere umano, è situato in un contesto storico
e sociale; è dinamico, contribuisce alla costruzione della cultura e dei suoi valori e dura
tutta la vita; richiede, in chi si occupa di educazione, la capacità di saper leggere ogni
aspetto e ogni bisogno del contesto.
La scuola è quell’ambiente sociale in cui ciascuno, attraverso anche la socializzazione,
deve poter sviluppare pienamente la propria personalità.
Contemporaneo ad Agazzi, di formazione teologica e di stampo tomista, anche Gino
Corallo (1910-2003), che sostiene che l’educazione deve fare appello alla volontà, alla
riflessione e consapevolezza: formazione è imporre una conoscenza, educazione è far
riflettere su essa.
Compito fondamentale dell’educatore è rendere consapevole l’educando delle sempre
migliorabili autonomie raggiunte, della natura socievole dell’uomo, della reciprocità dei
legami (sia interpersonali che tra uomo e società); il senso sociale è educabile e deve
essere educato in quanto ogni azione ha delle ricadute sulla società.
Vogliamo quindi mettere in luce quelli che sono gli elementi trasversali, i concetti
comuni, gli aspetti che ci possono aiutare a delineare prima quali i compiti
dell’educazione, poi le competenze necessarie per assolvere tali compiti.
33
Tutti i testimoni citati hanno sottolineato come la scuola rappresenti un luogo di
relazioni e di socievolezza nel quale vengono rigenerati e interiorizzati i principi e i
valori della cultura di appartenenza; un mezzo attraverso il quale la persona acquisisce
consapevolezza del proprio pensiero per agire in maniera responsabile nella società; una
palestra di allenamento sia all’autonomia che alla collaborazione. È un luogo in cui le
esperienze devono essere generative, quindi educative.
Emerge la logica personalista dell’agire educativo, che deve essere autenticamente
aperto alla reciprocità, deve aiutare a sviluppare le potenzialità e i talenti di tutti; deve
“aiutare a fare” in un’ottica di “scomparsa” affinché si possano formare cittadini attivi,
costruttori del bene comune; gli apprendimenti e le competenze non sono solamente
obiettivi didattici spendibili in campo professionale, ma rappresentano la conquista di
una propria identità personale.
L’educatore deve saper leggere pedagogicamente non solo la complessità del contesto
sociale, ma anche la varietà delle domande e delle necessità educative con un approccio
non standardizzato ma aperto alla relazione e alla reciprocità.
In un panorama fatto di principi e valori strettamente correlati al rispetto dei diritti
umani e della dignità umana, l’educazione e la formazione non possono che essere
inclusive.
2.1.3 EDUCAZIONE COME ESPERIENZA
Padre dell’Attivismo Pedagogico, paradigma educativo che riconosce la centralità
dell’esperienza nell’educazione, è John Dewey (1859-1952), stimato filosofo
statunitense e padre dell’attivismo pedagogico in America.
L’esperienza, per Dewey, contiene elementi sia cognitivi che non cognitivi; comprende
il
pensiero, momento
riflessivo
dell’esperienza stessa che ne consente la
razionalizzazione e l’attribuzione di significato; permette all’uomo di ritrovare ciò che
da essa cercava, di passare dal dubbio alla certezza. È proprio il pensiero riflessivo, con
34
il suo carattere analitico, che fa assumere all’esperienza un carattere educativo e
generativo.
Parte dell’esperienza sono anche le relazioni interpersonali che sono alla base di una
vita sociale e politica, della cittadinanza.
In “Esperienza e educazione” (1938) Dewey contrappone l’educazione tradizionale a
quella da lui definita progressiva. La prima è trasmissiva, imposta, rigida, che viene dal
di fuori; è statica nei fini e nei materiali, è la semplice acquisizione di tecniche e abilità
isolate. All’opposto la seconda, proprio grazie al carattere generativo dell’esperienza, è
dinamica, autentica, viene da dentro, coglie e sfrutta le opportunità per rispondere alle
esigenze della società in continuo progresso, è democratica, sviluppa l’individualità
delle persone.
L’ambiente scolastico è una palestra di democrazia e di esperienze comuni in cui c’è
una collaborazione autentica tra le persone; è un ambiente aperto in continua relazione
con la comunità esterna; nella scuola nuova l’insegnante ha un ruolo attivo, funge da
“regia” di tutte le relazioni tra le persone che, in maniera responsabile, si sentono parte
del gruppo e della società.
Dopo Dewey molti altri studiosi hanno considerato l’esperienza come mezzo per
apprendere e per sviluppare competenze sociali.
Roberto Medeghini e Walter Fornasa (1951-2013), due noti studiosi pedagogisti
contemporanei
qui più
volte
citati, sottolineano come l’aspetto relazionale
dell’esperienza sia indispensabile in un contesto educativo, fatto da problemi costruiti e
significati offerti e negoziati. Parlano di didattiche situazionali definendole come il
“luogo pedagogico nel quale è possibile costruire eventi dotati di senso culturale”
(Corradini, Fornasa & Poli, 2003, p.183) laddove si può conferire significato all’azione
e renderla generativa.
L’educazione è quindi un’esperienza sociale capace di sviluppare competenze personali
e relazionali, competenze di vita indipendente e di vita sociale.
35
2.2 INCLUSIONE SCOLASTICA
Uno dei padri dell’inclusione scolastica in Italia è stato Andrea Canevaro (1939-2022),
pedagogista di riferimento internazionale recentemente scomparso. Si vogliono riportare
alcune sue righe che risultano molto significative per comprendere la profondità del
concetto di inclusione. In “L'inclusione scolastica in Italia. Percorsi, riflessioni e
prospettive future” (2021) egli scriveva:
L’inclusione è un diritto fondamentale ed è in relazione al concetto di
“appartenenza”. Le persone con o senza disabilità possono interagire alla pari.
Un’educazione inclusiva permette alla scuola regolare di arricchirsi di qualità: di
diventare una scuola in cui tutti i bambini sono benvenuti, in cui tutti possono
imparare con i propri tempi e soprattutto possono partecipare; una scuola che
riesce a comprendere le diversità e a realizzare che queste sono un
arricchimento. La diversità diventa, così, normale (p.51).
Si vuole sottolineare l’importanza dei termini e concetti di appartenenza,
partecipazione e arricchimento approfondendo qualche aspetto.
Abraham Maslow (1908-1970), celebre psicologo statunitense, nella sua teoria della
motivazione umana, ha disegnato la conosciuta Piramide di Maslow che ottenne
un’incredibile notorietà. Si ritrova qui una gerarchia di necessità umane (cinque) che
ogni persona deve soddisfare; tra queste il bisogno di appartenenza è inserito ad un
livello intermedio, a seguito dei bisogni fisiologici e di sicurezza (talvolta i soli ad
essere riconosciuti alle persone con disabilità) e precedente ai bisogni di stima e di
autorealizzazione.
Se l’inclusione è appartenenza, e l’appartenenza è un bisogno fondamentale, allora
l’inclusione è un bisogno fondamentale.
Inclusione è anche partecipazione, è offrire e ricevere, è scambio. Come dice un vecchio
proverbio cinese:
36
Se tu hai una mela, e io ho una mela, e ce la scambiamo, allora tu ed io abbiamo
sempre una mela ciascuno. Ma se tu hai un’idea, ed io ho un’idea, e ce la
scambiamo, allora entrambi abbiamo due idee.
È proprio questo il concetto di arricchimento reciproco, arricchimento dato dalla
condivisione e dallo scambio di idee diverse, dato dall’incontro delle diversità.
Anche Walter Fornasa, professore associato di Psicologia dello sviluppo e
dell’educazione presso l’Università di Bergamo, offre grande valore alle relazioni
partecipative e collaborative, alla reciprocità, caratteristica intrinseca della convivenza e
dell’appartenenza.
Suggerisce
di
disegnare
“un’ecologia
sociale
[…]
entro
un’epistemologia delle differenze come risorsa antropologica per tutti” (2011, p.10),
come condizione e ricchezza evolutiva comune a ciascuna persona.
Egli sottolinea il necessario sviluppo dell’interdipendenza e della complementarietà tra
tutti gli attori del sistema educativo piuttosto che della loro indipendenza, necessarie per
una corresponsabilità negli interventi: non si tratta di condividere fra tutti la
responsabilità di un tutto, significherebbe di fatto annullarla per ciascuno; si tratta
invece di dare a ognuno una piccola parte, un piccolo compito, ruolo, da svolgere con
consapevolezza e responsabilità.
L’aspetto relazionale è stato più volte ripreso anche da Roberto Medeghini,
contemporaneo pedagogista e ricercatore presso l’Università di Bergamo. Egli parla di
una prospettiva ecologica che considera “la relazione come insieme di interazioni fra
individuo ed individui, fra individuo e contesti e fra questi e contesti più allargati”
(2011, p.17); le relazioni sono rappresentate da quell’intreccio di reti che connette le
varie e diverse parti di un sistema. La persona ha la possibilità di districarsi nelle varie
situazioni interattive, bilanciando forme di apertura (che aprono alla relazione) con
momenti di chiusura (che mantengono l’identità): questa dinamicità, cha origine grazie
alle diversità delle singole parti e alla reciproca influenza sia fra di loro che fra loro e il
sistema, rende il sistema costantemente aperto e modificabile.
Medeghini conferisce all’inclusione anche la grande capacità di promuovere la
partecipazione di tutti: essa non risponde a come si possano integrare le differenze
secondo un principio di tolleranza, ma offre una prospettiva affinché i contesti, le forme
37
organizzative e le modalità relazionali siano capaci di mettere le differenze al centro
dell’azione educativa e di valorizzarle. Fine inclusivo è abbattere gli ostacoli che
impediscono, o complicano, tali processi.
2.2.1 EDUCATORI E FORMATORI INCLUSIVI
Abbiamo fino ad ora cercato di mettere in evidenza quali sono i bisogni e le necessità
educative della società presente, quali sono le richieste e le aspettative a cui la comunità
educante deve rispondere; abbiamo studiato i principi e i valori fondanti che devono
accompagnare questo cambiamento, i modelli teorici che possono farne da guida.
In tale panorama globale è chiaro che tutti i docenti, specie coloro che hanno una
formazione non aggiornata o coloro che non hanno una formazione pedagogica, si
trovano ad affrontare sfide intense e importanti, a mettere in gioco se stessi e il modus
operandi fino ad ora acquisito.
Nel recente documento “Conclusioni del Consiglio sui docenti e i formatori europei del
futuro” (2020) il Consiglio Europeo ha riportato alcuni punti di attenzione in maniera
molto significativa e chiara.
Un’istruzione e una formazione di qualità pertinenti, inclusive ed eque non solo
forniscono ai cittadini conoscenze, abilità e competenze in linea con gli sviluppi
attuali e futuri, ma modellano anche i loro atteggiamenti, valori e
comportamenti,
consentendo
loro
di
prosperare
professionalmente
e
personalmente e di essere partecipanti attivi e responsabili nella società. […] È
essenziale sviluppare e aggiornare ulteriormente le competenze di insegnanti e
formatori, garantire la loro esperienza e incoraggiare la loro autonomia e
impegno, e promuovere il loro benessere personale e professionale, la
motivazione e il senso di valore, preparandoli a rispondere adeguatamente al
cambiamento, ma incoraggiandoli inoltre ad essere proattivi e innovativi nella
loro professione. […] Lo sviluppo professionale continuo di insegnanti e
formatori dovrebbe essere percepito come un prerequisito per offrire un
38
insegnamento e una formazione di qualità; insegnanti e formatori dovrebbero
pertanto essere incoraggiati a riflettere sulle loro pratiche e sui bisogni formativi,
nonché essere motivati e sostenuti a impegnarsi offrendo opportunità di
formazione di qualità, oltre a dare loro il tempo di partecipare e fornire incentivi.
Il documento è molto chiaro sull’importanza della formazione continua dei docenti,
l’aggiornamento e la crescita professionale e personale, attraverso il confronto e la
condivisione con i pari, la collaborazione, l’autoriflessione. I docenti/formatori devono
possedere tutte le conoscenze, competenze e gli strumenti per poter svolgere
efficacemente il loro lavoro.
Ad offrire un contributo significativo sull’educazione inclusiva, le politiche, le prassi e
la formazione dei docenti è la European Agency for Development in Special Needs
Education (Agenzia Europea per lo Sviluppo dell’Istruzione degli Alunni Disabili)
organizzazione indipendente che funge da nucleo di collaborazione tra i suoi 29 Paesi
membri. Seppur non molto recente, il “Profilo dei docenti inclusivi” (2012) è il prodotto
di studi e ricerche condotte su diversi livelli del mondo educativo in diversi Paesi e
costituisce ad oggi il più recente documento di riferimento. Nel 2022 la stessa Agenzia
ha pubblicato il “Profilo per l'apprendimento professionale degli insegnanti inclusivi:
includere tutti i professionisti dell'istruzione nell'apprendimento professionale degli
insegnanti per l'inclusione”; essendo però integralmente disponibile solo in lingua
inglese e non riportando sostanziali differenze rispetto al precedente se non l’aumento
dei soggetti destinatari, si preferisce a livello nazionale adottare l’edizione del 2012.
Il Profilo vuole identificare quali sono le competenze, i valori, i comportamenti che i
docenti devono avere per svolgere la loro professione, a prescindere dalla materia di
insegnamento, dal bagaglio culturale o della scuola in cui andranno a insegnare.
Vengono individuati quattro valori fondamentali per l’insegnamento e la formazione per
lavorare in ambienti inclusivi; ciascun valore comprende e delinea delle aree di
competenza:
1. Valorizzare la diversità dell’alunno: le differenze individuali sono risorsa e
ricchezza.
39
Le aree di competenza riportano opinioni personali sull’integrazione scolastica,
sull’inclusione e sulla differenza che esiste nel gruppo-classe.
2. Sostenere gli alunni: sottolineare il successo scolastico è importante per
coltivare alte aspettative.
Le aree di competenza riportano a promuovere l’apprendimento disciplinare,
pratico, sociale ed emotivo e ad adottare approcci didattici efficaci per classi
eterogenee.
3. Lavorare con gli altri: la collaborazione e il lavoro di gruppo sono essenziali per
l’intero team di docenti/formatori.
Le aree di competenza riportano al saper lavorare con i genitori, con le famiglie
e con i diversi professionisti dell’educazione.
