WHAT
A Transdisciplinary
Journal of
Queer
Theories and Studies
EVER
Francesca Gallo
whatever.cirque.unipi.it
Modelli non normativi: qualche considerazione
sul nudo maschile nei contesti della performance
art in Italia (1968-1974)1
English title: Non-normative models: some considerations on the male nude in performance art
contexts in Italy (1968-1974).
Abstract: The essay analyzes some examples of the use of the male nude in photographic and
performance works made in Italy between 1968 and 1974, starting from the hypothesis that merely departing from the norm – represented by the female nude – is already a noteworthy fact.
Although, in some cases, the thematization of the androgyne resorts to the mythological and
allegorical filter, the use of the male nude contributes in various ways to shaking gender clichés
and traditional heterosexual binarism. What emerges is a potential area of tangency and overlap
between the affirmative postures of the homosexual movement and a certain tendency to rethink
masculinity, which is also being challenged in parallel by feminism.
Keywords: male nude, Ferruccio De Filippi, Renato Mambor, Luigi Ontani, Tommaso Binga, Vettor Pisani
Seguendo una ormai consolidata tradizione di studi – che da John Berger
(1972) passa per Laura Mulvey (1975) e arriva fino a Griselda Pollock (1977) –
capace di guardare in controluce il nudo nelle arti visive mettendone in evidenza l’ancoraggio a culture patriarcali, nelle pagine che seguono si avanzano alcune prime considerazioni sul ricorso a corpi nudi di uomini nelle
ricerche performative nel nostro paese. La riflessione si concentra sul contesto storico segnato – oltre che da macrofenomeni come la contestazione
studentesca – dalla condanna di Aldo Braibanti per “plagio” (1968) e dalle
prime forme di autorganizzazione degli omosessuali (De Leo 2023) e che,
per l’ambito artistico, ha nella mostra itinerante (tra Svizzera e Germania)
Transformer. Aspekte der Travestie (1974) una celebre tematizzazione e codificazione estetica del crossdressing esteso anche a star della musica leggera
La mia gratitudine per l’aiuto e il sostegno nella ricerca, i confronti e i consigli agli Archivi del MAXXI, alla responsabile Giulia Pedace e a Giulia Cappelletti; all’Archivio Renato Mambor
e a Patrizia Speciale Mambor; a Ferruccio De Filippi e a Pasquale Polidori; a Dora Stiefelmeir.
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*corresponding author
[email protected]
Sapienza Università di Roma
Whatever, 7.1, 2024: 151-171 | CC 4.0 BY NC-SA
doi 10.13131/unipi/mgkp-nk72
Francesca Gallo
(Alinovi 1981b)2, come registrato con tempismo sulle pagine di Playmen:
“Incredibili personaggi, finti e veri omosessuali, bisessuali, travestiti, effeminati e imbellettati sono i nuovi eroi dei giovanissimi” (Pergolani 1973:
28). Con la sua ampia eco mediatica, invece, l’omicidio di Pier Paolo Pasolini, nel novembre 1975, costituisce un possibile spartiacque, avviando una
più diffusa considerazione delle ricadute sociali e umane delle discriminazioni di cui sono vittima le persone con orientamenti sessuali divergenti
dall’eteronormatività, e conclude idealmente questa fase, in concomitanza
con l’apertura delle liste e dei programmi del Partito radicale ai leader e
alle richieste del Fronte Unitario Omossessuale Rivoluzionario Italiano
(Rusconi 1976).
Nelle pagine che seguono, quindi, si intende delineare un’area di porosità
tra questo articolato e complesso movimento sociale e culturale e le esperienze artistiche centrate sul corpo, sottoposto a provvisori ripensamenti
grammaticali. L’arte d’azione, d’altronde, annovera una casistica diversificata: dalla nudità al travestimento, dall’attività all’immobilismo, dalla
solitudine del performer alla dimensione collettiva, dalla delega dell’artista
al corpo assoluto e alla sua relazione con oggetti, materiali, dispositivi tecnologici, in un elenco ampiamente incompleto3.
Nel panorama internazionale gli orientamenti sessuali e i ruoli di genere
sono tematizzati con una frequenza crescente in un periodo segnato da
rivolgimenti sociali e culturali profondi. Per il focus qui prescelto, si possono ricordare la serie di polaroid S/He di Ulay o l’esteso lavoro di Urs Lüthi
(Jones 2015), e ancora Piège pour un voyeur (1969) con cui Michel Journiac
espone in una galleria parigina un modello nudo (disteso o seduto per terra
su una tuta integrale bianca con stampato il cognome dell’artista) all’interno
di un recinto quadrangolare delimitato da tubi al neon bianchi. La “trappola” evocata nel titolo – oltre che riferirsi alla gabbia minimalista in cui
è segregato il giovane – è diretta all’osservatore che diventa per l’appunto
un voyeur quando si avvicina all’opera, volgendo in curiosità morbosa la
fruizione estetica, in un’operazione che è anche una dichiarazione di omosessualità da parte dell’artista (Wilson 2000). Poco dopo sull’altra sponda
dell’Atlantico, nelle due versioni di Conversion (fotografie e film, 1970-1971)
In tale contesto va ricordata anche la sofferta pubblicazione del volume fotografico di
Lisetta Carmi, I travestiti, Essedi, Roma 1972.
