CUM–SCIENTIA. PER L’UNITÀ NEL DIALOGO
QUADERNI DELLA RIVISTA SEMESTRALE DI FILOSOFIA TEORETICA
Direttore
Aldo Stella
Direttore responsabile
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Comitato scientifico
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Berti (Università di Padova), Adone Brandalise (Università di Padova), Stephen Brock (PUSC
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Soto (Universidad Rey Juan Carlos, Madrid), Luca Illetterati (Università di Padova), Guido
Imaguire (Universidade de Rio de Janeiro), Carlo Lottieri (Università di Verona), Eric Mack
(Tulane University, USA), John Maloney (University of Exeter, UK), Massimiliano Marianelli
(Università di Perugia), Deirdre N. McCloskey (University of Illinois, Chicago, US), Marcello
Mustè (Università La Sapienza, Roma), Marie–Cécile Nagouas Guérin (Université de
Bordeaux), Antonio–Maria Nunziante (Università di Padova), Mario Olivieri (Università
per Stranieri, Perugia), Giangiorgio Pasqualotto (Università di Padova), Roberto Perini
(Univeristà di Perugia), Carlo Scilironi (Università di Padova), Roger Scruton (University of
Buckingham, UK), Davide Spanio (Università di Venezia), Jean–Marc Trigeaud (Université de
Bordeaux), Sophie–Hélène Trigeaud (Université de Strasbourg), Carmelo Vigna (Università
di Venezia), Mark D.White (College of State Island, New York, USA).
Comitato di redazione
Marco Berlanda, Tiziano Cantalupi, Marco Cavaioni, Giovanni Castegnaro, Tullio Fabbri,
Manuela Fantinelli, Francesco Gagliardi, Giancarlo Ianulardo, Antonio Lombardi, Michele
Lo Piccolo, Angelo Matteucci, Alessandro Negrini, Patrisha Nezam, Carlo Palermo, Carlo
Piccioli Fioroni, Mario Ravaglia, Piergiorgio Sensi, Giuseppe Vacca, Arturo Verna.
Proposte di saggi, di annotazioni teoretico–critiche o analisi di opere vanno inviati in formato
word a uno dei seguenti indirizzi:
Aldo Stella,
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Giancarlo Ianulardo,
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Libri da recensire, riviste, materiale editoriale vanno inivati a:
Rivista Cum–Scientia, c/o Piergiorgio Sensi, via Francesco di Giorgio 4, 06122 Perugia (PG)
CUM–SCIENTIA. PER L’UNITÀ NEL DIALOGO
QUADERNI DELLA RIVISTA SEMESTRALE DI FILOSOFIA TEORETICA
I Quaderni della Rivista semestrale di Filosofia teoretica sono uno strumento di approfondimento sui principali temi trattati nel periodico: lo scopo è quello di rilanciare la centralità
della coscienza, valorizzandone l’atto, ossia quel sapere che accompagna, condizionandolo,
ogni suo contenuto e che è il medesimo per ciascun soggetto. Le differenze costituiscono
i punti di vista, mentre l’intenzione di verità si esprime nel dialogo, il quale, rivelando il
limite di ogni opinione, consente di pervenire a quell’unità che emerge oltre le differenze
stesse. Stante l’incapacità delle concezioni riduzionistiche e materialistiche, dominanti di
fatto nella cultura contemporanea, di oltrepassare la conflittualità che caratterizza la doxa,
si rende ineludibile il recupero della centralità della coscienza per intenzionale l’autentica
episteme.
This book series provides an in–depth analysis of the main topics covered in the Review:
the aim is to revive the centrality of consciousness by revaluing its act, i.e., the knowledge
that accompanies, by conditioning it, any of its contents and that is the same for any subject.
Differences represent that which we call viewpoints, while the intention of truth cannot
but express itself in the dialogue, which, by revealing the limit of any opinion, allows to
attain the unity that emerges beyond the very same differences. Given the inability of
materialistic and reductionist conceptions, currently prevailing in contemporary culture,
to overcome the conflict that characterises the doxa, it becomes inescapable to recover the
centrality of consciousness to tend towards the authentic episteme.
Aldo Stella
Sul riduzionismo
Dal riduzionismo teoretico al riduzionismo teorico
Aracne editrice
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di riproduzione e di adattamento anche parziale,
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I edizione: febbraio
Indice
11
Introduzione
Parte Prima
Il riduzionismo teoretico
19
Capitolo I
La concezione metafisica di Anassimandro e le interpretazioni
riduzionistiche fornite da Heidegger e da Severino
1.1. Concezione naturalistica e concezione metafisica nella filosofia presocratica, 19
– 1.2. La concezione metafisica di Anassimandro e il ritorno ai presocratici, 23 – 1.3.
Il riduzionismo teoretico presente nella lettura di Heidegger del Frammento n. 1 di
Anassimandro, 26 – 1.4. La riduzione dell’essere ad ente, 31 – 1.5. Il riduzionismo
teoretico presente nell’interpretazione di Severino, 33 – 1.6. La relazione oppositiva
come fondamento e il riduzionismo che ne consegue, 37 – 1.7. Anassimandro e il
concetto di limite, 41 – 1.8. Il tema del fondamento, 46 – 1.9. L’emergenza del fondamento, 49 – 1.10. Il tema della coscienza, 50 – 1.11. Considerazioni conclusive sul
valore e sul significato dello ἄπειρον, 54 – 1.12. La relazione come atto, 57.
61
Capitolo II
Il riduzionismo immanente al parricidio di Parmenide
2.1. Per introdurre, 61 – 2.2. Il presunto errore di Parmenide, 63 – 2.3. La scelta di
Parmenide, 67 – 2.4. L’assolutezza delle idee in Platone, 73 – 2.5. Il Principio in Platone, 75 – 2.6. La questione del non-essere, 79 – 2.7. La verità in Parmenide e in
Platone, 82.
87
Capitolo III
Il riduzionismo teoretico e il concetto di relazione
3.1. Riduzione e relazione, 87 – 3.2. Il concetto ordinario di relazione, 90 – 3.3. Il
costrutto relazionale e la necessità di rendere dinamico uno status, 92 – 3.4. Aspetto
sensibile e aspetto concettuale dell’esperienza, 94 – 3.5. Valore intrinseco della relazione, 96 – 3.6. Il terzo livello: la relazione come atto, 101.
7
8
Indice
Parte Seconda
Il riduzionismo teorico
109
Capitolo I
Il concetto riduzionistico di realtà
1.1. Il riduzionismo teorico in generale, 109 – 1.2. Il concetto di realtà, 114 – 1.3. Il
carattere intrinsecamente problematico dell’oggetto, 116 – 1.4. Oggettivo e oggettuale, 120 – 1.5. Fattore soggettivo e fattore oggettivo dell’esistenza, 123 – 1.6. Un
opposto punto di vista: il realismo metafisico, 127 – 1.7. Il realismo metafisico forte,
136 – 1.8. La struttura intrinsecamente relazionale dell’esperienza e l’esigenza di fondamento, 141.
145
Capitolo II
Il riduzionismo in Filosofia della mente
2.1. Riduzionismo, naturalismo, materialismo, 145 – 2.2. Gli assunti principali del
programma volto a naturalizzare la mente, 150 – 2.3. L’assolutizzazione dell’oggetto,
156 – 2.4. Il tema dell’oggetto, 161 – 2.5. Oggetto e significato, 173 – 2.6. Monismo
e riduzionismo, 177 – 2.7. Monismo e dualismo, 182 – 2.8. Le teorie “identitiste”, 188
– 2.9. La negazione della soggettività, 192 – 2.10. La riduzione del fondamento a
cominciamento, 198.
205
Capitolo III
Prima esemplificazione: il riduzionismo di Patricia S. Churchland
3.1. Per introdurre, 205 – 3.2. L’inseparabilità di io e cervello, 205 – 3.3. La postulazione dell’io, 208 – 3.4. L’io come explicans, 215 – 3.5. Breve digressione: io empirico e io trascendentale, 217 – 3.6. Spiegazione riduzionistica versus spiegazione mentalistica, 219 – 3.7. La riduzione dell’io al cervello e dell’atto a funzione, 222 – 3.8.
Valore e significato dell’io, 225 – 3.9. Procedure meccaniche e intenzione di verità,
228 – 3.10. Per concludere: io, coscienza, sapere, 231.
233
Capitolo IV
Seconda esemplificazione: il riduzionismo nella spiegazione psicologica dei comportamenti e il suo superamento
4.1. Spiegazione riduzionista e non riduzionista in psicologia: annotazioni preliminari,
233 – 4.2. Azione intenzionale e sillogismo pratico, 235 – 4.3. Modelli psicologici di
causalità, 237 – 4.4. Intenzione e spiegazione, 239 – 4.5. Il concetto di spiegazione
psicologica, 240 – 4.6. La spiegazione in ambito comportamentista e cognitivista, 243
– 4.7. Modello meccanicista e modello funzionalista, 245 – 4.8. Il ruolo della rappresentazione nel processo della spiegazione, 249 – 4.9. Spiegazione intenzionale e valore della soggettività, 252 – 4.10. La spiegazione psicologica: due esemplificazioni e
possibili campi di applicazione, 257 – 4.11. Alcune considerazioni sugli esempi proposti, 260.
Indice
265
9
Capitolo V
Modello riduzionistico e modello sistemico-relazionale
5.1. La differenza tra il modello riduzionistico e quello sistemico-relazionale, 265 –
5.2. I tratti essenziali del modello riduzionistico, 266 – 5.3. Riduzionismo e monismo,
271 – 5.4. Il modello sistemico-relazionale, 273 – 5.5. La relazione e i suoi termini,
277 – 5.6. Sul riduzionismo: conclusioni, 280.
285
Bibliografia
Introduzione
Il presente lavoro intende riflettere sul riduzionismo contemporaneo.
Affinché la riflessione si configuri adeguatamente, si è pensato che
fosse opportuno spiegare il riduzionismo, che investe l’ambito delle
scienze e cioè il riduzionismo teorico, a muovere dal riduzionismo che
ha caratterizzato il pensiero filosofico e cioè dal riduzionismo teoretico.
A tale scopo, si è diviso il lavoro in due parti. La prima, quella dedicata al riduzionismo teoretico, inizia trattando la concezione metafisica
di Anassimandro e le interpretazioni che di tale concezione sono state
fornite da Heidegger e da Severino. In esse, il concetto di “relazione”
svolge una funzione prioritaria, così che si è posta la distinzione tra la
relazione intesa come costrutto mono-diadico, cioè come uno status, e
la relazione intesa come l’atto del riferirsi. Ebbene, la riduzione
dell’atto a costrutto configura una delle forme fondamentali del riduzionismo teoretico.
Accanto alla riduzione indicata, nella lettura di Anassimandro di
Heidegger e di Severino si configura la riduzione dell’essere a ente, che
troverà la sua espressione compiuta nel parricidio di Parmenide tentato
da Platone, parricidio che viene discusso molto raramente dai filosofi
che sono succeduti a Platone e, anzi, viene comunemente accettato,
come se esprimesse un contenuto logico indiscutibile.
In forza di tale parricidio, l’essere assoluto di Parmenide viene ridotto ad essere relativo, così che non soltanto viene fatto essere il nonessere, ma inoltre si decreta l’innegabilità dell’esperienza.
Se Platone subordina la realtà dell’esperienza alla realtà dell’universo ideale, progressivamente – nel pensiero successivo – la realtà empirica viene assunta come la realtà oggettiva, come se, cioè, essa potesse valere kata physin (in se) e non, invece, in forza del suo porsi soltanto in relazione al soggetto (pros hemas, quoad nos).
Lo stesso concetto di “intero” viene pensato non come l’unità autentica, ossia come l’unità dell’assoluto, che coincide con il togliersi di
ogni dualità e quindi di ogni molteplicità, ma come “insieme”: il “tutto”
viene insomma ridotto a un tutto-di-parti, in modo che quell’intero, che
11
12
Introduzione
costituisce la condizione a parte ante (il prerequisito) dell’analisi, finisce per venire ridotto al prodotto della riunificazione degli elementi ottenuti mediante l’analisi stessa. In tal modo, l’“intero” viene ridotto a
“composto” e da prerequisito scade a presupposto.
Ciò comporta che il “fondamento”, e cioè la condizione incondizionata dell’universo dei condizionati, non viene più inteso come la ragione del loro trascendersi, cosicché il finito si risolve nell’atto dell’oltrepassare sé stesso, ma viene ridotto a momento della serie dei determinati, anche se primo. Il fondamento, quindi, viene ridotto a cominciamento, il quale è presupposto dalla serie che lo presuppone.
Se, inoltre, con Parmenide tutto ciò che è altro dall’essere non può
non venire colto come non-essere, ossia come il suo stesso contraddirsi,
di contro non soltanto il parricidio comporta la riduzione dell’incontraddittorio, che è l’essere, al principio di non contraddizione (p.d.n.c.),
che invece è principio meramente formale, ma altresì implica l’ipostasi
della contraddizione, che viene assunta come qualcosa-di-contraddittorio.
L’ipostasi della contraddizione, infatti, è conseguenza dell’ipostasi
del non-essere nonché del carattere formale del p.d.n.c., il quale emerge
come principio solo se la negazione (il “non” che nega la contraddizione), che consente il suo emergere come principio, si dispone sulla
contraddizione stessa, presupponendola, stante che solo in questo modo
la negazione risulta determinata e, quindi, non vale come negazione di
nulla (diventando “nulla” come negazione).
La stessa “verità”, che in Parmenide coincide appunto con l’essere,
finisce per venire intesa in senso corrispondentista, e cioè come adaequatio rei et intellectus. Più radicalmente, la verità non vale più come
la condizione trascendentale che consente di cogliere il limite di tutto
ciò che è soltanto relativo, dunque di ciò che verità non è, ma viene
determinata e, pertanto, ridotta a un “dato”, inscritto come ogni altro
dato nell’universo dei determinati.
Il riduzionismo teorico, di contro, concerne – come detto – le teorie
scientifiche e fa la sua comparsa nel Diciassettesimo e nel Diciottesimo
secolo. Con il termine “riduzionismo”, in una prima approssimazione,
si intende una particolare concezione epistemologica che è volta a formulare concetti e linguaggio di una determinata teoria scientifica nei
termini di un’altra teoria scientifica, considerata però più basilare, cioè
considerata fondamentale.
Introduzione
13
Il riduzionismo sorge vincolandosi al meccanicismo, che è quella
concezione secondo la quale la realtà può venire considerata come un
insieme di enti che interagiscono tra di loro e che producono processi,
tali che, dato il punto di partenza, è possibile determinare univocamente
e a priori il punto d’arrivo, se si conosce la legge che sta alla base
dell’interazione o del processo stesso. Per questa ragione, il meccanicismo si è inizialmente vincolato al determinismo.
Il meccanicismo è stato considerato il modello fondamentale per cogliere la natura e per individuare le leggi che ne regolerebbero lo svolgimento. In questo senso, il naturalismo risulta intrinsecamente vincolato al meccanicismo e al riduzionismo, stante che la realtà, che in ultima istanza risulta quella fondamentale, è la realtà fisica.
Il fisicalismo costituisce, dunque, un altro tratto distintivo essenziale
per comprendere il nuovo modello con cui viene letta e interpretata la
realtà dell’esperienza, la quale, appunto, viene assunta come la vera
realtà, cioè la realtà oggettiva.
Poiché, inoltre, il fisicalismo, nelle sue forme più radicali, viene interpretato in senso materiale, anche il materialismo diventa un ulteriore
tratto che viene a connotare la concezione scientifica del mondo. Dal
momento che, però, la scienza contemporanea, in particolare la fisica,
tende a considerare il termine “materia” come ambiguo, il materialismo,
nelle scienze più evolute, ha lasciato il posto al fisicalismo.
Se nella filosofia ottocentesca, infatti, la materia era assunta come il
substrato delle sensazioni e, dunque, come la sostanza del mondo percepito, il materialismo ha progressivamente perduto la sua centralità
nelle scienze più “dure”, come per esempio la fisica, mentre ancora conserva una posizione centrale in alcune forme di riduzionismo che vigono in quell’ambito di ricerca, che viene definito “Filosofia della
mente”.
Non di meno, l’affermazione di un’unica sostanza, la sostanza materiale, e quindi la concezione del monismo materialistico, presenta notevoli limiti concettuali, ancorché essa venga sostenuta da molti neuroscienziati, psicologi e filosofi della mente, i quali, occupandosi della
soggettività, finiscono per decretarne il tramonto.
Del resto, non si può sottacere il fatto che la fisica contemporanea ha
a che fare con entità che con difficoltà possono venire connotate come
“materiali”: si pensi, per esempio, ai campi di forza, alle oscillazioni
quantiche, agli spazi a molte dimensioni e, infine, alle stringhe.
14
Introduzione
Se, insomma, il modello meccanicistico-fisicalistico-riduzionistico,
che abbiamo rapidamente descritto, era inizialmente utilizzato unicamente per studiare la natura, successivamente la sua efficacia esplicativa ha convinto gli scienziati che poteva essere applicato non soltanto
al corpo dell’uomo, esso stesso ente naturale, ma anche alla sua mente.
Quest’ultima è stata vieppiù studiata riducendola a quegli aspetti che
possono venire colti dalle scienze empirico-sperimentali: la psicologia
e le neuroscienze, che utilizzano il metodo delle scienze naturali, si sono
costituite nella pretesa di potersi affrancare definitivamente da ogni
concezione filosofica e per questa ragione si è parlato di naturalizzazione della mente.
Il nostro progetto è proprio quello di specificare il senso di questa
espressione, precisando altresì che la naturalizzazione della mente consegue a una tesi epistemologica, che investe la teoria della conoscenza:
poiché la conoscenza si fonda sulla percezione, afferma Quine, e poiché
la percezione è studiata soprattutto dalla psicologia, la teoria della conoscenza viene sottratta alla filosofia e consegnata, appunto, alle
scienze psicologiche, in modo tale che si parla di naturalizzazione
dell’epistemologia.
Va tuttavia ricordato che il riduzionismo concerne, in modo specifico, il rapporto che intercorre tra la biologia e la fisica. Si potrebbe
dire, infatti, che il dibattito sul riduzionismo è una componente della
filosofia della biologia e ciò, a nostro giudizio, dimostra l’insensatezza
di ogni pretesa di prescindere dalla filosofia. In questo contesto, il dibattito indicato si configura in triplice forma: come una tesi ontologica,
una tesi metodologica e una tesi epistemologica, delle quali ci occuperemo nel corso della Parte Seconda.
Ebbene, tale tipo di riduzionismo non fa che rafforzare il paradigma
meccanicista, per il quale l’universo è assimilato a una macchina il cui
comportamento è comprensibile attraverso lo studio delle parti e delle
loro interazioni. Secondo il riduzionismo metodologico, quindi, il metodo più adeguato di conoscenza di un fenomeno consisterebbe nell’individuare i suoi costituenti ultimi.
In biologia, ciò significa che, per quanto un organismo possa essere
complesso, lo studio dei suoi costituenti microscopici verrà considerato
sufficiente a garantirne una spiegazione completa.
In conclusione, la migliore spiegazione di qualunque fenomeno biologico sarà quella che esplicita i fenomeni chimici e fisici che sono impliciti in esso. Il successo della biologia molecolare nello scoprire le
Introduzione
15
basi dei processi genetici fondamentali e la scoperta del codice genetico
dimostrerebbero che l’organismo non è altro che un insieme di molecole e giustificherebbero la fiducia nella capacità dell’indagine molecolare di spiegare tutti i fenomeni biologici.
Questi ultimi, a loro volta, andrebbero ridotti ai fenomeni fisici che
ne stanno a fondamento. Se le leggi della biologia vengono espresse nei
termini di leggi chimico-fisiche, ciò non può non comportare la riduzione della biologia a branca della fisica, dando finalmente compimento all’unificazione delle scienze.
Se non che, la concezione riduzionista ha mostrato i primi segni di
cedimento di fronte ai fenomeni complessi e alle proprietà emergenti
che essi presentano: proprietà, insomma, che appartengono al fenomeno
nella sua interezza e che, invece, non sono riscontrabili nei suoi componenti elementari.
Da questo punto di vista, la biologia e la chimica (bio-chimica) si
sono prese l’incarico di dimostrare che le molecole possono presentare
proprietà diverse da quelle degli atomi che le compongono, così che
accanto al riduzionismo si è andata imponendo anche una significativa
forma di emergentismo.
Intorno agli anni Settanta del secolo scorso, in particolare, si è andato
configurando un modello che tende a contrapporsi al modello riduzionistico e al metodo analitico, che ne costituisce l’essenza. Stiamo parlando del modello sistemico-relazionale, detto anche olistico, perché
volto a privilegiare non già l’analisi, ma la sintesi, che presiede al costituirsi di ogni sistema e che coglie il tutto come irriducibile alla
somma delle parti che lo compongono.
Per concludere questa introduzione, diremo che non è possibile intendere il concetto di “riduzionismo” se non si intende adeguatamente
il concetto di “realtà”. La concezione riduzionistica, infatti, assume
acriticamente come oggettiva, cioè come innegabilmente vera, la realtà
dell’esperienza e si occupa soltanto di individuare il livello ontologico
più elementare (semplice) cui ogni altro livello ontologico possa venire
ridotto/ricondotto.
Se non che, la domanda che si impone teoreticamente è volta a questionare questa acritica assunzione e si specifica nella seguente formula: qual è la vera realtà?
Parte Prima
Il riduzionismo teoretico
Capitolo I
La concezione metafisica di Anassimandro
e le interpretazioni riduzionistiche fornite
da Heidegger e da Severino
1.1. Concezione naturalistica e concezione metafisica nella filosofia presocratica
Per “riduzionismo teoretico” intendiamo una forma di riduzionismo che
investe il fondamento stesso del pensare e cioè il principio primo della
stessa filosofia. Non si tratta, dunque, di un riduzionismo che concerne
uno degli ambiti teorici in cui si configura il conoscere, ma riguarda ciò
che funge da condizione incondizionata, e per questo fondante, dell’attività del pensare e, di conseguenza, degli ambiti teorici stessi.
Per “teoresi”, infatti, intendiamo la riflessione che emerge criticamente oltre il sistema della teoria, in modo tale che, allorquando il riduzionismo investe proprio tale riflessione, la conseguenza è che ciò su
cui quest’ultima viene a basarsi cessa di valere come condizione incondizionata, dunque assoluta e per questo emergente oltre l’ordine in cui
si collocano i condizionati (le determinazioni), e si riduce essa stessa a
una qualche determinazione, così che finisce per perdere la sua incondizionatezza e, dunque, la sua assolutezza. Il fondamento diventa, pertanto, momento della serie dei condizionati, anche se “primo”, e assume
in tal modo la forma di cominciamento.
Onde chiarire il concetto espresso, ricordiamo che già nella filosofia
presocratica è possibile rintracciare due indirizzi fondamentali. Un indirizzo naturalistico, tipico dei primi filosofi greci, secondo il quale il
“principio” (ἀρχή) di tutte le cose è da ricercare in un elemento della
natura, e un indirizzo metafisico, che potremmo anche definire trascendentale, il quale invece intende il principio nel senso del fondamento.
Per tale secondo indirizzo, non si tratta di trovare l’inizio di tutte le
cose, cioè la prima determinazione che apra la serie di tutte le altre determinazioni, le quali, nel loro insieme, costituiscono l’esperienza. Si
19
20
Sul riduzionismo
tratta, piuttosto, di individuare la condizione della loro possibilità, che
coincide con la condizione della loro intelligibilità.
Ebbene, ciò che intendiamo sostenere è che questa duplicità di indirizzi è di estrema importanza, perché caratterizza l’intera storia del pensiero filosofico. In particolare, è precisamente l’indirizzo metafisico
che, esprimendo l’essenza del “pensiero riflessivo e critico”1, lascia
emergere l’irriducibilità del fondamento alla serie dei fondati, e cioè
alla serie delle determinazioni.
Di contro, l’indirizzo naturalistico, anche se non si è mai eclissato
completamente, non è stato quello effettivamente dominante, per lo
meno fino a una certa fase storica. Ha cominciato ad affermarsi, infatti,
solo verso la fine dell’Ottocento con il positivismo e si è andato definitivamente imponendo nella seconda metà del Novecento.
Esso si è tradotto innanzi tutto nel programma di naturalizzazione
dell’epistemologia, configurato da Quine, e successivamente ha trovato
espressione anche nel programma di naturalizzazione della mente, che
è ciò di cui, in particolare, ci occuperemo nella Parte Seconda di questo
scritto, allorché tratteremo il tema del riduzionismo teorico.
A nostro giudizio, infatti, il programma di naturalizzazione della
mente, specie se spinto verso la sua forma più estrema, mette capo a
una radicale negazione della coscienza e della soggettività. Ciò implica
la sua traduzione in un monismo ontologico, per il quale solo la materia
esisterebbe, così che si verrebbe a imporre anche un monismo metodologico: l’uso, cioè, del metodo delle scienze naturali, stante che solo gli
enti naturali, cioè le entità fisico-materiali, vengono considerati, appunti, reali.
Così riassume i due indirizzi Severino:
Per coloro che per primi si occuparono di filosofia la ricerca del numero dei
principi è la stessa ricerca del numero delle cose. Infatti essi non conoscevano
altro genere di principi che quelli materiali (ciò di cui, ex quo, sono fatte le
cose). Sì che ciò che per essi costituisce l’entità o la realtà delle cose è soltanto
la materia, il principio materiale. Se dunque ponevano che il principio è unico
(per es., l’aria o l’acqua) intendevano dire che vi è un’unica cosa, un unico
1
Abbiamo trattato il rapporto tra “pensiero riflessivo e critico” e ricerca del “fondamento”
in A. STELLA, Realtà naturale e atto di coscienza, Guerini e Associati, Milano 2015, pp. 157190.
I. La
concezione metafisica di Anassimandro […]
21
ente, e che le cose molteplici della natura non sono che modificazioni accidentali di quest’unica realtà. […] Dove appare che principio significa per essi “elemento” (στοιχεῖον) o materia delle cose2.
Il naturalismo è sovrapponibile, in un certo senso, al materialismo: coloro che intendono il principio nella forma di un dato naturale si riferiscono a qualcosa di materiale. Per costoro, il principio è una cosa della
natura, dunque una cosa fisica.
Certo, l’individuazione di quale sia la cosa che sta a fondamento
dell’universo costituisce un problema di non facile soluzione. Tuttavia,
il punto più rilevante è un altro. Se il principio viene inteso come il
primo elemento di una serie, allora non si può evitare di intenderlo in
senso determinato.
Se non che, determinandolo, comunque si finisce per ridurre il principio a una res, dunque a qualcosa che appartiene all’universo
dell’esperienza. Con questa conseguenza estremamente rilevante: l’universo empirico viene fatto coincidere con la realtà stessa e il principio
viene in esso inglobato.
Se, però, il principio di tutte le cose viene collocato in quello stesso
ambito che è proprio delle altre cose, allora esso non può costituire il
fondamento di tale ambito, valendo come un suo momento: se venisse
assunto come fondamento, allora l’ambito verrebbe presupposto dalla
posizione del “suo” fondamento, configurando un diallele.
Ci si trova, insomma, nella seguente alternativa: aut il principio
esprime un valore diverso da quello che è proprio del fondamento, ma
allora esso cessa di valere quale autentica condizione di possibilità (intelligibilità) dell’esperienza e scade a mero presupposto; aut dire “principio” equivale a dire “fondamento”, ma allora esso non può venire inteso come una cosa al pari delle altre, dunque non può essere neppure
la “prima” delle cose.
Se il principio ha valore di fondamento, questo è il nodo cruciale,
allora esso non può non emergere oltre il sistema delle cose, cioè oltre
il sistema delle determinazioni, dunque oltre l’universo empirico.
Qualora valesse come “la prima cosa”, infatti, esso comunque si porrebbe in relazione con la “seconda”, la “terza” e così via, in modo tale
2
E. SEVERINO, «Traduzione, introduzione e commento» ad ARISTOTELE, I principi del divenire. Libro primo della Fisica, Brescia, La Scuola, 19736, p. 9 (facciamo notare che, in nota,
Severino riassume il discorso svolto da Aristotele).
22
Sul riduzionismo
che si vincolerebbe all’intera serie e non potrebbe più costituirne il fondamento.
La proprietà essenziale del fondamento – questo è il punto – non può
non essere quella del fondare senza dipendere da ciò che viene fondato.
Che è come dire: la fondazione è il condizionamento unilaterale esercitato dal fondamento sul fondato.
Di contro, il presupposto – non solo nel caso in cui venga presupposto da un sistema, ma anche nel caso in cui venga presupposto da una
serie – si vincola inscindibilmente al posto, senza del quale non si determinerebbe come “presupposto”.
L’irriducibilità del fondamento a presupposto (o cominciamento) –
lo si vedrà nel prosieguo del discorso – costituisce un tema di estrema
importanza, stante che la riduzione teoretica primaria è precisamente
quella che assume il fondamento come se fosse un qualunque presupposto, ossia come se fosse un dato che viene assunto senza dimostrazione del suo valore.
Per chiarire questo punto nodale, torniamo a Severino, perché ci
sembra che abbia espresso il concetto da noi indicato in una forma
quanto mai chiara:
ci si avvide ben presto dell’impossibilità di qualificare il principio come acqua
o aria o qualsiasi altra determinazione particolare. Ciò infatti per cui le cose
molteplici sono uno, o la materia in cui tutte le cose convengono, non può essere qualificato come una tra le cose3.
Il discorso svolto da Severino può venire tradotto nei seguenti termini:
ridurre il principio a elemento – sia esso il primo della serie oppure la
parte minima indivisibile della quale il tutto si compone – equivale a
intendere il fondamento come un momento della serie stessa, con la conseguenza che, a rigore, la serie deve venire prima del (deve venire presupposta dal) proprio fondamento, ossia deve condizionare ciò che, invece, viene richiesto come originario, e per ciò stesso come fondante.
Severino, per specificare ciò che unifica, dice “la materia in cui tutte
le cose convengono”. A noi sembra molto interessante quest’uso della
parola “materia”, perché con tale espressione si deve intendere proprio
la costituente ultima del reale. O meglio: se la realtà autentica è consi
3
Ivi, p. XII.
I. La
concezione metafisica di Anassimandro […]
23
derata l’esperienza, allora non si può non ritenere che la materia ne costituisca l’essenza ultima, giacché l’esperienza sensibile rappresenta la
forma iniziale e privilegiata di esperienza.
La domanda teoretica, però, è proprio quella volta a questionare il
primato onto-logico dell’esperienza e, in particolare, dell’esperienza
sensibile, che solo acriticamente viene promossa a “vera realtà”.
Ciò che si presenta è vero per il solo fatto che si presenta? Se il
“fatto”, cioè il dato empirico, fosse in grado di legittimarsi, come spiegare il sorgere della domanda sulla sua effettiva legittimità? Come spiegare, insomma, la domanda di verità, cioè la domanda di fondazione,
volta a questionare il dato?
Rispondere alle domande formulate indica l’emergere di quella consapevolezza critica, già vigente e operante nella filosofia presocratica,
che questiona la concezione naturalistica e che ne consente il progressivo superamento: la concezione naturalistica dei primi Ionici viene superata dalla concezione metafisica proprio per la ragione che i dati empirici risultano insufficienti a sé stessi e questa insufficienza viene evidenziata con forza da Anassimandro.
1.2. La concezione metafisica di Anassimandro e il ritorno ai presocratici
Anassimandro per primo intende il fondamento in senso non naturalistico e lo definisce ἄπειρον. Egli usa questa parola per la ragione che
intende significare il suo valere quale illimitato, ossia il suo porsi oltre
quel limite (πεῖρας; attico: πέρας) che circoscrive ogni determinazione
e che può venire colto solo in virtù di ciò che quel limite trascende.
Proprio con Anassimandro si configura, quindi, una concezione autenticamente metafisica, che del fatto (dato di esperienza) chiede ragione e non si accontenta di rilevare la presenza.
Affinché il senso autentico dell’ἄπειρον emerga in tutto il suo valore
teoretico, ci proponiamo di riflettere su due saggi, uno di Heidegger e
un altro di Severino, che sono dedicati al pensiero di Anassimandro,
prendendo spunto da un lavoro già iniziato, che necessita però di venire
adeguatamente approfondito4.
4
Cfr. A. STELLA, G. IANULARDO, «La relazione come fondamento nella lettura di Anassimandro offerta da Heidegger e da Severino», La Filosofia Futura, 8, 2017, pp. 85-97.
24
Sul riduzionismo
Il nostro obiettivo è quello di mostrare come entrambi i saggi siano
accomunati da un aspetto decisivo: la valorizzazione del concetto di
“relazione”. Se non che, ciò che riteniamo di dover sottolineare è che il
concetto di “relazione” dice esattamente ciò che dice il concetto di “limite”, così che Heidegger e Severino, a nostro giudizio, valorizzano
proprio ciò che Anassimandro intende trascendere.
In contrapposizione alla valorizzazione del concetto di “relazione”,
insomma, noi ci proponiamo di mostrare che l’illimitato di Anassimandro non può non venire inteso come emergente oltre ciò che è limitato,
dunque oltre il sistema delle determinazioni e ciò implica che debba
venire inteso come emergente oltre quella relazione che del sistema (di
ogni sistema inteso come insieme ordinato di elementi) costituisce la
struttura formale.
Ricordiamo, per introdurre il tema della filosofia di Anassimandro,
che la necessità di un ritorno alla filosofia presocratica è stata esplicitamente affermata da Nietzsche, nell’opera La filosofia nell’epoca classica dei greci5, e da Popper, nell’opera Ritorno ai presocratici6.
Secondo Palumbo, che interpreta Nietzsche, lo scopo cui tendono la
filosofia presocratica, la tragedia greca e i misteri orfici è “il risanamento e la purificazione della civiltà in cui sono immersi [coloro che
conducono tale ricerca], lo sgombero della strada dai pericoli che corre
tale civiltà”7.
Cercheremo di mostrare, con la presente ricerca, come il pericolo
supremo che corre ogni civiltà, poiché rappresenta il pericolo supremo
che corre l’uomo, sia quello di assolutizzare il relativo, cioè di non riconoscere che l’universo dell’esperienza, in quanto si costituisce di determinazioni, finite per loro natura, necessita di un fondamento che non
può non emergere oltre tale ordine.
L’assolutizzazione del relativo, del resto, si determina allorché non
si riconosce l’innegabile necessità dell’assoluto come fondamento, in
modo tale che il sistema dei determinati viene assunto come se potesse
5
Cfr. F. NIETZSCHE, «Die Philosophie im tragischen Zeitalter der Griechen» (1873), Werke
in drei Bänden, München 1954 (Band 3, S. 351, Entstanden 1872/73); trad. it. di G. Colli,
Opere, vol. III, t. II, Milano, Adelphi, 1973.
6
Cfr. K. POPPER, «Back to the Pre-Socratics», in Proceedings of Aristotelian Society, 59,
1958-1959, pp. 1-24; trad. it. di G. Pancaldi, in ID., Congetture e confutazioni, Bologna, il
Mulino, 1976, pp. 235-285.
7
P. PALUMBO, «Il richiamo ai presocratici in Nietzsche e in Popper: elementi comuni per
una razionalità neotragica», in G. NICOLACI (a cura di), Ritorno ai Presocratici?, Milano, Jaca
Book, 1994, p. 22.
I. La
concezione metafisica di Anassimandro […]
25
venire considerato autosufficiente e autonomo, cioè senza la necessità
di un fondamento che lo ponga trascendendolo.
Ebbene, ciò configura precisamente la forma prioritaria del riduzionismo teoretico, la quale, come abbiamo detto, si esprime nell’assunzione del fondamento come cominciamento, ossia come riduzione del
fondamento (dell’assoluto) a un elemento del sistema dei suoi fondati
(del sistema dei relativi). Tale riduzione non può non coincidere con la
negazione dell’assolutezza del fondamento.
Rifacendosi a Popper, sempre Palumbo sostiene che “Comprendere
il mondo, e comprendere la conoscenza che ne abbiamo, questo [è]
l’obiettivo che la filosofia e la scienza, a diversi livelli di problematizzazione e con metodi solo parzialmente diversi, perseguono”8.
Popper, insomma, “dà grande importanza alle idee […]. Proprio in
questa loro dimensione astratta e oggettiva le idee (= asserzioni, teorie,
relazioni, etc.) sono interessanti e risultano potenti perché capaci persino di… ‘spostare le montagne’”9.
Precisamente nei presocratici Popper vede “l’arditezza delle idee, la
loro teoreticità, il non essere subordinate all’osservazione”10 e, più specificamente, nel caso di Anassimandro “si è di fronte a idee audaci”11,
così che “il richiamo di Popper ai presocratici ha […] in primo luogo il
senso di un richiamo all’impegno teoretico della filosofia”12.
D’altra parte, lo stesso Leszl nel suo volume intitolato I presocratici13, rileva, come fa notare Roccaro, che
buona parte dei contributi recenti più stimolanti e più significativi sui presocratici […], dal punto di vista strettamente filosofico, sono di studiosi che appartengono all’orientamento della filosofia analitica o che, per lo meno, riprendono schemi concettuali e altri strumenti propri di questa14.
8
Ivi, p. 17.
Ibidem; la citazione di Popper, ripresa da Palumbo, compare in K. POPPER, «Nuvole e
orologi. Saggio sul problema della razionalità e della libertà dell’uomo», in ID., Conoscenza
oggettiva, trad. it. di A. Rossi, Armando, Roma 1983, p. 328.
10
Ibidem.
11
Ivi, p. 18.
12
Ivi, p. 19.
13
Cfr. W. LESZL (a cura di), I Presocratici, il Mulino, Bologna 1982.
14
G. ROCCARO, «Esegesi all’inizio», in G. NICOLACI (a cura di), Ritorno ai Presocratici?,
cit., p. 131.
9
26
Sul riduzionismo
Il nostro punto di vista, di contro, è quello di una teoresi intesa in senso
classico. Il medesimo punto di vista che induce Diano a pensare
l’ἄπειρον περιέχον di Anassimandro come il “divino” stesso, dal quale
egli fa “governare il tutto”15. Scrive ancora Diano: “Vi sono eventi ed
eventi e ciascuno ha la sua dimensione e la sua direzione, ma tutti sono
caratterizzati dalla vissuta esperienza dell’apeiron periechon”16.
Il nostro progetto è precisamente quello di precisare il senso di questa “vissuta” presenza dell’infinito nel finito, a muovere proprio da chi
per primo ne ha parlato in termini espliciti e quanto mai pregnanti:
Anassimandro, appunto.
Ciò consentirà di cogliere il senso riduzionistico di alcune interpretazioni che sono state date del suo pensiero, a muovere dall’interpretazione dello stesso Heidegger.
1.3. Il riduzionismo teoretico presente nella lettura di Heidegger
del Frammento n. 1 di Anassimandro
Per cogliere il senso dell’interpretazione heideggeriana, risulta essenziale riportare almeno un Frammento di Anassimandro che ci è stato
tramandato, con l’accortezza di utilizzare anche alcuni importantissimi
commenti.
Il Frammento n. 1, riportato da Simplicio17, è quello fondamentale e
così viene tradotto da Giannantoni e da Reale:
Anassimandro … ha detto … che il principio degli esseri è l’infinito (… ἀρχὴν
… εἴρηκε τῶν ὂντων τὸ ἄπειρον) … di dove infatti gli esseri hanno origine, lì
hanno anche la dissoluzione secondo necessità (… ἐξ ὧν δὲ ἡ γένεσίς ἐστι τοῖς
οὖσι, καὶ τὴν φθορὰν εἰς ταῦτα γίνεσθαι κατὰ τὸ χρεών)18.
Simplicio stesso afferma che Anassimandro
15
C. DIANO, Il pensiero greco da Anassimandro agli Stoici, Bollati Boringhieri, Torino
2007, p. 39.
16
Ibidem.
17
SIMPLIC., Phys. 24, 13 [vgl. A 9]; la traduzione riportata è quella che compare in G. REALE
(a cura di), I Presocratici, Bompiani/RCS Libri, Milano 2006/2015, p. 197.
18
G. GIANNANTONI (a cura di), I Presocratici. Testimonianze e frammenti, Laterza, Bari
1969, pp. 106-107; G. REALE (a cura di), I Presocratici, cit., pp. 196-197.
I. La
concezione metafisica di Anassimandro […]
27
dichiarò l’infinito sia principio sia elemento delle cose che sono, e adottò per
primo questo nome di “principio”. Egli dice, infatti, che esso non è né l’acqua
né alcun altro di quelli che sono detti elementi, ma che è una cert’altra natura
infinita, da cui traggono origine tutti i cieli e i mondi che ci sono19.
Orbene, nel saggio “Il detto di Anassimandro”, che compare nell’opera
Sentieri interrotti, Heidegger riprende proprio il frammento riportato da
Simplicio. Di tale frammento egli offre anche la traduzione, che è poi
quella datane dal giovane Nietzsche, come precisa Heidegger stesso.
Prima di analizzare tale frammento, tuttavia, giova mettere in risalto
che anche la lettura di Heidegger si propone come essenzialmente teoretica. Così, infatti, egli scrive: “Pur nel massimo rispetto per l’indagine
filologica, traducendo, dobbiamo innanzitutto pensare la cosa. Ecco
perché nel presente tentativo di tradurre il detto di questo pensatore aurorale [früh] solo i pensatori ci possono venire in aiuto”20.
Per fornire la nostra interpretazione di Anassimandro confidiamo,
dunque, nell’aiuto tanto di Heidegger quanto di Severino, così che anche i rilievi critici che muoveremo alla loro lettura saranno uno strumento per mettere a punto la nostra.
Il primo aspetto sul quale riteniamo si debba riflettere è il concetto
di “infinito” e a tal proposito ribadiamo che, nel saggio “Il detto di
Anassimandro”, Heidegger riprende proprio il frammento di Anassimandro riportato da Simplicio e ne fornisce, appunto, un’interpretazione essenzialmente teoretica.
Il concetto cruciale, dunque, è quello di “infinito”, che è altro modo
per indicare il fondamento. Non è affatto un caso che Reale, quando
nell’opera I Presocratici si riferisce ad Anassimandro, riporti ciò che
Aristotele nella Fisica dice dell’infinito: “Per questo diciamo che di
esso non c’è principio, ma che risulta essere esso stesso principio delle
altre cose, e comprenderle tutte e tutte governarle”21.
Questo passo ci sembra davvero molto significativo, perché in esso
si danno per scontate due relazioni: sia quella che sussisterebbe tra l’in
19
G. REALE (a cura di), I Presocratici, cit., pp. 181-183.
M. HEIDEGGER, «Der Spruch des Anaximander» (1946), in M. HEIDEGGER, Gesamtausgabe, Band 5, Holzwege, V. Klostermann, Frankfurt a. M. 1977, pp. 321-374; trad. it. di P.
Chiodi, «Il detto di Anassimandro», in ID., Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, p.
300.
21
ARISTOTELE, Phys. Γ, 4, 203 b 6; la traduzione riportata è quella che compare in G. REALE
(a cura di), I Presocratici, cit., p 187.
20
28
Sul riduzionismo
finito e il finito sia quella che costituirebbe l’intrinseca struttura dell’infinito. Se, infatti, l’infinito “comprende” e “governa” le cose, allora
esso si articola al suo interno, dunque prevede una struttura intrinseca,
oltre che un legame con il mondo.
Su questo duplice ordine di relazioni si giocano le interpretazioni di
Anassimandro offerte da Heidegger e da Severino e proprio su di esse
noi intendiamo riflettere per la ragione che, a nostro giudizio, tali interpretazioni, sia perché prevedono una relazione intrinseca all’infinito sia
perché prevedono una relazione estrinseca che lo vincolerebbe al finito,
finiscono con il produrre una riduzione assai significativa dell’infinito
di Anassimandro, negando il valore che esso, di contro, esprime.
Per designare la relazione che sussiste tra infinito e finito, Heidegger
usa l’espressione “differenza ontologica”. In effetti, con tale espressione egli indica la differenza che sussiste tra essere ed ente, ma si deve
sempre ricordare che l’essere vale proprio per la sua infinitezza e l’ente,
invece, per la sua finitezza.
La loro irriducibile differenza viene annunciata nella seguente affermazione: “Il non-esser-nascosto dell’ente, la chiarezza accordata ad
esso, oscura la luce dell’essere”22 e viene ribadita in un altro passo, nel
quale Heidegger ci ricorda che nel comparire dell’ente l’essere si nasconde: “L’essere si sottrae in se stesso mentre si scopre nell’ente”23.
Il punto cruciale è, quindi, il rapporto che si presume sussista tra
l’essere e gli enti o, per usare le parole di Anassimandro, tra l’ἄπειρον
e gli enti determinati, i quali sono tali in forza del limite (πέρας) che li
costituisce.
A nostro giudizio, si dovrebbe affrontare il tema del rapporto tra assoluto e relativo solo a muovere dal concetto di limite, stante che lo
stesso Anassimandro pone la necessità dell’illimitato, cioè dell’assoluto, solo per la ragione che ciò che è segnato dal limite non può valere
come fondamento di sé stesso, cioè non è sufficiente a sé stesso.
Tuttavia, poiché non è questa la strada percorsa da Heidegger – né
da Severino – prima di far valere il nostro punto di vista vogliamo prendere in considerazione il loro.
22
23
Ivi, p. 314.
Ibidem.
I. La
concezione metafisica di Anassimandro […]
29
Riprendiamo, quindi, con il rilevare che il rapporto tra essere ed ente
viene indicato da Heidegger anche come rapporto tra lo “esser-presente”, che corrisponde all’essere, e l’“essente-presente”, che corrisponde all’ente:
resta impensata la stessa relazione fra esser-presente ed essente-presente. Sin
dall’aurora sembra che l’esser-presente e l’essente-presente siano ciascheduno
qualcosa per sé. Impercettibilmente lo stesso esser-presente si muta in un essente-presente24.
Il discorso di Heidegger ci pare possa venire così riassunto: da un certo
punto di vista, tra essere ed ente v’è un’innegabile differenza ontologica, così che “L’oblio dell’essere è l’oblio della differenza fra l’essere
e l’ente”25; da un altro punto di vista,
Appena si parla di esser-presente, l’immaginazione corre a un essente-presente. Così l’esser-presente come tale non risulta distinto dall’essente-presente
ed è risolto nel più universale e nel più alto degli essenti-presenti, cioè in un
essente-presente. Cade così nell’oblio l’essenza dell’esser-presente e con essa
la differenza fra esser-presente ed essente presente26.
Tra l’essere e l’ente sussiste, dunque, una differenza, che però tende a
dileguare per il risolversi dell’essere nell’ente. Si tratta, quindi, di una
relazione veramente particolare, perché in essa la differenza tra i termini
viene bensì mantenuta, come in ogni altra relazione, ma anche tolta,
perché un termine, l’essere, scompare e si risolve nell’altro termine,
cioè l’ente.
Con le parole che seguono Heidegger esprime la peculiarità di questa
relazione: “La relazione all’essente-presente, che occupa l’essenza
stessa dell’esser-presente, è assolutamente unica. È irraffrontabile con
qualsiasi altra relazione. Rientra nell’unicità dell’essere stesso”27.
Ciò significa che non v’è una relazione tra l’essere e il suo relazionarsi: l’essere è tutto in questo relazionarsi. La conseguenza è duplice.
Innanzi tutto, questo relazionarsi non può venire inteso nella forma del
costrutto mono-diadico, che ridurrebbe l’essere a termine, dunque ad
24
Ivi, p. 340.
Ibidem.
26
Ibidem.
27
Ivi, p. 342.
25
30
Sul riduzionismo
ente. L’essere, più precisamente, non è neppure quell’ente particolare
che ingloba tutti gli altri: il “più alto degli essenti-presenti”28.
L’essere è il suo relazionarsi e tale coincidenza viene ribadita con
forza da Heidegger: “l’essere stesso sussiste [west] come relazione
all’essente-presente, relazione che investe l’essente-presente in quanto
tale e così lo man-tiene: τὸ χρεών”29.
La seconda conseguenza ci sembra non possa non essere questa: se
l’essere è inteso come il suo stesso relazionarsi, allora esso non può
valere quale assoluto. L’assoluto, infatti, è la negazione in atto di ogni
vincolo (rapporto) ad altro da sé, così che risolvere l’essere nel relazionarsi – o nella “relazione”, per usare le parole di Heidegger – riduce
l’essere a funzione dell’ente.
Qui ci sentiamo di dover svolgere una nostra prima considerazione.
A nostro giudizio, infatti, è necessario capovolgere il discorso di Heidegger e affermare che il relazionarsi dell’essere all’ente è ciò che
l’ente richiede: l’ente richiede l’essere quale proprio fondamento e lo
richiede nella forma di un essere che dovrebbe relazionarsi all’ente,
onde poterlo fondare. Questa, per lo meno, ci sembra l’esigenza
dell’ente; la domanda da porre è: l’esigenza dell’ente può coesistere con
l’autentico modo di intendere l’essere?
Notiamo che il relazionarsi all’ente non può di certo venire considerato l’intrinseco essere dell’essere e ciò non soltanto perché, come
detto, l’essere si risolverebbe nel suo volgersi all’ente, ma inoltre l’ente
assumerebbe il valore di ciò verso cui l’essere si protende, in modo tale
che si produrrebbe una significativa inversione nella loro priorità.
In questo caso, ciò che verrebbe radicalmente negato sarebbe proprio
l’assolutezza dell’essere. Verrebbe negata, insomma, quell’assolutezza
che invece esclude radicalmente ogni relazione estrinseca dell’essere
nonché ogni sua relazione intrinseca.
Che è come dire: pensare l’essere come il relazionarsi all’ente è il
modo in cui l’ente pensa l’essere, cioè il configurarsi dell’essere a muovere dalla prospettiva dell’ente, che coincide con ciò che l’ente postula.
Il modo di considerare l’essere da parte dell’ente, pertanto, non può
di certo coincidere con l’essere autentico dell’essere, che è tale solo in
virtù del suo trascendere ogni relazione e, dunque, ogni determinazione.
28
29
Ivi, p. 340.
Ivi, p. 343.
I. La
concezione metafisica di Anassimandro […]
31
1.4. La riduzione dell’essere ad ente
Ciò che vorremmo risultasse con chiarezza da quello che siamo andati
dicendo è quanto segue: se l’essere viene pensato nel modo in cui lo
pensa Heidegger, allora solo apparentemente si evita la riduzione
dell’essere ad ente. Sembra che la si eviti, dal momento che non si costruisce la relazione tra di essi e così, per lo meno, si evita di ridurre
l’essere a termine di una relazione, cioè a determinato.
Se non che, ciò che si perde è proprio l’assolutezza dell’essere, dal
momento che l’essere stesso viene risolto nella relazione. Quest’ultima,
ancorché intesa come l’atto del relazionarsi, impone all’essere il riferimento a quella differenza, che non può non negare la sua assolutezza.
Anche per questa via, dunque, si finisce per entificare l’essere e ciò
non fa che riproporre la forma fondamentale del riduzionismo teoretico:
in fondo, assumere il fondamento come cominciamento coincide con
l’assumere l’essere come ente.
In entrambi i casi, ciò che dovrebbe valere quale assoluto (l’essere),
poiché solo in quanto assoluto emerge oltre l’ordine dei determinati,
che sono insufficienti a sé stessi, a rigore viene ridotto a relativo, cioè
a una determinazione (ente), la quale, proprio in quanto tale, è insufficiente a sé come ogni altra determinazione e per questo non può valere
quale fondamento (essere)
Per le ragioni addotte, a nostro giudizio non l’essere, ma l’ente si
deve risolvere nell’atto del suo relazionarsi. Anticipiamo qui, in forma
cursoria, le ragioni che ci spingono a formulare questa affermazione,
riservandoci di approfondire il discorso più avanti.
Riteniamo – come abbiamo già anticipato – che la relazione coincida
con il limite stesso e, pertanto, non crediamo si possa attribuire
all’ἄπειρον un limite esterno, che lo vincolerebbe a qualcosa di diverso
da esso, né un limite interno, cioè una relazione intrinseca, che imporrebbe all’illimitato una struttura, così che esso verrebbe ridotto a un
“tutto-di-parti”, a un “insieme” di determinazioni.
Eppure, almeno secondo molti commentatori, in questo modo – cioè
come dotato di una relazione intrinseca o estrinseca – lo intenderebbe
lo stesso Anassimandro. Scrive, infatti, Diogene Laerzio (II, 1-2):
“Anassimandro […] affermava che l’infinito è principio ed elemento
<delle cose>, senza definirlo aria, acqua, o qualcos’altro. E <diceva>
32
Sul riduzionismo
che mutano le parti, ma che il tutto è immutabile”30, come se, appunto,
l’infinito fosse riducibile a un tutto-di-parti.
Lo stesso Simplicio, come abbiamo visto, afferma che Anassimandro fa derivare tutto ciò che esiste dall’infinito, così che la relazione di
derivazione finirebbe per vincolarlo alle cose che esistono. Plutarco
scrive: “egli dice, infatti, che dall’infinito si sono separati tanto i cieli,
quanto, nel loro insieme, tutti i mondi, che sono infiniti”31 e lo stesso
concetto viene ripetuto da Hippolytus32.
Recentemente, Chiurazzi ha espresso in forma molto chiara questa
concezione. In Tempo e giustizia: sulla lettura heideggeriana di Anassimandro, egli interpreta l’ápeiron “platonicamente”, cioè sulla base
del Cratilo (396 a-b) e del Politico (273-274) e, riprendendo proprio un
passo del Politico (373 d), egli scrive:
Per questo, di tanto in tanto, il dio torna in suo aiuto, per evitare che il cosmo
sprofondi “nel mare infinito (ápeiron) della disuguaglianza”, rimette le cose in
sesto, le riaggiusta, lo raddrizza, lo riordina, lo riporta cioè nella giusta direzione, controbilanciando le sue deviazioni33.
L’ápeiron, quindi, viene pensato come un infinito strutturato di determinazioni, che si oppongono le une alle altre. Del resto, anche Casertano, nell’opera I Presocratici, intende l’ápeiron di Anassimandro nel
senso di un “infinito” che, tuttavia, si struttura di determinazioni:
Anassimandro concepì l’universo come un tutto unico ed eterno, immobile in
sé stesso, e lo chiamò ápeiron (“infinito” o “indefinito”), perché non era possibile pensarlo in termini di fenomeni particolari. Ma all’interno dell’ápeiron,
grazie a un movimento anch’esso eterno, si produce l’infinita varietà dei fenomeni particolari, cioè dei péirata (“fenomeni finiti”, “limitati”: da péiras, che
vuol dire appunto “limite”), dei mondi infiniti che costellano l’universo e,
all’interno di ciascuno di essi, dei monti, dei fiumi, dei venti, dei mari, delle
specie viventi e dell’uomo34.
30
G. REALE (a cura di), I Presocratici, cit., p. 179.
Ivi, p. 183.
32
Cfr. HIPPOL., Ref. I, 6, 1-7 (D. 559 W. 10); in G. REALE (a cura di), I Presocratici, cit.,
pp. 184-185.
33
G. CHIURAZZI, «Tempo e giustizia: sulla lettura heideggeriana di Anassimandro», Etica
& Politica, XI (1), 2009, p. 13.
34
G. CASERTANO, I Presocratici, Carocci, Roma 2009, p. 46.
31
I. La
concezione metafisica di Anassimandro […]
33
Il problema teoretico fondamentale è, pertanto, quello di pensare proprio il rapporto che sussiste tra l’infinito e i determinati, cioè tra il principio incondizionato e la serie dei condizionati.
Orbene, a noi sembra quanto mai significativo che i commentatori di
Anassimandro, incluso – come vedremo – Severino, non abbiano colto
l’aspetto che costituisce il cuore del suo pensiero: per Anassimandro
non può esservi relazione (limite) all’interno dell’assoluto né al suo
esterno.
Pensare alla derivazione delle cose dall’infinito, però, non può non
significare l’ammettere una relazione (un limite) tra l’assoluto e il relativo (la “derivazione” si pone per sua natura come “relazione”) e pensare l’assoluto come un tutto-di-parti riproduce il medesimo problema,
cioè ammettere una relazione nell’assoluto.
Tuttavia, non vogliamo anticipare troppo la posizione di cui ci facciamo portavoce, perché preferiamo prima esporre la posizione di Severino, la quale ci sembra riproponga quella valorizzazione della relazione, che è propria anche di Heidegger. E la valorizzazione della relazione non può non mettere capo alla forma fondamentale del riduzionismo teoretico, giacché vale come la relativizzazione stessa dell’assoluto.
1.5. Il riduzionismo teoretico presente nell’interpretazione di Severino
Nel saggio “La parola di Anassimandro”, che compare in Essenza del
nichilismo35, Severino muove proprio dal concetto di “tutto” e afferma
che “i Greci hanno reso per primi testimonianza al tutto, cioè a quella
dimensione di cose e vicende e mondi che non lascia nulla fuori di sé”36.
Due notazioni. La prima: come si vede, con il concetto di “tutto”
anche Severino intende il tutto-di-parti, l’insieme, non l’intero, il quale
è intero proprio perché non è scomponibile. La seconda: cosa intende
dire allorché afferma che il tutto “non lascia nulla fuori di sé”? Che
nemmeno il nulla è lasciato fuori dal tutto e ciò verrà confermato da
quanto egli dirà più avanti, allorché affermerà che l’unità ospitale
dell’essere è quella che accoglie il nulla.
35
E. SEVERINO, «La parola di Anassimandro», in ID., Essenza del nichilismo, Paideia, Brescia 1972, pp. 465-491.
36
Ivi, p. 468.
34
Sul riduzionismo
Per questa via, il nulla diventa in qualche modo “essente”, come già
egli aveva anticipato ne La struttura originaria, precisamente nel IV
Capitolo intitolato “L’aporetica del nulla e il suo risolvimento”, dove si
afferma che “Il presentarsi del nulla non attesta che ‘nulla’ significa
‘essere’; ma che il ‘nulla’, significante come nulla, è”37.
Ne “La parola di Anassimandro”, Severino prosegue affermando che
il tutto è bensì scoperto dal mito, ma è solo con il logos che viene determinato, perché le differenze vengono mediante esso riconosciute e
vengono inoltre ricomprese “nell’orizzonte dell’intero”38, che per Severino coincide con il tutto.
Il logos, più radicalmente, non soltanto coglie le differenze, ma altresì coglie l’identico (il medesimo) che sussiste in ciascuna di esse.
Proprio su questa “identità dei diversi” Severino incentra la sua attenzione, per affermare che in essa si esprime una “preziosa ambiguità”:
“l’identità del diverso è originariamente avvolta in una preziosa ambiguità, ond’essa si pone ad un tempo come principio unificatore e come
grembo da cui le cose si generano e in cui ritornano”39.
Il passo è capitale. Severino, non di meno, lo specifica ulteriormente
e afferma:
E tale ambiguità investe il modo in cui lo stesso grembo delle cose è pensato,
giacché per un verso esso è l’orizzonte assoluto che non lascia nulla fuori di
sé, ma, per altro verso, appunto come grembo, è un lasciar uscire il mondo da
sé40.
Il senso del discorso è il seguente: il fondamento, da un certo punto di
vista, deve venire pensato come στοιχεῖον, cioè come “elemento”; da
un altro punto di vista, come ἀρχή, cioè come principio. In quanto elemento, si tratta di ciò che è presente in tutte le cose, ossia come
quell’unità alla quale la molteplicità delle cose può venire ridotta/ricondotta; in quanto principio, esso è il grembo da cui nasce il mondo,
cioè vale come la genesi di tutte le cose.
37
E. SEVERINO, La struttura originaria, Adelphi, Milano 19812, p. 213; abbiamo trattato
l’“aporetica del nulla” in A. STELLA, Il concetto di «relazione» nell’opera di Severino. A partire
da «La struttura originaria», Guerini e Associati, Milano 2018, pp. 179-255.
38
E. SEVERINO, «La parola di Anassimandro», cit., p. 471.
39
Ibidem.
40
Ibidem.
I. La
concezione metafisica di Anassimandro […]
35
Per Severino, insomma, l’ἄπειρον di Anassimandro fonde in sé i due
aspetti indicati. Vale come elemento, per la ragione che, essendo indeterminato, non si sostituisce alle determinazioni, ma di ognuna costituisce l’essenza, che è comune a tutte. Vale come principio, per la ragione
che “l’ἄπειρον è l’onniavvolgente orizzonte dell’intero, ma è anche ciò
che, in tale orizzonte, emerge sulle altre cose e si pone come loro
grembo e guida”41.
Inoltre, l’ἄπειρον ha un enorme valore anche per un aspetto ulteriore:
ha un ruolo estremamente significativo per la concezione del principio
che verrà poi espressa da Eraclito. Severino, infatti, sostiene che Eraclito prende avvio proprio dall’ἄπειρον di Anassimandro e il suo obiettivo è determinarlo:
Eraclito interpreta il senso dell’indeterminato anassimandreo, di cui, pur sapendo che non è qualcosa di particolare, si deve pur sempre stabilire “che cosa
sia” […]. Se ogni cosa è limitata e determinata, l’indeterminato che è comune
ad ogni cosa è appunto questo stare, da parte di ognuna, nel limite, nella determinazione e dunque nell’opposizione, ossia in quella tensione in cui consiste
il πόλεμος42.
Il punto è davvero cruciale: per Severino, Eraclito porta a compimento
il pensiero di Anassimandro valorizzando l’opposizione, la quale è la
tensione che sussiste tra gli opposti, quella che lo stesso Severino definisce, ne La struttura originaria, l’unità del molteplice:
La struttura originaria è l’essenza del fondamento. In questo senso, è la struttura anapodittica del sapere – l’ἀρχὴ τῆς γνώσεως – e cioè lo strutturarsi della
principialità, o dell’immediatezza. Ciò importa che l’essenza del fondamento
non sia un che di semplice, ma una complessità, o l’unità di un molteplice43.
Il concetto di opposizione, e questo ci sembra un aspetto decisivo
nell’economia del presente discorso, viene assimilato da Severino al
concetto di limite e ciò per una ragione precisa: il limite si pone come
relazione tra distinti, i quali si distinguono in forza del limite che li
divide e, nel dividerli, per un verso li oppone, per l’altro li congiunge.
41
Ivi, pp. 473-474.
Ivi, pp. 477.
43
E. SEVERINO, La struttura originaria, cit., p. 107.
42
36
Sul riduzionismo
In fondo, il limite altro non è che la relazione, la quale congiunge
perché distingue (oppone) e distingue perché congiunge. Severino sottolinea il valore di questa duplice funzione svolta dal limite: indubbiamente, il limite consente di identificare perché oppone l’identico al diverso. Se non che, ciò che a nostro giudizio emerge dai Frammenti di
Anassimandro è precisamente il limite di ciò che è fatto essere dal limite.
Detto con altre parole: per Anassimandro – questa almeno è la nostra
interpretazione – ciò che è fatto essere dal limite non è sufficiente a sé
stesso e per questa ragione vale come domanda di un fondamento che
possa legittimarlo. Il de-terminato (de-limitato) è insufficiente a sé perché riesce a porsi solo in forza della differenza, come vedremo meglio
nel settimo paragrafo del presente capitolo.
Ma il fondamento non può venire ricercato in un altro determinato,
per la ragione che anche questo è fatto essere dal limite. Se si ricercasse
il fondamento pensando di trovarlo in un altro determinato, allora non
si potrebbe evitare il regressus in indefinitum e non si perverrebbe a una
fondazione autentica. Quest’ultima, infatti, può venire individuata solo
in ciò che non è fatto essere dal limite: nell’illimitato, cioè nell’assoluto.
A noi sembra, quindi, che l’ἄπειρον di Anassimandro introduca
all’essere di Parmenide, cioè all’assoluto essere che non può contrapporsi al non-essere sia per la ragione rappresentata dalla sua assolutezza
sia per la ragione che il non-essere non è e non può mai essere. Si potrebbe anzi dire che l’assolutezza dell’essere è tutt’uno con il non essere
del non-essere.
Di contro, l’interpretazione di Severino intende lo stesso essere di
Parmenide come necessitante di un fondamento. Il fondamento sarebbe,
appunto, l’opposizione di essere e non-essere:
Alla verità dell’essere appartiene l’opposizione dell’essere e del nulla […] nel
senso che, quando si dice che nulla resiste all’essere, l’essere lo si pensa nella
sua relazione al nulla, e in questa relazione prende significato44.
A nostro giudizio, ciò costituisce la più radicale negazione del pensiero
di Parmenide. Affermare il primato della relazione oppositiva, infatti,
significa decretare il contraddittorio essere del non-essere e, inoltre, significa intendere la contraddizione come qualcosa-che-è, laddove essa
44
E. SEVERINO, «Ritornare a Parmenide», in ID., Essenza del nichilismo, cit., p. 36.
I. La
concezione metafisica di Anassimandro […]
37
è il suo stesso contraddirsi45. Questo tema verrà ripreso quando parleremo di Parmenide e del parricidio tentato da Platone.
1.6. La relazione oppositiva come fondamento e il riduzionismo
che ne consegue
Tornando al saggio su Anassimandro, rileviamo che Severino riprende
il primato dell’opposizione e lo fa innanzi tutto ribadendo con forza il
valore del πόλεμος in ordine alla costituzione del positivo, cioè dell’essere: “Il polemos è lo stesso strutturarsi del positivo; ossia il positivo,
l’essere esiste e si manifesta solo nell’opposizione, sì che l’annullamento di questa sarebbe lo stesso annullamento dell’essere”46.
In secondo luogo, allorché egli sottolinea che la giustizia coincide
con la guerra:
la giustizia è la guerra e che l’ingiustizia è quell’uscire dall’opposizione,
quell’isolarsi del finito, che, nell’atto stesso del suo prevaricare distogliendosi
dalla relazione, insieme si isola dall’essere e lo abbandona”47.
In tal modo, Severino fa della relazione l’autentico fondamento: la relazione, infatti, non soltanto costituisce l’essenza dell’opposizione, ma
altresì è ciò che fonda il finito perché lo vincola all’infinito, come se un
infinito vincolato al finito (un essere vincolato agli enti) non venisse
esso stesso entificato, cioè negato nella sua infinitezza.
In terzo luogo, infine, Severino introduce il concetto di “unità ospitale degli opposti”, che varrebbe come “l’armonia nascosta [che] è il
trascendentale”48. Anche quando nel mondo (quello in cui vige l’armonia manifesta, cioè il divenire delle cose) “il positivo si ingorga e viene
all’esistenza escludendo l’esistenza dell’opposto: anche in questo caso
sussiste la relazione trascendentale all’opposto, il quale dunque è sempre vivo”49.
45
Abbiamo trattato il tema in A. STELLA, «Contraddizione e contraddirsi in Severino: alcune riflessioni critiche», Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, CVI (1), 2014, pp. 751-782 e lo
abbiamo ripreso in ID., Il concetto di «relazione» nell’opera di Severino. A partire da «La struttura originaria», cit., pp. 215-255.
46
E. SEVERINO, «La parola di Anassimandro», cit., 477.
47
Ivi, p. 478.
48
Ivi, p. 482.
49
Ibidem.
38
Sul riduzionismo
La relazione trascendentale è ciò che vincola l’ente che nasce e
muore all’universo che, invece, lo accoglie eternamente, perché lo include in quella unità ospitale dalla quale il non-essere non è mai
escluso:
In questa unità gli opposti sono tutti egualmente ospitati; essa è appunto quella
dimensione ospitale dell’essere, in cui l’essere è in tutta la sua pienezza e non
è costretto a morire per vivere […]. Pertanto: ogni positivo esiste solo nell’opposizione; e l’opposizione è il trascendentale50.
Per ricapitolare il suo discorso, Severino spiega in che senso va mantenuta quella “ambiguità preziosa” di cui ha più volte parlato. Non si deve
solo considerare l’ordine in cui l’essere si concilia con il non-essere
nell’unità originaria degli opposti: questa costituisce l’armonia nascosta. Tale armonia nascosta va conciliata con l’armonia manifesta – che
deve, quindi, essere considerata essa stessa –, nella quale si realizza il
divenire:
Ciò significa che l’originaria unità ospitale degli opposti (l’armonia nascosta)
si aliena nel mondo inospitale del divenire, dove un aroma può far sentire il
suo profumo solo se altri profumi restano smorzati; e cioè dove le cose vivono
solo se altre muoiono. Questa alienazione dell’unità originaria del positivo è
quello stesso sbocciare dell’unità, quel suo stesso aprirsi nell’opposizione, di
cui parla Anassimandro, per il quale […] sussiste […] un separarsi dei contrari
a partire dall’unità che già li contiene. L’unità degli opposti è già pensata da
Anassimandro51.
Nell’unità ospitale degli opposti, dunque, le determinazioni sussisterebbero tutte insieme: questo sarebbe il tutto che funge da fondamento. In
esso, le determinazioni si opporrebbero le une alle altre, ma coesistendo. Anzi, per Severino è in virtù della relazione oppositiva che le
cose possono sia determinarsi sia vincolarsi reciprocamente.
