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Domenico Massaro

Abstract

Domenico Massaro non finisce di stupirci, fortunatamente. Già docente e direttore didattico nelle scuole medie superiori, con contatti prolungati col mondo universitario, ha scritto non solo manuali scolastici di filosofia che hanno incontrato larga attenzione e consenso tra i colleghi e gli studenti, ma saggi di filosofia aperti ad ampie problematiche (su logica, linguaggio, cura di sé e degli altri), mirando in particolare alla chiarezza comunicativa e all'educazione delle relazioni linguistiche, sempre importanti, ma diventate particolarmente urgenti da alcuni anni a questa parte (ricordo di lui almeno Questioni di verità: logica di base per capire e per farsi capire , con Prefaz. di Ferdinando Abbri), Napoli, Liguori 2005 e, sul fronte della comunicazione, tema che gli è particolarmente caro, scritto insieme ad Anselmo Grotti, Il filo di Sofia. Etica, comunicazione e strategie conoscitive nell'epoca di internet, Torino, Bollati Boringhieri 2000), nonché, steso a quattro mani con Walter Bernardi, La filosofia, una cura per la vita. Contro il disagio dell'esistenza e i problemi dell'uomo contemporaneo, Milano, Ediz. Marinotti 2007. La sua produzione ha imboccato anche la strada della ricostruzione e della rivisitazione storica di personaggi ed ambienti, con alcuni risultati particolarmente efficaci: tra i frutti migliori, a mio parere, Il calamaio dell'inquisitore, Cult Editore 2010 (sull'avvincente e drammatica storia, ambientata nella Toscana del '700, del poeta e pensatore Tommaso Crudeli vittima dell'Inquisizione) e Il ventaglio della regina. Storia segreta di Cristina di Svezia, Ediz. Imago Eranos book 2014 (sulle vicende affascinanti e tormentate di questa grande ed inquieta donna). Con questo nuovo lavoro (Elogio della timidezza. La buona educazione al tempo dell'intelligenza artificiale, Roma, Fefè editore 2024) Massaro propone al lettore un dialogo di grande attualità a partire dall'esplicita rivalutazione di un sentimento oggi emarginato quale la timidezza, che dall'autore viene riproposto al centro di una visione dell'uomo nelle sue complesse relazioni personali con se stesso, con gli altri, con la società e con la natura. E l'elogio della timidezza diventa allora quel filo conduttore di una continua ricerca collegata alla buona educazione nel tempo del futuro, che affascina e inquieta, quel tempo dell'intelligenza artificiale, che non riusciamo ancora a decifrare, a valutare adeguatamente in tutte le sue implicazioni. [Di "elogio della timidezza" ha discusso anche Tahar Ben Jelloun in un suo intervento su "la Repubblica" dell'8 agosto 2024, secondo una linea interpretativa diversa da quella del Massaro: ma è certo un segnale dell'interesse per il problema]. Se ci si pensa bene timidezza e buona educazione paiono termini e concetti fuori tempo massimo, in un mondo, lontano o vicino che sia, che le cronache giornalistiche e televisive ci descrivono divorato da una perpetua aggressività e da una violenza sempre più capillare e diffusa (della quale è percepibilissimo l' incremento anche nel nostro paese negli ultimi quindici-venti anni). Un quadro nel quale la politica stenta a dare risposte convincenti ad una società smarrita e spesso impaurita, a famiglie disorientate, dove l'affermarsi sempre più capillare dei diritti non trova certo un'adeguata sponda di riferimento e di compensazione nella quasi radicale scomparsa del senso del dovere [tema fondamentale, ma oggi scarsamente sentito anche dai politici, pochi dei quali, tra cui Luciano Violante, lo hanno a più riprese ricordato e sollecitato: ma si vedano a questo riguardo le considerazioni di Alessandro Barbano, Troppi diritti. L'Italia tradita dalla libertà, Milano, Mondadori 2018]. La struttura del libro, articolata in nove capitoli, permette una lettura che, problematicamente, ramifica il percorso base in una serie di aree politiche, culturali, educative che si intrecciano fra loro e che spingono il fruitore sia ad un percorso diretto di lettura da capo a fondo, sia pure ad un tragitto che permette un continuo ritorno all'indietro per ricordare e ripensare alcuni nodi fondamentali del discorso, facilitato anche dallo stile agile e chiaro dell'autore. Proviamo ad inoltrarci un momento nel libro.