3
Per uno sguardo internazionale si rimanda a Warr 2006 e a Wood 2018; per l’ambito
italiano vedi Gallo 2014 e Conte, Gallo 2023.
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Vito Acconci nudo compie alcuni gesti per mimare la trasformazione del
proprio corpo in uno femminile, oppure esegue semplici movimenti con il
pene occultato tra le gambe (Lippard 1974, 1976; Acconci Studio 2006). Si
tratta di esempi particolarmente significativi perché parzialmente indipendenti dall’inclinazione sessuale dei rispettivi autori, i quali mostrano verso
la fluidità di genere un’attenzione variabile e mutevole nel tempo.
Nel contesto italiano artiste e artisti performano prevalentemente vestiti,
spesso perché in sintonia con quello che all’epoca veniva definito comportamento in cui si ribadisce la contiguità con l’azione quotidiana e perfino
banale, oppure più in generale perché gli interventi sono in rapporto con
il contesto urbano e la comunicazione di massa. Se invece l’azione viene
delegata a un sostituto, si ricorre a collaboratrici (più raramente uomini)
talvolta proposte discinte, immobili e perfino in situazioni di costrizione:
basti pensare alla donna incappucciata in Motivo africano (1970) di Jannis
Kounellis o alle modelle che Vettor Pisani lega ai cavi di acciaio nelle versioni di Lo scorrevole (1972), per citare solo un paio di casi. Più in generale
permangono logiche voyeuristiche anche quando la nudità è proposta in
riferimento al mito o alla religione (Zanichelli 2019).
Il presente contributo si concentra sul nudo maschile, scelta controcorrente rispetto all’immaginario visivo prevalente e da intendersi, questa
l’ipotesi euristica, come implicita proposta di un differente corpo reificato
disponibile al controllo dello sguardo e pertanto in sintonia con la messa in
discussione dei più tradizionali cliché di genere. L’approccio è storico-artistico, privilegiando per quanto possibile le fonti coeve, con l’intento di
illuminare un territorio di tangenze e possibili interferenze tra le rivendicazioni del nascente movimento omosessuale, da un lato, e i temi affrontati
dagli artisti che si concentrano sul corpo, anche se non partecipi di quel
movimento né identificabili con tali nuove soggettività politiche. Si tratta,
quindi, di una consonanza differente rispetto a quella più nota e studiata
che riguarda le artiste, il femminismo e l’immagine della donna, anche se è
probabile che alcune sollecitazioni a esporre corpi maschili nudi, accolte da
Ferruccio De Filippi e da Vettor Pisani, siano originate proprio dalla concomitanza tra i due fenomeni che scuotono – seppure in maniera diversa – gli
immaginari sessuali e i modelli virili.
Lungi dal basarsi su un censimento esaustivo, la prospettiva fortemente
angolata qui adottata poggia sull’assunto che il semplice eccepire dalla norma
– rappresentata dal nudo femminile – sia degno di attenzione, rimandando
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a più sistematiche indagini che, nel considerare analoghe rappresentazioni
visive presenti in questo medesimo torno d’anni tra arti colte e cultura di
massa, mettano a sistema un corpus finora silente. Infatti, a fronte di una
secolare iconografia del nudo maschile nelle arti visive, nell’ambito degli
interventi performativi negli anni presi in considerazione, tale presenza è
decisamente occasionale – per lo più tramite il ricorso a un modello – e
pare concorrere a incrinare la tradizionale identificazione della donna come
figura passiva disponibile all’attività scopica (presumibilmente di un uomo).
Si tratta di azioni e di fotografie in cui i corpi di giovani uomini vengono
implicitamente proposti come oggetti, esibiti in una complessa dinamica di
sguardi, desideri e identità sessuate (talvolta perfino del riguardante).
In alcuni casi, la medesima iconografia ricorre sia nell’opera live sia
nell’intervento fotografico, in altri invece l’artista si concentra solo su uno
dei due medium. Per le azioni dal vivo, inoltre, la documentazione disponibile è prevalentemente fotografica, in un momento in cui il dibattito sul
rapporto tra registrazione e performance era agli albori, dato che l’azione
live si era da poco accampata nelle arti visive e gli artisti stavano esplorando le potenzialità del trattenere la volatilità degli interventi effimeri in
funzione della creazione di “immagini” assorbibili dalle arti visive, nonché
dal sistema delle gallerie e delle riviste. Lo sguardo che spingeremo su tali
pratiche travalica pertanto i confini mediali, seguendo fondamentalmente
la centralità del corpo nudo. A incoraggiare tale erranza concorrono, inoltre, sia i casi di azioni eseguite per la sola registrazione (fotomeccanica),
cioè senza pubblico; sia il coefficiente performativo implicito nella fotografia di posa, in cui l’artista non di rado è tanto ritrattato quanto ideatore
della composizione (anche se non esecutore materiale dello scatto); e, da
ultimo, la ricorrente immobilità di alcune azioni, in cui il performer semplicemente si mostra, senza essere impegnato in alcuna attività.