Quando l’unità ospitale si aliena, allora le determinazioni esistono
non più come distinte e, insieme, come unificate, bensì come separate,
così che viene a configurarsi il mondo ordinario, quello nel quale vige
il divenire: “il mondo inospitale delle opposizioni”52.
50
Ivi, p. 483.
Ibidem.
52
Ibidem.
51
I. La
concezione metafisica di Anassimandro […]
39
Severino non si stanca di ribadire questo nodo: “Nell’unità [ospitale]
preesistono gli opposti, in cui l’uno si apre: proprio per questa preesistenza l’uno non è unità vuota, ma già colma di tutto ciò che nel mondo
si oppone. Questo è il pensiero di Anassimandro”53. E aggiunge:
Se l’unità originaria dell’opposizione è già pensiero di Anassimandro, l’essenzialità dell’opposizione affinché l’unità si costituisca è il pensiero di Eraclito.
[…] E resta fermo […] che la proibizione parmenidea che la giustizia disciolga
i legami dell’essere proibisce quello sbocciare dell’uno, che è appunto il comune pensiero di Eraclito e di Anassimandro54 .
Parmenide, secondo Severino, proibisce quello sbocciare dell’uno che
dà origine al mondo.
Il famoso ritorno di Severino a Parmenide si rivela, così, la più radicale negazione del pensiero dell’Eleate, proprio per la ragione che,
mentre Parmenide intende affermare che oltre l’essere nulla è, stante
che il non-essere non può mai essere e il nulla coincide con il non-essere
stesso, di contro Severino, a muovere dal parricidio di Parmenide tentato da Platone, intende affermare non soltanto la verità dell’esperienza,
ma soprattutto il primato della relazione sull’essere, in modo tale che
l’essere si fonderebbe sull’opposizione (che è una relazione negativa)
di essere e non-essere.
Ciò, a nostro giudizio, non può non configurare una concezione radicalmente riduzionistica dell’essere, sia perché quest’ultimo viene inteso come termine che si pone nella relazione al non-essere, decretando
in tal modo l’essere del non-essere, sia perché l’intero – che a rigore
non può non coincidere con l’essere – viene inteso come un insieme,
come un tutto-di-parti, e non come l’unità che è propria dell’assoluto e
dell’assoluto soltanto (appunto, dell’essere).
Del resto, la riduzione dell’unità a unificazione, o a sintesi o a relazione, costituisce il senso stesso de La struttura originaria, come abbiamo cercato di dimostrare nei lavori dedicati a quest’opera55.
Aggiungiamo due considerazioni. La prima concerne il punto del
Frammento n. 1 di Anassimandro in cui si afferma quanto segue: “Là
53
Ivi, p. 484.
Ivi, p. 485.
55
Cfr. A. STELLA, Il concetto di «relazione» nell’opera di Severino. A partire da «La struttura originaria», già citato e ID., «Metafisica originaria» in Severino. Precisazioni preliminari
e approfondimenti tematici, Guerini e Associati, Milano 2019.
54
40
Sul riduzionismo
da dove le cose hanno il loro nascimento, debbono anche andare a finire, secondo la necessità” (la traduzione è quella di Heidegger)56.
A noi sembra fondamentale precisare cosa si intenda allorché si dice
“Là da dove (ἐξ ὧν)”. Le interpretazioni dell’infinito, e della genesi da
esso delle molteplici cose del mondo, che vengono offerte da Heidegger
e da Severino non differiscono da quella che potremmo considerare
l’opinione comune (la mera doxa), che può venire espressa da queste
parole di Aristotele: “Per questo diciamo che di esso [dell’infinito, appunto] non c’è principio, ma che risulta essere esso stesso principio
delle altre cose, e comprenderle tutte e tutte governarle”57.
Come abbiamo già detto, ma riteniamo opportuno ripeterlo, il passo
di Aristotele ci sembra molto significativo, perché in esso si danno per
scontate due relazioni: sia quella che sussisterebbe tra l’infinito e il finito sia quella che costituirebbe l’intrinseca struttura dell’infinito.
Se, infatti, l’infinito “comprende” e “governa” le cose, allora esso si
articola al suo interno, dunque prevede una struttura intrinseca. Precisamente a muovere da questo articolarsi intrinseco del principio (fondamento) è possibile configurare la cosiddetta via discendente.
In altre parole: proprio per la ragione che l’uno è in sé già due, la
derivazione del molteplice dall’uno risulta possibile. Se non che, il
prezzo da pagare per legittimare il mondo è introdurre la contraddizione nell’uno, ossia nel fondamento: assumerlo, cioè, come se non
fosse soltanto uno, ma insieme uno et due.
Potremmo dire, per seguire il nostro discorso sul riduzionismo teoretico, che la via discendente origina in forza della riduzione dell’unità
a unificazione, cioè in forza della riduzione dell’uno a relazione: in
quest’ultima vige bensì un momento unificante, ma l’unità che in essa
si viene a configurare non è mai dissolutiva della differenza, dunque
della dualità.
Proprio perché continua a poggiare sulla differenza (dualità), l’unificazione è una relazione e lo è nella forma del costrutto mono-diadico:
due termini estremi (i differenti) e un medio che li unisce (unifica, ma
senza trascenderli; mantenendoli, dunque, come due).
56
M. HEIDEGGER, «Il detto di Anassimandro», cit., p. 299.
ARISTOTELE, Phys. Γ 4, 203 b 6; la traduzione riportata è quella che compare in G. REALE
(a cura di), I Presocratici, cit., p 187.
57
I. La
concezione metafisica di Anassimandro […]
41
La seconda considerazione è la seguente: affermando che il principio
di esperienza è vero tanto quanto il principio di ragione, ci sembra che
si finisca per ricadere in un naturalismo, che potremmo definire anomalo58 per il fatto che non approda ad un vero e proprio fisicalismo.
Di un naturalismo, tuttavia, si tratta, stante il fatto che l’essere viene
ridotto ad ente, il quale per sua costituzione intrinseca si inscrive
nell’ontologia naturale, e cioè nell’ontologia ordinaria, e ciò consegue
dall’incapacità di riconoscere che la dimensione ontologica autentica
non può non coincidere con l’essere e con l’essere soltanto.
È ben vero che Severino eternizza l’ente e, dunque, in qualche modo
lo assolutizza, ma ciò non comporta il superamento della sua determinatezza, dunque il trascendimento del limite che lo costituisce. Il limite,
insomma, non può essere solo spaziale, ma deve essere anche temporale, se si tratta di un ente naturale.
La domanda che, pertanto, si impone è la seguente: come si è potuti
arrivare all’assolutizzazione dell’ente, muovendo dal pensiero di Anassimandro, che invece inferisce la necessità dell’illimitato (assoluto)
dall’insufficienza a sé dell’ente stesso?
1.7. Anassimandro e il concetto di limite
Per rispondere alla domanda, ci proponiamo di ipotizzare il ragionamento svolto da Anassimandro per pervenire al concetto di ἄπειρον.
Tale ragionamento permane implicito, così che renderlo esplicito può
avere una funzione rilevante. In effetti, abbiamo già iniziato a esplicitare tale ragionamento, ma solo in forma rapida, così che si rende necessario un ulteriore approfondimento.
Il primo punto da mettere in luce è che, nel parlare di ἄπειρον, Anassimandro intende evidenziare proprio quella differenza ontologica che
sussiste tra il fondamento incondizionato, dunque assoluto, e la serie
dei condizionati.
Il nodo cruciale consiste nell’intendere bene tale concetto e cioè se
la differenza debba venire pensata come una relazione negativa. Questo
tema riguarda principalmente Heidegger, ma impone un più generale
ripensamento del tema del fondamento.
58
Usiamo l’aggettivo “anomalo” tenendo presente l’espressione “monismo anomalo” usata
da Donald Davidson.
42
Sul riduzionismo
Per quanto riguarda Severino, il nodo cruciale concerne sempre la
relazione, pensata sia nella forma della differenza sia nella forma
dell’unificazione. Che è come dire: Severino parla di “unità” e fa riferimento all’unità dei contrari; se non che, è da domandarsi se egli faccia
valere l’effettiva unità (l’unità che impone il togliersi della dualità) o,
al contrario, non riduca l’unità a unificazione.
Il grande merito di Anassimandro, per lo meno a nostro giudizio, è
quello di avere vincolato il tema del fondamento al tema del limite. Per
questa ragione, cercheremo di affrontare entrambi i temi, onde riuscire
a chiarirli adeguatamente, così da precisare ulteriormente il nostro
punto di vista in ordine alle posizioni di Heidegger e di Severino.
Ripartiamo, dunque, da Anassimandro. La sua geniale intuizione
consiste nell’aver colto l’insufficienza di ciò che è limitato, finito, determinato. Come è possibile dimostrare tale insufficienza? Evidenziando la caratteristica di quel limite che consente alla determinazione
di porsi.
Il concetto di “limite” esprime ciò che esprime il concetto di “relazione”, proprio perché si pone come medio tra estremi. Di esso, infatti,
vanno individuate due facce. Se si prende una determinazione, e la si
connota come “A”, allora non si potrà non rilevare che ciò che de-termina “A”, ossia ciò che le consente di assumere una forma determinata,
è precisamente il limite che la circoscrive. De-terminare significa, dunque, de-limitare. Ciò vale non solo per le determinazioni sensibili, ma
per ogni identità determinata.
Ebbene, il limite che consente la posizione determinata di “A” non è
fornito solo della faccia che guarda verso “A”, ma anche della faccia
che guarda verso tutto ciò che è “diverso da A”. Il limite, quindi, è il
medio che distingue, ma anche congiunge, “A” e “non-A”, se con “nonA” intendiamo tutto ciò che è “diverso da A”.
Il non che connota “non-A” costituisce, pertanto, una negazione di
distinzione: esso consente di distinguere ciascuna determinazione da
tutte le altre e solo in virtù della funzione distintiva il limite svolge la
funzione identificante.
Il punto nodale, sul quale vorremmo richiamare l’attenzione del lettore, è il seguente: il limite, cioè la relazione, svolge la funzione prioritaria nell’universo dei determinati, cioè nel sistema formale (di qualunque sistema formale si parli). Tale funzione è la funzione identificantedifferenziante.
I. La
concezione metafisica di Anassimandro […]
43
Solitamente, si parla di due funzioni, ma esse sono due solo in ragione del fatto che il linguaggio, il quale configura il sistema formale
per eccellenza, assume l’identità determinata come se non si strutturasse
in forza della differenza.
La funzione identificante, di contro, è in sé differenziante, e viceversa, stante il fatto che si identifica ogni determinazione solo differenziandola da altra determinazione e si differenzia l’una dall’altra solo
identificandole entrambe come “distinte”. Precisamente per questa ragione si può affermare che la relazione, cioè il limite, identifica perché
differenzia e differenzia perché identifica.
Abbiamo riflettuto in altri lavori sullo status delineato dalla relazione ordinaria, cioè dalla relazione intesa come medio tra estremi, la
quale vale come costrutto mono-diadico.
Ebbene, il punto è che tale status, per un verso, postula l’identità dei
relati (termini della relazione) come autonoma e autosufficiente, affinché possa valere come un’identità autentica, effettiva; se non che, per
altro verso, il medesimo status impone che tale identità (che codifichiamo come “A”) valga, insieme ma contraddittoriamente, come
aperta e integrabile, affinché possa vincolarsi all’altra identità (che codifichiamo come “non-A”), la quale contribuisce anch’essa a costituire
la relazione59.
Il costrutto mono-diadico nega, insomma, ciò che postula: postula
l’identità autonoma e autosufficiente di ciò che congiunge – perché solo
così l’identità risulta effettivamente posta e, in quanto posta, può anche
venire codificata –, ma nega tale autosufficienza, perché vincola inscindibilmente l’identico al diverso, stante che il secondo è ciò a cui il primo
non può non riferirsi.
Il tema della relazione, dunque, è intrinsecamente vincolato al tema
dell’identità, la quale, se determinata, non può non postulare la differenza e, quindi, non può non negare la propria autosufficienza.
Il punto che qui vogliamo sottolineare è che, evidenziando il fatto
che ogni identità determinata si pone in forza del limite, Anassimandro
mostra quattro necessità: la necessità che ogni identità determinata si
59
Cfr. A. STELLA, Il concetto di «relazione» nella «Scienza della logica» di Hegel, Guerini
Studio, Milano 1994; ID, La relazione e il valore, Guerini Scientifica, Milano 1995; ID., «Struttura originaria in Severino e mediazione in Hegel: una riflessione sul concetto di relazione»,
Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, CVI (4), 2014, pp. 751-782; ID., «Il concetto di relazione:
costrutto o atto?», Giornale di Metafisica, XXXVI (1), 2014, pp. 259-273.
44
Sul riduzionismo
ponga in relazione alla differenza60; la necessità di pensare questa relazione; la necessità di un fondamento che non sia un’identità determinata; la necessità di riflettere criticamente sulla relazione tra l’universo
delle determinazioni e il loro fondamento.
La prima necessità è stata già pensata allorché abbiamo riflettuto sul
tema dell’identità. Per riflettere sulle altre tre necessità, torniamo al
Frammento n. 1 di Anassimandro, nel punto in cui egli afferma che
l’origine delle cose è anche la loro fine. In generale, tale passo viene
interpretato nel senso che l’ἄπειρον si costituirebbe come l’origine delle
cose nonché come ciò a cui esse ritornano.
Ci chiediamo se questa sia l’unica interpretazione possibile. A noi
sembra che la derivazione (quindi la relazione, cioè la “seconda necessità”) delle cose dall’ἄπειρον possa venire accettata a una sola condizione: che vengano distinti due livelli.
Il primo livello può venire definito dell’innegabile, perché in esso
vige solo ciò che è innegabilmente vero o, se si preferisce, assolutamente vero: il necessario (e siamo così a quella che abbiamo indicato
come “terza necessità”).
L’assolutamente vero non dipende da altro, ma è autonomo e autosufficiente. Solo il fondamento assoluto, pertanto, è assolutamente vero,
così che il livello dell’innegabile si risolve nell’ἄπειρον stesso e risulta
insensato porre una relazione tra il primo livello, quello dell’innegabile,
e il secondo livello, quello dell’inevitabile, nel quale si collocano le determinazioni (dalle quali non si può prescindere, se ci si colloca nell’ordine empirico-formale). Risulta insensato perché, in effetti, soltanto
l’inevitabile si configura come un livello.
Non è corretto, insomma, parlare di livello a proposito dell’innegabile, e, se lo facciamo, è solo per comodità espositiva, cioè per distinguere l’innegabile (il necessario) dall’inevitabile, consapevoli che la
distinzione appartiene a quel livello (l’inevitabile) nel quale si impongono le determinazioni. Che è come dire: consapevoli che la distinzione
60
Ci sembra quanto mai interessante rilevare come, tanto nel calcolo funzionale di primo
ordine (e, in particolare, nel calcolo funzionale di primo ordine con uguaglianza) quanto nei
calcoli funzionali di secondo ordine nonché nell’algebra delle relazioni, l’identità venga intesa
come uguaglianza, la quale è una costante funzionale diadica e viene espressa nella forma di
una relazione: xIy (identità di x et y). Risulta così acclarato che, anche in logica formale, l’identità si struttura mediante la relazione, cioè mediante la differenza.
I. La
concezione metafisica di Anassimandro […]
45
tra innegabile e inevitabile è solo inevitabile, perché dispone in una relazione quel necessario che, invece, emerge innegabilmente oltre di
essa.
Il livello dell’inevitabile, infatti, è quello che si pone in forza della
presupposizione. Se ci si colloca in tale livello, allora non ci si chiede
se il molteplice, che si presenta nell’esperienza, sia vero (innegabile,
necessario), ma lo si assume come se fosse vero, lo si presuppone vero,
così che si avverte soltanto l’esigenza di individuarne la genesi. Altrimenti detto: se si muove dal punto di vista dell’inevitabile, allora
l’ἄπειρον risulta il fondamento da cui origina il molteplice.
Di contro – e questa costituisce quella che abbiamo definito come
“quarta necessità” –, se si riconosce che l’inevitabile deve venire distinto dall’innegabile, allora non si può non pervenire alla consapevolezza che il fondamento, se è autentico, cioè assoluto, non può generare
i determinati, ma al contrario non può non de-assolutizzarli, ossia deve
togliere la loro pretesa di valere come verità.
In altre parole: il determinato non viene legittimato dal fondamento,
come l’ordine formale pretenderebbe, ma viene colto nel limite, che ne
decreta la finitezza. Con questa conseguenza, che investe l’interpretazione di Anassimandro: la genesi del determinato non può venire ravvisata, a rigore, nell’ἄπειρον, ma nel limite: è il limite che pone le cose
ed è sempre il limite che le toglie.
Quando Anassimandro fa riferimento all’origine e alla fine delle
cose (determinazioni), quindi, a nostro giudizio non si riferisce all’infinito, come generalmente si pensa, ma al limite. Il limite, che pone la
singola determinazione (“A”), nel porla le impone di riferirsi alla differenza (“non-A”), così che la relazione non sussiste tra le identità, ma
nella struttura intrinseca di ciascuna di esse.
Poiché la relazione è intrinseca all’identità, ogni “A” è il suo riferirsi
(relazionarsi) ad altro da sé (a “non-A”), in modo tale che non può venire ipostatizzato: ogni determinazione è il suo intrinseco riferirsi
all’estrinseco.
Poiché le determinazioni sono il loro intrinseco riferirsi, la relazione
cessa di valere come un costrutto, cioè come un’ipostasi, e si palesa
come atto: la relazione è l’atto del riferirsi, che costituisce l’essenza
stessa di ogni determinazione. Siamo così tornati a quella che abbiamo
definito come “seconda necessità”, la quale costituisce la condizione di
intelligibilità della terza e della quarta.
46
Sul riduzionismo
Ogni determinazione, pertanto, si rivela non come una res, ma come
un segno: le determinazioni, che costituiscono l’ordine dell’esperienza
(che è poi l’ordine del discorso), valendo ciascuna come il riferirsi ad
altro, in effetti sono segni e l’ἄπειρον è l’unico, autentico significato
cui esse rinviano. Che è come dire: la determinazione è l’atto del suo
trascendersi, così che il suo porsi è tutt’uno con il suo stesso togliersi.
Od anche: la necessità che impone alle determinazioni di trascendersi è la medesima necessità che impone di andare oltre lo stesso “dire”
nonché oltre i suoi “detti”, affinché emerga un fondamento che valga
per la propria effettiva autosufficienza e la propria effettiva autonomia.
Se ci si ferma al fatto che “A” si pone perché si relaziona a “non-A”,
cioè, per esempio, a “B”, e “B” perché si riferisce a “C”, e così via
all’infinito, allora l’ordine formale (il sistema del linguaggio e
dell’esperienza) si rivela non altro che il circolo vizioso del presuppore,
non un’effettiva fondazione.
Il tema che si impone, allora, è quello dell’autentica (effettiva) fondazione e di come essa debba venire intesa, affinché senso e valore
dell’ἄπειρον trovino adeguata specificazione.
1.8. Il tema del fondamento
L’ἄπειρον altro non è che l’espressione con cui Anassimandro denota
il fondamento. Egli definisce il fondamento “illimitato” proprio per la
ragione che abbiamo cercato di indicare nel precedente paragrafo: per
l’insufficienza a sé di ciò che è segnato dal limite, che coincide con
l’impossibilità di ipostatizzare il limite stesso e con la necessità che il
fondamento emerga oltre l’ordine dei limitati (determinati).
Se viene pensato come emergente, allora il fondamento non può venire assunto come se ponesse i determinati, vincolandoli e distinguendoli e formando, in questo modo, un tutto che varrebbe quale insieme
di elementi. A nostro giudizio, questo tutto non può essere il fondamento, precisamente per la ragione che il determinato non è un vero
essere, ma il suo andare oltre sé medesimo.
In tal modo, il fondamento viene colto come la ragione del (la condizione trascendentale che impone il) venir meno del determinato, e
cessa di venire pensato come la posizione di ciò che include tutti i determinati, vincolandosi necessariamente ad essi.
Che è quanto dire: la relazione (il limite) pone bensì il determinato,
ma insieme gli impone di superarsi. Essa, infatti, deve venire intesa
I. La
concezione metafisica di Anassimandro […]
47
come l’atto del relazionarsi del determinato, che significa il trascendere la propria parvente immediatezza.
Anassimandro, dunque, sa che il determinato è insufficiente a sé e,
pertanto, richiede un fondamento che sia autosufficiente. Nell’infinito
(illimitato) di Anassimandro, pertanto, non si può non intravedere l’essere di Parmenide: solo l’essere è veramente, laddove tutto ciò che è
diverso dall’essere è non-essere.
Poiché Anassimandro ricerca un principio che sia autosufficiente,
dunque autolegittimante, esso non è identificabile nel cominciamento
della serie dei condizionati né in un qualche elemento della serie stessa,
ma deve avere valore di fondamento, ossia deve essere di natura diversa
da quella dei suoi fondati.
Coloro, come per esempio Simplicio, che hanno inteso l’infinito o
l’illimitato sia come principio sia come elemento a noi sembra che non
abbiano colto proprio questo aspetto decisivo, e cioè che il fondamento,
se inteso nella sua irriducibilità, nega precisamente di valere come principio o come elemento.
Se valesse come tale, esso apparterrebbe alla serie dei fondati e non
potrebbe più costituirne il fondamento. Per fondare, infatti, deve essere
indipendentemente dalla serie che viene fondata. In caso contrario, la
fondazione si ridurrebbe al circolo della presupposizione.
Anassimandro parla di illimitato o di infinito proprio per indicare la
differenza ontologica che deve sussistere tra fondamento e fondato e
Heidegger ha perfettamente colto questo aspetto.
Se non che, il problema permane. Permane per la ragione che anche
la differenza è una relazione e Heidegger non offre la soluzione affermando che l’essere è il suo stesso relazionarsi agli enti: in questo modo,
infatti, il fondamento si vincola inscindibilmente a ciò che deve unilateralmente fondare e la sua autosufficienza viene meno.
Il problema del fondamento può così venire riassunto: da un certo
punto di vista, il fondamento non può entrare in relazione con i suoi
fondati, poiché la relazione lo riduce a termine e, pertanto, lo riduce a
determinazione, negandone l’infinitezza o l’illimitatezza; da un altro
punto di vista, però, il fondamento non può essere totalmente estraneo
ai suoi fondati, altrimenti non li fonderebbe. Come uscire, allora, da
quella che sembrerebbe un’aporia?
Per indicare la posizione di coloro che collocano il fondamento in
relazione con i fondati – lasciando da parte per un momento Heidegger,
48
Sul riduzionismo
il quale ha ben presente il problema e per questo parla di differenza ontologica, ma non riesce a trovarne la soluzione – potremmo citare Mondolfo, che riflette proprio su Anassimandro a muovere da quanto affermato da Aristotele: “Inoltre – scrive lo Stagirita –, solo se è infinita
l’origine da cui ogni cosa generata è tratta, non cessano la generazione
e la distruzione”61. Aggiunge Mondolfo:
E come infinita nell’una e nell’altra estensione deve essere la fonte della generazione, così infiniti in entrambi i sensi devono essere il suo potere e la sua
azione generativa. […] e la φύσις indifferenziata, cioè indefinita e infinita al
tempo stesso, è per ciò appunto soggetto di infinita generazione: in quanto è
insieme infinita durata e infinita estensione di principio generatore. Ed ecco,
pertanto, l’infinità spaziale inseparabile dalla infinità temporale, come condizione dal condizionato62.
In questa concezione, condizione e condizionato sono, dunque, in relazione reciproca, essendo reciprocamente inseparabili. Se non che, in tal
modo la “condizione” non può valere per la sua autosufficienza, dunque
per la sua assolutezza: non può essere condizione incondizionata.
La relazione, questo è il nodo teoretico, non soltanto riduce a determinato anche ciò che si richiede come irriducibile a determinazione, e
ciò proprio in ragione del suo includerlo come proprio termine, ma altresì implica un aspetto di simmetria tra i termini che impedisce l’effettiva emergenza di uno di essi, anche quando si parla di relazione asimmetrica.
Orbene, l’interpretazione che Severino dà dell’illimitato di Anassimandro non si allontana da quella di Mondolfo, perché porre l’opposizione come fondamento o fare dell’unità un’“unità ospitale” (una unificazione), nel senso dell’intenderla come sintesi di essere e non-essere,
equivale precisamente a riproporre la relazione come fondamento,
senza avvedersi che essa dispone orizzontalmente i suoi relati, laddove
il fondamento non può non emergere (verticalmente) oltre i fondati
stessi.
61
ARISTOTELE, Phys. Γ 4, 203 b 6; la traduzione riportata è quella che compare in G. REALE
(a cura di), I Presocratici, cit., p 187.
62
R. MONDOLFO, L’infinito nel pensiero dell’antichità classica, Bompiani, Milano 2012,
pp. 296-297. Ricordiamo che l’opera di Mondolfo è stata edita una prima volta, con il titolo
L’infinito nel pensiero dei greci, da Le Monnier nel 1934, e una seconda volta da La Nuova
Italia nel 1956.
I. La
concezione metafisica di Anassimandro […]
49
Assumere, inoltre, la relazione come se essa fosse il fondamento
decreta la riduzione della fondazione al circolo della presupposizione:
se i termini ci sono perché c’è la relazione, reciprocamente e scambievolmente la relazione c’è perché ci sono i termini, all’infinito.
E la riduzione del fondamento a presupposto, lo ribadiamo anche
qui, è la forma principale con cui si esprime il riduzionismo teoretico,
ma anche quella che sta alla base di ogni riduzione teorica.
1.9. L’emergenza del fondamento
Per risolvere il problema del fondamento se ne deve, allora, comprendere la genesi. Pervenendo a questa conclusione: il fondamento non può
non emergere oltre il sistema che esso fonda.
È così da rilevare che, per un verso, è proprio il sistema dei determinati che richiede il fondamento come assoluto, cioè come irriducibile a
una qualche determinazione. Per altro verso, però, è da considerare anche l’aspetto per il quale il sistema pretende di inglobare il fondamento,
perché solo inglobandolo lo può utilizzare, facendogli svolgere la funzione del fondare.
Il punto è che il valore stesso del fondamento, cioè la sua assolutezza, esclude che esso possa venire utilizzato in funzione del sistema,
cioè possa venire strumentalizzato da quest’ultimo.
Ciò comporta che il sistema vale come il luogo in cui si esprime una
duplice e contraddittoria esigenza: l’esigenza di un fondamento che
emerga incoercibilmente e irriducibilmente sulla serie dei condizionati
e l’esigenza di una sua utilizzazione, che finisce per contraddire la prima
esigenza, perché riduce a un elemento immanente al sistema ciò che il
sistema stesso richiede come trascendente (irriducibile).
Tuttavia, tale contraddizione non viene rilevata da coloro che assolutizzano il sistema, perché non si accorgono che così negano necessariamente il valore del fondamento.
Di contro, se la contraddizione viene rilevata, allora ciò significa che
il limite del sistema è stato colto, così che esso, in una qualche misura,
è stato trasceso.
Inoltre, viene colto anche un altro aspetto decisivo: il fondamento
non è soltanto ciò che viene esigito da altro da sé, ma è il suo essere in
sé stesso, cioè il suo non dipendere da altro per essere.
50
Sul riduzionismo
Il fondamento è l’essere e l’essere non può non essere: non può non
valere come il necessario. Il necessario, d’altra parte, coincide con l’assoluto, poiché l’altro da esso, cioè il non-essere, è il suo stesso contraddirsi, così che solo l’essere veramente (necessariamente) è.
Precisamente per questa ragione, quando si afferma che il fondamento emerge sul sistema dei determinati, si intende affermare che esso
non dipende da ciò su cui emerge, stante che quest’ultimo viene meno
a sé stesso, così che solo il fondamento veramente è.
A nostro giudizio, l’ἄπειρον di Anassimandro costituisce precisamente la condizione incondizionata o assoluta che consente il rilevamento di ogni limite, cioè quella condizione che non può non essere
incondizionata o assoluta per poter consentire il coglimento del limite
del condizionato (relativo).
La condizione del rilevamento, va aggiunto, è la stessa ragione del
toglimento (oltrepassamento) del determinato, così che solo l’assoluto
– lo vogliamo ripetere – si rivela l’autentico essere.
Per questa ragione riteniamo che con Anassimandro si passi da una
concezione sostanzialmente naturalistica a una concezione autenticamente metafisica: proprio con Anassimandro il tema del principio si
traduce per la prima volta nel tema del fondamento.
Poiché il tema del fondamento è vincolato al tema dell’insufficienza
a sé del finito, esso mette capo a un altro formidabile tema: quello della
coscienza.
1.10. Il tema della coscienza
Anassimandro non parla di “coscienza”; se, però, per ἄπειρον si intende
la condizione che consente di rilevare il limite, allora tale condizione
non può non implicare, in una qualche forma, la coscienza.
Solo in virtù di quest’ultima, infatti, il limite può venire colto, perché
solo essa è in grado di oggettivarlo e di trascenderlo. Nel far valere la
differenza ontologica che sussiste tra fondamento e fondati, inoltre, non
si può non intendere che tale differenza venga rilevata essa stessa, così
che la domanda che si impone è se la condizione incondizionata possa
venire identificata proprio con la coscienza.
A nostro giudizio, è ben vero che la coscienza emerge oltre il limite;
se non che, è altrettanto vero che essa si vincola al limite stesso proprio
per poterlo oggettivare. Si potrebbe dire, più precisamente, che, in
I. La
concezione metafisica di Anassimandro […]
51
quanto contenuto della coscienza, il limite impone ad essa quel vincolo
che impedisce di intendere l’assoluto come coscienza.
E tuttavia, la coscienza è anche l’atto dell’oggettivare sé stessa,
come mirabilmente ha espresso Hegel nella Fenomenologia dello spirito:
Ma la coscienza è per se stessa (sich selbst) il suo concetto, ed è quindi, immediatamente, l’atto del sorpassare il limitato (das Hinausgehen über das Beschränkte), e, poiché questo limitato le appartiene, del sorpassare se stessa
(über sich selbst)63.
La coscienza, pertanto, deve venire intesa nella sua duplice dimensione:
come coscienza empirica e come coscienza trascendentale. In questo
secondo caso, essa coincide con l’atto del sorpassare tutto ciò che è limitato, inclusa sé stessa in quanto coscienza empirica. In tal modo, la
coscienza esprime in forma esemplare la traduzione dell’infinito nel finito (della condizione incondizionata nel condizionato).
La coscienza, quindi, non è l’assoluto; tuttavia, in quanto atto, la coscienza è evocata dall’assoluto nonché illuminata da esso e ad esso
orientata.
Solo perché evocata e illuminata dall’assoluto, la coscienza è in
grado di cogliere la finitezza del finito. Secondo la nostra interpretazione, questo concetto costituisce il nodo teoretico cruciale che Anassimandro per primo consegna alla storia del pensiero, indicando nell’illimitato la condizione che consente di rilevare il limite di ogni determinazione.
È ancora Hegel, del resto, che esprime con estrema chiarezza come
debbano venire intesi i concetti di limite e di illimitato:
Qualcosa viene saputo come limitazione, come difetto, […] solo in quanto, al
tempo stesso, si è già oltre di esso. […] Perciò va considerata soltanto come
mancanza di consapevolezza non capire che proprio la definizione di qualcosa
come finito o limitato contiene la dimostrazione della presenza effettivamente
reale dell’infinito, del non limitato64.
63
G.W.F. HEGEL, Phänomenologie des Geistes (1807), in Sämtliche Werke, dritte Auflage
der Jubiläumsausgabe, hrsg. von H. Glockner, Frommann-Holzboog, Stuttgart 1957; trad. it. di
E. De Negri, Fenomenologia dello spirito, vol. I, La Nuova Italia, Firenze 1976, sec. rist. della
sec. ediz. [1960], p. 72.
64
G.W.F. HEGEL, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, in
Sämtliche Werke; trad. it. di V. Verra, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio,
Parte Prima, La scienza della logica, UTET, Torino 1981, p. 223.
52
Sul riduzionismo
Orbene, a noi sembra che ciò che si annuncia nelle parole di Hegel costituisca proprio la soluzione del problema del fondamento, ancorché
troppo spesso egli dimentichi quanto ha affermato nel passo citato sopra
e finisca per identificare il sapere, cioè la coscienza, con l’assoluto
stesso e questa identificazione lo porti a parlare di “sapere assoluto”.
Come potrebbe configurarsi, dunque, tale soluzione? Cerchiamo di
esprimerla per punti essenziali, ricapitolando quanto siamo andati affermando.
Il primo punto è rappresentato dalla consapevolezza che il cominciamento della ricerca è il dato, che per porsi si colloca nel sistema delle
determinazioni. Dal dato non si può prescindere, per la ragione che esso
costituisce il presupposto: se venisse sostituito, verrebbe sostituito da
un altro dato. Poiché ciascun dato è l’implicazione di ogni altro dato, ne
consegue che il sistema delle determinazioni costituisce l’inevitabile
punto di movenza della ricerca.
Il secondo punto è rappresentato dalla consapevolezza che la ricerca
sorge perché il sistema delle determinazioni è insufficiente a sé stesso.
In quanto tale, il sistema cerca un fondamento che sia in grado di legittimarlo come sistema e non può non esigerlo in quanto illimitato, cioè
in quanto emergente oltre il limite, cioè in quanto assoluto. Tale esigenza di fondamento è innegabile, perché la sua negazione richiederebbe un fondamento che possa legittimarla come negazione.
Ebbene, questi due punti sono presenti, anche se in forma spesso implicita, nei brevi frammenti di Anassimandro che ci sono stati tramandati. A muovere da essi, è possibile riflettere ulteriormente sul tema del
fondamento.
Il terzo punto è rappresentato dalla consapevolezza che il fondamento, come abbiamo già anticipato, costituisce l’esigito dal sistema e
non può mai trasformarsi in esatto. Se si desse una soddisfazione fattuale dell’esigenza metafisica, allora il fondamento verrebbe determinato e cesserebbe di valere come assoluto: ciò farebbe decadere la metafisica da esigenza dell’ideale (da esigenza del valore assoluto) a configurazione fattuale.
Il quarto punto è rappresentato dalla consapevolezza che il sistema,
nel ricercare il fondamento, è perennemente sospinto verso di esso,
senza che tale ricerca possa mai venire considerata effettivamente compiuta. In questo senso, il sistema è animato da una intentio veritatis, la
quale impedisce che lo si possa assumere come uno status: il sistema è
I. La
concezione metafisica di Anassimandro […]
53
tensione verso il fondamento, slancio verso di esso, e per questa ragione
non è assolutizzabile.
La consapevolezza del limite, che inesorabilmente costituisce ogni
sistema determinato, si rivela così la sua de-assolutizzazione in atto: il
relativo, in virtù dell’atto di coscienza illuminato dall’assoluto, è colto
come effettivamente è, cioè nel suo limite, così che l’assoluto costituisce la negazione della pretesa del relativo di sostituirsi ad esso o, più
precisamente, la ragione che impone al relativo di negare la propria
pretesa, quella che esso esibisce allorché si presenta come autonomo e
autosufficiente, senza esserlo veramente.
Il quinto punto è rappresentato dalla consapevolezza che il fondamento, per le ragioni offerte, ha valore ideale, ossia costituisce l’ideale
immanente della ricerca. Ha valore ideale, perché non trova un compimento empirico; è immanente, perché la sua assenza è presente nel sistema e costituisce la spinta a ricercare incessantemente.
Che è come dire: l’assoluto non è in relazione con il relativo; la relazione, infatti, si instaura solo tra ciò che è relativo. L’assoluto, non di
meno, funge e opera nel relativo, perché costituisce la condizione che
consente di rilevarlo come relativo nonché la ragione che spinge il relativo oltre sé stesso, appunto verso quell’assoluto che evoca e orienta
la stessa spinta.
Il sesto punto è rappresentato dalla consapevolezza che le determinazioni, per il loro essere rinviando, non possono venire considerate
delle res, cioè non possono venire ipostatizzate, ma vanno intese quali
segni che rinviano all’assoluto, che di tutti i segni empirici costituisce
l’unico significato.
Quest’ultimo, poiché impone alle determinazioni di essere meri segni, vale come necessità: τὸ χρεών. La necessità, dunque, costituisce la
forza dispiegata (messa in atto) dal fondamento, ossia il suo potere deassolutizzante che opera sul (e nel) sistema delle determinazioni e che
coincide con il suo potere evocante e orientante la ricerca.
Il settimo punto è rappresentato dalla consapevolezza del valore
della consapevolezza. Mediante essa il fondamento viene saputo nella
sua necessità e tale sapere è l’espressione più compiuta del potere del
fondamento, anche se non significa avere oggettivato il fondamento.
Ciò che si sa, infatti, non è “cosa è” il fondamento, proprio per la
ragione che il fondamento non è una cosa, una determinazione. Si sa
“che” il fondamento non può non essere e, pertanto, non può non coincidere con l’essere stesso o con l’assoluto. E, proprio perché assoluto,
54
Sul riduzionismo
il fondamento non è oggettivato, valendo piuttosto come la condizione
oggettivante, ossia come la condizione che consente di rilevare il limite
di tutto ciò che assoluto non è.
Orbene, dire tutto ciò dell’assoluto comporta il porsi inevitabilmente
nell’universo del linguaggio, ma con la consapevolezza della necessità
di trascenderlo. Con la consapevolezza, inoltre, che ciò che con la ricerca si trova (una qualunque determinazione) non esaurisce mai ciò
che effettivamente si cerca (il fondamento, l’essere, il necessario): è
proprio la distanza che sussiste tra il cercato e il trovato a rendere la
ricerca inesauribile.
In conclusione: la coscienza è il luogo teoretico nel quale si impone
innegabilmente la necessità di un fondamento che consenta di cogliere
il limite di validità del sistema, cioè dell’inevitabile. Negare tale fondamento significherebbe negare la possibilità stessa di riconoscere il limite e avrebbe come esito la riduzione teoretica prioritaria: dell’assoluto a relativo, che coincide con la riduzione del fondamento a cominciamento.
Ne consegue che innegabilmente (necessariamente) si richiede una
condizione incondizionata che emerga verticalmente oltre il limite e
non si disponga solo orizzontalmente, nella forma di una nuova determinazione.
1.11. Considerazioni conclusive sul valore e sul significato dello
ἄπειρον
Il fondamento, che Anassimandro definisce ἄπειρον, non può venire inteso nella forma di una relazione, la quale altro non è che un circolo: il
circolo del presupporre. Né può esservi relazione tra la condizione incondizionata, che costituisce l’autentico fondamento, e l’universo dei
condizionati. In tal modo, si vincolerebbe al limite ciò che, solo emergendo su di esso, lo può cogliere.
L’emergenza, inoltre, non si mantiene poggiando su ciò su cui
emerge, ma coincide con il venir meno a sé di ciò che è insufficiente a
sé stesso. Ciò significa che il necessario non necessita dell’inevitabile,
ma è inevitabile che, se lo si esprime mediante un discorso, lo si esprima
a muovere dall’inevitabile, cioè presupponendolo.
Anassimandro consente, dunque, di porre una fondamentale distinzione teoretica, quella che sussiste tra il limite, che costituisce la condizione empirica della determinazione – per la ragione che vale come ciò
I. La
concezione metafisica di Anassimandro […]
55
che, circoscrivendo il dato, assegna ad esso un’identità determinata –, e
l’illimitato che, costituendo la condizione di possibilità (intelligibilità)
del rilevamento del limite, vale come la condizione trascendentale
dell’universo dei determinati nonché di ciascuno di essi.
Questi ultimi sono bensì posti in senso empirico, ma insieme anche
tolti in senso trascendentale, perché ciò che viene meno è precisamente
la loro pretesa di valere come autonomi e autosufficienti, cioè come
dotati di un’autentica identità.
Il riduzionismo teoretico, che viene messo in atto sul pensiero di
Anassimandro, non coglie l’emergenza della condizione trascendentale
e finisce per identificare (ridurre) la condizione trascendentale con la
(alla) condizione empirica.
La questione teoretica che Anassimandro affida a chi pensa può,
quindi, venire essenzializzata nella seguente domanda: come intendere
la condizione incondizionata? Il punto è che la si deve pensare in modo
che condizioni senza che, però, si vincoli al condizionato.
Basandoci sulle seppur scarne indicazioni di Anassimandro, a noi
sembra di poter affermare che la condizione incondizionata (la verità
assoluta) non può venire pensata (determinata). Ciò che deve venire
pensato (determinato), invece, è la necessità (τὸ χρεών) del suo essere.
Dire ciò non significa determinare la verità assoluta, come potrebbe
sembrare. Significa, invece, utilizzare una regola del calcolo proposizionale, il modus ponendo ponens, e argomentare in questo modo: se
una verità determinata è ipotecata da altro da sé (dalla non-verità), allora solo una verità che non è ipotecata da altro da sé (cioè una verità
assoluta) è autentica verità (prima assunzione); ma una verità determinata è ipotecata da altro da sé (seconda assunzione); dunque, solo una
verità assoluta è autentica (conclusione dell’argomento).
Quella indicata è la dimostrazione formale – che non può destare
sospetti “metafisici” – del valore assoluto della verità, che implicitamente fa riferimento alla dimostrazione della sua necessità: se la verità
assoluta non fosse, non si potrebbe cogliere il limite della verità determinata (relativa) (prima assunzione); ma il limite della verità determinata viene colto (seconda assunzione); dunque, la verità assoluta non
può non essere (conclusione dell’argomento, che si avvale dello schema
del modus tollendo tollens).
Ebbene, il punto è che tale dimostrazione, comprendente i due argomenti, non comporta la determinazione della verità assoluta stessa, ma
solo del suo valore, che coincide con il suo non poter non essere.
56
Sul riduzionismo
Né questo argomento può venire considerato esso la verità assoluta,
proprio perché formalmente espresso e, dunque, determinatamente configurato. Semmai, è l’intenzione di questa dimostrazione (intentio veritatis) che fa della necessità della verità assoluta una necessità assoluta,
cioè una necessità che è tutt’uno con la verità necessaria.
Per riprendere quanto anticipato nel paragrafo precedente: non si
pensa l’assoluto, ma che l’assoluto non può non essere e non può non
costituire il vero essere. Con ciò, non si è posta l’identità di assoluto ed
essere, se non nel senso che si è posta la contraddittorietà della loro
distinzione, distinzione che coincide con l’inclusione dell’assoluto e
dell’essere nella relazione distintiva (disgiuntiva).
Il fondamento (la condizione condizionante), insomma, può venire
pensato solo come l’ideale immanente dell’universo dei determinati, un
ideale che non vale come un pensato, perché anche del pensare costituisce il fondamento. Per conservare il valore assoluto, che compete al
fondamento, esso deve quindi valere come il prerequisito, il richiesto a
parte ante, senza che la richiesta possa mai venire soddisfatta.
Qualora la richiesta venisse soddisfatta, il prerequisito si trasformerebbe in un presupposto, in un assunto, che diventerebbe il primo della
serie dei condizionati. Ed è precisamente questa la caratteristica del riduzionismo teoretico, la quale, come anticipato (e come vedremo più
avanti), costituisce l’essenza stessa del riduzionismo teorico.
Proprio per la ragione che la richiesta permane insoddisfatta, l’ordine
delle determinazioni (il sistema) non può venire considerato uno status,
ma va colto nel suo essere tensione verso il fondamento. Tale tensione
ha una traduzione formale (o empirica) che si esprime nella forma della
“vita” del sistema stesso, cioè nel suo carattere dinamico65.
L’essenza concettuale, di contro, coglie la tensione come atto, cioè
come l’atto del togliersi di ciò che è determinato, incluso il sistema di
tutti i determinati.
65
Altrove abbiamo parlato di “contraddirsi contraddittorio della contraddizione” per indicare il “divenire”, ossia il “passaggio” da una determinazione ad altra determinazione (la fenomenologia), stante la contraddittorietà intrinseca che connota la determinazione in quanto tale.
Di contro, abbiamo parlato di “contraddirsi incontraddittorio della contraddizione” per indicare
il “togliersi” di ciascuna determinazione, togliersi che va inteso in senso verticale (il logos che
invera il determinato, elevandolo), e non in senso orizzontale come il “passare”. Questo tema è
stato affrontato anche in A. Stella, Il concetto di «relazione» nella «Scienza della logica» di
Hegel, già citato, allorché si è discusso il senso della fenomenologia del logos, cioè il succedersi
delle figure logiche indicato da Hegel.
I. La
concezione metafisica di Anassimandro […]
57
1.12. La relazione come atto
Tanto Heidegger quanto Severino, a nostro giudizio, non hanno colto il
punto cruciale che noi abbiamo cercato di mettere bene in evidenza e
cioè la necessità che il fondamento emerga nel senso indicato. Entrambi, infatti, hanno fatto della relazione l’effettivo fondamento.
Heidegger ha identificato il fondamento, cioè l’essere, con la relazione e ha creduto di evitare l’ipostatizzazione della relazione perché
non l’ha posta tra l’essere e gli enti, ma l’ha intesa come coincidente
con l’essere stesso.
Se non che, se si continua a parlare di relazione e la si intende come
costrutto, allora si postulano i termini di cui essa si compone, in modo
tale che il costrutto permane e, di conseguenza, permangono gli enti che
costituiscono i suoi termini. Per superare tale costrutto, si deve intendere la relazione come atto.
Qualora la relazione venga colta come atto, essa deve venire intesa
come l’atto del riferirsi. Heidegger identifica l’essere con la relazione
e, da un certo punto di vista, la relazione potrebbe venire intesa come il
relazionarsi dell’essere. Ma è proprio qui che si annida l’equivoco: non
l’essere deve risolversi nella relazione, bensì gli enti. Se fosse l’essere
a risolversi nella relazione, allora l’essere si subordinerebbe insensatamente agli enti.
Di contro, è proprio l’ente che, in quanto determinato, si pone nel
suo riferirsi ad altro, così che la relazione come atto ne decreta il trascendimento.
Ogni determinato, riferendosi, è il proprio trascendersi, giacché il
riferimento non mette capo a un incontro con altro ente determinato,
come se tale incontro (tale relazione) fosse in grado di superare l’insufficienza degli enti che si relazionano. La relazione è tra due insufficienti,
così che l’effettiva sufficienza si guadagna solo in virtù del loro andare
ciascuno oltre sé stesso.
Severino ha inteso la relazione come la struttura stessa del fondamento, da lui definita struttura originaria, e in tal modo ha ridotto
l’unità a unificazione, o a sintesi. Egli, più radicalmente, ha visto il fondamento nell’unità dei contrari (opposti), senza considerare – questo,
almeno, è il nostro punto di vista – che i contrari (opposti) sono tali
proprio perché si oppongono alla loro conciliazione in una unità che li
contenga entrambi. Tale conciliazione non può che essere la contraddizione.
58
Sul riduzionismo
Ma la contraddizione deve venire pensata non già come qualcosa-dicontraddittorio, cioè come un’ipostasi, bensì come l’atto stesso del suo
innegabile contraddirsi.
Il riduzionismo teoretico, insomma, facendo della relazione il fondamento, fa della contraddizione la condizione che non già si toglie, per
il suo essere appunto “contraddizione”, ma che costituisce la genesi
stessa della via discendente, ossia della giustificazione del molteplice
(del mondo). La via discendente, infatti, postula un’unità duale.
Come non avvedersi che un’unità in sé duale, quale appunto è la relazione, altro non è che la contraddizione stessa? E come non avvedersi
che, senza assumere la contraddizione come il fondamento o l’originario, non si pone alcuna via discendente?
Poiché la relazione, assunta come unità duale, è una contraddizione,
si potrebbe concludere affermando che la stessa relazione, nell’intenzione di volgersi al fondamento – e cioè di essere incontraddittoriamente –, subisce una radicale trasformazione: essa cessa di valere quale
costrutto mono-diadico, che pretenderebbe di inglobare il fondamento,
negandolo, e si trasforma nell’atto del relazionarsi.
Dal momento che, inoltre, la relazione costituisce la struttura
dell’identità determinata, nonché dell’universo formale nel suo complesso, il suo esprimersi nell’atto del relazionarsi trasforma il dato (ogni
“cosa” dell’esperienza) in un indice, che rinvia al fondamento quale
unico e autentico essere.
Tuttavia, l’assenza del fondamento dal sistema delle determinazioni
deve venire adeguatamente intesa. Essa, se colta da una diversa prospettiva, risulta un’innegabile presenza, anche se si tratta di una presenza
“altra”. Solo in virtù della presenza di questo “assente”, infatti, il sistema si anima, così che il fondamento funge e opera nel sistema imponendogli un’intrinseca trasformazione: la relatio si rivela, in questo
modo, la trans-formatio del determinato in quanto tale.
Che è come dire: l’illimitato non lascia essere ciò che è limitato come
se fosse la verità. In questo senso, Anassimandro annuncia Parmenide.
Poiché il sistema dei determinati si risolve nell’atto che è il trascendersi
del sistema stesso (e che comporta il trascendersi del determinato come
tale), l’emergenza del fondamento è solo un modo di esprimersi.
Con tale espressione si intende indicare che il fondamento non si vincola a ciò su cui emerge, giacché, piuttosto, costituisce la ragione del
trascendersi del finito. L’“emergenza”, pertanto, è del vero sul falso, il
quale pretendeva proprio di sostituirsi al vero. In quanto colto come
I. La
concezione metafisica di Anassimandro […]
59
“falso”, di contro, quest’ultimo è già stato superato (è già stato “falsificato”).
L’atto, che è evocato nel sistema dal fondamento, non soltanto vale
dunque come il trascendimento del sistema, ma altresì – e questo va
sottolineato con forza – come l’essere autentico della relazione, che è
appunto l’atto dell’andare oltre il suo valere quale medio.
Altrimenti detto e per ribadire un concetto espresso: la relazione, rivelandosi l’atto del riferirsi, non può più venire pensata come sussistente tra le determinazioni, ma come la struttura intrinseca di ognuna.
Essa, dunque, non subentra alla determinazione, come se questa potesse
porsi a prescindere dalla relazione stessa, ma coincide con quell’essere
riferendosi che fa di ogni determinazione un segno dell’assoluto.
In questo essere riferendosi, che costituisce l’essenza di ogni determinazione, la molteplicità dei determinati si risolve nell’unità dell’atto,
che è uno e medesimo per ogni determinato. E l’atto, inteso come intentio veritatis, si realizza facendosi uno66 con la verità che intende.
Un’ultima riflessione va riservata al concetto di “coscienza”. Abbiamo affermato che il limite, di cui Anassimandro per primo ha messo
in luce tutta l’importanza, può venire colto solo perché trasceso: nel
momento in cui si parla del limite, esso è stato colto, ossia di esso si ha
coscienza.
Ciò, tuttavia, non può significare assumere la coscienza come l’assoluto. Su questo punto, va sottolineata la sostanziale ambiguità che caratterizza la posizione di Hegel, che pure ha riflettuto con profondità
indiscussa sul tema della coscienza.
Da un lato, infatti, egli indica la necessità di un fondamento che trascenda la serie dei condizionati; dall’altro, a più riprese autorizza un’interpretazione immanentistica del fondamento.
Per contrario, l’impossibilità di assumere la coscienza, cioè il “sapere”, come l’assoluto viene mirabilmente espressa da Fichte, in particolare ne La seconda Dottrina della Scienza (1801). Egli scrive:
Innanzi tutto, e questo è detto esclusivamente per guidare la nostra ricerca, il
semplice concetto di un Sapere assoluto rende chiaro che questo non è l’Assoluto (dass dasselbe nicht das Absolute ist). Ogni seconda parola posta
all’espressione: l’Assoluto, toglie l’assolutezza, assolutamente come tale, e la
66
Del perdersi nella verità da parte dell’intenzione che alla verità si volge, tratteremo più
attentamente nella Parte Seconda.
60
Sul riduzionismo
fa esistere solo ancora nel riguardo e nella relazione indicati nella parola aggiunta67.
L’assoluto è inesprimibile, se non come impossibilità di ridurlo
all’espressione. Poiché, però, esso è innegabilmente richiesto dall’espressione stessa (cioè da ogni forma del “dire”), ne consegue che si impone la necessità di sapere che tutto ciò che viene detto dell’assoluto
finisce per negarlo e che lo stesso accade per ogni parola che venga
aggiunta ad esso, nell’intenzione di specificarlo.
Inoltre, la coscienza, che riconosce il limite di ogni ente, riconosce
altresì nell’assoluto essere la condizione di tale riconoscimento e, va
aggiunto, riconosce nel limite la pretesa negazione dell’essere, la quale
non può non convertirsi nel proprio innegabile negarsi come pretesa.
Non di meno, il negarsi di quella negazione che costituisce la condizione empirica del determinato (omnis determinatio est negatio) non
configura la cancellazione del sistema dei determinati, bensì la negazione della sua pretesa di valere quale autentica verità (autentico essere).
Ciò che è posto dal limite, ci ha insegnato Anassimandro, dal limite
è anche inesorabilmente tolto.
67
G.A. FICHTE, Darstellung der Wissenschaftslehre aus dem Jahre 1801 (1801), in
Sämmtliche Werke, II Bd., hrsg. von I.H. Fichte, Berlin 1945-1946; trad. it. di A. Tilgher, La
seconda Dottrina della Scienza, Cedam, Padova 1939, p. 15.
Capitolo II
Il riduzionismo immanente al parricidio
di Parmenide
2.1. Per introdurre
Ciò che ora ci proponiamo è discutere il parricidio di Parmenide, tentato da Platone e, secondo noi, mai effettivamente compiuto. Il nostro
obiettivo è mostrare che con tale parricidio viene progettata, da un
punto di vista storico, la prima radicale riduzione teoretica, quella dalla
quale originano le successive e, di conseguenza, quella che sta alla base
di ogni riduzione teorica.
Comunemente, si pensa che Platone abbia offerto ragioni forti per
giustificare il suo parricidio, tant’è vero che raramente esso è stato
messo in discussione1. A nostro giudizio, invece, Platone non ha offerto
ragioni forti, ma ha semplicemente fatto valere la presunta innegabilità
dell’esperienza, di fronte alla quale la posizione parmenidea è parsa insostenibile. L’esperienza, infatti, viene considerata come la premessa
di qualunque discorso, anche critico, nonché della sua stessa negazione:
per negare l’esperienza, la si deve presupporre.
Si potrebbe affermare che l’essenza dell’argomentazione su cui si
fonda il parricidio è costituita dall’impossibilità di negare l’esperienza,
stante appunto il fatto che per negarla la si deve presupporre. Controargomenteremo seguendo il seguente schema: in primo luogo, prendendo avvio dal tema del “non-essere”, cercheremo di mostrare che
l’innegabilità, di cui parla lo stesso Platone, è solo formale. In secondo
1
La letteratura su Parmenide negli ultimi decenni si è notevolmente espansa, ricevendo
significativi apporti dalla critica. Quella su Platone è sterminata; tuttavia, sul tema del parricidio i contributi specifici negli ultimi decenni non sono stati moltissimi. In questa sede, ci limitiamo a ricordare A. HERMANN, «Parricide or Heir? Plato’s Uncertain Relationship to Parmenides», in N-L. CORDERO (Ed.), Parmenides, Venerable and Awesome. (Plato, Theaetetus, 183
e), Proceedings of the International Symposium, Parmenides Publishing, Las Vegas - Zurich Athens 2011, pp. 147-165, e i contributi apparsi nel volume di B. BOSSI, T.M. ROBINSON (Eds.),
Plato's “Sophist” Revisited, Walter de Gruyter, Berlin/Boston 2013, in particolare il secondo
capitolo intitolato: «Parricide: Threat or Reality?» (pp. 101-201), in cui spicca, per affinità tematica al nostro discorso, il contributo di D. O’BRIEN, «Does Plato refute Parmenides?» (pp.
117-155).
61
62
Sul riduzionismo
luogo, tematizzeremo il rapporto Uno-molti per mostrare quanto segue:
coloro che pongono in alternativa l’unità dell’essere, che è poi la sua
assolutezza – sostenuta da Parmenide –, con la molteplicità degli enti
non tengono conto che esse non si dispongono al medesimo livello, così
che la loro alternativa è improponibile.
Ci sembra opportuno precisare, in via preliminare, che la nostra lettura di Parmenide non intende pensare l’unità dell’essere nel senso di
un intero che ammette al suo interno la polarità e, dunque, la molteplicità. A nostro giudizio, infatti, va mantenuta la distinzione teoretica tra
intero e composto: quest’ultimo non è un intero, ma vale come il risultato di una riunificazione degli elementi ottenuti con l’analisi dell’intero
stesso.
Se l’unità venisse intesa nella forma della sintesi, non soltanto non
si comprenderebbe in quale senso si potrebbe continuare a parlare di
unità effettiva dell’essere, ma altresì non si giustificherebbero le critiche mosse allo stesso Parmenide prima da Platone e poi da Aristotele.
Rileviamo che il filosofo che per primo intende il principio nella
forma di un’unità che si articola in forza della contrapposizione, e dunque della relazione, è stato Eraclito, come abbiamo visto nel precedente
capitolo. Nell’Etica a Nicomaco, così scrive Aristotele: “Eraclito dice
che ciò che è opposto si concilia, che dalle cose in contrasto nasce l’armonia più bella, e che tutto si genera per via di contesa”2. E ancora
questo attesta Filone: “Ciò che risulta da due contrari è uno; e se l’uno
si divide, i contrari vengono in luce”3.
Anche il Parmenide di cui ci occupiamo è quello che ci viene consegnato dai Frammenti che ci sono rimasti nonché dalle critiche che gli
sono state rivolte da Platone e da Aristotele. Come cercheremo di mostrare, il parricidio non si consuma solo sulla questione del non-essere,
ma investe numerose altre questioni di eccezionale rilevanza teoreticospeculativa, così da giustificare la nostra affermazione volta a mostrare
che esso costituisce il punto nodale intorno al quale ruota l’intera questione del riduzionismo: il parricidio – lo ripetiamo – costituisce la
prima e fondamentale forma di riduzionismo teoretico.
2
ARISTOTELE, Etica a. Nicomaco, Θ, 2, 1155 b 4; trad. it. in G. REALE (a cura di), I Presocratici, cit., p. 343.
3
FILONE, Rerum Divinarum Heres, 43, in N. ABBAGNANO, La filosofia antica, UTET, Torino
1993, p. 22.
II. Il
riduzionismo immanente al parricidio di Parmenide
63
Il tema del non-essere, ancorché non sia l’unico, riveste tuttavia un
ruolo centrale. Per anticipare ciò che nel prosieguo del lavoro troverà
più attenta argomentazione, facciamo ricorso alle parole di Fabro, il
quale così, icasticamente, liquida la questione del non-essere: “un nonessere che non è a quel modo nel quale dev’essere l’essere che semplicemente è”4.
Per chiarire il concetto ed evidenziare che la soluzione di far valere
il non-essere come altro dall’essere non può non risultare insoddisfacente, così Fabro continua: “[essa è] apparente e vale al più nel mondo
delle apparenze e non per il mondo della verità dell’essere alla quale si
era richiamato Parmenide”5.
2.2. Il presunto errore di Parmenide
Per chiarire come si articola l’argomento platonico avverso a Parmenide, ci avvaliamo di alcune importanti considerazioni svolte sul tema
da Severino, che utilizziamo come premessa alla critica platonica.
Seguendo Platone, e in linea con il suo parricidio, Severino – la cui
posizione noi assumiamo come paradigma del punto di vista che riprende e sviluppa il parricidio di Platone – afferma che i princìpi sono
due: il principio di ragione e il principio di esperienza. Ebbene, l’errore
di Parmenide sarebbe quello di avere riconosciuto solo uno dei due princìpi.
Questo punto viene specificato con molta chiarezza nella “Introduzione” a I princìpi del divenire di Aristotele. In questa “Introduzione”,
così scrive Severino:
Infatti, affinché la posizione parmenidea sia riguardata come un problema, o
come una aporia, è necessario avvedersi dell’impossibilità di negare la realtà
del mondo molteplice e diveniente, per salvare o per tener ferma l’unità e l’immobilità dell’essere. È necessario avvedersi, ancora, che quella di Parmenide
è infine una scelta o una preferenza che egli accorda all’essere piuttosto che al
mondo. Parmenide tien fermo l’essere e sacrifica il mondo. Il sacrificio è eseguito in quanto si pensa che la manifestazione del mondo contraddica, senz’altro, il responso della ragione. (Il sacrificio, poi, è indice di una mentalità: quella
che non “dà peso” al mondo). Ma se ciò fosse vero, perché non sacrificare
l’essere e tener fermo il mondo? Su questa strada si metteranno i Sofisti. Ma
anche mettendosi per questa strada non si fa, daccapo, che scegliere o preferire
4
5
C. FABRO, Partecipazione e causalità, Società Editrice Internazionale, Torino 1960, p. 8.
Ibidem.
64
Sul riduzionismo
un termine (in questo caso il mondo) all’altro; e per giunta si corre il rischio di
non dare alcun significato alla scelta, dato che ciò che si sacrifica è proprio
quella ragione […] mediante la quale soltanto è possibile conferire significato
ad ogni cosa6.
Severino, dunque, afferma che è necessario avvedersi dell’insensatezza
di fingere che il mondo non sia. In un’opera dal titolo molto significativo, Il parricidio mancato, egli afferma quanto segue, riportando un
passo di Empedocle:
“Non lasciatevi sfuggire dallo sguardo i testimoni” dice dunque Empedocle. I
testimoni sono – nominati nel frammento 21 – il Fuoco, l’Aria, l’Acqua, la
Terra, la Discordia, l’Amore. Da essi sono generate “tutte le cose che furono,
che sono e che saranno” […]. E, generate dai testimoni, tutte queste cose sono
a loro volta testimoni. Sono le cose del mondo: alberi, animali, uomini, dèi7.
La corposa consistenza del mondo non può sfuggire agli uomini, nemmeno ai filosofi. A Parmenide certamente non è sfuggita, anche se egli
ha inteso far valere il mondo come non-essere, stante l’assolutezza
dell’essere: “Parmenide ha guardato l’Essere: lo sguardo ne è rimasto
abbagliato e si è lasciato sfuggire i testimoni del mondo: le cose molteplici e divenienti”8.
Segue una splendida descrizione dell’essere di Parmenide, data da
Empedocle e riportata da Severino:
Giacché nel poema di Parmenide l’Essere è sì “tutto pieno di essere” (πᾶν
δ’ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος, fr. 8, v. 24), e, in questo riempimento di sé, esso è
ὄγκος (fr. 8, v. 43), cioè – se si unisce il senso proprio di questa parola a quello
traslato – “massa splendente”; ma esso, anche, “è tutto uguale” (πᾶν ἐστιν
ὁμοῖον, fr. 8, v. 22), “indivisibile” (οὐδὲ διαιρετόν, loc. cit.), “inviolabile”
(ἄσυλον, fr.8, v. 48), perché non è possibile che qualcosa di estraneo – un non
essere, dunque – si introduca o si annidi in esso e gli impedisca di giungere a
se stesso (οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν ἔστι, τό κεν παύοι μιν ἱκνεῑσθαι/εἰς ὁμόν, fr. 8, vv.
46-47)9.
6
E. SEVERINO, «Traduzione, introduzione e commento» ad ARISTOTELE, I principi del divenire, cit., pp. XVII-XVIII.
7
E. SEVERINO, Il parricidio mancato, Adelphi, Milano 1985, p. 63.
8
Ivi, p. 64.
9
Ibidem.
II. Il
riduzionismo immanente al parricidio di Parmenide
65
Parmenide, quindi, ha sacrificato il mondo all’essere: così si può concludere, dopo avere ascoltato Empedocle. Se non che, secondo Severino, il mondo è innegabile e l’innegabilità del mondo è precisamente
ciò di cui si deve prendere coscienza. Non basta, cioè, fare esperienza
del mondo: il mondo, infatti, viene bensì constatato, ma tale constatazione non è ancora la dimostrazione della sua innegabilità.
Che è come dire: l’innegabilità è esito di un processo dimostrativo
che ha come suo punto di movenza il tentativo di negare il mondo e
come suo punto d’arrivo la coscienza dell’impossibilità di rendere effettiva tale negazione.
In cosa consisterebbe, essenzialmente, la dimostrazione? Nel pervenire a sapere che, per negare il mondo, lo si deve presupporre, ma, se lo
si presuppone (cioè se lo si constata), allora non è più possibile negarlo.
Il mondo risulta, così, innegabile. Questa sarebbe la dimostrazione implicita del mondo, che Severino ci pare accolga, anche se non la formula
esplicitamente.
La domanda che rivolgiamo a Severino è la seguente: davvero si
pensa che Parmenide non abbia consapevolezza di questo genere di innegabilità del mondo? A nostro giudizio, Parmenide non intende affatto
negare il mondo, ma intende negare la verità del mondo, che è tutt’altra
cosa. Egli, cioè, nega che ciò che si presenta, e si presenta come se fosse
vero, sia effettivamente tale.
Se il mondo fosse vero – questo è, a nostro giudizio, il senso del
discorso di Parmenide, che riprende quanto affermato da Anassimandro
–, allora dovrebbe essere vero ogni ente che lo costituisce. Ma cosa significa affermare la verità dell’ente? Significa forse prendere atto della
sua presenza? È sufficiente, insomma, che una cosa si presenti perché
sia vera?
Il punto è che la stessa presenza di qualcosa si pone non incondizionatamente, ma a condizione che si diano sia colui che rileva tale presenza (il sistema di rilevamento) sia il sistema in cui tale presenza si
inscrive (il sistema che ingloba quella presenza accanto a molteplici altre presenze).
Una presenza unica, cioè un ente, che non si riferisca ad altri enti (ad
altre presenze), non è un ente determinato. Gli enti, infatti, sono “fatti
essere” dal limite, ci ricorda appunto Anassimandro, e il limite è una
relazione che tanto disgiunge quanto congiunge gli enti.
L’ente, dunque, è condizionato, così che la sua presenza è soltanto
relativa: x è presente se, e solo se, c’è il rilevatore α (colui che rileva la
66
Sul riduzionismo
presenza o, anche, il sistema di rilevamento automatico) nonché il
campo σ in cui, oltre a x, vengono rilevati y, z e così via10. Precisamente
per questa ragione, le cose del mondo non possono valere quali verità
assolute (espressione quest’ultima che, se usata al plurale, non può non
risultare insensata) e Anassimandro, del quale Severino apprezza la
profondità abissale di pensiero, dichiara che solo l’ἄπειρον, cioè l’illimitato, il senza limite, è l’autentico principio, il fondamento, l’unica
verità effettiva perché incondizionata.
Il contributo di Anassimandro, come abbiamo cercato di indicare nel
precedente capitolo, è decisivo: esso segna il passaggio da una concezione naturalistico-materialistica, che assume come fondamento un
qualche elemento materiale e dunque fa della materia il fondamento, a
una concezione metafisica, che intende il fondamento nell’unico modo
in cui può venire intelligibilmente inteso e cioè come emergente sull’ordine dei fondati nonché come irriducibile ad essi.
Il fondamento, inoltre, non può essere determinato, perché, se lo
fosse, varrebbe come un elemento della serie dei condizionati. Precisamente per queste ragioni esso non può non essere assoluto o, se si preferisce, infinito.
Parmenide non si discosta da Anassimandro e, per designare l’assoluto, usa l’espressione “essere” (εἶναι), con la quale intende indicare che
l’autentico fondamento è e non può non essere assoluto; pertanto, deve
emergere oltre ogni vincolo. L’essere, infatti, non solo esclude il nonessere, ma, più radicalmente, nega la relazione tra essere e non-essere.
Tale relazione farebbe essere il non-essere, che verrebbe assunto come
un termine in relazione all’essere, pur essendo il non-essere.
L’essere, proprio perché in relazione solo a sé stesso, in effetti non è
in relazione affatto: se lo fosse, e se la relazione strutturasse l’essere,
allora si dovrebbe ammettere una differenza nell’essere, perché solo
così vi sarebbero i due termini che consentono di porre la relazione.
Se non che, ciò che è differente dall’essere è non-essere, così che
ogni differenza, sia interna all’essere sia esterna ad esso, deve necessariamente venire esclusa.
10
Il tema è rilevantissimo. Lo affronteremo nel primo capitolo della Parte Seconda.
II. Il
riduzionismo immanente al parricidio di Parmenide
67
2.3. La scelta di Parmenide
Per Parmenide – e per chiunque pensi, dando un senso alle parole che
usa per pensare – il non-essere non è e non può essere. Con questa conseguenza: le molteplici determinazioni, che costituiscono l’universo
dell’esperienza, debbono venire considerate come apparenza e non
come la vera realtà. Quest’ultima è rappresentata solo dall’essere: per
Parmenide solo l’assoluto è vero, perché solo l’assoluto coincide con
l’essere11.
Le molteplici “cose” dell’esperienza comune, invece, proprio perché
sono diverse dall’essere, inteso nella sua pienezza, che è la sua assolutezza, a rigore coincidono con il non-essere. Esse, quindi, appaiono, ma
non sono. Che è come dire: il loro essere coincide con il loro venir meno
a sé stesse, cioè con il loro negarsi. Il non essere – così può venire sintetizzato il fondamentale approdo parmenideo – è la stessa contraddizione, la contraddizione del non-essere che pretende, tuttavia, di essere.