4. Sviluppo e aggiornamento professionale: i docenti, educatori ma anche
educandi, sono responsabili del proprio costante e continuo apprendimento
Le aree di competenza riportano alla capacità di riflettere sul proprio ruolo e sul
proprio agire.
Ad occuparsi della formazione dei docenti dell’attuale Knowledge society anche molti
ricercatori e pedagogisti. Antonio Calvani, professore presso l’Università di Firenze e
Direttore della rivista “Form@re” in “Come fare una lezione inclusiva” (2018)
riconosce tre ambiti formativi come requisiti fondamentali per una pratica
dell’educazione inclusiva di qualità. Sinteticamente essi riguardano:
-
Le capacità relazionali, sul piano gestionale e comunicativo: tra le molte
ritroviamo qui la capacità di condurre la classe attraverso la dominanza (capacità
di far sentire la propria autorevolezza sulla classe stessa, non in maniera
autoritaria ma ferma), lo slancio (capacità di presentare un’attività in modo
coinvolgente, attivando interesse e curiosità, quindi partecipazione), il giusto
rimprovero (impersonale, non di confronto…), la gestione di attività cooperative
(livello di attenzione e collaborazione, conflitti, tempi morti…); ritroviamo
inoltre la capacità di utilizzare tecniche comunicative plurimodali: l’utilizzo di
più canali espressivi (comunicazione verbale frontale, informatica…), la
trasmissione di informazioni e consegne a tutti comprensibili, il fornire esempi e
dimostrazioni collegati alla realtà, l’offerta di canali espressivi diversificati per
la produzione e l’esecuzione di compiti…
40
-
Il trattamento cognitivo dei contenuti: è la capacità di destrutturare i contenuti
della conoscenza e di stimolare una loro ricostruzione con atteggiamento critico
e consapevole, la capacità di calibrare il carico cognitivo in rapporto ai diversi
stili e livelli di apprendimento (eliminare i fattori di possibile distrattività e le
informazioni non essenziali, favorire la concentrazione e la memoria di
lavoro…);
-
I fondamentali principi e quadri organizzativi dell’istruzione: consiste
fondamentalmente nella consapevolezza che l’efficacia di ogni strategia
didattica cambia in base al contesto, ai soggetti in apprendimento, e al formatore
stesso; comprende però la conoscenza di quegli elementi che, combinati e
alternati tra loro, sono riconosciuti di massima efficacia sempre e per tutti: il
modelling (osservazione e imitazione di un modello), la metacognizione
(autoriflessione sugli apprendimenti e sui processi e verbalizzazione dei
ragionamenti), la cooperazione riflessiva (il feedback tra pari e tra
educatore-educando; a tali strategie si affiancano le metodologie operative e gli
strumenti la cui efficacia e validità dipende, come più volte sottolineato dal
contesto (e da tutti gli elementi che lo compongono).
Tutte le linee guida, le indicazioni fino ad ora analizzate si sono però dimostrate non del
tutto esaustive: coloro che sono in prima linea nella formazione e nell’educazione,
coloro che, con bagagli culturali, personali e formativi differenti, hanno il grande
compito di facilitare l’apprendimento nelle scuole ma anche fuori (gli educatori ad
esempio), richiedono indicazioni, consigli, pratiche da seguire, strumenti da utilizzare,
metodologie da adottare; desiderano soluzioni efficaci, modelli operativi già
sperimentati. Permane la ricerca di una didattica inclusiva, di una didattica speciale
capace non solo di rispondere alle richieste sociali, ma anche di risolvere i ricorrenti
problemi che si presentano nelle classi.
Pratica consolidata nel mondo della scuola, in tutti gli ordini e i gradi, è l’affidare la
persona con bisogni “speciali” all’insegnante di sostegno, proprio per la sua formazione
“specialistica”.
Il tema solleva un limite ancora grande dell’educazione inclusiva: l’attribuzione
dell’insegnante di sostegno, e quindi le politiche e le pratiche sottese, è per normativa
41
legata ad una logica del deficit della persona come causa delle sue difficoltà, ad una
logica del non-funzionamento. È una prospettiva che permane e che, nonostante la
contitolarità della classe, sembra autorizzare tacitamente una delega esclusiva dei
bisogni “speciali”, siano essi certificati o no, all’insegnante di sostegno: la sua
conoscenza specifica
di pratiche
didattiche “speciali” rende la sua figura
apparentemente indispensabile. Questo “specialismo” ha generato una frammentazione
formativa della professione: un percorso “normale” per i docenti di classe e uno
“speciale” per quelli di sostegno, due diverse classi di concorso; questo, nella pratica,
non fa altro che alimentare la delega esclusiva e lo specialismo stesso (Medeghini &
Fornasa, 2011).
Dario Ianes, professore di Pedagogia dell’inclusione presso l’Università di Trento, è uno
tra i ricercatori che hanno dedicato maggior attenzione al tema. Nel criticare l’attuale
sistema delegante, propone un nuovo “modello di sostegno” possibile grazie ad
un’evoluzione bidirezionale: da una parte la maggioranza degli insegnanti di sostegno
dovrebbero diventare insegnanti curricolari di classe, aumentando l’organico che
dovrebbe così garantire compresenze costanti; gli altri dovrebbero invece assumere il
ruolo di peer tutor, specialisti itineranti capaci di offrire un supporto tecnico a tutti gli
insegnanti. Questo modello potrebbe, secondo l’autore, essere un buon modo per
rendere tutti gli insegnanti protagonisti attivi e responsabili della diffusione
dell’inclusione scolastica (Ianes, 2015).
Non si intende in questa sede approfondire il tema della figura dell’insegnante di
sostegno, oggetto di grandi dibattiti nel mondo dell’educazione e della formazione. Si
intende solo osservare che nonostante i numerosi progressi fatti e gli sforzi compiuti, la
risposta che tuttora viene offerta non segue in realtà i principi inclusivi, non abbraccia
nel concreto gli ideali e i valori guida.
L’inclusione dovrebbe prevedere una presa in carico di tutti da parte di tutti, dovrebbe
prevedere una formazione inclusiva di tutti i docenti, non una formazione separata e
specialistica che, di fatto, non fa che continuare a sottolineare la disabilità e la
differenza (Medeghini, 2011).
42
2.2.2 DIDATTICA PER COMPETENZE e IEFP
Il concetto di competenza ha assunto connotazioni e significati diversi a seconda del
contesto culturale e storico di riferimento; negli ultimi anni si è notevolmente diffuso in
molti settori, da quello politico ed economico a quello della formazione e
dell’istruzione; nei sistemi italiani di Istruzione e Formazione Professionale la didattica
per competenze è ormai consolidata.
Nel 2008, a seguito di un lavoro iniziato due anni prima, è stata pubblicata la
Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio. Qui si stabilisce la
definizione di importanti termini guida.
Conoscenze:
risultato
dell’assimilazione
di
informazioni
attraverso
l’apprendimento. Le conoscenze sono un insieme di fatti, principi, teorie e
pratiche relative ad un settore di lavoro o di studio. Le conoscenze sono descritte
come teoriche e/o pratiche;
Abilità: indicano le capacità di applicare conoscenze e di utilizzare know-how
per portare a termine compiti e risolvere problemi. Le abilità sono descritte come
cognitive (comprendenti l’uso del pensiero logico, intuitivo e creativo) o
pratiche (comprendenti l’abilità manuale e l’uso di metodi, materiali, strumenti);
Competenze: comprovata capacità di utilizzare conoscenze, abilità e capacità
personali, sociali e/o metodologiche, in situazioni di lavoro o di studio e nello
sviluppo professionale e personale. Le competenze sono descritte in termini di
responsabilità e autonomia.
Non si tratta quindi più di insegnare conoscenze, abilità e capacità, ma far sì che il
discente sia in grado di utilizzarle nelle diverse situazioni di vita per eseguire compiti
assegnati, risolvere problemi, in termini di responsabilità e di autonomia: il concetto di
competenza sembra rispondere esattamente alle esigenze e alle richieste dell’attuale
società della conoscenza.
43
Il quadro di riferimento, già delineato nella Raccomandazione precedente (2006), è dato
dalle otto competenze chiave, “quelle di cui tutti hanno bisogno per la realizzazione e lo
sviluppo personali, la cittadinanza attiva, l’inclusione sociale e l’occupazione”:
-
comunicazione nella madrelingua;
-
comunicazione nelle lingue straniere;
-
competenza matematica e competenze di base in scienza e tecnologia;
-
competenza digitale;
-
imparare a imparare;
-
competenze sociali e civiche;
-
spirito di iniziativa e imprenditorialità;
-
consapevolezza ed espressione culturale.
Seguendo questo orizzonte di riferimento numerose normative si sono susseguite per
stabilire e definire gli orientamenti in riferimento a ciascun ordine e grado; l’Istruzione
e Formazione Professionale è regolata da Accordi di Conferenza Stato-Regioni. Sono
qui riconosciute sedici competenze di base raggruppate in quattro assi culturali: l’asse
dei linguaggi, l’asse matematico, l’asse scientifico-tecnologico e l’asse storico-sociale;
ciascuna competenza è descritta in abilità e conoscenze; al termine del percorso le
competenze vengono certificate secondo il Quadro Europeo delle Qualifiche.
Il tema dell’insegnamento delle competenze è validato anche grazie all’interesse e allo
studio di diversi pedagogisti, che propongono sperimentazioni e innovazioni alla ricerca
di modelli sempre più efficaci. Nota è la figura di Franca Da Re, Dirigente tecnico
MIUR nel contesto veneto che si occupa di formazione per docenti e dirigenti scolastici
con particolare attenzione alla didattica per competenze e a tutti gli aspetti ad essa
correlati. A sottolinearne il valore, in si legge: “Le competenze costituiscono il
significato dell’istruzione, sono in grado di dare motivazione alle abilità, alle
conoscenze e ai contenuti disciplinari. Attraverso la didattica per competenze, riusciamo
a rispondere alle domande degli studenti, che celano un bisogno profondo di attribuire
senso al proprio apprendimento e al proprio lavoro” (2013, p.19). L’autrice sottolinea
l’importanza dell’esperienza, del proporre problemi concreti da risolvere, del creare
situazioni reali nelle quali le competenze possano essere agite, conosciute e
sperimentate grazie alle conoscenze e abilità possedute; valorizza l’apprendimento
44
cooperativo, capace di agire sugli aspetti relazionali, comunicativi e di cittadinanza, la
riflessione e la riformulazione metacognitiva.
La didattica per competenze quindi non è una pura trasmissione di saperi, è una
formazione che deve toccare i tre livelli del sapere, saper fare e saper essere. Uno dei
presupposti è che gli studenti apprendono meglio quando con una costruzione del sapere
attiva, che li coinvolge e che li fa partecipare, attraverso situazioni di apprendimento
basate sull’esperienza. Le competenze comprendono anche le idee, i principi, i valori;
perfino emozioni e sentimenti ne danno una diversa intensità di significato; mettono in
gioco il bagaglio personale, a livello professionale e personale, mettono in gioco
l’interezza di ciascuno; vengono agite in contesti sociali fatti di persone e di relazioni.
Citando Da Re, “La competenza non si insegna: si può solo sviluppare, attraverso
l’agire competente di coloro che hanno responsabilità educativa” (2014, p.43)
Al docente/formatore viene chiesto di spostare il proprio focus dalla disciplina in sé e
dai suoi contenuti, alla persona in apprendimento e al contesto in cui esso avviene. La
sua funzione non è più quella di trasmettere conoscenze, ma di allenare le competenze,
facilitare la loro crescita, offrendo stimoli di riflessione, curando le relazioni,
stimolando la collaborazione, la cooperazione e la partecipazione di tutti.
Occupandoci in questo lavoro dei sistemi di istruzione e formazione professionale, è
utile specificare alcuni aspetti che ne caratterizzano la struttura organizzativa.
Il primo aspetto riguarda il bagaglio formativo dei docenti e la loro diversa preparazione
in ambito pedagogico. Le competenze culturali, che consistono nelle “unità di
apprendimento” di italiano, matematica, lingue straniere… sono materie assegnate a
docenti che hanno una formazione, oltre che sulla didattica in senso stretto, anche su
discipline pedagogiche e sociali. Le competenze tecnico-professionali, invece, sono in
mano a tecnici del settore che possiedono “soltanto” una formazione didattica specifica:
i cuochi che insegnano nei corsi di ristorazione, i meccanici nella meccanica, gli
elettricisti… non hanno conoscenze pedagogiche se non quelle acquisite dall’esperienza
e stabilizzate nel tempo.
I team educativi sono quindi, nell’ambito della formazione e istruzione professionale,
molto eterogenei e variegati: alcuni soggetti hanno una formazione pedagogica, ma altri
45
no; pochi hanno una formazione specializzata in inclusione, qualcuno in disabilità. A
tutti però vengono rivolte le stesse richieste: dalla lettura delle differenze alla gestione
della classe (sempre molto numerosa e “difficile”), dalla comunicazione empatica alla
gestione del conflitto… Per rispondere nella maniera più efficace gli insegnanti si
basano quasi esclusivamente su un loro “modus operandi” costruito sulla base sia della
loro esperienza diretta che delle prassi consolidate all’interno di quel sistema-scuola.
Sistema-scuola che spesso appare come un sistema chiuso, in cui le relazioni con
l’esterno sono limitate ai rapporti di partenariato, oppure con le famiglie degli alunni;
c’è poco confronto tra sistemi-scuola, poca condivisione di problematiche e di buone
prassi di risoluzione, poca collaborazione e cooperazione nell’affrontare le nuove
problematiche emergenti.
Un ulteriore punto di rilevante importanza è l’assenza degli insegnanti di sostegno come
comunemente intesi. Mentre la Scuola Ministeriale prevede la presenza dell’insegnante
di sostegno in affiancamento a una disabilità certificata, nei centri di formazione
professionale accreditati dalle Regioni questo non è previsto; è presente la figura di un
tutor didattico che, affidato ad un massimo di sette classi, ha anche il compito di
occuparsi proprio dei bisogni “speciali”; nei casi più gravi è possibile reclutare una
figura a sostegno, ma secondo compenso della famiglia che poi, se in possesso di
determinati requisiti, può richiedere un contributo regionale (in Regione Veneto). Come
già accennato però, non si intende in questa sede affrontare il tema.
In riferimento e arricchimento del “Profilo del docente inclusivo” di cui abbiamo già
parlato, la Provincia Autonoma di Bolzano ha pubblicato il “Profilo di competenze del
docente/formatore di centro di formazione professionale” secondo il “Repertorio
nazionale dei titoli di istruzione e formazione e delle qualificazioni professionali”.