Passività dell’oggetto artistico
Appartengono al novero degli interventi ideati esclusivamente a favore
dell’obiettivo fotografico gli Itinerari [Itinerari indelebili] realizzati nel
1968 da Renato Mambor nello studio condiviso con Emilio Prini a Genova
(Fig. 1) consistenti nell’impiego del rullo per decori parietali indifferentemente sul torso nudo di Mambor e sul muro. Il focus dell’operazione coincide con una modalità impersonale, quasi meccanica, di produzione di segni
– il rullo inchiostrato – e l’assimilazione del corpo dell’artista al supporto
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dell’intervento pittorico, ovvero dell’epidermide alla carta da parati e per
analogia alla tela. Proprio attraverso tale concatenazione semantico-visiva
Mambor si confina in una zona di parziale passiva accoglienza dell’agire del
sodale, mettendo così implicitamente in discussione alcuni topoi legati alla
creatività artistica, mentre la complicità virile schiude alla dimensione ludica
e infantile che tanto peso ha nel lavoro dell’artista. L’esposizione del busto,
invece, equivale a quella di una porzione di corpo saldamente identificato –
sulla scorta della pubblicità e del cinema narrativo – con la maschilità.
Figura 1. Renato Mambor, Itinerari indelebili, 1968 (courtesy Archivio Renato Mambor).
L’attitudine parzialmente non assertiva si riscontra in alcune ricerche di
quegli anni, in particolare attorno alla costituenda Arte Povera, attraverso
l’uso dei calchi del corpo, per esempio, e in Mambor nel 1969-1970 si cristallizza anche nelle Azioni fotografate. In questo caso l’artista si fa ritrarre
in condizioni di costrizione e difficoltà, talvolta usando delle corde per
limitare i movimenti in composizioni in cui l’interesse per alcuni aspetti
formali dell’opera pittorica di Emilio Scanavino viene tradotto su di sé,
declinato attraverso il proprio corpo (Carpi De Resmini 2014) – come per
certi versi appariva già negli Itinerari – coerentemente con la centralità e
la continuità del dialogo con l’universo espressivo della pittura di molte
ricerche degli anni Sessanta, ineditamente concentrate sul corpo: da Gutai
agli Azionisti viennesi, da Yves Klein a Carolee Schneemann (Wood 2012).
In particolare in Nel cerchio, Mambor si fa ritrarre sorridente, a torso
nudo sulla sabbia, legato mani e piedi a una struttura circolare che lo sovrasta, probabilmente un cesto da pallacanestro in disuso, in immagini un po’
sfocate a causa dell’involontario movimento del soggetto. In Trattenere
(Fig. 2), invece, l’artista è ripreso nudo di schiena sul bagnasciuga con le
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gambe legate e la mano destra avviluppata alla fune: la progressiva tensione
della corda che attraversa il campo visivo perpendicolarmente al corpo suggerisce un lento abbandonarsi e scivolare via dell’uomo 4. “Mettevo in scena
delle realtà psicologiche che potevano essere riassunte in un modo di dire:
Ho le mani legate. Non riesco a fare un salto di qualità. Mi sento bloccato”
(Carpi De Resmini 2014: 69) spiegava l’artista molti anni dopo. In tale contesto gli scatti senza vestiti enfatizzano la passività, trasmettendo una sensazione di costrizione subita e di accoglienza dell’agire altrui: un diventare
opera attraverso il corpo, il quale nei fatti viene assimilato a un materiale
dell’agire artistico, privo di intenzionalità e soggettività. Sia l’intento di tradurre visivamente un significato verbale, sia il corpo legato, rimandano al
Surrealismo così come le strategie sottrattive dell’attività individuale.
Figura 2. Renato Mambor, Trattenere, 1969 (courtesy Archivio Renato Mambor).
Attorno al mito dell’androgino
La storia dell’arte con i suoi repertori iconografici e formali continua a
rappresentare l’orizzonte di riferimento in termini operativi e metaforici
sia per coloro che si cimentano con l’esibizione diretta del corpo, sia in
generale per le tematiche affrontate nella nascente arte d’azione. Anche
Cfr. Carpi De Resmini 2014: 23. Mentre in Mambor, Speciale, Riposati 1996: 52 una delle
foto viene pubblicata con il titolo In simpatia con Emilio. Attaccare.
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in questo campo, quindi, l’ermafrodito è “come un faro che si spegne e si
accende dal fondo della notte” (Bernobini 1969).
Nel marzo 1971 Ferruccio De Filippi usa per l’invito della personale alla
galleria Il Diagramma di Milano uno degli scatti di Senza titolo (ermafrodito) (1970), sequenza di cinque fotografie poi esposte nella sezione audiovisivi della 8e Biennale de Paris (1973). La serie presenta l’artista nudo di
fronte all’obiettivo, disteso sul fianco destro, in un ambiente spoglio, asettico e chiaro. In tutte le fotografie, eseguite da Mariella Bolzoni, sistematica
collaboratrice nonché compagna di vita dell’artista, De Filippi nasconde
il pene tra le gambe chiuse e piegate: così come è riconoscibile il segno
dell’abbronzatura, nessun altro accorgimento viene adottato per mascherare aspetti tipicamente maschili come l’abbondante peluria delle gambe, i
baffi e il pizzetto. In uno scatto l’artista ha gli occhi socchiusi, in un altro è
rilassato con la testa nascosta tra le braccia, in un terzo, invece, De Filippi
vigile sembra posare annoiato per qualche rivista di moda (Fig. 3); infine
una ripresa ne mostra una smorfia aggressiva5.