Così commenta ancora Severino:
Se, per chi pensa dopo Parmenide, affermare l’evidenza del molteplice – cioè
l’evidenza dell’essere dei non essenti – significa compiere un “parricidio”,
quello compiuto da Empedocle [che afferma “la verità del manifestarsi del
11
Il Frammento 8 così recita: “Infatti, Necessità [inflessibile] lo tiene nei legami del limite
(πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει), che lo rinserra [tutt’intorno], poiché è stabilito che l’essere non
sia senza [compimento]” (PARMENIDE, Poema sulla natura; trad. it. di G. Reale, Bompiani,
Milano 20103, p. 103). Ebbene, il limite di cui parla Parmenide, non rende l’essere un’identità
determinata, ma un’identità compiuta e compatta: l’identità dell’uno. La nostra interpretazione,
pertanto, distingue il limite ordinario, che vale per ogni determinazione e impone a ciascuna di
riferirsi alla differenza, dal limite extra-ordinario, che vale solo per l’essere e che fa dell’essere
un’identità, ancorché non un’identità determinata. Il limite dell’essere, insomma, è indice della
sua autosufficienza e autonomia, ossia della sua compiutezza: la compiutezza dell’assoluto.
Solo l’assoluto, infatti, si pone senza riferirsi ad altro e precisamente per questa ragione il limite
non lo distingue, ma lo compatta in sé stesso: “E rimanendo identico e nell’identico, in sé medesimo [giace], e in questo modo rimane là saldo” (Ibidem). Che è come dire: l’essere non si
perde, non evapora, ma è un’identità autentica; anzi, l’unica vera identità, proprio perché non
dipende da altro ed è compattamente sé stesso. È uno in sé stesso e non diviso o articolato. Nel
caso del limite extra-ordinario, dunque, questo non si costituisce di due facce, come ordinariamente accade, ma di un’unica faccia, stante che l’altro dall’essere è il non-essere, così che non
v’è un altro dall’essere dal quale l’essere possa venire distinto e al quale possa riferirsi. Il limite,
pertanto, decreta solo il valere come uno da parte dell’essere nonché il suo riferirsi solo a sé
stesso e non ad altro (dunque, il suo non riferirsi affatto).
68
Sul riduzionismo
molteplice diveniente”] è un parricidio mancato. Il padre è stato colpito, ma la
sua agonia può durare all’infinito12.
Parmenide, dunque, riconosce che solo l’essere è verità assoluta; essere
e verità, più radicalmente, sono un medesimo, perché la verità non può
non essere e l’essere non può non essere vero. Di contro, il non-essere
non può essere vero proprio perché non è.
Severino, all’opposto, considera una “scelta” quella di anteporre
l’unità dell’essere alla molteplicità degli enti. Questo punto viene specificato con molta chiarezza nell’“Introduzione” a I principi del divenire di Aristotele, allorché, come abbiamo già visto nella prima citazione da noi riportata nel paragrafo 2, egli scrive:
Parmenide tien fermo l’essere e sacrifica il mondo. Il sacrificio è eseguito in
quanto si pensa che la manifestazione del mondo contraddica, senz’altro, il
responso della ragione. (Il sacrificio, poi, è indice di una mentalità: quella che
non “dà peso” al mondo). Ma se ciò fosse vero, perché non sacrificare l’essere
e tener fermo il mondo? […] Ma anche mettendosi per questa strada non si fa,
daccapo, che scegliere o preferire un termine (in questo caso il mondo) all’altro13.
Quella che Severino chiama una “scelta”, addirittura una “preferenza”,
sarebbe tale se essere (vero) e non-essere (falso) si disponessero sul medesimo livello e configurassero due opzioni, l’una in alternativa all’altra. Ma come può il non-essere costituire un’opzione di scelta, se di esso
Parmenide coglie l’inconsistenza?
Precisamente per questa ragione, egli rimprovera gli uomini che si
fanno attrarre da verità solo parventi, come scrive nel Frammento 2:
Orbene, io ti dirò – e tu ascolta e ricevi la mia parola – quali sono le vie di
ricerca che sole si possono pensare: l’una che “è” e che non è possibile che non
sia – è il sentiero della Persuasione, perché tien dietro alla Verità – l’altra che
“non è” e che è necessario che non sia. E io ti dico che questo è un sentiero su
cui nulla si apprende. Infatti, non potresti conoscere ciò che non è, perché non
è cosa fattibile, né potresti esprimerlo14.
12
E. SEVERINO, Il parricidio mancato, cit., p. 78.
E. SEVERINO, «Traduzione, introduzione e commento» ad ARISTOTELE, I principi del divenire, cit., pp. XVII-XVIII.
14
PARMENIDE, Poema sulla natura, cit., p. 91.
13
II. Il
riduzionismo immanente al parricidio di Parmenide
69
Severino sembra non tenere nella dovuta considerazione tutto ciò e anche la precisazione aggiunta in parentesi (che compare sempre nel
lungo passo citato all’inizio del paragrafo 2) ci pare non congruente con
il pensiero di Parmenide: quella dell’Eleate, infatti, non è una “mentalità”, dalla quale possa scaturire una “preferenza”, ma una profonda attitudine alla riflessione, che produce intuizioni geniali. Il suo non dare
peso al mondo non è un atteggiamento psicologico, ma una radicata
convinzione filosofica.
Del resto, solo se quella di Parmenide viene interpretata come una
scelta o una preferenza, ha senso la domanda posta da Severino: “perché
non sacrificare l’essere e tener fermo il mondo?”. Parmenide ha esposto
con chiarezza la ragione che lo induce ad affermare che il mondo appare, ma in realtà non è, così che non avrebbe alcun senso la sua scelta
per ciò che egli stesso dichiara inessente15.
Secondo quanto scrive Severino, invece, si può scegliere l’essere,
ma si può scegliere, in opposizione alla prima scelta, anche il mondo,
come fanno i Sofisti. Per quale ragione, ci chiediamo, egli propone una
simile lettura?
A nostro modo di vedere, anche qui viene fatto valere il nucleo fondamentale del pensiero di chi valorizza il sistema dei determinati, che
consegue dall’avere decretato il primato del concetto di relazione. Poiché il fondamento è la relazione, i termini sono comunque due e non è
affatto casuale che Severino usi proprio l’espressione “termine”, per designare una delle due opzioni: “Ma anche mettendosi per questa strada
non si fa, daccapo, che scegliere o preferire un termine (in questo caso
il mondo) all’altro”.
Severino, quindi, arriva a sostenere una posizione molto radicale.
Egli sostiene che “Alla verità dell’essere appartiene l’opposizione
dell’essere e del nulla”16, come se l’essere si ponesse solo in quanto si
oppone al non essere e come se, quindi, il porsi dell’essere fosse
tutt’uno con il suo opporsi.
A noi sembra che tale discorso vada fatto per l’ente determinato, non
per l’essere, il quale non può venire entificato rendendolo determinato.
Inoltre, ci domandiamo come egli possa evitare di richiedere l’essere
della stessa opposizione, così che l’essere – se si assume la posizione
15
“Si è quindi deciso, come necessario, che una via si deve lasciare, in quanto è impensabile” (PARMENIDE, Poema sulla natura, cit., p. 101, Frammento 8). Non si tratta, pertanto, di
una scelta lasciata all’arbitrio personale, ma imposta dalla necessità dell’essere.
E. SEVERINO, «Ritornare a Parmenide», in ID., Essenza del nichilismo, cit., p. 36.
70
Sul riduzionismo
di Severino – non può risultare solo un termine della relazione oppositiva, ma anche la condizione che la fa essere come relazione.
Non di meno, egli ritiene che chi sceglie il primo termine, e cioè
l’essere, debba avere contezza che, senza l’altro (il mondo), il primo
non può stare (così che il mondo viene fatto coincidere con il non-essere). Solo così chi sceglie perviene a sapere che sta compiendo una
scelta. Se non che, tale discorso potrà andare bene per i Sofisti, ma non
certo per Parmenide, il quale, negando il non-essere, nega anche l’alternativa e, quindi, la radice stessa della scelta.
La scelta compiuta dai Sofisti sacrifica la ragione “mediante la quale
soltanto è possibile conferire significato ad ogni cosa” nonché sapere
“l’impossibilità che l’essere sia non essere”.
Se non che, tale impossibilità poggia precisamente sull’essere del
non-essere: chi pretende di affermare l’essere facendolo valere come
negazione del non-essere – come fa Severino – non soltanto non coglie
l’autentico senso dell’essere, ma inoltre fa essere il non-essere per poter
far poggiare su di esso quella negazione che farebbe essere l’essere. In
tal modo, l’essere si subordinerebbe al non-essere, il quale verrebbe assunto come essente.
Di contro, a noi sembra che il discorso vada capovolto. L’incontraddittorietà dell’essere è precisamente la ragione del contraddirsi di ciò
che è diverso dall’essere: questo è ciò che Parmenide intende dire17.
Diversamente, se affermare l’essere coincidesse con l’esclusione del
non-essere, allora senza il non-essere verrebbe meno la sua esclusione
(negazione) e, senza l’esclusione del non-essere, verrebbe meno l’incontraddittorietà dell’essere.
Data per scontata la necessità del non-essere, affinché possa porsi
l’opposizione all’essere, e dunque la posizione determinata dell’essere
stesso, così Severino si esprime in ordine al punto riguardante il principio del mondo o dell’esperienza:
17
Facciamo notare che Giovanni Reale, nella sua «Introduzione» a PARMENIDE, Poema
sulla natura (già citato), parlando del rapporto che l’essere ha con i molti (l’esperienza) in Parmenide, propone quella che egli definisce “terza via”: “ho chiamato ‘terza via’ questa della
doxa, ma non nel senso di un tertium quid intermedio, bensì nel senso di un rivedere i fenomeni
nell’ottica della Verità” (p. 11). Ecco, questo “rivedere i fenomeni nell’ottica della Verità”, a
nostro giudizio, non può non significare il venir meno della loro pretesa di essere veramente,
cioè assolutamente. Nessun fenomeno, insomma, è autonomo e autosufficiente, ma è relativo,
così che ognuno si pone come il proprio riferirsi ad altro. In tal modo, ognuno è il proprio
uscire da sé, cioè il proprio trascendersi.
II. Il
riduzionismo immanente al parricidio di Parmenide
71
Ma intanto è già rilevante che ci si incominci ad accorgere che anche la manifestazione del mondo è una sorgente di verità, che non può essere barattata per
salvare quell’altra sorgente che è la ragione stessa come manifestazione
dell’essere; e, di conserva, ci si accorga che tra manifestazione dell’essere e
manifestazione del mondo non sussiste quella relazione di assoluta contraddittorietà o reciproca escludenza che vi scorgeva l’eleatismo18.
In questo passo viene esplicitato il convincimento che la ragione debba
venire intesa come “manifestazione” dell’essere. A nostro giudizio, non
ci si avvede che in tal modo si rischia di incorrere in una vera e propria
petitio principii: si dà per assunto proprio ciò che dovrebbe venire dimostrato.
Per confutare Parmenide, infatti, si dovrebbe dimostrare che l’essere
non può non manifestarsi, laddove è precisamente questo ciò che Parmenide esclude: se l’essere si manifestasse, infatti, negherebbe la propria assolutezza e si consegnerebbe a quelle forme finite, che ne configurerebbero la manifestazione. Se non che, queste ultime, proprio in
quanto finite, non sono altro che non-essere.
Assunta la manifestazione dell’essere come necessaria, diventa più
semplice farla coincidere con la ragione stessa, ma anche qui si fa valere
un nuovo assunto che non viene riconosciuto come tale. Che cosa si
intende dire, allorché si dice che la ragione è manifestazione dell’essere? Che la ragione accoglie tale manifestazione, senza produrre in
essa alcuna alterazione? Oppure che la ragione è la manifestazione
dell’essere?
Se la ragione è la manifestazione dell’essere, allora si deve aggiungere che non è l’unica, perché anche il mondo lo è. Se non significasse
questo, che cosa significherebbe l’espressione “manifestazione del
mondo”? Che c’è un mondo oltre la (al di là della) manifestazione, ossia oltre la molteplicità degli enti che si manifestano? Anche interpretando in questo modo il passo, il senso del discorso non è forse quello
per il quale si vuole comunque affermare che la differenza tra ragione
e mondo è solo apparente, perché in effetti sono entrambi manifestazione dell’unico essere?
Parmenide, però, afferma una cosa diversa nel Frammento 3: “Infatti
lo stesso è pensare ed essere (τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι)”19.
18
E. SEVERINO, «Traduzione, introduzione e commento» ad ARISTOTELE, I principi del divenire, cit., p. XVIII.
19
PARMENIDE, Poema sulla natura, cit., pp. 92-93.
72
Sul riduzionismo
Essere e pensare sono un medesimo nel senso che – questa almeno è la
nostra interpretazione – sono uno nell’assoluto.
Il pensare come atto, e non come attività, configura quell’unità che
coincide con lo stesso essere, nel senso che è l’atto del togliersi del
molteplice nell’uno e, dunque, è il riconsegnare all’unità dell’essere
quel molteplice che, in quanto molteplice, se ne è distaccato, riducendosi così a un essere che è solo parvente e che potremmo definire un
“esistere”, per differenziarlo dall’autentico essere.
Di contro, Severino è tra quei filosofi – che sono decisamente la
maggioranza – i quali intendono il molteplice come la manifestazione
dell’essere e il pensare come la sintesi (unificazione) di tali molteplici
forme. A noi sembra che ciò configuri la negazione di Parmenide, ma
non la sua confutazione, poiché è Parmenide che confuta i suoi negatori.
Se si afferma che i princìpi sono due, la ragione e l’esperienza, si
dovrà ben dire come si legittima l’esperienza. Ora, se è la ragione che
legittima l’esperienza, allora i due princìpi non si collocano al medesimo livello. E, se si afferma che è l’essere che li legittima, allora non
si potrà evitare di riconoscere che si tratta di un’affermazione posta
anch’essa dalla ragione (un’affermazione – notiamo per inciso – che,
tuttavia, non legittima l’assunto della manifestazione dell’essere).
Inoltre, se si ammettesse che ragione ed esperienza si collocano effettivamente al medesimo livello, allora sarebbe da chiedersi perché si
continua a parlare di “innegabilità” dell’esperienza. L’innegabilità non
è sancita forse dalla ragione e non costituisce una proprietà “concettuale” dell’esperienza? Come non avvedersi che, nel parlare di innegabilità dell’esperienza, si finisce inesorabilmente per subordinare il principio di esperienza al principio di ragione?
Del resto, lo stesso Aristotele, che pure si ritiene abbia inferto il
colpo finale alla verità di Parmenide, riconosce che il dato empirico,
cioè l’ὅτι, necessita della ragione che lo legittimi e che egli definisce
διότι, che significa ciò “mediante cui (διὰ)” l’ente (l’ὅτι, appunto) è.
Difficile, dunque, collocare fatto e ragione al medesimo livello, così
che il principio di esperienza e il principio di ragione non possono essere in alternativa l’uno con l’altro: lo sarebbero solo se complanari.
Parmenide, pertanto, non compie una scelta, ma è spinto da una necessità: la verità dell’essere, che coincide con il principio di ragione e
che indica l’incontraddittorietà dell’essere stesso, impone di cogliere le
cose del mondo come verità relative. E una verità relativa, essendo vincolata e dunque subordinata, non è verità affatto.
II. Il
riduzionismo immanente al parricidio di Parmenide
73
A nostro giudizio, non si tratta di correggere quanto affermato da
Parmenide, ma di integrarlo, precisando che il mondo non costituisce
l’innegabile, nel senso del necessariamente vero, bensì l’inevitabile.
Non si può evitare il confronto con i fatti, ma non li si può promuovere
a verità autentiche20. Essi, insomma, esistono, ma non sono, poiché
l’esistere non può venire confuso con l’essere.
Ciò consente di intendere l’esperienza come il succedersi orizzontale
di eventi che richiede l’emergere verticale della coscienza del loro intrinseco limite.
La manifestazione del mondo – o, meglio, la manifestazione che è il
mondo –, pertanto, non costituisce una sorgente di verità, come molti la
definiscono, ma è ciò che richiede la verità per venire adeguatamente
colta, cioè per evitare di venire assolutizzata21.
2.4. L’assolutezza delle idee in Platone
Per confrontarci con chi per primo ha tentato il parricidio, prendiamo
ora in esame l’argomento di Platone. Per farlo, cerchiamo di precisare
il punto di partenza del suo discorso.
Già nel Fedone, come è noto, Platone indica nelle idee quelle forme
trascendenti che consentono la conoscenza. Esse si pongono, infatti, oltre il divenire dell’esperienza e fondano le cose sensibili perché forniscono ad esse quell’essenza, che costituisce ciò che di tali cose è conoscibile per l’anima umana22.
20
Per un approfondimento del tema della differenza tra innegabile e inevitabile, si rinvia ad
A. STELLA, «Innegabile e inevitabile: genesi e valore ermeneutico di una distinzione intrinsecamente teoretica», Verifiche, XLIV (1-4), 2015, pp. 47-70.
21
«Per evitare che il niente sia, Parmenide afferma che le cose sono niente. Parmenide, che
per primo si affaccia al sentiero del Giorno, che corre lontano dal sentiero che l’Occidente ha
percorso, compie insieme il primo passo lungo il sentiero della Notte dell’Occidente, il sentiero
lungo il quale le cose sono pensate e vissute come un niente. Parmenide è il seminatore tragico
che getta insieme la semina della verità e la semina della follia» (E. SEVERINO, Il parricidio
mancato, cit., p. 77). A noi sembra, invece, che Parmenide intenda dire che le cose sono nonessere nel senso che, dal punto di vista della verità, cioè dell’essere, esse non sono la verità,
dunque sono non-essere. Se la verità è l’incontraddittorio, il determinato è il suo contraddirsi.
Ma il contraddirsi del determinato non mette capo al “nulla”, non è una “cancellazione”; esso,
piuttosto, coincide con la restituzione del determinato alla sua condizione finita. Ciò impone
che si differenzi l’essere, di per sé assoluto, dall’esistere, di per sé relativo. L’equivoco, dunque,
consiste nell’attribuire l’essere al finito, che invece esiste soltanto. Nell’attribuire, cioè, verità
a ciò che dipende da altro.
22
Cfr. PLATONE, Fedone, 75 d 1-2.
74
Sul riduzionismo
In particolare, nel Simposio, parlando dell’idea del bello23, Platone
dice che si tratta di una bellezza eterna, che non si sviluppa né si deteriora; di una bellezza assoluta, separata, semplice ed eterna (αὐτὸ
καθ’αὐτὸ μεθ’αὑτοῦ μονοειδὲς ἀεὶ ὄν)24 e, inoltre, non bella o brutta
secondo certi rapporti, proprio per sottolineare che essa è tale non relativamente, ma assolutamente.
Le idee, come emerge dalla “seconda navigazione”25, sono presenti
nelle cose sensibili, le quali partecipano di esse. Il concetto di “partecipazione”, dunque, svolge un ruolo centrale, perché indica la relazione
che sussiste tra la vera realtà, che è quella dei generi universali, e la
realtà delle cose sensibili. Di tale relazione ci occuperemo più avanti.
Qui ci preme sottolineare che Platone attribuisce alle idee quell’assolutezza che Parmenide attribuiva solo all’essere: ciascuna idea, pertanto,
è in sé e per sé (αὐτὸ καθ’αὐτὸ), cioè assoluta.
La prima riflessione che ci sentiamo di svolgere prende avvio da una
domanda: come è possibile affermare che le idee sono assolute, ma attribuire ad esse una determinatezza nonché considerarle molteplici?
A noi sembra che, per essere determinate, le idee devono essere separate da un limite, che esprime il medesimo concetto di relazione: determinare, infatti, è de-limitare, così che il determinato implica necessariamente ciò che lo determina. Come conciliare questa implicazione
con l’assolutezza dell’idea, visto che l’assoluto – se è veramente tale –
non può non escludere ogni relazione ad altro da sé?
Ricordiamo che la necessità dell’emergere della condizione incondizionata, e incondizionata perché assoluta, era stata già evidenziata da
Anassimandro, il quale aveva sottolineato come le cose finite, cioè segnate da un limite, non sono autonome e autosufficienti e per questo
necessitano di un fondamento, questo sì assoluto, che eviti il regressus
in indefinitum.
A nostro giudizio – e lo abbiamo sottolineato in precedenza –, fondare non significa porre una relazione tra il fondamento e il fondato:
se tale relazione si instaurasse, il fondamento subirebbe il condizionamento da parte di ciò che esso deve unilateralmente condizionare. La
23
Cfr. PLATONE, Simposio, 210 e 2 - 211 b 5.
PLATONE, Simposio, 211 b 1-2.
Con tale espressione, Platone intende nel Fedone (99 d 1-2) un nuovo modo di guardare
le cose, da lui messo in atto per cogliere la dimensione metafisica, come mirabilmente sottolinea
Reale (Cfr. G. REALE, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce delle “dottrine non
scritte”, Bompiani, Milano 20102, pp. 137 e sgg.).
24
II. Il
riduzionismo immanente al parricidio di Parmenide
75
relazione, insomma, non può porsi tra il fondamento e i fondati, ma
nella struttura intrinseca di questi ultimi, i quali si essenzializzano nel
loro relazionarsi al fondamento.
In questo senso, è solo la considerazione ordinaria, quella che Parmenide definisce “l’opinione dei mortali”, che ipostatizza i fenomeni
che costituiscono l’esperienza. Di contro, se letti alla luce della verità
del fondamento, che è poi la verità dell’essere, essi sono il loro trascendersi, cioè il loro valere come segni, metafore, che rinviano tutti al medesimo significato: l’assoluto essere.
Quest’ultimo, dunque, va inteso come uno e unico, cioè in senso trascendentale e non numerico; come un intero non composto di parti, precisamente come lo descrive Parmenide. Ne consegue che l’assolutezza
attribuita da Platone alle idee non può risultare effettiva.
2.5. Il Principio in Platone
Il nostro intendimento è mostrare che il parricidio non si risolve nella
questione del “non-essere”, alla quale viene generalmente ridotto, ma
investe i punti nodali del pensiero di Parmenide e, come conseguenza,
investe anche quella questione. Affinché ciò appaia in tutta evidenza,
inizieremo con il riflettere sul tema del principio.
Ricordiamo che, a muovere dagli “insegnamenti non scritti”, Platone
affronta il tema del principio in modo sempre più netto ed esplicito: egli
afferma l’esistenza di un terzo livello di realtà, come rileva Reale26, oltre quello delle cose sensibili e delle idee, nel quale si disporrebbero,
appunto, i principi, e cioè l’Uno e la Diade indefinita (o infinita). Per
Platone, quindi, il principio, che in qualche modo è l’Uno, si pone solo
in quanto si vincola al suo altro.
Dalla mescolanza dei principi, o meglio dall’intervento dell’Uno
sulla Diade, si formano le idee, le quali sono molteplici, pur conservando ciascuna una sua intrinseca unità. L’Uno sarebbe, dunque, il principio di determinazione formale e la Diade un principio di variabilità
indefinita che attende di venire definito.
Ciò che ci preme rilevare è che quell’Uno, che si pone in relazione
con la Diade, non può essere assoluto, come vorrebbe Platone, né è pensabile effettivamente come Uno.
26
G. REALE, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce delle “dottrine non
scritte”, cit., pp. 216 e sgg.
76
Sul riduzionismo
Se, infatti, la relazione lo vincola alla Diade, allora esso è, da un
certo punto di vista, autonomo, in quanto Uno, ma, da un altro punto di
vista, dipendente, in quanto vincolato e, quindi, condizionato. Senza la
Diade, questo è il punto, esso non sarebbe principio, così che la sua
autosufficienza, in effetti, risulta solo parvente. Inoltre, esso si divide in
sé, stante il suo essere autonomo et dipendente, così che cessa, a rigore,
di essere Uno.
Non di meno, v’è da notare che nella Repubblica27 Platone indica la
necessità di un principio incondizionato o non ipotetico. Nel riferirsi a
tale principio, Platone sembra mettere in discussione la sua determinabilità e questo, a nostro giudizio, è un punto davvero cruciale.
Se, infatti, il principio o fondamento viene determinato, esso cessa
di valere come assoluto e non può più emergere quale condizione incondizionata in grado di fondare la serie dei condizionati.
La nostra ipotesi è che anche Platone, seppure implicitamente, consideri inoggettivabile l’autentico fondamento, perché solo così esso può
valere quale condizione di ogni oggettivazione.
L’ipotesi ci sembra giustificata dall’analogia che egli pone con il
sole. Come il sole inonda di luce le cose e consente che esse vengano
viste, pur non essendo oggetto di visione diretta28, altrettanto il principio è la condizione trascendentale in virtù di cui si coglie il determinato.
Esso, tuttavia, non può venire colto, senza ricadere in quell’universo dei
determinati dal quale si richiede che emerga.
In questo passo della Repubblica, Platone intende esplicitamente far
valere il principio come emergente oltre ogni determinazione. In numerosissimi altri passi, invece, egli lo determina e gli fa svolgere la funzione del porre i principiati.
In Platone, insomma, il valore del principio viene sovente a coincidere con la funzione svolta nella costituzione delle determinazioni, così
che esso viene ad avere una funzione tetica, ma non una funzione critica. In conseguenza di ciò, esso perde anche il valore ablativo, che lo
pone come ciò in virtù di cui si toglie la pretesa del determinato di valere come autentico essere.
Ebbene, anche questo ci sembra il grande limite del parricidio: non
avere colto il valore dell’essere di Parmenide (valore che coincide con
27
28
Cfr. PLATONE, Repubblica, 508 e (e successivi).
Cfr. PLATONE, Repubblica, 508 e - 509 a; Fedone, 99 d 9-12.
II. Il
riduzionismo immanente al parricidio di Parmenide
77
il togliere la pretesa di essere del non-essere) e averlo sostituito con un
principio che svolge una funzione tetica.
Il valore dell’assoluto, invece, non può non tradursi in una funzione
critica, ossia nella de-assolutizzazione di ciò che, essendo finito, non
può pretendere di essere assolutamente (veramente). Tale funzione critica può venire ricondotta, come abbiamo detto, al valore ablativo del
principio, ossia al fatto che l’assoluto vale come ablatio alteritatis, cioè
come il venir meno del molteplice, il quale non può non risolversi
nell’uno.
Del resto, se il principio è assoluto, si può solo in-tendere di volgersi
ad esso e mai pre-tendere di inglobarlo: esso emerge infinitamente oltre
ogni relazione che voglia ridurlo a termine.
Scrive Ross a proposito dell’aspirazione di dedurre dal principio
nonché di cogliere relazioni tra universali:
Nel complesso questa rimane un’aspirazione inappagata [quella di cogliere relazioni tra universali]; senza Platone, però, non avremmo neppure l’aspirazione
stessa. A volte egli espresse questa aspirazione troppo fiduciosamente, come
nella Repubblica, dove parla di dedurre la natura completa del sistema delle
Idee da un unico principio non ipotetico29.
Il punto che vorremmo mettere bene in luce è il seguente: la questione
del parricidio di Parmenide concerne proprio la relazione.
Si badi: non soltanto la relazione negativa all’essere, che configura
il non-essere, ma anche la relazione al principio, se si tratta di un principio autenticamente assoluto, nonché la relazione tra le idee e le cose
sensibili.
Ross mostra che Platone attribuiva alle idee, cioè agli universali,
un’esistenza separata (χωριστός) dai particolari, cioè un’esistenza oggettiva30, assumendole come entità presupposte dalla stessa attività conoscitiva.
La separatezza delle idee indica la loro trascendenza, che non di
meno trova conciliazione con l’immanenza, dal momento che esse vengono pensate anche come “presenti” nelle cose sensibili. Ebbene, pro-
29
D. ROSS, Plato’s Theory of Ideas, Clarendon Press, Oxford 1951; trad. it. di G. Giorgini,
Platone e la teoria delle idee, il Mulino, Bologna 1989, p. 292.
30
Ivi, p. 293.
78
Sul riduzionismo
prio la relazione tra le idee e le cose sensibili è risultata assai problematica e lo stesso Platone, nel Parmenide, ha discusso questa problematicità.
Noi intendiamo prendere avvio da questa relazione per riflettere
sulla relazione negativa all’essere, cioè sul non-essere, e sulla relazione
come struttura dell’ordine formale.
La soluzione che è stata data al problema del rapporto tra universale
e particolari varia da studioso a studioso31, ma il punto è intendere questo legame, che non può non essere del tutto particolare. Ancora Ross
ne rileva la particolarità, parlando di “profondità del legame”32 e aggiungendo: “Platone potrebbe perfino avere avvertito che questa relazione è del tutto unica e indefinibile. Sia ‘partecipare’ sia ‘imitare’ sono
metafore il cui scopo è esprimere questa relazione”33.
Le cose partecipano delle idee e per questa ragione sono ciò che
sono. Ma cosa si intende con il verbo “partecipare”? Ordinariamente, si
intende che l’idea è presente nella cosa, la quale partecipa dell’idea. Se
non che, la questione è che una relazione si pone a condizione di una
omogeneità che deve sussistere tra i relati. Come è possibile instaurare
una relazione con ciò che si è definito “staccato” (χωριστός)?
Qualora si ammetta che una tale relazione sia intelligibile, si dovranno contemplare tre possibilità della sua realizzazione. La prima
possibilità consiste nell’elevazione delle cose sensibili, alle quali viene
attribuito uno statuto ontologico ideale: solo così risulterebbe garantita
l’omogeneità tra i relati. Per la seconda possibilità, sono le idee che si
abbassano e la relazione le materializza. Per la terza possibilità, si postula un quid medium che non è idea né cosa sensibile.
Orbene, le prime due possibilità possono venire accantonate perché
estranee al dualismo platonico. La terza viene presa attentamente in
31
La letteratura sul concetto di methexis in Platone è vasta. Ci limitiamo qui a segnalare il
dibattito sull’argomento del “terzo uomo” che ha coinvolto G. VLASTOS, «The Third Man Argument in the Parmenides», Philosophical Review, LXIII (3), 1954, pp. 319-349; R.S. BLUCK,
«The Parmenides and the Third Man Argument», Classical Quarterly, VI (1-2), 1956, pp. 2937, e Id., «Form as Standards», in Phronesis, II (2), 1957, pp. 115-127; P.T. GEACH, «The Third
Man Again», in Philosophical Review, LXV (1), 1956, pp. 72-82; R.E. ALLEN, «Participation
and Predication in Plato’s Middle Dialogues», Philosophical Review, LXIX (2), 1960, pp. 147164; G. VLASTOS, «Reasons and Causes in the Phaedo», Philosophical Review, LXXVIII (3),
1969, pp. 291-325.
32
D. ROSS, Platone e la teoria delle idee, cit., p. 297.
33
Ibidem.
II. Il
riduzionismo immanente al parricidio di Parmenide
79
considerazione nel Parmenide e sostanzialmente si rileva come dia
luogo a un regresso che non può non andare avanti all’infinito34. A tale
regresso, Aristotele ha dato il nome di “aporia del terzo uomo”35.
A noi sembra di poter aggiungere questa notazione: l’identità di un
termine, cioè dell’idea, dovrebbe essere assoluta, cioè autonoma e autosufficiente. Così, almeno, lo stesso Platone descrive ogni idea.
Se non che, nel momento in cui l’idea entra in relazione con altro da
sé, essa non può non subire una radicale trasformazione. Da autonoma
e autosufficiente deve trasformarsi in un’identità dipendente e aperta
alla differenza. Ci domandiamo: ciò non comporta il suo perdere il valore ideale?
La notazione non si ferma all’aspetto indicato. V’è anche un aspetto
ulteriore da considerare. L’altro termine, cioè la cosa sensibile, a rigore
non può venire assunta come un’autentica identità, proprio per la ragione che non è autonoma né autosufficiente.
Con la seguente conclusione, estremamente rilevante da un punto di
vista teoretico-speculativo: la relazione non deve collocarsi tra l’idea e
la cosa, ma nella struttura intrinseca della cosa (o, anche, nell’idea, se
intesa come determinata e, quindi, non assoluta), così da trasformarla
in un segno, stante il suo essere riferendosi.
2.6. La questione del non-essere
Affrontiamo ora il tema della relazione negativa all’essere. In genere,
si ritiene che Platone abbia tentato il parricidio di Parmenide nel Sofista
ad opera dello Straniero di Elea. Quest’ultimo viene utilizzato per criticare radicalmente Parmenide a muovere da una prospettiva non troppo
lontana da quella dello stesso Platone.
Non a caso, lo Straniero così afferma: “Non credere che io divenga
quasi un parricida” e alle perplessità di Teeteto così spiega:
34
Cfr. PLATONE, Parmenide, 130 e-134 a; in Opere Complete, vol. III, trad. it. di A. Zadro,
Laterza, Roma-Bari 19765, pp. 20-27.
ARISTOTELE, Metafisica, I, 9, 990 b 17; trad. it. di G. Reale, Rusconi, Milano 1978, p.
105.
80
Sul riduzionismo
Perché, per difenderci, sarà necessario che noi sottoponiamo a esame il discorso
del nostro padre Parmenide, e dovremo sostenere con forza che ciò che non è, in
certo senso, è esso pure e che ciò che è, a sua volta in certo senso non è36.
L’obiettivo del discorso, dunque, è mostrare che, in un certo senso, anche il non-essere è e l’essere non è: “Perché infatti per farti piacere affronteremo la confutazione del discorso parmenidèo, se pure riusciremo
a confutarlo”37.
Inizialmente, lo Straniero argomenta sull’uno e si chiede se il tutto è
uno, per concludere che l’uno può essere diviso in parti, ancorché, se
fosse veramente uno, dovrebbe essere indivisibile38. Successivamente,
egli svolge un discorso più articolato, sulla prima parte del quale non si
può non concordare:
Se il conoscere ha da essere un fare, per necessità consegue che ciò che viene
conosciuto subisca. E così l’essere, appunto per questa ragione, essendo esso
conosciuto dalla conoscenza, per tanto, per quanto è conosciuto, si muove perché subisce un’azione, la qual cosa noi affermiamo non poter accadere per ciò
che sta in quiete39.
Riteniamo che quanto affermato fin qui dallo Straniero sia perfettamente condivisibile proprio perché l’essere, anche per noi, non è conoscibile, in quanto assoluto: l’essere è inoggettivabile o insemantizzabile,
ossia non può subire modificazione alcuna dall’attività del conoscere o
del dire.
Se non che, nella seconda parte del suo discorso, lo Straniero perviene a una conclusione opposta alla nostra: usa, infatti, questo argomento per negare l’assolutezza dell’essere:
E allora per Zeus? Ci faremo persuadere così facilmente che in realtà il moto,
la vita, l’anima, l’intelligenza non ineriscano a ciò che assolutamente è, ch’esso
né vive né pensa, ma invece venerabile e santo, senza intelletto, se ne sta fermo,
immoto?40.
Come si evince dal passo, si cerca di sostenere che l’essere non debba
venire pensato come indeterminabile, proprio perché assoluto, ma gli si
36
PLATONE, Sofista, 241 d 2-7; in Opere Complete, vol. II, trad. it. di A. Zadro, Laterza,
Roma-Bari 19754, p. 223.
37
Ivi, 242 b 1-3; trad. it. cit., p. 223.
38
Cfr. ivi, 244 d - 245 a.
39
Ivi, 248 e; trad. it. cit., p. 233.
40
Ivi, 248 e - 249 a; trad. it. cit., p. 233.
II. Il
riduzionismo immanente al parricidio di Parmenide
81
possano attribuire vari predicati, perché per lo Straniero non determinare l’essere equivale ad assumerlo come una realtà astratta, ancorché
come una realtà “venerabile e santa”. In tal modo, l’essere viene ridotto
a una qualunque determinazione empirica e questa è la più radicale negazione della verità dell’essere di Parmenide.
Quanto affermato fin qui funge da preambolo all’argomentazione
che concerne il non-essere: “Quando noi parliamo di ‘ciò che non è’, è
evidente che noi non parliamo di un opposto (ἐναντίον) di ‘ciò che è’,
ma solo di una cosa diversa (ἕτερον)”41.
Ebbene, precisamente questo viene comunemente considerato l’argomento decisivo per l’affermazione del non-essere e, quindi, per la
relativizzazione stessa dell’essere. Così lo Straniero precisa ulteriormente tale argomento:
E dunque quando si dirà che negazione significa opposizione, noi non concederemo questo, ma soltanto invece ammetteremo che qualche cosa di altro indicano le particelle negative, come μή (non) e ου (non), preposte ai nomi che
le seguono, o piuttosto poste davanti alle cose alle quali sono applicati i nomi
pronunciati dopo la negazione42.
Se non che, a nostro giudizio, il vero nodo è costituito dalla relazione
che tanto l’opposto quanto il diverso intrattengono con l’essere. È precisamente questa relazione che, secondo la nostra interpretazione, non
può non valere come la negazione dell’essere.
Se l’essere è assoluto, infatti, la relazione non può porsi estrinsecamente all’essere, perché lo vincolerebbe a qualcosa di diverso da esso e
lo negherebbe come assoluto. Ma non può porsi nemmeno intrinsecamente all’essere, perché lo dividerebbe in sé stesso e ancora ne negherebbe l’assolutezza.
Dove collocare, allora, la relazione? A rigore, a noi sembra che la
relazione non possa venire posta, se si intende mantenere il principio
dell’essere: questa è la ragione per la quale il non-essere non può non
venire meno a sé stesso.
Esso, infatti, pretenderebbe bensì di essere, per valere quale altro
dall’essere, ma di essere come negazione dell’essere. Si potrebbe dire
anche così: il non-essere pretenderebbe di porsi come termine che si
differenzia dall’essere, per poter entrare in relazione con l’essere, ma,
41
42
Ivi, 257 b 2-4; trad. it. cit., p. 244.
Ivi, 257 b 4 - c 3; trad. it. cit., p. 244.
82
Sul riduzionismo
insieme, come termine che nega l’essere, così che non si vede come
possa evitare di negare il proprio essere non-essere.
Se si desse la relazione tra essere e non-essere, insomma, non solo
l’essere verrebbe ridotto a termine, e perderebbe la sua assolutezza, ma
il non-essere varrebbe come essente, pur dichiarando il proprio non essere. Che è come dire: il non-essere, se pensato alla luce dell’essere,
non può non rivelarsi una contraddizione, cioè il proprio contraddirsi
come non-essere.
Con questa conseguenza, che è fondamentale: la relazione si rivela
la genesi stessa della contraddizione, che è altro modo per indicare il
non-essere, il quale è la relazione negativa all’essere.
Tale relazione, infatti, produce l’inintelligibile ipostasi tanto dell’essere quanto del non-essere. Da questo punto di vista, quindi, parlare di
altro dall’essere non cambia lo status della questione.
È precisamente quell’altro dall’essere che l’essere esclude, escludendo la relazione che è la negazione stessa dell’essere.
2.7. La verità in Parmenide e in Platone
Ciò che Parmenide cerca è la verità. Più precisamente, egli cerca l’autentica verità, non quelle verità che vengono fatte valere ordinariamente
dai mortali. Costoro, infatti, assumono come verità ciò che si presenta
al loro sistema percettivo-sensibile, così che i sensi diventano il fondamento stesso della verità.
Di contro, l’insormontabile differenza ontologica43 – per usare
l’espressione di Heidegger – che sussiste tra fondamento e fondati non
sfugge a Parmenide, forte della lezione di Anassimandro. A noi sembra
più corretto parlare di “irriducibilità” del fondamento – lo abbiamo già
rilevato – e ciò per la ragione che la differenza è una relazione, la quale
comunque costituisce un vincolo tra i relati.
43
Heidegger, nell'Introduzione a Essere e tempo, afferma (Capitolo primo, paragrafo 1,
punto 2) l'indefinibilità dell'essere, stante che “definitio fit per genus proximum et differentiam
specificam”. Egli così prosegue: “L’‘essere’ non può infatti venir concepito come un essente,
enti non additur aliqua natura. Non si può determinare l’‘essere’ attribuendogli l'ente” (M.
HEIDEGGER, Sein und Zeit, Erste Hälfte, Sechste unveränderte Auflage, Neomarius Verlag, Tübingen 1927; tr. it. a cura di P. Chiodi, Essere e tempo, Fratelli Bocca Editori, Milano-Roma
1953, p. 15). Poco prima, al punto 1, aveva scritto: “Già Aristotele aveva riconosciuto l'unità di
questo ‘universale’ trascendentale di fronte alla molteplicità effettuale dei supremi concetti di
specie, indicandola come l'unità dell'analogia” (Ivi, p. 14). Anche noi, per indicare il valore
dell’essere, che è assoluto, usiamo l’espressione “trascendentale”.
II. Il
riduzionismo immanente al parricidio di Parmenide
83
Come l’apeiron, così l’essere non può venire collocato, invece, al
medesimo livello degli enti – dunque, non si può parlare di “differenza”,
che implica omogeneità tra i differenti –, i quali indubbiamente si presentano, ma proprio per questa ragione valgono solo come verità relative al sistema che li rileva e che consente il configurarsi della loro presenza determinata.
L’universo empirico è costituito da una molteplicità di enti che divengono e proprio per questa ragione Parmenide li considera non-essere: poiché l’essere è uno e assoluto, molteplicità e divenire appaiono,
ma non sono veramente.
Traducendo quanto detto nel linguaggio che abbiamo cercato di proporre, potremmo affermare che molteplicità e divenire trovano nella relazione la loro condizione di possibilità.
La relazione, infatti, pone la molteplicità a muovere dalla dualità dei
termini relati – e la dualità è la molteplicità espressa nella sua forma più
elementare – e pone il divenire, perché implica il riportare di ciascun
termine all’altro: non a caso, “relazione” è da “referre”. Se non che,
come abbiamo visto, l’assolutezza dell’essere non può non valere come
la più radicale esclusione della funzione relazionante.
Dal punto di vista dell’essere, l’universo empirico, incluso il linguaggio che lo dice, risulta quindi non-essere, stante che solo l’essere è
assolutamente vero.
Di contro, dal punto di vista di chi si colloca nell’universo empirico,
e cioè dal punto di vista dei mortali – incluso Parmenide, per quel tanto
che anch’egli vive vincolandosi al suo campo percettivo –, ciò che vale
come premessa di ogni argomentazione e di ogni discorso è proprio tale
universo: dall’esperienza, che è molteplicità e divenire, non è possibile
prescindere.
Tuttavia, e questo è il punto sul quale richiamiamo l’attenzione del
lettore, l’inevitabilità dell’esperienza non può venire fatta valere quale
autentica innegabilità, come invece fa Platone con un’argomentazione
che può così venire riassunta e riproposta: per negare l’esperienza la si
deve comunque assumere, cioè presupporre.
A nostro giudizio, non di effettiva innegabilità si tratta, ma di semplice inevitabilità. L’inevitabile è ciò da cui non si può prescindere operativamente. L’innegabile è il necessario, ossia ciò che non può non
essere senza contraddizione.
Solo l’essere è innegabile, giacché solo l’essere è la ragione che consente di smascherare ciò che sembra verità senza esserlo, ossia è
84
Sul riduzionismo
quell’incontraddittorio in virtù di cui è possibile cogliere la contraddizione.
L’innegabilità del fatto, invece, risulta tale in forza di una negazione
che è solo formale, perché si struttura come relazione negativa. Il suo
carattere meramente formale emerge se si considera quanto segue: affinché tale negazione si ponga, essa deve acquisire una determinatezza,
la quale le è fornita proprio dal suo “negato”. La negazione di nulla,
infatti, non può non essere nulla come negazione, così che essa si trova
a negare proprio ciò che, per altro verso, è costretta a postulare.
Di contro, la negazione trascendentale è l’intrinseco negarsi di ogni
determinazione, la quale è posta da quello stesso limite che le impone
di riferirsi ad altra de-terminazione: essa, insomma, è trascesa nel momento stesso in cui è posta.
Se questo status viene letto secondo la prospettiva delineata dalla
relazione, allora la realtà risulta valere come l’insieme di molteplici determinazioni. Se, per contrario, viene letto alla luce dell’essere, allora
ogni determinazione presenta un’identità che poggia sulla differenza,
così che è, in sé, sé et non-sé.
Alla luce dell’essere, ogni identità determinata si rivela una contraddizione, che è altro modo per dire “non-essere”. E la contraddizione non
è qualcosa, ma il suo stesso contraddirsi.
Quando affermiamo che il determinato si contraddice, pertanto, non
affermiamo che si cancella e scompare, bensì che viene meno la contraffazione che lo fa valere quale verità autentica. Ciò che si nega, dunque, è la pretesa del non-essere di affiancarsi all’essere: questo ci sembra il fondamentale insegnamento di Parmenide.
Altrimenti detto: la verità, per Parmenide, è tutt’uno con lo smascheramento dell’errore, che coincide con l’assumere come vera realtà (essere) ciò che è realtà solo apparente (non-essere).
Quest’ultima coincide con l’esperienza fatta di determinazioni, la cui
struttura è costituita dalla relazione: solo la relazione, infatti, genera
l’apparente coesistenza di identità e differenza, laddove verità è il rivelarsi in sé differenza di quell’identità che, essendo determinata, non è
assoluta, dunque non è l’essere.
Il tema della relazione, pertanto, è intrinsecamente vincolato al tema
dell’identità. L’identità formale vale come determinata ed esibisce una
falsa autonomia e una falsa autosufficienza, giacché la sua determinatezza è funzione del suo differenziarsi da altra identità.
II. Il
riduzionismo immanente al parricidio di Parmenide
85
Di contro, l’autentica identità, che sia effettivamente autonoma e autosufficiente, è solo del fondamento, il quale, nella sua assolutezza, non
solo non richiede relazioni, ma anzi le esclude radicalmente. In questo
senso, solo l’essere di Parmenide si configura come autentica identità,
cioè come identità metafisica che consente di cogliere il limite di intelligibilità di ogni identità fisica.
L’identità metafisica, del resto, non si pone in alternativa all’identità
fisica, cioè all’identità determinata, proprio perché si dispone a un diverso livello. Questo ci sembra il punto nodale: l’alternativa è una relazione, la relazione disgiuntiva esclusiva, che postula il collocarsi dei
disgiunti su un medesimo piano.
Ebbene, proprio il collocarsi dell’uno (essere) e del molteplice (nonessere) su piani diversi impedisce di considerarli in alternativa e consente di intendere l’essere come emergente oltre l’universo delle determinazioni. Un’emergenza che, a rigore, è lo stesso venir meno di ciò su
cui il fondamento emerge, così che i livelli risultano bensì due, ma solo
se pensati a muovere dall’inevitabile, che è il suo necessario togliersi
proprio come soltanto inevitabile.
In tal modo, il parricidio di Parmenide, proprio in quanto “fatto”, si
rivela immerso in quell’ordine di realtà che coincide con il proprio innegabile trascendersi.
Capitolo III
Il riduzionismo teoretico e il concetto di relazione
3.1. Riduzione e relazione
Il discorso svolto nei due Capitoli precedenti può venire riassunto in
questi termini: il riduzionismo teoretico è esprimibile mediante una
forma prioritaria e cioè come riduzione del fondamento a cominciamento, che significa la riduzione dell’essere a ente o dell’assoluto a relativo. Esso, inoltre, può venire inteso anche come riduzione dell’unità
a unificazione.
Se pensato in quest’ultima forma, il riduzionismo teoretico coincide
con la negazione stessa dell’unità autentica. L’unificazione, infatti, altro non è se non la sintesi e ciò comporta che quell’unità, che vale come
fondamento per il suo trascendere le determinazioni – e, dunque, per il
suo valere non come atto tetico, ma come atto ablativo, e cioè come
ablatio alteritatis –, viene ridotta a relazione, la quale viene a sua volta
assunta come costrutto mono-diadico.
Di contro alla prospettiva riduzionistica, insomma, la prospettiva
teoretica fa valere l’unità come fondamento, ancorché tale unità non sia
determinabile proprio perché essa emerge oltre l’ordine dei determinati.
Per intendere tale unità, ci sembra siano illuminanti le parole che Hegel
utilizza per indicarla:
Ma a questa unità non si riflette (Aber auf diese Einheit wird nicht reflektiert).
E nondimeno è soltanto questa unità, che evoca nel finito l’infinito e nell’infinito [che ancora si contrappone al finito] il finito (im Endlichen das Unendliche, und im Unendlichen das Endliche hervorruft). Essa è per così dire la molla
del progresso infinito (sie ist sozusagen die Triebfeder des unendlichen Progresses). Questo progresso è l’esterno di cotesta unità, un esterno a cui la rappresentazione si ferma (Er ist das Äuβere jener Einheit, bei welchem die Vorstellung stehen bleibt)1.
1
G.W.F. HEGEL, Wissenschaft der Logik (1812-1816), in Sämtliche Werke; trad. it. di A.
Moni, Scienza della logica, vol. I, Laterza, Bari 1974³, pp. 144-145.
87
88
Sul riduzionismo
La prospettiva ordinaria, invece, riduce il fondamento a relazione e la
relazione a medio tra estremi. Se, quindi, teoreticamente il fondamento
è quell’unità che vale quale condizione trascendentale, ossia come condizione inoggettivabile di ogni oggettivazione, la considerazione ordinaria, al contrario, riduce tale condizione a relazione, e ciò per due ragioni essenziali: in primo luogo, perché la relazione è determinabile in
forza dei relati che unifica e, in secondo luogo, perché essa costituisce
la struttura di ogni sistema, inclusi il sistema empirico e il sistema formale o discorsivo.
Che è come dire: il fondamento cessa di valere come il trascendentale e viene fatto valere come la struttura del formale, ossia come ciò
che pone in essere il sistema dei determinati (ogni sistema determinato,
incluso il sistema di tutti i sistemi).
Come abbiamo cercato di mostrare nel precedente capitolo, nella
concezione di Parmenide non c’è posto per la relazione: se solo l’assoluto essere veramente è, allora la relazione non può sussistere, perché
non può collocarsi all’interno dell’essere né esternamente ad esso, vincolandolo al suo altro, cioè al non-essere.
La concezione riduzionistica, che assume l’esperienza come innegabile, laddove essa è solo inevitabile, fa della relazione l’autentico fondamento, perché all’unità sostituisce la molteplicità, la quale si costituisce solo in forza della relazione, e cioè a muovere dalla dualità unificata: quest’ultima vale come la molteplicità espressa nella sua forma
più elementare e si configura come relazione proprio per tenere insieme
le due identità che, reiterandosi, generano la dualità.
Il concetto di “relazione”, come cercheremo di evidenziare nel prosieguo del discorso, sta alla base tanto del concetto di “identità” quanto
del concetto di “differenza” e precisamente per questa ragione esso costituisce la condizione formale basale (o struttura) di ogni sistema.
Se volessimo generalizzare il discorso, aggiungendo ulteriori considerazioni che attengono al sistema della teoria, potremmo dire che anche la causalità, intesa sia come fattore oggettivo (in senso ontologico)
sia come una modalità di spiegazione (in senso epistemologico), si
struttura in forza di una relazione, quella che sussiste tra causa ed effetto. E lo stesso concetto di “spiegazione”, meccanicistica o funzionalistica, si struttura sempre di una relazione, quella tra lo explicans (explanans) e lo explicandum (explanandum)2. Perfino il concetto di atomo
2
Nel quarto capitolo della Parte Seconda approfondiremo il tema della “spiegazione”.
III. Il
riduzionismo teoretico e il concetto di relazione
89
implica il concetto di relazione, giacché l’atomo indica (o intende indicare) qualcosa che è in sé semplice perché non si struttura, appunto, in
forza di una relazione.
Di contro, tutto ciò che prevede una relazione nella sua struttura intrinseca è scomponibile e può venire scomposto, se si intende ricercare
l’elementare. Lo stesso concetto del concetto, se inteso in senso formale, indica l’unità di una molteplicità, cioè il fatto che “concettualizzare” significa cogliere l’unità in una molteplicità di fenomeni o dati.
Questo per indicare, in forma estremamente rapida, che il concetto
di “relazione” è fondamentale per il sistema della teoria e ciò per il fatto
che esso concilia la molteplicità, ancorché espressa nella sua forma minima, che è appunto la dualità, con l’unità, rappresentata dal nesso che
è unico ed è il comune tra i termini. Ogni sistema, infatti, è un insieme
di elementi e l’insieme si costituisce in forza della relazione.
Proprio per questa ragione, quando Morin parla di pensiero complesso3, lo intende nel senso del cum-plexus, cioè di qualcosa che è “intrecciato con qualcos’altro” e, pertanto, lo fa poggiare sul concetto di
unitas multiplex. Più radicalmente, quando Severino parla di “struttura
originaria”4, intende lo strutturarsi e articolarsi dell’immediatezza, così
che l’immediato risulta in sé mediato.
Tanto con Morin quanto con Severino, dunque, si affida alla relazione, cioè all’unità di una molteplicità, un compito decisivo, dal momento che le si attribuisce il valore di fondamento del reale o, meglio,
di quel reale che coincide con il formale.
Più in generale, si potrebbe affermare che la stessa esperienza è un
insieme di fenomeni che sono organizzati in forza di un tessuto di relazioni (textus), così che conoscere, anche scientificamente, la realtà significa individuare e calcolare i nessi che sussistono tra gli eventi, e
cioè disfare la tessitura (il testo) a muovere da un filo conduttore.
Gli esempi potrebbero continuare: ogni giudizio è una relazione che
vincola il soggetto a un predicato (non a caso, si parla di verbi copulativi) e ogni discorso è un insieme di nessi fra enunciati; un sistema è un
insieme di elementi, come lo sono il numero, la classe e la categoria.
Non avrebbe senso insistere con le esemplificazioni: il valore fondamentale del concetto di “relazione” non può non emergere anche dai
3
Cfr. E. MORIN, Introduction à la pensée complexe, Editions du Seuil, Paris 1990; trad. it.
di M. Corbani, Introduzione al pensiero complesso, Sperling & Kupfer, Milano 1993.
4
Cfr. E. SEVERINO, La struttura originaria, già citato.
90
Sul riduzionismo
rapidi accenni fatti, così che non si può non rilevare che il riduzionismo
teoretico, che sostituisce all’unità dell’assoluto quell’unificazione che
caratterizza ogni sistema (ogni insieme ordinato di elementi prevede la
relazione, ossia l’unificazione, come propria struttura), assume la relazione come condizionante posizionale e ciò costituisce la premessa di
ogni riduzionismo teorico.
Diventa pertanto essenziale precisare tale concetto.
3.2. Il concetto ordinario di relazione
Ordinariamente, quando si parla di “relazione” si intende un costrutto
formato da due termini estremi (A e B) e un nesso (r) che li vincola. È
precisamente per questa ragione che si è soliti parlare di costrutto monodiadico e tale costrutto viene espresso nella seguente formula: r (A, B).
Il costrutto relazionale svolge, come già anticipato, una funzione insostituibile perché organizza la struttura dell’esperienza. E tuttavia,
esso si è rivelato un costrutto problematico. La sua problematicità
emerge perché, se la relazione è pensata come intercorrente tra A e B,
allora essa si propone come un nuovo termine: il termine medio.
Il termine medio, da un certo punto di vista, unisce A e B; ma, da un
altro punto di vista, divide A da B. Se questo quid medium lo indichiamo con la lettera C, allora si vengono a configurare due nuove relazioni, e cioè quella intercorrente tra A e C e quella intercorrente tra C
e B. Con questa importantissima conseguenza: dalle due nuove relazioni originano due nuovi medi, e così via all’infinito.
Ebbene, proprio l’inconcludenza di un regressus in indefinitum – lo
abbiamo ricordato nel precedente capitolo – viene evidenziata da Platone nel Parmenide, allorché l’Eleate prende in considerazione la relazione che intercorre tra i modelli ideali e le cose5.
Aristotele, nella Metafisica, accenna più volte all’argomento del
terzo uomo, intendendo il carattere aporetico del concetto platonico di
“partecipazione”6, in quanto esso – ci sentiamo di aggiungere – venga
ridotto al concetto ordinario di relazione.
La domanda che ci poniamo è la seguente: nel caso della relazione,
intesa come costrutto mono-diadico, si ha a che fare con un’aporia o,
piuttosto, con un’antilogia, cioè con una contraddizione vera e propria?
5
6
Cfr. PLATONE, Parmenide, 130 e - 132 b; tr. it. cit., pp. 21-23.
Cfr. ARISTOTELE, Metafisica, I, 9, 990 b 1-18; tr. it. cit., p. 105.
III. Il
riduzionismo teoretico e il concetto di relazione
91
Prima di procedere con l’argomentazione, ricordiamo che la contraddizione deve venire intesa nel senso del dicere et non dicere (non nel
senso del dicere contra, che configura una contrapposizione tra due
stati, piuttosto che una contraddizione). Un costrutto, pertanto, risulta
contraddittorio quando si contrappone a sé stesso, cioè quando toglie
ciò che pone: più precisamente, quando toglie nel porre.
Ricordiamo, inoltre, che la contraddizione deve venire distinta, secondo quanto indicato dallo stesso Aristotele, dalla contrarietà. Lo Stagirita svolge un’analisi sul concetto di opposizione e rileva che “contrari” sono quei termini che ammettono termini intermedi (ad esempio,
il bianco e il nero, che ammettono una gradazione di grigi), laddove
“contraddittori” sono quelli che non li ammettono (ad esempio,
bianco/non bianco).
Ciò che ne consegue è che i contraddittori danno luogo a un’alternativa che divide in due sezioni quello che potrebbe venire definito il
campo del reale, dal momento che una qualunque determinazione cade
necessariamente o nell’uno o nell’altro dei due campi7. L’alternativa,
pertanto, è una relazione disgiuntiva esclusiva (aut, aut) e la conciliazione dei termini è impossibile. Tale conciliazione costituisce non altro
che una contraddizione, la quale è proprio la conciliazione di inconciliabili.
Ebbene, per rispondere alla domanda dianzi formulata, muoviamo
dalla seguente considerazione: la relazione postula l’identità dei relati
(A e B) e la postula secondo la forma in cui l’identità viene ordinariamente concepita e cioè tale che tanto A quanto B risultino ciascuno
identico a sé stesso e per questo differente da ogni altro.
Secondo la considerazione ordinaria, dunque, A e B sono due identità, cioè due realtà che esibiscono una propria autonomia e autosufficienza, tant’è che possono venire assunte l’una a prescindere dall’altra.
Se così non fosse, se ciascuna identità non potesse venire considerata
per la sua autonomia, non potrebbe nemmeno venire codificata e non si
potrebbe dire “A” né si potrebbe dire “B”. Se dico “A”, insomma, allora
con tale lettera indico un’identità che si pone indipendentemente da altro e lo stesso vale per “B”.
Se non che, è proprio a muovere da questo punto che si configura il
problema. La relazione, infatti, viene a conciliare due esigenze che non
7
Cfr. ivi, X, 7, 1057 a 18-32, tr. it. cit., p. 430.
92
Sul riduzionismo
possono non escludersi reciprocamente: da un lato, essa postula l’identità dei relati; dall’altro, richiede che l’identità dell’uno non sia chiusa,
cioè autonoma e autosufficiente, ma sia aperta all’identità dell’altro,
onde giustificare il loro vincolo.
Ma è bene il vincolo che non si concilia con l’autonomia delle identità, nel senso che, se A è A perché autonomo, nel momento in cui entra
in relazione con B perde la sua autonomia e, dunque, cessa di essere A.
Se non venisse meno come A, nessuna relazione si sarebbe instaurata.
Su questo aspetto insiste lo stesso Duns Scoto, il quale afferma che,
se l’unione di A e B esprime non altro che gli stessi A e B assoluti, cioè
autonomi e autosufficienti, allora il composto di A e B non differisce in
nulla da A e B separati, così che non è un composto affatto: la relazione,
insomma, non si è effettivamente instaurata8.
3.3. Il costrutto relazionale e la necessità di rendere dinamico uno
status
Per trovare una soluzione al problema indicato, e cioè per evitare che il
costrutto risulti contraddittorio, si potrebbe ipotizzare che A è A prima
di entrare in relazione con B e diventa A1 dopo essere entrato in tale
relazione (e lo stesso vale per B, che diventa B1). In questo caso, tuttavia, si riproporrebbero due nuove relazioni: quella tra A e A1 e quella
tra B e B1. Così, la difficoltà precedentemente rilevata tornerebbe a riproporsi, perché tanto A quanto B dovrebbero valere come due identità
che, pur essendo richieste come autonome, non potrebbero evitare di
porsi in forza del rapporto ad altro.
La relazione, pertanto, richiede i termini come se fossero due identità
distinte e autonome (A non è B), ma, insieme e contraddittoriamente,
come se l’un termine si fondasse sull’altro (A c’è perché c’è B; A non
può stare senza B). Che è come dire: il costrutto mono-diadico concilia
l’indipendenza dei termini con la loro reciproca dipendenza e, cioè,
concilia ciò che è in sé inconciliabile.
Come uscire dalla difficoltà? L’unica possibilità sembrerebbe questa: intendere tanto l’indipendenza quanto la dipendenza dei termini in
senso relativo.
8
Cfr. G. DUNS SCOTO, «Opus Oxoniense» (1300-1303), II, d. 1, q. 4, n. 5, in ID., Opera
omnia, vol. II, ed. Commissione scotistica diretta da C. Baliç, Typis Vaticanis, Città del Vaticano 1950.
III. Il
riduzionismo teoretico e il concetto di relazione
93
Assumere l’autonomia e l’autosufficienza dei termini in senso assoluto, infatti, è precluso non solo dal fatto che essi sono in relazione, ma
anche dal fatto che A e B sono determinati e ogni identità si determina
solo perché si differenzia (su questo punto torneremo più avanti). Non
di meno, una qualche forma di indipendenza dei termini deve venire
mantenuta, se si intende distinguere A da B. La soluzione, come detto,
parrebbe quella di considerare l’indipendenza solo relativa.
Reciprocamente e scambievolmente, anche la dipendenza dei termini non può valere come assoluta. Se fosse assoluta, allora l’un termine si capovolgerebbe immediatamente nell’altro, si con-fonderebbe
con l’altro, così che entrambi verrebbero meno, venendo meno la determinatezza di ognuno (che poggia sulla loro identità e che consente di
distinguerli), e verrebbe meno, a fortiori, anche la relazione. Se ne conclude che anche la dipendenza andrebbe intesa in senso relativo.
A questo livello di indagine, dunque, il costrutto relazionale viene
mantenuto postulando che la relativa indipendenza dei termini possa
venire conciliata con la loro relativa dipendenza. Su questa conciliazione ci proponiamo, pertanto, di riflettere.
Essa può venire espressa anche così: i termini devono differenziarsi,
ma la condizione del loro differenziarsi è precisamente il nesso che li
vincola, stante che la differenza è essa stessa una relazione; i termini,
inoltre, devono relazionarsi, ma la condizione del loro connettersi è precisamente il loro mantenersi distinti, il loro essere irriducibili l’uno
all’altro, stante che, solo se permangono due, la relazione può configurarsi come medio.
In sintesi, e per quanto possa apparire paradossale: la relazione vincola perché distingue e distingue perché vincola. Questa è la problematicità del suo status. La conciliazione della relativa indipendenza e dipendenza dei termini viene così assunta come la dinamicità intrinseca
del costrutto relazionale e la stessa esperienza (conoscenza) viene colta
come se fosse il risultato della dialettica che sussiste tra soggetto e oggetto.
La relativa indipendenza dei termini, che può venire anche definita
il momento disgiuntivo della relazione, viene fatta coincidere con
l’aspetto sensibile dell’esperienza, ossia con il momento per il quale i
dati valgono senza esibire il nesso che li vincola.
La relativa dipendenza dei termini, che può venire definita il momento congiuntivo della relazione, viene fatta coincidere, invece, con
l’aspetto concettuale dell’esperienza stessa e cioè con il momento per
94
Sul riduzionismo
il quale emerge la necessità che l’identico si ponga relazionandosi al
diverso.
Di questi due momenti ora ci occuperemo. Successivamente, ci domanderemo se il modo in cui i momenti vengono ordinariamente conciliati possa venire considerato effettivamente intelligibile.
3.4. Aspetto sensibile e aspetto concettuale dell’esperienza
Per procedere con ordine, e rispettando i tempi indicati, diciamo che
dell’esperienza, intesa come relazione di soggetto e oggetto, si possono
individuare due livelli: il primo livello può venire definito percettivosensibile e il secondo logico-concettuale.
Il livello percettivo-sensibile si costituisce valorizzando la relativa
indipendenza di soggetto e oggetto nonché dei dati che si presentano
nel campo percettivo. Tale livello, come dicevamo, si costituisce valorizzando l’aspetto sensibile della relazione.
Il sentire, infatti, si caratterizza per l’alterità di senziente e sentito,
tant’è vero che il soggetto senziente assume l’oggetto sentito come se
questo fosse una realtà autonoma e autosufficiente e come se venisse
sentito proprio in forza del suo pre-esistere all’esperienza del sentire.
In effetti, l’oggetto non è estraneo alla relazione al soggetto, né è
estraneo al sentire, se viene sentito. Esso, anzi, è solo perché viene sentito: se si postula il suo essere precedente al sentire, ciò accade solo
dopo che lo si è sentito, quale risposta all’esigenza di mantenere un’oggettività che possa fondare il sentire stesso.
Se non che, ammettendo la possibilità che l’oggetto entri ed esca
dalla relazione al soggetto (dunque negando che la relazione costituisca
la sua stessa identità di oggetto), ci si viene a trovare nella seguente
aporia: aut l’oggetto permane il medesimo, ma allora esso mantiene la
stessa identità sia nel suo essere autonomo e irrelato sia nel suo riferirsi
ad altro da sé, e ciò configura contraddizione; aut esso si trasforma entrando in relazione, ma allora gli oggetti diventano due o, comunque, si
è costretti ad ammettere che lo stesso oggetto si presenta in due forme
diverse.
In questo caso, però, la conseguenza è che l’oggetto, indicato come
in sé, deve venire solo postulato (presupposto) e mai colto (posto). Allorché viene posto, infatti, esso viene comunque posto in forza della
relazione al soggetto. E se, per evitare questa difficoltà, si dichiara che
l’oggetto in sé si trasforma nell’oggetto per altro, allora si è costretti ad
III. Il
riduzionismo teoretico e il concetto di relazione
95
ammettere una nuova relazione che vincoli i due oggetti o, per dirla in
altri termini, le due forme del medesimo oggetto.
Se non che, in tal modo si contraddice ciò che si postula: si postula
l’oggetto in sé, perché solo esso può valere come fondamento; lo si contraddice, perché si pretende di vincolarlo ad altro, ossia alla forma che
lo descrive come relato.
La conclusione non può che essere questa: l’oggetto è sentito come
se fosse altro dal soggetto, ma la sua alterità è modo della relazione che
lo vincola inscindibilmente al soggetto. Si tratta, appunto, del modo sensibile dell’esperienza, ossia dell’aspetto della relativa indipendenza dei
termini. Ebbene, tale indipendenza, che può venire pensata solo come
relativa, viene assunta invece come assoluta in quella particolare forma
di esperienza che è il sentire: l’indipendenza è sentita come assoluta.
Il sentito, proprio perché sentito come altro, induce però nel senziente un sentire ulteriore: il bisogno di ricongiunzione con l’oggetto,
sentito come estraneo al soggetto. Ciò non di meno, questa ricongiunzione, ecco il punto, non può ottenersi al livello dell’esperienza sensibile, giacché anche l’esperienza dell’interiorizzazione dell’oggetto riproduce quest’ultimo nella sua alterità, anche se nella forma del cosiddetto “oggetto interno”.
Per ricostituire l’unità con l’oggetto, si deve quindi andare oltre
l’aspetto sensibile della relazione, che valorizza la reciproca indipendenza dei termini fino ad assolutizzarla. Si impone, cioè, la necessità di
far valere la relativa dipendenza di soggetto e oggetto.
Tale dipendenza può venire considerata “relativa” per la ragione che
la forma del riferimento cambia, così che i termini mantengono una loro
differenza reciproca: il modo in cui il soggetto si relaziona all’oggetto
è diverso dal modo in cui l’oggetto si relaziona al soggetto. Il soggetto
si riferisce, e dunque costituisce il momento attivo del riferimento (il
referente); l’oggetto viene riferito, e dunque costituisce il momento passivo del riferimento (il riferito).
In questo contesto, il soggetto non produce l’oggetto, ma decreta
modi e forme del suo presentarsi, giacché dire “soggetto” equivale a dire
“sistema di riferimento” mediante il quale l’oggetto viene riferito.
Questa posizione può venire identificata con l’idealismo trascendentale di Kant, che si oppone all’idealismo assoluto di Berkeley, volto a
dissolvere l’oggetto nel soggetto. Per evitare la dissoluzione dei termini,
e quindi della stessa relazione, si valorizza bensì la reciproca dipendenza di soggetto e oggetto, ma non fino al punto di assolutizzarla.