Il documento descrive il lavoro del formatore e declina le competenze del suo profilo in
senso formativo; esso individua tre sezioni: le quindici aree di apprendimento, le quattro
competenze chiave, o core competiencies, e le attività formative dedicate ai docenti
stessi. Tra le core competiencies ritroviamo:
-
Il sapere di base nell’ambito di insegnamento;
-
Un alto livello di saper fare;
-
La capacità (e volontà) di trasmettere agli altri il proprio saper fare;
46
-
La formazione continua.
Si parla inoltre di competenze metodologiche tra cui:
-
utilizzo adeguato e coerente con gli obiettivi di diverse metodologie didattiche e
tecniche di presentazione delle conoscenze;
-
capacità di gestione e conduzione della classe/aula;
-
capacità di organizzare un insegnamento attivo;
-
conoscenze in project management.
Il Profilo fa riferimento anche all’apprendimento socio-comunicativo, alle tecniche
basilari di cooperazione e di comunicazione tra cui:
-
conoscenze pedagogiche e psicologiche;
-
conoscenze sul funzionamento dei gruppi con una visione sistemica (dinamiche,
gestione dei conflitti…)
-
capacità di lavorare in gruppo e con la comunità;
-
capacità comunicative, linguistiche e di ascolto.
Viene
trattato
poi l’apprendimento
etico-affettivo e le competenze del sé
(self-competence), che fa riferimento alla conoscenza e alla cura di sé e
all’auto-responsabilità; è necessario:
-
saper motivare e suscitare entusiasmo;
-
disponibilità al cambiamento;
-
disponibilità al confronto;
-
capacità di accettare i limiti e le potenzialità, di gestire l’errore, di
auto-riflessione e di flessibilità;
-
consapevolezza dei propri orientamenti e atteggiamenti didattico-pedagogici;
-
responsabilità per il proprio ruolo;
-
conoscenza del ruolo della formazione professionale nel contesto sociale,
politico ed economico della propria Regione.
Tra le attività formative utili vengono segnalati i seminari tematici, il project work, le
visite formative in aula, l’autoformazione, la documentazione di attività online e la
stesura di un Portfolio Personale del Docente contenente anche un Diario Riflessivo di
Apprendimento, una sorta di raccolta di esperienze didattiche personali.
47
Il Profilo non ha una validità nazionale ma è l’unico documento che fa riferimento alle
competenze
del
docente/formatore
nell’ambito
dell’Istruzione
e
Formazione
professionale.
2.3 L’UDL IN PRIMO PIANO
La cornice teorica esposta ci ha permesso di far luce sulla nostra immagine centrale, lo
Universal Design for Learning (o PUA, Progettazione Universale per l’Apprendimento)
che è, tra tutti gli orientamenti internazionali, quello di maggior interesse ai fini di
un’applicazione diretta.
2.3.1 LA PROGETTAZIONE UNIVERSALE
Le progettazioni universali rispondono all’idea di utile per tutti, indispensabile per
qualcuno: sono sì pensate per soddisfare bisogni specifici di gruppi di persone, ma
portano beneficio e giovamento in realtà a tutti.
Nella vita quotidiana basti pensare alle porte automatiche dei supermercati, pensate per i
soggetti con disabilità ma risultano essere comodissime per chiunque esca portando in
mano due borse cariche di spesa; nell’insegnamento le mappe concettuali vengono
proposte a chi ha un disturbo dell’apprendimento, ma sono molto utili a tutti nel
momento del ripasso.
Nell’ambito dell’educazione e dell’apprendimento la progettazione universale è una
progettazione che considera ab initio tutte le differenze e le diversità pensando azioni
educative che possano abbracciarle tutte, non modifica in itinere i percorsi in base alle
difficoltà dei singoli. Non si vuole entrare in merito ai concetti di personalizzazione e
individualizzazione della didattica, né alla differenza terminologica e concettuale seppur
sia essa importante. Quello che si vuole sottolineare è che l’universalizzazione, pensata
e pianificata a priori e per tutti, sarebbe la risposta più efficace ed “economica”: non
48
sarebbe necessario apportare quegli aggiustamenti che spesso, per mancanza di tempo e
di risorse, non si rivelano altro che rappezzamenti improvvisati.
Ecco forse un ulteriore elemento di criticità che ancora caratterizza i sistemi formativi
italiani: gli insegnanti spesso lavorano “a breve termine”, sono quotidianamente
chiamati a rispondere ai problemi delle classi, sempre più presenti e difficili; devono
affrontare ogni giorno situazioni per le quali loro stessi non sono preparati; difficilmente
hanno il tempo e le risorse per fermarsi a pensare a riflettere. Così quella che sarebbe
potenzialmente la risposta più “economica” diventa la più gravosa e dispendiosa; più
semplice invece è occuparsene, in caso, al bisogno. Permane la logica del bisogno e
della difficoltà; con attenzione e premura si guardano i Bisogni Educativi Speciali, i
Disturbi Specifici dell’Apprendimento, le diagnosi biomediche di disabilità. Se da un
lato in paradigma inclusivo richiede una de-categorizzazione per rispondere ai diritti
umani universali in quanto tali, dall’altro stiamo continuando ad alimentare quella
stessa categorizzazione basata sul non-funzionamento che si cerca di superare
(Medeghini & Fornasa, 2011).
2.3.2 L’UDL COME POSSIBILE RISPOSTA
L’UDL trae la sua origine dallo Universal Design, concetto sviluppato in America,
all'Università della Carolina del Nord, negli anni ’80 a partire dal contributo di Ronald
L. Mace. In conseguenza al riconoscimento dei diritti (anche) delle persone con
disabilità e per adempiere alle norme in merito, il movimento mirava a sviluppare
prodotti e ambienti fisici utilizzabili dal maggior numero di persone possibili.
Parallelamente il CAST, Centro per le Tecnologie Speciali Applicate nato nel 1984, che
si occupava non di architettura ma di apprendimento, studiava come poter allargare
l’accesso degli alunni con disabilità non alle strutture ma ai curricula.
Inizialmente l’attenzione era focalizzata sull’assistenza e sull’adattamento delle
persone, ma questo oscurava la visione dell’ambiente che si è rivelato poi essere
fondamentale nel determinare la disabilità stessa. Le proposte didattiche tradizionali
49
erano omogenee e rigide, ben rispondevano alle caratteristiche di qualcuno ma, se il
singolo era "incapace di adattarsi”, era necessario realizzare proposte personalizzate.
Poi, in linea con i cambiamenti della società e con l’evoluzione del pensiero, anche
l’attenzione del CAST si è spostata dal soggetto al “curriculum disabile”: sono i
curricula che, proponendo in maniera rigida un livello unico per tutti, sono responsabili
dell’adattamento del soggetto e di una eventuale disabilità; è pertanto necessario
intervenire sui curricula piuttosto che sugli studenti, rendendoli accessibili ed efficaci
per tutti, rispettosi delle diversità, inclusivi.
Le linee guida, compilate da David H. Rose, Co-fondatore e capo dell’Ufficio
dell’Educazione del CAST, e da Jenna Gravel, dottoranda all’Università di Harvard,
sono frutto di un lavoro sinergico tra insegnanti, ricercatori, pedagogisti e altre figure
professioniste; un lavoro continuo che invita tutte le persone del settore ad offrire un
contributo, ad esprimere un’idea, un commento, in un’ottica di continuo miglioramento.
La prima versione risale al 2008, l’ultima al 2018 (versione 2.2). Ai fini del presente
lavoro utilizzeremo la versione 2.0 del 2015, tradotta in italiano da Giovanni Savia e
Paolina Mulè; ultima ad essere stata tradotta, è la più diffusa nel contesto nazionale
italiano.
I principi dello Universal Design for Learning quindi, riprendendo quelli dell’UD che
riguardavano il semplice accesso fisico agli ambienti, mirano a offrire a tutti gli
studenti, fin dalle iniziali progettazioni curricolari, pari opportunità di apprendimento,
eliminando tutte le barriere inutili e riducendo gli ostacoli.
In una prima parte il testo riprende i principi base dell’inclusione, definisce alcuni
concetti, contestualizza l’UDL in un quadro ampio.
Vengono qui ripresi gli scopi dell’educazione che abbiamo analizzato nelle pagine
precedenti. L’educazione deve aiutare tutti gli studenti a “imparare a imparare”
(utilizzando parole di Delors), a diventare “studenti esperti”: studenti ben informati,
pieni di risorse, orientati agli obiettivi, motivati e determinati; studenti che vogliono
apprendere, che sanno come apprendere e che sono preparati ad apprendere. Il “tutti”
sottolinea il principio di universalità che la stessa Agenda 2030 definisce come il suo
50
quarto obiettivo: “fornire un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di
apprendimento per tutti”.
Il documento chiarisce poi alcuni riferimenti scientifici che gli conferiscono significato,
basi che si ritrovano nella neuroscienza, nelle scienze dell’apprendimento e nella
psicologia cognitiva. Tutte le ricerche confermano e sottolineano la diversità cerebrale,
la variabilità e l’unicità dei processi di apprendimento, la specificità della percezione,
dell’azione e dell’espressione della persona.
Si citano Piaget, Bloom, Vygotskij e la zona di sviluppo prossimale, ma si decide, in
questa sede, di non scendere nel dettaglio. Per capire però dove sono radicati e come
sono nati i tre principi, è interessante la scoperta delle reti di apprendimento.
Il processo di apprendimento coinvolge, nella mente, tre reti diverse tra loro
interconnesse:
-
La rete di riconoscimento: definisce come vengono raccolti i fatti, come viene
classificato l’oggetto del vedere, del leggere, del sentire… Si tratta del “cosa”
dell’apprendimento;
-
La rete strategica: definisce come vengono pianificati ed eseguiti i compiti,
come
vengono
organizzati
ed
espressi
i
pensieri.
È
il
“come”
dell’apprendimento;
-
La rete affettiva: definisce il coinvolgimento, la motivazione, l’interesse, il
“perché” dell’apprendimento.
La rete di riconoscimento definisce “cosa” fare; attiva quindi la rete strategica, la quale
offre indicazioni su “come” rendere l’azione efficace; l’efficacia è stabilita anche e
soprattutto dalla rete affettiva, che fornisce il “perché”, la motivazione.
Sulla base di questi tre versanti su cui ragiona la mente dell’essere umano lo Universal
Design for Learning sviluppa i suoi tre principi:
-
Rete di riconoscimento e rappresentazione: fornire molteplici mezzi di
rappresentazione;
-
Rete strategica e azione: fornire molteplici mezzi di azione ed espressione;
-
Rete affettiva e coinvolgimento: fornire molteplici mezzi di coinvolgimento.
51
Veniamo ora ai tre principi ciascuno suddiviso per linee guida; i punti ritenuti importanti
rappresentano l’ulteriore suddivisione in momenti di verifica. La struttura va quindi ad
approfondire ciascun elemento da un livello di dettaglio più generale a un livello di
dettaglio più specifico.
2.3.3 PRINCIPIO I: FORNIRE MOLTEPLICI MEZZI DI
RAPPRESENTAZIONE
Il principio parte dal presupposto, ampiamente dimostrato e consolidato, secondo cui gli
studenti differiscono nelle modalità con cui percepiscono e comprendono le
informazioni che vengono loro presentate.
Si può pensare alle disabilità sensoriali: le persone con cecità necessitano di mezzi
uditivi, preferiti anche dai coetanei a cui non piace leggere; al contrario le persone con
sordità necessitano di mezzi scritti, analogamente a chi ha una memoria
prevalentemente visiva e fotografica: mezzi “necessari per qualcuno, ma utili per tutti”.
Le linee-guida qui presentate riguardano:
1. Fornire differenti opzioni per la percezione: la percezione dell’informazione è il
primo prerequisito all’apprendimento e la sua modalità ne determina i successivi
passaggi.
È importante:
-
offrire opzioni che permettono la personalizzazione nella presentazione
delle informazioni, che permettono a chi utilizza il mezzo di modificarlo
al fine di renderlo più adatto alle caratteristiche della persona in
apprendimento;
-
offrire alternative per le informazioni uditive in quanto l’ascolto (e la
successiva organizzazione dei concetti, la loro memorizzazione…) è
un’abilità complessa che non tutti sviluppano allo stesso modo e negli
stessi tempi;
52
-
offrire alternative per le informazioni visive, per quanto queste siano le
più utilizzate perché ritenute spesso il mezzo più efficace.
2. Fornire molteplici opzioni per la lingua, le espressioni matematiche e i simboli,
per promuovere la chiarezza e la comprensione di tutti.
È importante:
-
chiarire il lessico e i simboli, la loro associazione con un significato;
-
chiarire la sintassi e la struttura di ogni rappresentazione, le relazioni tra i
suoi elementi;
-
facilitare la decodificazione di testi, notazioni matematiche e simboli,
affinché questa diventi un fluido automatismo;
-
promuovere la comprensione tra differenti lingue utilizzando materiali
bilingue, e illustrare attraverso molteplici mezzi come supporto al testo.
3. Fornire opzioni per la comprensione: dopo aver percepito e raccolto
l’informazione è necessario saper trasformare l’informazione ricevuta in
conoscenza; l’elaborazione delle informazioni in conoscenza è un processo
attivo che consente di utilizzare la conoscenza stessa per acquisire altre
informazioni, a loro volta da elaborare in altra conoscenza… in un’ottica di
crescita continua, di apprendimento continuo.
È importante:
-
quindi attivare o fornire la conoscenza di base pregressa o collegamenti
con essa, fissare i contenuti appresi;
-
evidenziare schemi, caratteristiche essenziali, idee principali e relazioni,
evidenziando ciò che è importante da ciò che non lo è (abilità che
distingue i più esperti dai meno esperti);
-
guidare l’elaborazione dell’informazione, la visualizzazione e la
manipolazione,
abilità
cognitiva
che consente
di organizzarla,
contestualizzarla e memorizzarla;
-
massimizzare il transfer e la generalizzazione dell’apprendimento in
contesti diversi.
Nella pratica quotidiana significa predisporre materiali scritti e forme di verifica
prestando attenzione alla scelta del font, della spaziatura, dell’impaginazione (parole in
evidenza, sottoparagrafi…); utilizzare eventuali immagini, grafici e tabelle che offrono
53
un potente supporto cognitivo a livello organizzazione e collegamento tra i contenuti
significativi, facilitano la memorizzazione e l’elaborazione dei contenuti; anche le
mappe e gli schemi sono importanti per favorire la revisione e fissare le conoscenze;
facilitatore altro è fornire anticipatamente i significati lessicali sconosciuti e una sintesi
dei contenuti che si andranno ad esplorare.