Figura 3. Ferruccio De Filippi, Ermafrodita, 1969 (foto Maria Bolzoni, dal catalogo della 8e Biennale de
Paris 1973).
La serie completa è pubblicata in Polidori 2022: 175-177; mentre in Bonito Oliva 1973:
p.n.n. è riprodotta solo una fotografia con il titolo Ermafrodita.
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Lo scatto con la testa nascosta tra le braccia distese confluisce in Senza
titolo (Méphistophélès et l’androgyne…) (1971, Fig. 4), dittico su carta in cui la
fotografia è affiancata al ricalco a penna e matita della copertina del volume
di Mircea Eliade, di cui cita il titolo in lingua originale (Gallimard 1952)6.
Figura 4. Ferruccio De Filippi, Senza titolo (Méphistophélès et l’androgyne…), 1971 (foto Maria Bolzoni,
courtesy Pasquale Polidori).
De Filippi aveva già letto il testo in francese, dato che intorno al 1968
si trasferisce per qualche tempo a Parigi, così come i libri di Claude LéviStrauss e di Michel Foucault. Nel saggio che dà il titolo al volume, Eliade
propone un ampio excursus su riti di compresenza degli opposti rintracciati sia nel folklore dell’Europa orientale, sia nella religione indù, fino ai
rituali degli aborigeni australiani. Tale inchiesta gli permette di distinguere
tra l’androginia – ideale compresenza spirituale del principio maschile e
femminile – e l’ermafrodito – persona in cui coesistono anatomicamente
i due differenti apparati sessuali. Se il primo è un mito ricorrente che
indica una sorta di ideale completezza e perfezione spirituale della divinità
Appena tradotto in italiano con un titolo irrituale: Eliade M., 1971, Mefistofele e l’androgine,
Edizioni Mediterranee, Roma.
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Modelli non normativi: qualche considerazione sul nudo maschile
a cui anche l’essere umano tende, nei medesimi contesti storico-sociali il
secondo è malvisto, usato in letteratura prevalentemente nella prospettiva
della sovrabbondanza di possibilità erotiche (Eliade 1971: 71-114). Per l’ermafrodito, il cui mito risale al IV-III secolo a.C. – scrive Eliade – la statuaria antica è una fonte imprescindibile, mentre per l’androginia in ambito
romantico molti scrittori ricorrono alla terminologia alchemica.
Nonostante manchino espliciti richiami all’iconografia antica7, De Filippi
sembra assorbire solo nella seconda versione la distinzione, con il riferimento all’androginia (invece che all’ermafroditismo della prima versione).
Dal punto di vista figurativo le opere non indulgono nell’ipersessualizzazione del soggetto e neppure adottano posture allusive, mutuandole per
esempio dalla statuaria ellenistica. Al contrario De Filippi sembra optare
per la semplice sottrazione dell’organo sessuale maschile: la presentazione
è frontale, nulla nell’ambiente permette l’identificazione tra l’artista e il
tema, il suo corpo è proposto come su un plinto, in un contesto non definito, mentre il soggetto rifugge dal contatto visivo con l’osservatore. L’artista sottolinea oggi l’atteggiamento ironico che connotava all’epoca il suo
lavoro, cercando spesso per sé situazioni marginali: in questo caso l’ironia
si rivolgeva alla virilità in sé, simbolizzata dal pene a cui, a suo avviso,
uomini e donne – per motivi diversi – sono così legati8.
La serie fotografica, quindi, sussume il nudo in una dimensione simbolico-allegorica, che non mobilita nessun riferimento a situazioni o esperienze
concrete, sia in termini individuali che generali. Propendiamo per interpretare le due opere nella prospettiva di autoritratti come artista, ovvero
secondo una idea diffusa dell’artista come essere androgino, in cui maschile
e femminile convivono, forse anche per mettere in crisi, e in definitiva evadere da nette dicotomie che il movimento femminista aveva messo sotto
una nuova luce, da un lato contestandole e dall’altro reclamando una rinnovata declinazione, per esempio attraverso la pratica del separatismo9.
Una medesima prospettiva allegorica è adottata in questi primi anni
Settanta anche da altri, si pensi a Vettor Pisani che si richiama all’alchimia e – tramite essa – si concentra sull’androginia, tema che compare
Anche se la testa abbandonata e seminascosta tra le braccia ricorda lontanamente il nudo
addormentato dell’ermafrodito antico, con l’assenza determinante però della veduta di schiena
che caratterizza la statua.
8
Da conversazioni e scambi di email di chi scrive con l’artista (settembre 2023).
9
Molte le dichiarazioni in tal senso, per esempio, da parte delle artiste italiane, mentre
colpisce come tale tema ricorra anche nel lavoro militante di Lucy Lippard (1974).