96
Sul riduzionismo
Possiamo parlare, pertanto, di aspetto concettuale della relazione, il
quale, pur mettendo in primo piano il reciproco riferirsi dei termini, sottolinea la diversa modalità del riferimento, che giustifica il mantenimento della dualità dei relati. Parliamo di aspetto concettuale, inoltre,
in ragione dell’etimo della parola concetto, che indica il prendere insieme (cum-capere) i termini, laddove l’aspetto sensibile tendeva a disgiungerli.
Ora, l’oggetto viene reso presente in forza delle modalità con cui il
soggetto si rapporta ad esso e la struttura relazionale del mondo risulta
non altro che la sua struttura razionale, quella struttura che, come detto,
la scienza si incarica di descrivere e calcolare.
In effetti, le relazioni che vengono ravvisate tra le cose e nelle cose
sono il frutto della relazione fondamentale, cioè quella che sussiste tra
soggetto e oggetto.
Su questa relazione, infatti, si fonda il processo del conoscere, che
consiste nell’individuare e sciogliere nessi (analizzare). La stessa teoria
vale come descrizione di relazioni che intercorrono tra determinati elementi, così che si configura necessariamente come sistema.
Gli elementi, inoltre, vengono indagati non soltanto per coglierli nel
loro essere, ma soprattutto per determinare le interazioni che intercorrono tra di essi, interazioni che vengono descritte e misurate, onde realizzare quella che può essere definita l’interpretazione funzionale del
dato.
Quest’ultima fa della matematica il paradigma fondamentale cui riferire ogni scienza empirica, proprio in considerazione della valenza
aritmetica della relazione, la quale si costituisce come assimilazione
(omogeneizzazione) dei diversi e come reiterazione (moltiplicazione)
dell’identico.
La scienza, insomma, è scienza di rapporti e non v’è teoria che non
si configuri come descrizione di relazioni. Per converso, queste ultime
devono venire espresse in termini matematici, perché solo così possono
venire rapidamente calcolate, dando luogo a una computazione riproducibile (o simulabile) in forza di automi a stati finiti.
3.5. Valore intrinseco della relazione
Il secondo livello descritto configura bensì un livello concettuale, ma il
concetto è ancora inteso in senso formale. La relazione, infatti, non
viene colta come l’intrinseca mediazione dell’immediato, ma come la
III. Il
riduzionismo teoretico e il concetto di relazione
97
sua mediazione estrinseca, cioè come una mediazione che sopraggiunge sull’immediato, piuttosto che costituirne la struttura.
Che cosa intendiamo dire? Che mantenere la relazione in forza della
conciliazione della relativa indipendenza e dipendenza dei termini significa pensarla ancora come estrinseca rispetto all’identità, perché
solo così è possibile mantenere l’ordine della forma, cioè quell’ordine
che si fonda sull’identità del dato pensata nel senso dell’immediatezza
e su una mediazione intesa come relazione intercorrente tra i dati (immediati).
Se non che, la domanda che deve venire posta è la seguente: cosa si
intende, propriamente, allorché si parla di identità? Per esaminare il
concetto di identità, prendiamo avvio da come essa viene ordinariamente intesa. Ebbene, il principio di identità afferma che ogni cosa è
identica a sé stessa e, proprio per questa ragione, è diversa da ogni altra.
Per esprimere in forma più chiara un tema così rilevante, consideriamo la definizione di identità che ci viene offerta da Aristotele nel V
libro della Metafisica:
L’identità è una unità d’essere o di una molteplicità di cose, oppure di una sola
cosa, considerata però come una molteplicità: per esempio come quando si dice
che una cosa è identica a se stessa, nel qual caso essa viene considerata appunto
come due cose9.
L’identità esprime, dunque, o che una cosa è identica a un’altra (A id.
B, A è B) o che una cosa è identica a sé stessa (A id. A, A è A). Nell’un
caso come nell’altro il punto fondamentale, che deve essere messo bene
in evidenza, è il seguente: l’identità si costituisce come identità tra due
termini.
Ciò consente di mettere in luce un punto nodale: l’identità si fonda
sulla relazione o, detto con altre parole, la relazione è costitutiva
dell’identità. L’alterità (non-A), infatti, non può non (necessariamente)
venire richiesta, anche se viene richiesta per venire negata, affinché risulti la medesimezza sostanziale dei due termini che la forma, invece,
presenta come distinti.
Ciò vale anche quando si afferma l’identità della cosa con sé stessa.
Anche questa identità, infatti, si esprime nella forma “A è A”, ossia
come una relazione, sancita dalla copula “è”, e tale relazione altro non
9
ARISTOTELE, Metafisica, V, 9, 1018 a 16; tr. it. cit., p. 236.
98
Sul riduzionismo
è che un’identità proprio per la ragione che il primo termine coincide
con il secondo.
D’altra parte, però, è da rilevare che, se i termini non si disponessero
come due, non si potrebbe rilevare – né si potrebbe affermare – il loro
essere un medesimo. Con questa conclusione: la relazione funge e opera
nel concetto di identità. Solo per la ragione che i termini sono due, di
essi può dirsi l’identità.
Per affermare lo idem, o l’unità (la medesimezza), si deve insomma
comunque presupporre la differenza, così che, anche quando si afferma
l’identità della cosa con sé stessa, si è costretti a sdoppiarla, a reduplicarla, ossia a introdurre una relazione nel suo essere, onde inscrivere la
molteplicità all’interno dell’unità. Per questa ragione Aristotele afferma
che una cosa viene considerata come due cose.
Che sia effettivamente così lo si comprende anche svolgendo un altro
ragionamento. Se, quando parliamo di un’identità, intendiamo una
identità determinata, allora non possiamo dimenticare che ciò che la
de-termina, cioè la rende finita, è precisamente il limite. Se non che, il
limite è tale solo per la ragione che ha due facce: una che guarda verso
il limitato e una che guarda verso il limitante.
Ciò spiega quanto avevamo affermato in precedenza, e cioè che
l’identità determinata si pone in forza del suo differenziarsi, ossia del
suo contrapporsi ad altra identità: “A è A” perché “non è non-A”.
Solo l’identità dell’assoluto, quindi, non necessita della relazione e
proprio per questa ragione esso è definito assoluto: ab-solutum, infatti,
indica ciò che è sciolto da vincoli, da relazioni. Ma, per questa ragione,
l’assoluto è, a rigore, indeterminato e indeterminabile. Di contro, se si
parla di un’identità determinata, la relazione oppositiva alla differenza
risulta essenziale e costitutiva (intrinseca) dell’identità.
Con questa formidabile conseguenza: se la relazione è essenziale al
costituirsi dell’identità, allora non si potrà evitare di mettere in discussione la rappresentazione sensibile che dispone non-A fuori da A. La
rappresentazione, infatti, induce la convinzione che una certa indipendenza possa continuare a sussistere, dal momento che A e non-A occupano spazi diversi, anche nell’enunciato.
Se viene messa in discussione la rappresentazione sensibile, anche il
“concetto”, descritto come congiuntivo di momenti distinti, viene colto
come ancora vincolato a tale rappresentazione. Esso congiunge, ma solo
perché mantiene distinti i congiunti, così che si rivela un concetto an-
III. Il
riduzionismo teoretico e il concetto di relazione
99
cora formale. Il sistema formale, infatti, si configura grazie al mantenimento dei dati, assunti per la loro presunta immediatezza, e delle relazioni estrinseche tra di essi.
Di contro, affermare che concettualmente non-A è essenziale al costituirsi di A (e viceversa) non può non significare che la differenza
viene riconosciuta come intrinseca e costitutiva dell’identità e ciò impone di andare oltre l’ordine della forma.
La relazione, questo è il punto cruciale, non può venire pensata come
intercorrente tra A e B, ma come immanente ad A e a B, secondo quanto
indicato da Hegel nella Scienza della logica, là dove egli distingue la
relazione estrinseca (äuβerliche Beziehung) dalla relazione intrinseca
(immanente Synthesis)10.
La prima coincide con il costrutto mono-diadico e assume l’identità
come autonoma dalla differenza; la seconda, invece, fa valere il principio, che Hegel riprende da Spinoza, per il quale omnis determinatio est
negatio: ogni determinazione è negazione, ma non negazione di altro,
bensì negazione di sé medesima.
Se, infatti, si perviene alla consapevolezza che A e B sono due identità che si pongono solo in forza del loro inviare l’una all’altra, allora
tale invio non può venire pensato come successivo alla costituzione
dell’essere di A e di B, ma come coincidente con l’essere di entrambi:
A è relazione a B, e viceversa, perché A senza B non può stare, così che
B entra nella costituzione intrinseca di A e la relazione risulta una immanente Synthesis.
Chi ha ripreso l’indicazione hegeliana, e l’ha portata alle sue estreme
conseguenze, è stato Bradley, il quale in Apparenza e Realtà perviene
a questo punto fondamentale:
Una relazione indipendente dai suoi termini è un’illusione. Se essa deve essere
reale deve esserlo in un certo senso a spese dei termini o, per lo meno, deve
essere qualcosa che si manifesta in loro o a cui essi appartengono. Una relazione tra A e B implica realmente un fondamento sostanziale in loro. […] La
nostra conclusione sarà, in breve, la seguente: la relazione presuppone la qualità [i termini], e la qualità la relazione; nessuna delle due può esistere indipendentemente dall’altra né in sua compagnia e il circolo vizioso nel quale entrambe si avvolgono non può essere l’ultima parola sulla realtà11.
10
Cfr. G.W.F. HEGEL, Scienza della logica; tr. it. cit., pp. 87-109.
F. H. BRADLEY, Appearance and Reality. A Metaphysical Essay, 2a ediz. riveduta (con
l’aggiunta di un’appendice), S. Sonnenschein, London 1897; trad. it. di D. Sacchi, Apparenza
11
100
Sul riduzionismo
La vera realtà, dunque, non può non emergere oltre la relazione, perché
non può non emergere oltre la contraddizione.
Proprio per salvare il mondo dell’esperienza ordinaria, invece, Russell12, in consonanza con Moore13, afferma il carattere estrinseco della
relazione, la quale si disporrebbe tra i dati e come tale darebbe luogo
all’implicazione.
Cogliere il valore costitutivo della relazione non può non imporre un
ripensamento del concetto di identità: ogni identità è in sé il riferimento
ad altro da sé, come era emerso considerando il ruolo che il limite ha
nella posizione dell’identità determinata. Ogni identità, pertanto, altro
non è che una contraddizione: ciascun A è in sé altro da sé; è sé e la
propria negazione; A è in sé non-A.
Questo punto risulta di fondamentale importanza. Esso mette in evidenza non soltanto che ogni identità determinata è una contraddizione,
ma altresì che il tentativo attuato per salvare la relazione dalla contraddizione risulta vano.
Parlare di relativa indipendenza e relativa dipendenza dei termini
della relazione non è più possibile: l’indipendenza dei termini, essenziale per mantenere la dualità, si dissolve, anche nella sua forma debole,
cioè come indipendenza relativa, in virtù della consapevolezza che ogni
identità è in sé rinvio ad altro da sé.
La differenza entra così nella costituzione intrinseca dell’identità e
la loro differenziazione deve venire collocata a un livello diverso rispetto a quello in cui vige il loro intrinseco riferirsi.
Se la differenza vale come esterna (estrinseca) rispetto all’identità,
allora si impone quello che abbiamo definito l’ordine formale; di contro, se vale il loro intrinseco riferirsi, allora si impone il superamento
dell’ordine formale e tale superamento coincide con la mediazione
e realtà, Rusconi, Milano 1984, pp. 160-163. Per un approfondimento, si rinvia a D. SACCHI,
Unità e relazione. Studi sul pensiero di F.H. Bradley, Vita e Pensiero, Milano 1981.
12
Cfr. B. RUSSELL, The Principles of Mathematics, Cambridge University Press, Cambridge 1903; trad. it. di E. Carone e M. Destro, I principi della matematica, Newton Compton
Italiana, Roma 1971; Id., Logic and Knowledge: Essays 1901-1950, The Macmillan Company,
New York 1956; trad. it. di L. Pavolini, Logica e conoscenza, Longanesi, Milano 1961; B.
RUSSELL, A.N. WHITEHEAD, Principia Mathematica, 3 voll., Cambridge University Press,
Cambridge 1910; trad. it. di L. Geymonat, Principia Mathematica, Longanesi, Milano 1963.
13
Cfr. G.E. MOORE, «The Refutation of Idealism», Mind, XII (48), 1903, pp. 433-453;
ripubblicato in Philosophical Studies, Routledge and Kegan Paul, London 1922, pp. 1-30.
III. Il
riduzionismo teoretico e il concetto di relazione
101
dell’immediato, cioè con la consapevolezza che la relazione va intesa
come atto e non come medio tra estremi.
Potremmo, allora, ricapitolare il discorso svolto in questo modo: il
primo livello è quello nel quale vige e opera l’aspetto disgiuntivo della
relazione, che consente il configurarsi dell’aspetto sensibile dell’esperienza; il secondo livello è quello nel quale vige e opera l’aspetto congiuntivo della relazione, che consente il configurarsi dell’aspetto concettuale dell’esperienza stessa, basato però su un concetto ancora formale di “concetto” e di “relazione”; il terzo livello, infine, coincide con
la mediazione in atto del dato e con il trascendersi della relazione ridotta a costrutto.
3.6. Il terzo livello: la relazione come atto
Riconoscere il valore intrinseco della mediazione non può non comportare la trasformazione dell’immediato, il quale non viene più inteso
come un dato o un fatto, ma come l’atto del suo andare oltre sé stesso,
l’atto del suo trascendersi.
Si potrebbe anche dire in questo modo, per riprendere quanto abbiamo affermato poc’anzi a proposito dell’identità determinata: poiché
ogni determinazione è sé stessa in quanto si riferisce ad altra determinazione, essa è, in sé, sé e non sé, ossia è una contraddizione. Quando
parliamo di contraddizione, non intendiamo indicare qualcosa-che-è,
ma qualcosa che è tutt’uno con il suo negarsi. La contraddizione, insomma, non configura uno status.
Così come la relazione è l’atto del relazionarsi, la contraddizione è
l’atto del contraddirsi. Ciò che abbiamo voluto emergesse con chiarezza è che, in effetti, si tratta di un unico e medesimo atto, stante che
relazione e contraddizione sono due forme che indicano la medesima
struttura: la struttura dell’immediato.
Anche la relazione, pensata come medio, riproduce tale struttura e la
riproduce come se, invece, se ne differenziasse, dal momento che si presenta come mediazione. Una mediazione, però, che non può venire considerata autentica, proprio perché estrinseca.
Se, insomma, l’immediato non può venire pensato come un’identità
autonoma e autosufficiente, nonché compatta e monolitica, altrettanto
intenderne la struttura nella forma del costrutto relazionale significa ri-
102
Sul riduzionismo
proporre quella stessa immediatezza, che, di contro, si intendeva oltrepassare. La relazione come medio, infatti, poggia sulla presunta immediatezza dei termini e si pone essa stessa come un nuovo termine.
Per queste ragioni, non possiamo non ribadire la differenza che sussiste con la prospettiva di coloro che valorizzano la relazione, fino al
punto, come nel caso di Severino, che essa viene assunta come l’originario.
Severino afferma che la struttura originaria “è lo strutturarsi della
principialità, o dell’immediatezza. Ciò comporta che l’essenza del fondamento non sia un che di semplice, ma una complessità, o l’unità di
un molteplice”14.
Con questa affermazione, egli esprime l’intenzione di assumere
l’immediato come fondamento proprio perché si tratterebbe di un immediato inteso in senso dinamico: la dinamicità gli sarebbe conferita
dalla sua struttura, che è la mediazione intesa come costrutto relazionale. Tale assunto viene ripreso poco dopo:
la posizione del fondamento implica essenzialmente il toglimento della negazione del fondamento; o che questo si realizza come apertura originaria della
verità solo in quanto è in grado di togliere la sua negazione, e quindi solo in
quanto sta in relazione con questa15.
Severino, quindi, intende conciliare l’inconciliabile, giacché l’immediato, che prevede una sua intrinseca struttura, è contraddittoriamente
immediato e la verità, che si fonda sulla relazione alla non-verità, è contraddittoriamente verità.
Egli si trova, pertanto, a far valere la contraddizione come originaria, così che anche la derivazione del molteplice dal fondamento è contraddittoriamente derivazione.
Il punto è che per noi la contraddizione è il suo contraddirsi; per Severino, invece, la posizione di un immediato che si articola al suo interno non è la posizione della contraddizione, ma del complesso.
Per Severino, inoltre, la posizione di una “unità molteplice”, assunta
come l’originario, consente di spiegare la genesi del mondo delle determinazioni. Queste ultime valgono come “enti” e, poiché l’ente è “non
niente”, le determinazioni valgono come eterne. In tal modo, Severino
14
15
E. SEVERINO, La struttura originaria, cit., p. 107.
Ivi, p. 111.
III. Il
riduzionismo teoretico e il concetto di relazione
103
spiega il mondo e lo eternizza, perché lo fa derivare da una struttura
originaria, che coincide con lo stesso fondamento.
A noi sembra che l’obiettivo non sia spiegare la genesi del mondo:
il mondo delle determinazioni costituisce il presupposto a muovere dal
quale si argomenta e del quale si deve cogliere il limite di intelligibilità.
Il presupposto non è il fondamento: il primo si pone a prescindere dalla
legittimità della sua posizione; il secondo si legittima in virtù di sé
stesso, perché solo il fondamento è veramente autonomo e autosufficiente.
Il punto nodale che intendiamo sottolineare con forza, perché riveste
valore centrale nell’economia del discorso che andiamo svolgendo, è
precisamente questo: il riduzionismo teoretico si esprime proprio nella
forma della riduzione del fondamento a cominciamento o presupposto,
così che è precisamente tale riduzionismo che produce la valorizzazione
del dato e promuove l’esperienza a verità oggettiva.
Il riduzionismo teorico, che cercherà di ridurre la realtà empirica a
livelli assunti come sempre più basali, poggia necessariamente sul riduzionismo teoretico e di questo costituisce il prolungamento.
Proprio per questa ragione abbiamo affermato che il primato della
relazione configura l’altro modo per indicare il medesimo riduzionismo
teoretico: il modo che consiste nel negare l’assoluto, riducendolo al relativo (o relazionale).
Ogni determinazione empirica – per proseguire il discorso sul dato
– si presenta come un immediato, cioè si presenta come se fosse autonoma e autosufficiente. Si presenta, dunque, come se fosse assoluta, secondo quanto emerge dalla concezione del cosiddetto nuovo realismo
metafisico, del quale ci occuperemo nel primo capitolo della Parte Seconda.
Se non che, è proprio la sua determinatezza che le impone di riferirsi
alla differenza. Quest’ultima, pertanto, entra nella costituzione dell’immediato e per questa ragione l’immediato non può non subire una intrinseca trasformazione (mediazione).
Tale trasformazione (mediazione) deve venire intesa come l’atto in
virtù di cui l’immediato oltrepassa la sua parvente immediatezza e non
già come la struttura relazionale, che invece lo legittimerebbe per come
esso si presenta.
Il fondamento non è determinabile né come immediato né come mediazione e per questa ragione esso trascende il sistema dei determinati.
Esso, piuttosto, è la condizione che consente di rilevare il limite tanto
104
Sul riduzionismo
di un immediato che si determina, quanto di una mediazione che si configura in forma relazionale.
In questo senso, lo si potrebbe pensare come quell’incontraddittorio
che impone alla contraddizione di contraddirsi, giacché solo contraddicendosi essa è effettivamente contraddizione.
Il fondamento, insomma, è la ragione per la quale il mondo delle
determinazioni non può venire assolutizzato o eternizzato, ma deve venire colto nell’atto che gli impone di andare oltre quell’autosufficienza
che sembrerebbe decretarne l’oggettività.
Orbene, proprio in questo atto, da un certo punto di vista, è possibile
ravvisare la “vita” delle cose, il fatto cioè che ogni cosa è in sé un “tendere” verso un’altra cosa.
Da un punto di vista più radicale, invece, ciascuna determinazione
viene pensata nel suo originario trascendersi, ossia viene colta – lo abbiamo già detto, ma giova ripeterlo – come un segno. Quest’ultimo dà
luogo a un riferirsi orizzontale, che pone il segno in relazione intrinseca
con ogni altro segno, ma soprattutto si esprime come un riferirsi verticale, che vincola inscindibilmente il segno al significato, nel quale il
segno si realizza togliendosi.
Il medesimo discorso può venire espresso in questi termini: ciascun
dato (immediato) deve venire pensato non soltanto nella rete di relazioni che lo vincola ad altro dato, ma altresì nel suo riferirsi alla coscienza, che consente di interpretarlo, cioè che gli attribuisce il significato e il valore che gli competono.
Il livello dell’interpretazione è, dunque, il livello della coscienza.
Mentre il primo e il secondo livello configurano l’ordine della presunta
realtà intesa nella sua oggettività, essa stessa presunta, di contro scoprire che le relazioni non si pongono tra dati, ma nel loro intrinseco
essere, implica il riconoscere che ogni dato è l’atto del suo radicarsi
nella coscienza, che attribuisce ad esso un significato e un valore perché
di esso coglie il limite. E, va aggiunto, la coscienza coglie il limite del
determinato proprio perché lo trascende.
In tal modo, la realtà non vale più come un’immediatezza, cioè come
un insieme di determinazioni autonome e indipendenti. Se si parla di
“seconda immediatezza” (zweite Unmittelbarkeit), come fa Hegel a più
riprese, ciò è accettabile solo a condizione di non intenderla come un
nuovo dato, cioè solo a condizione di mantenere la trasformazione che
l’atto di coscienza produce sulla realtà dell’esperienza, la quale diventa
il campo della coscienza del soggetto.
III. Il
riduzionismo teoretico e il concetto di relazione
105
In conclusione, se l’identità è pensabile solo come invio alla differenza, allora la relazione non è pensabile nel modo dell’identità. Qualora la relazione venisse infatti identificata come medio, allora essa verrebbe a distinguersi dai termini che relaziona, là dove essa deve coincidere, risolvendovisi, con la loro distinzione.
Conseguentemente: in quanto si distinguesse dal suo essere la distinzione stessa dei termini, la relazione postulerebbe ancora un medio
tra sé e ciascuno dei distinti, riproponendo l’aporia del terzo uomo.
L’atto del relazionarsi è il mediarsi stesso dell’immediatezza, che si
impone in ragione della contraddittorietà intrinseca del dato (immediato) nonché della contraddittorietà della relazione ridotta a medio,
cioè assunta nella forma dell’immediatezza. Per questa ragione, il terzo
livello è il livello della coscienza, che risulta bensì un meta-livello, ma
solo a condizione che si tengano fermi i due livelli precedenti.
In tale livello, da un lato, si pone la consapevolezza del limite tanto
del livello percettivo-sensibile, poggiante sulla separatezza dei dati,
quanto del livello concettuale-formale, poggiante sulla loro congiunzione estrinseca; da un altro lato, si lascia emergere il significato autentico del dato, che viene interpretato dalla coscienza e posto solo in virtù
di questa interpretazione (mediazione).
Poiché il primo e il secondo livello sono il loro stesso oltrepassarsi,
anche il livello della coscienza cessa di venire inteso come “terzo livello” e si esplicita come l’atto rivelante in virtù del quale la coscienza
pone il rivelato (dato) solo perché lo trascende, cioè solo perché ne coglie il limite.
Immediato e mediazione, pertanto, se pensati come complanari e reciproci, configurano un circolo che non può evitare il carattere vizioso.
Di contro, se la mediazione è intesa come l’intrinseco mediarsi dell’immediato, allora ogni identità determinata viene colta nel suo valere
quale atto, quell’atto di coscienza che, nel porre la determinazione, insieme la toglie.
Se, allora, il riduzionismo teoretico assume l’esperienza come realtà
oggettiva, cioè riduce la vera realtà o la realtà del fondamento al sistema dei fatti (dati) o sistema dell’esperienza, nonché assume la relazione come la struttura di tale realtà, riducendo la stessa relazione da
atto a costrutto, il riduzionismo teorico, invece, si incarica di analizzare
progressivamente la relazione, onde mostrare come i molteplici livelli
in cui si stratifica l’esperienza possono venire ridotti a livelli sempre
più elementari, fino a un presunto ultimo livello, che coinciderebbe con
106
Sul riduzionismo
quello descritto dalla fisica delle particelle, le quali, per lo meno idealmente, dovrebbero essere semplici, cioè non strutturate in forza della
relazione.
In questo senso, il riduzionismo mette capo al fisicalismo e, in ultima
istanza, al materialismo. E tuttavia, è la stessa fisica delle particelle che,
procedendo anche essa mediante l’analisi, non perviene a un corpuscolo
di materia che possa risultare indubitabilmente semplice, cioè indivisibile, ma riconosce nelle stringhe le vibrazioni di quella che viene considerata come la struttura più elementare della materia. Si tratta, insomma, di una struttura elementare e, dunque, non di una realtà puntiforme.
Ma questi saranno temi che verranno trattati nella Parte Seconda del
presente lavoro.
Parte Seconda
Il riduzionismo teorico
Capitolo I
Il concetto riduzionistico di realtà
1.1. Il riduzionismo teorico in generale
Il riduzionismo teorico concerne, in particolare, le teorie scientifiche e
fa la sua comparsa nel Diciassettesimo e nel Diciottesimo secolo. Con
il termine “riduzionismo”, in questo caso, si intende una particolare
concezione epistemologica che è volta a formulare concetti e linguaggio
di una determinata teoria scientifica nei termini di un’altra teoria scientifica, considerata però più basilare, cioè considerata fondamentale.
Il riduzionismo sorge vincolandosi al meccanicismo, che è quella
concezione secondo la quale la realtà può venire considerata come un
insieme di enti che interagiscono tra di loro e che producono processi,
tali che, dato il punto di partenza, è possibile determinare univocamente
e a priori il punto d’arrivo, se si conosce la legge che sta alla base
dell’interazione o del processo stesso. Per questa ragione, il meccanicismo si è inizialmente vincolato al determinismo.
Il punto che deve venire tenuto ben presente è che il meccanicismo
è stato considerato il modello fondamentale per cogliere la natura e per
individuare le leggi che ne regolerebbero lo svolgimento. In questo
senso, il naturalismo risulta intrinsecamente vincolato al meccanicismo
e al riduzionismo, poiché la realtà, che in ultima istanza risulta quella
fondamentale, è la realtà fisica, cioè la realtà naturale.
Il fisicalismo è un altro tratto distintivo essenziale per comprendere
il nuovo modello con cui viene letta e interpretata la realtà dell’esperienza, la quale, come abbiamo detto al termine della Parte Prima, viene
assunta come la vera realtà, cioè la realtà oggettiva.
Poiché, inoltre, il fisicalismo, nelle sue forme più radicali, viene interpretato in senso materiale, anche il materialismo diventa un ulteriore
tratto che connota la concezione scientifica del mondo. Dal momento
che, però, la scienza contemporanea, in particolare la fisica, tende a
considerare il termine “materia” come ambiguo, il materialismo, nelle
scienze più evolute, ha lasciato il posto al fisicalismo.
109
110
Sul riduzionismo
Se nella filosofia ottocentesca, infatti, la materia era assunta come il
substrato delle sensazioni e, dunque, come la sostanza del mondo percepito, di contro il materialismo ha progressivamente perduto la sua
centralità, che tuttavia ancora conserva in alcune forme di riduzionismo,
come per esempio nel riduzionismo che vige in quell’ambito di ricerca
che è rappresentato dalla Filosofia della mente.
Come vedremo nel secondo capitolo di questa Parte Seconda, l’affermazione di un’unica sostanza, la sostanza materiale, e quindi la concezione del monismo materialistico – sostenuta da molti neuroscienziati, psicologi e filosofi riduzionisti –, presenta notevoli limiti concettuali e, inoltre, la fisica contemporanea ha a che fare con entità che con
difficoltà possono venire categorizzate come “materiali”: si pensi, per
esempio, ai campi di forza, alle oscillazioni quantiche, agli spazi a
molte dimensioni e, infine, alle stringhe.
Per intendere adeguatamente il discorso svolto, ci sembra opportuno
sottolineare che, se il modello meccanicistico-naturalistico era inizialmente utilizzato unicamente per studiare la natura, successivamente la
sua efficacia ha convinto gli scienziati che poteva essere applicato non
soltanto al corpo dell’uomo, esso stesso ente naturale, ma anche alla sua
mente.
Quest’ultima è stata vieppiù studiata riducendola a quegli aspetti che
possono venire colti da quelle scienze, come la psicologia e le neuroscienze, che utilizzano il metodo delle scienze naturali e, anzi, si è parlato di naturalizzazione della mente.
Ebbene, il nostro progetto è proprio quello di specificare il senso di
questa espressione, non prima, tuttavia, di avere precisato che il riduzionismo concerne, in modo specifico, il rapporto che intercorre tra la
biologia e la fisica.
Si potrebbe dire, infatti, che il dibattito sul riduzionismo è una componente preponderante della filosofia della biologia. In questo contesto,
esso si configura in triplice forma: come una tesi ontologica, una tesi
metodologica e una tesi epistemologica.
Il riduzionismo ontologico si caratterizza per un impegno metafisico,
giacché è un’affermazione sulla realtà. Per tale concezione, tutto ciò che
esiste è nient’altro che un insieme di entità descrivibili in termini fisici
e precisamente anche per questa ragione si parla di “fisicalismo” e si fa
valere la tesi della “completezza della fisica”. Secondo tale tesi, la fisica
dei costituenti ultimi dell’universo esaurisce tutta la verità sul mondo.
I. Il
concetto riduzionistico di realtà
111
In biologia, il fisicalismo sostiene che ogni sistema biologico (organismo), per quanta complessità possa dispiegare, è costituito in ultima
istanza da un insieme di entità fisiche, sulle quali sopravvengono le proprietà biologiche. Si parla di “sopravvenienza”, per esempio di P su Q,
quando le proprietà di Q determinano P, ma non viceversa.
Ribadiamo, a proposito del riduzionismo ontologico, che esso si vincola anche al “naturalismo”, che può venire considerato un programma
che percorre l’intera storia della filosofia e della scienza. Recentemente,
e cioè a partire dalla seconda metà del secolo scorso, si è ulteriormente
specificato e ha acquisito anche il nome che lo caratterizza.
Secondo un certo modo di intendere il naturalismo, il primum movens è rappresentato dalle entità naturali, le quali sono considerate le
uniche esistenti. Per tale modo, insomma, prima si definiscono le entità
veramente esistenti, che sarebbero appunto le entità naturali, e poi si
definiscono le scienze naturali, le quali si occupano proprio delle entità
naturali.
Se non che, definire quali siano le entità realmente esistenti risulta
assai problematico, così che si è concluso che fosse più sensato individuare prima le scienze naturali (fisica, chimica, biologia) e definire poi
le entità naturali, che corrisponderebbero a quelle delle quali tali scienze
si occupano.
Accanto al riduzionismo ontologico si è andato così definendo il riduzionismo epistemologico, del quale si potrebbe dire che quello ontologico costituisce la condizione necessaria, ma non sufficiente. Esso si
configura in forza della riduzione di un dominio scientifico a un altro e
si basa su questa idea: ridurre comporta il derivare le leggi che governano un livello superiore dalle leggi che governano il livello che è ad
esso inferiore.
Ne consegue che teorie e leggi, che valgono in un determinato ambito scientifico, sono assunte come casi particolari di teorie e leggi che
valgono in settori scientifici più essenziali.
Si viene così a determinare una precisa tesi epistemologica: la tesi
della gerarchia delle scienze, la quale si baserebbe, a sua volta, su una
concezione gerarchica della natura. Secondo tale concezione, che ripropone ancora una volta il tema del naturalismo, alla base della realtà vi
sarebbero le particelle elementari, seguite da atomi, molecole, cellule,
esseri viventi multicellulari e gruppi sociali.
Le entità indicate per prime costituirebbero il livello ontologico fondamentale, in modo tale che le successive si stratificherebbero su livelli
112
Sul riduzionismo
via via sempre più superficiali, così che si andrebbe configurando, da
un lato, una gerarchia delle entità e, dall’altro, una gerarchia delle
scienze che hanno quelle realtà (entità) quale loro oggetto: la biologia
sarebbe derivabile dalla biologia molecolare, la quale, a sua volta, sarebbe derivabile dalla chimica e, questa, dalla fisica. In tal modo, viene
legittimata la possibilità di ridurre tutte le scienze alla fisica, stante che
nessuna di esse ne è veramente indipendente.
Il riduzionismo epistemologico può venire espresso anche facendo
valere la relazione logica che sussisterebbe tra le teorie, le quali vengono intese come sistemi di enunciati. Ridurre una teoria T2 a una teoria
T1 equivale, dunque, a dedurre gli enunciati di T2 da quelli di T1 o, altrimenti detto, tale riduzionismo postula la possibilità di trasformare un
enunciato in un altro equipollente, ma più semplice o più preciso e tale
che riveli la verità o la falsità dell’enunciato originario.
In ambito biologico, il riduzionismo epistemologico si traduce
nell’idea che le verità della biologia debbano fondarsi su teorie fisiche,
che siano in grado di corroborarle oppure confutarle e, comunque, di
renderle più accurate e complete.
Per tale concezione, le verità della biologia discenderebbero dalla
fisica o dovrebbero essere riducibili ad essa: i fenomeni organici, insomma, sarebbero soggetti alle leggi dei fenomeni fisici e questi ultimi
sarebbero soggetti alle leggi dei fenomeni meccanici, stante che, come
abbiamo detto in precedenza, tutta la realtà fisica in definitiva viene
“ridotta” (e spiegata) in termini di particelle e dei loro movimenti,
fermo restando che a livello ultramicroscopico la fisica delle particelle
tende a svincolare il concetto di particella da quello di corpuscolo materiale.
La fisica dei quanti, infatti, parla di sovrapposizione di stati proprio
per la ragione che una medesima entità può risultare o un corpuscolo
oppure un’onda, a seconda del sistema usato per il suo rilevamento.
Il terzo tipo di riduzionismo può venire definito riduzionismo metodologico. Tale riduzionismo si fonda sul metodo analitico e prevede che
qualunque entità, intesa come un’unità, possa venire scomposta in parti
e che le proprietà delle parti, singolarmente prese, siano sufficienti a dar
conto delle proprietà dell’insieme.
Ebbene, tale tipo di riduzionismo non fa che rafforzare il paradigma
meccanicista, per il quale l’universo è assimilato a una macchina il cui
comportamento è comprensibile attraverso lo studio delle parti e delle
I. Il
concetto riduzionistico di realtà
113
loro interazioni. Secondo il riduzionismo metodologico, quindi, il metodo più adeguato di conoscenza di un fenomeno consisterebbe nell’individuare i suoi costituenti ultimi.
In biologia, ciò significa che, per quanto un organismo possa essere
complesso, lo studio dei suoi costituenti microscopici verrà considerato
sufficiente a garantirne una spiegazione completa.
In conclusione, la migliore spiegazione di qualunque fenomeno biologico sarà quella che esplicita i fenomeni chimici e fisici che sono impliciti in esso. Il successo della biologia molecolare nello scoprire le
basi dei processi genetici fondamentali e la scoperta del codice genetico, da un lato, dimostrerebbero che l’organismo non è altro che un
insieme di molecole e, dall’altro, giustificherebbero la fiducia nella capacità dell’indagine molecolare di spiegare tutti i fenomeni biologici.
Questi ultimi, a loro volta, andrebbero ridotti ai fenomeni fisici che
ne stanno a fondamento. Se le leggi della biologia vengono espresse nei
termini di leggi chimico-fisiche, ciò non può non comportare la riduzione della biologia a branca della fisica, dando finalmente compimento
all’unificazione delle scienze.
Se non che, la concezione riduzionista ha mostrato i primi segni di
cedimento di fronte ai fenomeni complessi e alle proprietà emergenti
che essi presentano: proprietà, insomma, che appartengono al fenomeno
nella sua interezza e che, invece, non sono riscontrabili nei suoi componenti elementari.
Da questo punto di vista, la biologia e la chimica (bio-chimica) si
sono prese l’incarico di mostrare che le molecole possono presentare
proprietà diverse da quelle degli atomi che le compongono. Si pensi,
per esempio, alla molecola d’acqua e alle proprietà che essa esibisce,
decisamente diverse da quelle dell’idrogeno e dell’ossigeno, che pure
la costituiscono.
Non per nulla, intorno agli anni Settanta del secolo scorso si è andato
imponendo un modello che tende a privilegiare non il modello riduzionistico, e il metodo analitico che di esso costituisce l’essenza, ma il mo-
114
Sul riduzionismo
dello sistemico-relazionale, detto anche olistico, perché volto a privilegiare la sintesi che presiede al costituirsi di ogni sistema e che coglie il
tutto come irriducibile alla somma delle parti che lo costituiscono1.
Ciò premesso, e premesso in forma ovviamente cursoria, rileviamo
che non è possibile intendere il concetto di “riduzionismo” se non si
intende adeguatamente il concetto di “realtà”. La concezione riduzionistica, infatti, assume acriticamente come oggettiva, cioè come innegabilmente vera, la realtà dell’esperienza e si occupa soltanto di individuare il livello ontologico più elementare (semplice) cui ogni altro livello ontologico di tale realtà possa venire ridotto.
Se non che, la domanda che si impone teoreticamente è volta a mettere in discussione questa acritica assunzione, così che si impone la
fondamentale questione: qual è la vera realtà?
1.2. Il concetto di realtà
Il tema della “realtà” consente di evidenziare come il riduzionismo teorico, appunto quello praticato dalle scienze empiriche e sperimentali, si
fondi sul riduzionismo teoretico, giacché fa proprio quel concetto di
realtà che il riduzionismo teoretico gli consegna: la realtà dell’esperienza assunta come la vera realtà, cioè come la realtà oggettiva, ossia
come la realtà assolutamente indipendente da ogni punto di vista soggettivo.
Per introdurre il discorso, si potrebbe affermare che ordinariamente,
e cioè per il senso comune, ma anche per le scienze naturali che su di
esso poggiano, viene considerato “reale” tutto ciò che cade sotto l’ordinario percepire. Per il solo fatto che qualcosa viene percepito, questo
qualcosa viene assunto come “realtà”: è reale perché viene percepito.
Risulta opportuno ribadire che la ricerca filosofica, intesa come teoresi, sorge proprio dalla consapevolezza che il fatto, il quale pure si
presenta come “verità”, domanda di venire problematizzato, poiché non
coincide con la ragione che effettivamente possa legittimarlo.
Se fatto e ragione coincidessero, infatti, la domanda di verità (di ragione autentica) non sorgerebbe; dal momento che, invece, la domanda
1
Per un approfondimento, si rinvia a F. BOTTACCIOLI, «La fine della grande illusione del
riduzionismo in biologia e in medicina», Epistemologia, XXXVII (1), 2014, pp. 5-21; G. VILLANI, «L’approccio sistemico della chimica al concetto di vita», Epistemologia, cit., pp. 22-36;
A. STELLA, «Modello riduzionistico o modello sistemico? Spunti per una riflessione», Epistemologia, XXXVIII (1), 2015, pp. 81-98.
I. Il
concetto riduzionistico di realtà
115
sorge e sorge innegabilmente, giacché il negarla imporrebbe la necessità di ricercare la legittimazione di tale negazione, allora non si può
non concludere che il fatto è per sé stesso domanda, domanda di una
ragione autentica che sappia legittimarlo.
La distanza tra fatto e ragione (verità) configura dunque lo spazio di
ogni ricerca speculativa. Solo in virtù dell’emergere della consapevolezza critica, quindi, ci si avvede che lo status appena descritto – quello
che considera reale qualcosa perché viene percepito – è assai problematico, molto più problematico di quanto sospetti il realismo ingenuo,
il quale è ingenuo proprio per questa sua incapacità di questionare l’ovvio2.
In effetti, se qualcosa è reale perché viene percepito, allora, più che
in una prospettiva realista – come pure viene ordinariamente considerata –, ci si colloca nella prospettiva indicata da Berkeley e cioè in
quello esse est percipi che, muovendo da premesse empiristiche, approda a una concezione decisamente idealistica. In altre parole: se l’essere fattuale coincide e si risolve nel “venire percepito”, allora la cosa
(il dato, il fatto, l’oggetto del senso comune) non ha alcuna consistenza
in sé: essa si colloca interamente nella percezione.
Certamente non è questo l’intento di chi si fa portavoce del realismo
naturalistico, come per esempio Hobbes. La concezione del realismo
naturalistico (o materialistico), infatti, afferma che l’oggetto c’è, è in sé,
a prescindere dal suo venire percepito (o meno).
Anche se il soggetto non fosse, comunque l’oggetto sarebbe, prova
ne sia il fatto che il mondo è venuto alla luce tanti anni prima della
comparsa dell’uomo.
Ciò equivale a dire che l’oggetto non può essere reale perché viene
percepito, ma, al contrario, si deve postulare che esso viene percepito
perché è reale: poiché l’oggetto è reale, dunque è in sé e per sé, esso
può venire percepito dal soggetto, il quale, da questo punto di vista, non
fa che accogliere l’ente così come questo si dà (si offre).
Si comprende come realismo naturalistico e metafisica precritica
esprimano, in effetti, un medesimo punto di vista, quello per il quale
l’indipendenza dell’oggetto funge da elemento prioritario e fondante.
L’indipendenza diventa così indice del valore reale dell’oggetto. Ma
che cosa si intende affermare allorché si dichiara l’indipendenza
2
L’ovvio, come indica il suo etimo, è ciò che si incontra per primo, ciò che si para “davanti
alla strada” (ob-viam) e per questa ragione si impone nell’esperienza ordinaria.
116
Sul riduzionismo
dell’oggetto? La sua realtà, il suo porsi a prescindere da qualsiasi relazione (vincolo). Il suo porsi a prescindere da qualsiasi vincolo ad altro
oggetto nonché da qualsiasi vincolo al soggetto.
L’oggetto è; è indipendentemente dal vincolo; è indipendente dal
soggetto e per questo suo placido “stare”, per questo suo consistere unicamente in sé stesso, l’oggetto è reale: è, anzi, l’autentica realtà, l’unica
autentica realtà, alla quale il conoscere deve totalmente subordinarsi.
1.3. Il carattere intrinsecamente problematico dell’oggetto
Proprio perché reale, l’oggetto viene considerato assoluto (sciolto da
vincoli, ab-solutum) e l’assolutezza è sinonimo di realtà, perché è indice
dell’indipendenza, dell’oggettività, dell’emergenza oltre la relazione.
Il vincolo ad altro, invece, comporta necessariamente la subordinazione, il sottostare, la relatività, laddove invece l’oggetto non può essere
relativo, ma deve valere come assoluto, perché solo così può valere
quale fondamento di ogni conoscenza e di ogni scienza naturale.
Se non che, alcune domande devono venire rivolte anche a questo
realismo naturalistico, che non può non venire considerato ingenuo, la
forma, anzi, più ingenua di realismo.
La prima domanda è la seguente: quando si scopre la realtà dell’oggetto? La risposta non può che essere questa: solo dopo che è stato percepito. Se ne ricava, pertanto, che la sua realtà è una coscienza retrospettiva: inferisco la realtà dell’oggetto in ragione dell’averlo percepito,
cosicché, in primo luogo, è la percezione che decreta la realtà e, in
secondo luogo, la realtà è un’inferenza.
Da questo punto di vista, quindi, non ha più senso dire che il mondo
viene prima della coscienza del soggetto, per la ragione che “prima” e
“dopo” sono forme della soggettività, come è stato indicato magistralmente da Kant.
Se si permane all’interno di una generica considerazione di buon
senso, allora si dirà che cronologicamente la coscienza (il soggetto) segue il mondo; ma, se ci si colloca all’interno della considerazione speculativa, allora non si potrà non affermare che è insensato chiedersi che
cosa viene “prima” del tempo, dal momento che “prima” è già tempo e
dal momento che il tempo è modo della coscienza.
Onto-logicamente è la coscienza che fonda il mondo, per la ragione
che non solo essa è termine in relazione al mondo, ma altresì è questa
relazione stessa, in quanto consaputa e, quindi, in quanto trascesa.
I. Il
concetto riduzionistico di realtà
117
Più chiaramente: la coscienza, sapendo sé stessa e il proprio relazionarsi al mondo, oggettiva tale relazione e la oggettiva precisamente perché la trascende.
La relazione tra la coscienza e il mondo, lo ripetiamo, si pone solo
in quanto viene oggettivata, così che, da questo punto di vista, si dovrà
affermare che la stessa relazione di soggetto e oggetto si pone nel soggetto, ma soltanto se il soggetto viene inteso in senso trascendentale,
ossia come l’atto stesso di coscienza (come vedremo meglio più avanti).
La seconda domanda è la seguente: si può parlare di assolutezza
dell’oggetto? In effetti, l’oggetto, proprio in quanto tale, deve porsi determinatamente, deve configurarsi, cioè, come “questo” oggetto, che significa, appunto, “non altro”.
Se si connota come “A” un qualunque oggetto, determinato proprio
perché oggetto, esso risulta porsi come “A” solo in quanto si differenzia
da “non-A”, dunque solo in quanto si riferisce negativamente a “nonA”.
Un oggetto unico, dunque un “oggetto assoluto”, configura pertanto
una contraddizione: dire “oggetto” è dire una molteplicità di oggetti,
perché ciascuno si pone nel contrapporsi a tutti gli altri. Solo in forza di
questa contrapposizione, ciascun oggetto si determina come quell’oggetto.
Tutto ciò può venire espresso anche in altri termini: poiché ciò che
determina un oggetto è il limite e poiché il concetto di limite dice tutto
e solo ciò che dice il concetto di relazione, qualcosa è determinato come
“cosa-quale-che” solo in quanto si riferisce (ecco la relazione) a qualcos’altro. Il limitato, insomma, è tale solo in forza del riferimento al
limitante, che costituisce la sua condizionante posizionale, ovverosia
ciò che consente la sua posizione determinata.
La conseguenza di ciò è importantissima: nessun oggetto è veramente in sé, poiché ciascuno è in sé in ragione del suo riferirsi ad altro
da sé. Più in generale, ogni identità determinata (ogni “A”) si pone perché si riferisce negativamente alla differenza (a “non-A”), così che il
cosiddetto principio di identità, almeno in ambito formale – che è l’ambito dell’ordinario conoscere –, non può non trasformarsi nel principio
di non contraddizione, per il quale una cosa è identica a sé stessa in
quanto non è un’altra cosa: “A” è “non non-A”.
La differenza, che da un certo punto di vista deve venire estromessa
dall’identità – giacché solo così l’identità può venire assunta come indipendente –, da un altro punto di vista risulta essenziale al costituirsi
118
Sul riduzionismo
dell’identità medesima. Ne consegue che la differenza non può conservare carattere estrinseco, ma deve venire riconosciuta nel suo valore
intrinseco e costitutivo: il diverso costituisce l’identico, perché
quest’ultimo si pone come tale solo postulando il diverso (anche se lo
postula per escluderlo).
Questa considerazione ha conseguenze rilevantissime, la prima delle
quali è che teoreticamente l’oggetto (più in generale, l’identità determinata) si rivela – come abbiamo visto nel terzo capitolo della Parte Prima
– un’identità che contiene in sé la differenza, cioè si rivela una contraddizione e si risolve, pertanto, nel suo contraddirsi, che è il suo trascendersi.
Ciò significa – lo ripetiamo ancora, perché è il punto cruciale – che
alla base del riduzionismo teorico si pone il riduzionismo teoretico: solo
per la ragione che la vera realtà, cioè la realtà del fondamento, viene
ridotta alla realtà dell’oggetto, quest’ultimo diventa ciò su cui verte la
ricerca scientifica, che assume l’oggetto come se fosse il fondamento
del ricercare.
La terza domanda che deve venire rivolta al realismo ingenuo è la
seguente e discende dal discorso appena svolto: si può parlare di “oggetto” a prescindere dal riferimento al soggetto?
La domanda si propone di evidenziare che l’oggetto si connota come
oggetto proprio in quanto si riferisce al soggetto o, detto con altre parole, in quanto è oggetto di un (per un) soggetto. Dire “oggetto” è dire
“ciò che sta davanti a” (ob-iectum, appunto), così che il riferimento (relazione) torna inesorabilmente a riproporsi.
Si potrebbe così affermare che l’oggetto si struttura in forza di un
duplice riferimento: un riferimento orizzontale, che lo vincola a tutti gli
altri oggetti (che lo include nella classe degli “oggetti”), e un riferimento verticale, che lo vincola al soggetto e che costituisce la condizione di intelligibilità del suo essere “oggetto”.
Icasticamente: il riferimento al soggetto pone l’oggetto come oggetto; il riferimento agli altri oggetti pone ciascun oggetto come
quell’oggetto, e non altro.
La relazione soggetto-oggetto evidenzia il valore correlativo dei due
termini: l’uno è impensabile senza il riferimento all’altro. Si potrebbe
pertanto affermare – lo abbiamo già fatto nella Parte Prima – che ci si
trova di fronte a un’unica relazione, della quale soggetto e oggetto costituiscono due sezioni astratte: il soggetto rappresenta la parte attiva
del riferimento, l’oggetto la parte passiva.
I. Il
concetto riduzionistico di realtà
119
Altrimenti detto: il soggetto (per lo meno il soggetto empirico) si
pone in quanto si riferisce, l’oggetto in quanto viene riferito. Referente
il primo, relato il secondo.
Essi – va ribadito – sono comunque correlativi, anche se ordinariamente la loro correlatività non viene considerata. Sono correlativi perché la posizione dell’uno implica (postula) la posizione dell’altro, reciprocamente e scambievolmente.
Un oggetto, che pretendesse di prescindere dal riferimento al soggetto, non potrebbe connotarsi come oggetto e un soggetto, che pretendesse di prescindere dal riferimento all’oggetto, non potrebbe connotarsi come soggetto.
Il valore costitutivo del riferimento – intrinseco alla realtà del soggetto e dell’oggetto – ha una enorme rilevanza sia dal punto di vista
teoretico-speculativo sia dal punto di vista teorico-operativo.
Rileviamo, a questo proposito, che la consapevolezza della correlatività di soggetto e oggetto non è del tutto estranea al sistema teorico
delle scienze empiriche. V’è, infatti, una scienza, e precisamente la fisica teorica, che è pervenuta ad esprimere in forma piuttosto chiara tale
consapevolezza.
Si pensi, ad esempio, alla fisica dei quanti e, in particolare, al principio di indeterminazione di Heisenberg3: ciò che emerge da essi è proprio il vincolo dell’oggetto al soggetto, ossia il fatto che l’osservatore
(il soggetto) ha un ruolo fondante nel costituirsi dell’osservazione (oggetto osservato).
3
“La conseguenza più evidente del principio d’incertezza (o d’indeterminazione) di Heisenberg è che esso ci impone di rinunciare ai tentativi di ricreare il nostro universo visibile in
quello invisibile degli atomi. Agli inizi della fisica dei quanti si aveva l'abitudine di dire che nel
dominio dell’infinitamente piccolo il fisico si trova un poco nella situazione di un uomo che
vorrebbe studiare un uccello notturno sconosciuto. Per farlo ha due possibilità: o punta un
proiettore sul volatile e può descriverne allora perfettamente la morfologia, ma non il comportamento, perché l'uccello, stordito, resterà immobile; oppure non utilizza alcun proiettore e può
osservare nella semioscurità il comportamento dell'animale, ma non la sua morfologia. Il modo
migliore per procedere sarà in ultima istanza quello di adottare un sistema intermedio: illuminare debolmente l'uccello sperando che il suo comportamento non ne venga turbato eccessivamente. Su scala atomica il problema sembra identico: se si vuole osservare un corpuscolo, bisogna inviarvi addosso della luce (dei fotoni). Questo però gli provocherà uno choc che modificherà il suo comportamento. Ogni operazione di misura di un sistema microscopico provoca
quindi automaticamente un'alterazione di questo stesso sistema” (S. HORTOLI, J.-P. PHARABOD,
Le Cantique des quantiques, La Découverte, Paris 1984; trad. it. di E. Castelli, Il cantico dei
quanti, Theoria, Roma-Napoli 1991, p. 49).
120
Sul riduzionismo
Con altre parole, si potrebbe dire in questo modo: il “dato” è “dato
a”, così che, se non c’è colui al quale è dato, non è dato affatto. E ancora: il fatto non è qualcosa di oggettivo, nel senso che vorrebbe attribuirgli il realismo ingenuo, ma va interpretato nel senso del suo valere
come oggettuale, ossia dell’essere strutturalmente vincolato al soggetto.
Non per niente, Kant ha messo in evidenza che i fatti sono, a rigore,
dei fenomeni, legati cioè al modo di recepirli del soggetto.
1.4. Oggettivo e oggettuale
La caratteristica fondamentale delle cose, dunque, è che esistono. Almeno teoreticamente, non si può attribuire ad esse l’essere, che coincide
con la vera realtà, la realtà oggettiva e per questo assoluta.
Si deve dire, invece, che le cose esistono, per la ragione che la loro
presenza si pone sempre in un sistema di presenze, colto da un sistema
di rilevamento, in genere rappresentato dal sistema percettivo ed elaborativo del soggetto.
Secondo quanto abbiamo già cercato di indicare, è precisamente il
riduzionismo teoretico che assume l’essere di Parmenide come ente e
riduce la vera realtà alla realtà fattuale. A muovere da ciò, opera il riduzionismo teorico.
Con l’espressione “cosa” (“ente”), del resto, è possibile indicare un
qualunque oggetto, proprio in quanto “gettato di fronte” al soggetto.
Certamente, può variare il campo dell’esistenza delle cose, nel senso
che alcune si collocano nell’esperienza sensibile e altre nell’universo
dei pensieri o delle fantasie.
Tuttavia, il tratto distintivo di ciò che esiste (dell’esistente o ente) è
che si presenta sempre come dotato di una propria forma determinata,
una forma, cioè, che consente di riconoscerlo e di distinguerlo da ogni
altro esistente (ente).
In primo luogo, ciò significa che non è possibile disgiungere l’esistenza di qualcosa dalla sua determinatezza, nel senso che ciò che esiste
si manifesta sempre in una forma che consente di determinarlo.
In secondo luogo, se consideriamo gli esistenti che appartengono
all’universo percettivo-sensibile, che viene assunto dal senso comune
come la vera realtà, allora si deve notare che ciò che esiste si caratterizza per il fatto che – come abbiamo poco sopra anticipato – manifesta
I. Il
concetto riduzionistico di realtà
121
una presenza e tale presenza viene in una qualche misura rilevata dai
nostri sensi.
Se, ad esempio, sono in un mezzo pubblico, rilevo la presenza di
molteplici persone oltre che di molteplici oggetti. Ciò mi induce ad affermare che quelle cose (incluse le persone) esistono e io considero la
loro esistenza come la più naturale delle mie constatazioni.
Esistenza e rilevamento di presenza sono così vincolati che spesso
vengono confusi, cioè non si presta la necessaria attenzione al fatto che
la prima è funzione del secondo: senza un rilevamento non è possibile
affermare alcuna esistenza.
Osservando ciò che mi circonda nel mezzo pubblico, sono indotto a
pensare che tutte quelle cose (incluse le persone) esistano indipendentemente da me, nel senso che penso di rilevare la loro presenza a causa
della loro esistenza, e non viceversa.
Se non che, tale convinzione prescinde da un fatto estremamente rilevante e cioè dal fatto che, se io non fossi salito su quel mezzo pubblico, l’esistenza di quelle cose (cioè la loro presenza in esso) almeno
da me non sarebbe stata rilevata. Che cosa implica questa notazione?
Implica forse che quelle cose esistono perché ci sono io che le rilevo?
Il punto è nodale. La domanda è: se non ci fosse stato un qualunque
io, cioè un soggetto che è salito su quel mezzo pubblico, la presenza di
quelle cose sarebbe stata rilevata? E inoltre: se la presenza di quelle
cose non fosse stata rilevata, come si sarebbe potuto dire che esse esistono? Ebbene, a noi sembra che il tema dell’esistenza sia fortemente
vincolato al modo in cui si risponde alle due domande sopra formulate.
Alla prima domanda riteniamo di poter rispondere così: senza un
sistema di rilevamento, non è possibile affermare la presenza di una
qualche cosa, almeno se si tratta di una presenza sensibile. Di conseguenza, e questa diventa la risposta alla seconda domanda, senza la presenza di una qualche cosa, una presenza che venga appunto rilevata,
non è possibile affermare l’esistenza di quella stessa cosa.
Con questa necessaria conclusione: l’esistenza delle cose sensibili si
vincola a una qualche forma di rilevamento della loro presenza o,
usando altre parole, esiste ciò di cui si rileva la presenza.
Il tema dell’esistenza – questo almeno è il punto di vista che intendiamo sostenere – si vincola al tema della presenza e, quindi, al tema
del rilevamento. Si impone così la necessità di chiarire il senso del rilevamento e le condizioni richieste affinché esso si realizzi.
122
Sul riduzionismo
La forma più comune di rilevamento è quella che si ha quando è
compiuto da un soggetto, cioè da un essere umano. Tuttavia, si potrebbe
far valere il fatto che l’uomo non è l’unico a compiere un rilevamento:
l’esistenza di molte cose, infatti, potrebbe venire rilevata anche dagli
animali.
Ebbene, in quest’ultimo caso è però da sottolineare che solo l’uomo
ha coscienza dell’autentico significato di queste due espressioni: solo
l’uomo sa dare un significato alla “presenza” e all’“esistenza” delle
cose nonché alla “presenza” e all’“esistenza” degli altri esseri viventi.
Si potrebbe cioè affermare che, se l’uomo non fosse cosciente di sé
e del proprio essere cosciente, cioè se non sapesse e non sapesse di
sapere nonché cosa è sapere, non potrebbe affermare di rilevare alcunché né saprebbe dire che cosa significa “rilevare” e che cosa è, quindi,
una “presenza”, dal momento che, non sapendo di sapere e cosa è sapere, nulla saprebbe e intorno a nulla saprebbe di non sapere.
La domanda, insomma, è la seguente: se non si sa di rilevare, si rileva
comunque? A questa domanda recentemente gli scienziati hanno dato
una risposta affermativa: noi rileviamo la presenza di molte cose delle
quali non siamo coscienti.
In esperimenti condotti con persone, che presentano lesioni cerebrali
in specifiche zone del cervello, si è scoperto infatti che esse, pur dichiarando di non vedere determinati oggetti, poi sanno preferirli ad altri in
una lista di oggetti che li comprende.
Un altro esperimento, definito della “cecità al cambiamento”, ha mostrato che molte persone registrano informazioni sul cambiamento che
ha interessato determinati oggetti pur senza esserne consapevoli. Precisamente questi risultati sperimentali – ed altri, simili a questi – hanno
indotto gli scienziati ad affermare che si danno anche “percezioni inconsapevoli”.
A nostro giudizio, l’espressione “percezione” dovrebbe venire riservata a un rilevamento cosciente. L’acquisizione di molteplici informazioni, che permangono inconsce e che vengono elaborate in forma essa
stessa inconscia, mediante quelli che vengono definiti “processi cognitivi”, non può venire messa in discussione e, tuttavia, deve venire distinta dalla percezione vera e propria, che si avvale bensì di quei processi, ma aggiunge la coscienza ad essi. Se non si è consapevoli del
percetto, insomma, questo non può esibire una presenza e di esso, pertanto, non si può affermare l’esistenza.
I. Il
concetto riduzionistico di realtà
123
A nostro giudizio, parlare di un rilevamento tacito o implicito o inconscio di una presenza è fare uso di un’espressione impropria. Non si
tratta di un rilevamento per la ragione che, anche se si riceve una qualche informazione su qualcosa, non potendo disporre di tale informazione in forma cosciente non si può neppure pervenire a quel risultato
che è rappresentato dalla sua percezione.
Se percepisco, ma non sono consapevole di ciò che percepisco, allora
non si configura una percezione, ma solo una ricezione di uno stimolo
che veicola alcune informazioni. Tale ricezione, inoltre, è colta da un
altro soggetto, che non è il percipiente, ma colui che del percipiente si
occupa (e che fa del percipiente l’oggetto del proprio studio).
Soltanto quando l’elaborazione delle informazioni cessa di essere
solo meccanica, o sintattica, e diventa cosciente, cioè anche semantica,
si configura l’autentico percetto, il quale acquista un significato
nell’atto stesso in cui viene rilevato, diventando così un “esistente” per
colui che lo rileva.
1.5. Fattore soggettivo e fattore oggettivo dell’esistenza
Nella speranza di avere chiarito la ragione per la quale assumiamo la
percezione solo in quanto cosciente (affronteremo di nuovo il tema tra
poco, quando parleremo del ciclo percettivo-inferenziale), torniamo
all’obiezione legata al fatto che non sono soltanto gli uomini a rilevare
presenze, giacché anche gli animali lo possono fare.
Ebbene, anche ammettendo ciò, non si può non riconoscere che il
tema del rilevamento continua comunque a riproporsi, nel senso che
senza un rilevamento, magari compiuto da un animale, non si potrebbe
cogliere l’esistenza di alcuna cosa.
Intendiamo dire che il rilevamento delle cose, ancorché non compiuto da uomini ma da animali, vale come la condizione della presenza
delle cose stesse né il discorso cambierebbe se si dicesse che il rilevamento è frutto di dispositivi automatici: in tutti i casi, senza un rilevamento non si configurerebbe presenza alcuna.
Naturalmente, nel caso degli animali e dei dispositivi automatici si
riproporrebbe il problema se si possa parlare di “rilevamento” e di “presenza” in assenza della coscienza del loro significato (valore), ma qui
questo aspetto non lo consideriamo.
124
Sul riduzionismo
Senza la presenza, dunque, non si può affermare l’esistenza della
“cosa”, sempre che si tratti di una cosa che appartiene all’universo
dell’esperienza percettivo-sensibile.
Il discorso svolto ci porta alla seguente conclusione: l’esistenza di
una cosa può venire definita come la sua presenza all’interno di un
qualche sistema o campo di altre presenze.
Siamo così al punto: se si parla di esistenza delle cose, non si può
evitare di ammettere che tale esistenza è vincolata a un qualche sistema
di rilevamento. L’esistenza, insomma, non è una realtà che possa venire
considerata assoluta, proprio perché è vincolata, cioè perché dipende
da ciò che la rileva.
Del resto, quelle che noi uomini chiamiamo “cose”, ossia quelle presenze che incontriamo nel corso della nostra esperienza, sono le “nostre” cose, cioè sono le cose che noi uomini percepiamo e rileviamo.
Affermare che sono le stesse cose percepite o rilevate dagli animali (dispositivi automatici o quant’altro) risulta, pertanto, privo di senso.
Le “nostre” cose non possono essere le stesse percepite dagli animali, i quali sono dei “rilevatori di presenze” dotati di una struttura percettiva diversa dalla nostra. E il medesimo discorso vale per i dispositivi
automatici, che sono tarati per rilevare solo determinate presenze.
Quando noi esseri umani parliamo di cose che esistono, pertanto, non
possiamo non riferirci alle cose che noi rileviamo in virtù del nostro
sistema di rilevamento, ossia dei nostri canali sensoriali.
Il sistema di rilevamento di noi uomini implica innanzi tutto uno specifico sistema di ricezione degli stimoli che provengono dall’ambiente.
In secondo luogo, implica un altrettanto specifico sistema di elaborazione delle informazioni in essi contenute. In terzo luogo, implica l’inscrizione del prodotto della sintesi del processo ricettivo e del processo
elaborativo in un contesto o sistema di riferimento che ha valore teorico
e culturale.
Per questa ragione si parla di “elaborazione guidata dai dati” (bottom-up) e di “elaborazione guidata dai concetti” (top-down), che sono
processi fra loro connessi e tali da produrre il cosiddetto “ciclo percettivo-inferenziale”.
I. Il
concetto riduzionistico di realtà
125
Ciò comporta che il “rilevato” (ciò che alla fine del paragrafo precedente abbiamo definito il “percetto”) è intrinsecamente vincolato al nostro modo di configurarlo e solo in riferimento a quest’ultimo è pensabile4.
Non basta. Poiché ogni presenza ha forma determinata, e questo lo
abbiamo più volte sottolineato, essa si pone solo perché si rapporta ad
altre presenze: una presenza “unica” non è pensabile, perché non potrebbe venire identificata come “quella” presenza, diversa da ogni altra.
Ogni presenza, dunque, entra a far parte di un campo di presenze,
parimenti rilevate da un determinato sistema di rilevamento, così che
parlare di esistenza equivale a postulare un sistema di esistenti.
Al discorso fatto intendiamo rivolgere di nuovo la tipica obiezione
realistica, per rendere più chiaro il nostro punto di vista. Si potrebbe
sostenere che non ha senso dire che le cose esistono perché le rilevo,
ma invece si deve dire che rilevo le cose perché esistono, a prescindere
dal fatto che io le rilevi o meno.
Questa obiezione, di primo acchito, potrebbe sembrare del tutto sensata: non a caso è quella del senso comune e della concezione scientifica
(genericamente intesa) ed è volta ad affermare che il mondo esiste indipendentemente dal soggetto che lo rileva.
Se non che, non si può dimenticare qual è il punto da cui prende
avvio tutto il discorso sull’esistenza delle cose. Il punto fondamentale è
questo: le cose esistono perché io (un qualunque io) ne rilevo la presenza.
Se non rilevassi tale presenza, non potrei neppure chiedermi se le
cose che rilevo esistevano anche prima che le rilevassi, cioè se esistevano a prescindere dal mio averle rilevate. Il fatto di averle rilevate è,
dunque, il fatto fondamentale, quello da cui traggono origine la domanda e ogni possibile risposta.
D’altra parte, però, se questo è vero, è altrettanto vero che, a sua
volta, il rilevamento si fonda sul fatto che qualcosa deve pur essere,
affinché io ne possa rilevare la presenza. Se nulla fosse, insomma, nessuna presenza verrebbe rilevata.
Ciò dimostra che l’esistenza delle cose (per lo meno delle cose colte
sensibilmente) non richiede soltanto il vincolo a un sistema che ne rilevi
4
tolo.
Approfondiremo la questione concernente la percezione dell’oggetto nel prossimo capi-
126
Sul riduzionismo
la presenza, ma richiede anche un vincolo che potremmo definire “oggettivo”.
L’esistenza sensibile, pertanto, richiede un duplice ordine di fattori
che la giustifichino. Da un lato, richiede un sistema di rilevamento, che
potremmo definire come il “fattore soggettivo”: anche se si tratta di un
dispositivo automatico, infatti, la presenza, per essere riconosciuta
come tale, implica comunque un soggetto che intenda il significato delle
espressioni “presenza” ed “esistenza”; dall’altro, richiede l’essere delle
cose, che potremmo definire come il “fattore oggettivo” o, meglio,
come il fondamento degli esistenti rilevati.
Non è sufficiente, pertanto, un sistema di rilevamento per configurare la presenza di una cosa. Si impone altresì che la cosa, di cui si rileva
la presenza, sia, cioè poggi su un fondamento oggettivo, indipendente
dal sistema soggettivo che la rileva.
Ciò con cui noi entriamo in rapporto, dunque, sono le cose che si
presentano, ossia le cose che sono modellate dal nostro sistema di rilevamento e delle quali rileviamo l’esistenza allorché giungiamo ad esserne consapevoli.
Non di meno, se l’esistenza dipendesse solo dal fatto che noi la rileviamo, allora il soggetto varrebbe come l’unica condizione dell’esistenza del mondo. Ma così non è: parliamo di rilevamento dell’esistenza
delle cose, e non di creazione delle cose stesse, perché ci rendiamo
conto che il rilevamento non produce le cose.
Se il rilevamento producesse le cose, noi potremmo creare il mondo
che più ci piace, ma purtroppo sappiamo bene che così non è. Il rilevamento, quindi, modella le cose e dà loro una forma. Proprio con questa
forma esse si presentano a noi e ci appaiono come esistenti.
Tuttavia, la forma deve applicarsi a ciò che potremmo definire la
“sostanza” delle cose medesime. Ebbene, la sostanza delle cose coincide precisamente con quel fondamento che deve venire richiesto come
indipendente dal soggetto o, più in generale, da ogni sistema di rilevamento.
Nel dire che tale fondamento deve essere indipendente da ogni fattore soggettivo, stiamo sottolineando la necessità che valga come “oggettivo”, cioè come autonomo e autosufficiente.
Si postula, insomma, che il fondamento sia e sia indipendentemente
da ogni vincolo ad altro, a prescindere da ogni relazione. Se anche il
fondamento fosse vincolato, cioè dipendesse dal soggetto, allora non
soltanto non potremmo definirlo oggettivo, ma inoltre non potremmo
I. Il
concetto riduzionistico di realtà
127
pensarlo come se fosse senza la necessità di riferirsi ad altro per essere.
Non potremmo pensarlo, insomma, come sufficiente a sé stesso.
Come si vede, siamo tornati alla tematica della quale ci siamo occupati in precedenza. La concezione naturalistica assume le cose come
realtà assolute, perché le considera autonome e autosufficienti, senza
avvedersi che declinare l’assoluto al plurale non può non configurare
una contraddizione.