Domenico Massaro discute del valore della timidezza. Domenico Massaro non finisce di stupirci, fortunatamente. Già docente e direttore didattico nelle scuole medie superiori, con contatti prolungati col mondo universitario, ha scritto non solo manuali scolastici di filosofia che hanno incontrato larga attenzione e consenso tra i colleghi e gli studenti, ma saggi di filosofia aperti ad ampie problematiche (su logica, linguaggio, cura di sé e degli altri), mirando in particolare alla chiarezza comunicativa e all’educazione delle relazioni linguistiche, sempre importanti, ma diventate particolarmente urgenti da alcuni anni a questa parte (ricordo di lui almeno Questioni di verità: logica di base per capire e per farsi capire , con Prefaz. di Ferdinando Abbri), Napoli, Liguori 2005 e, sul fronte della comunicazione, tema che gli è particolarmente caro, scritto insieme ad Anselmo Grotti, Il filo di Sofia. Etica, comunicazione e strategie conoscitive nell’epoca di internet, Torino, Bollati Boringhieri 2000), nonché, steso a quattro mani con Walter Bernardi, La filosofia, una cura per la vita. Contro il disagio dell’esistenza e i problemi dell’uomo contemporaneo, Milano, Ediz. Marinotti 2007. La sua produzione ha imboccato anche la strada della ricostruzione e della rivisitazione storica di personaggi ed ambienti, con alcuni risultati particolarmente efficaci: tra i frutti migliori, a mio parere, Il calamaio dell’inquisitore, Cult Editore 2010 (sull’avvincente e drammatica storia, ambientata nella Toscana del ‘700, del poeta e pensatore Tommaso Crudeli vittima dell’Inquisizione) e Il ventaglio della regina. Storia segreta di Cristina di Svezia, Ediz. Imago Eranos book 2014 (sulle vicende affascinanti e tormentate di questa grande ed inquieta donna). Con questo nuovo lavoro (Elogio della timidezza. La buona educazione al tempo dell’intelligenza artificiale, Roma, Fefè editore 2024) Massaro propone al lettore un dialogo di grande attualità a partire dall’esplicita rivalutazione di un sentimento oggi emarginato quale la timidezza, che dall’autore viene riproposto al centro di una visione dell’uomo nelle sue complesse relazioni personali con se stesso, con gli altri, con la società e con la natura. E l’elogio della timidezza diventa allora quel filo conduttore di una continua ricerca collegata alla buona educazione nel tempo del futuro, che affascina e inquieta, quel tempo dell’intelligenza artificiale, che non riusciamo ancora a decifrare, a valutare adeguatamente in tutte le sue implicazioni. [Di “elogio della timidezza” ha discusso anche Tahar Ben Jelloun in un suo intervento su “la Repubblica” dell’8 agosto 2024, secondo una linea interpretativa diversa da quella del Massaro: ma è certo un segnale dell’interesse per il problema]. Se ci si pensa bene timidezza e buona educazione paiono termini e concetti fuori tempo massimo, in un mondo, lontano o vicino che sia, che le cronache giornalistiche e televisive ci descrivono divorato da una perpetua aggressività e da una violenza sempre più capillare e diffusa (della quale è percepibilissimo l’ incremento anche nel nostro paese negli ultimi quindici-venti anni). Un quadro nel quale la politica stenta a dare risposte convincenti ad una società smarrita e spesso impaurita, a famiglie disorientate, dove l’affermarsi sempre più capillare dei diritti non trova certo un’adeguata sponda di riferimento e di compensazione nella quasi radicale scomparsa del senso del dovere [tema fondamentale, ma oggi scarsamente sentito anche dai politici, pochi dei quali, tra cui Luciano Violante, lo hanno a più riprese ricordato e sollecitato: ma si vedano a questo riguardo le considerazioni di Alessandro Barbano, Troppi diritti. L’Italia tradita dalla libertà, Milano, Mondadori 2018]. La struttura del libro, articolata in nove capitoli, permette una lettura che, problematicamente, ramifica il percorso base in una serie di aree politiche, culturali, educative che si intrecciano fra loro e che spingono il fruitore sia ad un percorso diretto di lettura da capo a fondo, sia pure ad un tragitto che permette un continuo ritorno all’indietro per ricordare e ripensare alcuni nodi fondamentali del discorso, facilitato anche dallo stile agile e chiaro dell’autore. Proviamo ad inoltrarci un momento nel libro. 