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già nel titolo della prima personale, Maschile, femminile, androgino. Innesto e cannibalismo in Marcel Duchamp alla Galleria La Salita (28 aprile-28
maggio 1970) (Cherubini, Viliani, Viola 2016:71-75; Capasso 2002:1-6),
frequentata anche da Ferruccio De Filippi. Tali riferimenti, secondo Trini
(1978), si mescolano a quelli al Dada e al Surrealismo e sono il frutto di un
lungo lavoro di apprendistato e studio che precede l’esordio espositivo e
viene condotto alla luce della “traduzione visiva dal suo originale esoterico” (Trini 1976: 21). D’altronde, Maurizio Calvesi aveva appena riportato
in auge l’universo alchemico, soprattutto con la mostra Fine dell’alchimia
(galleria L’Attico, 1970) a cui partecipa anche Pisani e in occasione della
quale lo studioso spiega che uno dei fini di tale disciplina coincide con “il
recupero di un’immagine globale dell’uomo” (Calvesi 1970: 196).
Nel 1971, Pisani richiama l’androgino in alcuni lavori fotografici – con la
collaborazione di Claudio Abate – in cui il modello Gianni Macchia nudo
indossa il calco in oro di un seno femminile, legato al busto da una cinghia
che sostiene sulla schiena un coltello a serramanico, a volte affiancato a
Lynn Ruby che, analogamente nuda, indossa una fascia nera a coprirle il
seno destro. Quattro fotografie con il titolo Carne umana e oro sono riprodotte nel catalogo della 7e Biennale de Paris (24 settembre-1 novembre 1971),
Figura 5. Vettor Pisani, Carne umana e oro, 1971 (Data 1972, 2: 18-19).
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Modelli non normativi: qualche considerazione sul nudo maschile
a cura di Achille Bonito Oliva, ma in mostra probabilmente sono esposte
solo due stampe (Bonito Oliva 1971; Cappelletti 2020). La coincidenza
cronologica con le opere di De Filippi fa propendere per una parallela lettura del testo di Eliade, in un clima di generale interesse per culture lontane
nel tempo e nello spazio. Nella mostra parigina i lavori sono attribuiti alla
moglie, Mimma Pisani (al secolo Carmela Bruno), a cui Bonito Oliva si
rivolge fin dai primi scambi in vista della manifestazione10: un dato di cui i
coniugi sono consapevoli, al quale non si oppongono ma che forse hanno
addirittura sollecitato visto che l’opera è dedicata alla compresenza di
maschile e femminile11. Nell’insieme, infatti, si potrebbe trattare di una variazione attorno alle modalità operative di Plagio, ma con una sfumatura gender. A proposito dei numerosi interventi che vanno sotto questo titolo, nati
dalla collaborazione con Michelangelo Pistoletto, recentemente quest’ultimo ha evidenziato un dato molto significativo per il ragionamento qui
condotto, ovvero che le riflessioni dei due artisti muovevano dal clamore
suscitato dalle accuse di plagio a Aldo Braibanti (Bellini 2016: 95-97), alla
fine degli anni Sessanta. Il caso giudiziario innescò una serie di scambi ad
ampio spettro tra i due attorno all’autorialità, all’originalità in arte, al dare e
al ricevere nel processo collaborativo, alla confusione e fusione identitaria,
da cui prendono corpo una serie di operazioni sgranate tra il 1970 e il 1976.
Alcune di queste opere si basano sull’appropriazione con variazioni di lavori
di Marcel Duchamp o di Man Ray, coinvolgevano la figura di Meret
Oppenheim, oppure la compagna di Pistoletto, Maria Poppi. All’interno di
tale collaborazione, tra l’altro, uno firmava i lavori realizzati dall’altro, e
viceversa. Si conferma così la certa ricettività di Vettor Pisani rispetto al
dibattito su costumi sessuali e morale in atto nel Paese in quegli anni.
Tornando alle opere fotografiche con nudo virile, nel 1972 altre quattro fotografie, eseguite tutte nella campagna romana, sono pubblicate su
Data: titolo e data coincidono con le precedenti, mentre la compresenza del
Cfr. Archivi del Maxxi, Fondo IIA, Presenza italiana alla Biennale di Parigi, f. D., minuta
della lettera di A. Bonito Oliva a Mimma Pisani, 28.V.1971, dattiloscritto; f. I, minuta dell’elenco
opere da trasportate alla ditta Tartaglia, 1.XII.1971; in f. C, scheda di prestito (dove l’iniziale intestazione a Vettor è stata sostituita con quella a Mimma).
11 Anche gli osservatori attribuiscono a Mimma l’interesse per il tema sessuale: “Mimma
Pisani si esercita in metamorfosi sessuali” (Bo L., 1971, “Arte in fiera”, in Corriere della Sera, 3 ottobre); “l’immagine ermafroditica allestita e fotografata da Mimma Pisani” (Menna F., 1971, “Gli
artisti italiani alla Biennale di Parigi”, in Il Mattino, 10 novembre: 11): Archivi del Maxxi, Fondo
IIA, Presenza italiana alla Biennale di Parigi.
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ragazzo e della ragazza rinforza una certa complementarietà delle polarità
di genere (Fig. ) (Aicardi 1972). Infine, recentemente è stata pubblicata una
diversa selezione della medesima serie fotografica con il solo Macchia, con
il titolo Androgino, carne umana e oro (Esperimento), confermando la datazione al 1971 (Cherubini, Viliani, Viola 2016: 32, 122).