Il concetto kantiano di noumeno presenta precisamente questo limite: lo si intende come fondamento extra-fenomenico dell’universo
dei fenomeni, ma poi, nell’assegnare a ogni fenomeno il noumeno corrispondente, si finisce per applicare la categoria della “molteplicità” a
ciò che, emergendo oltre il fenomenico, emerge anche oltre il categoriale.
Di contro, l’autentica concezione metafisica non può non richiedere
un fondamento delle cose che emerga oltre le cose stesse proprio per il
valore assoluto che si richiede esso abbia.
Tale fondamento, se pensato alla luce di quanto detto, non può non
coincidere con l’essere di Parmenide, quell’assoluto essere che è condizione inoggettivabile di ogni oggettivazione, ossia di ogni presenza
determinata5.
Soltanto la concezione che è propria del riduzionismo teoretico non
riconosce la necessità di un simile fondamento e non vede che solo esso
costituisce il “fattore oggettivo” che vale quale condizione di ogni fenomeno rilevato, una condizione che, nel consentire la posizione del
fenomeno, ne decreta anche il limite di intelligibilità.
1.6. Un opposto punto di vista: il realismo metafisico
Il discorso svolto ha inteso vincolare esistenza e rilevamento. Il rilevamento, a sua volta, inscrive la presenza rilevata (l’esistente, l’ente)
all’interno di un sistema o campo nel quale si dispongono le esistenze
5
Per esemplificare il discorso svolto, si potrebbe fare ricorso a una similitudine. Così come
lo scultore estrae la figura, che costituisce la statua, dal blocco informe di marmo mediante il
modellamento operato dallo scalpello, altrettanto il sistema di rilevamento estrae dall’essere le
forme che modella e che costituiscono le presenze rilevate. Se non che, la similitudine potrebbe
trarre in inganno, perché si potrebbe pensare che le forme, cioè gli oggetti, siano forme dell’essere, sue manifestazioni, in quanto derivate da esso. Si dovrà dire, invece, che l’essere è la loro
condizione di possibilità, se si fa valere la dimensione empirica; se, di contro, si fa valere la
dimensione trascendentale, allora l’essere si rivela la loro condizione di intelligibilità, la quale
legittima le forme proprio perché le toglie in (riconduce a) quell’unità che è l’essere stesso.
128
Sul riduzionismo
rilevate. In tal modo, il sistema di rilevamento e il sistema di riferimento
(di natura teorica, culturale e linguistica) si traducono in un sistema o
campo di presenze rilevate e, più in generale, riferite a ciò che ad esse
si riferisce (riferite a quel sistema di riferimento che ad esse si riferisce
e che, nel riferirsi alle presenze, le identifica denotandole).
In effetti, anche Carnap e Quine hanno subordinato l’esistenza delle
cose a un qualche sistema di riferimento (framework), nel senso che essi
hanno definito l’esistente relativamente a un sistema nel quale esso
compare o viene espresso. Scrive Carnap, a questo proposito:
Se qualcuno desidera parlare nel suo linguaggio di un nuovo tipo di entità, deve
introdurre un sistema di nuovi modi di parlare, soggetto a nuove regole; chiameremo questa procedura la costruzione di un framework per le nuove entità
in questione6.
Egli distingue due
tipi di questioni di esistenza: primo, le questioni di esistenza di certe entità
all’interno del framework, le chiamiamo questioni interne; e, secondo, le questioni che hanno a che fare con l’esistenza o la realtà del framework stesso, le
chiamiamo questioni esterne7.
Quine si confronta con la concezione di Carnap, paventando che le questioni ontologiche possano venire ridotte a questioni empiriche o a questioni linguistiche. Egli, infatti, avverte che molto spesso il progresso
scientifico è determinato da uno slittamento semantico, nel senso che
ciò che prima era considerato una teoria del mondo viene ricostruito poi
come una convenzione linguistica8. In tal modo, non infrequentemente
si produce uno slittamento da questioni esterne a questioni interne al
sistema: si passa, cioè, dal discorso sugli oggetti di una teoria, ossia
6
R. CARNAP, «Empiricism, Semantics, and Ontology», Revue Internationale de Philosophie, 4, 1950, pp. 20-40; ristampato in appendice alla seconda edizione di ID., Meaning and
Necessity, University of Chicago Press, Chicago 1956, pp. 205-221; trad. it. di A. Berra, Significato e necessità, La Nuova Italia, Firenze 1976, p. 201.
7
Ibidem.
8
Cfr. W.V.O. QUINE, «Truth by convention», in O.H. LEE (Ed.), Philosophycal Essays for
A.N. Whitehead, Longmans, New York 1936, pp. 90-124; ristampato in W.V.O. QUINE, The
Ways of Paradox and Other Essays, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1966.
I. Il
concetto riduzionistico di realtà
129
sugli enti che essa riconosce come esistenti, al discorso sulla teoria
stessa9.
La questione fondamentale, tuttavia, concerne il tema della realtà,
ovverosia cosa esista effettivamente in essa. Ordinariamente, viene fatta
valere quella forma di riduzionismo teoretico che assume come realtà
l’universo percettivo-sensibile: la “realtà esterna”, cioè il mondo fisico
che circonda le persone, viene assunta come un sistema privilegiato rispetto agli altri, l’unico veramente reale.
Il punto di vista che abbiamo cercato di esprimere, invece, è volto a
sostenere che il “campo” degli esistenti non soltanto è vincolato a un
determinato sistema di rilevamento sensoriale, ma anche a un determinato sistema di riferimento teorico e culturale, così che il riduzionismo
deve lasciare il posto a un relativismo, che si traduce in una forma di
pluralismo ontologico.
Ovviamente, a nostro giudizio il pluralismo appartiene a quel livello
che abbiamo definito dell’inevitabile, stante che a livello dell’innegabile, cioè del necessario, solo l’assoluto è veramente reale e l’essere
può venire inteso solo come essere assoluto, senza che lo si possa mai
ridurre a ente.
Quanto abbiamo detto a proposito del vincolo dell’ente al sistema
comporta non soltanto che il campo delle presenze sensibili può variare,
a seconda della raffinatezza del sistema di rilevamento di ogni soggetto
e dell’ampiezza e profondità del suo sistema di riferimento, ma altresì
che accanto al campo delle presenze sensibili possono configurarsi altri
campi di esistenza: il campo dei concetti, il campo dei numeri, il campo
delle fantasie, tanto per citarne alcuni, essi stessi vincolati al sistema
che contribuisce a configurarli.
Privilegiare il campo percettivo-sensibile significa, a rigore, assumere quest’ultimo come quello autenticamente reale (riduzionismo ontologico o metafisico) e la ragione che viene offerta è duplice: innanzi
tutto, esso manifesta una significativa indipendenza dal soggetto; inoltre, è condiviso da una molteplicità di soggetti. Queste sono le due caratteristiche fondamentali, che inducono a identificare la realtà con
quella che viene attestata dai sensi.
9
Cfr. W.V.O. QUINE, Word and Object, MIT Press, Cambridge (MA) 1960, pp. 271-272;
trad. it. di F. Mondadori, Parola o oggetto, Il Saggiatore, Milano, 1970, pp. 331-332.
130
Sul riduzionismo
A proposito della definizione del concetto di “realtà”, dunque, non
si può non rilevare il fatto che nella filosofia contemporanea si va progressivamente imponendo proprio quella concezione naturalistica, che
invece era stata fortemente discussa e avversata nella filosofia classica.
Già Parmenide, ci sembra opportuno ricordarlo ancora, lasciava intendere la necessità di distinguere la vera realtà, cioè la realtà “in sé”
(kata physin, in se), dalla realtà apparente, la realtà “per noi” (pros hemas, quoad nos), che è una realtà fenomenica. Secondo la concezione
parmenidea, che è stata condivisa in qualche modo da tutti i filosofi di
impostazione classica, conoscere, in effetti, significa essere mossi proprio dall’intenzione di cogliere l’autentica realtà, dunque la realtà oggettiva, l’essere, andando oltre la realtà che appare.
Lo stesso Bacone affermava che anche lo scienziato, se intende davvero cogliere la realtà oggettiva, si deve liberare di tutti i suoi presupposti (pregiudizi, anticipazioni, idola). Solo dopo questa expurgatio intellectus – indicata nel Novum Organum10 – diventa possibile accogliere
la realtà come è in sé, senza alterarla, cioè senza nulla aggiungere e
nulla togliere ad essa. Che è come dire: senza che l’importo soggettivo
ne pregiudichi l’oggettività.
Se non che, il problema concerne proprio la possibilità di effettuare
questa eliminazione di tutte le anticipazioni, che consenta di accogliere
la realtà per come essa è in sé, cioè di restituirla nel suo essere autentico,
senza alterarla nell’accoglierla.
Che sia un problema lo aveva già intuito anche un realista come
Tommaso d’Aquino, il quale, soffermandosi sul processo del ricevere
le forme provenienti dal mondo esterno, aveva evidenziato che l’accogliere la realtà può venire definito un “recepire”. Tuttavia, il recepito,
cioè il receptum, è recepito – questa è la grande intuizione di Tommaso,
che compare nelle Quaestiones disputatae de veritate11 – nei modi e
nelle forme di chi lo riceve: il receptum è recepito per modum recipientis, così che il soggetto, in una certa misura, modella la realtà nel recepirla.
La distinzione kantiana di “fenomeno” e “noumeno”, del resto, non
fa che riproporre la medesima tematica: ciò con cui noi entriamo in con
10
Cfr. F. BACONE, Novum Organum, sive indicia vera de interpretatione naturae, Joannem
Billium, London 1620; trad. it. di E. de Mas, in ID., Opere filosofiche, Roma-Bari, Laterza 1965.
11
Cfr. TOMMASO D’AQUINO, Quaestiones disputatae de veritate (1258), q. 1, a. 1-9; trad.
it. di R. Coggi, La verità, Guida Editori, Napoli 1992.
I. Il
concetto riduzionistico di realtà
131
tatto non è la realtà in sé, ma solo quella realtà fenomenica che è modellata dagli a priori della sensibilità (spazio/tempo) e dell’intelletto
(categorie). Per questa ragione, ciò che costituisce il mondo della nostra
esperienza è rappresentato da un insieme di fenomeni e sarebbe un errore assumere i fenomeni come se fossero realtà in sé, cioè come realtà
autonome, autosufficienti e indipendenti dal soggetto.
Non di meno, la posizione di Kant non comporta una valorizzazione
del soggetto al punto tale che l’oggetto risulti soltanto una sua “produzione”. Egli, anzi, critica sia l’“idealismo empirico di Descartes” sia
l’“idealismo mistico e fantastico di Berkeley” – che nei Prolegomeni12
contrappone al proprio “idealismo trascendentale”, il quale non mette
in discussione l’esistenza delle cose esterne –, perché ritiene che nella
concezione propria dell’idealismo “materiale o comune”, come scrive
nella Critica della ragion pura13, il soggetto finisca per produrre la
realtà, la quale viene in tal modo assunta come una sua oggettivazione.
Da un tale idealismo Kant intende prendere le distanze, perché nella
sua concezione il fenomeno si costituisce in forza dell’incontro della
realtà oggettiva (la realtà noumenica) con gli a priori della soggettività.
Dietro ogni fenomeno, questo è ciò che afferma Kant, è presente un
noumeno che lo fonda, ossia una realtà oggettiva che è irriducibile alle
forme del soggetto. Non per niente, egli parla di “cose in sé” al plurale:
spesso nella Critica della ragion pura14, quasi sempre nei Prolegomeni15. Tale realtà oggettiva, allorché viene modellata dal soggetto, si
trasforma in fenomeno e acquista la forma che contraddistingue gli oggetti dell’esperienza ordinaria.
La posizione di Kant evidenzia in modo chiaro e inequivocabile che
non si può prescindere dal ricorso a una realtà oggettiva. Se il riferimento alla realtà oggettiva viene meno, infatti, allora i dati di esperienza
diventano mere creazioni del soggetto, così che è possibile riscontrare
12
I. KANT, Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik die als Wissenschaft wird
auftreten können (1783), in Gesammelte Schriften, hrsg. von der Königlichen Preussischen
Akademie der Wissenschaften, Berlin, 1912; trad. it. di P. Carabellese, Prolegomeni ad ogni
futura metafisica che si presenterà come scienza, Laterza, Roma-Bari 1979³, p. 49.
13
I. KANT, Kritik der reinen Vernunft (1781-1787), in Gesammelte Schriften; trad. it. di G.
Gentile e G. Lombardo Radice, Critica della ragion pura, vol. II, Roma-Bari, Laterza 19776,
p. 401 (la differenza che sussiste tra “idealismo formale” e “idealismo materiale o comune”
viene precisata in nota).
14
Ad esempio, nell’Estetica trascendentale (pp. 68, 72, 79, 81, 85, 86 del vol. I dell’edizione italiana citata).
15
Ad esempio, nella Parte Prima: Della principale quistione trascendentale (pp. 36, 37,
38, 40, 41, 42, 43, 44, 47, 48, 49 dell’edizione italiana citata).
132
Sul riduzionismo
anche in Kant quel duplice ordine di fattori che abbiamo indicato nel
paragrafo precedente.
Usando una diversa modalità espressiva, pertanto, potremmo dire
che il dato (d) è funzione tanto del sistema con cui lo si rileva (S1) e del
sistema con cui lo si categorizza (S2), quanto dei vincoli imposti dalla
realtà oggettiva (R), così che si potrebbe proporre la seguente formula:
d = f (S1, S2, R). La vera questione, a nostro avviso, concerne proprio la
determinazione dei vincoli imposti dalla realtà oggettiva.
A questo proposito, ci sembra di poter rilevare che la soluzione kantiana lascia aperto il problema di una realtà che, da un lato, si afferma
come in sé, dunque come appartenente a un livello pre-categoriale
(ante-predicativo) e poi, dall’altro, viene intesa nella forma di una pluralità di noumeni (noumena): si darebbero tanti noumeni quanti sono i
fenomeni, perché solo così si giustificherebbe la varietà dell’esperienza.
Se non che, in tal modo – lo abbiamo già rilevato – si finisce per applicare la categoria di “molteplicità” a ciò che, di contro, si è postulato
come pre-categoriale.
Come conciliare, dunque, l’oggettività del reale, richiesta come fondamento autentico del processo conoscitivo, con la possibilità di entrare in un qualche rapporto con essa?
Questa è la domanda da porre, per la ragione che, se si rinuncia al
riferimento alla realtà oggettiva, allora si finisce nell’idealismo assoluto; se, però, si determina in qualche modo tale realtà, allora si nega il
postulato, cioè quell’oggettività che la pone oltre ogni punto di vista
soggettivo, oltre ogni sistema di rilevamento o di riferimento e, dunque,
oltre ogni determinazione.
Ebbene, l’attuale dibattito tra realisti e anti-realisti concerne, in
estrema sintesi, l’indipendenza o meno dell’esistenza della cosa reale.
Il realismo metafisico sostiene che la cosa reale è la cosa che fa parte
dell’universo sensibile: essa, infatti, esiste in sé e, proprio per questo
suo esistere autonomo e indipendente, può venire rilevata.
L’anti-realista dubita, invece, che si dia una cosa indipendente da un
qualche sistema di rilevamento e di riferimento e, comunque, nega che
essa possa venire conosciuta nel suo essere indipendente.
Carnap e Quine, come abbiamo indicato, usano il “gergo della relatività”, ossia riconoscono che il dato, cioè la presenza o l’esistente
(ente), non è un immediato, ma si pone sempre in forza della mediazione
operata dal sistema che consente di “renderlo presente”.
I. Il
concetto riduzionistico di realtà
133
Di contro, il realismo metafisico si pone in aperta contrapposizione
a ogni forma di relativismo. Non solo, cioè, si contrappone a quella
forma di relativismo che è emersa con la filosofia analitica e post-analitica, ma anche a quella emersa in forza delle critiche mosse all’induzione da parte di Goodman e di Popper nonché a quella che consegue
al venir meno del primato dell’osservazione, considerata, da Hanson in
poi, come intrinsecamente “carica di teoria” e, dunque, come non in
grado di attingere la realtà autenticamente oggettiva.
Tra i sostenitori di un realismo metafisico forte non si può non ricordare Moore, il quale si contrappone alla concezione propria dell’idealismo inglese e, in particolare, di Bradley. Se per Bradley le relazioni
debbono venire pensate come intrinseche e costitutive del dato, secondo
Moore e Russell, invece, esse hanno carattere estrinseco e si dispongono tra i dati16.
In particolare, Moore, nell’opera The Refutation of Idealism17, ritiene che la relazione conoscitiva sia esterna perché non modifica la
natura degli enti che vengono conosciuti e, quindi, non li rende “diversi” da come sarebbero senza la relazione stessa.
Su questa fondamentale premessa, egli costruisce il suo realismo e
fa valere il principio per il quale il mondo, tanto quello animato quanto
quello inanimato, va inteso così come il senso comune lo intende, in
forte contrapposizione allo esse est percipi di Berkeley.
Per Moore, quindi, non abbiamo bisogno di dimostrare l’esistenza
degli oggetti esterni, per la ragione che noi sappiamo già che esistono.
A fondamento della certezza dell’esistenza di un mondo esterno v’è,
insomma, un atto intuitivo, una conoscenza immediata e spontanea,
poggiante sul senso comune.
Si potrebbe affermare, in effetti, che l’intuizione fonda tanto il realismo che è proprio del senso comune quanto il realismo che sta alla base
della conoscenza scientifica, così che entrambi si configurano come due
forme del medesimo riduzionismo teoretico.
Quale scienziato, infatti, troverebbe sensato chiedersi se il mondo sia
esistito prima della comparsa dell’uomo e se scomparirà, qualora
l’uomo dovesse scomparire? Non è un caso che il “Principio di realtà
16
A questo proposito, si rinvia a quanto già detto nel paragrafo 5 del terzo capitolo della
Parte Prima del presente lavoro.
17
G.E. Moore, «The Refutation of Idealism», già citato.
134
Sul riduzionismo
fisica” di Lewis-Schlick afferma che “Se tutte le menti scomparissero
dall’universo le stelle proseguirebbero nel loro corso”18 e tale principio
difficilmente verrebbe accolto con sospetto da qualche scienziato.
Ammettendo l’esistenza indipendente dei fatti, si ammette non solo
che oggetti e proprietà esistano in modo indipendente, ma anche che gli
oggetti siano “in sé” caratterizzati da proprietà.
In altre parole, si ammette che anche indipendentemente dalla conoscenza il mondo abbia una forma propria, che vi sia cioè un modo d’essere del mondo indipendente dal nostro modo di considerarlo19. E tuttavia, si presume che tale mondo indipendente possa poi venire conosciuto per come è in questa sua indipendenza.
L’obiettivo dei filosofi realisti, insomma, è precisamente quello di
sottoporre a critica la concezione che vincola il cosiddetto “reale” a un
sistema che lo rileva, lo modella e lo categorizza.
Stroud esprime in forma icastica tale concezione: “Il mondo intorno
a noi, su cui diciamo di avere conoscenze, esiste ed è come è del tutto
indipendentemente dal fatto che sappiamo o crediamo che sia così”20.
L’indipendenza del mondo, insomma, è l’assunto cardine del realismo metafisico e tale indipendenza è stata sottolineata con forza dallo
stesso Searle:
Bene, osservate ora gli oggetti che vi circondano, sedie, tavoli, case, alberi.
Questi oggetti non sono in alcun senso “soggettivi”. Esistono del tutto indipendentemente dall’essere o non essere oggetto d’esperienza di qualcuno. […] Ci
sono due distinzioni che devono esservi chiare fin dall’inizio […]. La prima è
la distinzione tra caratteristiche del mondo indipendenti dall’osservatore e caratteristiche dipendenti, o relative all’osservatore. […] In generale, le scienze
naturali si occupano dei fenomeni indipendenti dall’osservatore, le scienze sociali di quelli dipendenti21.
Searle, in effetti, non soltanto afferma l’esistenza di entità che si pongono indipendentemente dal soggetto, ma anche di “caratteristiche”,
18
C.I. LEWIS, «Experience and Meaning», Philosophical Review, XLIII (2), 1934, p. 143;
M. SCHLICK, «Meaning and Verification», Philosophical Review, XLV (4), 1936, p. 367.
19
Cfr. M. LUNTLEY, «On the Way the World is Independently of the Way we Take it to
Be», Inquiry, XXXII (2), 1989, pp. 177-194.
20
B. STROUD, The Significance of Philosophical Skepticism, Oxford University Press, Oxford 1984, p. 77; la traduzione italiana del passo è di D. M ARCONI, Per la verità. Relativismo e
filosofia, Einaudi, Torino 2007, p. 4.
21
J.R. SEARLE, Mind. A Brief Introduction, Oxford University Press, Oxford 2004; trad. it.
di C. Nizzo, La mente, Raffaello Cortina, Milano 2005, pp. 5-7.
I. Il
concetto riduzionistico di realtà
135
cioè di proprietà. Vi sarebbero, secondo Searle, proprietà del mondo
che esistono indipendentemente dal soggetto e le scienze naturali si occupano precisamente sia dei fenomeni indipendenti dal soggetto sia
delle loro proprietà.
A un “realismo ragionevole” si appella Alston, il quale non di meno
afferma con forza l’indipendenza dal soggetto e dalla sua mente degli
oggetti che costituiscono la realtà, precisando, tuttavia, che questo non
vale per tutti gli oggetti:
Il genere di realismo metafisico che tratterò qui è un rifiuto dell’idea che qualsiasi cosa c’è sia costituita, almeno in parte, dalle nostre relazioni cognitive,
dai modi con cui concettualizziamo o costruiamo le cose, dal linguaggio che
usiamo per parlarne o dallo schema teorico che usiamo per pensarle22.
Da una parte, dunque, vanno poste quelle entità, come per esempio le
proposizioni, che non sono assolutamente indipendenti dal soggetto:
“Diciamo che le proposizioni godono di una natura particolare non in
modo assoluto, ma in modo relativo a un certo schema teorico-concettuale”23.
Dall’altra, vanno poste le cose che, invece, sono assolutamente indipendenti dal soggetto e che, per questa loro totale indipendenza, Alston
considera “più reali” delle precedenti:
Di sicuro, da realista io credo che le cose che esistono in modo assoluto e i fatti
che accadono in modo assoluto, cioè non in modo relativo a una qualche modalità arbitraria di concepire o teorizzare, siano più reali, avendo cioè un grado
più alto di realtà, rispetto a ciò che esiste o accade solo relativamente a uno dei
numerosissimi e ugualmente possibili schemi teorico-concettuali24.
Il concetto di realtà, quindi, è vincolato al concetto di indipendenza: la
realtà autentica, cioè la realtà in sé, è quella che esibisce un’assoluta
indipendenza dal soggetto. Su questo punto si dovrà attentamente riflettere, perché è il punto cruciale.
22
W.P. ALSTON, A sensible metaphysical realism, Marquette University Press, Milwaukee
2001; trad. it. di S. Chiodo, Un realismo metafisico ragionevole, Armando, Roma 2010, p. 24.
23
Ivi, p. 39.
24
Ibidem.
136
Sul riduzionismo
L’assoluta indipendenza, infatti, configura quello che potremmo definire un realismo metafisico “forte” ed è proprio questa forma di realismo che noi ora vogliamo discutere.
1.7. Il realismo metafisico forte
Il “principio di realtà fisica” di Lewis-Schlick, volto a far valere l’esistenza del mondo a prescindere dall’uomo, è – come abbiamo cercato
di mostrare – uno dei cardini della scienza empirica e sperimentale, perché decreta l’assoluta indipendenza del mondo dal soggetto e questa
assoluta indipendenza del mondo attesterebbe la sua realtà oggettiva.
A nostro giudizio, di contro, la realtà oggettiva del mondo configura
non altro che la più comune forma di riduzionismo teoretico, il quale,
proprio per la ragione che riduce l’assoluto al relativo, finisce per ridurre la realtà oggettiva a quella oggettuale.
Il realismo metafisico, espresso nella sua forma più radicale, trova
un significativo analogo nell’argomento proposto da Boghossian, il cosiddetto “argomento dei dinosauri”, che è diventato un classico argomento dei realisti. Boghossian25 presenta tale argomento come in grado
di produrre la “confutazione del relativismo globale” e così lo esprime:
Il relativista globale sostiene che non ci possono essere fatti della forma “Ci
sono dinosauri”, ma solo fatti della forma “Secondo una teoria che accettiamo,
ci sono stati i dinosauri”. Bene. Ma dovremmo pensare che ci sono fatti assoluti
di quest’ultimo tipo, fatti, cioè, che riguardano quali teorie accettate? Ci sono
tre problemi per un relativista che risponde di sì a questa domanda. Primo, e in
maniera più importante, perderebbe ogni speranza di esprimere il punto di vista
che voleva esprimere, cioè che non ci sono fatti assoluti di nessun tipo, ma solo
fatti relativi. Finirebbe invece coll’esprimere il punto di vista che i soli fatti
assoluti che esistono sono fatti circa le teorie accettate dalle diverse comunità.
In altri termini, sosterrebbe che i soli fatti assoluti che esistono sono fatti circa
i nostri atteggiamenti proposizionali. E questo non sarebbe più un relativismo
globale. Secondo, questa sarebbe una posizione molto strana, perché è difficile
credere che vi sia una difficoltà riguardante i fatti assoluti concernenti le montagne e le giraffe, ma nessun problema a riguardo di quello che le persone credono. Questo sembra davvero invertire l’ordine dei problemi. È il mentale che
è sempre sembrato più problematico ai filosofi, non il fisico […]. Infine, il
relativista non arriva alla sua posizione perché crede stranamente che i fatti
25
P.A. BOGHOSSIAN, Fear of Knowledge: Against Relativism and Constructivism, Oxford
University Press, Oxford 2006; trad. it. di A Coliva, Paura di conoscere. Contro il relativismo
e il costruttivismo, Carocci, Roma 2007.
I. Il
concetto riduzionistico di realtà
137
mentali in qualche modo sono messi meglio di quelli fisici […]. La sua idea
iniziale, piuttosto, è che c’è qualcosa d’incoerente nella possibilità stessa di un
fatto assoluto, che si tratti di un fatto fisico, mentale, o normativo. Quindi non
è veramente una via percorribile per un relativista rispondere “sì” alla domanda
che abbiamo posto […] Ma che cosa significherebbe rispondere “no”? Se non
è semplicemente vero che accettiamo una teoria secondo la quale ci sono stati
dinosauri, questo dev’essere perché quello stesso fatto si dà solo relativamente
a una teoria che accettiamo. Quindi, l’idea deve essere che i soli fatti esistenti
sono della forma “Secondo una teoria che accettiamo, c’è una teoria che accettiamo secondo la quale ci sono stati i dinosauri. E ora, ovviamente, la dialettica
si ripete. […] Il risultato è che il relativista circa i fatti si impegna all’idea che
i soli fatti esistenti sono fatti infiniti della forma: “Secondo una teoria che accettiamo, c’è una teoria che accettiamo secondo la quale c’è una teoria che
accettiamo e… ci sono stati dinosauri”. Il vero dilemma con cui il relativista
globale deve confrontarsi, quindi, è il seguente: o la formulazione che ci dà
non riesce a esprimere l’idea che ci sono solo fatti relativi; oppure consiste
nella tesi che dovremmo reinterpretare le nostre asserzioni in modo tale che
esprimano proposizioni infinite che non siamo in grado né di esprimere né di
capire26.
Abbiamo citato quasi per intero il lungo passo di Boghossian perché lo
giudichiamo estremamente importante per comprendere il senso del
realismo metafisico. Su di esso, pertanto, vogliamo ora riflettere. Il
primo aspetto che ci sembra meritevole di attenzione è che si parla di
“fatti assoluti”. Ci chiediamo: per quale ragione si aggiunge l’aggettivo
“assoluto” al sostantivo “fatto”?
La ragione è quella stessa che è stata proposta da Alston: con tale
espressione si intende sottolineare che il fatto è assolutamente indipendente dal soggetto, dunque è pienamente oggettivo. Il fatto è assoluto
(ab-solutum) perché sciolto da vincoli, da relazioni. Proprio per la sua
assolutezza, il fatto costituisce il fondamento dell’edificio del conoscere e vale come la realtà intesa nel suo essere in sé.
Del resto, parlare di “assolutezza” del fatto è lo stesso che parlare
della sua “oggettività”. Lo si evince chiaramente da un altro passo di
Boghossian, tratto dalla stessa opera: “di solito pensiamo che su una
questione di fatto come quella della preistoria americana le cose stiano
in un certo modo, indipendentemente da noi e dalle nostre credenze, che
vi sia, insomma, un dato di fatto oggettivo sulle origini dei primi americani”27.
26
27
Ivi, pp. 73-75.
Ivi, p. 19
138
Sul riduzionismo
Ebbene, come non riconoscere che Boghossian dà voce a un convincimento ben radicato nella cultura scientifica e cioè che il mondo è venuto alla luce molto prima dell’uomo? I fatti esistevano anche prima
dell’esistenza dell’uomo e, in questo senso, si tratta di fatti assoluti, cioè
totalmente indipendenti dal soggetto.
La nostra opinione è che l’assolutezza del fatto debba venire adeguatamente discussa. Innanzi tutto, si impone la necessità di ribadire che
l’espressione “assoluto” non può venire declinata al plurale. Ha senso,
dunque, parlare di “assoluto come tale”, non di “assoluti”, e ciò per la
ragione, appunto, che l’assoluto si pone fuori relazione.
Se, invece, si parla di più assoluti, allora si accetta che l’uno limiti
l’altro, che l’uno si ponga in relazione con l’altro, contraddicendo così
l’idea stessa di assoluto. Con questa conseguenza: aut quando si parla
di realtà in sé si intende veramente l’assoluto, ma allora tale realtà non
può venire determinata (determinare l’assoluto equivale a riferirlo ad
altro da sé) né si può parlare di più assoluti; aut si intende parlare di
fatti, i quali sono determinati proprio in quanto fatti, ma allora non li si
può considerare assoluti, almeno in senso stretto.
I fatti, questo è il punto, sono tali perché si inscrivono in un duplice
ordine di relazioni. Il primo ordine è costituito dalle relazioni orizzontali, che vincolano i fatti gli uni agli altri e consentono a ciascuno di
acquisire una propria identità in ragione del suo distinguersi da ogni
altro fatto. Un fatto unico non potrebbe venire connotato come “fatto”,
proprio perché non lo si potrebbe de-terminare: il limite, cioè la relazione28, costituisce la condizionante posizionale di ciascun fatto, e ciò
non può venire dimenticato.
Il secondo ordine è costituito da quelle relazioni che vincolano ciascun fatto al sistema o campo o dominio in cui esso “accade”. La relazione al campo, del resto, implica un’ulteriore relazione, e cioè quella
che vincola il campo alla condizione che lo pone in essere. Tale condizione è il sistema che pone il campo perché lo configura (rileva), configurando (rilevando) le presenze che esistono in esso.
Poiché, inoltre, la configurazione del campo nonché il rilevamento
delle presenze che lo compongono sono, in ultima istanza, compiute da
28
Sull’importanza del concetto di relazione abbiamo a lungo riflettuto e, nella Parte Prima
del presente scritto, abbiamo anche indicato alcuni lavori in cui esso è stato direttamente tematizzato.
I. Il
concetto riduzionistico di realtà
139
un soggetto, si può parlare di fatti solo in riferimento a un qualche soggetto, così che il secondo ordine di relazioni è costituito da quelle che
possono venire definite verticali, perché proprio al soggetto i fatti, in
estrema sintesi, si riferiscono nel loro porsi.
Il fatto, insomma, è inscritto in una rete di relazioni, così che parlare
di “assolutezza” del fatto risulta quanto meno problematico.
Boghossian, a nostro giudizio, parlando di “fatti assoluti” esprime
un’innegabile esigenza di fondazione, che spinge ad assumere il fatto
come condizione a parte ante dell’esperienza e, quindi, della conoscenza.
Non per niente, in tutto l’“argomento dei dinosauri” ciò che permane
come certezza inconcussa è l’esistenza dei dinosauri stessi. Tale esistenza vale come fatto assoluto, come realtà in sé: possono bensì variare
le forme o le teorie o gli enunciati con cui tale fatto viene espresso, ma
che questo sia il fatto da esprimere rimane l’unico punto fermo. Un
punto indiscutibile, pena il venir meno del senso della stessa discussione.
Il realismo metafisico muove, quindi, dall’assunto che si dia una
realtà in sé, assolutamente oggettiva perché assolutamente indipendente da ogni punto di vista soggettivo (o, più in generale, da ogni sistema di rilevamento e di riferimento).
Il problema è come possa questa realtà valere come in sé e, non di
meno, essere attinta (rilevata). Il realista metafisico capovolge la questione e afferma che è possibile un qualche attingimento (rilevamento)
solo perché esiste una realtà in sé che può venire colta (rilevata): prima
esiste la realtà in sé, poi questa realtà può anche venire colta (rilevata).
Se non che, se si vuole davvero partire dal fatto, allora si dovrà ammettere che il fatto autentico coincide con il rilevamento (o attingimento): solo a muovere dalla realtà rilevata (colta, attinta) è possibile
ipotizzare l’esistenza di quella realtà precedente e indipendente dal rilevamento (attingimento).
Il rilevamento è un fatto; l’esistenza precedente al rilevamento è una
mera ipotesi.
Tale ipotesi, inoltre, impone la seguente domanda: la realtà in sé permane la stessa una volta che si presenta ad altro da sé?
Se si risponde affermativamente, come fa il realismo metafisico, si
dovrà giustificare l’uso dell’espressione “in sé”. La realtà in sé è la
realtà indipendente da ogni relazione, da ogni punto di vista. Se tale
140
Sul riduzionismo
realtà permane la medesima anche quando entra in relazione con un sistema di rilevamento/riferimento e si manifesta come un “fatto”, allora
ci si viene a trovare di fronte a una nuova alternativa: o la realtà in sé si
risolve totalmente nella realtà che si manifesta, ma allora eo ipso viene
meno come in sé, oppure essa deve subire un’intrinseca trasformazione,
che la porta dal suo essere in sé (kata physin) al suo essere per noi (pros
hemas).
In quest’ultimo caso, tuttavia, il problema non è stato affatto risolto.
Infatti, si è introdotta una nuova relazione, quella che dovrebbe sussistere tra la realtà in sé e la realtà per noi. In tal modo, la realtà in sé,
cioè la realtà assoluta, viene di nuovo costretta entro una relazione, la
quale nega precisamente l’essere in sé della realtà, che è proprio ciò che
invece si voleva affermare.
Per questa ragione, Kant definisce noumenon la realtà in sé: essa è
comunque richiesta, dal momento che il fenomeno non è totalmente dipendente dal soggetto e, anzi, manifesta una sua indipendenza. Tale indipendenza, però, non è assoluta, ma semplicemente relativa: il fenomeno è in parte dipendente dal soggetto, in parte indipendente da esso.
Od anche: il fenomeno è relativamente dipendente e relativamente
indipendente dal soggetto. Il vincolo al soggetto spiega la sua relativa
dipendenza, ossia il fatto che il soggetto modella il fenomeno; il vincolo
al noumenon, cioè alla realtà oggettiva, spiega la sua relativa indipendenza, cioè il fatto che il soggetto non crea il fenomeno stesso.
Lasciando qui da parte le considerazioni critiche già svolte sui noumena (declinati al plurale) concepiti da Kant, rileviamo che il punto
cruciale è il seguente, per lo meno a nostro giudizio: la realtà oggettiva
è tale solo in quanto assolutamente indipendente.
Se, però, essa è autenticamente tale, allora non può in alcun modo
venire determinata. Come abbiamo cercato di indicare in precedenza,
se la condizione incondizionata, che è altro modo per dire “realtà oggettiva”, venisse determinata, essa ricadrebbe nell’universo dei fenomeni e perderebbe quel valore che la rende incondizionata (oggettiva).
Ebbene, la determinazione della realtà assoluta costituisce la forma
più radicale di riduzionismo teoretico: il riduzionismo metafisico.
Di conseguenza, la realtà rilevata è, in effetti, realtà fenomenica,
dunque è realtà oggettuale, non oggettiva.
La confusione che viene compiuta tra realtà oggettiva e realtà oggettuale è il rischio che incombe su chi professa il realismo metafisico:
I. Il
concetto riduzionistico di realtà
141
costui intende bensì riferirsi alla realtà oggettiva, perché solo quest’ultima può valere quale autentico fondamento; se non che, nel momento
in cui determina tale realtà oggettiva, finisce per risolverla nella realtà
oggettuale e finisce per ridurla ad essa, così che non può più farla valere
quale autentico fondamento.
Come risolvere, allora, il nodo dell’esistenza del mondo prima
dell’uomo?
A nostro avviso, ciò che chiamiamo “mondo”, comprensivo di tutti
i fatti – come direbbe il Wittgenstein del Tractatus29 –, si pone correlativamente al nostro essere. Se l’uomo non fosse, non vi sarebbe quel
sistema di rilevamento e di elaborazione delle informazioni rilevate che
coincide con l’essere umano e, pertanto, non vi sarebbe neppure ciò che
da tale sistema deriva: il campo percettivo.
Torneremo più avanti su questa questione, quando ci porremo la domanda se si debba parlare di “costruzione” o di “ricostruzione” dell’oggetto (nei paragrafi 3, 4 e 5 del secondo capitolo di questa Parte Seconda).
Per ora ci accontentiamo di averla introdotta e intendiamo concentrarci sul significato che ha la realtà quando non viene più intesa come
“assolutamente indipendente” dal soggetto, ma solo come “relativamente indipendente” da esso. Ebbene, tale realtà coincide con l’esperienza ordinaria.
1.8. La struttura intrinsecamente relazionale dell’esperienza e
l’esigenza di fondamento
Il punto sul quale abbiamo riflettuto nei paragrafi precedenti può venire
riassunto nella seguente domanda: quando si parla di fatti o eventi o,
anche, di entità, ci si riferisce a qualcosa che si colloca nel sistema
dell’esperienza oppure, al contrario, si fa valere un concetto di realtà
che la considera in senso assoluto, ossia come in sé e per sé stante?
La differenza è sostanziale. Le cose che appartengono al sistema
dell’esperienza non possono venire considerate assolute proprio per la
ragione che sono molteplici e determinate. Esse, dunque, si caratterizzano per la loro struttura intrinsecamente relazionale.
29
Cfr. L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus, Kegan Paul, Trench, Trubner and
Co. Ltd., London 1922; trad. it. di A.G. Conte, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni
1914-1916, Einaudi, Torino 2009.
142
Sul riduzionismo
Il carattere determinato, infatti, impone che ciascuna cosa trovi una
propria identità solo in forza del suo differenziarsi da tutte le altre. Inoltre, il loro appartenere al sistema dell’esperienza impone il riferirsi di
ciascuna al soggetto esperente.
L’esperienza, questo è il punto sul quale intendiamo richiamare l’attenzione del lettore, è un insieme di eventi che sono organizzati in forza
di un tessuto di relazioni (textus), così che conoscere, anche scientificamente, la realtà empirica significa individuare e calcolare i nessi che
sussistono tra gli eventi, ossia – lo abbiamo già detto nel paragrafo 1
del terzo capitolo della Parte Prima – disfare la tessitura a muovere da
un filo conduttore.
La strutturazione dell’esperienza, che risulta all’atto di coscienza in
virtù del quale essa viene posta e rilevata, può venire indicata come disponentesi su almeno due diversi livelli (ricapitoliamo quanto già
detto).
Il primo livello è il livello percettivo-sensibile, nel quale le cose vengono assunte come indipendenti le une dalle altre e come aventi ciascuna una propria identità autonoma e autosufficiente. Il secondo livello
è il livello concettuale, che emerge allorché il pensiero riflessivo e critico coglie che il dato si pone in forza del suo rapporto con ogni altro
dato nonché con il soggetto “a cui” è dato.
Se si valorizza l’aspetto sensibile della relazione, allora le entità vengono considerate come diverse e occupanti spazi diversi (o il medesimo
spazio, ma in tempi diversi); se, di contro, si valorizza l’aspetto concettuale della relazione, allora le entità vengono intrinsecamente vincolate
e l’universo dell’esperienza diventa conoscibile in virtù di un insieme
di leggi che esprimono, mediante formule, le costanti relazionali tra le
entità.
In tal modo, la realtà passa dalla forma sensibile alla forma razionale
e ciò ha indotto alcuni filosofi, come per esempio Rockmore30, a identificare il realismo con l’idealismo stesso, senza avvedersi che la realtà,
esprimibile mediante formule ed equazioni, è la realtà empirica, cioè
quella relativamente dipendente dal soggetto (o solo relativamente indipendente da esso), non l’essenza ultima della realtà, coincidente con
lo spirito o con l’idea, come è per l’idealismo assoluto.
30
Cfr. T. ROCKMORE, On Foundationalism: A Strategy for Metaphysical Realism, Rowman
& Littlefield Publishers, Inc., Oxford 2004.
I. Il
concetto riduzionistico di realtà
143
Le relazioni che vengono ravvisate tra le cose e nelle cose, dunque,
sono il frutto della relazione fondamentale, cioè quella che sussiste tra
soggetto e oggetto. Su questa relazione, infatti, si fonda il processo del
conoscere, che consiste nell’individuare e sciogliere nessi (analizzare).
La stessa teoria vale come descrizione di relazioni che intercorrono tra
determinati elementi, così che si configura necessariamente come sistema.
L’oggetto determinato, in sintesi, risulta un oggetto empirico. Esso,
quindi, non può avere valore oggettivo e, pertanto, non può venire assunto come autentico fondamento. Con questa conseguenza, che è di
estrema importanza: nella prospettiva che abbiamo cercato di delineare,
il fondamento può soltanto venire richiesto, mai afferrato, ossia determinato.
La distanza che sussiste tra il fondamento richiesto e ciò che di volta
in volta viene ottenuto mediante il processo conoscitivo rende inesauribile la ricerca. In tal modo, il fondamento svolge anche una funzione:
evita che si possa considerare assoluta una qualche conoscenza.
A nostro giudizio, insomma, si deve evitare il dogmatismo realista
senza cadere nel relativismo anti-realista. Quest’ultimo, in effetti, configura una nuova forma di dogmatismo, quando pretende di assolutizzarsi, come giustamente osserva Nagel:
[…] l’asserto “tutto è soggettivo” [che qui equivale a “relativo”] è necessariamente privo di senso, in quanto dovrebbe esso stesso essere soggettivo o oggettivo. Ma non può essere oggettivo, perché in tal caso sarebbe falso nel caso
in cui fosse vero. E non può essere soggettivo, perché non escluderebbe alcun
asserto oggettivo, compreso quello che è oggettivamente falso31.
Il superamento delle due concezioni indicate è possibile soltanto in virtù
del riconoscimento che il fondamento oggettivo non può non mantenere
il valore di ideale immanente e regolativo della ricerca e non può mai
assumere la forma di una qualche presenza determinata o oggettuale.
L’emergere di tale consapevolezza, e della condizione che la rende
possibile, configura quel terzo livello che solo impropriamente viene
definito tale.
Esso, infatti, vale come “terzo” solo se si mantengono i due precedenti livelli; poiché, però, i due precedenti livelli sono, dal punto di vista
31
T. NAGEL, The Last Word, Oxford University Press, Oxford 1997; trad. it. di G. Bettini,
L’ultima parola: contro il relativismo, Feltrinelli, Milano 1999, p. 21.
144
Sul riduzionismo
del fondamento, il loro stesso trascendersi, si concluderà, allora, che
l’emergere del fondamento coincide con l’assoluto essere, che nega che
possa veramente essere qualcosa che non sia l’essere stesso.
Capitolo II
Il riduzionismo in Filosofia della mente
2.1. Riduzionismo, naturalismo, materialismo
Il tema del riduzionismo, e in particolare del riduzionismo metafisico, è
intrinsecamente vincolato al tema del naturalismo, come abbiamo anticipato nel precedente capitolo. A sua volta, il naturalismo, inteso nella
sua forma più estrema e radicale, si traduce nella concezione del monismo materialistico.
Questo approdo cercheremo ora di illustrare, per fornire una esemplificazione paradigmatica di come il riduzionismo teoretico metta
capo al riduzionismo teorico e si intrecci in varia guisa con esso.
L’esemplificazione concerne quell’ambito di ricerca che viene definito “Filosofia della mente”. In tale ambito, il riduzionismo comporta
significative conseguenze, la prima della quali consiste nel mettere radicalmente in discussione il valore e la funzione della coscienza e, più
in generale, della soggettività.
Riprendiamo il discorso, svolto nel precedente capitolo, da questo
punto: affermare che la realtà con cui abbiamo a che fare è la realtà
oggettiva, cioè la realtà in sé, ha come conseguenza andare al di là della
concezione empirista. Significa, cioè, pensare che l’uomo, attraverso
l’esperienza, riesca ad attingere qualcosa che trascende l’esperienza
stessa, stante il fatto che tale realtà esiste a prescindere dall’uomo medesimo.
Quando si pensa a qualcosa che esiste indipendentemente dall’uomo,
si può pensare o all’assoluto, e allora si configura la concezione metafisica classica, oppure alla natura, e allora si fa valere la concezione
naturalista.
Sia nell’argomento dei dinosauri sia nel “Principio di realtà fisica”
di Lewis-Schlick, presi in esame nel precedente capitolo, si fa riferimento a fatti naturali e fisici. Questi ultimi, dunque, vengono pensati
come appartenenti alla vera realtà, a quella realtà che comunemente
viene definita “naturale” e che si porrebbe indipendentemente
dall’uomo.
145
146
Sul riduzionismo
Come è noto, con il termine “naturalismo” si indica, almeno nella
sua accezione più ampia e comune, quella concezione che poggia
sull’assunto che nulla esiste fuori dalla natura.
La concezione naturalista ha fatto la sua comparsa già nella filosofia
pre-socratica e i primi filosofi greci – lo abbiamo visto – hanno sostenuto che il principio di tutte le cose è un principio naturale.
Il naturalismo, dunque, è una concezione molto antica, che inoltre
non si è mai completamente estinta. Negli ultimi decenni, anzi, essa si
è imposta come quella condivisa non solo dalla maggioranza degli
scienziati, ma anche dalla maggioranza dei filosofi, se non altro dalla
maggioranza di quei filosofi che si occupano, appunto, di Filosofia
della mente, la quale viene considerata il fronte forse più avanzato
dell’attuale ricerca filosofica.
Per tale concezione, anche l’uomo, inclusi i suoi stati coscienti e intenzionali, deve venire inteso solo come essere naturale, così che implicitamente si fa valere l’equazione per la quale “esistenza autentica”
e “natura” sostanzialmente vengono fatte coincidere: esiste solo ciò che
è naturale.
Se si intende cogliere l’uomo nel suo essere autentico, pertanto, lo si
deve studiare utilizzando gli stessi concetti che le scienze empiriche e
sperimentali usano per la spiegazione dei fenomeni naturali.
Si è andato così configurando un progetto di ricerca che ha preso il
nome di “programma naturalista”. Tale programma è stato applicato in
primo luogo all’epistemologia e Quine1 ha proposto di assumere la teoria della conoscenza, che tradizionalmente apparteneva di diritto alla
filosofia, come un capitolo della psicologia.
Più precisamente, la conoscenza che l’uomo ha del mondo, secondo
Quine, deriva da ciò che egli percepisce e la percezione deve venire
pensata come un rapporto naturale, ossia come un rapporto che si instaura tra due esseri naturali: l’uomo e il mondo.
Tale rapporto si fonda su stimolazioni sensoriali e, dunque, su relazioni causali e la scienza che studia queste relazioni causali è proprio la
psicologia, la quale, d’altra parte, si occupa anche di un’altra relazione
causale, quella che sussiste tra gli oggetti, in quanto conosciuti, e gli
1
W.V.O. QUINE, «Epistemology Naturalized», in ID., Ontological Relativity and Other Essays, Columbia University Press, New York 1969; trad. it. di M. Leonelli, Relatività ontologica
e altri saggi, Armando, Roma 1986.
II. Il
riduzionismo in Filosofia della mente
147
oggetti intesi come reali, cioè come oggetti del mondo, presupposti
nella loro indipendenza e autonomia rispetto al loro venire conosciuti.
Come ricorda, però, Marconi
l’idea di naturalizzazione, almeno nella sua versione recente, si fa risalire al
saggio di W.V.O. Quine Epistemology Naturalized (1968) [la versione cui si
riferisce Marconi è la prima]; ma più o meno contemporaneamente Alvin
Goldman, in seguito e tuttora uno dei più autorevoli “naturalizzatori”, aveva
teorizzato, in A Causal Theory of Knowing, un’epistemologia che si avvalesse
in maniera determinante del contributo delle scienze2.
E Vassallo aggiunge:
Quine ambisce a rimpiazzare l’epistemologia con la scienza, mentre Goldman
auspica il contributo della scienza in ambito epistemologico. Risulta così
chiaro che fin dagli anni sessanta la naturalizzazione dell’epistemologia presenta due possibili e diverse soluzioni: quella dettata da Quine è radicale, mentre quella dettata da Goldman è moderata. È, infatti, ovvio che per il primo
tutte le questioni epistemologiche sono demandabili alla scienza, mentre per il
secondo solo alcune questioni epistemologiche sono demandabili ad essa3.
Il naturalismo, questo è il punto che ci interessa sottolineare, abbraccia
teorie che sono sensibilmente diverse le une dalle altre e che possono
essere più o meno radicali4.
La teoria più radicale, che può venire definita naturalismo ontologico, assume la realtà come costituita esclusivamente dagli oggetti indagati dalla fisica. Ne consegue che “naturalismo ontologico” e “fisicalismo” tendono a coincidere e si parla di naturalismo fisicalista.
Di contro, il naturalismo epistemico, che configura un naturalismo
meno radicale, afferma che l’unica forma di conoscenza è quella offerta
dalle scienze naturali e, soprattutto, dalla fisica.
2
D. MARCONI, «Introduzione» a ID. (a cura di), Naturalismo e naturalizzazione, Edizioni
Mercurio, Vercelli 1999, pp. 5-6.
3
N. VASSALLO, «Teoria della conoscenza: l’incerto cammino della sua naturalizzazione»,
in D. MARCONI (a cura di), Naturalismo e naturalizzazione, cit., p. 49.
4
Cfr. E. AGAZZI, N. VASSALLO (a cura di), Introduzione al naturalismo filosofico, Franco
Angeli, Milano 1998.
148
Sul riduzionismo
Ci pare utile sottolineare, tuttavia, che alcuni studiosi, come per
esempio De Caro e Macarthur5, preferiscono parlare di naturalismo
scientifico e naturalismo liberalizzato.
Con la prima espressione essi si riferiscono alla concezione di coloro
che tendono a rifiutare tutte le entità e le proprietà refrattarie alla naturalizzazione, come per esempio Field6. Di contro, con la seconda
espressione si riferiscono alla concezione secondo la quale l’ambito di
ciò che è naturalisticamente accettabile è più vasto dell’ambito di studio
delle scienze della natura, come per esempio vale per McDowell7.
Acclarato che il naturalismo tende a rifiutare ogni forma di “soprannaturalismo”, il vero problema, come sottolinea giustamente De Caro8,
consiste nel definire la categoria del “naturale” e cioè se essa debba
comprendere solo ciò di cui si occupano le scienze della natura:
Le implicazioni di tale tesi [e cioè della tesi secondo la quale la filosofia deve
evitare ogni appello a entità, proprietà, eventi o spiegazioni soprannaturali] divengono però immediatamente controverse se si considerano concetti come
quelli relativi alle entità astratte, ai valori, alle proprietà mentali non-sopravvenienti su quelle fisiche e così via. Nemmeno questi concetti, infatti, paiono
al momento trattabili in modo soddisfacente con le categorie delle scienze naturali, come riconoscono anche molti filosofi naturalisti; e, tuttavia, al contrario
di concetti come mente immateriale e primo motore immobile, non è immediatamente ovvio che essi possano essere catalogati come obsolescenti reliquie
metafisiche e gettati nel dimenticatoio della filosofia9.
In sintesi, la domanda che si impone è la seguente: “hanno ragione coloro che affermano che non tutto ciò che è irriducibile ai concetti delle
scienze naturali è necessariamente soprannaturale?”10. Così risponde
De Caro:
5
Cfr. M. DE CARO, D. MACARTHUR (Eds.), Naturalism in Question, Harvard University
Press, Cambridge (MA) 2004; trad. it. di L. Greco e G. Pellegrino, La mente e la natura, Fazi,
Roma 2005.
6
Cfr. H. FIELD, «Physicalism», in J. EARMAN (Ed.), Inference, Explanations, and Other
Frustrations: Essays in the Philosophy of Science, University of California Press, Berkeley
1992, pp. 271-291.
7
Cfr. J. MCDOWELL, Mind and World, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1994;
trad. it. di C. Nizzo, Mente e mondo, Einaudi, Torino 1999.
8
Cfr. M. DE CARO, «Il naturalismo scientifico contemporaneo: caratteri e problemi», in P.
COSTA e F. MICHELINI (a cura di), Natura senza fine. Il naturalismo moderno e le sue forme,
Edizioni Dehoniane, Bologna 2006, pp. 85-95.
9
M. DE CARO, «Il naturalismo scientifico contemporaneo: caratteri e problemi», cit., p. 86.
10
Ivi, p. 87.
II. Il
riduzionismo in Filosofia della mente
149
La morale di questa discussione è che l’estensione della categoria del “soprannaturale” dipende da come si definisce la complementare categoria del “naturale” – che è proprio ciò che è in questione nel dibattito tra i fautori del naturalismo scientifico e di quello liberalizzato. Mentre i primi, infatti, tendono a
rifiutare tutte le entità e proprietà refrattarie alla naturalizzazione, i fautori del
naturalismo liberalizzato sostengono, con minore estremismo ontologico, che
l’ambito di ciò che è naturalisticamente accettabile è più vasto dell’ambito di
studio delle scienze della natura11.
Il nostro intendimento è proprio quello di mettere in luce alcuni assunti
del programma naturalista, onde evidenziare come essi mettano capo,
in estrema sintesi, al tema della fondazione.
Da come ci si pone rispetto al tema della fondazione, infatti, consegue la posizione che si assume in ordine alla ricerca filosofica in quanto
tale. Scrive Quine, a proposito della ricerca filosofica: “Io accetto il naturalismo e, anzi, ne faccio un vanto. Ciò significa bandire il sogno di
una filosofia prima e sviluppare la filosofia […] come parte del nostro
sistema del mondo, in continuità con il resto della scienza”12.
Ebbene, in questa citazione, come fa giustamente notare sempre De
Caro, è affermata, oltre alla “tesi della continuità”, che riduce la filosofia a un aspetto della ricerca scientifica (tesi rifiutata dai sostenitori del
naturalismo liberalizzato), un’altra tesi, quella che a noi interessa di più,
e cioè la “tesi antifondazionale”, che viene così riassunta:
La Tesi Antifondazionale è stata più volte esposta da Quine: a suo parere è
indispensabile che si abbandoni il sogno della “filosofia prima”, che si cessi,
cioè, di concepire la filosofia come fosse “prioritaria rispetto alla scienza naturale”. In quest’ottica, dunque, i filosofi devono abbandonare il progetto aristotelico, cartesiano e kantiano secondo il quale la filosofia offre un punto di
vista esterno privilegiato […] in grado di legittimare le varie scienze13.
La tesi antifondazionale è accettata da ogni forma di naturalismo e costituisce, a nostro avviso, il punto cruciale. Tale tesi non soltanto sottrae
alla filosofia il suo valore di riflessione critica in grado di disporsi a un
livello diverso (emergente) rispetto alle scienze, così da poter cogliere
il limite di queste ultime, ma altresì costituisce il punto di snodo tra
riduzionismo teoretico e riduzionismo teorico.
11
Ibidem.
W.V.O. QUINE, «Reply to Putnam», in L.E. HAHN, P.A. SCHILPP (Eds.), The Philosophy
of W.V. Quine, Open Court, La Salle 1984, pp. 430-431 [traduzione mia].
13
M. DE CARO, «Il naturalismo scientifico contemporaneo: caratteri e problemi», cit., p. 88.
12
150
Sul riduzionismo
Nel momento in cui il principio viene inteso come cominciamento o
come il primo elemento di una serie, infatti, esso non solo cessa di valere come fondamento, e cioè come condizione di intelligibilità della
serie stessa, ma soprattutto può venire utilizzato come elemento essenziale della spiegazione teorica, giacché può assumere il significato di
causa empirica e, pertanto, può venire utilizzato in una spiegazione
meccanicistica.
Se lo si intende come fondamento, dicevamo, il principio non può
essere un elemento della serie, perché in tal caso la serie verrebbe posta
prima del suo fondamento. Poiché il fondamento non può non venire
inteso come condizione incondizionata, e dunque come emergente oltre
l’ordine che fonda, cioè in senso metafisico, la concezione naturalista,
che non accetta alcunché che non sia appartenente alla natura, non può
non approdare alla tesi antifondazionalista e, di conseguenza, ridurre la
condizione incondizionata a causa empirica.
La condizione incondizionata, insomma, viene posta in continuità
con la serie degli effetti che da essa verrebbero prodotti nonché con le
altre cause empiriche, che risultano essenziali per configurare il concetto stesso di legge e per orientare in senso nomologico-deduttivo il
carattere delle scienze, in modo tale che la sua incondizionatezza non
può non venire meno: necessariamente.
2.2. Gli assunti principali del programma volto a naturalizzare la
mente
Per evidenziare il limite della tesi antifondazionalista e, più in generale,
il limite della concezione naturalista, prenderemo in esame – come detto
– alcuni aspetti molto rilevanti che si riscontrano proprio in quell’ambito di ricerca che costituisce la Filosofia della mente. Quest’ultima rappresenta non soltanto un ambito specifico della ricerca filosofica, ma
altresì il luogo teorico in cui si incontrano in forma esemplare scienza
e filosofia.
Ebbene, all’interno di tale ambito il programma naturalista ha avuto
un’influenza estremamente significativa. La naturalizzazione della
mente si è configurata in varie forme: alcune meno radicali, altre più
radicali, le quali prospettano un riduzionismo che, se inteso nella sua
forma più estrema, genera quella concezione che viene definita “monismo materialistico”.
II. Il
riduzionismo in Filosofia della mente
151
Il nostro progetto è precisamente quello di illustrare come si sia pervenuti a tale concezione, giacché essa svolge un ruolo centrale nell’idea
di “uomo” che si va affermando nella cultura contemporanea.
Già la concezione comportamentista, gioverà ricordarlo, aveva eliminato la mente dalla ricerca psicologica, perché aveva affermato che
si dà scienza solo di ciò che è direttamente osservabile. Il comportamentismo, pertanto, è perfettamente in linea con un naturalismo radicale: la realtà coincide con (e si risolve nel) l’universo percettivo-sensibile, fermo restando che non interessa ai comportamentisti stabilire se
tale universo configuri la realtà dell’esperienza o la realtà in sé e per sé.
Il cognitivismo classico o simbolico, invece, considera la risposta a
uno stimolo funzione anche di “variabili nascoste”, ossia di processi
interni non direttamente osservabili. Ebbene, tali processi interni sono i
processi cognitivi, intrinsecamente legati alla componente cognitiva
dello stimolo, l’informazione, e alle regole con cui tale informazione
viene processata.
La mente, cacciata dalla porta, rientra così dalla finestra, perché ora
non si ritiene più che sia passibile di indagine scientifica solo ciò che è
osservabile, ma anche ciò che è computabile, perché può venire riprodotto da un elaboratore artificiale (un qualunque automa a stati finiti).
La Computer Science ha fornito un grande contributo al sorgere del
modello cognitivista classico, giacché la mente è stata assimilata al software di un computer, il cui hardware è biologico (il cervello) anziché
elettronico.
Il principio di implementabilità (realizzabilità) multipla, inoltre, prevede che uno stesso programma possa implementare più hardware, dato
il carattere astratto della computazione. Quest’ultima viene così a esprimere in forma esemplare l’attività della mente umana, che riceve, elabora e scambia informazione con l’ambiente.
L’elaborazione, inoltre, è un’operazione di trasformazione di forme
(le forme in ingresso o input) in altre forme (output) e avviene in conformità a regole, cioè in forza di processi meccanici (automatici, inconsci)14. La mente viene in tal modo assunta per tre caratteristiche fondamentali: il suo aspetto informazionale, rappresentazionale e computazionale.
14
Cfr. E. PESSA, M. PIETRONILLA PENNA, Manuale di scienza cognitiva. Intelligenza artificiale classica e psicologia cognitiva, Laterza, Roma-Bari 2000; D. MARCONI, Filosofia e
152
Sul riduzionismo
Orbene, va sottolineato che il programma di naturalizzazione
dell’epistemologia, da un lato, si avvale della rivoluzione cognitivista;
dall’altro, fornisce un significativo impulso a quella particolare forma
di programma naturalista, che è proprio quello volto a naturalizzare la
mente, cioè a risolvere la mente in un insieme di processi equiparabili
a processi naturali, perché descrivibili in termini causali.
La psicologia scientifica naturalizzata, pertanto, si assume il compito
di cogliere le leggi che stanno alla base dei processi mentali e la distinzione kantiana fra regno della natura e regno della libertà viene di fatto
a cadere, perché anche la mente dell’uomo, nella prospettiva del naturalismo più radicale, viene fatta rientrare nel regno della natura e pensata secondo processi meccanici, dunque secondo un modello determinista.
La concezione di Goldman15, che per primo ha coniugato il programma di naturalizzazione dell’epistemologia con quello di naturalizzazione della mente, viene definita affidabilismo esternista.
Per i sostenitori di questa concezione, sulla quale giova riflettere per
la sua importanza, le credenze che l’uomo si forma intorno al mondo
sono legittimate non dal rispetto di determinati principi teorici o dalla
conformità a criteri stabiliti teoricamente (come è per la concezione internista), ma dall’affidabilità del processo causale, ossia sono giustificati dal fatto che i processi causali, che danno luogo alla configurazione
del campo percettivo, dunque del mondo con cui l’uomo ha a che fare,
sono una garanzia sufficiente per la verità delle credenze che l’uomo si
forma intorno ad esso.
Di contro, la credenza non sarà giustificata se il suo processo di formazione non procede, o procede in modo non affidabile, dall’oggetto o
dall’evento cui il contenuto della credenza si riferisce. Ciò implica che
la giustificazione consiste nella determinazione delle leggi causali che
conducono, in una percentuale di casi molto alta, a credenze vere.
scienza cognitiva, Laterza, Roma-Bari 2001; M. DI FRANCESCO, Introduzione alla filosofia
della mente, Carocci, Roma 2002; M. PIATTELLI PALMARINI, Le scienze cognitive classiche: un
panorama, Einaudi, Torino 2008.
15
Cfr. A.I. GOLDMAN, «A Causal Theory of Knowing», The Journal of Philosophy, LXIV
(12), 1967, pp. 357-372; ID. «Epistemics: The Regulative Theory of Cognition», Journal of
Philosophy, LXXV (10), 1978, pp. 509-523; ID., Epistemology and Cognition, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1986; ID., Readings in Philosophy and Cognitive Science, MIT
Press, Cambridge (MA) 1993.
II. Il
riduzionismo in Filosofia della mente
153
Anche le credenze che derivano da fonti diverse dai canali sensoriali
– per esempio, da ragionamenti o da catene di inferenze tra credenze,
ma anche da processi non inferenziali – in tanto sono affidabili, in
quanto si fondano su processi causali, giacché per l’affidabilista un’inferenza è una relazione causale tra enunciati.
Ci troviamo così di fronte a una serie di assunti che merita di venire
discussa. Il primo e fondamentale assunto concerne il concetto di verità.
Rileviamo che una parte significativa del dibattito16, che si svolge
16
Il dibattito che vige nell’ambito della Filosofia della mente fa riferimento a teorie gnoseologiche che si differenziano essenzialmente per il modo in cui ciascuna di esse risponde alla
formulazione dei “problemi scettici”. Quello scettico, infatti, è il punto di vista che mette in
dubbio, attraverso svariati argomenti, la possibilità che si dia effettiva conoscenza. Per lo scettico, questo è il nodo, non solo la giustificazione deve essere distinta da ciò che intende giustificare, ma soprattutto non deve presupporre la verità di quanto vuole giustificare; se non che,
sempre per lo scettico, la giustificazione non esce mai dal circolo vizioso del presupporre, cioè
dal diallele. Ebbene, i modi in cui le varie teorie gnoseologiche cercano di rispondere alla sfida
scettica (il cosiddetto “scenario scettico”) definiscono i diversi modi di spiegare la natura
dell’attività epistemica come tale, stante che il punto cruciale è proprio lo stabilire quando si è
giustificati nel credere qualcosa, ossia quando si può affermare che si crede in essa sulla base
di buone ragioni. Il rapporto con la realtà (con quella realtà che noi definiamo propria del “realismo ingenuo”) diventa dunque decisivo, dal momento che una credenza, cioè un enunciato
che può essere vero o falso, non può essere casualmente vero, ma deve “rintracciare” il contenuto della sua verità. Le teorie gnoseologiche vengono distinte, in prima approssimazione, in
teorie interniste ed esterniste. Tra le prime, il fondazionalismo (che non può di certo venire
inteso come ricerca di un fondamento emergente, così che anch’esso, per lo meno a nostro
giudizio, di fatto sposa la tesi antifondazionale, anche se apparentemente la avversa), a differenza del coerentismo, fa valere, nel suo punto sorgivo, una qualche forma di concezione corrispondentista di verità, cioè l’idea per cui un sistema di credenze vere “corrisponde” ai fatti e
agli eventi reali espressi dal suo contenuto. Le seconde, soprattutto grazie alla ricerca condotta
– come visto – da Goldman, hanno consegnato alle scienze empiriche, e in particolare alle
scienze cognitive, il compito di stabilire la giustificazione delle credenze, in gran parte fondata
sul processo causale che sta alla base del processo percettivo. La concezione corrispondentista
di verità, in un certo senso, mantiene dunque un ruolo tanto nell’affidabilismo esternista quanto
nel naturalismo epistemico, che non a caso considera prioritaria la domanda concernente il tipo
di cose realmente esistenti e che, almeno da questo punto di vista, non si differenzia granché
dal naturalismo ontologico. Tutto ciò, tenendo fermo il punto per il quale, da un lato, l’accertamento della corrispondenza viene completamente affidato alle scienze empiriche e, dall’altro,
il ruolo della ricerca filosofica, intesa come teoresi, viene considerato estraneo allo stesso dibattito. Precisamente per questa estromissione di ogni riflessione autenticamente filosofica, i
concetti di “verità” e di “realtà” non sono stati adeguatamente tematizzati, se non altro glissando, per esempio, sul fondamentale problema sollevato da CARNAP (cfr. «Empiricism, Semantics, and Ontology», Revue International de Philosophie, 4, 1950, pp. 20-40) con il suo
convenzionalismo ontologico, che considera prive di senso verità indipendenti da un certo quadro teorico-concettuale e linguistico di riferimento. Da questo punto di vista, del resto, le conclusioni cui perviene Carnap non sono così dissimili da quelle del “realismo interno” del primo
PUTNAM (cfr. Reason, Truth, and History, Cambridge University Press, Cambridge 1981), che
154
Sul riduzionismo
all’interno della Filosofia della mente, tende ad assumere il concetto di
verità nel senso dell’adaequatio rei et intellectus, ossia in senso corrispondentista. Tale nozione di verità non viene discussa, come se fosse
l’unica possibile e come se non implicasse seri problemi, almeno dal
punto di vista teoretico-speculativo.
Il discorso che abbiamo svolto fin qui ha inteso precisamente evidenziare come sia problematico il concetto stesso di realtà: ebbene, la
nozione di verità come adaequatio si pone perché si prescinde da tale
problematicità.
Essa, infatti, presume che possa esservi un luogo privilegiato in cui
ci si dispone per poter svolgere un confronto tra la realtà (res), come è
in sé, e la realtà, che viene conosciuta ed espressa (intellectus). Se non
che, un tale confronto postula un soggetto conoscente che possa cogliere la realtà oggettiva indipendentemente dal proprio conoscerla e,
precisamente per questa sua capacità, possa poi effettuare un confronto
con la realtà che gli è possibile conoscere.
Il soggetto, insomma, dovrebbe uscire da sé stesso e cogliere la realtà
indipendentemente dai suoi modi di coglierla: solo così sarebbe possibile stabilire se c’è effettiva corrispondenza.
