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Barbara Ronchetti, Russia maggiore/minore/altra

Muovendo dalle domande Una domanda 'essenziale', cioè sull'essenza dei nostri studi, muove le mie riflessioni, raccogliendo (e accogliendo) il monito di Ryszard Kapuściński, intellettuale 'di confine', scrittore polacco nato a Pińsk, città di transiti culturali oggi in Bielorussia, attraversata da tragedie storiche ed umane, che riflette sulla necessità della forma interrogativa (Kapuściński: 1995, 127 e passim). L'esigenza di fare domande è propugnata da un'altra figura di rilievo della cultura europea, Michail Bachtin, che sottolinea l'importanza di avere «proprie» domande, senza le quali non si può capire «creativamente alcunché di altro e di altrui»; queste domande, naturalmente, devono essere «serie, autentiche» (Bachtin: 1980, 200). Con una intonazione interrogativa, volta a riconoscere questioni aperte, a porre dubbi, cerco dunque di ragionare sulla reciproca dialettica fra spazi culturali europei, che ne condiziona il posizionamento, la 'visibilità', e la diffusione. In un colloquio ideale e reale al tempo stesso con studiose e studiosi di ambiti diversi, vorrei porre lo spazio Russia, dal quale prendono il via le mie osservazioni, in un quadro composito, nel quale la pluralità di prospettive può arricchire la domanda iniziale di nuovi interrogativi.

3. Russia maggiore/minore/altra Barbara Ronchetti Я оглядел пустой чемодан. На дне — Карл Маркс. На крышке — Бродский. А между ними — пропащая, бесценная, единственная жизнь1. (Sergej Dovlatov, 1986) Muovendo dalle domande Una domanda ‘essenziale’, cioè sull’essenza dei nostri studi, muove le mie riflessioni, raccogliendo (e accogliendo) il monito di Ryszard Kapuściński, intellettuale ‘di confine’, scrittore polacco nato a Pińsk, città di transiti culturali oggi in Bielorussia, attraversata da tragedie storiche ed umane, che riflette sulla necessità della forma interrogativa (Kapuściński: 1995, 127 e passim). L’esigenza di fare domande è propugnata da un’altra figura di rilievo della cultura europea, Michail Bachtin, che sottolinea l’importanza di avere «proprie» domande, senza le quali non si può capire «creativamente alcunché di altro e di altrui»; queste domande, naturalmente, devono essere «serie, autentiche» (Bachtin: 1980, 200). Con una intonazione interrogativa, volta a riconoscere questioni aperte, a porre dubbi, cerco dunque di ragionare sulla reciproca dialettica fra spazi culturali europei, che ne condiziona il posizionamento, la ‘visibilità’, e la diffusione. In un colloquio ideale e reale al tempo stesso con studiose e studiosi di ambiti diversi, vorrei porre lo spazio Russia, dal quale prendono il via le mie osservazioni, in un quadro composito, nel quale la pluralità di prospettive può arricchire la domanda iniziale di nuovi interrogativi. 1 Dovlatov: 1995, 246. «Osservai la valigia vuota. Sul fondo Marx. In cima Brodskij. E tra loro la mia unica, inestimabile, irripetibile esistenza» (Dovlatov: 2016, 14). 44 Il complesso di Esaù Maggiore/minore Nell’immagine biblica di Esaù che dà il titolo al volume risuonano (anche) le parole di Sante Graciotti, maestro della slavistica italiana, contenute in un importante saggio dedicato a La cultura slava: uno spazio mobile e dialettico (tutt’altro che pacifico, a volte dolorosamente tragico), nel quale è possibile riconoscere, nel corso dei secoli, insiemi linguistico-culturali e politici ‘maggiori’ e ‘minori’, in ruoli e posizioni che si spostano a seconda degli eventi e dei punti di vista scelti per l’osservazione, entro i quali avviene «che Esaù cede la sua primogenitura a Giacobbe» (Graciotti: 1992, 253)2. Questioni centrali, relative all’Altra Europa, sintagma affermatosi probabilmente grazie alla traduzione francese del libro di Czesław Miłosz, Rodzinna Europa, Europa familiare (Marinelli: 2008, 60), osservate attraverso il reciproco posizionamento di Russia e Polonia all’interno della Slavia, con una preziosa ricostruzione dei dibattiti che proprio in Italia hanno avuto luogo attorno a questi