1 Innanzitutto la timidezza si presenta come quel senso di sé, quel sentimento, quella condizione soggettiva che tante volte nella vita ci ha frenato, ci ha trattenuto, che ci ha appunto intimidito, e che in qualche circostanza ci ha fatto arrossire, accompagnandoci, quasi come un angelo custode, nelle varie fasi della nostra crescita. Giustamente l’autore connette timidezza, buona educazione, fragilità, sincerità, etica all’interno di un mondo e, in particolare, in una natura, in cui noi siamo ospiti e non padroni. Il tutto presuppone però la necessità di un nuovo linguaggio, difficile da costruire, che sia capace di interpretare la sfuggente complessità del nostro mondo. Ora, però, la timidezza non è una debolezza, ma una virtù positiva, che esula dal frastuono della quotidianità e che invita alla ricerca di quel silenzio che “accoglie meglio la voce dell’altro”. [Grande tema oggi quello del silenzio, oggetto per altro di numerose ricerche: Giovanni Vannucci diceva che “Cercare il silenzio significa creare in noi uno spazio entro cui possiamo vedere la realtà non deformata da schemi, e dove possiamo essere, svilupparci, crescere. Senza silenzio non c’è libertà; senza spazio interiore non c’è libertà interiore”]. Anzi, sottolinea il Massaro, la timidezza è la condizione che può farsi fondamento di un’etica della responsabilità, di fronte ad una realtà sociale caotica, rissosa e spesso spiacevole, che però deve essere conosciuta e realisticamente affrontata, specialmente dai giovani e dai giovanissimi. Nel quadro complesso della nostra società, che non consente rifiuti radicali, giustamente viene rimarcato il dominio oggettivo della tecnologia (p. 11), che è inscindibile dagli sviluppi complessivi della storia dell’occidente prima, e di tutto il mondo poi, in particolare a partire dal Medioevo: essa costituisce una potenza travolgente che inquieta, che fa riflettere, che pone interrogativi continui, ma della quale non potremmo fare a meno. Gli stadi di sviluppo dell’umanità hanno implicato che certe scelte siano irreversibili perché, nella loro sostanza, hanno costituito anche un potente strumento di miglioramento delle condizioni materiali di vita degli uomini. Pure l’attenzione crescente all’intelligenza artificiale è radicalmente collegata a questo modello, anche se le aspettative e i timori nei suoi confronti sono, al momento attuale, particolarmente forti. [Occorre anche in questo caso lasciarsi guidare da esperti sensibili, che segnalano con realismo limiti e possibilità dell’Intelligenza Artificiale e razionalmente non accedono ad una sua visione catastrofica: cfr. ad esempio il lavoro recente di Franco Raimondi, Percettroni al timone. Breve storia, nozioni di base, applicazioni di Intelligenza artificiale, Lecco, Polyhistor Edizioni 2024]. Ovviamente non tutto è oro, le inquietudini verso le nuove ed inesplorate strade che potrebbero aprirsi richiamano alla responsabilità etica e politica dell’uomo. E qui si innestano i grandi temi della politica, dell’etica e dell’educazione in generale, di quella scolastica nello specifico e nelle sue continue trasformazioni. Delicata questione che riguarda il sottile adeguamento ai nuovi bisogni via via emergenti. Lo sfondo politico ed economico delle nostre fibrillanti società è imprescindibile rispetto ad ogni dimensione educativa. Giustamente lo studioso sottolinea che si apprende se si è curiosi (p. 14), se si mettono in campo sia l’intelligenza formale, sia la dimensione emotiva della personalità, se ci si impegna in uno sforzo serio di crescita personale, perché la relazione col sapere è un confronto continuo con l’altro, aiuta a formarsi e ad