Detto con altre parole: si dà per scontata la determinazione della vera
realtà, quando è esattamente questo il problema della verità. Del resto,
affermare che la corrispondenza si pone con la realtà che viene comunemente percepita implica, da un lato, la rinuncia a una fondazione
“forte” della corrispondenza e, dall’altro, l’assunzione di ciò che è solo
intersoggettivo (la realtà percepita) come se fosse oggettivo (autonomo
e autosufficiente).
distingue la prospettiva “esternista”, tipica di un realismo metafisico che, appunto, abbiamo
definito “ingenuo”, da quella “internista”, nella quale l’oggettività si definisce in relazione
all’attività cognitiva umana. La stessa “tesi dell’oggettività” di STRAWSON (cfr. The Bounds of
Sense: An Essay on Kant’s ‘Critique of Pure Reason’, Methuen & Co. Ltd., London 1966),
secondo la quale non vi può essere qualcosa che soddisfi le condizioni soggettive dell’esperienza senza il darsi di oggetti che esistano indipendentemente dal percipiente, avrebbe forse
meritato maggiore attenzione, così come, del resto, le obiezioni di STROUD (cfr. The Significance of Philosophical Skepticism, già citato), il quale mostra come le argomentazioni di Strawson, e altre analoghe, non possano non postulare un principio di verificazione che ripropone
un’ontologia realista, dunque l’esistenza oggettiva e pertanto assoluta di oggetti, non relativi
alle nostre capacità cognitive. A nostro modo di vedere, il centro teoretico dell’intero dibattito
consiste nella duplice impossibilità più volte evidenziata: da un lato, non si può non richiedere
il riferimento a una realtà oggettiva, l’unica che è in grado di legittimare il concetto di verità
autentica, stante che “verità” e “realtà oggettiva” risultano un medesimo; dall’altro, non si può
non riconoscere che tale realtà oggettiva (dunque, la verità autentica) non può venire determinata, senza trasformarsi in una realtà “per noi” (in una “verità relativa”).
II. Il
riduzionismo in Filosofia della mente
155
Il secondo assunto è il seguente: l’affidabilista postula che la sua teoria si fondi solo su leggi causali. Se non che, nel momento in cui va in
cerca di ragioni che siano in grado di legittimare la stessa teoria di cui
si fa portavoce, l’affidabilista non può non ammettere, almeno implicitamente, che la credenza espressa dalla sua teoria non si fonda soltanto
su un processo causale.
A questa eventuale obiezione l’affidabilista non risponde mediante
una contro-argomentazione, bensì facendo valere un nuovo assunto,
quello per il quale la naturalizzazione dell’epistemologia non prevede
una meta-epistemologia, cioè un livello ulteriore sul quale si disponga
la riflessione critica concernente il primo livello.
Per l’affidabilista, che noi assumiamo come l’interprete più fedele
della concezione naturalista e del programma di naturalizzazione della
mente, vi sarebbe un unico livello, quello in cui si dispone la ricerca
scientifica, perché un livello propriamente teorico, o meglio teoretico,
dove si decide della natura della giustificazione e della conoscenza, non
può esistere, se distinto da quello nel quale effettivamente conosciamo
attraverso la scienza.
Si potrebbe dire che, secondo la prospettiva naturalista, la realtà è
composta da un unico tipo di cose, fondamentalmente dalle entità indagate dalla fisica, e per questa ragione si parla di naturalismo fisicalista.
Che si dia un unico livello conoscitivo costituisce, dunque, l’assunto
fondamentale della concezione naturalista. Se non che, facciamo notare
che si tratta di un assunto che viene clamorosamente smentito proprio
dalla riflessione critica, che necessariamente dispone l’oggetto su cui
riflette su un diverso livello rispetto a sé stessa.
Chi sostiene un naturalismo radicale, però, non si pone tale problema
e non considera l’importanza del pensiero riflessivo. Come vedremo più
avanti, il naturalista radicale rifiuta l’idea che il pensiero possa sdoppiarsi in un pensiero pensante e in un pensiero pensato, perché, come
sostenuto da Comte, ciò appare una contraddizione.
Il terzo assunto può venire così sintetizzato: da un lato, si fa valere
la naturalizzazione del metodo del conoscere; dall’altro, la naturalizzazione dell’oggetto stesso del conoscere, cioè la mente dell’uomo. Ma la
naturalizzazione dell’oggetto qui coincide con la naturalizzazione
stessa del soggetto che mette in atto il processo conoscitivo.
In tal modo, il soggetto viene ridotto a un qualunque altro oggetto e
perde quell’emergenza che dovrebbe connotarlo in quanto soggetto.
Proprio perché non accettano tale emergenza, coloro che si propongono
156
Sul riduzionismo
la radicale naturalizzazione della mente finiscono per negare il soggetto
in quanto tale.
La conseguenza di tali assunti è questa: se la mente, analogamente a
quanto accade nella biologia, nella fisica e nella psicologia sperimentale, viene indagata a qualsiasi livello con lo stesso metodo con cui le
scienze naturali studiano i propri oggetti, allora la naturalizzazione del
metodo determina inevitabilmente anche la naturalizzazione dell’oggetto dello studio e, in ultima istanza, anche la naturalizzazione del soggetto conoscente, ossia la sua negazione come soggetto.
2.3. L’assolutizzazione dell’oggetto
Il monismo materialistico sostanzialmente coincide con l’assolutizzazione dell’oggetto e implica che all’oggetto viene sottratto ciò su cui
poggia che è l’altro da sé, il soggetto appunto.
In effetti, ciò che va messo in evidenza è proprio la correlatività di
soggetto e oggetto (si veda il paragrafo 4 del terzo capitolo della Parte
Prima), per lo meno del soggetto empirico, stante che il soggetto trascendentale non può non emergere oltre la relazione all’oggetto, costituendosi come condizione oggettivante questa stessa relazione.
Ebbene, il monismo materialistico configura la più radicale negazione della soggettività, proprio perché vale come l’assolutizzazione
dell’oggetto. Per comprendere il senso di questa assolutizzazione, che
realizza una delle forme più significative del riduzionismo teoretico,
torniamo alla differenza che sussiste tra oggettivo e oggettuale.
Iniziamo con il rilevare che la stessa scienza, da un lato, è solita riferire la parola “oggetto” a una “realtà” che apparterrebbe all’ambiente
esterno al soggetto; dall’altro, al “risultato” dell’attività cognitiva17. Da
un certo punto di vista, insomma, l’oggetto viene assunto come ogget
17
Per una introduzione al tema indicato, espressa in termini pregnanti e attuali, scegliamo,
tra i molteplici testi che se ne occupano, quello di M. MARRAFFA, La mente in bilico. Le basi
filosofiche della scienza cognitiva, Carocci, Roma 2008 e quello di M. MAZZONE, Menti simboliche. Introduzione agli studi sul linguaggio, Carocci, Roma 2005. Scegliamo questi due testi
proprio in ragione del fatto che in essi il rapporto mente-mondo tende a presentarsi nella forma
del rapporto segno-significato, dove con l’espressione “segno” si intende una forma determinata che è sé nell’inviare ad altro e con l’espressione “significato” si intende, a volte, estensionalmente, il referente extralinguistico o il valore di verità dell’enunciato, altre volte, intensionalmente, il “contenuto” concettuale del segno medesimo.
II. Il
riduzionismo in Filosofia della mente
157
tivo; da un altro punto di vista, invece, esso viene considerato il “prodotto” dell’attività del soggetto. Quale delle due concezioni scegliere?
Questo è il dilemma di fronte al quale si trova la scienza!
Come si ricorderà, anche dal passo di Searle in cui si afferma “osservate ora gli oggetti che vi circondano, sedie, tavoli, case, alberi. Questi oggetti non sono in alcun senso ‘soggettivi’. Esistono del tutto indipendentemente dall’essere o non essere oggetto d’esperienza di qualcuno”18, emerge che con l’espressione “oggettivo” – che è contrapposta
implicitamente a “soggettivo” – si intende ciò che esiste indipendentemente dal soggetto e dalle sue capacità percettive.
Potremmo dire che l’oggettivo si pone fuori dalla relazione al soggetto e per questa ragione vale come la realtà autentica, quella realtà
che è in sé e per sé.
In fondo, la posizione espressa da Searle coincide con quella di Hobbes e cioè con quel realismo che abbiamo definito in precedenza metafisico, ma che potremmo definire anche materialistico, per la ragione
che molto spesso la realtà di cui si afferma l’oggettività è quella fisicomateriale.
La questione, però, è assai complessa e noi abbiamo cercato di metterlo in luce mediante la seguente domanda: quella realtà, che è indipendente dal soggetto, permane la medesima allorché entra in rapporto
con esso?
Tale domanda implica due possibili risposte: se si risponde che la
realtà permane la stessa, allora si deve ammettere che la relazione al
soggetto non produce alcuna trasformazione nell’oggetto. In quest’ottica, oggetto-reale e oggetto-percepito sono un medesimo, con la conseguenza che l’oggetto reale si risolve e si dissolve nell’oggetto percepito, l’unico di cui il soggetto possa fare esperienza.
Se, di contro, si risponde che l’oggetto reale non si risolve nell’oggetto percepito, dal momento che il primo è in sé e per sé laddove il
secondo è per noi, ossia è il prodotto della trasformazione che la “dipendenza” dal soggetto impone all’oggetto reale, allora ci si trova nella
necessità di dire che dell’oggetto reale nulla si può affermare, se non
che non coincide con l’oggetto percepito né si risolve in esso.
18
J.R. SEARLE, La mente, cit., p. 5.
158
Sul riduzionismo
Ebbene, è quanto mai significativo rilevare che proprio Searle, che
pure è un fautore del recupero dell’ontologia in prima persona, mantiene un concetto di “oggettività” che appartiene a un realismo che, a
nostro giudizio, non può non venire definito “ingenuo”.
Per cercare di spiegare meglio il senso della critica che intendiamo
rivolgere a questa assunzione del concetto di “oggettività”, prendiamo
in esame alcune considerazioni che Di Francesco svolge proprio nella
«Prefazione» all’opera di Searle, dalla quale abbiamo estratto il passo e
che si intitola La mente. Di Francesco si rifà a un passo di Wittgenstein,
che suona così:
Ora qualcuno mi dice di sapere che cosa siano i dolori soltanto da se stesso! –
Supponiamo che ciascuno abbia una scatola in cui c’è qualcosa che noi chiamiamo “coleottero”. Nessuno può guardare nella scatola dell’altro; e ognuno
dice di sapere che cos’è un coleottero soltanto guardando il suo coleottero. […]
Ma supponiamo che la parola “coleottero” avesse tuttavia un uso per queste
persone! – Allora non sarebbe quello della designazione della cosa. La cosa
contenuta nella scatola non fa parte in nessun caso del gioco linguistico; nemmeno come un qualcosa: infatti la scatola potrebbe anche essere vuota19.
Il tema, come ben si comprende, è proprio quello dell’oggettività. La
domanda da porre è la seguente: si dà una realtà oggettiva al di là della
parola e alla quale la parola si riferisce, oppure, in alternativa, è sull’uso
della parola che si costruisce una qualche forma di superamento della
dimensione solo soggettiva, così che si impone la necessità di abbandonare la pretesa di considerare oggettiva la realtà, stante il fatto che essa
viene colta soltanto soggettivamente?
Il passo di Wittgenstein mostra che il “coleottero” è essenzialmente
una parola, la quale non ha rilevanza tanto per la sua designazione –
dunque per la realtà che indica, dal momento che questa realtà, ossia il
“qualcosa” da essa indicato, potrebbe anche non esistere –, quanto per
l’uso che della parola si compie, ossia per la sua rilevanza sociale e
pubblica.
Non a caso, Di Francesco così commenta il passo:
Wittgenstein, in questo brano, capovolge la prospettiva che assume la soggettività vissuta come dato primo da cui origina ogni nostra conoscenza. Il sapere
19
L. WITTGENSTEIN, Philosophische Untersuchungen. Philosophical Investigations,
G.E.M. Anscombe e R. Rhees (Eds.), Blackwell, Oxford 1953; trad. it. di M. Trinchero, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1967, pp. 132-133.
II. Il
riduzionismo in Filosofia della mente
159
e il pensiero (inteso non come atto psicologico, ma come espressione di un
contenuto di verità) hanno per lui una dimensione linguistica, e – in quanto il
significato linguistico è legato alla dimensione pubblica e intersoggettiva della
comunicazione – si sviluppano in uno spazio oggettivo e socialmente condiviso, che è quindi rilevante anche per ogni riferimento all’esperienza mentale20.
Il punto che intendiamo evidenziare è che “oggettivo”, per Wittgenstein, è sinonimo di “intersoggettivo” e indica “ciò che viene condiviso”.
Da un lato, quindi, la soggettività non può venire considerata come
fondamento epistemico – non si spiegherebbe infatti come da un processo “privato”, perché soggettivo, sia possibile passare a processi
“pubblici” come la comunicazione e il conoscere –; dall’altro, se di una
oggettività si abbisogna, non la si potrà assumere in senso “forte”, come
un’oggettività ontologica, ma in senso “debole”, cioè come un’intersoggettività: deve venire considerato come oggettivo solo ciò che viene
condiviso da più soggetti e il linguaggio è la forma paradigmatica
dell’oggettività intesa in questo senso, che appunto abbiamo definito
“debole”.
Su questo aspetto si deve insistere, perché è fondamentale. Sarebbe
un errore pensare che venga condiviso ciò che in sé è oggettivo, come
vale per la forma più ingenua di realismo. Di contro, si deve pensare
che ciò che viene condiviso, magari dalla maggioranza delle persone,
viene assunto come se fosse oggettivo, pur essendo, in effetti, non altro
che soggettivo, ancorché intersoggettivo.
Il punto è estremamente rilevante, perché impone che il “come se”
non venga mai dimenticato. Se il realismo ingenuo tende a dimenticarlo, è la natura stessa del dato, il quale è tale in quanto “è dato a un
soggetto”, che impone lo si colga nella sua intrinseca valenza relazionale, ossia nel suo essere strutturalmente un segno. Ogni realtà, inclusi
i percetti, vale come un segno, così che non può venire ipostatizzata,
bensì deve venire colta nel suo “essere riferendosi”.
Ciò significa che non si può mai dimenticare che la realtà di cui parliamo è empirica, non metafisica, cioè non trascende l’esperienza
stessa. E le “cose” dell’esperienza si riferiscono reciprocamente le une
alle altre, si vincolano intrinsecamente, per la ragione che nessuna di
esse è autonoma e autosufficiente. In questo senso, esse devono venire
20
M. DI FRANCESCO, «Prefazione» a J.R. SEARLE (2004), La mente, cit., p. XII.
160
Sul riduzionismo
considerate dei segni, nonostante invece vengano fatte valere come dei
significati (appunto, come delle “cose”).
Per contrario, l’oggettivo è proprio ciò che dovrebbe essere in sé
consistente e per sé sussistente: solo a questa condizione esso funge da
effettivo fondamento del conoscere.
L’oggettivo configura ciò che viene esigito dall’universo del discorso, e dall’universo del discorso scientifico in particolare; se non
che, esso permane sempre “esigito” e non si trasforma mai in “esatto”.
In effetti, il participio passato del verbo italiano “esigere”, che corrisponde al latino exigere, è “esatto” (exactus) e ciò induce a credere
che qualunque esigenza, prima o poi, troverà adeguata soddisfazione.
Non così, però, per l’esigenza di fondamento. Tale esigenza è destinata a rimanere viva ed è precisamente questo suo rimanere viva che
tiene in vita la ricerca.
Inoltre, l’irriducibilità dell’esigito all’esatto segna la distanza che
sussiste con ogni forma di riduzionismo: quest’ultimo, infatti, assume
l’esigito come se fosse l’esatto e, quindi, riduce il primo al secondo.
Ciò che di volta in volta viene assunto come oggettivo, allora, è a
rigore solo intersoggettivo, inclusi gli “oggetti” della comune esperienza, i quali sono non altro che “prodotti” dell’attività del soggetto,
anche se l’attività viene innescata da stimoli fisici che provengono
dall’ambiente.
In quest’ultimo, non lo si dovrà mai dimenticare, si danno solo stimoli, i quali, inoltre, sono tali perché stimolano, ossia perché hanno una
rilevanza per il soggetto. Questo spiega per quale ragione non tutti i
ricercatori siano disposti a negare il mentale e l’ontologia soggettiva:
Tuttavia […] la mente non può essere ridotta alla pura componente fisico-materiale. Se lo fosse, si trascurerebbe un fatto fondamentale: l’esistenza di una
“ontologia soggettiva”, un’ontologia della prima persona, la cui esistenza è un
dato di fatto incontrovertibile21.
Orbene, l’aspetto veramente interessante è che anche coloro che riconoscono l’emergenza dell’esperienza in prima persona, e Searle è certamente uno di questi, tendono però a dimenticare che il “dato” è assunto “come se” fosse oggettivo e finiscono per considerarlo come la
realtà stessa, l’oggettivo simpliciter, così che quello stesso soggetto, che
21
Ivi, p. XIII.
II. Il
riduzionismo in Filosofia della mente
161
per un verso emergerebbe sull’oggetto, per altro verso si subordinerebbe a quest’ultimo.
Ciò che costoro non riescono a vedere è proprio la reciprocità e la
complanarità dell’uno e dell’altro, per lo meno – va ripetuto – se il soggetto viene inteso come “soggetto empirico” e non come “soggetto trascendentale”.
Si potrebbe anzi affermare che, se Searle recupera la soggettività, ma
la subordina all’oggetto, assunto come “oggettivo”, di contro l’impossibilità di confondere “oggettivo” e “oggettuale” è presente ad altri studiosi, che si occupano della mente e che però non sempre accettano
questo recupero dell’ontologia in prima persona, come lo propone
Searle.
Cercheremo di indicare, citando brevi passi, alcune tra le più significative concezioni, in ordine al tema dell’oggettività, espresse da insigni studiosi, le quali possono venire considerate in un certo senso paradigmatiche di un’ambivalenza di fondo che caratterizza in genere la ricerca sul “mentale”.
Il nostro intento è quello di mostrare la centralità della distinzione di
oggettivo e oggettuale. Per “oggettivo”, infatti, si deve intendere ciò che
è indipendente dal soggetto; per “oggettuale”, invece, ciò che gli è frontale e reciproco, dunque i percetti dell’esperienza ordinaria.
Rileviamo che, anche se questa distinzione non viene esplicitamente
ammessa dagli studiosi che si occupano della mente, i quali in genere
sposano il modello del cosiddetto monismo materialistico, che esclude
dunque qualunque forma di dualismo e conduce a un’autentica assolutizzazione dell’oggetto, pur tuttavia essa, per lo meno a nostro giudizio,
è fungente e operante nei loro scritti e, poiché non ammessa o comunque non riconosciuta, produce quell’ambivalenza di cui sopra parlavamo.
Di questa nostra affermazione ci proponiamo ora di offrire le ragioni
e lo facciamo prendendo in esame, ovviamente per punti essenziali, la
concezione che in ordine al tema dell’oggettività hanno espresso Damasio, Edelman e Dennett.
2.4. Il tema dell’oggetto
Damasio, in particolare nell’opera Emozione e coscienza, così scrive in
Appendice:
162
Sul riduzionismo
Le immagini vengono costruite quando attiriamo un oggetto – una persona, un
luogo o un mal di denti – dall’esterno del cervello verso il suo interno, oppure
quando ricostruiamo un oggetto in base ai ricordi, dall’interno verso l’esterno,
per così dire22.
Qui vengono usati due verbi, e precisamente “costruire” e “ricostruire”,
che meritano di venire attentamente pensati. Secondo le parole di Damasio, la costruzione attiene alle immagini: esse vengono costruite, potremmo anche dire “prodotte”, quando l’oggetto viene trasferito
dall’ambiente all’interno del cervello.
Di contro, la ricostruzione attiene all’oggetto, ma solo quando lo riproduciamo in base a immagini, contenute nella nostra memoria, così
che qui il movimento è dall’interno verso l’esterno: si parte dalle rappresentazioni contenute nel magazzino della memoria, e dunque inscritte nel cervello, per pervenire a un oggetto che prende forma nel
cervello, ma viene riferito a qualcosa che è stato esterno rispetto al cervello stesso. Proprio a muovere da questo “qualcosa di esterno” si sono
formate le rappresentazioni (immagini) conservate in memoria.
La posizione sostenuta da Damasio, se ci si basa sulle parole del
passo citato, sembra quella tipica del realismo: l’oggetto si pone indipendentemente dal soggetto e solo mediante il suo venire tradotto in
immagini esso fa la sua comparsa nel cervello, cioè nel soggetto.
Le immagini, che possono anche venire dette “rappresentazioni” –
almeno in un senso in cui questa espressione viene usata, sempre secondo Damasio –, sono la traduzione nel cervello dell’oggetto. La rappresentazione, infatti, è la “configurazione associata in modo regolare
a qualcosa”23 e questo suo significato non costituisce di certo un problema, giacché una rappresentazione è un segno e, come ogni segno, si
pone in riferimento a qualcosa di diverso da sé.
Tuttavia, nell’uso del termine “rappresentazione” si nasconde un ulteriore significato, che Damasio così precisa:
Il problema del termine rappresentazione non è l’ambiguità, poiché chiunque
può intuire che cosa significa, ma il sottinteso che, in qualche modo, l’imma-
22
A. DAMASIO, The Feeling of What Happens. Body and Emotion in the Making of Consciousness, Harcourt Brace, New York 1999; trad. it. di S. Frediani, Emozione e coscienza,
Adelphi, Milano 2000, p. 383.
23
Ivi, p. 384.
II. Il
riduzionismo in Filosofia della mente
163
gine mentale o la configurazione neurale [che è un’altra forma di “rappresentazione”] rappresentino, nella mente e nel cervello, con un certo grado di fedeltà, l’oggetto al quale si riferisce la rappresentazione, come se la struttura
dell’oggetto venisse riprodotta nella rappresentazione24.
Siamo al punto. Damasio ci invita a riflettere sulla convinzione che la
rappresentazione riproduca l’oggetto e lo riproduca “con un certo grado
di fedeltà”. Questa convinzione, in effetti, è condivisa dalla stragrande
maggioranza dei ricercatori e degli scienziati nonché da molti filosofi
che oggi si interrogano sul concetto di “realtà”.
Ebbene, il fatto veramente interessante è che proprio Damasio, che
pure è uno scienziato, si sente di dover sottolineare che questa posizione, ancorché comunemente condivisa, nasconde un sottinteso che
presenta una certa ambiguità, legata al modo di intendere la realtà e il
rapporto della rappresentazione con essa.
Per illustrare il sottinteso, egli apporta una significativa precisazione,
che ha come suo obiettivo quello di evitare l’ambiguità. A suo parere,
quando si dice che la rappresentazione “riproduce” l’oggetto, non si può
intendere che la rappresentazione costituisca lo specchio fedele dell’oggetto, come se “la struttura dell’oggetto venisse riprodotta nella rappresentazione”25.
Ecco il punto cruciale: Damasio esclude che la rappresentazione
mentale “riproduca” l’oggetto e aggiunge:
Non voglio affatto suggerire che le cose stiano così quando uso la parola rappresentazione. Non ho la più pallida idea di quanto siano fedeli le configurazioni neurali e le immagini mentali rispetto agli oggetti ai quali si riferiscono.
Inoltre, quale che sia il grado di fedeltà, le configurazioni neurali e le corrispondenti immagini mentali sono nella stessa misura creazioni del cervello e
prodotti della realtà esterna che ne induce la creazione26.
Configurazioni neurali e immagini mentali corrispondenti, che potremmo definire anche “simboliche”, sono creazioni del cervello per la
ragione che esprimono come il cervello reagisce a determinati stimoli
e, secondo la prospettiva cognitivista, alle informazioni in essi contenute.
24
Ivi, pp. 384-385.
Ivi, 385.
26
Ibidem.
25
164
Sul riduzionismo
In forza di stimoli provenienti dall’ambiente, e delle informazioni in
essi contenute, si determinano “forme”, che possono essere neurali o
simboliche. Tali forme costituiscono le rappresentazioni, le quali non
dovrebbero venire definite, a nostro parere, rappresentazioni dell’oggetto, stante che l’oggetto non è ciò che induce tali forme né è il referente di tali forme, ma è ciò che da tali forme emerge.
Damasio, invece, continua a definire “oggetto” ciò a cui quelle
“forme interne” si riferiscono e che si colloca nel mondo “esterno”:
esterno al soggetto, al cervello e alla mente, se di mente si vuole parlare:
“Quando voi e io osserviamo un oggetto esterno a noi, le immagini che
formiamo nel cervello sono paragonabili. Lo sappiamo bene, poiché
possiamo descrivere l’oggetto in modi molto simili, fino ai dettagli minuti”27.
Le immagini che ciascuno di noi si forma nel proprio cervello non
sono arbitrarie, nel senso che ognuno si forma la propria immagine
dell’oggetto. Sono paragonabili, nel senso che ciascuno si forma immagini molto simili dello stesso oggetto, fino ai dettagli più minuti. Che
cosa significa questo? Lo spiega Damasio:
Ma questo non significa che l’immagine che vediamo sia la copia di ciò che è
l’oggetto in questione. Che cosa sia, in termini assoluti, non lo sappiamo. L’immagine che vediamo si basa su cambiamenti che hanno avuto luogo nel nostro
organismo – compresa la parte dell’organismo chiamata cervello – quando la
struttura fisica dell’oggetto interagiva con il corpo. I dispositivi di segnalazione
situati in ogni parte della struttura del nostro corpo – nella cute, nei muscoli,
nella retina e così via – contribuiscono alla costruzione di configurazioni neurali che costituiscono la mappa dell’interazione tra l’organismo e l’oggetto28.
Nel passo citato, Damasio aggiunge ulteriori precisazioni, esse stesse
molto significative, che meritano adeguata attenzione. La prima precisazione concerne l’impossibilità di indicare che cosa siano in effetti,
cioè “in termini assoluti”, l’immagine e il rapporto che essa intrattiene
con l’oggetto. Ciò è conseguenza del fatto che non è possibile cogliere
l’oggetto “in sé”, ossia nel suo essere indipendente dal venire percepito.
Fermiamoci per un attimo su questa precisazione, che Damasio apporta con disinvoltura, ma che invece è di estrema rilevanza.
27
28
Ibidem.
Ibidem.
II. Il
riduzionismo in Filosofia della mente
165
Come si può definire, allora, l’oggetto, in base a quanto afferma Damasio? Da un lato, sembra che l’“oggetto” valga come il presupposto
della nostra percezione, ossia esprima ciò che si postula come essente
in sé e per sé e come in grado di “causare” una risposta nel nostro organismo. Questo sembra valere anche in considerazione del fatto che le
immagini che ci formiamo di esso (e cioè dell’oggetto “esterno a noi”)
sono “paragonabili” e sostanzialmente molto simili.
Dall’altro, Damasio ha affermato con chiarezza che l’oggetto in sé
non può venire colto, poiché cosa esso sia “in termini assoluti” non è
dato sapere. Ci pare che le due posizioni non si possano conciliare, così
che sembrano configurare un’antilogia.
A noi pare che, per rendere intelligibile il discorso, lo si debba intendere in questo modo: la realtà oggettiva – che appunto è dichiarata inattingibile – deve venire inesorabilmente ridotta alla (e risolta nella)
realtà oggettuale – cioè ridotta all’oggetto che percepiamo come se
fosse fuori di noi, ma che si colloca comunque dentro il campo percettivo –, in modo tale che ciò che domanda di venire bene esplicitato è
proprio questa fondamentale distinzione, che invece si tende a non considerare. Poiché non si pone la distinzione, non si vede nemmeno la
riduzione.
Precisamente per la ragione che la riduzione dell’oggettivo all’oggettuale non viene riconosciuta, l’oggetto viene assunto come la fonte
(causa) del processo percettivo e non come il suo prodotto (risultato).
Affinché l’equivoco, consistente nella pretesa di assumere l’oggettivo, venga smascherato, è necessario tenere presente che noi non vediamo l’oggetto, bensì le “sue” rappresentazioni. Queste ultime, e solo
queste ultime, sono l’oggetto della nostra percezione, ossia ciò che noi
percepiamo. Proprio tra queste rappresentazioni percepite, inoltre, è
possibile instaurare un confronto, onde stabilire che sono molto simili.
Ebbene, poiché le rappresentazioni sono molto simili, si è portati a
pensare che provengano dal medesimo oggetto, il quale sembrerebbe
così la fonte delle rappresentazioni. Questo è il punto di vista ordinario.
Se non che, in tal modo non si tiene in conto un aspetto decisivo:
cosa sia e come sia l’oggetto indipendentemente dalla percezione, cioè
dalle nostre rappresentazioni, non è dato sapere: le configurazioni neurali valgono soltanto come la “mappa dell’interazione tra l’organismo
e l’oggetto” e dicono nulla dell’oggetto in sé.
Ciò non può non comportare che, quando si parla di oggetto-percepito, non si può intendere l’oggetto-reale. L’oggetto-percepito, con
166
Sul riduzionismo
tutte le sue proprietà, che potremmo definire primarie (quantitative) e
secondarie (qualitative), appartiene pertanto al “campo della percezione” del soggetto e non può venire identificato con l’oggetto in sé.
Il “fuori di noi”, cioè quella realtà che Damasio definisce “esterna”,
non indica, insomma, il “fuori dal campo percettivo del soggetto”. Fuori
da tale campo si pone solo quella realtà in sé che funge da “fattore oggettivo” e che, proprio per questo, non è determinabile affatto.
In virtù delle considerazioni svolte, il punto di vista ordinario viene
totalmente capovolto. Per offrire un’ulteriore ragione della necessità di
tale capovolgimento, notiamo quanto segue: per poter dire che oggettoreale e oggetto-percepito coincidono, si dovrebbe cogliere l’oggettoreale, onde poterlo poi confrontare con l’oggetto percepito e stabilire la
loro coincidenza.
Se, però, si ha a che fare soltanto con l’oggetto-percepito, allora
l’unica “realtà” che si offre è quella “oggettuale”, così che l’oggetto
non potrà più venire considerato come la fonte delle rappresentazioni –
la fonte sono gli stimoli –, essendo piuttosto il risultato dei nostri processi di ricezione e di elaborazione.
Questi ultimi operano sulle forme esterne, ossia sulle forme che provengono dall’ambiente e che vengono dette “informazioni” (veicolate
dagli stimoli), le trasformano in forme interne, cioè in rappresentazioni,
e su queste ultime operano onde configurare, quale prodotto finale, il
campo percettivo, che include gli oggetti percepiti (percetti).
In sintesi: non si dovrebbe mai dimenticare che l’oggetto-percepito
– l’unico che si presenta – è il prodotto dei processi di elaborazione
delle informazioni (forme esterne) nonché dei processi neuro-fisiologici attivati dallo stimolo.
Con questa fondamentale conseguenza, che abbiamo già anticipato,
ma che vogliamo ripetere: se l’oggetto è il prodotto dell’attività recettiva ed elaborativa, allora non può esserne la causa.
Soltanto il riduzionismo teorico delle scienze che si occupano della
mente scambia l’effetto per la causa e non si avvede che l’unico oggetto
di cui si parla è quello che è stato costruito in forza dei processi percettivi ed elaborativi del soggetto.
Non ha senso, dunque, parlare di ricostruzione dell’oggetto, come se
la mente ricostruisse la realtà e come se la realtà ricostruita coincidesse
con la realtà effettiva, cioè con la realtà oggettiva (che, come dice Damasio, è indefinibile “in termini assoluti”).
II. Il
riduzionismo in Filosofia della mente
167
L’ingenuità di questo modo di pensare è duplice: si riduce la realtà
effettiva alla realtà cosiddetta “ricostruita” e si identifica l’esito del processo, che a rigore è “costruttivo”, con il dato presupposto, come se
quest’ultimo potesse valere, a un tempo, come premessa del processo e
come esito dello stesso.
Altrimenti detto: non soltanto l’oggetto è intrinsecamente ipotecato
dal soggetto per il fatto che risulta il prodotto finale dei suoi processi
fisiologici e cognitivi, attivati dagli stimoli e dalle informazioni, ma
inoltre, anche qualora il realista (ingenuo) volesse assumere la “realtà
oggettiva” come il “presupposto” dell’attività percettiva, egli si troverebbe nella condizione di credere di affermare, con ciò, la realtà indipendente dell’oggetto. Se non che, la sua “fede” nell’indipendenza
dell’oggetto presupposto si fonda soltanto sul suo ignorare la natura e
il significato del presupporre: il presupposto è tale perché è vincolato a
ciò che lo presuppone, cioè appunto al soggetto e al suo sistema percettivo, così che non potrà valere in alcun modo come “oggettivo” (autenticamente “indipendente”).
Ci sembra quanto mai significativo che un altro insigne neurobiologo, Edelman, in una sua opera abbastanza recente, dopo avere fornito
un avvertimento al lettore: “Il lettore ricordi, quando sarà il caso, che
comunque la triade essenziale [corpo, econicchia e cervello] è sempre
nella mia mente”29, scriva: “Un altro errore è contenuto nell’affermazione che le categorie sensoriali come il colore e varie altre percezioni
esistono nel mondo indipendentemente dalla mente e dal linguaggio”30.
Per poi aggiungere, citando Quine e il suo progetto di “naturalizzare
l’epistemologia”:
Il soggetto riceve “un certo input sperimentalmente controllato – certi modelli
di irradiazione […] e a tempo opportuno quel soggetto libera come output una
descrizione del mondo esterno tridimensionale e della sua storia. La relazione
tra quel magro input e quell’output torrenziale è una relazione che siamo spinti
a studiare […] per vedere come l’evidenza abbia rapporto con la teoria”31.
29
G.M. EDELMAN, Second Nature. Brain Science and Human Knowledge, Yale University
Press, New Haven and London 2006; trad. it. di S. Frediani, Seconda natura. Scienza del cervello e conoscenza umana, Raffaello Cortina, Milano 2007, p. 22.
30
Ivi, p. 37.
31
Ivi, pp. 43-44. L’opera di W.V.O. QUINE cui Edelman si riferisce è Epistemology Naturalized, che abbiamo già citato; il passo è a p. 106 dell’edizione italiana.
168
Sul riduzionismo
Orbene, ciò che facciamo fatica a comprendere è come si possano porre
con tanta disinvoltura queste affermazioni, assolutamente condivisibili
e pregnanti, senza avvedersi che, in tal modo, si mette radicalmente in
discussione l’assunto su cui poggia l’intera impalcatura della scienza,
almeno nella sua versione “realistica”: il mondo è l’insieme degli oggetti, intesi in senso “oggettivo”.
A nostro giudizio, infatti, chi si dispone a svolgere la ricerca scientifica si trova di fronte un bivio: aut con l’espressione “oggetto” intende
ciò che si presenta nella comune esperienza, ma allora l’oggetto non
può non risultare vincolato a tale esperienza e, dunque, al soggetto; aut
intende il reale, l’oggettivo, ma allora dovrà precisare che cosa distingue l’oggettivo, l’oggetto in sé, dall’oggetto percepito, che abbiamo
convenuto di definire “oggettuale”.
A noi sembra che l’unica cosa certa sia che essi non possono venire
confusi né, tanto meno, identificati (il primo non può venire ridotto al
secondo), anche se tale identificazione (riduzione) risulta compiuta sistematicamente nell’operare delle scienze empiriche e sperimentali.
Anche se, cioè, il riduzionismo si impone di continuo nella concezione
dell’oggetto.
Del resto, la necessità di non intendere l’oggetto in forma ingenua
(riduzionistica) viene evidenziata anche da parte di chi, come per esempio Dennett, tende a risolvere il mentale negli stati rappresentazionali
computabili.
Egli, da un lato, fonda l’ontologia fisicalista di cui si fa portavoce sul
concetto di “oggetto reale”. La stessa distinzione di “fenomenologia” e
di “eterofenomenologia”, proposta nel quarto capitolo di una delle sue
opere principali, Coscienza. Che cosa è?, si fonda sulla distinzione tra
“approccio oggettivo” e “approccio soggettivo” alla fenomenologia
nonché “tra realtà fisica e realtà non fisica degli oggetti fenomenologici”32.
Se non che poi, da un altro lato, quando deve precisare la realtà intesa
nella sua dimensione fisica e oggettiva, cioè “esterna” al soggetto, e
dunque quando prende in esame la natura di tali oggetti, egli scrive:
32
D.C. DENNETT, Consciousness explained, Little, Brown and Company, New York-Boston-London 1991; trad. it. di L. Colasanti, Coscienza. Che cosa è?, Laterza, Roma-Bari 20092,
p. 112.
II. Il
riduzionismo in Filosofia della mente
169
Ingenuamente consideriamo quasi tutte le caratteristiche che rientrano nella
nostra esperienza come proprietà oggettive delle cose esterne, osservate “direttamente” da noi, ma sin da bambini impariamo a riconoscere una categoria
intermedia di oggetti – abbagli, luccichii, bagliori, macchie di colore – che
sappiamo essere prodotti in qualche modo dall’interazione tra oggetti, la luce
e il nostro apparato visivo33.
La domanda che sorge, a questo punto, è la seguente: se “abbagli, luccichii, bagliori, macchie di colore” costituiscono “una categoria intermedia di oggetti”, allora esistono o no “oggetti fisici reali”? La risposta,
per Dennett, è certamente affermativa, ma con una precisazione che
rende tutto estremamente complicato. La precisazione è la seguente:
Quando immagini una mucca viola che vola non fai altro che prendere il viola
che hai ottenuto vedendo un ciclamino e le ali che hai ottenuto vedendo
un’aquila, e le unisci alla mucca che hai ottenuto vedendo una mucca. Non è
del tutto giusto. Ciò che penetra negli occhi è una radiazione elettromagnetica
e non può quindi essere usato come una tinta con la quale dipingere mucche
immaginarie. Varie forme di energia fisica bombardano i nostri sensi, subendo
nei punti di contatto una “trasduzione” in impulsi nervosi che viaggiano verso
il cervello. Quello che passa dall’esterno all’interno non è niente altro che informazione e benché la ricezione dell’informazione possa provocare la creazione di qualche oggetto fenomenologico (per esprimersi nel modo più neutrale possibile), è difficile credere che l’informazione stessa – che è soltanto
un’astrazione concretizzata in qualche mezzo fisico modulato – possa essere
l’oggetto fenomenologico. Ci sono ancora buone ragioni, tuttavia, per riconoscere, con gli empiristi britannici, che in qualche maniera il mondo interno
debba dipendere dalle fonti sensoriali34.
Come si evince dalla conclusione del passo citato, Dennett è estremamente prudente in ordine all’impegno metafisico concernente il mondo
degli oggetti, cioè il mondo esterno al soggetto e da esso indipendente.
Tale indipendenza, anzi, è fortemente messa in discussione dalla prima
parte del passo, nella quale si evidenzia che fuori dal soggetto, semmai,
esistono non oggetti, ma forme di energia.
Come mai, ci chiediamo, tale consapevolezza e tale prudenza vengono tanto spesso dimenticate e abbandonate e, cosa ancor più singolare, ciò accade anche a coloro che pure più di altri tale consapevolezza
riescono ad esprimere?
33
34
Ivi, p. 64.
Ivi, pp. 68-69.
170
Sul riduzionismo
Come mai, si potrebbe anche dire, la concezione riduzionistica tende
così facilmente a imporsi, nonostante siano gli stessi riduzionisti che ne
sottolineano i limiti, anche se credono di farlo parlando d’altro e non
misurandosi precisamente con le tesi riduzionistiche?
A noi pare che ciò non possa essere semplicemente casuale, visto
che capita a molti studiosi e ricercatori di valore indiscusso e indiscutibile. Possibile che essi non si avvedano di far poggiare tutta la loro impalcatura teorica su un assunto, la “realtà oggettiva degli oggetti”, che
loro stessi mettono in discussione, stante l’impossibilità di concepire
l’oggetto a prescindere dal soggetto e dalla sua attività, recettivo-percettiva o elaborativa che sia?
In effetti, e questo è il punto che volevamo evidenziare, tutto ciò che
viene detto dell’oggetto appartiene all’oggetto-percepito, e soltanto ad
esso. Non potremo più dire, insomma, che gli stimoli provengono
dall’oggetto, se con l’espressione “oggetto” intendiamo una realtà autonoma e indipendente dal soggetto (una realtà oggettiva, appunto).
Se, di contro, abbandoniamo questa idea “forte” di oggetto, che lo
identifica con l’oggettivo, e ripieghiamo su un’idea “debole”, che lo risolve nell’oggettuale, allora il discorso è perfettamente legittimo, ma
ha importanti conseguenze.
Che è come dire: le cellule, per esempio le cellule retiniche nel caso
della visione, reagiscono agli stimoli e, in particolare, a configurazioni
determinate degli stimoli. Tali configurazioni, però, si precisano solo in
termini fisici di “forme di energia con determinate lunghezze d’onda”
e non in termini di proprietà dell’oggetto, se con oggetto si intende una
realtà che è indipendente dalla percezione stessa.
Allorché le cellule vengono eccitate da determinati stimoli, quelli
specifici per ciascuna di esse, allora esse attivano processi che “producono” determinate proprietà, l’insieme delle quali va a configurare
l’oggetto (che viene visto).
Le forme che attengono allo stimolo sono “forme energetiche”; le
forme che attengono alla percezione sono “forme oggettuali”.
Ciò ha una rilevantissima conseguenza, che abbiamo in precedenza
solo abbozzato: l’oggetto si costruisce nella interazione ambiente-soggetto, che configura un autentico sistema, e non ha più senso parlare di
ricostruzione. Si comprende bene l’esigenza di attribuire all’oggetto la
duplice valenza, che lo fa valere non solo come prodotto dell’interazione, ma anche come suo fondamento.
II. Il
riduzionismo in Filosofia della mente
171
Se non che, ciò è precluso dal fatto che l’oggetto, inteso nella sua
oggettività, non può venire ridotto all’oggetto che si presenta nel
“campo percettivo” né è possibile assumere il primo come il fondamento del secondo, proprio perché, per un verso, l’oggetto in sé, non
essendo determinabile, non è neppure assumibile; per l’altro, l’oggetto
percepito si fonda sull’attività del soggetto innescata dagli stimoli e
dalle informazioni.
Scrive, a questo proposito, Olivetti Belardinelli:
A un esame più attento appare evidente che la restrizione di ciò che è ereditato
a favore di ciò che è appreso, o, se vogliamo, la progressiva eliminazione del
soggettivo in favore di un oggettivo che rimane tuttavia difficile da cogliere, è
provocata proprio dall’assunzione che l’oggettivo è là, esterno a noi e ha una
sua esistenza reale e indipendente da noi, ossia dai soggetti percipienti. Una
volta ammessa la realtà indipendente dell’oggetto (della cultura nel nostro
caso) non si riesce più a dimostrarne la raggiungibilità da parte del soggetto,
ossia non si riesce più a dimostrare la corrispondenza tra ciò che viene conosciuto e percepito dal soggetto e l’oggetto che esiste al di fuori35.
La questione, insomma, è evitare di assolutizzare tanto l’oggetto quanto
il soggetto, considerandoli realtà autonome e autosufficienti piuttosto
che realtà intrinsecamente connesse. Se si procede assolutizzando, ci si
trova in uno status aporetico:
Secondo quanto dicevamo a proposito del dato percettivo: partendo da un oggetto noi possiamo sì dimostrare la corrispondenza invariante tra l’oggetto e la
configurazione della immagine retinica, ma troviamo tale corrispondenza proprio perché abbiamo dogmaticamente ammesso l’oggetto e le sue caratteristiche. Se partiamo, invece, dalla configurazione dell’immagine retinica (senza
affermare, quindi, aprioristicamente l’esistenza e la natura dell’oggetto), noi
troviamo che essa può essere prodotta da un’infinità di differenti condizioni
esterne e, mentre diviene impossibile dimostrare una corrispondenza univoca
tra il percetto e l’oggetto, rimane da spiegare perché l’organismo scelga, come
causa diretta della configurazione medesima, proprio una sola fra le infinite
condizioni esterne alle quali quella determinata configurazione retinica può essere riferita36.
E ancora:
35
M. OLIVETTI BELARDINELLI, La costruzione della realtà, Bollati Boringhieri, Torino
1986³, p. 40.
36
Ibidem.
172
Sul riduzionismo
Dal discorso che siamo venuti facendo appare a tutti i livelli che il problema
dell’acquisizione, dell’apprendimento nell’esperienza individuale come nella
cultura, si apre quando l’individuo e la cultura, o l’organismo e l’ambiente,
vengono considerati come due entità distinte e separate37.
Di qui la necessità di intendere il primato della relazione, facendo implicito riferimento a quel concetto di transazione che Dewey e Bentley38 hanno introdotto come centrale nell’ambito della ricerca, non solo
filosofica, ma scientifica in genere:
Anche a livello sociale sembra, dunque, che la soluzione debba consistere nella
considerazione globale dell’organismo e dell’ambiente, dell’individuo e della
cultura, come di una realtà unica i cui due poli sono già in rapporto e non esistono e non possono esistere, né l’uno né l’altro, indipendentemente l’uno
dall’altro39.
Se, insomma, l’oggetto viene descritto come una “costruzione” cognitiva, e cioè vale come il risultato dell’attività del Sistema Nervoso Centrale o dei processi cognitivi che in esso si svolgono – alcuni studiosi
parlano proprio di “prodotto cognitivo”40 –, allora non si potrà più dire
che è anche la causa di questa attività.
La causa sono gli stimoli, ossia determinate forme di energia, che
costituiscono l’ambiente e che non possono venire confuse con la
“forma-oggetto”.
In altri termini: l’oggetto è il risultato dell’interazione (organismoambiente), non il fondamento che possa venire pensato come emergente
su di essa, cioè come “fuori relazione”, come assoluto.
Chi lo pensa come assoluto lo assume anche come “causa” delle
forme con cui il soggetto lo rappresenta. Ma come può essere assoluto
37
Ivi, p. 41.
Cfr. J. DEWEY, A.F. BENTLEY Knowing and the Known, Beacon Press, Boston 1946; trad.
it. di E. Mistretta, Conoscenza e transazione, La Nuova Italia, Firenze 1974. Per un approfondimento del tema, ripensato in ambito educativo, si rinvia ad A. STELLA, La relazione educativa.
Complessità, transazione e intenzione nel rapporto educatore-educando, Guerini Studio, Milano 2002, pp. 111-146.
39
M. OLIVETTI BELARDINELLI, La costruzione della realtà, cit., p. 41.
40
Ci sembra interessante sottolineare come, anche in alcuni Manuali di Psicologia molto
diffusi e conosciuti, per indicare il percetto si usi questa espressione: “prodotto cognitivo”, a
dimostrazione che essa ormai è entrata nel linguaggio che viene comunemente usato in ambito
scientifico: “Ciò che percepiamo sono dei ‘prodotti’ cognitivi (ad esempio, un paesaggio o una
canzone)” [L. MECACCI (a cura di), Manuale di Psicologia generale, Giunti, Firenze - Milano
2001, p. 121; il passo citato si trova nel capitolo intitolato “Dalla percezione alla coscienza”,
scritto da M.P. Viggiano].
38
II. Il
riduzionismo in Filosofia della mente
173
ciò che è determinato? Come può valere come causa un “prodotto cognitivo”, cioè l’esito di un processo?
Ci pare singolare che la scienza, la quale pure ha deciso di svincolarsi dall’idea metafisica di “assoluto”, finisca poi per recuperarla sotto
mentite spoglie e non si avveda, da un lato, di richiedere un fondamento
assoluto e, dall’altro, di ridurlo alle forme oggettuali ordinarie.
2.5. Oggetto e significato
Quanto detto non vale come una semplice questione terminologica, dal
momento che, per esempio, riveste un valore fondamentale anche per
intendere il concetto di “significato” dei simboli mentali, che corrisponde al loro “contenuto”.
Non staremo qui a insistere sulle teorie esterniste o interniste del significato, e cioè se quest’ultimo debba venire inteso in senso estensionale (come riferimento a individui che appartengono al mondo
dell’esperienza) o nel senso delle sue relazioni di costituzione, che
hanno valore solo “mentale” e che sono interpretabili, per esempio,
nella forma del “sistema di costituzione” descritto da Carnap41, ma ci
accontentiamo di ricordare che, almeno nella concezione di Fodor42, i
41
Come è noto, la prima opera di Rudolf CARNAP, che è del 1928 e si intitola Der Logische
Aufbau der Welt (Weltkreis, Berlin 1928; trad. it. di E. Severino, La costruzione logica del
mondo, Fabbri, Milano 1966), si pone l’obiettivo di formulare il sistema dei concetti, che coincide poi con quello degli oggetti, costitutivi della scienza, utilizzando, da un lato, la teoria delle
relazioni, propria della logistica di Russell e Whitehead, e, dall’altro, la riduzione della realtà a
“dati” elementari, propria della filosofia di Mach e Avenarius. Non di meno, è evidente in essa
l’influenza del neo-criticismo, che aveva adeguatamente messo in luce il carattere logicamente
costruttivo del processo della conoscenza e aveva individuato nella relazione la categoria fondamentale di tale processo. La teoria della conoscenza diventa un’analisi del modo in cui gli
oggetti risultano logicamente costruiti a partire da certi elementi originari. Successivamente,
Carnap preciserà il suo intento, descrivendolo come la necessità di centrare l’indagine sull’analisi logica dei concetti e delle proposizioni delle scienze, dato che la logica della scienza non è
altro che la sintassi logica del linguaggio della scienza (Logische Syntax der Sprache, Springer,
Wien 1934; trad. it. di A. Pasquinelli, Sintassi logica del linguaggio, Silva Editore, Milano
1961).
42
Jerry A. Fodor definisce i trasduttori “compilati”, al fine di indicare una struttura computazionale interna (mentale). I trasduttori vengono poi affiancati dai sistemi di input, che svolgono la funzione di assicurare il passaggio delle informazioni ai processori centrali, in modo
tale che essi fungono da mediatori tra gli output dei trasduttori e i meccanismi cognitivi centrali,
che per Fodor non sono modulari, laddove i processi periferici lo sono (Cfr. J.A. FODOR, The
Modularity of Mind. An Essay on Faculty Psychology, Bradford-MIT Press, Cambridge-London
1983; trad. it. di R. Luccio, La mente modulare. Saggio di psicologia della facoltà, il Mulino,
174
Sul riduzionismo
“trasduttori” avrebbero la capacità di conservare, in forma invariata, il
“contenuto delle informazioni”.
Ebbene, intendere adeguatamente il senso dell’espressione “contenuto di una informazione” a noi sembra di fondamentale importanza,
per la ragione che solo così si potrà configurare un’adeguata teoria semantica non solo del “linguaggio della mente”, ma anche del linguaggio in generale.
Se, insomma, il contenuto delle informazioni è pensato nel senso del
loro referente fisico appartenente all’ambiente, allora lo si dovrà intendere nel senso di “forme di energia” e, pertanto, lo si dovrà distinguere
dagli “oggetti” e dai “significati” che si collocano nella comune esperienza del soggetto: tali oggetti e significati – lo ribadiamo – non sono
altro che il “prodotto” dei processi attivati dallo stimolo43 e proprio per
questa ragione non possono essere i referenti delle rappresentazioni,
intese come “stati interni del sistema mente/cervello”.
In effetti, lo ribadiamo, sono proprio le rappresentazioni, dopo un
lungo processo di manipolazione messo in atto dai processi cognitivi,
che si trasformeranno in proto-oggetti prima (quando assumeranno la
forma tridimensionale) e in oggetti veri e propri poi.
Inoltre, lo stesso concetto di “informazione” deve venire bene precisato: quando si tratta di ciò che è veicolato dallo stimolo, allora si parla
di “forme esterne”; quando si parla della loro traduzione (o “trasduzione”), allora si fa riferimento a “forme interne”, cioè appunto a rappresentazioni.
Si tratta bensì di due linguaggi (il linguaggio degli stimoli o delle
forme esterne e il linguaggio delle rappresentazioni o delle forme interne) che, proprio per questa ragione, possono venire tradotti l’uno
nell’altro, ma di linguaggi diversi, i quali, pertanto, non possono venire
Bologna 1988). Il tema del rapporto tra aspetto sintattico e semantico del “linguaggio della
mente” viene ripreso e approfondito da FODOR in Psychosemantics. The Problem of Meaning
in the Philosophy of Mind [MIT Press, Cambridge (MA) 1987; trad. it. di R. Luccio, Psicosemantica, il Mulino, Bologna 1990] nonché in The Language of Thought (Crowell, New York
1975; trad. it. di F. Ferretti, Mente e linguaggio, Laterza, Roma-Bari 2001) e in The Mind
Doesn't Work That Way: The Scope and Limits of Computational Psychology [MIT Press, Cambridge (MA) 2000; trad. it. di M. Marraffa, La mente non funziona così, Laterza, Roma-Bari
2004].
43
Per un approfondimento, si rinvia ad A. STELLA, Cognizione e coscienza. Precisazioni su
alcuni concetti di scienza cognitiva, Guerini Scientifica, Milano 2004.
II. Il
riduzionismo in Filosofia della mente
175
identificati, nel senso che l’uno non è identificabile all’altro, ma è solo
traducibile in esso44.
Ciò impone di riformulare adeguatamente il processo della percezione. Spesso, infatti, si parla di “fattori oggettivo-sensoriali” distinguendoli e contrapponendoli a quelli “soggettivo-funzionali”45. A nostro modo di vedere, invece, neppure ciò che attiene allo stimolo può
venire confuso con l’oggettivo.
Il sensoriale, infatti, ha comunque carattere relazionale, anche
quando si parla di “stimolo”. Quest’ultimo, non a caso, è tale solo in
forza del suo essere efficace su un determinato recettore, così che il suo
valere quale “stimolo” è comunque vincolato all’organismo di un soggetto, che appunto “viene stimolato”.
Infine, va rilevato che è precisamente il processo delle categorizzazioni percettive basilari (posto in essere, almeno secondo i sostenitori
della teoria modulare, dai sistemi di input informazionalmente incapsulati) che dà luogo alla configurazione delle proprietà fenomeniche
(come forma, colore, movimento, grandezza, e così via), nel senso che
tali proprietà non sono rilevate dai trasduttori come presenti nell’oggetto, ma, viceversa, nel senso che entrano nella costituzione-costruzione dell’oggetto stesso, così che viene ulteriormente confermato che
quest’ultimo, incluse le sue proprietà, è il risultato del processo, non
ciò che lo precede e lo produce.
Per ribadire e sintetizzare il discorso svolto: le forme di energia, che
costituiscono gli stimoli, attivano sia processi neurofisiologici, in forza
della loro componente fisica, sia processi cognitivi, in forza delle informazioni contenute negli stimoli. Tali processi valgono quali elaborazioni delle forme esterne, che diventano proprietà dell’oggetto solo
dopo che si è configurato il proto-oggetto (detto, da alcuni, “geone”),
così che l’attività della mente/cervello non può venire pensata nel senso
di una ricostruzione, ma nel senso di una vera e propria costruzione.
Se, infatti, l’oggetto venisse ricostruito, allora la ricostruzione dovrebbe riprodurre esattamente quell’oggetto che era anche prima
dell’attività del soggetto e indipendentemente da questa.
44
Su questo aspetto, si può vedere A. STELLA, J.L. DENNIS, «Trasduzione come trasformazione di linguaggi: un’ipotesi sull’origine della mente», ANTHROPOS & IATRIA, XVI (3), 2012,
pp. 52-60.
45
Si veda, ad esempio, l’opera di R. LUCCIO, La psicologia: un profilo storico, Laterza,
Roma-Bari 2001, p. 162.
176
Sul riduzionismo
Tale attività, insomma, dovrebbe ricostruire ciò che è indipendente
dalla ricostruzione, così che quest’ultima dovrebbe configurarsi come
l’esito dell’estrazione delle proprietà dall’oggetto, inteso come realtà
autonoma e autosufficiente: cioè come realtà oggettiva. Tale estrazione
si concluderebbe nella riproduzione di dette proprietà all’interno della
rappresentazione che dell’oggetto la mente/cervello si farebbe.
Ebbene, ciò che abbiamo voluto dimostrare è che questo punto di
vista non può venire fatto valere. Non si può parlare di “ricostruzione”
dell’oggetto innanzi tutto per l’impossibilità di coglierlo nel suo essere
in sé o per l’impossibilità di distinguere l’oggetto percepito dall’oggetto
reale.
In secondo luogo, per la ragione che la forma-oggetto è un “prodotto
cognitivo” e, pertanto, non può valere come l’origine del processo percettivo.
In terzo luogo, si tratta di un punto di vista insostenibile per questa
ragione: esso urta contro un ostacolo ulteriore, rappresentato dal fatto
che il percetto è sempre e radicalmente sottodeterminato dalle informazioni trasmesse nell’input sensoriale, nel senso che queste ultime risultano insufficienti per la configurazione del percetto stesso.
Se si vuole mantenere il concetto di “ricostruzione” dell’oggetto e si
vuole spiegare come esso venga “ricostruito”, ancorché sia “sottodeterminato”, allora si è costretti a ipotizzare una quota innata di informazione (o appresa prima della ricostruzione, così da rendere comprensibile la prima ricostruzione), che consenta al percipiente l’operazione
della ricostruzione stessa, affinché l’oggetto venga restituito nel suo
presunto “essere reale”46. E ciò a noi sembra davvero insostenibile.
Di contro, se si evita di parlare di “ricostruzione” e si parla di “costruzione” dell’oggetto, allora non si è più costretti dentro il vincolo
imposto dal realismo ingenuo e si è in condizione di intendere l’oggetto
come il prodotto dell’attività del soggetto.
Indubbiamente, tale attività viene innescata dagli stimoli che provengono dall’ambiente e il suo prodotto, l’oggetto appunto, presenta
un’identità che si mantiene come relativamente indipendente da quella
del soggetto: ciò esclude radicalmente che il processo conoscitivo possa
venire inteso nel senso di una deduzione trascendentale, secondo la
concezione idealistica, e impone altresì la necessità di fare riferimento
46
Cfr. M. MARRAFFA, La mente in bilico. Le basi filosofiche della scienza cognitiva, cit.,
pp. 34-35.
II. Il
riduzionismo in Filosofia della mente
177
a un vincolo oggettivo, che noi abbiamo interpretato come la necessità
di un fondamento che sia tale per la sua assolutezza, e per questa ragione
abbiamo fatto ricorso al concetto parmenideo di “essere”.
L’indipendenza dell’oggetto, questo è il punto, è solo relativa, dal
momento che si colloca all’interno della relazione che lo vincola costitutivamente e strutturalmente al soggetto.
Proprio per le ragioni addotte, proponiamo una formulazione diversa
da quella che normalmente si usa parlando della percezione. Si è soliti
dire, parlando ad esempio della percezione visiva, che si riconoscono
contorni di oggetti (in forza di “sbalzi di luminanza”) o sue proprietà
(in forza di “aggregazioni delle primitive”).
Orbene, a noi sembra più corretto dire che si assegnano contorni e si
attribuiscono proprietà, sulla base delle informazioni distribuite dai canali sensoriali e della loro elaborazione.
Le informazioni contenute negli stimoli, per concludere, sono ciò a
muovere da cui è possibile costruire l’oggetto e le proprietà di quest’ultimo diventano tali solo dopo che esso è stato costruito nella mente/cervello del soggetto.
La relazione che il soggetto intrattiene con l’ambiente fisico, fatto di
molteplici forme di energia, si trasforma dunque nelle molteplici relazioni a oggetti in forza dei processi neurofisiologici e cognitivi del soggetto e soltanto in forza di essi.
Da un realismo ingenuo si dovrà necessariamente passare, pertanto,
a un realismo critico e sofisticato, per il quale ci si dovrà abituare a
pensare che gli stimoli non provengono dall’oggetto, ma da una realtà
che “diventa” oggetto solo nel campo della percezione soggettiva, che
è poi il campo dell’esperienza.
2.6. Monismo e riduzionismo
Se il funzionalismo, e in particolare il funzionalismo computazionale
proprio della concezione cognitiva classica o simbolica, valorizza la
funzione, assimilando la mente al programma di un calcolatore, di contro nelle neuroscienze cognitive è la struttura biologica che acquista un
ruolo centrale: certe funzioni possono venire svolte solo da specifiche
strutture, così che è lo studio della struttura il primo obiettivo del ricercatore, fino a risolvere-dissolvere in essa la funzione stessa.
178
Sul riduzionismo
L’attività mentale viene così considerata identica a quella del cervello, a sua volta identico a un insieme di processi fisici, dotati non di
meno di una complessità unica.
Questa è la prospettiva del programma di naturalizzazione della
mente inteso nella sua forma più radicale, cioè secondo una concezione
di naturalismo che mette capo a un monismo materialistico.
La stessa ricerca psicologica di tipo empirico e sperimentale viene
considerata un livello di indagine ancora generico, quasi un preambolo
di quella che sarà l’indagine neurobiologica e, infine, dell’indagine fisica, che costituisce per il naturalista la vera scienza di ciò che, approssimativamente, viene definito il mentale.
Il riduzionismo più radicale, che concerne la concezione del costrutto mente/cervello, consiste, dunque, nel ridurre totalmente gli stati
mentali a stati cerebrali e questi ultimi a stati fisici.
La prima cosa che deve venire notata, quindi, è che il riduzionismo
neuro-biologico, e cioè la forma di riduzionismo praticata dalle neuroscienze, è una forma incompiuta di riduzionismo, giacché gli stati biologici debbono essi stessi venire ridotti a stati fisici, visto che la fisica,
secondo la concezione scientifica del mondo, viene considerata la
forma più elementare di organizzazione della materia.
Su questo punto, non di meno, si impone un’ulteriore precisazione.
Il ragionamento che viene comunemente svolto è il seguente: poiché la
scienza è l’unica forma di conoscenza certa e poiché la fisica è la
scienza che funge da fondamento delle altre, allora l’ontologia fisicalista è l’unica accettabile.
In base a questa prospettiva, la definizione di ciò che è reale è affidata alla scienza, in generale, e alla fisica, in particolare. Se non che, è
stato fatto notare che questo assunto incontra una seria difficoltà. Per
indicare di quale difficoltà si tratta, ricorriamo a un esempio e prendiamo un particolare oggetto: un albero. Facciamo notare, in via preliminare e affinché il senso dell’esemplificazione risulti chiaro, che essa
serve a precisare il tema della necessità, per la scienza, di stabilire il
livello ultimo di riduzione.
Si può pensare, quindi, che esista l’albero della comune esperienza
percettivo-sensibile, se ci si arresta ai dati immediatamente rilevati; tuttavia, se si pensa che esistano solo le entità descritte dalla fisica teorica,
allora l’albero che viene percepito si risolve, a rigore, nel nome che
viene dato a un settore dello spazio-tempo occupato da entità fisiche
II. Il
riduzionismo in Filosofia della mente
179
quali atomi, forze, particelle, ecc., le quali contribuiscono a configurare
un albero.
Il problema è dunque che, se si epochizza il soggetto che dà il nome
“albero” a questo “insieme di entità” (“insieme” che comprende entità
macroscopiche e microscopiche, le quali vengono non di meno unificate in virtù del “concetto” espresso dalla parola), allora le uniche cose
esistenti diventano le entità fisiche indicate e non “unificate”, così che
l’ontologia fisicalista perde il suo carattere monolitico perché si pone
relativamente al sistema che consente di rilevare “alcuni” esistenti, i
quali si dispongono su livelli diversi a seconda del sistema rilevante.
Per superare questa difficoltà, si è parlato di ontologia formale, volta
a non considerare gli oggetti esistenti, cioè cosa esista, ma le categorie
in cui raggruppare gli oggetti stessi. In questo modo, la categoria “proprietà”, sempre riferendoci al caso dell’albero, potrebbe essere riempita
solo da “verde”, se ci si fermasse a una proprietà che attiene all’esperienza percettivo-sensibile e quindi al punto di vista di un realista ingenuo, o da “massa, energia, spin”, se ci si attenesse alla concezione di un
fisicalista radicale. In tal modo, si cercherebbe di sganciare l’ontologia
dalla metafisica.
Se non che, l’operazione risulta di difficile realizzazione, perché il
riferimento a una qualche metafisica continua comunque a imporsi,
stante la necessità di mantenere una concezione corrispondentista di
verità (per lo meno per coloro che sostengono il riduzionismo all’interno di una concezione ingenuamente realista), per cui un sistema di
credenze è vero se, e solo se, corrisponde a uno stato di cose “reali”.
La conseguenza è che il naturalista radicale risulta anche un materialista convinto e, più precisamente, un sostenitore del monismo materialistico: esiste un unico genere di realtà, quello rappresentato dalle
cose fisico-materiali, qualunque sia il livello di descrizione mediante il
quale tale realtà viene espressa.
Del resto, se si prendesse sul serio l’ontologia formale, si dovrebbe
riconoscere che l’accertamento delle categorie è questione eminentemente filosofica, per la ragione che nessun esperimento può produrre,
come suo risultato, la scoperta di categorie, quali “universale”, “particolare”, “evento” e così via.
Poiché, insomma, l’indagine di tipo empirico dovrebbe presupporre
la classificazione ontologica dei dati, l’ontologia tornerebbe ad appartenere all’indagine concettuale, cioè filosofica, laddove l’obiettivo del
180
Sul riduzionismo
naturalista è precisamente invertire le priorità e cioè subordinare il concettuale all’empirico (la filosofia alla scienza)47.
La conclusione che può venire tratta dal discorso svolto ci sembra la
seguente: si dovrà rilevare che la fisica, che configura i fenomeni
dell’esperienza ordinaria, non è la microfisica in cui viene descritta la
materia, se esaminata ai livelli più elementari della sua strutturazione,
in modo tale che, radicalizzando la concezione riduzionistica e portandola alle sue estreme conseguenze, si dovrebbe affermare che è proprio
la fisica quantistica a valere come la scienza che descrive la realtà nel
suo essere autentico.
Ciò che deve venire contrapposto a tale concezione è quanto segue:
se il vero essere è costituito dalla realtà fisica espressa nelle forme in
cui il processo analitico scompone le cose dell’esperienza ordinaria,
non si può non affermare che, così come tale processo non mette capo
veramente all’indivisibile, ma solo a ciò che di volta in volta risulta tale
in base agli strumenti con i quali si configura l’analisi – e una scomposizione ulteriore è sempre ipotizzabile (dall’esteso non si origina l’inesteso, stante che l’inesteso appartiene all’universo dei concetti) –, altrettanto il livello ultimo della riduzione, quello che non è più possibile
ridurre perché costituisce ciò a cui tutto viene ridotto, è solo un’ipotesi
di lavoro, stante che è sempre possibile progettare un suo superamento,
nel senso del rilevare un livello di riduzione ulteriore.
Anche l’irriducibile, insomma, appartiene, come l’inesteso, all’universo dei concetti, così che esso non è raggiungibile operativamente,
ma solo teoreticamente.
Se, però, la questione viene affrontata da una prospettiva teoretica,
allora non si potrà evitare di svolgere una considerazione più radicale,
rispetto a quelle che conseguono dalle indagini operative, e che ha come
suo obiettivo quello di evidenziare la seguente antilogia: il concetto di
riduzione postula la dualità per pervenire all’unità.
Solo a muovere dalla dualità di ciò che viene ridotto e di ciò a cui
esso viene ridotto, infatti, è possibile pervenire al secondo e farlo valere
come l’unica realtà autentica, cioè il vero essere. Ciò dimostra che nel
far valere il concetto di una “vera realtà” non si può non postulare il
47
Per un approfondimento della presente tematica si rinvia ad A. STELLA, «Il programma
di radicale naturalizzazione della mente. Note su alcuni assunti concettuali», Rivista Internazionale di Filosofia e Psicologia, V (3), 2014, pp. 250-266; ID., «Naturalizzazione della mente
e pensiero riflessivo», Teorie & Modelli, XVII (2), 2012, pp. 25-48 (scritto con J.L. DENNIS).
II. Il
riduzionismo in Filosofia della mente
181
concetto di una “falsa realtà”: la falsa realtà è richiesta proprio per poterla negare, dal momento che, solo mediante la sua negazione, emerge
la vera realtà.
Ciò comporta, appunto, un’evidente contraddizione: il vero si pone
a condizione di postulare il falso, il quale diventa il fondamento stesso
del vero48.
Allorché si considera il costrutto mente/cervello, la prospettiva del
riduzionismo radicale afferma che la mente costituisce la falsa realtà,
laddove il cervello costituisce la vera realtà49.
Compito dello scienziato, pertanto, sarebbe quello di andare al di là
di quella concezione popolare che fa uso di termini mentalistici come
volontà, intenzione, coscienza e così via. I termini mentalistici dovrebbero venire tradotti nel linguaggio scientifico, e cioè in termini biologici, a un primo approccio, e in termini fisicalistici, come approdo definitivo.
Da un certo punto di vista, dunque, la parola “mente” risulta non
altro che un flatus vocis, un’espressione che non ha significato. Solo la
parola “cervello” ha significato, perché si riferisce a una realtà materiale, cioè a uno stato fisico, l’unico effettivamente esistente.
Il riduzionismo radicale perviene, quindi, al monismo ontologico,
perché prevede soltanto l’esistenza della sostanza materiale; a sua volta,
il monismo ontologico impone un’unica modalità di ricerca, il monismo
metodologico.
Il cervello deve venire studiato come un qualunque altro oggetto di
natura e precisamente per questa ragione si parla di naturalizzazione
della mente.
Se non che, da un altro punto di vista la parola “mente” non può non
avere significato. Se non lo avesse, la negazione che si disponesse su di
essa sarebbe una negazione vuota. Se, insomma, si muovesse dall’assunto che la mente non ha consistenza alcuna, anche la negazione che
48
Nel caso di Parmenide, avviene esattamente l’inverso: l’essere non si fonda sul non-essere (o sulla relazione al non-essere, come vorrebbe Severino), ma è la ragione del non essere
del non-essere.