temi, sono discusse in un saggio di Luigi Marinelli, primo volume, programmatico, di una collana denominata Laboratorio est/ovest, che restituisce la complessità dei problemi storici e culturali nel ‘margine’ orientale d’Europa. Sulla scia delle riflessioni sulla ‘minorità’ filosofica e letteraria proposte da Gilles Deleuze e Félix Guattari a partire dagli anni Settanta del Novecento, la prospettiva dello studioso ‘straniero’ è tanto più preziosa, in quanto può contribuire in modo significativo ad una visione ‘minore’ della cultura che indaga (sia essa collocata nello spazio dominante o subalterno del panorama generale di un determinato momento storico). Se si sceglie questo posizionamento come punto di osservazione dislocato, sarà possibile far proprie lingue e letterature assenti 2 In una prospettiva che in parte esula dall’orizzonte di questo volume, vorrei osservare, di passaggio, che se la «coscienza, e in parte il mito, della unità slava si prolunga nel tempo» (Graciotti: 1992, 245), nel dibattito scientifico fra studiosi, essa trova traccia degradata nella concezione burocratico-amministrativa del legislatore italiano, che ha racchiuso lo spazio centro ed est-europeo del mondo slavo in un unico grande ‘settore’ (dal latino sector, ‘che taglia’), codificato nella poco rappresentativa sigla L-LIN/21, che occulta e svilisce le diversità, indebolendo e non rafforzando l’insieme. In questo spazio ministeriale la Russia diventa gigante ingordo nel territorio irreale disegnato dalla sigla, offuscando ragioni e necessità altrui; al tempo stesso essa (la Russia) si confronta come sorella ‘quasi maggiore’, ma sempre ‘minore’ rispetto alle altre lingue e culture straniere esplicitamente riconosciute come ‘maggiori’ dalla legge, che assegna loro due settori distinti (uno per lingua e linguistica; l’altro per letteratura e cultura) e la dignità di dirsi ‘grandi’ (o altrimenti ‘veicolari’). 3. Russia maggiore/minore/altra 45 dal patrimonio culturale attivo della formazione personale, delle quali tuttavia ci si può riconoscere parte, ponendole costantemente in dialogo con le proprie tradizioni e conoscenze, e ‘traducendo’ lo spazio culturale di partenza e quello di approdo in un insieme originale e complesso di sensi potenziali, capaci di interrogarsi reciprocamente (Ronchetti: 2019, 330). Lo studioso, il lettore, il traduttore, è dunque ‘minore’ perché straniato, perché rivolto alle assenze, ai margini, in grado di ascoltare (anche) chi ha scarsa voce nelle storie letterarie. Entro questo orizzonte di senso, le mie riflessioni partono dal tentativo di non porre necessariamente la Russia ‘fra’ elementi storici, religiosi, geografici diversi e contrastanti, ma tentare di riconoscere una trama articolata, multiforme e plurale (sebbene assai raramente pluralista). Confine/margine La consapevolezza (talvolta la pretesa ideologica) di essere essa stessa, la Russia, spazio di confine fra oriente e occidente, sulla linea che «taglia in due la storia e la realtà europea» (Graciotti: 1998, 1)3, i dibattiti che da secoli attorno a questa idea si sono accesi, in Russia e al di fuori di essa, hanno forse contribuito ad allontanare la coscienza del margine. La Russia (maggiore e minore) non ‘riconosce’ il margine. I margini sono, in questa cornice, ‘periferie dell’impero’ o territori sconfinati che si perdono all’orizzonte. La Russia è una realtà di frontiera (Strada: 2014), senza le caratteristiche della frontiera, e lo spazio russo è caratterizzato da un «confine aperto, in espansione» (Bertolissi: 2002, 300). Nelle riflessioni sulla Russia, alla dialettica maggiore/minore e dominante/subalterno si intreccia costantemente una serie parallela di altre categorie interrelate. La commistione di elementi e di possibilità di sguardo viene riferita tanto alla dimensione interna dei rapporti di potere, quanto alle dinamiche internazionali, riconoscendo un orizzonte che combina spazio chiuso ed estensione aperta, accogliendo simultaneamente e in forma commista familiarità/estraneità, libertà/prigione, ordine/caos. Con un gioco di parole molto efficace, ma non traducibile in maniera altrettanto chiara, anche visivamente, Elena Hellberg-Hirn suggerisce di interpretare lo 3 L’immagine di Graciotti (che ho scelto per disegnare lo spazio Russia) si riferisce, tuttavia, al mondo slavo nel suo complesso, il quale «su quella linea esso stesso si divide» (Graciotti: 1998, 1). 