2.3.4 PRINCIPIO II: FORNIRE MOLTEPLICI MEZZI DI AZIONE
ED ESPRESSIONE
Il presupposto qui assunto è che azione ed espressione richiedono molte strategie sia
pratiche che di organizzazione; ciascuno differisce in tali aspetti, quindi nella modalità
con cui sa meglio esprimere ciò che sa.
Pensiamo ora alle persone con deficit linguistici, che preferirebbero l’espressione
scritta, analogamente alle persone timide; pensiamo anche alle persone con disabilità
prassiche o con disturbi dell’apprendimento (disgrafia), che prediligerebbero invece la
forma orale, allo stesso modo di coetanei predisposti al parlare in pubblico: mezzi
“necessari per qualcuno, ma utili per tutti”.
Le linee-guida qui presentate riguardano:
1. Fornire opzioni per l’interazione fisica: la varietà e la molteplicità di navigazioni
e di interazioni che gli studenti hanno con gli strumenti utilizzati sono
fondamentali affinché tutti possano esprimere al meglio ciò che sanno.
È importante:
-
Variare i metodi di risposta e di navigazione, di interazione tra la persona
in apprendimento e l’ambiente circostante nello svolgimento di un
compito;
-
Ottimizzare l’accesso agli strumenti, ai prodotti e alle tecnologie di
supporto per una piena partecipazione attiva di tutti.
2. Fornire opzioni per l’espressione e la comunicazione, sia a livello di interazione
tra gli studenti che a livello di espressione delle conoscenze apprese.
54
È importante:
-
Usare molteplici mezzi di comunicazione, di espressione;
-
Usare molteplici strumenti per la costruzione e la composizione, in
maniera che ciascuno possa scegliere lo strumento che meglio si adatta
alle predisposizioni e capacità individuali, e alle richieste del compito
stesso;
-
Costruire competenze con livelli graduali di supporto per la pratica e
l’esecuzione, livelli graduali di aiuto e di libertà finalizzati allo
svolgimento autonomo del compito.
3. Fornire opzioni per le funzioni esecutive: associate alla corteccia prefrontale del
nostro cervello, le funzioni esecutive ci permettono di superare l’impulsiva
reazione a breve termine e di impostare e seguire obiettivi a lungo termine,
pianificando strategie efficaci, valutando i progressi in itinere, rimodulando se
necessario le strategie; le funzioni esecutive sono fortemente condizionate dalla
memoria operativa.
È importante:
-
Guidare alla scelta di obiettivi adeguati in maniera che ciascuno sappia
prefiggersi traguardi personali realistici e sfidanti;
-
Aiutare la pianificazione e la scelta delle strategie, stimolando il
“fermarsi a pensare”;
-
Facilitare la gestione dell’informazione e delle risorse, mantenendole
costantemente accessibili e organizzate;
-
Aumentare la capacità di monitorare i processi, offrendo chiari feedback
sui progressi fatti a livello di processo di apprendimento, indispensabili
per capire cosa migliorare.
Nella quotidiana pratica didattica significa offrire più forme di verifica sugli stessi
contenuti, proporre materiali di supporto ad un’esposizione orale logica e coerente. Le
mappe concettuali sono uno strumento potentissimo per l’organizzazione dei contenuti:
vanno pianificate condividendo contenuti e significati con gli studenti, presentate con
opzioni di personalizzazione, prima insieme poi con un lavoro autonomo.
55
2.3.5 PRINCIPIO III: FORNIRE MOLTEPLICI MEZZI DI
COINVOLGIMENTO
È ormai consolidata e dimostrata l’idea secondo cui la motivazione gioca un ruolo
fondamentale nel processo di apprendimento; è un elemento che sostanzialmente non
dipende molto dalla disabilità, quanto forse più dall’idea di autoefficacia. C’è chi ottiene
risultati migliori lavorando da solo, chi invece è favorito dalle modalità interattive del
gruppo; c’è chi preferisce la novità alla routine, chi invece il contrario. È fondamentale,
a prescindere, che ciascuno studente si senta coinvolto nel compito.
Le linee-guida qui presentate riguardano:
1. Fornire soluzioni per attirare l’interesse: l’informazione che non attira l’interesse
viene eliminata e resta inaccessibile anche in futuro; gli studenti si differenziano
molto nei loro oggetti di interesse, oggetti che cambiano, per la stessa persona,
anche nel tempo in base al progredire delle conoscenze e delle competenze, in
base alla crescita biologica.
È importante:
-
Ottimizzare la scelta individuale e l’autonomia, nella decisione su come
raggiungere determinati obiettivi più che nella selezione degli obiettivi
stessi;
-
Ottimizzare la pertinenza, il valore e l’autenticità del compito, in
relazione alla vita reale e agli obiettivi personali di ciascuno;
-
Ridurre al minimo rischi e distrazioni dell’ambiente per agevolare la
concentrazione unicamente sul processo di apprendimento.
2. Fornire opzioni per sostenere lo sforzo e la perseveranza: uno degli obiettivi è
favorire, motivando la persona in apprendimento, la sua autoregolazione e
autodeterminazione.
È importante:
-
Rafforzare l’importanza delle mete e degli obiettivi, ricordandoli;
-
Variare le domande e le risorse per ottimizzare la sfida, affinché ciascuno
trovi la sfida più motivante;
56
-
Promuovere la collaborazione e la comunità, il confronto, la
cooperazione, favorendo il lavoro di gruppo, incoraggiando il supporto
tra pari;
-
Aumentare il feedback orientato alla padronanza, feedback che deve
essere rilevante, costruttivo, tempestivo, chiaro e comprensibile.
3. Fornire opzioni per l’autoregolamentazione: si tratta di aiutare lo sviluppo della
capacità di modulare in maniera strategica le proprie reazioni comportamentali
per gestire efficacemente le relazioni con l’ambiente circostante, aspetto
fondamentale per lo sviluppo sociale umano.
È fondamentale:
-
Promuovere le aspettative e le convinzioni che ottimizzano la
motivazione, favorendo la scelta di obiettivi personali concreti e
raggiungibili, incoraggiando l’autoriflessione;
-
Facilitare le abilità e le strategie personali, offrire supporti emotivi,
simulazioni dimostrative della vita quotidiana;
-
Sviluppare l’autovalutazione e la riflessione, evidenziare i progressi.
La pratica quotidiana richiede quindi un clima scolastico di benessere e non competitivo
capace di sviluppare autostima e senso di autoefficacia in tutti gli studenti; richiede
l'instaurarsi di buone relazioni sia tra formatori e studenti che tra studenti stessi,
relazioni basate su stima, fiducia e rispetto reciproco. Il lavoro di gruppo (prima in
coppia come forma più semplice di cooperazione), la riflessione e la discussione
collettiva, i frequenti feedback sono potenti mezzi per instaurare un clima favorevole in
quanto agevolano la collaborazione, la condivisione, il confronto e la negoziazione,
incoraggiano all’apprendimento evidenziandone il piacere e sviluppano le competenze
metacognitive.
L’UDL è uno strumento operativo flessibile e in costante evoluzione che offre
all’educatore strategie, principi e linee-guida necessari ad una progettazione di
interventi e attività che comprendono e valorizzano le differenze di tutti; uno strumento
utile per la formazione di un docente/formatore riflessivo, che crede nei valori del
proprio ruolo.
57
Usando le parole di Giovanni Savia (2015) lo Universal Design for Learning “offre una
risposta potente e completa alla crescente richiesta di strategie curricolari
«personalizzabili» che possono ospitare la piena diversità degli studenti e degli
insegnanti all’interno del sistema educativo” (p. 56).
2.3.6 LE TECNOLOGIE INFORMATICHE
Oltre a voler diffondere una cultura e una pratica inclusiva che valorizza le differenze,
lo Universal Design for Learning ha anche lo scopo di stimolare un uso critico e
consapevole delle TIC, Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione.
Le tecnologie, rispetto ai mezzi tradizionali, rispondono più efficacemente alle diverse
esigenze e predisposizioni degli studenti, in quanto offrono una varietà di accesso, di
interazione e di partecipazione.
Tra le caratteristiche che conferiscono alle tecnologie grandi vantaggi e potenzialità
possiamo individuare le quattro più rilevanti (Savia, 2016):
-
La versatilità, capacità di adattare con velocità e facilità lo stesso contenuto in
diversi formati (testo, immagine, suono...) senza modificarlo;
-
La capacità di trasformazione di un contenuto da un formato all’altro senza
alterarlo;
-
La marcatura, cioè la possibilità di mettere in evidenza alcune parti del
contenuto rispetto ad altre per facilitare l’organizzazione dei contenuti;
-
La connettività, possibilità di fare connessioni all’esterno del documento, di
mettere in relazione gli argomenti.
L’utilizzo delle tecnologie digitali consente di superare barriere, di abbattere ostacoli, di
rendere quindi l’apprendimento maggiormente accessibile per tutti. Da non
sottovalutare inoltre come l’utilizzo di molteplici modalità di presentazione
dell’informazione e la possibilità di elaborarla in diverse forme sia molto motivante per
le ultime generazioni, motivazione che, come abbiamo detto, facilita l’apprendimento.
58
Antonio Calvani, autore già qui citato, in “Come fare una lezione inclusiva” (2022),
solleva però una riflessione che si vuole riportare. Le tecnologie si stanno sviluppando
con una velocità sempre maggiore, la loro offerta cresce in maniera esponenziale:
dovrebbe essere un vantaggio, questo, ma paradossalmente è un ostacolo. Il tempo
necessario per mettere a regime una nuova tecnologia (saperla utilizzare con
padronanza) rende obsoleta la tecnologia stessa, in quanto già in diffusione la più
nuova, la più aggiornata. È una sorta di rincorsa continua all’ultimo mezzo: appena
raggiunto uno, se ne vede un altro poco più avanti. Nel contesto scolastico non si può
dire che questo vada incontro al principio di sostenibilità dell’utilizzo delle TIC.
Lo stesso autore evidenzia inoltre che le criticità maggiori poste dalle tecnologie in
ambito educativo alla gestione della classe è il loro carattere dispersivo: il loro largo
utilizzo, specie tra i giovani, può provocare un sovraccarico cognitivo che, secondo la
Teoria del Carico Cognitivo, è tra le principali cause di distrazione (Savia, 2022).
Le Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione rappresentano quindi una
risorsa con un grande potenziale che è utile saper cogliere, risorsa importante ma, si
specifica, non unica.
59
CAPITOLO 3
LA RICERCA
È stato proposto nei capitoli precedenti il cammino che ha portato l’intera società a
parlare, al giorno d’oggi, di inclusione; sono stati definiti un linguaggio comune e un
paradigma teorico di riferimento in cui collocare il tema affrontato.
Come visto le richieste e le necessità del mondo educativo e le domande che
l’insegnamento pone per affrontare le nuove sfide aprono a prospettive di lavoro ricche
e variegate.
La presente ricerca intende offrire un contributo per riflettere e confrontarsi, per pensare
e progettare, insieme, future azioni e interventi volti a diffondere l’inclusione nel
sistema scolastico, per accogliere tutti realmente e per valorizzare concretamente le
differenze e le potenzialità di ciascuno.
3.1 INDEX FOR INCLUSION
L’Index per l’Inclusione è uno strumento nato in Inghilterra come risultato di una
ricerca condotta dal Centre for Studies on Inclusive Education e diretta da Mark
Vaughan e da Mel Ainscow. Numerose sperimentazioni pilota effettuate in scuole di
diverso ordine e grado hanno portato ad una prima pubblicazione dell’Index nel 2000,
aggiornata poi sulla base dei feedback e delle osservazioni provenienti dalla sua sempre
maggior diffusione; nel 2008 ne uscì una prima edizione italiana. Tradotto in quasi
quaranta lingue, risulta essere ad oggi il punto di riferimento internazionale per la
progettazione inclusiva nei sistemi scolastici.
Scopo dello strumento è consentire alle scuole di auto-analizzare il proprio livello di
inclusività, identificare quali gli aspetti da potenziare e progettare interventi
60
migliorativi; utilizzare l’Index significa dare avvio a un ciclo di sviluppo senza fine,
volto a promuovere e sempre più diffondere l’inclusione nella scuola e nella comunità,
favorendo una progettazione partecipata e allargando la rete degli attori coinvolti. Lo
strumento non intende quindi limitarsi ad offrire una descrizione, per quanto esaustiva e
dettagliata, ma anche e soprattutto “realizzare un effettivo cambiamento che investa gli
aspetti culturali, organizzativi e pedagogici implicati dal processo di trasformazione
inclusiva” (Dovigo & Ianes, 2008, p.28).
L’Index è quindi uno strumento di analisi, di progettazione e di ricerca-azione volto a
stimolare una riflessione critica e trasformativa della condizione presente; la sua forza e
validità sono date dalla possibilità di analizzare parametri sia quantitativi che qualitativi,
in maniera rigorosa ed empirica ma anche aperta e flessibile, richiamando la
partecipazione e la mobilitazione di risorse sociali, economiche, relazionali da parte di
tutti gli stakeholders della comunità educante per mettere in luce aspetti interni ed
esterni alla scuola stessa (Dovigo & Ianes).
In una prima parte del testo vengono delineati i concetti chiave dell’inclusione e il
contesto storico e culturale nel quale è nata e si sta sviluppando; vengono affrontati i
concetti di normalità e differenza, intesa quest’ultima come “singolarità positiva […]
nucleo generativo dei processi vitali” (Dovigo & Ianes, p.17) che va posta al centro
dell’azione educativa; viene presentata una lettura critica del modello biomedico per
lasciare spazio ad un modello sociale che vede la disabilità come non un problema che
riguarda la persona ma come prodotto del contesto culturale o educativo, nel caso della
scuola, come conseguenza della presenza di ostacoli all’apprendimento e alla
partecipazione. L’inclusione rappresenta una “filosofia dell’accettazione, ossia la
capacità di fornire una cornice dentro cui gli alunni - a prescindere da abilità, genere,
linguaggio, origine etnica o culturale - possono essere ugualmente valorizzati, trattati
con rispetto e forniti di uguali opportunità a scuola” (Dovigo & Ianes, p.13).