49
Per un approfondimento del tema della realtà – che è stato già affrontato, ma merita una
specificazione ulteriore –, si rinvia ad A. STELLA, G. IANULARDO, «Metaphysical Realism and
Objectivity: Some Theoretical Reflections», Philosophia, XLVI (4), 2018, pp. 1001-1021. Facciamo notare, per quanto concerne il discorso che stiamo svolgendo, che non si può rinunciare
a interrogarsi sul concetto di realtà: solo a muovere da una determinata concezione metafisica,
infatti, è possibile parlare di conoscenze (credenze) vere o false.
182
Sul riduzionismo
la investisse risulterebbe negazione di nulla e si convertirebbe in negazione-nulla.
Ma la vera realtà, cioè il cervello, emerge come l’unica realtà solo
mediante tale negazione, con questa conseguenza: la realtà della mente
è richiesta proprio per venire negata e affinché, mediante questa negazione – che costituisce l’essenza della riduzione: ridurre è negare la
realtà effettiva del ridotto –, emerga la vera realtà, che è quella del cervello.
Quest’ultimo, a sua volta, dovrà venire negato nel suo costituirsi biologico per risolversi nella sua struttura fisica e microfisica, che costituirebbero il livello ultimo della riduzione: solo quest’ultimo coinciderebbe con la realtà colta nel suo essere autentico.
Da quanto detto, si evince che, affinché si ponga il processo della
riduzione, vi devono essere tanto un punto di partenza quanto un punto
di arrivo. Il punto di partenza è costituito dall’assunto di due realtà:
quella mentale e quella cerebrale. Il punto di arrivo è costituito solo
dalla realtà cerebrale.
Che è come dire: senza la premessa dualista, nessun esito monista
potrebbe configurarsi50.
Per la ragione addotta, la premessa dualista non ci sembra che possa
venire considerata solo un ostacolo al procedere della scienza, un’ingenua convinzione propria del senso comune, come affermato dai sostenitori del riduzionismo radicale e della concezione monista. La premessa dualista è, piuttosto, il presupposto indispensabile per l’approdo
monista.
2.7. Monismo e dualismo
Il dualismo, questo è il cuore della questione, viene considerato con sospetto in ogni sua forma, proprio perché contrasta con la riduzione
dell’oggetto alla realtà fisica, considerata appunto l’unica realtà veramente esistente.
Pensare la mente come una sostanza, una sostanza che pensa, per
dirla con Cartesio, e contrapporla alla sostanza corporea, cioè alla materia, è un errore che non può più essere accettato, come esplicitamente
50
Cfr. A. STELLA, «Modello riduzionistico o modello sistemico?», cit., pp. 81-98.
II. Il
riduzionismo in Filosofia della mente
183
afferma Damasio51. Con queste parole Dennett precisa la concezione
monista:
Fin dall’attacco ormai classico di Gilbert Ryle (1949) a ciò che egli chiamava
il “dogma cartesiano dello spettro nella macchina”, i dualisti sono sulla difensiva. La posizione dominante, variamente espressa e sostenuta, è il materialismo: esiste un solo tipo di sostanza, e cioè la materia – la sostanza fisica di cui
si occupano la fisica, la chimica e la fisiologia – e la mente è in un certo senso
niente altro che un fenomeno fisico. In breve la mente è il cervello52.
Volendo indicare gli antecedenti della concezione del monismo materialistico, all’interno della ricerca condotta sulla mente, non ci si può
non riferire, infatti, a Ryle e alla prospettiva che egli ha contribuito a
delineare. Nel suo libro The concept of mind53, Ryle indica l’opportunità di prendere una netta distanza da ogni assunzione della mente in
senso sostanzialistico e di considerare il mentale su un piano esclusivamente linguistico-categoriale.
Ryle rifiuta, insomma, il principio della soggettività e Dennett sposa
questo rifiuto, perché l’io cosciente gli sembra un concetto del tutto
estraneo a una concezione scientifica del mondo.
Muovendosi all’interno di quest’ultima, il complesso deve venire ricondotto-ridotto al semplice, in modo tale che l’intelligenza deve risultare da un insieme di operazioni elementari inintelligenti e la coscienza
da una complessità di processi inconsci. Ci troviamo così di fronte a un
caso esemplare di riduzionismo teorico.
Con queste parole, Dennett procede nella sua argomentazione:
Secondo i materialisti, possiamo (in linea di principio!) dare una spiegazione
di ogni fenomeno mentale usando gli stessi principi fisici, le stesse leggi e gli
stessi materiali grezzi che ci bastano per spiegare la radioattività, la deriva dei
continenti, la fotosintesi, la riproduzione, la nutrizione e la crescita54.
Il contesto in cui Dennett ritiene di dover porre lo studio della mente è
quello di ogni altra scienza naturale, e cioè a muovere dall’assunto del
51
Cfr. A. DAMASIO, Descartes’ Error. Emotion, Reason, and the Human Brain, Putnam,
New York 1994; trad. it. di F. Macaluso, L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello
umano, Adelphi, Milano 1995.
52
D.C. DENNETT, Coscienza. Che cosa è?, cit., p. 45.
53
Cfr. G. RYLE, The concept of mind, Hutchinson, London 1949; trad. it. di G. Pellegrino,
Il concetto di mente, Laterza, Roma-Bari 2007.
54
D.C. DENNETT, Coscienza. Che cosa è?, cit., p. 45.
184
Sul riduzionismo
monismo ontologico, cui non può non far seguito, come abbiamo visto,
quello del monismo metodologico. Come giustificare tale assunto? In
questo modo:
Benché siano delle entità o sostanze distinte [Dennett muove dall’assunto dualista, per mostrarne l’insostenibilità e per legittimare il punto di vista contrario], la mente e il cervello devono tuttavia interagire […]. Poiché non abbiamo
(per ora) la minima idea delle proprietà della sostanza mentale, non possiamo
neanche immaginare (per ora) come possa essere influenzata dai processi fisici
che provengono in qualche modo dal cervello, quindi ignoriamo per il momento questi segnali ascendenti e concentriamoci su quelli di ritorno, quelli
che vanno dalla mente al cervello. Questi, ex hypothesi, non sono fisici; non
sono onde elettromagnetiche o onde acustiche o raggi cosmici o fasci di particelle subatomiche. Nessuna energia o massa fisica è associata ad essi. Come
riescono, allora, ad influenzare il funzionamento delle cellule cerebrali ad essi
collegate?55.
Dennett formula così la domanda fondamentale, quella che, a suo giudizio (e a giudizio di tutti coloro che si rifaranno – anche dopo di lui –
al monismo materialista) dovrebbe colpire al cuore il dualismo interazionista. Per chiarire in quale senso la domanda formulata vada alla radice del problema, egli indica gli assunti teorici che negano credibilità
alla concezione dualista e li evince proprio dalla fisica:
Un principio fondamentale della fisica prescrive che qualunque cambiamento
nella traiettoria di qualunque entità fisica costituisce un’accelerazione che richiede un dispendio d’energia; in questo caso [cioè nel caso dell’influenza
della mente sul corpo], da dove viene l’energia? Questo principio della conservazione dell’energia che spiega il perché dell’impossibilità delle macchine per
il “moto perpetuo” è lo stesso principio che viene manifestamente violato dal
dualismo. […] Come è possibile che la sostanza mentale possa sia eludere tutti
i rilevamenti fisici sia controllare il corpo? Uno spettro nella macchina non ci
è di nessun aiuto nei nostri sforzi teorici a meno che non sia uno spettro che
possa spostare le cose […] ma qualsiasi cosa in grado di muovere un oggetto
fisico è essa stessa un oggetto fisico56.
Si viene così a delineare questa alternativa: aut si accetta il principio di
chiusura del mondo fisico, ma allora si deve accettare il monismo materialistico; aut lo si rifiuta, ma allora si deve rifiutare la concezione
55
56
Ivi, pp. 45-47.
Ivi, pp. 47-48.
II. Il
riduzionismo in Filosofia della mente
185
scientifica del mondo e far ripiombare lo studio della mente nella cornice di una obsoleta metafisica. E tuttavia, come si può negare il monismo materialistico, se le uniche realtà certe sono quelle fisiche e materiali?
Il punto che svolge un ruolo centrale nell’argomentazione, e che però
non viene sufficientemente chiarito, concerne la ragione per la quale le
realtà fisiche e materiali sarebbero assolutamente certe. In effetti, Dennett dice qualcosa su questo aspetto. Egli afferma:
L’ontologia di una teoria è il catalogo delle cose e dei tipi di cose che la teoria
ritiene esistenti. L’ontologia delle scienze fisiche una volta includeva “il calorico” (la sostanza di cui era fatto il calore) e “l’etere” (la sostanza che riempiva
lo spazio […]). Nessuno prende più seriamente queste cose, mentre neutrini,
antimateria e buchi neri sono oggi inclusi nell’usuale ontologia scientifica57.
Il ragionamento, dunque, è il seguente: poiché la scienza è l’unica forma
di conoscenza certa e poiché la fisica è la scienza che funge da fondamento delle altre, allora l’ontologia fisicalista è l’unica accettabile. In
base a questa prospettiva, la definizione di ciò che è reale è affidata alla
scienza, in generale, e alla fisica, in particolare.
Se non che, abbiamo già fatto notare che questo assunto incontra una
seria difficoltà. Per indicare di quale difficoltà si tratta, siamo ricorsi
all’esempio dell’albero: come abbiamo detto, se si mette tra parentesi il
soggetto che dà il nome “albero” a un determinato insieme di entità, le
uniche cose veramente esistenti diventano le entità micro-fisiche, così
che l’ontologia fisicalista perde il suo carattere monolitico perché si
pone relativamente al sistema fisico che consente di rilevare gli esistenti
stessi. E la fisica, come è noto, si struttura di una molteplicità di sistemi
che si dispongono su di una molteplicità di livelli.
Tuttavia, il monista si trova a dover affrontare un’ulteriore difficoltà:
in una prospettiva monista, come giustificare le differenze? Anche se i
sostenitori della concezione monista non possono non ammettere la
molteplicità degli enti, è da domandarsi, tuttavia, come tale molteplicità
possa venire giustificata, da un punto di vista teoretico-concettuale.
In una concezione autenticamente monista, infatti, non è ammissibile
una differenza di sostanza, giacché il monismo afferma che la sostanza
non può non essere unica.
57
Ivi, pp. 48-49.
186
Sul riduzionismo
Deve trattarsi, dunque, di una differenza di forma, come accade, ad
esempio, agli esseri umani, i quali sono fatti tutti della stessa materia,
ma sono molteplici in virtù della forma che li specifica.
Con questa inevitabile conseguenza: per legittimare la differenza, il
monista deve ammettere almeno un dualismo, quello che distingue la
forma dalla sostanza.
D’altra parte, se il modello riduzionistico si vincola al metodo analitico, almeno nel senso che l’analisi riconduce-riduce il composto ai
suoi costituenti elementari, allora esso non può non postulare la relazione come suo punto di movenza.
Se non che, nella misura in cui il punto di approdo del riduzionismo
è il monismo, allora il processo della riduzione si configura come la
negazione del suo stesso punto di movenza, rappresentato appunto dalla
relazione.
Quest’ultima, infatti, non può non implicare la differenza dei termini
relati, laddove nella prospettiva di un monismo radicale e coerente è
proprio la differenza ad essere difficilmente giustificabile, come abbiamo cercato di rilevare.
Il monismo – questo è ciò che intendiamo dire – non può valere come
il punto di partenza della ricerca, cioè come una premessa del conoscere. Non può, per la semplice ragione che fenomenologicamente non
si dà un’unica sostanza.
La fenomenologia attesta, infatti, una molteplicità di cose, così che
la loro medesimezza sostanziale può essere soltanto esito di una dimostrazione filosofica, che si avvalga di un processo analitico di riduzione,
ma non si riduca ad esso. La riduzione analitica deve venire interpretata filosoficamente, se si intende affermare il monismo, perché
quest’ultimo non è in alcuna sua forma constatabile.
Il discorso svolto, pertanto, può venire espresso nuovamente, usando
termini più teoretici: se la sostanza è unica, come spiegare allora la differenza che caratterizza l’universo empirico? Che è come dire: se le
cose sono molte e la sostanza una soltanto, come si spiega che ciascuna
cosa è diversa da ogni altra?
Non si può di certo spiegare la differenza dicendo che sono più cose,
perché la cosa, secondo l’assunto, è unica dal punto di vista sostanziale.
Solo la materia, infatti, esiste, secondo il punto di vista del monismo
materialistico, in modo tale che ciò che differenzia le cose deve venire
rintracciato in un altro livello.
II. Il
riduzionismo in Filosofia della mente
187
Le differenze, dicevamo, non possono non essere differenze di
forma, così che si finisce per riprodurre una nuova forma di dualismo,
quello di cui già parlava Aristotele: il dualismo di forma e materia (o di
forma e sostanza, come dicevamo poco sopra).
Ciò significa che i riduzionisti si trovano nella necessità di postulare
un’ontologia oltre la fenomenologia. Ontologicamente, solo la materia
è; fenomenologicamente, invece, le entità sono molteplici.
Da questo punto di vista, il riduzionista è costretto a negare la sua
propensione naturale per il realismo e, in particolare, per il realismo
ingenuo: è reale tutto ciò che si constata.
Se non che, tale realtà, che configura quella descritta dalla fenomenologia, attesta una molteplicità di enti (fenomeni), dunque si fonda
sulla differenza. Il riduzionista, pertanto, a rigore dovrebbe negare tale
realtà, perché l’unica realtà che egli dovrebbe riconoscere è quella
dell’unica sostanza: la materia, nella quale tutte le differenze vengono
neutralizzate.
In tal modo, però, il problema si ripropone. Se la materia è una, allora da cosa nasce la realtà dei fenomeni (degli enti empirici), che sono
molti?
La dualità, dunque, torna a farsi valere e non solo come dualità di
forma e sostanza, ma anche come dualità di realtà autentica e di realtà
fenomenica. Precisamente per questa ragione abbiamo affermato che il
riduzionismo deve valere quale punto di arrivo, non come il punto di
partenza.
Il punto di partenza è dato dall’esperienza comune degli uomini che
attesta, appunto, la molteplicità delle cose. Affermare che le cose, in
realtà, si riducono a un’unica cosa (sostanza) significa andare oltre l’ordine della comune esperienza. Significa distinguere la vera realtà dalla
realtà apparente. Significa, insomma, riproporre il dualismo di essere
(εἶναι) e apparire (φαίνομαι), così che il monismo – dicevamo – non
può non venire considerato il punto di arrivo.
Se non che, se il monismo è il punto di arrivo di un itinerario che
nasce dal punto di partenza dualista, che viene negato perché non vero,
allora torna a imporsi quanto era emerso in precedenza: soltanto in virtù
della negazione del dualismo si perviene al monismo.
Ciò, però, comporta una grave conseguenza per la concezione monista. Poiché il monismo si fonda sulla negazione del dualismo, quest’ultimo deve comunque venire presupposto affinché la negazione possa
188
Sul riduzionismo
assumere forma determinata. Se non la assumesse, non sarebbe vera
negazione.
Ma, se la negazione è il fondamento del monismo e se il dualismo è
il fondamento della negazione, allora il monismo non può non fondarsi
sul dualismo, in modo tale che non lo può affatto escludere, ma anzi lo
deve innegabilmente postulare e includere.
2.8. Le teorie “identitiste”
Un’altra forma di riduzionismo viene espressa dalle teorie identitiste, le
quali sostengono l’identità di stati mentali e stati cerebrali, ma in effetti
riducendo i primi ai secondi.
Come afferma Lewis, “noi materialisti dobbiamo accettare la teoria
dell’identità come un dato di fatto – ogni esperienza (mentale) è identica
a qualche stato fisico”58. Si potrebbe anzi dire che la forma attraverso
la quale si è presentata inizialmente la concezione monista può venire
ravvisata, secondo quanto anticipato proprio dalle parole di Lewis, nelle
“teorie identitiste”, cioè in quelle teorie che identificano, appunto, stati
mentali e stati cerebrali.
Uno dei primi sostenitori della teoria identitista è stato Feigl. Nella
sua opera più importante, The “mental” and the “physical” 59, Feigl
sostiene che la scienza è sostanzialmente una, sia dal punto di vista metodologico sia per il suo carattere nomotetico. Essa, inoltre, ha valenza
empirico-sensibile, perché si fonda sull’osservazione, e il suo compito
è quello di ridurre i fatti osservati a determinazioni fisiche o suscettibili
di indagine fisica.
Anche i significati e le intenzioni, pertanto, vengono interpretati in
senso fisicalista, così che l’attacco al dualismo è, anche in questo caso,
di tipo riduzionistico ed eliminazionistico.
Feigl porta avanti, dunque, un programma di identificazione del
mentale con il cerebrale in una prospettiva di monismo materialistico,
ossia con un significativo impegno metafisico. Egli, insomma, non si
accontenta di far valere il punto di vista secondo il quale l’universo linguistico con cui viene descritto il mentale può venire ridotto a quello
58
D.K. LEWIS, «An argument for the identity theory», Journal of Philosophy, LXIII (1),
1966, p. 18 [traduzione mia].
59
Cfr. H. FEIGL, The “mental” and the “physical”: the essay with a Postscript, University
of Minnesota Press, Minneapolis 1967.
II. Il
riduzionismo in Filosofia della mente
189
con cui viene descritto il fisico-cerebrale, ma afferma la loro identità
ontologica, cioè il loro coincidere sul piano della realtà effettiva.
Le iniziali perplessità, che egli aveva espresso su un materialismo
radicale, vengono così superate specie nel Postscript, aggiunto in Appendice alla ripubblicazione dell’opera indicata.
La scuola australiana riprende con forza la prospettiva delineata da
Feigl, in particolare con Place, Smart e Armstrong. Place sostiene che
è un’ipotesi scientifica assolutamente ragionevole quella di identificare
la coscienza con un determinato processo cerebrale. Il concetto di identità, inoltre, viene specificato da Place, il quale riflette su una possibile
obiezione dualista, legata al fatto che, nell’affermare l’identità di mente
e cervello, si fa uso di due parole distinte. In tal modo, sarebbe possibile
supporre l’esistenza di due cose distinte anche sul piano della realtà.
In Is consciousness a brain process? 60, Place sostiene che non è
possibile derivare da una differenza logica una differenza ontologica o,
se si preferisce, da un’indipendenza logica un’indipendenza ontologica,
perché, se lo si facesse, si cadrebbe in quella che egli definisce una “fallacia fenomenologica”. Quest’ultima consisterebbe, sempre secondo
Place, nell’attribuire ai pensieri e alle sensazioni un ruolo primario rispetto alle “cose reali” e, in sostanza, altro non sarebbe che una tesi
idealistica.
La tesi idealistica, di contro, deve venire capovolta e lo si può fare
effettivamente soltanto sostenendo una tesi materialistica, che finisce
per negare uno dei termini della relazione: la mente. Tutto ciò, come se
“sostenere una tesi” non fosse un processo di pensiero, dunque un tentativo di negare, con il pensiero, il pensiero stesso.
Smart non dice soltanto che i processi coscienti sono processi cerebrali; egli aggiunge che non sono altro che processi cerebrali61. Armstrong, infine, afferma che soltanto una concezione materialistica, cioè
naturalistica e fisicalistica in senso radicale, coglie effettivamente la
realtà oggettiva, dunque è una concezione veramente realistica.
60
Cfr. U.T. PLACE, «Is consciousness a brain process?», British Journal of Psychology,
XLVII (1), 1956, pp. 44-50.
61
Cfr. J.J.C. SMART, «Sensations and Brain Processes», Philosophical Review, LXVIII (2),
1959, pp. 141-156; trad. it. «Sensazioni e processi cerebrali», in A. DE PALMA, G. PARETI (a
cura di), Mente e corpo. Dai dilemmi della filosofia alle ipotesi della neuroscienza, BollatiBoringhieri, Torino 2004, pp. 27-45
190
Sul riduzionismo
Le cose, infatti, vengono prima delle parole e dei concetti e sono
totalmente indipendenti da essi. La mente, inoltre, deve venire intesa
come un puro oggetto fisico, agente esattamente secondo le stesse leggi
delle altre cose fisiche, come egli afferma in The nature of mind and
other essays62.
La teoria identitista viene oggi riproposta, in una forma più o meno
aggiornata, da molti di coloro che intendono ridurre il mentale al cerebrale. Non è compito del presente studio riportare le molteplici posizioni che attualmente vengono sostenute dai ricercatori. Ci accontentiamo di ricordare che, pur non basandosi esplicitamente su una teoria
identitista, Dennett la fa implicitamente valere allorché sostiene con
forza la necessità di sposare la tesi del monismo materialistico.
Pur muovendosi all’interno di quella prospettiva che viene definita
funzionalismo computazionale, egli specifica assai bene le ragioni che,
a suo giudizio, non possono non indurre tanto lo scienziato quanto il
filosofo, che si occupano della mente/cervello, ad abbandonare ogni
dualismo, per approdare a un monismo che riconosca come reale solo
ciò che è fisico e, dunque, materiale.
E tuttavia, al monismo materialistico riteniamo che debba venire rivolta un’ulteriore obiezione. Allorché al sostantivo “monismo” si aggiunge l’aggettivo “materialistico”, non si finisce per determinare ciò
che non dovrebbe venire determinato?
Intendiamo ribadire, infatti, che de-terminare coincide con il de-limitare, nel senso che qualcosa può venire determinato se, e solo se, si
riferisce a qualcos’altro che lo determina.
Ma, se il monismo viene preso per il suo autentico significato, che
sottolinea il suo valere effettivamente come una unità e, più precisamente, come una unità unica, in quale modo si potrebbe, allora, pretendere di determinare in senso materialistico tale unità?
Per determinarla, non si dovrebbe presupporre qualcosa che materia
non è, stante che, appunto, determinare equivale a contrapporre ciò che
si determina (ciò che si identifica) a ciò che vale come altro da esso
(alla sua differenza)?
Determinare l’uno, che non può non essere assoluto, significa necessariamente e contraddittoriamente contrapporlo alla differenza, che ne
consente la determinazione, ma che nega la sua unità/assolutezza.
62
Cfr. D.M. ARMSTRONG, The nature of mind and other essays, University of Queensland
Press, Brisbane 1980.
II. Il
riduzionismo in Filosofia della mente
191
Se la materia fosse l’uno e assoluto, insomma, allora non potrebbe
venire detta “materia”, stante che essa si pone come “materia” solo in
quanto si contrappone a ciò che “materia non è”.
L’uno e assoluto è indeterminabile, nel senso dell’emergere oltre
ogni determinazione63. E questa ci sembra l’unica forma autentica di
monismo, il quale non può derivare dalla negazione del dualismo, ma,
al contrario, deve costituirsi come ragione del negarsi del dualismo
stesso, perché in sé infondato e, dunque, inintelligibile.
Solo per la ragione che l’assoluto (l’uno) è la condizione incondizionata e incontraddittoria, il relativo, cioè il molteplice (a muovere dalla
sua espressione più semplice, che è la dualità), si rivela nel suo limite
di intelligibilità.
Tale limite consiste nel fatto che ogni identità determinata si pone
riferendosi alla differenza, la quale cessa così di valere come estrinseca
per diventare intrinseca e costitutiva dell’identità medesima. Ciò comporta che l’identità determinata risulta in sé il proprio negarsi, dunque
il proprio contraddirsi.
Ebbene, il contraddirsi del determinato (del molteplice) restituisce
dialetticamente quell’uno e assoluto che costituisce l’unica identità autentica, perché solo essa è effettivamente autonoma e autosufficiente.
Tuttavia, non si deve pensare che l’uno origini dal togliersi del due,
ma, viceversa, di tale toglimento l’uno è la ragione, anche se, collocandosi nell’universo empirico-formale (stante che si sta svolgendo un discorso) in cui la molteplicità è inevitabile, l’uno risulta emergere sul
molteplice.
Poiché, però, l’inevitabile non è il necessario, allora si dirà che è
necessario che quell’emergere dell’uno sul molteplice venga inteso
come il venir meno a sé del molteplice (incluso il dire di cui si è detto),
proprio perché in sé insufficiente a sé stesso.
Venir meno che non è la cancellazione del molteplice (e del dire),
ma il togliersi della pretesa di valere quale verità da parte del molteplice
(nonché del dire stesso), così che la verità del molteplice (e del dire) si
essenzializza nell’intenzione di unità (verità) che è intenzione di essere
uno con la verità stessa.
63
Abbiamo trattato più diffusamente questo tema nel paragrafo 11 del primo capitolo della
Parte Prima, al quale rimandiamo.
192
Sul riduzionismo
2.9. La negazione della soggettività
Il realismo naturalistico e materialistico configura, dunque, una concezione metafisica, ma si tratta di una metafisica dogmatica, che è l’esatto
contrario di una metafisica autentica, la quale non può non fondarsi sul
pensiero riflessivo e critico e riconoscere l’esigenza di un fondamento
assoluto, che relativizzi tutti i “fatti” che si presentano sulla scena del
mondo, ossia che tolga la pretesa del loro essere veramente (incondizionatamente). Una metafisica dell’esigito e non dell’esatto.
Il realismo naturalistico, inoltre, affermando che l’oggetto è l’unica
realtà, ne decreta l’assolutizzazione e ciò non può non implicare la negazione più radicale del soggetto.
Precisamente di questa negazione intendiamo ora occuparci, perché
essa può venire considerata l’assunto prioritario dell’intera concezione
naturalistica, assunto che coincide con il rifiuto del concetto classico di
autocoscienza.
Ovviamente, la riduzione del soggetto a oggetto si traduce in enunciati che vengono formulati solo in terza persona, come se questa fosse
la forma dell’oggettività richiesta dal pensiero scientifico e come se gli
enunciati espressi in terza persona non si fondassero su enunciati
espressi, anche se implicitamente, in prima persona.
Dire che “S è p”, insomma, non può non implicare “Io penso che ‘S
è p’”, così che il soggetto enunciante, ed enunciante perché pensante, è
condizione di ogni enunciato, nonostante si pretenda di attenersi a enunciati che sembrerebbero dettati direttamente dalla cosiddetta “realtà”.
Per riflettere sul tema della soggettività, prendiamo avvio dalle parole di Marraffa, che compaiono nell’opera intitolata La mente in bilico.
Le basi filosofiche della scienza cognitiva e che ci sembra sintetizzino
molto bene la questione:
James è perfettamente consapevole dei problemi sollevati da questa scelta metodologica [si allude all’introspezione: la critica all’introspezione, come vedremo, è il primo passo che è stato compiuto nella critica all’autocoscienza e
alla soggettività], e nei Principles of Psychology rivolge a se stesso le due obiezioni che, decenni prima, Auguste Comte aveva sollevato contro la possibilità
dell’introspezionismo sperimentale. La prima è radicale, ovvero il processo introspettivo non può aver luogo perché, in tal caso, si determinerebbe un’implausibile scissione della coscienza: “Il pensatore non può dividersi in due
parti, una che ragiona e l’altra che osserva il pensatore ragionare. Essendo in
II. Il
riduzionismo in Filosofia della mente
193
questo caso l’organo osservato e l’organo che osserva la medesima cosa, come
può avere luogo l’osservazione?”64.
Quello individuato da Comte costituisce indubbiamente il problema
fondamentale dell’autocoscienza: coloro che interpretano il principio di
identità in senso rigido, ossia senza coglierne la dinamica intrinseca,
ravvisano una contraddizione nello sdoppiarsi dell’autocoscienza.
All’obiezione di Comte, fatta propria anche da molti studiosi e ricercatori contemporanei, si devono opporre due considerazioni: la prima
concerne il principio di identità; la seconda valorizza la proprietà riflessiva del pensiero, che è il fondamento stesso dell’autocoscienza.
A proposito del principio di identità, ricordiamo brevemente quanto
abbiamo già detto nella Parte Prima. Come afferma Aristotele, “L’identità è una unità d’essere o di una molteplicità di cose, oppure di una sola
cosa, considerata però come una molteplicità”65.
L’identità esprime, dunque, o che una cosa è identica a un’altra o che
una cosa è identica a sé stessa. In entrambi i casi, si deve rilevare che,
da un punto di vista formale, l’identità si costituisce come identità tra
due termini. Formalmente, dunque, l’identità si fonda sulla relazione o,
detto con altre parole, la relazione è costitutiva dell’identità.
L’alterità (la differenza), infatti, non può non venire richiesta, anche
se viene richiesta per venire negata, affinché risulti la medesimezza sostanziale dei due termini che la forma, invece, presenta come distinti.
Ciò vale anche quando si afferma l’identità della cosa con sé stessa.
Anche questa identità, infatti, si esprime nella forma “A è A”, ossia
come una relazione, ma ciò che con essa si intende esprimere è l’unità
dei due termini: se l’unità non fosse, neppure l’identità sarebbe.
Non di meno, la forma fa poggiare l’identità sulla dualità, nel senso
che formalmente si genera l’unità solo in quanto viene negata la “dualità”. A livello formale, insomma, si compie un’autentica inversione logica: non è l’unità (identità) che fonda (e, insieme, toglie) la dualità
(differenza), ma sembra valere l’inverso.
Ebbene, ciò che vogliamo mettere in evidenza è che i fautori del monismo si trovano a negare proprio la struttura relazionale dell’identità,
che si esprime esplicitamente nel principio di non contraddizione (volto
ad affermare che una cosa è sé stessa perché non è un’altra cosa): essi,
64
65
M. MARRAFFA, La mente in bilico. Le basi filosofiche della scienza cognitiva, cit., p. 12.
ARISTOTELE, Metafisica, V, 9, 1018 a, 7-9; trad. it. cit., p. 236.
194
Sul riduzionismo
quindi, sono costretti a smentire quello stesso principio formale di non
contraddizione, che pure per altro verso sono costretti a richiedere, e lo
devono smentire perché per essi un’identità che si apre alla differenza
è una contraddizione.
Anche a nostro giudizio l’autentica identità è solo dell’assoluto, in
modo tale che non può valere quale autentica identità un’identità determinata, la quale non può porsi se non in relazione con la differenza.
Se si parla di identità determinata, infatti, allora la relazione alla sua
condizione determinante (la differenza, appunto) non può non venire
richiesta. L’errore dei monisti è, da un lato, mantenere il carattere determinato dell’identità ma, dall’altro, pretendere di cancellarne la struttura relazionale, perché essi pretendono di assumere come autonoma e
autosufficiente l’identità descritta dalla forma.
Comte, da questo punto di vista, rientra pleno iure in questo gruppo
di pensatori. Anche egli, infatti, non riconosce il carattere dinamico
dell’identità (che per noi coincide, a rigore, con la struttura contraddittoria di qualunque identità formale) e precisamente per questa ragione
non accetta la proprietà riflessiva, che è espressione di un’identità,
quella del pensiero, la quale esplicitamente si fonda sulla differenza, e
non solo implicitamente come ogni altra identità.
Il pensiero, questo è ciò che intendiamo dire, si caratterizza per una
proprietà fondamentale, la proprietà riflessiva, che consente al pensiero
di farsi altro a sé stesso pur permanendo sé stesso. Ciò è possibile perché il livello in cui il pensiero si fa altro a sé stesso (e nel quale la mediazione è intesa come relazione) non è quello in cui permane uno con
sé stesso (e nel quale l’unità è dell’atto pensante).
La distinzione del pensiero in pensiero pensante e pensiero pensato,
proposta da Gentile, deve pertanto essere bene intesa: essa consente
bensì di intendere il pensiero pensante come inoggettivabile, ma, mantenendo la relazione, riduce il pensiero pensante all’attività del pensare.
Se questo è inevitabile, fino a che ci si colloca nell’ordine formale,
si deve altresì riconoscere che, emergendo oltre tale ordine, il pensiero
non può non valere quale atto: l’atto del trascendere il limitato, come
afferma lo stesso Hegel a proposito della coscienza in un passo capitale,
che abbiamo già citato, ma che riproponiamo per la sua importanza:
II. Il
riduzionismo in Filosofia della mente
195
Ma la coscienza è per se stessa il suo concetto, ed è quindi, immediatamente,
l’atto del sorpassare il limitato (das Hinausgehen über das Beschränkte), e, poiché questo limitato le appartiene, del sorpassare se stessa (über sich selbst)66.
L’atto di coscienza, questo è il punto, è atto rivelante in quanto trascendente il limite del rivelato, incluso l’atto stesso, in quanto anch’esso è
determinato e, dunque, limitato. Per questa ragione, l’atto rivelante,
nella misura in cui è auto-rivelante, è il sapersi stesso del sapere67 e,
proprio in quanto tale, è atto emergente o intentio veritatis (unitatis).
È atto emergente, perché emerge anche oltre sé stesso, in quanto determinato come “atto”; è intenzione di verità perché l’emergenza
dell’atto è indice del suo intendere la verità nonché del suo intendere
di trascendersi nella stessa verità, stante che nella verità (assoluto,
unità) l’intenzione (atto) autenticamente si compie e dalla verità (assoluto, unità) è evocata.
Per comprendere appieno il valore dell’atto, lo si deve intendere a
muovere dalla sottile dialettica che sottende il discorso sull’identità, in
generale, e sull’identità del pensiero e della coscienza, in particolare.
Torniamo, allora, alle parole di Marraffa, perché lo sviluppo del suo
discorso ci sembra di grande interesse:
Per fronteggiare questa critica [appunto la critica di Comte] James fa sua la
risposta di John Stuart Mill. Quest’ultimo concede a Comte che la consapevolezza introspettiva dell’attività psichica in atto è impossibile; tuttavia, sostiene
Mill, questo non è un problema qualora l’introspezione venga intesa come retrospezione. Il soggetto è cioè consapevole degli eventi psichici non già nella
forma che questi hanno nell’istante del loro verificarsi, bensì in quella di ricordi immediati; e giacché questi ricordi non fanno parte del flusso di coscienza, la problematica scissione di quest’ultima è evitata68.
Per evitare di intendere la consapevolezza come differenza da sé medesima, posizione contro la quale si dirige la critica di Comte, James riprende il concetto di Stuart Mill e afferma che la consapevolezza può
solo riferirsi a stati psichici passati, così che non si dà consapevolezza
del presente. Orbene, questa posizione diventerà un assunto irrinunciabile della prospettiva naturalista.
66
G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 72.
Il sapersi del sapere non deve venire confuso con la “coscienza introspettiva”, per intendere la quale, tra gli altri, si indica il seguente lavoro di M. MARRAFFA, «La Coscienza introspettiva: senso interno o interpretazione?», Rivista di Filosofia, CIV (3), 2013, pp. 367-382.
68
M. MARRAFFA, La mente in bilico, cit., p. 13.
67
196
Sul riduzionismo
Se non che, ci chiediamo quanto segue: può esservi un passato senza
un presente? Inoltre: se quanto appare alla coscienza come presente in
effetti è solo un passato, allora la consapevolezza di ciò appartiene al
presente o al passato?
Si impone, così, un’ulteriore domanda: è possibile affermare qualcosa senza far valere l’essenza stessa dello ad-firmare, cioè il “tenere
fermo”? Se ciò che affermo è solo il passato dei miei stati psichici, anche l’affermazione presente – inclusa l’affermazione che si tengono
fermi solo stati passati – finisce per appartenere essa stessa al passato
e, pertanto, è ipotizzabile un presente che la smentisca e che a me apparirà solo in futuro, quando si configurerà come ricordo.
Ci si viene a trovare, così, in uno status per il quale si ricorda, ma
senza sapere di ricordare e senza sapere cosa significhi ricordare, anzi
scambiando per sapere ciò che è solo un ricordare.
In tal modo, insomma, ciò che viene meno è precisamente il sapere
e il valore fondante che esso riveste, dal momento che ciò che affermo
è non altro che ciò che credo di sapere nel “momento presente”.
Il tema viene ripreso in forma esplicita da Dennett, allorché egli critica il “Teatro Cartesiano [inteso come] un luogo in cui ‘tutto converge’
e la coscienza si verifica”69. Non si può più parlare di un io cosciente,
secondo Dennett, ma solo di una narrazione in cui l’io si risolve:
Quello di cui siamo esattamente coscienti in uno specifico lasso di tempo non
è definito indipendentemente dai sondaggi che usiamo per precipitare una narrazione su quel periodo. Poiché queste narrazioni sono sotto continua revisione, non esiste una singola narrazione che possa contare come la versione
canonica […] Ma ogni narrazione (o frammento di narrazione) che viene precipitata produce una “linea temporale”, una sequenza soggettiva di eventi dal
punto di vista dell’osservatore, che può essere confrontata con altre linee temporali, in particolare con la sequenza oggettiva di eventi che si verificano nel
cervello dell’osservatore70.
Dennett, insomma, contrappone una “sequenza soggettiva o narrativa”71 a una “sequenza oggettiva”, che è costituita solo da stati cerebrali. Se non che, dimentica che l’affermazione della sequenza oggettiva, proprio in quanto affermazione, appartiene alla narrazione, così
69
D.C. DENNETT, Coscienza. Che cosa è?, cit., p. 52.
Ivi, p. 157.
71
Ibidem.
70
II. Il
riduzionismo in Filosofia della mente
197
che non può avere alcun valore oggettivo. Solo tale dimenticanza può
indurlo alla seguente conclusione:
Secondo la mia teoria, un sé non è un punto matematico, ma un’astrazione
definita dalle miriadi di attribuzioni e interpretazioni (incluse le auto-attribuzioni e auto-interpretazioni) che hanno composto la biografia del corpo vivente
di cui è il Centro di Gravità Narrativa. […] E dov’è la cosa a cui si riferisce la
tua autorappresentazione? È ovunque tu sia. E cos’è questa cosa? È nulla di
più, e nulla di meno, che il tuo centro di gravità narrativa72.
L’io (che Dennett preferisce sostituire con l’espressione “sé”) viene
così risolto nella narrazione, come se si desse una narrazione senza un
narrante e come se potesse darsi un “sé”, cioè una forma oggettivata,
senza un io oggettivante.
Inoltre, egli presuppone un centro di gravità narrativa che, però, non
soltanto ignora di essere tale, ma altresì non sa cosa sia “narrazione”, in
modo tale che la narrazione di cui egli parla non può non valere come
del tutto meccanica e inconsapevole.
Chi, allora, sarebbe in grado di dire che di una narrazione effettivamente si tratta? L’affermazione che si tratta di una narrazione non impone forse la necessità di richiedere un soggetto che, sapendo di sé, sa
anche cosa sia effettivamente ciò che egli fa e, quindi, cosa sia una vera
narrazione? Insomma, l’affermazione di Dennett non è tale se, e solo
se, Dennett è un autentico soggetto?
L’“oggettivazione”, che è altro modo per dire “narrazione”, non può
non richiedere una condizione oggettivante, cioè una condizione che,
da un lato, consenta di porre l’oggettivazione; dall’altro, lo consenta
solo in quanto emerge oltre l’oggettivazione stessa. Se, infatti, la condizione oggettivante venisse essa stessa oggettivata, allora cesserebbe
di valere come oggettivante.
Questo costituisce, a nostro giudizio, il punto cruciale: il pensiero
riflessivo è il fondamento di ogni affermazione e la possibilità di esercitare una critica poggia essenzialmente sull’auto-critica, cioè sulla facoltà, che è propria solo del pensiero riflessivo, di sdoppiarsi in un pensiero oggettivante e in un pensiero oggettivato. Proprio ciò che, invece,
Comte intendeva escludere.
Più in generale, la scarsa attenzione che, in ambito scientifico, si riserva al pensiero riflessivo è legata alla pretesa di ridurre il pensiero a
72
Ivi, pp. 474-477.
198
Sul riduzionismo
procedura, perché solo la procedura può venire descritta nei termini di
una sequenza di stati, analizzabili, rappresentabili e calcolabili.
L’atto di pensiero, quello che in Platone e in Aristotele valeva come
noesis o come nous73, distinto dalla dianoia (che è appunto il pensiero
procedurale), viene considerato estraneo a una concezione scientifica,
perché non oggettivabile, dunque non rappresentabile.
Se non che, nel rifiutare l’atto oggettivante, si perde eo ipso la possibilità di fondare la serie dei condizionati, di qualunque serie (o di qualunque narrazione) si parli.
Una fondazione, va ribadito, che non può essere tetica, ma deve essere ablativa, cioè non può non valere come il togliersi dei condizionati
colti nel loro limite, incluso il pensiero pensato, il quale, togliendosi,
cessa di inscrivere in un vincolo il pensiero pensante, e lo lascia essere
puro atto.
Inoltre, nel non intendere la coscienza come atto rivelante, e rivelante perché emergente sul rivelato, si perde anche la possibilità di intendere l’autocoscienza come il trascendersi stesso della coscienza empirica (o avvertente), cioè come il suo trasformarsi in coscienza trascendentale.
Siamo così pervenuti al nodo fondamentale: il riduzionismo si caratterizza per una prima riduzione, dalla quale conseguono tutte le altre: la
riduzione del fondamento a cominciamento, che è anche la riduzione
dell’essere ad ente e della coscienza trascendentale a coscienza empirica, la quale si risolve nella relazione con quei contenuti che di volta
in volta la determinano e nei quali essa sembra dissolversi.
2.10. La riduzione del fondamento a cominciamento
Uno degli assunti su cui poggia il programma naturalista, lo abbiamo
visto, è il rifiuto dell’osservatore interno, cioè dell’introspezione, definita da Dennett il “Teatro Cartesiano”. Marraffa esprime assai bene il
problema, parlando degli stati intenzionali:
73
Il nous di Platone e di Aristotele vale essenzialmente come “intuizione” e per questo
viene contrapposto al “ragionamento”, inteso come procedura. Noi del nous valorizziamo il suo
essere “atto” di pensiero, un trascendere che è essenzialmente un trascendersi nell’assoluto.
II. Il
riduzionismo in Filosofia della mente
199
Dunque il contenuto degli stati intenzionali causa altri stati intenzionali. Tuttavia, perché il contenuto possa svolgere tale ruolo causale, deve esserci qualcosa nella catena causale che sia sensibile ad esso. E che cosa se non un interprete interno potrebbe essere in grado di comprendere il significato di uno stato
mentale? Dicendo questo, siamo finiti in un vicolo cieco: il problema
dell’omuncolo74.
Ora, a nostro giudizio l’interprete interno configura un regresso solo se
non vale come un soggetto autocosciente. L’autocoscienza è, infatti, la
traduzione del fondamento nell’universo dei determinati, stante che
esprime l’assolutezza del fondamento nella forma della presenza a sé
del soggetto: il rivelarsi dell’atto rivelante.
Tuttavia, il senso in cui l’autocoscienza vale come la traduzione del
fondamento deve venire bene specificato. L’autocoscienza non è l’assoluto, se intesa nella forma ordinaria e cioè in forma relazionale.
Non è l’assoluto e la sua autosufficienza non è autentica, per la ragione che, senza un contenuto, essa non si porrebbe, neppure come autocoscienza. In tal modo, la dualità domanda ancora di togliersi
nell’unità, in quell’unità che, come abbiamo visto, è espressa solo
dall’atto.
Se intesa quale atto, infatti, essa esibisce proprio quell’autosufficienza che consente di interrompere il regressus in indefinitum e, pertanto, di risolvere il problema dell’omuncolo. Tale problema viene risolto per il fatto che il soggetto, in quanto consapevole di sé (trasparente
a sé stesso, atto di coscienza), è consapevole anche di ogni altro da sé,
ossia è consapevole del venir meno a sé di ogni determinato.
Il venir meno include anche l’atto, stante la sua determinatezza, così
che esso si essenzializza in quell’intentio veritatis che è tale perché intende togliersi nella verità dell’assoluto, onde essere uno con l’assoluto
stesso. In questo “toglimento” l’inevitabile si invera nell’innegabile,
cioè nel necessario.
La concezione naturalista, almeno quella più estremista, non solo
non ricerca il fondamento assoluto, ma altresì trova inaccettabile il fare
ricorso a un soggetto autocosciente che interrompa il regresso. Essa,
anzi, capovolge il discorso e afferma che è proprio il soggetto autocosciente che determina il regresso all’infinito, cioè il problema
dell’omuncolo:
74
M. MARRAFFA, La mente in bilico, cit., p. 68.
200
Sul riduzionismo
Il problema dell’omuncolo è l’obiezione più importante che il comportamentismo ha rivolto all’uso della spiegazione mentalistica in psicologia: “Poiché il
compito della psicologia è spiegare l’intelligenza degli esseri umani, essa non
può assolvere tale compito se in qualche punto della spiegazione presuppone
intelligenza o razionalità. Ora, introdurre un omuncolo significa proprio questo, e Skinner lo riconosce esplicitamente (Dennett, 1978, p. 58)”. Ossia: una
teoria della mente che aspiri ad essere minimamente plausibile deve sottrarsi
al regresso all’infinito innescato dal tentativo di spiegare una capacità cognitiva postulando implicitamente un “piccolo uomo” dentro la testa (un omuncolo, per l’appunto) in possesso di quella stessa capacità75.
La questione, dunque, concerne il tema della “spiegazione”. Spiegare
significa, in estrema sintesi, vincolare un explicandum a un explicans,
che consenta di rendere ragione dell’explicandum. Spiegare un fenomeno, pertanto, significa ricondurlo-ridurlo alla causa che lo produce
o alla condizione che lo rende possibile.
Se si deve spiegare l’intelligenza, dicono i naturalisti, non la si può
assumere come explicans: l’intelligenza non può spiegare sé stessa.
La nostra opinione è che questo assunto non sia stato sufficientemente meditato. Inoltre, troppo precipitosamente si è liquidato il valore
dell’intelligenza in favore di una spiegazione che faccia derivare l’intelligenza da elementi semplici non intelligenti:
Al fine di sottrarsi al regresso degli “omuncoli” [si è usata] la scomposizione
funzionale ricorsiva di capacità cognitive complesse in insiemi di capacità più
semplici, che cooperano fra loro. […] [Secondo l’analisi funzionale] la mente
non è – come pure siamo propensi a credere alla luce dell’introspezione –
un’entità unitaria, bensì un insieme di sottosistemi distinti (“omuncoli” o “moduli”). In quest’ottica, l’intelligenza generale e flessibile che caratterizza l’essere umano è la risultante dell’interazione fra intelligenze sempre più specializzate: “Omuncoli ottusi perché monomaniaci cooperano fra loro per costituire quelli più brillanti” (Sterelny, 1990, p. 13). […] Idealmente la scomposizione continua finché non si raggiunge un livello in cui i compiti che gli omuncoli devono assolvere sono sufficientemente elementari da poter essere giudicati psicologicamente primitivi76.
Lo status che viene prospettato si articola nella seguente alternativa: aut
il punto di partenza (l’explicans) non è affatto intelligente, e allora può
75
Ibidem. L’opera di DENNETT, cui si riferisce Marraffa, è Brainstorms, MIT Press, Cambridge (MA) 1978; trad. it. di L. Colasanti, Brainstorms, Adelphi, Milano 1991.
76
Ivi, p. 86. L’opera di STERELNY, cui Marraffa si riferisce, è The Representational Theory
of Mind, Blackwell, Oxford 1990.
II. Il
riduzionismo in Filosofia della mente
201
spiegare l’intelligenza senza presupporla; aut mantiene una quota di intelligenza, ma allora l’omuncolo non è stato ancora “scaricato”.
Questa modalità esplicativa non solo crede di spiegare l’intelligenza
mediante operazioni inintelligenti, ma altresì pretende di spiegare la coscienza mediante l’inconscio e il complesso mediante il semplice: la
struttura argomentativa è la medesima.
Se non che, almeno a nostro giudizio, si rende necessario distinguere
due piani di spiegazione. Sul primo piano si dispone la spiegazione
meccanicista, per la quale la priorità temporale coincide con la priorità
causale (e la causa è ridotta alla causa materiale e alla causa efficiente
di Aristotele). Per la concezione radicalmente naturalistica è accettabile
solo questo tipo di spiegazione.
Secondo noi, invece, non si può non riconoscere un piano ulteriore,
quello sul quale si dispongono le ragioni (che possono venire assimilate
alle cause formali e finali di Aristotele).
Ebbene, v’è un senso per il quale la coscienza è ragione dell’inconscio, ossia funge da sua condizione di possibilità (intelligibilità), giacché solo in virtù della coscienza è possibile definire qualcosa come inconscio: l’inconscio, infatti, viene rilevato dalla coscienza come altro
da sé stessa. Qui si ha a che fare con una priorità onto-logica, che
esprime la necessità di richiedere una condizione di intelligibilità piuttosto che un antecedente temporale.
La differenza che sussiste tra causa e ragione è la stessa che sussiste
tra cominciamento e fondamento. Il cominciamento di una serie (di un
sistema) di elementi apre la serie, ma, valendo come il primo dei suoi
elementi, si vincola inscindibilmente a ciò che segue e così subisce il
condizionamento di ciò che viene condizionato da esso.
Esso, insomma, sembra precedere temporalmente la serie, ma in effetti si pone solo se la serie si è già posta. Se la serie non fosse, esso non
potrebbe valere come cominciamento: di che cosa sarebbe cominciamento, infatti?
In questo caso, pertanto, ci si trova davvero in un regressus in indefinitum, che è il circolo del presupporre: la serie presuppone il cominciamento che presuppone la serie, all’infinito. Quell’omuncolo, che si
voleva “scaricare”, torna inesorabilmente a riproporsi.
V’è un unico modo per evitare il regresso all’infinito: intendere il
fondamento nel senso del suo fondare sé stesso e, per questo, del suo
202
Sul riduzionismo
fondare l’intera serie. E ciò vale solo per l’atto di coscienza, dal momento che l’atto di coscienza, in virtù della sua unità di atto, va oltre la
molteplicità che caratterizza l’ordine dei determinati.
E va aggiunta, di nuovo, una precisazione, per cercare di chiarire
ulteriormente: non si deve mai dimenticare che l’atto di coscienza va
inteso come atto ablativo, nel senso che la coscienza come atto è il trascendere ogni determinazione (finitezza), inclusa la propria finitezza,
che coincide con il proprio valere come coscienza di sé.
In quanto “coscienza di sé” – questo è ciò che si vuol dire –, l’autocoscienza è ancora un atto tetico, giacché pone “sé” e il suo “altro”.
Come atto tetico, la coscienza vale come coscienza empirica e, pertanto,
mantiene la dualità e, dunque, la determinatezza/finitezza. Solo come
coscienza trascendentale, la coscienza emerge effettivamente come atto
e trascende la finitezza (inclusa la propria finitezza).
Quanto detto domanda di venire precisato ancora in ordine
all’aspetto dei contenuti della coscienza. Se la coscienza è intesa come
coscienza empirica, allora essa vale come la condizione del porre la serie dei contenuti determinati, dal momento che è la condizione del loro
rilevamento (riconoscimento).
Di contro, se la coscienza è intesa in senso trascendentale, allora
essa è la condizione che, lungi dal legittimare la serie dei condizionati,
di tale serie lascia emergere il limite, così che coincide non con il porsi
della serie stessa, ma con il suo togliersi. E questo è il senso autentico
del fondare: lasciare emergere il limite del fondato.
A nostro giudizio, insomma, non si può prescindere dal concetto
classico di fondamento, che a noi sembra essenziale per cogliere il
senso di ogni teoria (discorso): il valore di ognuna risiede nella propria
intentio veritatis, che è il volgersi alla verità per abbandonarsi interamente ad essa, intendendo di essere uno con essa.
Il limite di ognuna, invece, consiste nella pretesa di inglobare quella
verità che deve permanere un ideale della ricerca. Se viene ridotta a
una qualche determinazione, la verità cessa di valere quale ideale e si
riduce a fattuale.
Avere abbandonato il concetto di fondamento, come è accaduto per
gran parte della conoscenza scientifica contemporanea e per quell’ambito di ricerca che è la “Filosofia della mente”, per lo meno nelle forme
in cui questa ricerca oggi principalmente si presenta, ha comportato una
serie di postulazioni che non hanno risolto il problema della fondazione,
ma hanno solo indotto a credere di poter eludere questo tema.
II. Il
riduzionismo in Filosofia della mente
203
Di contro, il tema è ineludibile. Se, infatti, si afferma che è la non
intelligenza a costituire la genesi dell’intelligenza – per tornare alla questione affrontata in precedenza –, allora ci si dovrà chiedere se il passaggio dal non intelligibile all’intelligibile sia veramente intelligibile.
In tal modo, si dovrà elaborare una teoria intelligente sull’origine
dell’intelligenza e, nel cercare di farlo, ci si chiederà se quella che afferma il primato causale (dunque temporale) della non intelligenza sia
effettivamente una teoria intelligente. In virtù di questa ricerca, che
muove dalla domanda di verità sull’intelligenza e sulla sua origine, non
si potrà non riconoscere il limite di validità dell’affermazione sopra formulata, che subordina l’intelligenza alla non intelligenza.
Si scoprirà, in questo modo, che così come l’inconscio trova nella
coscienza la sua condizione di intelligibilità (possibilità), altrettanto la
non intelligenza si fonda sull’intelligenza, giacché solo quest’ultima la
riconosce nel suo limite e la connota come tale.
La conclusione del discorso sulla “Filosofia della mente” non può
che essere questa: il riduzionismo teoretico, che assume il fondamento
come cominciamento e l’atto di pensiero come attività, sta quindi alla
base del riduzionismo teorico che approda alle concezioni meccaniciste, naturaliste, fisicaliste e materialiste della mente e decreta sostanzialmente l’eclissi della coscienza e della soggettività.
Capitolo III
Prima esemplificazione:
il riduzionismo di Patricia S. Churchland
3.1. Per introdurre
Il progetto che sostanzia il presente capitolo è quello di riflettere criticamente su un testo fondamentale di Patricia S. Churchland, che si intitola L’io come cervello1. A nostro parere, questo testo costituisce uno
dei manifesti più significativi del riduzionismo contemporaneo, concernente quell’ambito di ricerca che è la “Filosofia della mente”.
Il riduzionismo indicato in questo lavoro è volto ad affermare un monismo che, secondo le indicazioni che la Churchland stessa fornisce nel
suo fare propri alcuni argomenti di Dennett, può venire definito fisicalistico o anche materialistico.
Senza dare per scontato quanto abbiamo affermato nei capitoli precedenti, riprendiamo il discorso ponendo le seguenti domande: il riduzionismo si fonda su ragioni autentiche? L’io può davvero venire ridotto al cervello? Oppure è più sensato parlare di correlazione?
Precisamente per rispondere a tali domande, svolgeremo l’indagine
critica annunciata, non senza ricordare che alla complessità del dibattito
teorico, che a volte si configura in forme di una certa raffinatezza, non
corrisponde l’operare concreto delle neuroscienze, le quali si lasciano
guidare da una concezione materialistica indiscussa e indiscutibile.
3.2. L’inseparabilità di io e cervello
“Io, me stessa e il mio cervello” è il titolo del primo capitolo, che si apre
con questa affermazione: “Io e il mio cervello siamo inseparabili (My
Brain and I are inseparable)”2.
1
P.S. CHURCHLAND, Touching a Nerve. The Self as Brain, W.W. Norton & Company, New
York e London 2013; trad. it. di G. Guerrerio, L’io come cervello, Raffaello Cortina, Milano
2014.
2
P.S. CHURCHLAND, L’io come cervello, cit., p. 11.
205
206
Sul riduzionismo
Si tratta, dunque, di comprendere che cosa si intenda con le espressioni “io (I)”, “me stessa (Myself)” e “cervello (Brain)” nonché con le
relazioni che sussistono tra i significati da esse designati.
Notiamo che, se si parla di inseparabilità, allora si dicono almeno
tre cose. Innanzi tutto, si dice che l’io non può stare senza il cervello;
poi, si dice che, reciprocamente e scambievolmente, il cervello non può
stare senza l’io; infine, si dice che si tratta di due realtà, le quali, ancorché inseparabili, pur tuttavia sono distinte.
Il primo punto di vista viene accettato dalla maggioranza dei ricercatori: sono veramente pochi, allo stato attuale della ricerca, i sostenitori della prospettiva dualista e tra di essi sono pochissimi coloro che
sostengono l’indipendenza dell’io dal cervello. Di questi aspetti abbiamo trattato anche nei capitoli precedenti.
La maggioranza degli studiosi, dunque, accetta senza alcuna esitazione l’inseparabilità dell’io dal cervello, ma non accetta la reciproca
e cioè l’inseparabilità del cervello dall’io.
Nella sua prima affermazione, quella che abbiamo riportato sopra, la
Churchland non si sbilancia e parla di inseparabilità, la quale può venire
intesa in senso biunivoco, come in effetti dovrebbe essere. Approfondiremo questo aspetto nel corso della trattazione.
Non di meno, io e cervello vengono considerati dalla Churchland
come distinti: se non fossero distinti, non avrebbe senso dichiarare la
loro inseparabilità. Qualora, infatti, fossero un medesimo, la stessa cosa,
allora non ci si sognerebbe di dire che una stessa cosa non può separarsi
da sé stessa.
Parlando di inseparabilità, si lascia intendere pertanto che si tratta di
due cose distinte, ancorché inseparabili. Del resto, se si intendesse affermare che io e cervello sono la stessa cosa (realtà), e quindi si stabilisse tra di essi una relazione di identità, che potrebbe venire espressa
dalla seguente formula “io = cervello”, allora si dovrebbe ammettere
che, se l’io si identifica nel cervello, quest’ultimo non può non identificarsi nell’io.
Ma, come detto, pochi sarebbero propensi ad accettare i due sensi di
marcia dell’identità indicata, perché la maggioranza dei ricercatori sostiene che l’io è il cervello, non già che il cervello è l’io.
La questione, insomma, è che, se l’io non può sussistere senza il cervello, affermare che il cervello non può sussistere senza l’io sembra a
molti un’affermazione inaccettabile: vi sono infatti cervelli che, per
III. Prima
esemplificazione: il riduzionismo di Patricia S. Churchland
207
gravi lesioni subite, non generano un io – o, per lo meno, possono generare anche “divisioni” significative in esso (o compromissioni) – e
ciò nonostante permangono cervelli.
Per ora, quindi, accettiamo di mantenere l’inseparabilità come segno
della distinzione di io e cervello. Del resto, è proprio questa distinzione
che giustifica l’uso di due parole diverse, che fanno riferimento a due
diversi significati.
Quale sia il significato della parola “cervello” non è difficile da stabilire. La Churchland così si esprime già in queste prime battute: “Penso
al mio cervello come dotato di neuroni”3.
Più difficile stabilire il significato della parola “io”. La Churchland
non lo dice in forma esplicita, ma noi ipotizziamo che intenda l’autoriferimento, cioè il riferirsi a sé stessi. Se accettiamo questa ipotesi ermeneutica, allora si comprende anche il “me stessa”, che compare nel
titolo del capitolo.
Da un punto di vista linguistico-formale, quando si usa il pronome
personale “io” si intende indicare la coincidenza del soggetto enunciante (pensante) e del soggetto del suo enunciato (pensato). Di contro,
nell’uso del pronome personale “sé”, si indica ciò a cui l’io si riferisce
nel suo “riferirsi a sé stesso”.
Ciò premesso, è opportuno specificare che l’auto-riferimento può
trovare due forme per venire espresso. La prima forma è l’espressione
in prima persona ed è la forma che usa la Churchland quando scrive
“Penso al mio cervello come a quello, e a me stessa come a me”4.
La forma in terza persona, invece, si ha quando si pone un discorso
sull’io in quanto tale, discorso che può venire essenzializzato dal seguente enunciato: “L’io si riferisce a sé”.
“Me” e “sé”, dunque, sono le forme oggettivate dell’io: la prima si
ha nell’oggettivazione in prima persona; la seconda nell’oggettivazione
in terza persona.
Il “me”, di cui parla la Churchland, configura quindi ciò a cui l’io si
riferisce nel suo auto-riferirsi. Il riferimento, infatti, implica un soggetto del riferimento e un termine del riferimento stesso e la forma potrebbe essere la seguente: “Io mi riferisco a me”. Il “me” rappresenta,
pertanto, qualcosa che è molto intimo all’io, se è appunto la forma del
suo oggettivarsi in prima persona.
3
4
Ibidem.
Ibidem.
208
Sul riduzionismo
Di contro, il cervello non viene vissuto, anche nel linguaggio ordinario, come qualcosa di così intimo all’io, e per questa ragione la Churchland lo contrappone al “me” e lo definisce “quello”.
Ella precisa ulteriormente il suo discorso e afferma che “penso a me
come dotata di memoria”5, mentre “penso al mio cervello come dotato
di neuroni”6, intendendo con ciò sottolineare come la memoria sia una
proprietà che noi sentiamo come molto più intima di quanto lo siano i
neuroni.
Siamo così pervenuti all’aggettivo possessivo “mio”, che riveste
un’importanza enorme. Con tale aggettivo, l’io compie un’auto-ascrizione, cioè si attribuisce qualcosa.
Se ne ricava che, quando la Churchland afferma, come abbiamo visto, “Io e il mio cervello siamo inseparabili”, l’aggettivo “mio” indica
che il cervello non soltanto è inseparabile dall’io, ma gli appartiene. Il
cervello appartiene all’io: solo se questo è vero, si giustifica l’aggettivo
possessivo “mio”.
Se non che, ciò dimostra che l’inseparabilità va pensata anche nel
senso che il cervello non è separabile dall’io: se il cervello potesse venire separato dall’io, infatti, non gli apparterrebbe più. Ma ciò è precluso dall’averlo dichiarato “mio”.
Ebbene, precisamente su questa dipendenza del cervello dall’io si
dovrà attentamente riflettere, perché non sembra che sia ciò che la
Churchland voglia effettivamente affermare. Sembrerebbe, anzi, che
ella voglia valorizzare esclusivamente il cervello, stante il titolo stesso
del suo volume: “L’io come cervello (The Self as Brain)”.
3.3. La postulazione dell’io
Si chiede la Churchland: “E chi è questo io, se l’io è proprio una delle
cose che il mio cervello costruisce grazie al grande aiuto fornito – com’è
stato dimostrato – dalle attività cerebrali inconsce?”7.
Il nodo è che, da un certo punto di vista, l’io deriva dal cervello e, in
particolare, dall’attività di quest’ultimo, che si compie al di sotto della
soglia della coscienza.
5
Ibidem.
Ibidem.
7
Ivi, p. 12.
6
III. Prima
esemplificazione: il riduzionismo di Patricia S. Churchland
209
Se non che, da un altro punto di vista, non si può non rilevare che
posso dire che il cervello è “mio” solo per la ragione che io attribuisco
a me un cervello (possiamo metterci al posto della Churchland e parlare
come lei parlerebbe, cioè in prima persona).
In tal modo, il cervello diventa un’auto-ascrizione dell’io, così che
l’io emerge come la condizione di possibilità dell’affermazione dell’esistenza del cervello e della sua appartenenza a me.
Che è come dire: dal punto di vista empirico-materiale il primato è
del cervello; dal punto di vista logico-formale, il primato è dell’io:
senza l’io, il cervello non viene riconosciuto e non può neppure venire
detto o auto-ascritto.
Ci sembra che possa avere un senso parlare di “primato logico-formale” perché teniamo presente la fondamentale classificazione delle
cause fornita da Aristotele nella Fisica, allorché egli, dopo avere affermato che conoscenza e scienza essenzialmente sono il cogliere le cause
delle cose8, individua vari tipi di cause – come abbiamo anticipato nel
paragrafo 10 del precedente capitolo –, che sono le seguenti: la causa
materiale, ossia ciò di cui una cosa è fatta; la causa efficiente, che consiste in ciò che produce un mutamento; la causa formale, che è l’essenza
o sostanza di una cosa (per esempio, causa dell’uomo è la natura razionale che lo definisce); la causa finale, che è ciò in vista di cui la cosa si
pone9.
Nella Metafisica così Aristotele riassume le cause:
Ora le cause vengono intese in quattro significati diversi. (1) In un primo senso,
diciamo che causa è la sostanza e l’essenza; infatti, il perché delle cose si riconduce, in ultima analisi, alla forma: e il primo perché è appunto una causa
(αἴτιον) e un principio (ἀρχὴ); (2) in un secondo senso, diciamo che causa è la
materia o il sostrato; (3) in un terzo senso, poi, diciamo che causa è il principio
del movimento; (4) in un quarto senso, diciamo che è causa quella opposta a
quest’ultima, ossia lo scopo e il bene; infatti, questo è il fine della generazione
e di ogni movimento10.
Ebbene, a noi sembra che, se il cervello è la causa materiale della mente
umana, l’io ne possa venire considerato la causa formale (altrove abbiamo parlato di condizione trascendentale), nel senso che esprime, secondo la fondamentale indicazione kantiana, quella funzione unificante
8
Cfr. ARISTOTELE, Fisica, I, 1, 184 a, 10.
Cfr. ARISTOTELE, Fisica, II, 3, 194 b, 16.
10
ARISTOTELE, Metafisica, I, 3, 983 a, 24; trad. it. di G. Reale, cit., p. 80.
9
210
Sul riduzionismo
che consente il costituirsi dell’esperienza come pervasa da un’indubbia
unitarietà di senso.
Si potrebbe dire che la funzione unificante è duplice: essa opera sia
sul versante esterno, costituendo un campo di esperienza esterna, sia sul
versante interno, costituendo un campo di esperienza interiore. Questa
duplice funzione getta le basi per il costituirsi dell’unitarietà del soggetto o della persona: unitarietà del suo percepire e del suo percepirsi.
D’altra parte, il pensiero esprime in modo paradigmatico la funzione
unificante nella forma della funzione riflessiva, che indica la capacità
del pensiero di oggettivare sé stesso.
Precisamente la funzione riflessiva costituisce l’io nella sua essenza,
dal momento che gli consente il suo auto-riferirsi. Se ne può concludere, quindi, che funzione unificante e funzione riflessiva possono venire considerate le cause formali della persona, nel suo porsi come unità
con sé stessa e con il mondo, che è fatto anche di altre persone.
Non di meno, ci sembra che intendere l’“io (I)” come causa formale
possa avere un senso anche per un’altra ragione, che può venire rintracciata seguendo questo ragionamento. Lo stesso Aristotele – ne abbiamo
parlato nel paragrafo 7 del precedente capitolo – afferma che ogni cosa
è un sinolo, cioè è sintesi di materia e forma, così che l’uomo non può
venire ridotto al suo aspetto fisico-materiale: se solo la materia esistesse, allora si tratterebbe di una materia informe, indistinta, magmatica, e non si spiegherebbero più le differenze. Non soltanto le differenze
in generale, ma anche quelle che individuano ciascun uomo e lo distinguono da ogni altro.
Che è come dire: anche i sostenitori del monismo materialistico non
possono non ammettere la distinzione di materia e forma per giustificare la molteplicità che caratterizza l’esperienza.
Se le differenze esistono e se esse non possono riguardare la sostanza, che viene postulata come unica, allora debbono riguardare qualcosa che non è la sostanza materiale, ma che è intrinsecamente vincolato ad essa: la forma, appunto. In tal modo, si deve accettare un tipo di
dualismo, ancorché non sia un dualismo di sostanze.
Riferendo quanto è stato detto al cervello, ci sembra che non possa
venire evitata la distinzione tra struttura e funzione: da un lato, si deve
considerare la struttura biologica che costituisce l’architettura dell’organo; dall’altro, la funzione che ogni singola architettura biologica
svolge.
III. Prima
esemplificazione: il riduzionismo di Patricia S. Churchland
211
Anche per questa via emerge, dunque, la necessità di far valere un
tipo di dualismo, che potremmo definire non di sostanze, ma immanente
e costitutivo di ciascuna sostanza, attribuendo all’espressione “sostanza” il duplice significato che le è stato assegnato dal pensiero filosofico.
La metafisica tradizionale, a cominciare proprio da Aristotele, ha infatti definito “sostanza” l’“essenza necessaria” o “ciò che esiste necessariamente”, laddove la prospettiva empirista l’ha intesa come “connessione costante”, stante l’impossibilità che l’esperienza attesti qualcosa
di necessario.
Orbene, a nostro giudizio intendere la sostanza come una realtà dotata di una struttura che svolge una funzione può consentire di superare
la rigida contrapposizione di monismo/dualismo.
A proposito del cervello, questo modo di intendere la sostanza ha un
indubbio vantaggio: consente di non sacrificare la funzione alla struttura, cioè di non assolutizzare l’aspetto fisico-materiale, ma di pensarlo
in stretta connessione con quello funzionale-formale.
L’io, dunque, valendo come quella funzione che unifica le molteplici
funzioni espresse dalle strutture biologiche, può venire considerato
come la causa formale del cervello, in particolare, e dell’intero corpo,
in generale. Questo è ciò che si può dire in prima approssimazione.