46 Il complesso di Esaù spazio domestico russo nel quale gli individui si possono riconoscere (home) e lo spazio esterno di auto-riconoscibilità (homeland) come un insieme di cerchi concentrici, che utilizzano due serie distinte di ‘centricità’: individuali e collettive. Tuttavia, nella dinamica tra ‘casa’ interna e oppressiva e ‘patria’ illimitata e aperta, le categorie si intrecciano e si sovrappongono, e possono appartenere ad entrambi i campi: la Siberia può essere quindi incarnazione di libertà e prigione; la steppa di libertà e rapidità di conquista dello spazio; mentre i confini contengono sia il concetto e il sentimento di protezione e sicurezza che di oppressione e reclusione (Hellberg-Hirn: 1999, 63 e passim). L’espansione territoriale, le conquiste e il controllo sugli spazi confinanti variano a seconda delle epoche e delle regioni; l’andamento non uniforme di questi movimenti lascia tracce riconoscibili, causando l’insorgere di fattori durevoli, che caratterizzano l’impero (russo e sovietico) come segnato da ordinamenti interni non-finiti, e da «frontiere permeabili» (Breyfogle, Schrader, Sunderland: 2007, 7). La «vastità immensa» del «campo aperto» descritta da Ivan Bunin nella nostalgia dell’esilio alla fine degli anni ’20 del Novecento, è immagine di libero movimento, di ignoto, di avventura e di affetti familiari; al tempo stesso questa estensione sconfinata, questo luogo senza ostacoli, denso di emozioni e di ricordi, segna anche la ‘singolarità’ della Russia, una diversità esibita che «l’uomo europeo non può nemmeno immaginare» (Bunin: 1935, 55)4, testimoniando la vitalità di una autopercezione che perdura anche nell’esilio, ed è diffusa ancora nel presente. In un’interessante riflessione sugli orientamenti di studio rivolti allo spazio come elemento formativo per la costruzione delle identità russe, si riconosce la Russia come «un impero composto di margini», entro il cui campo le periferie sono plurali e orientate in direzioni diverse. Il territorio russo, concettualizzato come vasto e al contempo infinito e contraddittorio, produce una «liminalità estesa», dando forma a un Impero «poli-periferico», contemporaneamente marginale e centrale nella sua dimensione interna e internazionale (Martínez: 2013, 54-56 e 68). Estendendo il quadro di riferimento al pensiero critico e filosofico, si potrebbe azzardare l’ipotesi che le fondamentali riflessioni di Jurij Tynjanov e dei formalisti russi sulla dinamica reciproca e sugli slittamenti dei fenomeni culturali fra centro e periferia, possano ricollegarsi a questo orizzonte della percezione ‘multi-centrata’ e al contempo ‘multi-periferica’ dell’identità culturale russa. 4 Traduzione di B. Ronchetti. Per il romanzo in italiano cfr. Bunin: 1930, 1966. 3. Russia maggiore/minore/altra 47 Nella parabola esistenziale e creativa di autori di lingua russa che scrivono e descrivono il loro paese, immaginario e reale, muovendosi fra mondi, lingue, regimi, colori diversi, può forse riconoscersi il volto multiforme di una Russia maggiore, dominante, autoritaria, violenta, miope e assimilatrice, che è al tempo stesso minore, periferica, esiliata (dentro e fuori i suoi confini), vessata, straniata ed extra-localizzata rispetto a se stessa. La Russia è infatti anche la Russia al di fuori dei suoi confini (nel passato e nel presente), è la Russia che non può uscire dal suo territorio (es. Puškin) o che incarna diversi e contraddittori ‘sconfinamenti’. Un esempio illustre è Gogol’ ucraino e russo, per il quale «appare arduo dare una risposta univoca alla questione che pretende di incasellare in modo netto l’opera di Gogol´ esclusivamente entro uno dei due ambiti nazionali, stante la promiscuità e l’ambivalenza dell’atteggiamento