Qualche anno più tardi, in una sintesi della cultura alchemica, anche
Arturo Schwarz concorda sulla distinzione tra ermafrodito e androgino: il
primo “costituisce una mostruosità biologica, una sintesi statica delle componenti maschili e femminili” (Schwarz 1979: 20) mentre l’androgino è “la
cosa doppia […], in cui le componenti maschile e femminile non si annullano reciprocamente ma, di converso, si esaltano reciprocamente, sono in
stato di equilibrio conflittuale” (Schwarz 1979: 20). Più di recente, infine,
Italo Tomassoni, a proposito di Carne umana e oro scrive: “celebra il rito
dell’Androgino cioè dell’arte come aspirazione alla totalità e all’unione dei
contrari” (Tomassoni 2021: 11).
Nel contesto di Contemporanea – la sorprendente mostra allestita nel
parcheggio sotterraneo di Villa Borghese a Roma – in una data non precisata tra dicembre 1973 e gennaio 1974, Vettor Pisani presenta Androgino,
carne umana e oro (Azione), intervento dal vivo riccamente documentato
dall’obiettivo di Abate, Cristina Ghergo12 e Fausto Giaccone, oltre che dalla
moglie dell’artista (Cherubini, Viliani, Viola 2016: 123). In questa occasione Macchia nudo è seduto o sdraiato sul tavolo (munito di una stufetta
elettrica visti i rigori invernali), in un alternarsi di pose rilassate e altre più
esibite. Rispetto alle modelle legate da Pisani alle gambe dei tavoli o ai cavi
d’acciaio tramite un collare, Macchia sembra a proprio agio e padrone della
scena, soprattutto nel campo lungo della documentazione di Contemporanea (Fig. 6). Non è da escludere che a sollecitare la proposizione dell’androgino – al posto delle donne di cui l’artista si era fino ad allora servito
nella dimensione live – possano aver contribuito le prime esplicite manifestazioni di autorganizzazione degli omosessuali a Roma, e in particolare
il Primo congresso di controinformazione sulla sessualità, svoltosi nella
capitale il 13 e 14 ottobre 1973 (Di Marco, Battisti, Lunerti 2023), in un
clima di rinnovato interesse per queste tematiche13.
Centro Archivi MAXXI Are, Fondo IIA, Contemporanea, scatola 2.
Già nel 1972 erano stati pubblicati due volumi di un certo seguito: Maria Silvia Spolato (a
cura di), Movimenti omosessuali di liberazione, Samonà Savelli, Roma 1972; Dario Bellezza, Lettere
da Sodoma, Garzanti, Milano 1972.
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Figura 6. Vettor Pisani, Androgino, carne umana e oro (Azione), 1974 c. (Playmen 1972, febbraio).
Relativamente al registro rappresentativo, il modello Macchia sembra
reclamare il proprio spazio, cerca il contatto visivo con l’osservatore attraverso lo sguardo in macchina, mentre dal vivo indulge in pose esibizioniste
a favore dell’obiettivo, oltre che dei presenti. Un insieme di atteggiamenti
probabilmente da associare alla collaborazione sua e di Lynn Ruby con
Abate per i servizi pubblicati su Playmen, in proposte tanto distanti dalla
pornografia volgare quanto accordate a un’antica genealogia fotografica
all’insegna dell’erotismo estetizzato (Belloni 2018). Sebbene tale protagonismo del modello confligga con le intenzionalità dell’artista, Pisani lo
accoglie di buon grado vista sia la consuetudine con cui coinvolge Macchia,
sia la selezione degli scatti pubblicati.
In confronto a De Filippi, in Pisani sono in gioco elementi metaforici
più evidenti, in cui il calco in oro e il coltello suggeriscono un richiamo
al mito delle amazzoni, leggendarie donne guerriere che si mutilavano
un seno per usare meglio l’arco e le frecce. “L’aggiunta del calco non è,
così, soltanto il segno distintivo della ‘unità armoniosa’, ma anche il segno
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violento della sopraffazione”, scriveva Mimma Pisani (1973: 12) sottolineando quanto i materiali nominati nel titolo alludano alla tensione tipica
della ricerca alchemica verso la perfezione. Per Pisani l’androgino simboleggia la coincidenza degli opposti e quindi una privilegiata condizione di
pienezza, attingendo sia alle religioni antiche sia alla letteratura alchemica
(Fabbris 2016). Qui, invece che per sottrazione come in De Filippi, l’ambivalenza è ottenuta aggiungendo la protesi femminile in oro, materia dagli
espliciti riferimenti alchemici: una scelta che iconograficamente sospinge
la composizione proprio verso l’ermafroditismo.
I due artisti, tuttavia, condividono una prevalente prospettiva simbolica,
anche se De Filippi si mette in gioco in prima persona – ricorrendo al filtro
fotografico analogamente a Luigi Ontani, per esempio – mentre Pisani usa
i modelli come rappresentazioni, prosciugando il qui e ora della performance, cioè la contiguità con l’impermanenza dell’esperienza estetica nella
fruizione dell’opera.
Prospettive di identificazione
A differenza dei due casi precedenti, in cui l’iconografia del nudo risponde
alla tematizzazione dell’androginia, in questo paragrafo conclusivo si considerano due diverse angolazioni in cui l’autore/autrice ha un differente
grado di coinvolgimento personale con la maschilità.