uscire dal bozzolo di una soggettività chiusa ed autoreferenziale. Perché imparare è uno sforzo particolarmente creativo. E si capisce perfettamente quanto fondamentali siano a questo livello le dimensioni del linguaggio e della comunicazione, cavalli di battaglia del Massaro. Se queste sono alcune delle premesse del libro, la sua lettura si viene snodando attraverso una serie di capitoli organicamente legati tra loro. Traiamone qualche spunto. Il primo, Tecno/Sapiens, evidenzia la divaricazione, tante volte percepita ma non sempre adeguatamente giustificata, tra gli sviluppi della tecnica e la considerazione di una natura umana che pare non migliorare in misura adeguata. Però qui l’autore precisa subito che non solo la tecnica non si può fermare, ma che non conviene affatto che il progresso si arresti, anche se il percorso deve prevedere il lavoro di un’intelligenza non settoriale che implichi sempre una relazione tra conoscenza e 2 sentimenti, che preveda con favore, per esempio, una stretta alleanza fra tecnologia ed ecologia (Massaro suggerisce l’espressione “ecologia della tecnica”). E qui emerge necessariamente anche l’attenzione alla realtà politica, fondamentale e delicata (tutto è politica, anche se la politica non è tutto), in un mondo però spesso ostile, senza pace, incapace di garantire uno sviluppo equilibrato delle diverse società e all’interno di una medesima società. Al centro della scena è dominante, comunque, la dimensione educativa nella sua progettualità generale e, concretamente, la pedagogia e la scuola, riguardo alla quale la domanda ineludibile, che non ha e non può avere una risposta definitiva, è quella del suo ruolo. Bisogna sempre chiedersi quale specificità ha la scuola, alla quale da tempo sono state delegate funzioni che non le spettavano in prima istanza, funzioni di supplenza della società e della famiglia che hanno sempre più lasciato in ombra la sua caratteristica di fondo: curare le conoscenze e le emozioni, istruire e formare. La sua funzione di socializzazione è stata ed è sicuramente fondamentale, ma essa pare sempre più spedire in un ruolo subalterno e marginale la cultura, i saperi, l’istruzione che invece risultano strutturalmente fondanti ed imprescindibili, per la formazione umana. Scoglio duro, ma inaggirabile. Quando viene meno questa relazione funzionale, la scuola si snatura, si psicologizza fumosamente, si burocratizza. È noto che le conoscenze critiche che non si acquisiscono più nella struttura scolastica costituiscono per la persona una perdita spesso irreparabile ed insostituibile. Ne soffrono la curiosità, la passione, la meraviglia che in progressione non solo rendono più autonomo e maturo l’individuo, ma lo stimolano al confronto con la diversità personale, sociale e naturale e con l’alterità delle diverse culture. Senza conoscenze culturali profonde, conquistate personalmente sul campo, sedimentate, noi non sappiamo più da dove veniamo, chi siamo, dove stiamo andando. E’ ben noto che, a questo riguardo, le posizioni sono tante, differenti, talvolta incomunicabili. Ma la scuola, che è una grande agenzia di socializzazione, anche se non l’unica, non può supplire a tutte le carenze, in particolare a quelle familiari. Un punto, questo, su cui è bene continuare a riflettere e ad insistere. Prendersi cura di sé e degli altri apre a prendersi cura della natura (di cui si discute nel cap. 2 intitolato Bio/Sophia). Da qui la giusta attenzione dell’autore al valore dello sport non competitivo, all’attrazione per il bosco (maestoso e parlante, rifugio per l’anima), alla terapia della foresta (p. 27), ai simboli della tradizione (della festa), ai riti (spesso perduti), alle occasioni seriamente aggreganti che hanno accompagnato la storia delle culture umane (rintracciabili e studiabili da parte degli studenti attraverso percorsi antropologici di grande suggestione)[si pensi, nel quadro delle nostre società multietniche, alle implicazioni e alle valutazioni generali