di Gogol´» (Franco: 2016, 171-172). O la parabola esistenziale, linguistica e artistica di Chagall: ebreo di lingua yiddish, nato in un villaggio che attualmente si trova in Bielorussia, suddito ‘minore’ dell’Impero che per poter studiare nella capitale dovette registrarsi come domestico presso un gentile disposto ad accoglierlo. Quando nel 1922 Chagall decide di lasciare il paese natale, nelle sue parole di commiato risuonano prospettive diverse, alle quali egli dà voce e nelle quali si riconosce. Scorgendo la sagoma di Trockij che varca la soglia del Cremlino, «alto, col naso blu-rosso», Chagall dice a se stesso: Vado a chiedergli la sua protezione e quella di Lunačarskij perché mi si consenta di tornare a Parigi. Ne ho abbastanza di fare il professore, il direttore. Voglio dipingere i miei quadri […] Né la Russia imperiale, né la Russia dei Soviet hanno bisogno di me. Io sono incomprensibile per loro, straniero. Sono certo che Rembrandt mi ama. E le ultime parole dell’autobiografia russa, pubblicata in francese, ribaltano lo sguardo e mescolano le emozioni, anticipando le sorti a venire: «Mi sdraierò accanto a voi. E forse l’Europa mi amerà e, insieme a lei, mi amerà la mia Russia» (Chagall: 1998, 178, 179, 182). Rilevante, dunque, è osservare fatti, eventi, figure che attraversano (o non possono attraversare) i confini. Emblematica la figura di Masha Gessen, scrittrice e giornalista contemporanea, che attraversa i confini del genere, i confini linguistici e statali in molte direzioni. Nata a Mosca nel 1967 da una famiglia di origine ebraica, autrice nel 2017 di un volume dal significativo titolo The Future is History (Gessen: 2019), nel 1981, 48 Il complesso di Esaù ancora adolescente, si sposta con la famiglia dall’Unione Sovietica negli USA, per tornare dieci anni dopo nel suo paese natale, che nel frattempo ha cambiato nome e confini, e lavorare come giornalista e attivista Lgbt+. Alla fine del 2013 Gessen abbandona nuovamente la Russia, e si stabilisce a New York, a causa delle minacce legali rivolte alla comunità gay e ai figli adottivi di madri lesbiche. Attraversare i confini è anche il titolo del primo capitolo di un saggio di Gayatri Spivak la quale sottolinea il ruolo centrale della location, il luogo dove si trova colui o colei che parla (artista, critico, e lettore aggiungo io), e all’inizio del millennio si interroga, da una posizione culturale ‘di confine’, su come salvaguardare la molteplicità delle lingue e delle letterature negli insegnamenti universitari (Spivak: 2006), tema più che mai attuale anche oggi nei nostri atenei e particolarmente rilevante per la costellazione slava. Di viaggi e sconfinamenti è intessuta la cultura russa, spesso in momenti di grande rilevanza storica: Pietro il Grande contrassegna coi viaggi in Olanda la necessità di cambiamento; Puškin non potrà oltrepassare i confini patrii, ma sarà esiliato nelle terre (coloniali) di confine; Turgenev, nel suo viaggiare, incarna il ruolo di traduttore e mediatore fra culture d’Europa (Figes: 2019). In un’epoca di fermenti e scoperte, di inquietudine e sconcerto, fra 1890 e 1891, il viaggio in oriente del principe ereditario, il granduca Nikolaj Aleksandrovič, futuro zar Nicola II, rappresenta al tempo stesso una dimostrazione delle ambizioni imperiali verso Oriente, e lo «sfondo complesso e vitale per l’auto-identificazione della cultura russa dell’inizio del Novecento» (Bowlt, Misler, Petrova: 2013, 21). Lo zarevič era partito il 26 ottobre 1890 da Trieste, sulla fregata Ricordo d’Azov, e aveva visitato l’Impero Ottomano (Egitto), i possedimenti britannici (Aden, India, Ceylon), quelli francesi in Indocina, Regno di Siam, Cina e Giappone, per giungere a Vladivostok e viaggiare attraverso la Siberia per oltre due mesi. Ad Orenburg (la fortezza dove si svolgono le vicende de La figlia del capitano di Puškin, 1836) Nikolaj sale sul treno imperiale diretto a Pietroburgo, dove giungerà il 4 agosto 1891. Una circumnavigazione orientale del mondo, durata ben trecento giorni, celebrata in una «Mostra al Palazzo d’Inverno degli