In una seconda parte viene quindi delineato il quadro di riferimento valoriale che
sostiene il processo inclusivo: uguaglianza, diritti, partecipazione, comunità, rispetto per
la diversità, sostenibilità, non violenza, fiducia, compassione, onestà, coraggio, gioia,
amore, speranza/ottimismo e bellezza.
61
Vengono poi illustrate le fasi di quel ciclo continuo di sviluppo a cui l’Index desidera
dare avvio: il cominciare ad utilizzare lo strumento, l’analisi della scuola, l’elaborazione
di un progetto di sviluppo, il passare all’azione, la revisione dello sviluppo del processo,
la conseguente ri-analisi della scuola… secondo un processo interminabile e
inesauribile.
Vengono poi presentati i materiali di analisi organizzati in una struttura ad albero che
offre il quadro di riferimento nel quale progettare gli interventi inclusivi e che riconosce
principalmente tre dimensioni: le culture, le pratiche e le politiche; ciascuna dimensione
è composta da due sezioni delineate a loro volta in indicatori:
-
Dimensione A: CREARE CULTURE INCLUSIVE
Le culture rispecchiano i principi, le convinzioni e i valori che orientano le
politiche e le pratiche; rappresentano le relazioni, cuore del processo inclusivo.
Sezione A.1: Costruire comunità
-
A.1.1 Ciascuno deve sentirsi benvenuto
-
A.1.2 Gli alunni si aiutano l’un l’altro
-
A.1.3 Gli insegnanti collaborano tra loro
-
A.1.4 Gli insegnanti e gli alunni si trattano con rispetto
-
A.1.5 C’è collaborazione tra gli insegnanti e le famiglie
-
A.1.6 Gli insegnanti e il Consiglio di istituto collaborano positivamente
-
A.1.7 Tutte le comunità locali sono coinvolte nell’attività della scuola
Sezione A.2: Affermare valori inclusivi
-
A.2.1 Le attese sono elevate per tutti gli alunni
-
A.2.2 Gruppo insegnante, Consiglio di istituto, alunni e famiglie
condividono una filosofia inclusiva
-
A.2.3 Gli alunni sono valorizzati in modo uguale
-
A.2.4 Insegnanti e alunni si trattano l’un l’altro come esseri umani oltre
che come rappresentanti di un «ruolo»
-
A.2.5
Il
gruppo
insegnante
cerca
di rimuovere
gli
ostacoli
all’apprendimento e alla partecipazione in ogni aspetto della vita
scolastica
-
A.2.6 La scuola si sforza di ridurre ogni forma di discriminazione
62
-
Dimensione B: PRODURRE POLITICHE INCLUSIVE
Le politiche si riferiscono alle strutture organizzative e alla progettazione degli
interventi, come espressione delle culture e dei valori fondanti.
Sezione B.1: Sviluppare la scuola per tutti
-
B.1.1 La selezione del personale e le carriere sono trasparenti
-
B.1.2 I nuovi insegnanti vengono aiutati ad ambientarsi nella scuola
-
B.1.3 La scuola promuove l’accoglienza di tutti gli alunni della comunità
locale
-
B.1.4 La scuola rende le proprie strutture fisicamente accessibili a tutte le
persone
-
B.1.5 Tutti i nuovi alunni vengono aiutati ad ambientarsi nella scuola
-
B.1.6 La scuola organizza i gruppi-classe in modo che tutti gli alunni
vengano valorizzati
Sezione B.2: Organizzare il sostegno alla diversità
-
B.2.1 Tutte le forme di sostegno sono coordinate
-
B.2.2 Le attività di formazione aiutano gli insegnanti ad affrontare le
diversità degli alunni
-
B.2.3 Le politiche rivolte ai Bisogni Educativi Speciali sono inclusive
-
B.2.4 Viene utilizzata la normativa sull’individualizzazione per ridurre
gli ostacoli all’apprendimento e alla partecipazione di tutti gli alunni
-
B.2.5 Il sostegno agli alunni stranieri che imparano l’italiano è
coordinato con il sostegno all’apprendimento degli altri alunni
-
B.2.6 Le politiche di sostegno personale e del comportamento sono
collegate
a
quelle
di
sostegno
allo
sviluppo
curricolare
e
all’apprendimento
-
B.2.7 Le pratiche disciplinari che portano all’esclusione dalle attività
vengono ridotte
-
-
B.2.8 Gli ostacoli alla frequenza sono ridotti
-
B.2.9 Il bullismo viene contrastato
DIMENSIONE C: SVILUPPARE PRATICHE INCLUSIVE
63
Le pratiche si riferiscono al contenuto, ai metodi di insegnamento e di
apprendimento, alle strategie adottate; il riflesso delle politiche presenti e delle
culture di riferimento.
Sezione C.1: Coordinare l’apprendimento
-
C.1.1 L’insegnamento è progettato tenendo presenti le capacità di
apprendimento di tutti gli alunni
-
C.1.2 Le lezioni stimolano la partecipazione di tutti gli alunni
-
C.1.3 Le lezioni sviluppano la comprensione della differenza
-
C.1.4 Gli
alunni
sono attivamente coinvolti nelle attività di
apprendimento
-
C.1.5 Gli alunni apprendono in modo cooperativo
-
C.1.6 La valutazione contribuisce al raggiungimento degli obiettivi
educativi per tutti gli alunni
-
C.1.7 La disciplina in classe è improntata al mutuo rispetto
-
C.1.8 Gli insegnanti collaborano nella progettazione, insegnamento e
valutazione
-
C.1.9 Gli insegnanti di sostegno promuovono l’apprendimento e la
partecipazione di tutti gli alunni
-
C.1.10 Le attività di studio a casa contribuiscono all’apprendimento di
tutti
-
C.1.11 Tutti gli alunni prendono parte alle attività esterne all’aula
Sezione C.2: Mobilitare risorse
-
C.2.1 Le differenze tra gli alunni vengono utilizzate come risorsa per
l’insegnamento e l’apprendimento
-
C.2.2 Le competenze degli insegnanti sono utilizzate al meglio
-
C.2.3
Gli
insegnanti
sviluppano
delle
risorse
per
sostenere
l’apprendimento e la partecipazione
-
C.2.4 Le risorse della comunità sono conosciute e utilizzate
-
C.2.5 Le risorse della scuola sono equamente distribuite così da
sostenere l’inclusione
Ogni indicatore è specificato e dettagliato da una serie di domande stimolo alla
riflessione, alla discussione e all’analisi.
64
La struttura presenta come un quadro di insieme ampio e articolato che comprende
molti aspetti di un’organizzazione educativa. Per una concreta applicazione e per un
efficace utilizzo, lo strumento stesso suggerisce di non guardare a tutti gli items ma di
selezionare gli indicatori su cui si intende apportare interventi migliorativi, di
individuare le domande da condividere con gli attori coinvolti, sulle quali si vuole
riflettere: è importante iniziare da pochi e piccoli cambiamenti per ottenere risultati di
successo.
3.2 LA RICERCA-AZIONE
Il carattere partecipativo e comunitario e la sua forma di processo continuo conferiscono
allo strumento Index l’essenza della ricerca-azione, uno dei metodi più efficaci per la
crescita e lo sviluppo delle organizzazioni, per analizzarne le pratiche e introdurre
cambiamenti migliorativi.
Il metodo della ricerca-azione, teorizzata per la prima volta dallo psicologo tedesco e
statunitense Kurt Lewin (1890-1947) con il nome di action-research, è stato studiato da
diversi autori che ne hanno proposto definizioni e modelli differenti ma con alcune
medesime istanze di base; Roberto Trinchero (2002) individua le seguenti:
-
lo scopo non è produrre conoscenza ma modificare i comportamenti, trasformare
la realtà, migliorare una pratica educativa secondo i criteri di efficacia e di
efficienza;
-
il problema di ricerca nasce all’interno di una comunità educativa i cui attori,
consapevoli della situazione complessiva, dei suoi limiti, potenzialità e risorse
disponibili, partecipano per delineare la questione da risolvere e per progettare
possibili interventi; le dinamiche relazionali, i rapporti di forza, i conflitti, ma
anche le aspettative, le esigenze e le emozioni delle persone, giocano un ruolo
determinante sia nel delineare il problema che nell’applicazione degli interventi;
-
la crescita della comunità è data dalla crescita dei suoi membri: è fondamentale
l’acquisizione di consapevolezza, da parte degli attori, sia di elementi contestuali
(analisi di risorse disponibili, condizionamenti presenti, limiti…) che personali e
65
relazionali (autovalutazione dei progressi propri e del gruppo, forze favorevoli al
cambiamento e limitanti, effetti voluti o indesiderati…);
-
il ricercatore, figura interna alla ricerca, assume ruoli nuovi, mai neutri ma
sempre di scambio: fornisce agli operatori competenze di metodo e da loro
riceve
conoscenze sulle dinamiche
della realtà, conoscenze
pratiche
indispensabili per concretizzare il suo sapere teorico;
-
tutti gli attori devono essere disponibili a mettersi in gioco, a mettere in
discussione i propri comportamenti e le proprie abitudini;
-
domande di ricerca, obiettivi e metodologie di intervento, frutto di una continua
negoziazione tra gli attori coinvolti, devono essere ridiscussi e ridefiniti
costantemente;
-
il punto di vista che si deve far emergere è quello dei soggetti più deboli ed
emarginati, soggetti che, tradizionalmente, sono meno rappresentati; gli
interventi devono portare beneficio proprio a questi gruppi sociali;
-
il reale coinvolgimento di tutta la comunità educativa favorisce una lettura
completa della realtà e rende autentici i risultati; non intendendo formulare
scoperte né sviluppare conoscenze, il successo della ricerca-azione è espresso
dalla definizione di procedure di azione e da un concreto miglioramento del
servizio.
In riferimento al modello di action-research proposto da Bierema, docente
all’Università della Georgia, si possono individuare, a susseguirsi secondo un ciclo
continuativo, una “prima” fase di planning, seguita da un doing e, non “infine”, un
successivo checking; sulla base dei cambiamenti realizzati segue un nuovo planning,
che a sua volta dà avvio ad un’ulteriore fase di doing, a un altro checking… a tempo
indeterminato (Bierema, 2014).
66
3.3
“UNO
SGUARDO
INCLUSIVO
SULLA
FORMAZIONE
PROFESSIONALE”
Se il doing è la fase dell’azione e della messa in pratica e il checking è quella di
valutazione dei risultati, la ricerca “Uno sguardo inclusivo sulla formazione
professionale” intende offrire un contributo alla fase del planning: verrà proposta una
diagnosi, esposte una raccolta dei dati e una loro analisi per condividere i risultati
ottenuti; verrà offerta una prospettiva, un possibile punto di partenza da cui poter
sviluppare e pianificare eventuali interventi migliorativi.
3.3.1 LA DIAGNOSI
Diagnosticare il problema significa mettere a fuoco la questione che si intende
affrontare, individuare le domande per le quali si cercano risposte.
Obiettivo condiviso è diffondere l’inclusione nel sistema scolastico, migliorare la
qualità dell’insegnamento, e rispondere alle necessità di un mondo educativo in veloce
cambiamento. Per definire quale sia il punto di partenza di tale processo si vuole
proporre una fotografia del mondo della formazione professionale con una lente
inclusiva, attenta a tutti quei particolari che esprimono le sue ricchezze, le sue richieste
e i suoi bisogni, le sue opinioni, proposte e idee.
Si desidera dar voce al mondo degli insegnanti che è, come abbiamo accennato nel
precedente capitolo, diverso nella formazione professionale rispetto alla scuola
ministeriale: i docenti di competenze tecnico-professionali spesso non hanno
conoscenze in ambito pedagogico; la figura dell’insegnante di sostegno come
comunemente intesa non è presente, e le differenze culturali, linguistiche e di
funzionamento tra gli alunni e le alunne sono molte, così come sono molti i “bisogni
educativi speciali”. È un mondo che pone domande e che evidenzia, nel suo quotidiano
lavoro, il bisogno di essere ascoltato.
67
In riferimento alle tre dimensioni dell’Index per l’Inclusione descritte all’inizio del
capitolo, ci si chiede dunque: quanto i valori inclusivi sono conosciuti e condivisi?
Quali tra questi motivano concretamente al lavoro inclusivo? Quali invece lo frenano?
Ci sono principi valoriali ormai consolidati che possono rivelarsi un’utile e solida base
di partenza per svilupparne altri altrettanto importanti ma meno diffusi? Quali sono,
invece, le politiche inclusive presenti nel contesto della formazione professionale? In
risposta alle difficoltà e alle richieste degli attori coinvolti, quali invece da introdurre o
da potenziare? In ultimo, quali sono le pratiche, le strategie e le metodologie inclusive
conosciute e applicate? Quali necessiterebbero di una maggior diffusione?
Il nostro campione di riferimento proverà ad offrire le sue risposte; il ricercatore ne
proporrà una possibile chiave di lettura.
3.3.2 POPOLAZIONE E CAMPIONE DI RIFERIMENTO
La ricerca condotta intende dare luce alla formazione professionale e voce ai suoi
insegnanti; in un gruppo di popolazione così vasto, la scelta del campionamento è stata
dettata sia da esigenze pratiche legate all’impossibilità oggettiva di coinvolgimento
dell’intera popolazione, sia da logiche territoriali e contestuali che avrebbero
eccessivamente generalizzato i risultati.
Il campione scelto ha quindi ristretto il campo visivo alla regione Veneto e quello di
ascolto ad un solo Ente di Formazione: Enaip Veneto, nato come impresa sociale nel
1951 grazie alla promozione da parte di ACLI (Associazioni Cristiane Lavoratori
Italiani) e accreditato dalla Regione per la formazione e i servizi al lavoro, è oggi
presente in tutte le province con diciotto unità operative.
L’invito è stato esteso all’intero gruppo docente: insegnanti di materie culturali e
tecnico-professionali, lavoratori dipendenti e collaboratori esterni, con diversi titoli di
studio e percorsi formativi, con esperienze professionali più o meno lunghe ed
eterogenee.
68
I quarantacinque partecipanti che hanno accolto l’invito, in maniera del tutto volontaria
in base a disponibilità sia tecniche (orario, tempo…) che personali (mettersi in gioco,
autovalutarsi…), sono stati suddivisi in tre gruppi di lavoro, per motivi organizzativi ma
anche di indagine.