suggerite, già da qualche decennio, dalle osservazioni di un Clifford Geertz o di un James Clifford. Il primo affermava che il compito della etnografia era ormai quello “di ampliare la possibilità di un discorso intellegibile tra popoli completamente diversi l’uno dall’altro per interessi, modi di vedere, ricchezza e potere, e tuttavia compresi in un mondo in cui, sballottati come sono in una interconnessione senza fine, è sempre più difficile che l’uno non incroci le strade dell’altro” (Opere e vite. L’antropologo come autore, tr. it., Bologna, il Mulino 1990, p. 156. La prima ediz. americ. è del 1988). Il secondo rilevava che “Se le tradizioni autentiche, i frutti puri si stanno ovunque arrendendo alla promiscuità e all’insignificanza, la scelta della nostalgia non possiede fascino. Non c’è un ritorno possibile, non c’è una essenza da recuperare”, insistendo anche sul problema, attualissimo, della identità: “La mia tesi è che l’identità, in senso etnografico, non possa essere che mista, relazionale e inventiva” (I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel secolo XX, tr. it., Torino, Bollati-Boringhieri 1999, pp. 16 e 23 rispettivamente. La prima ediz. ingl. è del 1988): dunque interconnessione, relazione, identità (rimarcate con forza nell’altro suo grande libro sull’ “abitare nel viaggio”, che è un po’ la nostra realtà odierna (Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX, tr. it., Torino, Bollati-Boringhieri 1999), quella identità che necessita sempre di essere alleggerita se si vogliono stemperare contrasti e violenze (cfr. F. Remotti, Noi primitivi. Lo specchio dell’antropologia, Torino, Bollati-Boringhieri 1990 e Prima 3 lezione di antropologia, Roma-Bari, Laterza 2000)]. Di fronte a questa realtà multiforme è indispensabile studiare, leggere, ascoltare, riflettere, porre e porsi domande, seriamente. Così come è giusto, come ha fatto Massaro, soffermarsi su dimensioni culturali come quella della sacralità e del sacro [cfr. Roger Caillois, L’uomo e il sacro, tr. it., Torino, Bollati-Boringhieri 2001, prima ediz. orig. 1939)] per cogliere “tracce di un tempo di qualità”, non banale (p. 33) (valido è pertanto anche il richiamo agli alberi secolari di un bosco, dove divinità e natura paiono, in momenti particolarissimi, identificarsi, un’esperienza questa che forse tutti abbiamo fatto almeno una volta nella vita (“Deus sive natura”, come indica una precisa tradizione filosofica bruniano-spinoziana). [Quelle piante e quegli alberi che suscitano meraviglia e stupore. Romano Guardini scriveva nel 1953 nel suo diario: “Un albero è una cosa primordiale; piena di mistero e nel tempo stesso si attesta come una realtà sicura. E con quale forza questa attestazione si compie in forme sempre nuove”: ci intimidiamo di fronte a questa ordinaria meraviglia (e bisogna educare a coglierla)]. È giusto comunque tenere vivo, anzi vivissimo, il senso della storia e, a tale riguardo, richiamare e studiare in particolare il concetto di modernità in senso cronologico, ma soprattutto in senso qualitativamente ideologico, perché quell’epoca tra Rinascimento e Illuminismo ci porta alle domande cruciali ed inquietanti che, realisticamente, più di cento anni fa poneva e ci poneva il grande storico, sociologo e filosofo Max Weber. [ Weber affermava: “Nel trattare i problemi della storia universale, il figlio della moderna cultura europea formulerà inevitabilmente e a ragione la seguente domanda: per quale concatenazione di circostanze, proprio qui, in terra di Occidente, e soltanto qui, si sono prodotti dei fenomeni culturali i quali si sono trovati in una direttrice di sviluppo di significato e di validità universale?” (cioè scienza, processi di demagificazione, processi ampi di razionalizzazione della vita sociale, nascita del capitalismo e così via, che vanno studiati e ristudiati]. Oggi siamo fuori da quell’epoca moderna, ma è quella che ci ha modellato e condizionato profondamente. E la scuola ha un