oggetti portati dal principe», che comprendeva 1313 oggetti e che, inaugurata il 28 novembre 1893, divenne una «sorta di epilogo pubblico del celebre viaggio compiuto dal futuro zar» (Sosnina: 2013, 45). Nell’indagare transiti e passaggi, accanto ai viaggiatori, un posto importante ha la Russia (o meglio le Russie) al di fuori dei confini statali: espatriati, esiliati, emigrati, fenomeno rilevante e ben indagato dalla 3. Russia maggiore/minore/altra 49 critica, che qui è possibile solo menzionare di passaggio. Un esempio interessante, assente solitamente negli studi sulla cultura del Novecento russo, è la comunità russa in Israele, in special modo la moltitudine di cittadini ebrei sovietici che si è riversata nel paese durante l’ondata migratoria, particolarmente significativa dall’era Gorbačev in poi, che ha ‘ridisegnato’ la società del paese di arrivo e mutato gli equilibri medio-orientali, come osservato in uno studio del 2013 che analizza lo sviluppo dei media israeliani in lingua russa (fra i più conosciuti Channel 9, Radio Reka) e decine di periodici di diverso genere che nel momento di massimo incremento superavano le cento testate (Galili, Bronfman: 2013). Lo spazio/confine è per la Russia del Novecento anche il tempo della storia e della vita che scorrono a ritmi inconciliabili, come nel Frammento incompiuto di Iosif Brodskij, composto nel 1968, quattro anni prima di essere espulso dal paese (Brodskij: 1994, 188)5. L’aereo vola verso il west allargando il giro dei luoghi – da un paese a un altro, dove io non potrò incontrarti. Superando i giorni, e gli anni, con l’ombra delle ali ‘mai più’ sulla terra e l’acqua diventa ‘in nessun dove’. […] e nella strofa conclusiva il ritmo doloroso della separazione, lo strazio di una consapevole eternità del distacco fra le persone e i mondi, divisi dalle ali dell’aereo, prende la forma di un angusto, immenso paese-lazzaretto: Confini, barriere, una selva, – e guardi al dolore o giù in basso, come appare dall’alto, un lebbrosario per duecento milioni? 5 Trad. it. di B. Ronchetti. 50 Il complesso di Esaù Storia Un nodo centrale di queste riflessioni può essere riconosciuto nel rapporto che ogni epoca e ogni tradizione culturale stabilisce con la storia (propria e altrui) e con la memoria (propria e altrui). Importanti studi hanno avviato un profondo processo di ripensamento della relazione fra coscienza storica del presente, memoria e testimonianza; di particolare valore sono le osservazioni sulla gestione ‘affettiva’ della storia, offerte da studiosi che esplorano la percezione e l’espressione emotiva non solo come sentimento privato, interiore, ma anche come modo di interpretare e giudicare un mondo turbato, di agire in esso e (forse) di cambiarlo (Steinberg, Sobol: 2011). Il 7 e 8 giugno 1880 venne inaugurato a Mosca il monumento a Puškin, un evento che assegnò definitivamente al poeta il ruolo di vate nazionale e padre delle lettere russe, in un’immagine duratura, destinata a irrigidirsi e impoverirsi nei decenni sovietici6. Fulcro dell’attenzione ed evento centrale delle giornate fu il celebre discorso di Dostoevskij (Dostoevskij: 2007, 278-79). Facendo appello alla necessità di un’armonia universale, lo scrittore diffuse nell’atmosfera un colorito estatico; costruì argomentazioni ed espresse sentimenti capaci di rivolgersi sia ai cittadini collocati in posizione subalterna che ai ceti dominanti, proprio in virtù dello slittamento semantico ed emotivo dei dilemmi sociali del tempo, traslati da un piano storico-politico ad uno esistenziale artistico7. Effetto raggiunto fin dalle prime parole, che collocavano il poeta (e la società russa) in una dimensione sovratemporale, allontanando la prospettiva storica e la coscienza critica dei fatti. Questo capovolgimento della parallasse è visibile anche nella Russia di oggi, nella costruzione di una memoria ufficiale collocata al di fuori della storia stessa (Ušakin: 2011; Oushakine: 2013, 2020). 6 Su questo avvenimento e sulla costruzione identitaria nel Novecento russo ho riflettuto nel capitolo: Opinione pubblica, spazio urbano, identità. Il monumento a Puškin (Ronchetti: 2016, 24-33). Cfr. anche Levitt: 1989; Šmidt: 2012. 