3.3.3 RIFERIMENTI TEORICI E DIMENSIONI DI INDAGINE
Il quadro teorico all’interno del quale prende forma e si sviluppa la presente ricerca è
delineato dall’intero paradigma inclusivo fino ad ora esposto: i suoi principi valoriali,
gli obiettivi per un futuro sostenibile, il modello bio-psico-sociale per una progettazione
universale.
La scelta delle dimensioni oggetto di indagine è stata dettata dalla struttura dell’Index
che, come visto, riconosce le culture, le politiche e le pratiche come i tre
macro-elementi da considerare nella valutazione della qualità inclusiva di un
sistema-scuola.
La prima dimensione, quella delle culture inclusive, ha voluto approfondire il grado di
affermazione e di condivisione dei valori inclusivi, valori quali l’uguaglianza, la
partecipazione, il rispetto per la diversità, la fiducia, l’ottimismo. Le politiche e le
pratiche sono invece state osservate e analizzate dai partecipanti in maniera spontanea e
libera, in base alle argomentazioni e ai confronti di ciascun gruppo di lavoro.
3.3.4 RILEVAZIONE DEI DATI
Per quanto “Uno sguardo inclusivo sulla formazione professionale” vuole conservare il
suo carattere qualitativo, l’utilizzo sia di strumenti quantitativi (il questionario) che
qualitativi (il World Cafè e il Braistorming) per la raccolta dei dati, la rende una ricerca
multimetodo: abbandonando la logica del metodo si abbraccia quella della strategia di
69
ricerca, che utilizza metodi diversi in maniera combinata in base agli obiettivi e alle
realtà da studiare (Trinchero, 2002, p.43).
La ricerca è stata strutturata in tre incontri pomeridiani ugualmente strutturati, ciascuno
con un gruppo di lavoro diverso.
In una prima parte di avvio all’attività, con un colloquio libero e partecipato, sono stati
esplicitati il campo di indagine e un linguaggio comune, sono state esposte e condivise
le intenzioni e le finalità del ricercatore, nonché la programmazione dei successivi
momenti.
Per facilitare la predisposizione di un positivo clima di gruppo, favorevole alle
relazioni, all’ascolto e allo scambio di idee, è stata proposta una breve attività ripresa
poi ripresa alla fine di ogni incontro: si sono voluti raccogliere, attraverso un veloce
sondaggio su piattaforma interattiva, quelli che sono i significati che ciascuno
attribuisce all’inclusione, i concetti che in ciascuno evoca: una sorta di breve e anonimo
Brainstorming per generare, in ciascun gruppo, una prima comune “nuvola di
significati”.
Figura 1. Gruppo 1: Prima nuvola di significati.
70
Figura 2. Gruppo 1: Prima nuvola di significati.
Figura 3. Gruppo 3: Prima nuvola di significati.
Si è quindi proceduto con la somministrazione, on line tramite link, di un questionario
auto-compilato, strutturato a domande chiuse: sono state raccolte, in forma anonima, le
generalità dei partecipanti e alcune informazioni utili alla ricerca:
-
età anagrafica;
-
età lavorativa nel sistema di formazione professionale;
-
titolo di studio (diploma, laurea nel settore di insegnamento, laurea in ambito
pedagogico);
-
area di insegnamento (culturale o tecnico-professionale)
71
Contestualmente, in una immediata seconda sessione del questionario, sono state
proposte dieci frasi delle quali è stato chiesto di esprimere, in una scala di quattro livelli,
il grado di condivisione (in disaccordo, poco d’accordo, molto d’accordo,
completamente d’accordo).
Le frasi sono state costruite sulla base di assunti, rielaborati ed espressi in diverse forme
sia da autori noti che da riferimenti legislativi, che riflettono principi e valori base
dell’inclusione e della sua diffusione nel sistema scolastico.
“Le differenze individuali sono naturali e vanno valorizzate”
“È necessario far capire a studenti e studentesse che sono considerati/e persone degne,
meritevoli dotate di potenzialità, per aprire le porte all’apprendimento”
“Ogni alunno/a ha un profilo di apprendimento diverso; è compito di chi progetta (il/la
docente) differenziare la didattica”
“Ogni persona ha delle potenzialità; compito della scuola è scovarle, valorizzarle e
facilitarne l’espressione”
“Nelle azioni educative la collaborazione e la co-progettazione tra insegnanti, alunni/e,
famiglie e territorio è fondamentale”
“L’istruzione e la formazione sono uno dei diritti fondamentali di ogni persona e devono
essere realmente e concretamente aperte a tutti”
“Garantire l’istruzione non significa solo accogliere tutti e tutte nelle strutture
scolastiche, ma anche e soprattutto favorire la loro concreta e attiva partecipazione alle
attività”
“Gli studenti e le studentesse con disabilità, Disturbi Specifici dell’Apprendimento e/o
Bisogni Educativi Speciali devono essere presi/e in carico dall’intero corpo insegnanti,
non in maniera esclusiva da docenti specializzati nel sostegno”
“Gli studenti e le studentesse con disabilità, Disturbi Specifici dell’Apprendimento e/o
Bisogni Educativi Speciali devono svolgere le quotidiane attività scolastiche in classe
con i coetanei, con solo qualche momento dedicato al rapporto esclusivo al di fuori dalla
classe di appartenenza”
72
“Una didattica inclusiva dovrebbe essere rivolta a tutti, non solo agli alunni e alle
alunne con disabilità, Disturbi Specifici dell’Apprendimento e/o Bisogni Educativi
Speciali”
Lo strumento CAWI, utile per la raccolta di dati quantitativi, è capace di garantire
l’anonimato e, data l’assenza di giudizio, favorisce la spontaneità nelle risposte;
attribuendo inoltre le risposte di ogni singolo partecipante alla stessa unità campionaria,
permette di ipotizzare eventuali associazioni tra i dati.
L’attività successiva ha visto invece l’impiego di metodologie meno strutturate, adatte
alla raccolta di dati di tipo qualitativo: il World Cafè e il Brainstorming.
Il world cafè è una tecnica di lavoro sistematizzata agli inizi degli anni Novanta in
America con l’intento di cogliere e sfruttare la forza degli incontri informali (le
conversazioni nei salotti, nei bar…), storicamente di preparazione all’azione sociale,
come grande opportunità per confrontare idee e proposte di azione su temi che
riguardano la vita di un’organizzazione. È una metodologia di dialogo che intende
coinvolgere gruppi più o meno numerosi di persone in discussioni partecipate,
condivisioni di conoscenze, pensieri ed esperienze per raccogliere riflessioni, mobilitare
la creatività e generare cambiamenti con soluzioni innovative (Brown, 2002).
Per facilitare la libera espressione risulta importante l’organizzazione dell’ambiente, che
deve risultare accogliente, rassicurante e facilitante, simile a quella di un cafè. In uno
spazio chiuso ampio sono stati predisposti tre tavoli spaziosi, adatti ad ospitare cinque o
sei persone; su ogni tavolo un cartellone bianco e alcuni pennarelli colorati per annotare,
scrivere, disegnare, “fissare” i concetti; una caraffa con del the freddo, una con del
succo di frutta e una termica con del caffè; accanto due piccoli vassoi con biscotti secchi
vari.
Ogni gruppo di ricerca è stato suddiviso in ulteriori tre sottogruppi, ciascuno chiamato a
discutere e a confrontarsi, attorno a ognuno dei tavoli di lavoro predisposti, su una delle
tematiche individuate. Per favorire la spontaneità e permettere a ciascuno di offrire il
più significativo contributo, si è preferito non proporre sessioni consecutive dalla durata
prestabilita, ma lasciare spontaneo il passaggio di ogni partecipante da un tavolo di
lavoro all’altro. La possibilità di spostarsi liberamente allarga il dialogo e consente a
73
tutti di incontrare e di conoscere persone nuove, di cogliere e sviluppare stimoli, di
generare idee per produrre un cambiamento.
Non essendo prevista alcuna forma di conduzione direttiva, il facilitatore, nel nostro
caso anche ricercatore, aveva il compito, girando tra i tavoli, di sollecitare l’intervento
di tutti moderando le prevaricazioni e stimolando le timidezze, e di sintetizzare i
concetti
emersi
innescando
dibattiti,
generando
proposte
e
invitando
all’approfondimento e alla ricerca: una sorta di contaminazione di idee e pensieri per
ampliare l’esplorazione delle tematiche di interesse.
Al primo tavolo è stata approfondita la dimensione delle politiche inclusive: quali sono
presenti all’interno dell’organizzazione scolastica nella quale ciascuno insegna? Quali,
per efficacia, sarebbe utile divulgare e riproporre? Quali nuove potrebbero essere
sperimentate come soluzioni ai problemi emergenti?
A secondo tavolo sono state studiate invece le pratiche, le strategie e le metodologie
operative: quali sono conosciute? Quali sono concretamente applicate in classe? Quali si
vorrebbero conoscere meglio? Quali sono gli ostacoli al loro utilizzo? Come
rimuoverli?
Il terzo tavolo è infine stato dedicato ad un Brainstorming sui vantaggi e gli svantaggi di
una didattica inclusiva, sulle percezioni e le opinioni che dominano i pensieri degli
insegnanti e che guidano le loro azioni. Viene qui tralasciato l’obiettivo di generare idee
creative e innovative per generare un cambiamento (obiettivo primo del World Cafè), ed
abbracciato l’unico scopo di raccogliere le opinioni e i punti di vista, le percezioni e i
commenti.
Il Brainstorming, letteralmente “tempesta di cervello”, è una tecnica che vuole
raccogliere idee e pensieri senza alcun vincolo né limite, senza critiche preventive nè
pregiudizi: una prima fase divergente è dedicata a raccogliere, a ruota libera, più idee
possibili; ne segue una seconda, convergente, in cui vengono selezionate solo quelle più
interessanti. Essendo lo scopo del nostro Brainstorming raccogliere le percezioni e i
pareri dei partecipanti su quello che loro stessi considerano vantaggioso o svantaggioso,
la seconda fase, curata dal conduttore (e ricercatore) ha unicamente eliminato le
ripetizioni,
senza
compiere
alcuna
selezione.
L’obiettivo
generativo
e
di
74
coinvolgimento, il setting confortevole e libero, e il facilitatore come stimolo alla
partecipazione, sono medesimi a quelli che caratterizzano il World Cafè, analogie che
hanno permesso al ricercatore di proporre il Brainstorming all’interno del World Cafè
(Bezzi & Baldini, 2006).
Il lavoro ai tavoli, accompagnato da un sorso di bevanda e da un dolce spuntino, ha
prodotto tre artefatti, cartelloni con mappe concettuali, appunti, annotazioni; la sessione
di condivisione plenaria svoltasi prima del saluto finale ha permesso al ricercatore di
arricchirli ulteriormente con spiegazioni e precisazioni.
Prima del congedo è stato ripreso il sondaggio interattivo iniziale: accedendo allo stesso
link, ciascun partecipante ha avuto modo di arricchire il contributo precedentemente
offerto con nuovi significati e nuovi concetti, nati durante il pomeriggio trascorso
assieme: le nuove “nuvole di significati”, ora più complete, sono state proiettate su una
parete libera per offrire al gruppo una prospettiva di appartenenza comune.
Figura 4. Gruppo 1: Seconda nuvola di significati.
75
Figura 5. Gruppo 2: Seconda nuvola di significati.
Figura 6. Gruppo 3: Seconda nuvola di significati.
Le attività condivise con ciascuno dei tre gruppi di lavoro hanno generato relazioni,
confronti e conoscenza, e hanno arricchito le “nuvole di significati” create inizialmente:
un modo per far sentire tutti parte, in un prima e in un dopo e ciascuno nel proprio
“piccolo” contesto, del processo di diffusione inclusiva.
Al termine dell’attività il momento dedicato ai ringraziamenti e al saluto ha infine
lasciato spazio ad un futuro appuntamento, per condividere i risultati ottenuti e le letture
ipotizzate con tutti i partecipanti. E, magari, per sorseggiare un’altra tazza di the.
76
3.3.5 ANALISI E LETTURA DEI DATI
GENERALITÀ IMPORTANTI
I dati raccolti attraverso il questionario sono stati analizzati creando una matrice unica
per l’intero campione di indagine. La tecnica, prevalentemente e volutamente
quantitativa seppur abbia nel nostro caso raccolto dati anche di tipo qualitativo,
necessita di un campione di riferimento ampio per risultare significativa nelle sue
ipotesi di associazioni.
Considerando quindi il campione di ricerca formato da quarantacinque partecipanti, la
figura 1 rappresenta la composizione del gruppo in base al titolo di studio.
Figura 7. Percentuale di insegnanti per titolo di studio posseduto
Immediatamente visibile l’elevato numero di docenti che possiedono una laurea nel
proprio settore di insegnamento; solo pochi hanno concluso un percorso universitario di
tipo pedagogico, mentre ancora parecchi hanno conseguito il solo diploma.
La figura 2 mette in relazione il titolo di studio con gli anni di esperienza di docenza
nell’ambito dell’Istruzione e Formazione Professionale.
77
Figura 8. Titolo di studio posseduto dagli insegnanti per anni di esperienza di insegnamento
nell’Istruzione e Formazione Professionale.
Dalla lettura del grafico è possibile notare che coloro che hanno svolto un percorso di
studi pedagogico sono coloro che hanno maturato pochi anni di esperienza, anche
neo-assunti. All’opposto, si nota che tutti coloro che hanno invece un titolo inferiore
hanno un’anzianità professionale maggiore.
Probabilmente, nel corso degli anni, la politica di gestione delle Risorse Umane ha
posto sempre più attenzione a quelle conoscenze e competenze riconosciute oggi
fondamentali per l’insegnamento, ricercandole tra i candidati al momento della
selezione del personale: il riconoscimento dei processi cognitivi, l’attenzione e l’ascolto
dello sviluppo psico-fisico e mentale dell’adolescente, la gestione dei gruppi e delle
dinamiche relazionali e conflittuali in essi presenti, la comunicazione… sicuramente
una buona strada per migliorare la qualità dell’intero sistema educativo, delle sue
modalità di accoglienza, di valorizzazione delle diversità, di facilitazione alla
partecipazione a all’apprendimento.
78
Per meglio approfondire alcune politiche è possibile inoltre associare il titolo di studio
posseduto dai partecipanti con il loro ambito di insegnamento.
Figura 9. Titolo di studio posseduto dagli insegnanti per area di insegnamento.
Il grafico evidenzia due aspetti che si desiderano portare all’attenzione: tutti i docenti
che possiedono il solo diploma insegnano unicamente nelle aree tecnico-professionali di
indirizzo; tutti i docenti che insegnano nell’area culturale possiedono una laurea.