ruolo fondamentale da svolgere per far comprendere quei fenomeni e i loro sviluppi. Insomma, per “mitigare la nostra ansia” occorre calmare il nostro istinto di sopraffazione degli altri e della natura e sentirsi (ed essere) “uno con tutto ciò che vive”. Eppure, come già accennato, è necessario pure convivere con la tecnica (cfr. il IV cap. intitolato La tecnica è essenziale all’uomo?). Qui si legge una risposta convincente e condivisibile: senza la tecnica non si può vivere. Un passaggio essenziale del percorso del libro, che apre alla considerazione di alcune tappe fondamentali dell’evoluzione dell’uomo, quali la sua “capacità innata di ‘esteriorizzazione’ allo scopo di prendere e manipolare oggetti” (p. 53). Una prospettiva nella quale origine dell’uomo e origine della tecnica convergono [qui giustamente l’autore ricorda gli studi di Leroi-Gournhan, Il gesto e la parola, Udine, Mimesis 2018, e cita un padre dell’antica chiesa cristiana greca, Gregorio di Nissa]. Insomma pare esserci un “accordo armonico tra la corteccia cerebrale e la selce” (p. 57), una felice convergenza di sviluppo. Nel V cap., invece, I manoscritti non bruciano si ribadisce come il futuro sia costruibile unicamente se si riconnette al passato: “Il futuro può essere illuminato soltanto dalla conoscenza del passato” [qui si rinnova l’interesse profondo per la storia, la quale non può essere sostituita dalla memoria, come ci insegnano le riflessioni di Adriano Prosperi, Un tempo senza storia. La distruzione del passato, Torino, Einaudi 2021 e di Marcello Flores, Cattiva memoria. Perché è difficile fare i conti con la storia, Bologna, il Mulino 2020], di fronte al pericolo evidente di usare la rete come un sistema che annulla in un eterno presente le radici ed occulta lo sviluppo del futuro. Non solo, con questo si richiama l’interesse del lettore anche al valore coinvolgente della parola scritta, per cui la scrittura va consapevolmente usata “in maniera timidamente pensosa”, come sottolinea lo studioso (“un uomo vive se il suo nome non smette di essere pronunciato”) (p. 64)[ ma si leggano, in relazione a questo, le preziose indicazioni sul valore della scrittura manuale di Andrea Cangini su “Il corriere della sera.it” del 25 agosto 2024, Meno smartphone, più carta e penna]. 4 Ad ogni modo si collega a tutto questo la necessità di una riflessione approfondita su cosa significa memorizzare ed immagazzinare memoria (indici, repertori, enciclopedie, strumentazione elettronica). Ma anche la memoria è materia delicatissima, perché essa costituisce un terreno comunque vastissimo e contraddittorio dove le relazioni sociali, spesso superficiali, rimbombano appunto in continuazione sui social, ambiguamente utili e spesso discutibili nella misura e nella forma in cui vengono sfruttati e suggeriti (è sotto gli occhi di tutti il fatto che talvolta vengono adoperati addirittura come incitatori all’odio). Qui Massaro, saggiamente, richiama l’antica, duplice visuale filosofica del “pharmacon” (veleno e medicina). E d’altra parte nella rete bisogna davvero orientarsi ed educarsi bene, anche e specialmente allo “slow thinking” (p. 71) cui corrisponde uno “slow reading”, oggi entrambi molto indeboliti purtroppo, sui quali hanno più volte e giustamente insistito, tra i tanti, grandi studiosi come Arnaldo Momigliano, Carlo Ginzburg e Massimo Cacciari. Direi però che giorno dopo giorno, anche se con eccessiva lentezza, sembra crescere la necessità di una buona educazione in rete (e di una buona educazione alla rete). Belle anche le pagine massariane sull’importanza della scrittura manuale, dove si richiama efficacemente l’esperienza di Musil sullo ‘stupore che illumina’. D’altra parte è il testo scritto che connette passato e futuro. E la scrittura è un esercizio di riflessione lento, di ricerca di parole, di creazione felice, di ordinamento del pensiero. E’ qui che si radica una delle osservazioni più belle dell’autore: “La scrittura è il sentiero privilegiato