7 Interessante notare che nella terza nota del quaderno dedicato alla Letteratura Popolare, intitolata Gli «umili», Antonio Gramsci riconosce nell’autore russo un «potente sentimento nazionale-popolare, cioè la coscienza di una missione degli intellettuali verso il popolo, che magari è ‘oggettivamente’ costituito di ‘umili’ ma deve essere liberato da questa ‘umiltà’, trasformato, rigenerato» (Gramsci: 1975, Q 21, § 3, 2112). 3. Russia maggiore/minore/altra 51 Nel percorso che un gruppo sociale (o una collettività) compie per riconoscersi in un universo immaginario condiviso, si deve assegnare una posizione fondamentale alla relazione tra emozioni personali e memoria storica. L’assenza di ideali condivisi e di una base teorica comune per l’interpretazione del contesto tende ad attribuire un ruolo dominante al campo delle emozioni, indebolendo l’interesse degli individui nei confronti di letture critiche del passato. Il ribaltamento della prospettiva storica, che trasferisce sul piano simbolico i valori etici, privandoli di senso e rilevanza nella coscienza degli individui, è ben sintetizzato (fra i molti esempi possibili) dalla festa del 12 giugno, istituita nel 1991 per celebrare la dichiarazione di sovranità della Russia. Nei primi dieci anni la ricorrenza era denominata: «Giorno dell’approvazione della Dichiarazione di sovranità». Nel 2002 la festa prende il nome di «Giorno della Russia», assecondando l’esigenza di annullare il carattere politico, senza tuttavia sacrificare lo spirito patriottico (Gessen: 2019, 646). In questa ‘traduzione di campi semantici’ dobbiamo tenere a mente il monito di uno studioso contemporaneo che ricorda come la «mancanza di adozione di parametri politici», nella costruzione di una nazione e di una comunità culturale, possa «produrre una complicità moralmente responsabile di forme distorte di comunità nazionale» (Smith: 1999, 474). Il rapporto con la Storia si complica, per l’artista (e l’abitante) della Russia ‘minore’, perché egli è sempre erede del proprio passato, doloroso e traumatico, non può ignorare di essere un granello (sia pure oppresso e calpestato, ribelle o esiliato) della Russia ‘maggiore’, del suo meccanismo statale, del suo campo politico e ideologico. In questa prospettiva, la letteratura russa può essere considerata l’istituzione imperiale di maggior successo nella costruzione dell’egemonia culturale, in grado di fornire ai singoli abitanti dispersi dell’Impero un insieme comune di simboli culturali. Al tempo stesso essa ha costituito un elemento di trasformazione e rivolta (culturale, ideale e politica) contro l’impero. Nella letteratura russa i testi ‘canonici’ (prodotti dalla cultura dominante) furono creati spesso da coloro che patirono persecuzioni politiche (non necessariamente accompagnate da difficoltà economiche). Controllati dalla censura zarista o esiliati, questi autori istruiti, appartenenti alla maggioranza russa e spesso benestanti, erano parte di una minoranza oppressa all’interno della società: si pensi a Puškin, esiliato, le cui opere erano sottoposte alla censura diretta dello zar; a Lermontov allontanato nel confino caucasico per aver scritto il necrologio di Puškin; a Turgenev arrestato ed esiliato per le parole pronunciate in 52 Il complesso di Esaù memoria di Gogol’; a Dostoevskij arrestato e condannato a morte, condanna poi commutata ai lavori forzati; a Tolstoj scomunicato. Dalla loro sensibilità di ‘emarginati’ emersero i testi ‘canonici’ della letteratura russa. Attraverso i suoi scrittori, fedeli servitori dello Stato, nazionalisti, eretici, ribelli, oppositori, «la letteratura russa ha conquistato […] russi, non russi e nemici della Russia […] Creando uno standard linguistico comune e un patrimonio simbolico di significati condivisi, questa letteratura rappresentò una notevole forza che sovrani e censori» (Etkind: 2011, 169) hanno compreso e utilizzato in forme diverse nel tempo, e che lo studioso deve indagare nelle sue