Nel panorama (per altro ancora circoscritto) fin qui tratteggiato, le artiste
sembrano assenti. Infatti a fronte del prevalente ginocentrismo figurativo –
che Lucy Lippard (1975) delineava in termini di immaginario femminile da
ricondurre anche agli interessi per questioni identitarie – allo stato degli
studi risultano decisamente rari i nudi virili sia per affermare parità operativa rispetto ai colleghi, sia per veicolare il proprio immaginario erotico
eterosessuale. Sebbene il campo sia ancora da studiare in maniera approfondita, sembra a tutti gli effetti una scelta volontaria, basata sulla consapevolezza – più o meno nutrita di riflessioni, di letture, di esperienze – che
il ribaltamento delle posizioni di osservatore/osservato, soggetto/oggetto
in tale contesto non basti, accompagnata da un diverso modo di intendere l’affermazione della soggettività femminile, che non intendeva solo
sostituirsi al maschio ma piuttosto porre le premesse per diversi rapporti
personali e sociali.
In ambito internazionale, Richard Meyer ha messo in luce come il
nudo maschile sia proposto, in maniera quantitativamente contenuta,
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Modelli non normativi: qualche considerazione sul nudo maschile
prevalentemente come critica a un sistema sociale e culturale sintetizzabile come imperialismo fallico (Meyer 2007). Mentre, più di recente, Rachel
Middleman ha meglio contestualizzato la ricezione delle opere di alcune
artiste statunitensi che, tra gli anni Sessanta e Settanta, hanno sfidato il
tabù, collocando il loro interesse per l’erotismo e il nudo maschile e femminile nella crescente consapevolezza di genere, sostanzialmente allineata
all’effervescenza del femminismo (Middleman 2018)14, lettura suggerita già
nel 2015 dall’ampia ricognizione proposta da The Ey Exhibition. The World
goes Pop (Morgan, Friggeri 2015).
Anche le artiste italiane sembrano essersi di fatto private di tale ampio
spettro espressivo per esplorare desideri o paure nei confronti dell’altro
sesso. In tale contesto rarefatto risulta allineata alle strategie di ribaltamento delle convenzioni culturali l’azione Nomenclatura (1973) in cui
Tomaso Binga (nome d’arte di Bianca Pucciarelli Menna) impiega un giovane a torso nudo come una sorta di modello anatomico per richiamare la
tassonomia della muscolatura umana la cui conoscenza è alla base della
formazione artistica. All’interno di una serrata e articolata critica al pervicace maschilismo, Binga si trattiene dal proporre il nudo integrale del
giovane a favore di un approccio indiretto, da prediligere in un contesto
culturale e sociale tradizionalista esperito in prima persona (Perna 2021).
In aggiunta, tuttavia, non è da escludere che in questo preciso momento il
nudo maschile integrale sia associato a una virilità dimidiata, o comunque
non eteronormativa, tenuto conto di come viene proposto da De Filippi e
da Pisani proprio all’inizio degli anni Settanta. Mentre, come già osservato
per Mambor, l’esibizione del torace è totalmente in linea con il canone della
maschilità e proprio per questo visivamente più funzionale al ribaltamento
dei ruoli di genere perseguito da Binga.
Diversa è la natura della identificazione del secondo caso considerato,
Luigi Ontani, uno degli artisti che in maniera più sistematica ha fatto ricorso
al proprio corpo nudo, già dalla fine degli anni Sessanta e che proprio tra il
1973 e il 1974 mette a punto una peculiare declinazione della presenza live.
Inizialmente la nudità era comparsa nei brevi filmati girati nello studio Bentivoglio a Bologna, nei quali l’artista è impegnato in azioni incongrue con
titoli in cui si mette in evidenza la natura plasmabile del linguaggio verbale,
mobilitando una generale atmosfera surreale, segnata da inadeguatezza,
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Tema già emerso per esempio in Tickner.
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gratuità, imperizia (Gallo 2023). Parallelamente nelle opere fotografiche
Ontani impersona rappresentazioni implicitamente omoerotiche, come il
San Sebastiano (1969), oltrepassa le appartenenze di genere, in Ermafrodito
(1970) o EvAdamo (1973), senza precludersi ruoli femminili, per esempio in
Maja desnuda o in Leda e il cigno (1974) (Moschini 2018): tutti casi in cui il
filtro allegorico mutuato dalla storia dell’arte antica e moderna svolge una
funzione decisiva in termini di idealizzazione e traduzione in un codice
colto, in cui il nudo è canonizzato e sublimato.
Allo stato attuale delle ricerche, tuttavia, l’esplicita fluidità di genere
sembra limitata ai tableaux vivants fotografici, mentre è dichiarata verbalmente sulle pagine di Flash Art nel 1974 e, l’anno successivo, riproposta nel
volumetto stampato in occasione della personale torinese nella galleria di
Franz Paludetto:
l’ambivalenza, la possibilità magnifica di essere contemporaneamente, a proprio
piacimento e bisogno, obiettivamente pertinente alla contingenza, maschio/femmina, è la più [sic] delle aspirazioni latenti dell’umano che si celano ancora nelle
sovrastrutture del civile repressivo. […] un coacervo totale liberatorio infinito.
(Ontani 1975: 37)
La citazione appare anche un’implicita conferma del diverso clima culturale che si respira in Italia nella seconda metà della decade, quando Ontani
si propone nudo nell’esecuzione live con una frequenza crescente e il sistematico ricorso ad accorgimenti distanzianti, come le diapositive proiettate
e il sottofondo sonoro.