dello spirito timido: l’aiuta a difendere la propria e l’altrui solitudine” (p. 75), richiamo per altro centrale ed utile, strettamente legato al filo conduttore del libro, la timidezza. Ma “la timidezza – continua – è virtuosa solo se non è mossa da ri-valsa o da risentimento, se è valore in sé e non ripicca contro qualcosa o qualcuno”. Tutto il contrario, insomma, di tante chat frettolose, valide sul piano comunicativo dei rapporti di lavoro, ad esempio, ma usate in altri campi a sproposito, senza dar tempo al cervello di riscaldarsi e di mettersi in moto. La scrittura è farmaco, dunque, medicina, anzi è il “buon dèmone dell’uomo”, cioè la sorgente della felicità (appunto della “eudaimonìa”). Più distaccato, forse anche più severo il passaggio sull’Intelligenza artificiale (cap. VII- L’IA e le sorelle), specialmente quando viene rimarcato che , come il digitale “non può annullare il nostro pensiero”, la nostra corporeità e socialità, così l’IA non è creativa, non ha senso comune né emotività”. D’altra parte la vita è infinitamente più ricca delle definizioni razionali (Florenskij) [Interessante appare per altro la costellazione degli autori citati a sostegno delle diverse tesi: in questo caso il riferimento al grande religioso, filosofo e matematico russo rimanda da un lato agli aspetti creativi di quella cultura, talvolta sottovalutati, e dall’altro alla politica totalitaria che ha divorato questo intellettuale, come milioni di altre persone. Del resto il tema della libertà e della democrazia è assolutamente centrale in questa appassionata prospettiva culturale massariana]. E continuamente riemerge la dialettica tra etica della conseguenza ed etica dell’intenzione, dove il coinvolgimento emotivo degli esseri umani resta sempre fondamentale, p. 105, nel senso che cervello razionale e cervello emotivo “devono agire di concerto” [e alla fine dei conti l’uomo saggio decide meglio di un’intelligenza artificiale’]. Massaro evidenzia per altro che all’IA manca “la capacità di ipotizzare l’evoluzione futura dei fenomeni in modo creativo”, il che fa emergere anche la centralità del nodo della coscienza. Il cap. IX- La verità post verità. Post modernità post verità? Veritanze, credere a tutto, fake news: accettare tutto senza verificare. Viene qui ricordato da Massaro che “figure della timidezza sono umiltà, disponibilità, pazienza, ascolto, attesa, rispetto”, dove ritorna in gioco il valore del bosco, il senso del silenzio, la riflessione su se stessi. Stimolante anche il richiamo alla religione nella sua funzione basilare di datrice di senso (Giovanni Filoramo), collocata com’è tra l’eternità e il tempo (p. 118). Lo spirito della timidezza invita anche alla riflessione sul nostro limite e richiama all’immagine della mente umana che può cadere in errore e che deve procedere con metodo, riflettendo ed ascoltando, perché la verità è essenzialmente relazione. 5 Impossibile tagliare dal ‘personale’ ciò che è oggettivamente giudicato secondo i criteri del vero e del falso. Di fronte ad un futuro non facilmente decifrabile, noi “ospiti non padroni della terra”, dobbiamo conoscerci al di là della maschera che ci portiamo addosso: e forse è proprio lo spirito di timidezza che può aiutarci a comprendere quello che è importante e quello che non lo è, tramite quella “pensosità”, che invita a prendere tempo, a riflettere (“festina lente”), come sottolinea lo studioso. La fruttuosità di certi errori e il senso di una scienza che non ha fine sono due altri aspetti positivi dello spirito di timidezza. Dunque, siamo di fronte ad una proposta meritevole non solo di essere letta, ma soprattutto meditata, discussa e diffusa, che può innescare un fecondo dibattito su questioni di grande rilievo che ci toccano tutti e sulle quali a nessuno è lecito presumere di poter dire l’ultima parola. Così dalla traccia del discorso di Massaro possono derivare tante altre strade di analisi e di ricerca. [Settembre 2024] Valerio Del Nero 6