Sono elementi che potrebbero stimolare ad alcune questioni: coloro che insegnano
materie professionalizzanti, che quindi possiedono titoli di studio specifici del settore,
possiedono le competenze psico-pedagogiche oggi ricercate? Come poter perfezionare
un percorso di studi tecnico ai fini dell’insegnamento? Come poterne colmare le lacune?
Sono riflessioni aperte, argomenti di discussione e di confronto che vogliono generare
proposte finalizzate ad un cambiamento migliorativo del sistema educativo.
79
DIMENSIONE A: CREARE CULTURE INCLUSIVE
Per approfondire la prima dimensione di indagine si analizzano ora gli “items valoriali”
proposti, per i quali lo stesso questionario ha chiesto di esprimere un personale livello di
condivisione in una scala numerica che va da 1 a 4, laddove 1 esprime l’essere in
disaccordo e 4 il concordare completamente; per ciascun item è stata calcolata e
riportata una media dei valori ottenuti dai singoli partecipanti alla ricerca; chiameremo
per convenzione questo indice “media valoriale”.
L’istruzione e la formazione sono uno dei diritti fondamentali di ogni
persona e devono essere realmente e concretamente aperte a tutti.
3,73
È necessario far capire a studenti e studentesse che sono considerati/e
persone degne, meritevoli e dotate di potenzialità, per aprire le porte
3,67
all’apprendimento.
Ogni persona ha delle potenzialità; compito della scuola è scovarle,
valorizzarle e facilitarne l’espressione.
3,56
Garantire l’istruzione non significa solo accogliere tutti e tutte nelle
strutture scolastiche, ma anche e soprattutto favorire la loro concreta
3,53
e attiva partecipazione alle attività.
Le differenze individuali sono naturali e vanno valorizzate.
3,51
Una didattica inclusiva dovrebbe essere rivolta a tutti, non solo agli
alunni e alle alunne con disabilità, Disturbi Specifici
3,29
dell’Apprendimento e/o Bisogni Educativi Speciali.
Ogni alunno/a ha un profilo di apprendimento diverso; è compito di
chi progetta (il/la docente) differenziare la didattica.
Nelle azioni educative la collaborazione e la co-progettazione tra
insegnanti, alunni/e, famiglie e territorio è fondamentale.
3,00
2,98
Gli studenti e le studentesse con disabilità, Disturbi Specifici
dell’Apprendimento e/o Bisogni Educativi Speciali devono svolgere le
quotidiane attività scolastiche in classe con i coetanei, con solo
2,93
qualche momento dedicato al rapporto esclusivo al di fuori dalla
classe di appartenenza.
80
Gli studenti e le studentesse con disabilità, Disturbi Specifici
dell’Apprendimento e/o Bisogni Educativi Speciali devono essere
presi/e in carico dall’intero corpo insegnanti, non in maniera esclusiva
2,53
da docenti specializzati nel sostegno.
Tabella 1. “Media valoriale” degli items oggetto di valutazione.
Per quanto le valutazioni siano complessivamente positive, si desidera evidenziare
l’item più condiviso e sostenuto, quello che ha ottenuto la “media valoriale” più alta: il
paradigma dei diritti, fondato sui principi di uguaglianza, pari opportunità,
partecipazione sembra essere consolidato. Contestualmente si desiderano evidenziare gli
aspetti che hanno ottenuto una “media valoriale” inferiore a 3 e che, forse,
necessiterebbero di essere sostenuti e rafforzati:
-
la presa in carico degli studenti e delle studentesse con disabilità, Disturbi
Specifici dell’Apprendimento e/o Bisogni Educativi Speciali da parte
dell’insegnante di classe;
-
la partecipazione di tutti gli studenti e le studentesse a tutte le attività del gruppo
classe di appartenenza;
-
la necessaria collaborazione e co-progettazione tra tutti gli attori coinvolti
nell’educazione della persona.
Il dato conferma l’acceso dibattito sul tema, che vede confrontarsi idee e opinioni anche
contrapposte davanti alle difficoltà che gli insegnanti incontrano nella loro quotidiana
attività. Come poter diffondere questi principi inclusivi? Come riuscire ad affermarli e a
consolidarli nei sistemi educativi e negli attori che li compongono? Esiste una relazione
tra il percorso di formazione dell’insegnante e suo grado di condivisione dei valori
inclusivi? A offrire una possibile chiave di lettura, il grafico seguente riporta la
relazione tra le due variabili.
81
Figura 10. Valore medio di condivisione inclusiva degli insegnanti per titolo di studio posseduto.
I docenti che hanno una formazione pedagogica condividono maggiormente i principi
valoriali inclusivi rispetto ai colleghi “meno formati”. Un’ulteriore domanda: un
percorso formativo degli insegnanti potrebbe e saprebbe assolvere questo compito di
diffusione inclusiva? In che modo, dal momento che, come dedotto dalla Figura 2
coloro che riportano la maggior necessità sono inseriti nel mondo educativo già da anni?
Ulteriori possibili questioni di confronto e di riflessione, di proposte e di
sperimentazioni volte, come prima, al miglioramento del sistema educativo.
Per approfondire maggiormente i principi valoriali, le credenze e le opinioni che
possono influire sull’affermazione di una didattica inclusiva, si propongono di seguito
gli artefatti prodotti da ciascun gruppo. Le domande che hanno condotto l'attività hanno
voluto raccogliere le opinioni e le credenze relativamente agli aspetti positivi e negativi
derivanti dall’utilizzo di una didattica inclusiva: “quali sono i vantaggi per
l’insegnante?”, “quali per gli studenti?”; all’opposto: “quali sono gli svantaggi per
l’insegnante?”, “quali per gli studenti?”
82
Figura 11. Gruppo 1: Vantaggi e svantaggi di una didattica inclusiva.
I vantaggi espressi dal primo gruppo fanno emergere il concetto di uguaglianza e di
parità di diritti, l’obiettivo di cittadinanza attiva e consapevole, il valore del reciproco
rispetto, l’importanza dell’esperienza, il riconoscimento di un sistema territoriale
allargato e aperto. Curioso leggere che “tutti abbiamo BES”, la cui interpretazione vuole
rimandare ad un importante concetto inclusivo: ciascuno di noi è diverso nella sua
singolarità, ciascuno di noi ha attitudini, preferenze, debolezze, aspirazioni,
funzionamenti…e bisogni differenti, unici, “speciali”; se dovessimo predisporre un
Piano Didattico Personalizzato per ogni persona che esprime necessità diverse,
dovremmo farlo per tutta la classe, mentre una didattica inclusiva è efficace sempre e
per tutti.
Gli aspetti negativi richiamano invece a scarsi stimoli offerti agli studenti, in termini di
autonomia ma anche di motivazione all’impegno e allo studio; emerge anche la scarsa
conoscenza della materia che, di fronte alle richieste dell’attuale mondo educativo e alla
scarsità di risorse (temporali, materiali…), causa ansia, stress, forse anche impotenza e
frustrazione, senso di disarmo.
83
Figura 12. Gruppo 2: Vantaggi e svantaggi di una didattica inclusiva.
Il secondo gruppo di lavoro evidenzia, tra i benefici di una pratica inclusiva, la
cittadinanza consapevole e responsabile, la valorizzazione e l’apprezzamento della
persona; emerge inoltre il valore portato al gruppo e al clima di classe, in termini di
rispetto e fiducia, di rapporti positivi, di ascolto e comprensione, di collaborazione,
elementi tutti che rendono l’insegnamento stesso più piacevole. Le differenze
arricchiscono e colorano un mondo che i giovani devono accettare; anzi, apprezzare.
Come prima emerge la difficoltà a trovare le risorse (temporali, materiali e relazionali)
per colmare le conoscenze e le competenze non possedute, difficoltà che induce gli
insegnanti a chiedere un aiuto, un sostegno, una presenza ulteriore a supporto delle
attività in classe. Ricompare il concetto di limite causato da una didattica lenta, facile,
che frena l’apprendimento degli studenti capaci.
84
Figura 13. Gruppo 3: Vantaggi e svantaggi di una didattica inclusiva.
Il terzo ed ultimo gruppo di lavoro ha parlato, anch’esso, di rispetto e di ascolto
reciproco, di conoscenza dell’altro e di collaborazione, di crescita e di miglioramento
personale, sottolineando che tali benefici sono apportati, dalla pratica inclusiva, agli
studenti ma anche ai docenti, rinforzando il team e favorendo così il raggiungimento di
obiettivi didattici ed educativi comuni. Condivisa l’idea secondo cui un clima positivo
rende più piacevole il lavoro, sostiene l’attenzione e facilita l’apprendimento.
Costante è la percezione di possedere scarse conoscenze e competenze in materia e la
mancanza di risorse (formative e di tempo) per colmarle; costante anche l’idea di una
didattica inclusiva “lenta”, che facilità sì l’apprendimento ma in tempi lunghi. Il gruppo
evidenzia anche l’importanza, ma anche la difficoltà, di lavorare in gruppo e a
collaborare, motivo di un rifugiarsi in un insegnamento “isolato”, che pare però
necessitare di un aiuto pratico, in classe, quotidiano.
Diversi sono gli elementi trasversali: il bisogno di tempo da dedicare alla formazione, la
necessità di appartenenza a un team di lavoro in cui gli insegnanti collaborano, si
ascoltano, si conoscono, si aiutano e si sostengono condividendo pratiche, strategie e
85
metodologie efficaci; l’importanza di creare un clima di classe positivo, facilitante sia a
livello relazionale che di apprendimenti.
È possibile trasformare i percepiti svantaggi in concreti vantaggi? Una didattica
inclusiva rallenta veramente il gruppo? Come dimostrare che non è così? Portando
evidenze da esperienze già sperimentate che, comunque, andrebbero riadattate? Una
formazione sarebbe efficace per trasmettere le competenze necessarie a leggere il
contesto per riadattare le pratiche? Altre questioni, altri stimoli, altre sperimentazioni.
DIMENSIONE B: CREARE POLITICHE INCLUSIVE
Le politiche, come detto, si riferiscono alle strutture organizzative, alla gestione del
sostegno (in qualsiasi modo esso sia inteso), alla formazione degli insegnanti, agli spazi
e ai tempi scolastici alla progettazione degli interventi e a tutte quelle forme di gestione
che incidono sulle pratiche quotidiane.
Analizziamo le riflessioni elaborate dal primo gruppo:
Figura 14. Gruppo 1: Le politiche inclusive.
86
L’inclusione, nella sua pratica, si fonda su una profonda conoscenza degli alunni e delle
alunne tale da comprenderne i bisogni e le necessità, i funzionamenti; per giungere a
tale livello di conoscenza è indispensabile la collaborazione con i servizi di riferimento,
non solo per quanto concerne la diagnosi ma anche in termini di indicazioni e consigli;
un’efficace comunicazione tra tutte le figure educative agevola poi la diffusione delle
informazioni ricevute, o osservate e dedotte, riguardanti gli studenti e le studentesse:
vissuti, debolezze, limiti o difficoltà, utili a prevenire o a gestire eventuali momenti di
crisi. La collaborazione con il territorio deve essere costante e deve esprimersi in
progetti che coinvolgono attori diversi, attività in cui i ragazzi e le ragazze possono
sentirsi appartenenti ad una comunità, e riconosciuti da quel contesto locale che
diventerà il loro futuro ambiente di vita.
Rispondendo a necessità di tutti, il tempo scuola preferibile è unicamente mattutino: gli
insegnanti avrebbero modo di programmare meglio le singole proposte didattiche, di
formarsi e informarsi; gli alunni e le alunne avrebbero la possibilità di svolgere attività
sportive e ricreative, di coltivare i propri hobby e interessi. L’attenzione, in pomeriggio,
cala per tutti, maggiormente per coloro che, per caratteristiche personali, devono
investire molto impegno ed energia per ottenere buoni risultati.
Ulteriore riflessione riguarda gli spazi: per consentire la pratica inclusiva le aule devono
essere ampie e organizzate in maniera tale da ridurre i fattori di distrazione; deve essere
possibile spostare i banchi, spaziosi e comodi, in base alle esigenze (lavori individuali, a
coppie o a gruppi); i laboratori, laddove si propongono simulazioni e compiti di realtà,
devono essere ordinati, attrezzati e funzionanti.
Di seguito gli stimoli del secondo gruppo:
87
Figura 15. Gruppo 2: Le politiche inclusive.
Nelle classi, parecchio numerose, sono ormai presenti molte differenze, molti bisogni e
molte esigenze che l’insegnante, spesso, si trova a gestire con difficoltà; riconoscendo
una scarsa conoscenza personale, richiede quindi strumenti e strategie efficaci, soluzioni
nuove e valide; in alternativa ad una formazione adeguata, può essere utile un aiuto in
classe, un sostegno, una figura che possa agevolare e sostenere l’insegnante nelle sue
lezioni e attività didattiche.
Per potersi dedicare alla programmazione gli insegnanti necessitano di tempo, tempo
prezioso anche per lo scambio di informazioni riguardanti i gruppi classe: gli incarichi
assegnati, spesso su molte classi (talvolta anche su più sedi) portano ad avere una
conoscenza solo superficiale degli studenti e delle studentesse, insufficiente per
comprenderne le necessità. Per conoscere la persona è fondamentale il contributo di tutti
coloro che la conoscono a fondo ma la collaborazione tra scuola, famiglia e servizi,
concretizzabile realizzando progetti che coinvolgono più attori del territorio, è talvolta
carente.
88
Le sollecitazioni ora dell’ultimo gruppo di lavoro:
Figura 16. Gruppo 3: Le politiche inclusive.
Un solido team per l’inclusione, che condivide obiettivi e strategie e che favorisce la
conoscenza reciproca, facilita lo sviluppo di quelle competenze relazionali che, prima di
essere trasmesse, devono essere acquisite: l’ascolto empatico, la gestione dei conflitti, la
negoziazione…; consente inoltre, con l’arricchimento da una formazione specifica, la
condivisione e la diffusione di strategie e di strumenti inclusivi efficaci, sempre
comunque da adattare al contesto.
Gli aspetti relazionali ed esperienziali hanno quindi un valore unico per sensibilizzare
alla diversità sia adulti che ragazzi e ragazze. Per promuoverli sono concretamente
necessari spazi adeguati, laboratori attrezzati e, in classi numerose, insegnanti in
compresenza.