Tuttavia, almeno inizialmente, nell’azione dal vivo, più che il richiamo
iconografico, l’artista mobilita una più sottile declinazione della maschilità
“divergente”, facendo perno sulla finzione dell’essere inconsapevolmente
osservato, nonché sulla propria ricercata passività.
Ontani sperimenta per la prima volta il tableau vivant dal vivo nella rassegna romana Contemporanea (Alinovi 1981a), probabilmente anche lui –
come Pisani – sollecitato dalle prime manifestazioni dell’orgoglio omossessuale nella capitale. In Tarzan (1974) l’aitante protagonista è impersonato
dal corpo efebico dell’artista, quasi statico, coperto da una pelle d’animale e
immerso nella lettura di fumetti dedicati al personaggio interpretato: un’attività intellettuale, ma anche di evasione, che se da un lato gli permette di
estraniarsi, dall’altro sembra alludere al processo di “apprendimento”, in
questo caso anche di una dimensione virile naturalizzata.
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Modelli non normativi: qualche considerazione sul nudo maschile
La lettura è nuovamente l’unica attività a cui si dedicano le altre tre
figure proposte da Ontani nella personale alla galleria romana L’Attico,
sempre nel 1974: il cavaliere melanconico Don Chisciotte su un cavalluccio
a gettoni (come quello delle giostre per bambini), Don Giovanni e Superman, riproposti ciascuno due-tre volte nel mese di novembre (L’Attico
1957-1987, 1987). La nudità – limitata in questo frangente al Don Chisciotte,
probabilmente sulla scorta di alcuni passaggi dell’opera letteraria in cui
l’eroe usa l’aggettivo ‘nuda’ in relazione alla propria anima, come sinonimo
di sincerità e autenticità – non è esibita in quanto tale, anche perché non
connaturata alle figure interpretate, differenza cruciale rispetto alle opere
dedicate all’androginia15.
Interessanti in Ontani – tanto nella declinazione live quanto in quella
fotografica – sia la pressoché totale assenza dello sguardo in macchina (l’artista quando non è assorto nella lettura guarda indifferente fuori campo o
davanti a sé), sia l’immobilismo: scelte che ne accentuano l’ideale tensione
verso l’oggetto quindi, per la postura passiva che implicitamente richiama
una dialettica di sguardi tra una soggettività desiderante, portatrice di un’attività scopica da un lato e, dall’altro, un corpo disponibile e apparentemente
inconsapevole dell’osservatore, e in tal modo vicino al cliché della femminilità. Convergono verso tale sovvertimento delle convenzionali posture di
genere anche i riferimenti al quadro o alla statua in quanto oggetti inerti,
immagini da contemplare (e possedere) da parte di un’individualità convenzionalmente attiva (Horn, Lewis 1996; Getsy 2014). Tuttavia proprio la
deriva della performance verso la messa in scena parateatrale traspone il
corpo in un registro allegorico, concorrendo a rendere finzionale la messa
in discussione degli immaginari virili, cioè alienandola dalla realtà effettuale, perfino quella legata alla soggettività autoriale.
A differenza di De Filippi e di Pisani, nella ricerca di Ontani, come in
quella di Journiac citata in apertura, vi è una forte dose di identificazione
tra temi trattati e condizione individuale, dato confermato dal perdurare di
posture camaleontiche e trasformiste nel lavoro di entrambi, ben oltre la
fase qui considerata; mentre l’incrinatura del binarismo di genere è interesse più circoscritto negli altri casi considerati. La contingenza, se confermata da più estese indagini, delineerebbe anche in Italia un’area di tangenza
Per una approfondita analisi del lavoro di Ontani in relazione all’omossessualità vedi
l’intervento di Anna Mecugni in questo stesso numero della rivista.
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(ancora da perimetrare), tra attualità sociologica e ricerche artistiche attorno
alla ridefinizione delle appartenenze di genere. In un momento storico in
cui proprio in questo campo si schiudono inedite possibilità esistenziali e
simboliche, identità di genere incerte e sfumate sono tematizzate non solo
da coloro che sono implicate/i direttamente dai processi di riscrittura in
atto, come le donne, da un lato, o le persone omosessuali, dall’altro, ma
diventano un campo di indagine ampio in cui ripensare anche la maschilità, perfino da parte di uomini eterosessuali.
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Modelli non normativi: qualche considerazione sul nudo maschile
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Francesca Gallo
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Modelli non normativi: qualche considerazione sul nudo maschile
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L’Autrice
Francesca Gallo insegna Storia dell’arte contemporanea alla Sapienza Università di Roma, alla performance art ha dedicato Parole, voci, corpi tra arte
concettuale e performance. Conferenze, discussioni, lezioni come pratiche artistiche in Italia (Mimesis 2022), primo contributo sistematico sulle declinazioni discorsive dell’azione dal vivo dagli anni Settanta al XXI secolo. Con
Lara Conte ha curato sia la mostra e il catalogo Territori della performance:
percorsi e pratiche in Italia (1967-1982) (MAXXI-Quodlibet 2023), sia Costellazioni della Performance Art in Italia 1965-1982 (Silvana Editoriale 2024).
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