complesse combinazioni. Se infatti la memoria storica è ereditata (anche) per linea affettiva, la filologia e lo studio dei testi devono considerare questo versante ‘sentimentale’ dell’arte. Poiché, come ricordava Mandel’štam in uno scritto degli inizi degli anni ’20 del secolo scorso: [se] la letteratura è un fenomeno sociale, la filologia è un fatto domestico, da gabinetto di studio. La prima è una conferenza, è la strada; la seconda un seminario universitario, una famiglia. Sì, proprio un seminario universitario: cinque studenti che si conoscono, che si chiamano per nome, ascoltano il loro professore, e dalla finestra spuntano i rami degli alberi ben noti del giardino universitario. La filologia è una famiglia, perché ogni famiglia si regge sull’intonazione e sulle citazioni, sulle virgolette. Anche la parola pronunciata più pigramente, in famiglia, ha una sua sfumatura. E la coloritura verbale infinita, originale, puramente filologica costituisce la base della vita familiare (Mandel’štam: 1990, 178)8. Di queste qualità seminariali, familiari, domestiche, dovrà nutrirsi il futuro delle nostre discipline, che nell’intimità del gabinetto di studio potranno affiancare e incrociare maggiorità e minorità sempre diverse, in un mosaico di lingue e culture in dialogo, non necessariamente concorde, ma sicuramente interessato e rispettoso di ciò che non è proprio. Conclusioni La Russia ‘minore’ sarà quindi soprattutto la Russia ‘altra’, che non può essere descritta, compresa, recepita, nel meccanismo riconosciuto da almeno due secoli di studi e riflessioni che la osserva ‘fra’ spazi e categorie divise: occidente e oriente; Europa e Asia; democrazia e autoritarismo; 8 Trad. it. di B. Ronchetti. Per una trad. it. dell’intera prosa cfr. Mandel’štam: 1994. 3. Russia maggiore/minore/altra 53 raziocinio scientifico e sapienza poetica; individualismo e comunità; urbanizzazione e campagna; progresso e arretratezza. Sulla soglia nella quale si incrociano molte Russie, nello spazio tra fenomeni egemoni e marginali deve essere collocato il campo della ricerca, e per comprendere e riconoscere la Russia ‘altra’ è necessario indagare i ‘buchi’, le lacune, i silenzi di questo rapporto fra voci contrastanti. Nel chiudere questo contributo, vorrei congedarmi con le immagini irriverenti e provocatorie di uno scrittore russo contemporaneo, un auspicio per nuove domande sullo spazio russo maggiore/minore/ altro. Convinto che la Russia contemporanea sia composta di due, o meglio numerose Russie (Erofeev: 2013, 37), Viktor Erofeev tratteggia i sembianti contraddittori del suo paese nelle prose letterarie, nelle interviste, negli interventi di pubblicistica. La Russia «bellezza innevata» capitata casualmente vicino al circolo polare, «attende di ritornare nel grembo caldo dell’umanità» (Erofeev: 2008, 101); Erofeev, cittadino del limen, ha «sempre amato stare al confine» (Erofeev: 2008, 182) e, parlando a Strasburgo al Consiglio d’Europa, spiega quanto sia difficile rispondere alla domanda «da dove vengo?», e colloca lo spazio Russia nella soglia «fra Europa e noi stessi» (Erofeev: 2013a, 2013b). La pluralità di sensi e di valori – suggerisce Erofeev – può essere colta solo allentando la tensione, «togliendosi i pantaloni, indossando una calda veste da camera, sdraiandosi sul divano e addormentandosi» (Erofeev: 2006, 31). Lo scrittore propugna quindi una lettura delle realtà presenti e passate che sappia gettare lo sguardo oltre il confine di ciò che è noto, e giunge così a scoprire un «paese-donna che desidera essere uomo», tratteggiando una Russia en travesti, irriverente, proteiforme e inquieta (Erofeev: 2014; Fejes, Balogh: 2013, 183). Riferimenti bibliografici Bachtin Michail M. (1980), Risposta ad una domanda della redazione del “Novyj mir” (1970), trad. it. in: La cultura nella tradizione russa del XIX e XX secolo, a cura di D’Arco Silvio Avalle, Torino, Einaudi. Bertolissi Sergio (2002), Confine e territorio nella storia russa: una premessa, in «Russica Romana», IX, pp. 295-302. 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