Per implementare le esperienze e facilitare la conoscenza reciproca, i progetti scolastici
potrebbero proporre attività pomeridiane di gruppo dedicate allo studio, al
potenziamento di conoscenze o alla pratica sportiva, e organizzare, con la presenza di
mediatori culturali, corsi di lingua italiana per studenti e le studentesse stranier*.
89
Secondo i dati raccolti e le letture proposte gli insegnanti sembrano necessitare,
trasversalmente a tutti i gruppi, di politiche inclusive attente ad alcuni aspetti:
-
la formazione su pratiche, strategie, metodologie e strumenti inclusivi efficaci,
riconoscendone la necessità di costante riadattamento ai contesti;
-
la collaborazione e la comunicazione con il territorio e con tutti gli attori che ne
fanno parte;
-
l’organizzazione di tempi e spazi adeguata ad agevolare relazioni positive;
-
l’affiancamento di una figura a sostegno e a supporto dell’insegnante nelle
attività in classe.
Considerando le risorse disponibili, sarebbe possibile rispondere a tali richieste, o
almeno a una sola tra esse? In che modo? Con quali atteggiamenti e comportamenti
potrebbero contribuire le figure educative “in prima linea”? Attraverso quali azioni?
Riflessioni difficili forse, ma certamente utili per agevolare e migliorare la pratica
quotidiana di tutti.
DIMENSIONE C: CREARE PRATICHE INCLUSIVE
Le pratiche si riferiscono invece ai metodi di insegnamento e di apprendimento, agli
strumenti utilizzati, alle tecniche di gestione della classe, delle relazioni e dei conflitti e
a tutte quelle strategie messe in atto in risposta alle richieste e alle esigenze del mondo
educativo di oggi.
Di seguito le pratiche inclusive conosciute, praticate e desiderate emerse dal lavoro del
primo gruppo:
90
Figura 17. Gruppo 1: Le pratiche inclusive.
Le pratiche inclusive sono attente a tutte le abilità e competenze relazionali, sempre
presenti in tutti i lavori e le attività svolte in coppia o in gruppo: l’ascolto, la
mediazione, la collaborazione, l’interdipendenza; trova qui spazio il cooperative
learning, tecnica di apprendimento basata proprio su compiti di gruppo.
Le esperienze relazionali, così come quelle didattiche e di apprendimento, devono
essere stimolo di riflessione, oggetto di autoanalisi, per aumentare l’autoconsapevolezza
di ciascun* rispetto ai propri funzionamenti, i propri successi e i propri obiettivi di
miglioramento.
Altra pratica efficace per valorizzare le differenze è riconoscere l’unicità dell’alunn*,
chiamandol* per nome, ascoltandol*, mostrando interesse per le sue opinioni e le sue
idee, incrementando così la stima che ha di se stess*.
L’utilizzo di mappe concettuali, comunemente conosciute come uno tra gli strumenti
compensativi
indicati
per
studenti
e
studentesse
con
Disturbi
Specifici
dell’Apprendimento o con Bisogni Educativi Speciali, sono invece di utilizzo non
sempre semplice: il principale strumento di ricerca, internet, offre solo quelle su materie
91
e argomenti di carattere culturale, non tecnico-professionalizzante, e produrle richiede
tempo e competenze che talvolta mancano.
Le pratiche e le strategie per gestire le difficoltà comportamentali in classe pare infine
che siano carenti: i docenti richiedono che vengano gestite fuori dalla classe, con
insegnanti specializzati che, grazie ad un percorso formativo specifico, possiedono le
conoscenze necessarie; se non possibile, richiedono di essere formati adeguatamente.
A seguire gli stimoli emersi dal secondo gruppo:
Figura 18. Gruppo 2: Le pratiche inclusive.
L’apprendimento cooperativo, il presentare problemi di realtà simulata da risolvere o
ricerche da svolgere restano pratiche inclusive importanti per imparare a stare insieme e
a collaborare, per sviluppare competenze di ascolto empatico, direttamente
proporzionale al rispetto reciproco.
Gli insegnanti tutti, privi delle conoscenze specifiche, richiedono la presenza, in classe,
di un tutor o di una figura a sostegno del docente, capace di consigliare metodologie e di
supportare il morale; in alternativa, una formazione specifica sugli strumenti da
92
adoperare per creare mappe concettuali, presentare attività, fornire a studenti e
studentesse mezzi di espressione e di comprensione diversificati, proporre verifiche
graduate.
Anche l’informatica pare assumere una rilevanza, seppur siano superati i contenuti del
suo stesso insegnamento: i supporti tecnologici presenti nelle scuole devono essere
disponibili e funzionanti al fine di poter utilizzare quei programmi informatici che, ad
oggi, non sono conosciuti né adoperati dai docenti stessi.
In ultimo, il terzo gruppo fa emergere le seguenti suggestioni:
Figura 19. Gruppo 3: Le pratiche inclusive.
Particolare rilevanza tra le pratiche inclusive assumono gli strumenti compensativi e le
misure dispensative consigliati nelle Diagnosi Funzionali di coloro che hanno Disturbi
Specifici dell’Apprendimento, indicati anche per chi manifesta Bisogni Educativi
Speciali: l’utilizzo di schemi o mappe, di ausili per la sintesi vocale o per la scrittura
automatica, di traduttori, di verifiche con un livello crescente di richieste, di una
valutazione attenta al contenuto e non alla forma; pratiche condivise da tutti i docenti in
93
ogni Piano Didattico Personalizzato, ma, data la richiesta di una formazione a riguardo,
forse ancora poco adoperate.
L’esperienza, la partecipazione attiva e il coinvolgimento in attività di gruppo
favoriscono un apprendimento peer to peer, tra pari, che stimola alla collaborazione e
all’aiuto reciproco, accresce la motivazione e l’autostima, la sensazione di
appartenenza.
Nel grande panorama delle pratiche inclusive giocano un ruolo importante anche la
metacognizione, riflessione sui personali processi di acquisizione di conoscenze, e la
didattica capovolta, e la didattica capovolta che propone, dopo uno studio individuale a
casa, un’applicazione delle conoscenze a scuola in imprese simulate o compiti di realtà.
Analizzando i dati raccolti emerge un utilizzo diffuso di alcune pratiche inclusive
comunemente ritenute importanti ed efficaci:
-
cooperative learning, peer to peer, apprendimento esperienziale, compiti di realtà
di gruppo, imprese simulate in team, didattica capovolta: stimolano lo sviluppo
di competenze relazionali quali l’ascolto empatico, la collaborazione, la
mediazione, la gestione dei conflitti e accrescono il senso di appartenenza, di
autostima, di reciprocità e di interdipendenza;
-
metacognizione: favorisce la conoscenza di se stessi;
-
strumenti compensativi e misure dispensative: facilitano l’apprendimento,
l’immagazzinamento
delle
informazioni,
la
loro
organizzazione,
memorizzazione e il loro successivo recupero; la loro conoscenza deve essere
costantemente aggiornata;
-
tecnologie informatiche: pratiche utili sia per preparare materiale didattico che
per fornire mezzi di espressione e di comprensione, poco conosciute ma
desiderate; è richiesta una formazione;
-
compresenza in classe di due figure: maggior attenzione ai bisogni delle
differenze, maggiori competenze e conoscenze specifiche a disposizione.
È possibile allargare ulteriormente l’utilizzo di tali pratiche, anche laddove non se ne
offre fiducia? In che modo? Mostrare le evidenze e condividere esperienze positive di
utilizzo può essere utile? O è più efficace una formazione specifica? Sarebbero
94
necessarie entrambe le modalità, forse? Mentre i percorsi formativi sono influenzati e
dettati da risorse spesso limitate, come si può realizzare, in termini di fattibilità, una
condivisione testimoniata di pratiche e metodologie? Di nuovo si stimolano proposte,
idee, possibili soluzioni creative e innovative da sperimentare, perfezionare e
diffondere.
3.4 RIFLESSIONI CONCLUSIVE
La ricerca condotta ha portato all’evidenza idee, opinioni, necessità e richieste proprie al
mondo degli insegnanti che, nella formazione professionale, deve affrontare situazioni
sempre più sfidanti: vengono richieste competenze nuove, conoscenze di tecniche e
strumenti mai utilizzati, abilità diverse e innovative.
A supportare e a confermare la letteratura analizzata, la voce dei docenti ha riportato la
loro difficoltà nel mettere in pratica i principi inclusivi, nel renderli effettivamente reali
e concreti durante il quotidiano lavoro di insegnamento: spesso sono carenti le politiche,
che potrebbero (e dovrebbero) almeno in qualche aspetto migliorarsi, contestualmente
alle risorse disponibili; deboli anche le pratiche, a volte non conosciute e altre volte di
complicata se non quasi impossibile applicazione; a sottendere entrambi gli aspetti,
culture inclusive forse ancora non pienamente affermate e condivise.
La fotografia scattata, seppur rappresenti solo un piccolo spaccato di un mondo ampio e
complesso, mostra una generale buona vocazione degli insegnanti ad un sistema
valoriale inclusivo ma anche il sussistere di perplessità e difficoltà; vuole essere quindi
modificata, migliorata, vuole rimuovere le parti sfocate ed eventuali elementi di
disturbo, vuole comprendere dettagli nascosti; vuole completarsi e arricchirsi per lo
scatto successivo.
Come intervenire sulla nostra fotografia?
La ricerca ha riportato evidenze che hanno reso chiari i bisogni e le opinioni degli
insegnanti e ha raccolto proposte per interventi migliorativi: molti esprimono la
necessità di intervenire su aspetti organizzativi e su politiche di gestione, alcune delle
95
quali, purtroppo, devono fare i conti con risorse al giorno d’oggi sempre più limitate;
altri la necessità di rinnovare le pratiche, di implementare e approfondire la loro
conoscenza. Si tratta, ora, di individuare le risposte più efficaci.
Aspetto importante, emerso dalla ricerca e confermato dalla letteratura, è quello della
formazione dei docenti: i percorsi formativi, piuttosto che puntare sulla specializzazione
al sostegno o a categorie limitate, dovrebbero mirare alla diffusione dell’inclusione e ad
una sua concreta applicazione; dovrebbero andare al di là della trasmissione di
competenze tecniche, certamente innovative, relative alla materia di insegnamento, per
formare una figura professionale nuova capace di rispondere alle richieste della società.
Nell’ottica del superamento della figura dell’insegnante di sostegno, che seppur risulti
essere molto richiesta dagli insegnanti curriculari non fa che categorizzare le differenze,
sarebbe auspicabile un percorso formativo medesimo per tutti i docenti basato su tutte le
competenze, anche tecniche e metodologiche, necessarie per un fare scuola in modo
inclusivo, anche su quelle specialistiche oggi riferite solo al sostegno. In questo modo
aumenterebbe negli insegnanti la loro percezione di autoefficacia e la loro motivazione
a migliorarsi.
La formazione professionale, che non prevede la presenza di un insegnante di sostegno
specializzato, potrebbe in qualche modo avvicinarsi al modello presentato da Ianes: la
costante compresenza nelle classi di più insegnanti curriculari, tutti con un bagaglio
formativo inclusivo, e la supervisione, solo secondo specifiche necessità, di un tutor; un
tutor a sostegno dei docenti, più che degli alunni e delle alunne. Le risorse disponibili
consentirebbero la sperimentazione di tale modello?
La formazione inoltre, non dimentichiamo, dovrebbe essere continua, permanente in
tutto il percorso professionale, anche con modalità non tipiche: può essere utile, per un
costante aggiornamento ma anche per allargare la propria rete di relazioni ed esperienze,
partecipare a convegni o seminari; per aggiornarsi alimentando le proprie capacità di
autoanalisi può essere efficace anche l’apprendimento tra pari.
Si dovrebbe anche prendere in considerazione il valore della condivisione delle
esperienze, per agevolare la sperimentazione di strategie nuove e la diffusione di buone
pratiche già adoperate, ma anche per raccogliere e divulgare evidenze sui risultati,
chiarendo così perplessità che permangono. Data la scarsità di tempo disponibile
96
potrebbe essere efficace utilizzare una piattaforma interattiva laddove ogni insegnante,
in tempo reale, può caricare buone prassi, raccontandole e testimoniandole con
descrizioni, immagini o video; si andrebbe così a formare una sorta di “banca dati di
esperienze inclusive”, una grande “biblioteca operativa” da consultare ogniqualvolta
l’insegnante cerca stimoli e risposte operative per le proprie attività.
Ulteriore aspetto che merita essere riportato all’attenzione è la dimensione comunitaria
della scuola: l’inclusione non può scorporare e separare l’esperienza scolastica da quelle
riferite agli altri contesti in quanto la persona deve essere osservata nella sua globalità e
totalità di relazioni. Ogni progetto educativo scolastico, per essere un buon progetto
inclusivo, non può non coinvolgere il territorio e gli attori che ne fanno parte, aspetto
che le politiche inclusive devono avere sempre ben presente.
Proposte, queste, ad alcuni degli interrogativi a cui il presente lavoro di ricerca ha
voluto condurre; interrogativi che vogliono stimolare alla riflessione e al dibattito, che
cercano risposte innovative, che vogliono aprire ulteriori porte di indagine per
intravedere nuovi percorsi e raggiungere nuovi orizzonti.
97
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degli alunni handicappati, 1975
Legge 4 agosto 1977, n.517 “Norme sulla valutazione degli alunni e sull'abolizione
degli esami di riparazione nonché altre norme di modifica dell'ordinamento scolastico”
(“Legge Malfatti”)
Sentenza Corte Costituzionale 1987 n.215
Legge 5 febbraio 1992, n.104 “Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i
diritti delle persone handicappate”
MIUR, 4 agosto 2009, “Linee guida per l’integrazione scolastica degli alunni con
disabilità”
Legge 8 ottobre 2010, n.170, “Nuove norme in materia di disturbi specifici di
apprendimento in ambito scolastico”
MIUR Direttiva Ministeriale 27 dicembre 2012 “Strumenti d’intervento per alunni con
bisogni educativi speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica”
Legge 13 luglio 2015, n.107 “Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione
e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti”
100
RIFERIMENTI NORMATIVI INTERNAZIONALI
Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino, 1789
Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, 1948
UNESCO, Dichiarazione di Salamanca sui principi, le politiche e le pratiche in materia
di educazione e di esigenze educative speciali, 1994
ONU, Convenzione sui diritti delle persone con disabilità, 2006
ONU, Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, 2015
Conclusioni del Consiglio sui docenti e i formatori europei del futuro, 2020
Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio, 2008
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