Affinché le ragioni dell’io possano emergere in tutta la loro portata,
rileviamo che, anche ammettendo come vera la concezione riduzionistica e fisicalistica, che appunto vorrebbe ridurre la mente al cervello,
non si potrebbe evitare quella domanda, che abbiamo precedentemente
formulato: il cervello, inteso in senso biologico, costituisce la realtà in
ultima istanza oppure v’è una realtà ancora più fondamentale, che è poi
la realtà descritta dalla fisica e, più in particolare, dalla fisica che si occupa delle particelle elementari?
Ecco, a noi sembra che questa ricerca della realtà ultima, intesa soltanto in senso fisico-materiale, costituisca un equivoco, dal momento
che, se si vuole essere coerenti con l’assunto, si deve andare oltre la
biologia e pervenire alla fisica, intesa come fisica atomica o, se si preferisce, come fisica quantistica.
In tal caso, però, gli enti, che costituirebbero la realtà ultima, sarebbero ben diversi da quelli che costituiscono la realtà ordinaria e ci si
troverebbe di fronte a un’ontologia nuova, la quale non si fonderebbe
più sulla biologia, come invece avviene con le neuroscienze.
212
Sul riduzionismo
Se, insomma, ci si avvede che la realtà non si presenta in un’unica
forma, allora non si può più accettare il monismo ontologico, il quale
necessariamente mette capo al monismo metodologico.
Si deve, invece, privilegiare un pluralismo ontologico, che riconosca
non solo la realtà descritta dall’ordinaria esperienza sensibile, ma anche
la realtà che risulta dagli strumenti che potenziano la nostra percezione
nonché la realtà dei concetti, dei numeri, e dello stesso Pegaso, per riferirci al famoso articolo di Quine11 in cui si discute proprio del problema della realtà di un oggetto della fantasia.
Tuttavia, per tornare alla Churchland, ci domandiamo se ella sarebbe
disposta ad accettare il tipo di dualismo che abbiamo indicato, quello
appunto di materia e forma, e che potremmo definire un dualismo minimale, appropriandoci di una espressione (minimale) usata da
McDowel a proposito dell’empirismo12.
Il dualismo minimale che proponiamo avrebbe il vantaggio non soltanto di non ridurre l’io al cervello, ma altresì di mantenere la loro distinzione nonché la loro inseparabilità.
Nel prosieguo della sua indagine, la Churchland intende sostenere
che l’io deve venire pensato in senso sempre più biologico:
I progressi nella comprensione del cervello comportano di dover pensare a noi
stessi [cioè all’io che ognuno di noi è n.d.r.] in modo nuovo. Per esempio, può
apparire sorprendente quanto davvero biologici siamo noi e quanto davvero
biologici siano i nostri processi psicologici, quanto possano essere influenzati
da ormoni e da sostanze neuro-chimiche13.
Ora, fino a un certo punto si può concordare con quanto scrive la Churchland: i nostri processi psicologici sono fortemente influenzati dai processi biologici e dalle sostanze neuro-chimiche. Questo, però, non dimostra ancora che i processi psicologici siano non altro che processi
biologici. Né, tanto meno, significa che l’io sia non altro che un processo biologico. Se questo è l’obiettivo che si vuol dimostrare, ancora
si è ben lontani dall’averlo dimostrato.
11
Cfr. W.V.O. QUINE, «On What There Is», Review of Metaphysics, II(5), 1948, pp. 21-38;
trad. it. di E. Mistretta in ID., Il problema del significato, Ubaldini, Roma 1966, pp. 3-19.
12
Cfr. J. MCDOWELL, Mind and World, già citato.
13
P.S. CHURCHLAND, L’io come cervello, cit., p. 16.
III. Prima
esemplificazione: il riduzionismo di Patricia S. Churchland
213
In effetti, la Churchland manifesta, per lo meno inizialmente, un atteggiamento più cauto e scrive, a proposito di coloro che intendono studiare la mente: “Ma se sono interessati a come funziona la mente, devono sapere molte cose sul cervello”14. E questo sembra del tutto ovvio:
poiché il cervello costituisce il sostrato della nostra mente, per capire
bene la mente è utile comprenderne il sostrato.
Qui la Churchland ha come bersaglio della sua critica una precisa
concezione della mente, detta cognitivismo classico o simbolico e della
quale abbiamo in precedenza parlato. Per tale concezione, le strutture
biologiche non avrebbero alcun ruolo in ordine alla funzione da esse
dispiegata.
Non a caso, la concezione indicata viene anche definita funzionalismo computazionale, perché fa valere l’analogia mente/computer. Così
come il computer si compone di un hardware e di un software, altrettanto l’uomo si costituisce di un hardware, che corrisponde al cervello,
e di un software, che corrisponde alla mente.
Si parla, anzi, di carattere astratto delle computazioni, o di realizzabilità multipla, per evidenziare che le operazioni mentali compiute,
equiparabili a calcoli perché costituite di procedure regolate, sono indipendenti dall’hardware che le implementa: uno stesso software,
quindi, può venire implementato da un hardware elettronico, ma anche
da un hardware biologico. Di qui il persistere di un sostanziale dualismo.
Contro tale dualismo hanno tuonato in molti e su questo aspetto abbiamo insistito nel capitolo precedente. Ricordiamo soltanto un passo
di Dennett, perché viene ripreso dalla Churchland. Il passo è questo:
L’idea che la mente sia un’entità così separata dal cervello e composta non da
materia ordinaria, ma da qualche altra sostanza speciale, viene usualmente
chiamata dualismo. Oggigiorno esso gode, meritatamente, di una cattiva reputazione […]. Fin dall’attacco ormai classico di Gilbert Ryle (1949) a ciò che
egli chiamava il “dogma cartesiano dello spettro nella macchina”, i dualisti
sono sulla difensiva. La posizione dominante, variamente espressa e sostenuta,
è il materialimo: esiste solo un tipo di sostanza, e cioè la materia – la sostanza
fisica di cui si occupano la fisica, la chimica e la fisiologia – e la mente è in un
certo senso niente altro che un fenomeno fisico. In breve, la mente è il cervello15.
14
15
Ivi, p. 19.
D.C. DENNETT, Coscienza. Che cosa è?, cit., p. 45.
214
Sul riduzionismo
La Churchland riprende in toto l’argomentazione di Dennett e scrive:
Questi risultati [quelli sugli split brain] rappresentavano un forte sostegno
all’ipotesi che gli stati mentali fossero stati fisici del cervello, e non stati di
un’anima non fisica. La nozione cartesiana di anima non si adatta bene neppure
alla fisica. Il problema è questo: se un’anima non fisica causa eventi che avvengono in un corpo fisico, o viceversa, viene violata la legge di conservazione
di massa ed energia [lo aveva già scritto Dennett da p. 46 a p. 48 dell’edizione
italiana da noi citata]. […] In che modo l’energia può essere trasferita da qualcosa di completamente non fisico a un oggetto fisico? L’anima dove trae lo
sprint per avere un simile effetto? Che tipo di energia deve possedere? È misurabile? E se non lo è, perché non lo è?16.
La Churchland non ci sembra si discosti in alcun modo da Dennett, dal
momento che ne riporta per intero l’argomentazione a favore del monismo, così che ci sentiamo autorizzati a ipotizzare che ella si faccia sostenitrice della prospettiva che è propria del monismo materialistico,
ancorché non lo dica espressamente in questo volume.
Ci permettiamo di rilevare, in via solo cursoria, che la negazione sic
et simpliciter della mente risulta comunque problematica, anche se si
considerano processi basali come la percezione. Non si può non notare,
infatti, che nel trattare la percezione gli stessi scienziati usano sempre
più spesso l’espressione ciclo percettivo-inferenziale.
Ciò dimostra che la psicologia scientifica interpreta la percezione
come un processo cognitivo, così che il ruolo della mente viene comunque valorizzato.
Inoltre, la percezione si struttura non solo di processi bottom-up, cioè
guidati dai dati (che vengono elaborati dai sistemi neuro-sensoriali), ma
altresì di processi top-down, cioè guidati da categorie e concetti. E ciò
vale come dimostrazione del fatto che, senza le funzioni cognitive superiori, quali – ad esempio – il ragionamento, non potrebbe configurarsi
la percezione, che è una funzione cognitiva di livello inferiore, e, di
conseguenza, non potrebbe configurarsi il campo percettivo.
Quanto detto consente di evidenziare che l’eliminazione della mente
avrebbe conseguenze catastrofiche per la configurazione dell’esperienza in toto e non soltanto per l’emergere dell’io e dell’autocoscienza.
16
P.S. CHURCHLAND, L’io come cervello, cit., pp. 50-51.
III. Prima
esemplificazione: il riduzionismo di Patricia S. Churchland
215
3.4. L’io come explicans
Chi si fa portavoce di una prospettiva materialistica finisce per associare al materialismo il meccanicismo e infatti, subito dopo il passo citato, la Churchland aggiunge:
La spiegazione del modo in cui la novocaina blocca la trasmissione dei segnali
dolorifici è soddisfacente perché fornisce i dettagli del meccanismo, può essere
facilmente testata, e i dettagli concordano con ciò che sappiamo sperimentalmente sul dolore e sui neuroni17.
La Churchland fa valere il principio che solo una spiegazione meccanicistica è una spiegazione autenticamente scientifica e che la scienza è
l’insieme di più componenti, che devono armonizzarsi tra loro: solo
l’armonia di tali componenti può fornire al “fenomeno”, che costituisce
l’oggetto di studio, un’autentica esplicazione.
Ciò che ci permettiamo di rilevare, a questo proposito, è che l’io non
costituisce soltanto l’explicandum, ma, più radicalmente, vale come
l’explicans: è possibile, ci domandiamo, cercare di spiegare l’io, dimenticando che l’io è parte in causa in questa spiegazione?
Per rispondere alla domanda, ricordiamo che l’enunciato in terza
persona, quello che viene considerato scientifico perché “oggettivo”,
non può non richiedere almeno un enunciante, cioè un soggetto, un io.
Se ne ricava che l’affermazione “S è p” implica necessariamente,
come sua condizione di possibilità, l’affermazione “Io penso che ‘S è
p’”. Si potrebbe così dire che ogni enunciato in terza persona non può
non implicare quell’“io penso che”, il quale costituisce l’essenza
dell’enunciato in prima persona.
Per queste ragioni, a noi sembra che la postulazione dell’io sia essenziale per la formulazione di una qualunque teoria (che si esprime in
una serie di enunciati in terza persona), anche se poi si vuole affermare
che l’io si risolve nel cervello, cioè anche se poi si vuole affermare una
teoria riduzionista.
Allorché si cerca di connotare quell’io che si è postulato, lo si può
descrivere quale auto-riferimento, come abbiamo fatto in precedenza.
Ma attenzione! Qualora risultasse che l’io si risolve integralmente nel
cervello, si dovrebbe dire, allora, che è il cervello a riferirsi a sé stesso
17
Ivi, p. 51.
216
Sul riduzionismo
e, dunque, a costituirsi come un “io”. Solo in questo modo, infatti,
avrebbe senso il discorso della Churchland, il quale non può prescindere
dalla possibilità di parlare di “sé” da parte dell’“io”.
Se non che, nel momento stesso in cui il cervello diventasse un “io”,
non si potrebbe non rilevare che si distinguerebbe da quel cervello che
risulta un insieme di neuroni.
Da un punto di vista materiale, ovviamente la sostanza continuerebbe ad essere una; ma, dal punto di vista del valore e del significato,
l’emergere dell’io, dunque dell’intelligenza e dell’autocoscienza, produrrebbe un salto di qualità estremamente significativo nella materia.
Siamo così pervenuti a un nodo di notevole rilevanza: quando si afferma che il cervello diventa cosciente ed emerge l’io, non si può non
rilevare un passaggio decisivo, quello che fa di un insieme biologico un
soggetto.
Ebbene, Dennett mette radicalmente in discussione l’idea di un soggetto così inteso e lo riduce a un “centro di gravità narrativo”, come
abbiamo visto in precedenza.
Per cercare di chiarire meglio questo punto, che è cruciale, ricordiamo che egli contrappone una “sequenza soggettiva o narrativa”18 a
una “sequenza oggettiva”, che è costituita solo da stati cerebrali e afferma che il ruolo del soggetto è solo quello di filtrare la sequenza oggettiva e trasformarla in sequenza soggettiva.
Se non che, dimentica che l’affermazione della sequenza oggettiva,
proprio in quanto “affermazione”, appartiene alla narrazione, così che
non può avere alcun valore realmente oggettivo. Rileviamo che è solo
tale dimenticanza che può indurlo alla seguente conclusione (da noi già
indicata al lettore):
Secondo la mia teoria, un sé non è un punto matematico, ma un’astrazione
definita dalle miriadi di attribuzioni e interpretazioni (incluse le auto-attribuzioni e auto-interpretazioni) che hanno composto la biografia del corpo vivente
di cui è il Centro di Gravità Narrativa. […] E dov’è la cosa a cui si riferisce la
tua autorappresentazione? È ovunque tu sia. E cos’è questa cosa? È nulla di
più, e nulla di meno, che il tuo centro di gravità narrativa19.
18
19
D.C. DENNETT, Coscienza. Che cosa è?, cit., p. 157.
Ivi, pp. 474-477.
III. Prima
esemplificazione: il riduzionismo di Patricia S. Churchland
217
L’io, che Dennett preferisce sostituire con l’espressione “sé” e che –
forse riecheggiando Hume e la sua concezione dell’io, inteso come fascio di percezioni – riduce a un raccoglitore di frammenti inconsci organizzati in una sequenza narrativa, viene così risolto nella narrazione
stessa.
Il punto sul quale non ci stanchiamo di insistere può venire sintetizzato nelle seguenti domande: può esistere una narrazione senza un io
narrante? Inoltre, può esistere un “sé”, cioè una forma oggettivata,
senza un io oggettivante?
La Churchland continua a parlare di “io”, ma il suo progetto è ancora
più radicale di quello di Dennett: è quello di ridurre senza residui l’io al
cervello, come bene si evince dal titolo del suo libro. Ella, non a caso,
scrive: “È possibile che la scienza non comprenderà mai come i neuroni
producano sentimenti e pensieri”20.
Da questa sua affermazione si evince che, anche se la scienza non
riuscirà a provarlo (ma ci riuscirà, pensa la Churchland pur non dicendolo), questo è ciò che effettivamente accade e provare ciò costituisce
l’obiettivo che un vero ricercatore deve porsi.
In tal modo, non si avrà più bisogno del concetto di “io”, perché verrà
posto in luce il nesso che sussiste tra la struttura biologica e i suoi “prodotti”: sentimenti, pensieri e la stessa coscienza saranno riferiti direttamente a neuroni, senza la necessità di un “io” che funga da “mediatore”
o da “contenitore” o da “raccoglitore” di frammenti inconsci organizzati in una sequenza narrativa, come lo pensa Dennett.
E, se si continuerà a parlare di “io” e lo si dichiarerà come “distinto”
dal cervello, si farà valere l’assunto per il quale tale distinzione andrà
collocata nel cervello stesso: questo sarà, come vedremo, l’approdo
della Churchland.
3.5. Breve digressione: io empirico e io trascendentale
Poiché la Churchland risolve e dissolve interamente l’io negli stati cerebrali, prima di analizzare tale dissoluzione riteniamo opportuno svolgere una breve riflessione sul concetto di “io” a muovere dalla posizione
di Dennett, che non dissolve totalmente l’io, dal momento che continua
a parlarne, anche se in termini funzionali.
20
P.S. CHURCHLAND, L’io come cervello, cit., pp. 59.
218
Sul riduzionismo
Riferendoci a quanto egli ha affermato nel passo citato sopra, facciamo notare che “oggettivazione” e “narrazione” sono concetti equivalenti, per lo meno dal punto di vista della loro genesi. Cosi come l’oggettivato non può non richiedere una condizione oggettivante, altrettanto la narrazione non può non richiedere un io narrante.
Ebbene, ciò che abbiamo cercato di sostenere – e che vogliamo ripetere anche qui, affinché emerga con sempre maggiore chiarezza la differenza tra la nostra impostazione e quella dei riduzionisti – è che la
condizione oggettivante, od anche l’io narrante, da un lato consente di
porre l’oggettivazione, o la narrazione; dall’altro, non può non emergere oltre l’oggettivazione (narrazione) stessa: precisamente per questa
ragione la rende possibile.
Se, infatti, la condizione oggettivante venisse essa stessa oggettivata,
allora cesserebbe di valere come oggettivante. In questo senso, ogni
connotazione dell’io non esaurisce l’io nel suo valore fondante.
Proprio per questa ragione, abbiamo sovente parlato di condizione
trascendentale, per indicare che la condizione che pone i determinati
(gli oggettivati) non è oggettivabile (connotabile) essa stessa: se venisse
oggettivata (connotata), infatti, ricadrebbe nell’ordine dei determinati e
non potrebbe più valere quale condizione oggettivante.
A nostro giudizio, pertanto, è essenziale distinguere un “io empirico”
da un “io trascendentale”: il primo mantiene un vincolo con ciò su cui
emerge, dal momento che nell’unificare l’esperienza (nello svolgere la
funzione unificante) con quest’ultima intrattiene ancora una relazione;
il secondo, invece, coincide con quell’atto di coscienza che indica il
trascendimento del finito (nonché il superamento della funzione), il
quale viene colto nel limite che lo costituisce come finito21.
Se l’io empirico viene connotato, perché termine della relazione con
l’oggetto che configura l’esperienza, l’io trascendentale, di contro, non
è connotabile, costituendo la condizione di ogni connotazione, inclusa
la connotazione dell’io empirico, ed emergendo oltre la stessa relazione
che è l’esperienza.
21
Per un approfondimento di questo aspetto, che qui non trattiamo espressamente, rimandiamo a quanto detto nei paragrafi 9 e 10 del capitolo precedente.
III. Prima
esemplificazione: il riduzionismo di Patricia S. Churchland
219
3.6. Spiegazione riduzionistica versus spiegazione mentalistica
La questione trattata nella digressione non può certamente riguardare la
Churchland, la quale mette in discussione anche l’esistenza dell’io empirico, così che l’esistenza dell’io trascendentale certamente non la riguarda. Per proseguire quindi nell’indagine delle sue argomentazioni,
dobbiamo cercare di porci secondo la sua prospettiva.
Ebbene, un punto molto importante è quello in cui ella descrive l’attività principale del cervello e lo fa sostenendo che quest’ultimo compie
un’operazione di mappatura non solo dell’ambiente, ma anche delle
zone del cervello medesimo. Con questa fondamentale precisazione:
Nel caso del cervello, c’è solo il cervello. Non c’è una cosa separata, io, che
esiste in modo distinto dal mio cervello. Il mio cervello fa ciò che fanno i cervelli e non c’è un io distinto che legge le mappe del mio cervello (My brain
does what brains do; there is no separate me that reads my brain’s maps)22.
Per poi aggiungere, riferendosi a ciò che accade ordinariamente:
Comprendiamo, più o meno, come io possa leggere una mappa. Non comprendiamo quasi per nulla come io possa essere intelligente perché il mio cervello
mappa il mio mondo interno e quello esterno senza che vi sia un io distinto che
legga quelle mappe (We understand, more or less, how I can read a road map.
We do not understand nearly as well how I can be smart because my brain
maps my inner and outer worlds, absent a separate me to read those maps)23.
Il tema dell’io, distinto dalle mappe che diventano contenuti interni,
configura il tema dell’interiorità e dell’introspezione. Il senso comune
accetta incondizionatamente l’idea di un io distinto dal cervello e che
valga come un “lettore” delle mappe cerebrali.
Di contro, l’idea di un “osservatore interno”, cioè di un io distinto
dalle mappe, viene decisamente rifiutata dalla Churchland e tale rifiuto
viene compiuto sulla base del fatto che l’osservatore interno viene equiparato a un omuncolo, cioè alla presenza di qualcosa che, secondo la
concezione naturalistica e riduzionistica più radicale, produrrebbe un
regressus in indefinitum.
22
23
P.S. CHURCHLAND, L’io come cervello, cit., p. 34.
Ibidem.
220
Sul riduzionismo
Si potrebbe dire, infatti, che il problema dell’omuncolo è l’obiezione
più importante che il comportamentismo ha rivolto all’uso della spiegazione mentalistica in psicologia.
Il progetto dei riduzionisti, come sappiamo, è quello di ridurre realtà
complesse e auto-riferentesi, quali la coscienza e l’intelligenza, a realtà
semplici e inconsapevoli, perché a loro giudizio solo così si pone in
essere una spiegazione della coscienza e dell’intelligenza.
Che è come dire: per spiegare coscienza e intelligenza, si deve poggiare su realtà non coscienti e non intelligenti. Se si partisse da realtà
che già sono coscienti e intelligenti, allora la spiegazione, intesa come
passaggio da un antecedente a un conseguente, non si costituirebbe, perché il punto di arrivo coinciderebbe con il punto di partenza e, quindi,
si dovrebbe ricercare un nuovo punto di partenza: di qui il regresso.
Se non che, almeno a nostro giudizio, si rende necessario distinguere
due piani di spiegazione. Sul primo piano si dispone la spiegazione
meccanicista, per la quale la priorità temporale coincide con la priorità
causale. Per la concezione radicalmente naturalistica è accettabile solo
questo tipo di spiegazione.
Noi riteniamo, invece, che si debba riconoscere un ulteriore piano di
spiegazione, quello sul quale si dispongono le ragioni, che possono venire assimilate, da un certo punto di vista, alle cause formali di Aristotele.
V’è, insomma, un senso per il quale la coscienza è ragione dell’inconscio, ossia funge da sua condizione di possibilità (intelligibilità),
giacché solo in virtù della coscienza è possibile definire qualcosa come
inconscio: l’inconscio, infatti, viene rilevato dalla coscienza come altro
da sé stessa. In questo tipo di spiegazione, quindi, si esprime la necessità
di richiedere una condizione di intelligibilità piuttosto che un antecedente temporale.
Per chiarire ulteriormente la differenza che sussiste tra causa e ragione, potremmo aggiungere che si tratta della stessa differenza che sussiste tra cominciamento e fondamento, almeno se la ragione non viene
intesa solo in senso formale (dove qui per “formale” si intende ciò che
è ancora vincolato al “fattuale”), ma emerge in senso trascendentale.
Il cominciamento di una serie (di un sistema) di elementi apre la
serie, ma, valendo come il primo dei suoi elementi, si vincola inscindibilmente a ciò segue, così che subisce il condizionamento di ciò che
viene condizionato da esso.
III. Prima
esemplificazione: il riduzionismo di Patricia S. Churchland
221
Esso, insomma, sembra precedere temporalmente la serie, ma in effetti si pone solo se la serie si è già posta. Se la serie non fosse, esso non
potrebbe valere come cominciamento: cominciamento di cosa?
In questo caso, pertanto, ci si trova davvero in un regressus in indefinitum, che coincide proprio con il circolo del presupporre: la serie presuppone il cominciamento che presuppone la serie, all’infinito.
Quell’omuncolo, che si voleva scaricare, torna inesorabilmente a riproporsi.
V’è un unico modo per evitare il regresso all’infinito: richiedere un
fondamento che non solo sia in grado di fondare sé stesso, e per questo
possa fondare l’intera serie, ma che fondi la serie per il suo emergere
oltre di essa, ossia per l’impossibilità di ridurlo a un elemento della
serie stessa.
Ciò che proponiamo, dunque, è il concetto classico di fondamento,
che a noi sembra essenziale per legittimare ogni sistema e ogni teoria.
Il fondamento, infatti, fonda perché del fondato (sistema, teoria) coglie
il limite costitutivo e può coglierlo proprio perché lo ha trasceso. In
questo senso, e solo in questo senso, si può parlare di “legittimazione”
del fondato. La legittimazione del fondato, quindi, coincide con il suo
trascendimento.
Avere abbandonato il concetto classico di fondamento, o averlo ridotto a un concetto di fondamento vincolato – e dunque subordinato –
a ciò che viene fondato, ha comportato una serie di postulazioni che non
hanno risolto il problema della fondazione, ma hanno solo indotto a
credere di poter eludere questo tema.
Non si può, insomma, ridurre il fondamento a cominciamento senza
riproporre quel circolo che invece si intendeva eliminare. Per questa
ragione, ci sembra che solo l’intelligenza, essendo ragione autentica e
cioè atto del trascendere il limitato, possa valere quale effettivo fondamento.
Il medesimo discorso deve venire fatto per l’io. Da un certo punto di
vista, l’io è l’espressione empirica di quella che abbiamo definito “intelligenza in atto”, nel senso che di essa vale come la specificazione
determinata. In tal modo, l’io è inteso come io empirico, il quale traduce
empiricamente, dunque inevitabilmente, quell’atto che è innegabile.
Di contro, se l’io viene inteso come io trascendentale, allora è
tutt’uno con quell’intelligenza in atto (o con quell’atto di coscienza)
che intende rivolgersi alla condizione incondizionata, onde risolversi
interamente in essa.
222
Sul riduzionismo
3.7. La riduzione dell’io al cervello e dell’atto a funzione
La Churchland non valorizza l’io né l’intelligenza che lo caratterizza.
Come abbiamo visto, ella nega anche l’io empirico e la sua funzione
unificante e si limita ad affermare l’inseparabilità dell’io dal cervello.
Poiché l’inseparabilità non può non implicare la distinzione,
quest’ultima viene bensì accettata, ma con una precisazione che la mette
radicalmente in discussione: viene accettata solo come intrinseca al
cervello, secondo quanto abbiamo cominciato a vedere nel paragrafo 4.
Per approfondire il concetto di una distinzione che sia intrinseca al
cervello, rileviamo che si tratta, dunque, di una distinzione che si colloca nel cervello e che, per questa ragione, coincide con la trasformazione che si produce in esso quando compare l’intelligenza.
Con molta onestà intellettuale, la Churchland ammette di non comprendere come il cervello divenga intelligente e come l’operazione
meccanica della mappatura dia poi luogo alla coscienza del mondo o,
più in generale, di ciò che viene mappato.
A questa concezione noi contrapponiamo quanto segue: anche ammettendo che l’io non è altro dal cervello, ma è altro (distinto) solo in
esso, tuttavia non può non venire riconosciuta, allora, una soluzione di
continuità nel cervello.
Tra le operazioni meccaniche, che scandiscono i processi biologici,
e quell’atto che esprime la luce stessa dell’intelligere, insomma, non
può non esservi uno iato, un salto o, per usare un altro termine, un’emergenza.
Con questo approdo: se la Churchland dispone la distinzione all’interno del cervello, allora il cervello non può non distinguersi da sé
stesso in sé stesso; questa, in estrema sintesi, è la nostra obiezione.
E la distinzione non può non comportare che il cervello, inteso come
struttura biologica, non può risolvere e dissolvere in sé le funzioni che
vengono dispiegate, soprattutto non può risolvere in sé quell’atto che
esprime l’intenzione di verità del soggetto.
Non discutiamo che sarebbe un grave errore ipostatizzare l’atto
dell’intelligere, cioè pensarlo come una sostanza che si oppone a quella
materiale. L’errore di Cartesio, per usare le parole di Damasio24, forse
24
Cfr. A. DAMASIO, Descartes’ Error. Emotion, Reason, and the Human Brain, già citato.
III. Prima
esemplificazione: il riduzionismo di Patricia S. Churchland
223
è stato proprio quello di intendere l’atto di pensiero come una res, una
res che pensa.
Di contro, a nostro giudizio, anche le attività mentali, intese in senso
generale e generico, non vanno pensate in questa forma, appunto sostantivate, ma nella forma di processi, di funzioni, che si accompagnano
sempre alla struttura biologica di parti del sistema nervoso centrale, ma
senza risolversi integralmente in essa.
È questa risoluzione, che vale come dissoluzione, del mentale nel
biologico-materiale che riteniamo non si possa accettare. Tanto meno
riteniamo che all’aspetto biologico-materiale possa venire ridotto l’atto
dell’intelligere.
Siamo così ritornati a un nodo cruciale, almeno per il punto di vista
che intendiamo sostenere. Il nodo può venire espresso anche così: se
l’io non può venire ridotto al suo correlato biologico, è altresì da aggiungere che l’io come atto non può venire ridotto all’io come funzione.
Per chiarire meglio questa seconda irriducibilità, che è del tutto
estranea al discorso della Churchland ma che per noi riveste un ruolo
essenziale, riprendiamo il nostro argomento da questo punto: senza far
valere il dualismo rigido, che è proprio della concezione cognitivista
classica o simbolica, torniamo a riflettere sulla distinzione che può venire ravvisata tra i processi cerebrali e i processi mentali.
Orbene, tale distinzione viene decisamente contestata dai sostenitori
del monismo materialista, e in ciò consiste il loro radicale riduzionismo,
ma a noi sembra difficile da negare. Per riflettere sull’inintelligibilità
della riduzione dei processi mentali a processi cerebrali, procediamo
svolgendo un paio di considerazioni, che in precedenza sono state solo
indicate in forma rapida.
La prima considerazione è questa: i processi cerebrali si fondano unicamente sul principio di causalità, così che di essi possono venire ricercate solo leggi. Di contro, tra i processi mentali va annoverato anche
il pensiero, il quale si basa su nessi logici e non su nessi causali, così
che di esso vanno ricercate regole, piuttosto che leggi.
Come spiegare, allora, i nessi logici, e le regole che ne conseguono,
se tutto derivasse solo dal cervello e dai nessi causali che sono alla base
dei meccanismi biologici?
La seconda considerazione prende avvio dal caso di coloro che sostengono la teoria avversa al riduzionismo. Se la scelta anti-riduzionista
viene interpretata alla luce della concezione riduzionista, allora si dovrà
dire che gli anti-riduzionisti, dal momento che ogni stato mentale è
224
Sul riduzionismo
null’altro che uno stato fisico-cerebrale – come sostengono appunto i
riduzionisti –, presentano stati cerebrali fra i quali deve esservi anche
quello che corrisponde alla convinzione che la teoria anti-riduzionista
sia quella giusta. Essi non ignorano, tuttavia, la teoria riduzionista e,
proprio perché la conoscono, la rifiutano.
Nel loro cervello, quindi, ci sono – per così dire – almeno tre stati:
quello che corrisponde alla teoria riduzionista; quello che corrisponde
alla teoria anti-riduzionista e quello che coincide con la convinzione che
sia giusta solo la seconda.
Ma come spiegare quest’ultimo stato cerebrale? Come spiegare,
cioè, la convinzione che la teoria anti-riduzionista sia quella giusta, se
tutto dipendesse effettivamente solo da stati cerebrali?
Nel cervello di queste persone, secondo i riduzionisti, dovrebbero
sussistere tanto lo stato cerebrale coincidente con la teoria riduzionista
quanto lo stato cerebrale coincidente con la teoria anti-riduzionista.
Come spiegare, allora, il prevalere della convinzione che sia vera solo
la teoria anti-riduzionista? Se si accetta che tutto dipende solo dalla presenza degli stati cerebrali, come spiegare l’emergere del “valore” rappresentato dalla verità?
Se costoro, inoltre, errano, come sostengono i riduzionisti, come
spiegare il loro errore? Per quale ragione – questa è la domanda fondamentale – chi erra è indotto a scegliere lo stato cerebrale che coincide
con la teoria anti-riduzionista?
Anche i riduzionisti radicali, come la Churchland, non possono sottrarsi alla necessità di giustificare le scelte che vengono compiute. Ma
come potrebbero spiegarle e giustificarle se, facendo riferimento a una
concezione rigidamente meccanicista, non possono non pervenire, in
ultima istanza, all’eliminazione dell’io e della coscienza? Una scelta inconsapevole (inconscia) è ancora una vera scelta oppure è una meccanica eliminazione di opzioni alternative?
Non sono sufficienti, insomma, le cause materiali ed efficienti per
fornire una spiegazione accettabile del sostegno offerto a una qualche
teoria. Si dovrà, piuttosto, fare ricorso a ragioni che spieghino la scelta
per una teoria piuttosto che per la teoria contraria e, inoltre, si dovrà
riconoscere che il valore di verità indica qualcosa che non si riduce alla
presenza o meno di uno stato cerebrale.
Il valore di verità non può non vincolarsi all’intenzione che anima la
coscienza, la quale non può venire ridotta né a un insieme di stati cere-
III. Prima
esemplificazione: il riduzionismo di Patricia S. Churchland
225
brali né a un insieme di stati connotanti il soggetto empirico, dal momento che essa è innanzi tutto ricerca di verità, tensione orientata al
valore.
In questo senso l’io come atto non è riducibile all’io come funzione.
Il primo io, che è poi l’io trascendentale, coincide con l’intentio veritatis
e dunque, esprimendo l’intenzione di essere uno con la verità, fa valere
un senso di unità che trascende l’unificazione e la relazione.
Di contro il secondo io, che è poi l’io empirico, coincide con la funzione unificante, così che si risolve nell’attività e, pertanto, non emerge
oltre la relazione (di agente e agito) né, quindi, oltre l’esperienza.
3.8. Valore e significato dell’io
Il problema della scelta – che rinvia, in ultima istanza, al tema della
verità – non può non riproporre il problema dell’io.
Ecco, per cercare di riassumere il discorso svolto e chiarirlo ulteriormente, ripartiamo da questo punto: il soggetto non può venire colto
nella sua “soggettività” se pensato come vincolato soltanto a stati cerebrali o, più in generale, a stati fisici. Esso, infatti, non può non essere in
grado di esprimere anche una capacità riflessiva e critica che spieghi le
sue scelte in virtù di ragioni e non soltanto di cause.
Potremmo dire che il problema dell’io, ma di un io che venga inteso
ancora come un io empirico – dal quale non si può non ripartire, se si
intende svolgere un argomento che possa venire compreso anche dai
riduzionisti, perché accettato da essi nella configurazione con cui lo si
presenta –, si pone implicando almeno due aspetti.
Da un lato, si deve spiegare come da strutture inintelligenti possa
originarsi una funzione intelligente, genesi di ogni scelta; dall’altro, si
deve sottolineare con forza che la funzione intelligente non è una funzione ricorsiva, cioè un’operazione meccanica di calcolo, ma una funzione riflessiva, cioè un interrogarsi sulla consistenza degli argomenti e
delle teorie: un sottoporre, cioè, a critica il “dato” nonché la stessa “critica”, in modo tale che la funzione riflessiva risulta anche “auto-critica”.
Per avviarci alla conclusione dell’indagine condotta sul testo, intendiamo proporre la seguente domanda, che può avere carattere riassuntivo perché torna sul nodo cruciale che la Churchland propone all’attenzione del lettore: poiché ella afferma a più riprese la dipendenza unilaterale dell’io dal cervello (fino al punto che dell’io si arriva a dubitare), come spiegare, allora, l’emergere di “proprietà” (“qualità”) – che
226
Sul riduzionismo
caratterizzano l’essere umano e il suo comportamento – che non sono
meccaniche e che non possono venire giustificate mediante il principio
causale, dal momento che debbono venire ricondotte a significati, a valori e, più in generale, a ragioni?
Riprendiamo allora quanto ci propone il testo, per cercare di capire
meglio. La Churchland irride il dualismo di chi fa riferimento a una
realtà che non sia fisica e definisce “anima (Soul)” questa pseudo-realtà:
Si riteneva che l’anima fosse indivisibile, e che non fosse possibile spezzarla
come un gheriglio di noce. Ma ecco che i risultati sugli split brain permettevano a tutti di vedere che, se si separavano gli emisferi cerebrali, si separavano
anche gli stati mentali. Questi risultati rappresentavano un forte sostegno
all’ipotesi che gli stati mentali fossero stati fisici del cervello stesso, e non stati
dell’anima non fisica25.
A noi sembra che il punto non sia sostenere l’esistenza dell’anima, nel
senso di un principio non materiale che venga pensato come una sostanza al pari del cervello. Il punto è un altro e può venire tradotto in
questa domanda: dimostrare che gli stati mentali dipendono dagli stati
fisici del cervello equivale a dimostrare che gli stati mentali sono stati
fisici del cervello?
Ci colleghiamo, in tal modo, con quanto abbiamo già detto. A nostro
giudizio la funzione non può venire ridotta alla struttura biologica. E ci
chiediamo: perché non riconoscere che gli stati fisici hanno una loro
specifica struttura alla quale si associa una specifica funzione, senza
che la seconda debba venire risolta/dissolta nella prima?
Concordiamo sul fatto che il funzionalismo, in particolare il funzionalismo computazionale, abbia valorizzato a tal punto gli stati funzionali da assolutizzarli e da dimenticare il ruolo e l’importanza degli stati
fisici che ne sono alla base.
Tuttavia, ci sembra poco sensato correggere un errore con un altro
errore, quello che, a nostro giudizio, si compie nell’assolutizzare l’universo fisico-materiale.
Se si evita tale assolutizzazione, si potrà riconoscere che l’io costituisce la funzione psichica fondamentale. Proprio in virtù di questa funzione, in cui si essenzializza l’io empirico, è possibile infatti dare un
senso unitario all’esperienza nonché elaborare ogni teoria, inclusa la
teoria riduzionistica.
25
P.S. CHURCHLAND, L’io come cervello, cit., p. 50.
III. Prima
esemplificazione: il riduzionismo di Patricia S. Churchland
227
Che è come dire: la funzione unificante si esprime anche nella funzione riflessiva, la quale, a sua volta, si traduce nella funzione critica e,
poi, nella funzione auto-critica.
Ebbene, tali funzioni non sono meccaniche precisamente per la ragione che non si costituiscono a muovere da assunti e in conformità a
regole, bensì discutono il valore dell’assunto stesso nonché delle regole
che stanno alla base delle procedure, e riescono a compiere questa attività critica per la ragione che degli assunti e delle regole colgono il
limite.
Cogliere il limite delle cose ci sembra la qualità più rilevante dell’intelligenza (coscienza, io), e per cogliere il limite lo si deve oltrepassare,
cioè ci si deve disporre su un diverso livello rispetto a ciò che viene
limitato.
Ed è proprio a questo punto che torna a imporsi l’irriducibilità
dell’io trascendentale all’io empirico. Se, infatti, l’io empirico si dispone a un meta-livello rispetto ai contenuti di esperienza, di contro l’io
trascendentale non può venire considerato una posizione empirica (dunque non si dispone affatto), precisamente per la ragione che vale come
atto. Un atto che non può non venire richiesto, se l’io empirico diventa
esso stesso oggetto di indagine.
L’io empirico, quindi, è in rapporto con l’esperienza e sull’esperienza esercita la sua funzione. Di contro, l’io trascendentale emerge
oltre l’esperienza stessa, perché l’atto è ablativo: l’atto di coscienza,
cogliendo il limite delle determinazioni, toglie la loro pretesa di essere
veramente, così che anche il vincolo empirico viene necessariamente
trasceso.
Da ciò consegue che anche il superamento del limite va inteso in un
duplice senso: come un processo che prende avvio proprio dal limite
che viene superato, così che al limite il processo permane comunque
vincolato; oppure come atto, che coincide con il toglimento del limite
nell’atto stesso del suo venire posto, così che ogni dipendenza dal limite
viene meno. Viene meno la dipendenza dal limite nonché da ciò che è
posto dal limite e, cioè, viene meno la dipendenza dal limitato, dal finito.
L’io empirico, insomma, supera bensì il limite, ma al limite permane
vincolato, stante che si pone in forza di quei contenuti che mantengono
la relazione all’esperienza. Relazione oltre la quale, invece, emerge l’io
trascendentale, nel suo valere quale intenzione che alla verità si orienta
e nella verità si compie.
228
Sul riduzionismo
E tuttavia, non si può evitare di riconoscere che v’è un senso per il
quale anche l’io empirico si pone emergendo: esso emerge oltre la dimensione fisico-materiale e oltre il carattere meccanico che pervade tale
dimensione.
A questo proposito, gioverà sottolineare che, per esprimere la capacità dell’io di oltrepassare la cognizione, intesa appunto nel suo senso
meccanico, tipico dei processi automatici (inconsci), si è parlato, da
parte di numerosi studiosi, di meta-cognizione, la quale è stata pensata
come disponentesi su di un livello ulteriore rispetto a quello proprio
della cognizione.
Se non che, coloro che hanno riconosciuto il ruolo della meta-cognizione, molto spesso hanno continuato ad attribuirle un carattere meccanico, perché non hanno colto che il suo valore è tutt’uno con il suo essere coscienza riflessiva e critica.
Il punto è che la concezione scientifica della mente non può riconoscere il pensiero riflessivo, perché non riesce ad esprimerlo mediante
una procedura computabile e, dunque, mediante una forma che sia operazionalmente determinabile.
In tal modo, però, la concezione scientifica della mente ha finito per
perdere la qualità fondamentale dell’io: l’emergere oltre la dimensione
meccanica, emergenza che riguarda l’io empirico e, a fortiori, l’io trascendentale.
3.9. Procedure meccaniche e intenzione di verità
Se l’intelligenza (l’io) non emergesse oltre la dimensione meccanica,
come potrebbe rilevarla e connotarla come tale? Se tutto fosse meccanico, che senso avrebbe tale connotazione?
Se si connota “il meccanico”, riconoscendolo, è perché lo si contrappone a qualcosa che non è meccanico e che, inoltre, consente proprio
di rilevare il meccanico, perché del meccanico costituisce quella differenza che è essenziale al suo identificarsi come meccanico.
L’ipotesi che esistano solo procedure meccaniche è una gabbia anche per coloro che sostengono questa ipotesi. Quando la Churchland
spiega il modo in cui la novocaina blocca la trasmissione dei segnali
dolorifici, come abbiamo visto, ella sottolinea che tale spiegazione è
soddisfacente non solo perché fornisce i dettagli del meccanismo, ma
III. Prima
esemplificazione: il riduzionismo di Patricia S. Churchland
229
perché può essere facilmente testata e perché i dettagli concordano con
ciò che sappiamo sperimentalmente sul dolore e sui neuroni26.
Se non che, il problema non sta nel fatto che le spiegazioni meccanicistiche non sono sufficientemente precise; esse lo sono e non è questa
la critica che va loro rivolta. La critica concerne il fatto che esse non
possono venire considerate le uniche, come la scienza vorrebbe, e pertanto non possono venire assolutizzate.
Le spiegazioni meccanicistiche vengono in genere contrapposte alle
spiegazioni ermeneutiche: le prime si fondano su cause e vanno alla
ricerca di leggi necessarie; le seconde – che vengono considerate estranee all’ambito proprio di una scienza rigorosa – si fondano su significati
e valori e vanno alla ricerca di interpretazioni possibili.
A noi sembra di poter dire che esiste una classe ulteriore di spiegazioni: ci riferiamo alle spiegazioni che si fondano su ragioni e per “ragione” intendiamo, come detto, la “causa formale” di Aristotele27.
Siamo così pervenuti al nodo più importante. Se la causa formale
viene colta nell’essenza ultima che la contraddistingue, essa si rivela
come “intenzione”. L’intenzione costituisce l’espressione più significativa del concetto di causa formale, perché della ragione essa coglie il
senso autentico: il ricercare la verità.
Più precisamente, si potrebbe dire che l’intenzione costituisce la genesi dell’attività dell’io empirico, se all’intenzione si attribuisce il significato di “movente dell’azione”. Se, invece, l’intenzione viene colta
nel suo autentico “valore”, allora essa emerge come intentio veritatis e
coincide precisamente con l’atto in virtù di cui l’io trascendentale si
toglie nella verità che intenziona.
La consapevolezza espressa rende ragione, innanzi tutto, dell’impossibilità della valorizzazione della semplice spiegazione meccanicistica.
Valorizzare solo tale spiegazione, infatti, comporta l’eliminazione delle
spiegazioni intenzionali, con la conseguenza che anche il ruolo del soggetto (inteso in senso empirico) viene sostanzialmente misconosciuto.
A nostro giudizio, questo misconoscimento non produce una crescita
della scienza, ma al contrario un suo impoverimento.
26
Cfr. ivi, p. 51.
Molti studiosi includono questo terzo tipo di spiegazione nelle spiegazioni ermeneutiche.
Per un approfondimento del concetto di “spiegazione” in ambito psicologico, si rinvia al capitolo quarto di questa Parte Seconda.
27
230
Sul riduzionismo
In secondo luogo, la consapevolezza fa sì che la differenza tra condizionamento empirico e condizione trascendentale venga sempre tenuta presente, per la rilevanza che riveste per la piena comprensione
della soggettività, la quale è descritta non soltanto da ciò che la limita
empiricamente, ma soprattutto dal fine verso il quale essa si orienta,
ossia dalla sua destinazione.
Quando parliamo di condizionamento empirico, ci riferiamo appunto
alle cause materiali ed efficienti di Aristotele. Di contro, quando parliamo di condizione trascendentale ci riferiamo al fatto che tanto la funzione unificante quanto quella riflessiva valgono come funzioni solo in
quanto si fondano su un valore e sono orientate al valore.
Nel caso della funzione unificante, ce lo dice ancora Aristotele, il
valore fondante è l’unità: “In effetti, noi conosciamo tutte le cose solo
in quanto esista qualcosa che è uno, identico e universale”28.
Nel caso, invece, della funzione riflessiva, a illuminarci è Hegel, con
quel famoso passo della Fenomenologia che abbiamo più volte citato:
Ma la coscienza è per sé stessa il suo concetto, ed è quindi, immediatamente,
l’atto del sorpassare il limitato (das Hinausgehen über das Beschränkte), e,
poiché questo limitato le appartiene, del sorpassare sé stessa (über sich selbst)29.
Ebbene, la coscienza, che coincide con la funzione riflessiva e critica,
è l’atto del superare il limitato perché, colta nella sua essenza più pura,
essa tende a qualcosa che non sia limitato, ma assoluto.
Inoltre, è da dire che, così come la destinazione del finito, sempre
per Hegel, non può che essere l’infinito, altrettanto il relativo può venire
colto nel limite che lo connota solo in virtù dell’assoluto:
Qualcosa viene saputo come limitazione, come difetto, […] solo in quanto, al
tempo stesso, si è già oltre di esso. […] Perciò va considerata soltanto come
mancanza di consapevolezza non capire che proprio la definizione di qualcosa
come finito o limitato contiene la dimostrazione della presenza effettivamente
reale dell’infinito, del non limitato30.
28
ARISTOTELE, Metafisica., III, 4, 999 a 26; trad. it. cit., p. 151.
G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 72.
30
G.W.F. HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Parte Prima, La
scienza della logica, cit., p. 223.
29
III. Prima
esemplificazione: il riduzionismo di Patricia S. Churchland
231
La “presenza effettivamente reale” è il fondamento stesso, ossia quella
condizione incondizionata, dunque assoluta, che costituisce il valore
della funzione unificante nonché della funzione riflessiva e che rappresenta l’essenza stessa dell’io.
In virtù di tale essenza, che è poi il tendere alla verità, l’io non si
riduce alla dimensione empirica, che lo vincola alle condizionanti interne ed esterne che configurano l’universo della sua esperienza, ma
emerge come io trascendentale, perché oltre quelle condizionanti esso
si proietta.
3.10. Per concludere: io, coscienza, sapere
Come tradurre la tematica della Churchland, concernente soprattutto
l’io, nei termini della coscienza e del sapere?
A noi sembra di poter dire che la coscienza è sapere e si fonda
sull’autocoscienza, cioè sul sapere di sapere. L’autocoscienza, tuttavia,
non indica una dualità, se non formalmente.
Dal punto di vista teoretico-concettuale, infatti, il sapere è trasparente a sé stesso, ossia è un sapersi. Quest’ultimo non va inteso, dunque, come attività, che si configura come la dualità di un sapere e di un
saputo, ma come atto.
Proprio in quanto atto, il sapere è in sé unitario o, in altri termini, è
a sé evidente. È precisamente l’atto del sapere che fa del sapere un immediato sapersi. Se, infatti, il sapere non sapesse di essere sapere, non
sarebbe sapere affatto.
Coloro che parlano di “accesso introspettivo”31 negano il sapere
come atto e lo dispongono nella forma di uno spazio, lo spazio dell’autocoscienza. La discussione, a parere di costoro, si riduce al tema se il
soggetto possa entrare o meno, in modo privilegiato, all’interno di questo spazio.
31
Scrive Marraffa: «Il tumultuoso sviluppo delle scienze psicologiche ha imposto un radicale passo indietro rispetto alla tesi dell’autotrasparenza della mente. Oggi l’inaccessibilità di
una moltitudine di fenomeni psichici è un dato largamente condiviso; e ciò ha spinto alcuni a
domandarsi se, ed eventualmente in quale misura, si dia realmente un accesso introspettivo»
(M. MARRAFFA, «La coscienza introspettiva: senso interno o interpretazione?», cit., p. 367. La
presenza a sé del sapere viene scambiata per la facoltà della coscienza di avere accesso ai propri
stati interni, cioè ai propri contenuti, così che si dà per scontato che la coscienza sia una qualunque attività, giacché non se ne coglie il valore attuale.
232
Sul riduzionismo
Il sapere, pertanto, è pensato come un sistema di rilevamento, in
grado di rilevare le presenze esterne nonché le presenze rilevabili nel
campo della cosiddetta interiorità.
Sosteniamo che, anche accettando l’idea che la coscienza (il sapere)
valga come sistema di rilevamento, non si può non riconoscere che dovrebbe trattarsi di un sistema che innanzi tutto rileva sé stesso e, soltanto in ragione del fatto che è il proprio rilevarsi, può rilevare ogni
altro da sé.
Se il sapere non sapesse di “essere sapere”, come potrebbe sapere
qualcosa? E, se non sapesse “cosa è sapere”, come potrebbe sapere di
sapere?
Il sapere è dunque unitario e originario, se è inteso come ulteriore
rispetto al “sapere formale”, che è ancora legato, come detto, al “fattuale”32. Unitario, perché atto. Originario, perché non si dà passaggio
dal non sapere al sapere, dal momento che il sapere è in atto come sapere a prescindere dai suoi contenuti, i quali possono valere come contenuti “del” sapere solo perché il sapere è già in sé sapere prima di essi,
cioè prima che essi vengano saputi.
Per indicare tale sapere, si potrebbe usare l’espressione greca nous,
fatta valere, come sappiamo, da Platone e da Aristotele. A nostro parere,
però, il nous non va inteso nel senso dell’atto intuitivo, perché dovrebbe
indicare, piuttosto, l’atto di sapere, cioè l’autentico atto intellettivo,
volto ad esprimere quella visione intellettuale che fa del sapere il proprio sapersi.
Per le ragioni addotte, la dualità, che sussiste tra sapere e saputo e
che riassume in sé ogni dualità e, quindi, la molteplicità in quanto tale,
non può non togliersi nell’unità dell’atto di sapere, che è condizione di
ogni singolo contenuto del sapere e che di ogni singolo contenuto vale
come trascendimento in atto.
Precisamente in questo senso l’io è trascendentale: esso vale, essenzialmente, come trascendimento in atto dell’io empirico, che solo in
virtù di questo trascendimento può venire colto nel suo limite e, quindi,
può venire saputo.
32
Rileviamo che anche la causa, se definita “formale”, va intesa sotto una duplice prospettiva: da un lato, vale come “ragione” e quindi non è assimilabile alle cause materiali ed efficienti, emergendo oltre di esse; dall’altro, in quanto vincolata a ciò di cui è ragione, mantiene
carattere “formale”, nel senso del vincolarsi ancora al “fattuale”, cioè al “determinato”, all’“empirico”.
Capitolo IV
Seconda esemplificazione:
il riduzionismo nella spiegazione psicologica
dei comportamenti e il suo superamento
4.1. Spiegazione riduzionista e non riduzionista in psicologia: annotazioni preliminari
Per riprendere il tema della “spiegazione”, che tanta importanza riveste
nell’epistemologia contemporanea, consideriamo la spiegazione che
vige in ambito psicologico, della quale abbiamo iniziato a occuparci nel
precedente capitolo.
Tale spiegazione è di grande interesse, non soltanto perché implica
aspetti epistemologici di notevole rilievo, ma anche perché postula la
definizione del modello di mente che si intende assumere e a muovere
dal quale si configura un corrispondente modello esplicativo.
In questa esemplificazione, ci concentriamo sul tema della spiegazione delle azioni e dei comportamenti e ci proponiamo l’obiettivo di
confrontare il modello di spiegazione meccanicistico, che da molti studiosi e ricercatori è considerato l’unico modello effettivamente scientifico, ancorché configuri una spiegazione decisamente riduzionistica
(come abbiamo a più riprese sottolineato in precedenza), con un modello di spiegazione non riduzionistico.
Il modello non riduzionistico comprende tanto la spiegazione ermeneutica quanto quella funzionalista. Si tratta di due spiegazioni che si
fondano su “ragioni”, piuttosto che su “cause” e, pertanto, possono venire assimilate. La spiegazione ermeneutico-funzionalista1, inoltre, ri
1
In questo capitolo abbiamo inserito la spiegazione che si fonda su ragioni all’interno delle
spiegazioni ermeneutico-funzionalistiche; nel precedente, invece, la spiegazione che rintraccia
ragioni è stata collocata a un livello ulteriore. Qui a noi interessa la contrapposizione tra spiegazioni riduzionistiche e non riduzionistiche e per questo non è necessaria la specificazione
fatta valere in precedenza, se non nel senso che l’essenza delle spiegazioni non riduzionistiche
è rappresentata dalla spiegazione intenzionale, la quale dunque deve valere come disponentesi
al livello concettualmente più elevato (come era emerso nel capitolo precedente).
233
234
Sul riduzionismo
veste per noi grande valore per il fatto che include la spiegazione intenzionale, la quale è precisamente quella che assegna al soggetto il ruolo
che gli compete.
Non di meno, si potrebbe dire che la spiegazione ermeneutica valorizza il ruolo del significato che un’azione o un comportamento rivestono per un soggetto; la spiegazione funzionalista, invece, valorizza il
fine che con l’azione o il comportamento si intende raggiungere.
Nell’un caso come nell’altro si tratta di spiegazioni che mettono al centro il soggetto e la sua intenzione, così che si propongono come spiegazioni decisamente non riduzionistiche.
Il nostro progetto può venire così presentato: a muovere dalla
riflessione teorica su alcuni aspetti epistemologici concernenti il tema
della spiegazione, in generale, e della spiegazione psicologica dei
comportamenti, in particolare, cercheremo di pervenire alla formulazione di un modello di spiegazione che definiamo “psico-logico” o “logico-proposizionale”, il quale può valere come un modello integrato e,
quindi, può venire considerato il superamento più autentico del modello
riduzionistico.
In via preliminare, è opportuno ricordare che, se la psicologia intende valere come una scienza naturale e il suo progetto fondamentale
è quello di naturalizzare la mente, allora essa usa una spiegazione di
tipo causale e intende la causa in senso fisico-materiale.
Se, di contro, essa cerca ragioni più che cause o, detto con altre parole, significati, allora la spiegazione assume i caratteri della comprensione e della interpretazione ed è proprio questa spiegazione che risulta
non riduzionistica.
Per delineare la cornice di riferimento teorico, all’interno della quale
si colloca il tema della spiegazione psicologica, va detto che la distinzione tra “cause” e “ragioni”, a proposito di un’azione, è stata individuata anche da Wittgenstein2, che contestava il riduzionismo psicologista.
La contrapposizione tra scienze della natura (Naturwissenschaften)
e scienze dello spirito (Geisteswissenschaften), del resto, è stata indicata
2
Cfr. L. WITTGENSTEIN, The Blue and the Brown Books, Blackwell, Oxford 1958; trad it.
di A.G. Conte, Libro blu e libro marrone, Einaudi, Torino 1983.
IV. Seconda esemplificazione: il riduzionismo nella spiegazione psicologica […]
235
anche da Dilthey3 e da Weber4, che contrapponevano lo spiegare (Erklären) al comprendere (Verstehen).
In effetti, la necessità di distinguere il “regno della natura”, dove vigono solo leggi necessarie, dal “regno dello spirito”, dove vige la libertà
del soggetto, può venire fatta risalire allo stesso Kant, come ci ricorda
efficacemente Engel:
Si riconoscerà facilmente l’origine kantiana di questo argomento, che si può
chiamare argomento dei due regni (c’è una frontiera invalicabile fra il regno
della natura e quello della libertà) o argomento ermeneutico (le scienze dell’interpretazione e della comprensione non possono fondarsi sugli stessi principi
delle scienze naturali). La psicologia si è imbattuta in questo argomento da
quando ha iniziato a costituirsi come scienza, e in particolare a partire dal momento in cui nel corso del XIX secolo ha cominciato, come altre discipline
quali la sociologia, ad applicare le risorse numeriche delle statistiche ai dati
della vita umana5.
Il tema della spiegazione dell’azione, come si evince da quello che
siamo andati dicendo, è centrale tanto in ambito filosofico quanto in
ambito psicologico e il ruolo dell’intenzione è particolarmente rilevante, anche se una concezione naturalistica e riduzionistica estremizzata approda alla sua radicale negazione.
4.2. Azione intenzionale e sillogismo pratico
Proprio sulla questione dell’azione intenzionale hanno attentamente riflettuto, a partire dalla fine degli anni Cinquanta, alcuni filosofi analitici, e in particolare Anscombe6 e Melden7. Come fa notare Castellani8,
3
Cfr. W. DILTHEY, Ideen über eine beschreibende und zergliedernde Psychologie,
Sitzungsberichte der Königlich Preussischen Akademie der Wissenschaften zu Berlin, LII, LIII,
Verlag der Königlichen Akademie der Wissenschaften, Berlin 1894; trad. it. «Idee su una psicologia descrittiva e analitica», in A. MARINI (a cura di), Wilhelm Dilthey. Per la fondazione
delle scienze dello spirito. Scritti editi e inediti (1860-1896), Franco Angeli, Milano 1985, pp.
351-446.
4
Cfr. M. WEBER, Gesammelte Aufsätze zur Wissenschaftslehre, Mohr, Tübingen 1922; trad.
it. a cura di P. Rossi, Il metodo delle scienze storico sociali, Einaudi, Torino 1958.
5
P. ENGEL, Philosophie et psychologie, Édition Gallimard, Paris 1996; trad. it. di E. Paganini, Filosofia e psicologia, Einaudi, Torino 2000, pp. 13-14.
6
Cfr. G.E.M. ANSCOMBE, Intention, Basil Blackwell, Oxford 1957.
7
Cfr. A.I. MELDEN, Free Action, Routledge and Kegan Paul, London 1961.
8
Cfr. F. CASTELLANI, Modelli di ragionamento pratico, I.S.U. Università Cattolica, Milano
2000.
236
Sul riduzionismo
l’indagine si è caratterizzata per l’uso che è stato compiuto del sillogismo pratico di Aristotele quale strumento di analisi dell’azione intenzionale.
Ebbene, a noi interessa qui richiamare che, in tale sillogismo, la premessa maggiore, che enuncia il fine cui il soggetto aspira, è seguita da
una premessa minore, che indica i mezzi per raggiungerlo, e da una
conclusione, che enuncia l’azione diretta al conseguimento di quel fine.
Il sillogismo pratico, insomma, definisce un’azione in forza della ragione che la ispira e che è indicata nelle premesse. Anscombe precisa
che il ragionamento, che conduce a un’azione, consente di inferire che
cosa voleva ottenere la persona che compie tale ragionamento, così che
il sillogismo pratico – ed è questo il cuore della nostra riflessione – consente di ricostruire le ragioni dell’azione.
Von Wright9 muove dalle stesse posizioni della Anscombe, ma fa un
passo avanti e propone il sillogismo pratico o inferenza pratica come
modello di spiegazione dell’azione in alternativa al modello nomologico-inferenziale o inferenza teorica.
Mentre nel modello nomologico compare una legge generale, ottenuta per via induttiva (cioè mediante un’osservazione empirica ripetuta
e un processo di generalizzazione), dalla quale si deduce, di contro nel
sillogismo pratico si evita la riduzione dell’azione umana al comportamento di un qualsiasi oggetto naturale nomicamente regolato e se ne
riconoscono l’innegabile peculiarità e specificità, senza che questo pregiudichi la necessità della conclusione in ordine alle premesse.
Per il suo valore non riduzionistico e rispettoso della specificità
dell’azione, Di Bernardo10 riprende l’inferenza pratica e ne fornisce una
ricostruzione ermeneutica, giacché la usa nell’ambito delle scienze
umane e sociali per comprendere il senso che l’agente conferisce alla
sua azione e, dunque, per intendere la ragione che spiega l’azione medesima.
In questa prospettiva, l’azione costituisce il vero oggetto delle
scienze umane e sociali e non può venire intesa in senso riduzionistico,
proprio per la ragione che chi agisce dà alla propria azione un senso
specifico, il quale si configura a muovere dalla sua concezione del
9
Cfr. G.H. VON WRIGHT, Explanation and Understanding, Cornell University Press, Ithaca,
New York 1971; trad. it. di G. Di Bernardo, Spiegazione e comprensione, il Mulino, Bologna
1988.
10
Cfr. G. DI BERNARDO, L’indagine del mondo sociale, Franco Angeli, Milano 1979; Id.,
Le regole dell’azione sociale, il Saggiatore, Milano 1983.
IV. Seconda esemplificazione: il riduzionismo nella spiegazione psicologica […]
237
mondo e, dunque, a muovere dai valori, dai progetti, dalle norme, dalle
regole, dalle convenzioni, dai desideri, dalle credenze, dalle conoscenze
e, soprattutto, dai fini e dalle intenzioni dell’agente, cioè da tutti quegli
elementi che vanno oltre la dimensione empirico-fattuale e che fanno
riferimento alla dimensione valoriale e intenzionale.
4.3. Modelli psicologici di causalità
Il nostro obiettivo è quello di mostrare come la riduzione della spiegazione psicologica alla sua forma fisicalista o meccanicista abbia come
conseguenza una duplice negazione: da un lato, la negazione della specificità della psicologia come scienza distinta, per esempio, dalla neurobiologia; dall’altro, come detto, la negazione del ruolo che l’intenzione deve avere nell’esplicazione di azioni e comportamenti.
È da rilevare, inoltre, che la spiegazione dei comportamenti viene
affrontata in ambito psicologico anche mediante l’individuazione di
modelli psicologici di causalità, i quali si sviluppano all’interno di
quell’area di studi che prende il nome di social cognition e trovano nella
teoria dell’attribuzione di Heider11 una prima espressione molto significativa.
Tale teoria, come è noto, si incentra sia sul concetto di “formazione
unitaria”, che costituisce il risultato di un processo in cui causa ed effetto, o attore e azione, sono visti come un’unità causale, sia sul concetto di “persona”, intesa come “prototipo delle origini”, nel senso che
è proprio con Heider che, nonostante il comportamentismo ancora imperante, si configura un’autentica rivalutazione del soggetto, pensato
non più come un servo-meccanismo, ma come l’agente della propria
condotta.
A questo proposito, si potrebbe affermare, riprendendo le parole di
Zamparini che riflette sul tema dei modelli di causalità, quanto segue:
Lo snodo, anch’esso epocale per la psicologia, che ha reso possibile affrontare
questo campo d’indagine così complesso è il passaggio dal comportamentismo
al cognitivismo. […] Con l’avvento del cognitivismo il soggetto non è più considerato come un soggetto passivo, in balia delle stimolazioni esterne ma anzi
11
Cfr. F. HEIDER, The Psychology of Interpersonal Relations, Wiley, New York 1958.
238
Sul riduzionismo
come un soggetto attivo, per usare un’altra metafora “una macchina per inferire”12.
Se, da un lato, il processo della spiegazione, come cercheremo di
mostrare, si fonda proprio su un’inferenza implicita ed è volto alla sua
esplicitazione, dall’altro la teoria dell’attribuzione poggia precisamente
sulla distinzione tra fattori personali e fattori ambientali, distinzione
che, a sua volta, si fonda sul concetto di intenzionalità. Quest’ultima,
facendo ancora ricorso alle parole di Zamparini,
è considerata la dimensione centrale della causalità personale in quanto si
caratterizza per l’invarianza del fine e per la variabilità dei mezzi, al contrario
della causazione impersonale o ambientale, che genera, in situazioni diverse,
effetti diversi13.
Su questo tema riflettono anche Jones e Davis14, i quali, a muovere dai
concetti individuati da Heider, si pongono come obiettivo l’analisi
dell’intenzionalità e la spiegazione del processo di attribuzione di
disposizioni permanenti della personalità a partire dall’osservazione di
un’azione e dei suoi effetti.
Il processo di inferenza viene così distinto nell’attribuzione di
intenzioni e nell’attribuzione di disposizioni. Sarà Kelly15 che renderà
più articolato e complesso il modello, introducendo i concetti di “covariazione” e di “schema causale”.
Egli, non di meno, tiene ferma la medesima prospettiva degli altri
ricercatori: continua, infatti, a leggere l’azione dal punto di vista di un
osservatore che non coincide con il soggetto dell’azione stessa o del
comportamento, così che la spiegazione viene analizzata per il suo
valere come un “processo di attribuzione”.
Poiché ci proponiamo di approfondire la riflessione proprio
sull’azione intenzionale, anche le considerazioni svolte da Malle16 su
12
A. ZAMPARINI, Modelli di causalità: introduzione alla teoria dell’attribuzione con glossario dei concetti chiave, Giuffrè, Milano 1993, p. 5.
13
Ivi, p. 34.
14
Cfr. E.E. JONES, K.E. DAVIS, «From acts to dispositions: The attribution process in person
perception», in L. BERKOWITZ (Ed.), Advances in experimental social psychology, vol. 2, Academic Press, New York 1965, pp. 219-266.
15
Cfr. H.H. KELLEY, Attribution in social psychology, General Learning Press, New York
1971.
16
Cfr. B.F. MALLE, «How people explain behavior: A new theoretical framework», Personality and Social Psychology Review, III (1), 1999, pp. 23-48.
IV. Seconda esemplificazione: il riduzionismo nella spiegazione psicologica […]
239
questo tema, condotte da una prospettiva esclusivamente psicologica,
risultano rilevanti e meritano di venire segnalate.
La contrapposizione tra spiegazione non intenzionale e spiegazione
intenzionale può venire ricondotta, pertanto, a quella tra la spiegazione
meccanicista (riduzionista) e la spiegazione ermeneutico-funzionale
(non riduzionista).
Si potrebbe dire, infatti, che la spiegazione che si fonda
sull’intenzione rientra nella spiegazione ermeneutica proprio in ragione
del fatto che interpretare il comportamento (l’azione) sostanzialmente
significa determinare il peso e la rilevanza che l’intenzione ha nella sua
produzione e, dunque, nella sua configurazione.
4.4. Intenzione e spiegazione
Da quanto fin qui detto, risulta che valorizzare solo la spiegazione
meccanicistica comporta l’eliminazione delle spiegazioni intenzionali
(donde il suo carattere riduzionistico), con la conseguenza che anche il
ruolo del soggetto viene sostanzialmente misconosciuto.
A nostro giudizio, questo misconoscimento non produce una
psicologia autenticamente scientifica, ma semplicemente fa valere
l’assunto che solo ciò che è meccanico può venire indagato scientificamente.
La spiegazione intenzionale, pertanto, è fondamentale non soltanto
se, collocandosi nella prospettiva del senso comune, si mette in atto un
processo di attribuzione causale, ma anche se, collocandosi all’interno
di una prospettiva autenticamente scientifica, si intende rendere
effettiva ragione dei comportamenti.
Giunti a questo punto dell’indagine, si impone la seguente domanda:
cosa si intende con l’espressione “intenzione”? Se si dovesse fornire
una definizione psicologica di “intenzione”, allora si potrebbe dire che
essa costituisce il vettore che orienta l’azione verso un fine o verso un
valore.
Di contro, se si intendesse darne una definizione filosofica, allora si
potrebbe dire che essa esprime l’essenza stessa della soggettività. Tale
definizione necessita di venire adeguatamente esplicitata e questo è precisamente uno dei compiti che ci proponiamo di svolgere con la presente trattazione.
Riprendiamo, quindi, dalla seguente affermazione di Castellani:
240
Sul riduzionismo
I valori conducono all’azione in quanto gli agenti li riconoscono come tali e
aspirano a realizzarli; le norme conducono all’azione in quanto gli agenti
ritengono che la conformità ad esse sia richiesta per realizzare i valori
intenzionati17.
Se una spiegazione meccanicista spiega il comportamento in termini di
cause o in termini di leggi, secondo i dettami del modello nomologicodeduttivo o a legge di copertura, di contro, quando si usano le ragioni
per interpretare i comportamenti degli uomini, gli agenti diventano
delle vere persone o, in altre parole, l’agente è il soggetto dell’azione
perché agisce consapevolmente.
Come ultima precisazione, che abbia ancora valore introduttivo, facciamo notare che in questa nostra riflessione la spiegazione di un comportamento non è intesa solo nel senso di un processo che viene messo
in atto da un soggetto che osserva dall’esterno l’azione compiuta da un
altro soggetto, come è per il processo di attribuzione, ma anche nel
senso per il quale l’interprete coincide con l’agente, così che spiegare
il comportamento equivale a spiegarlo a sé stessi.
In questo secondo caso, certamente risulta più agevole distinguere
l’azione intenzionale dall’azione meccanica e involontaria e, tuttavia,
poiché il grado di consapevolezza del soggetto, che è agente e interprete
al tempo stesso, può variare per molteplici motivi, la spiegazione può
venire comunque intesa come esplicitazione di ciò che all’inizio non
risulta completamente e pienamente esplicito.
4.5. Il concetto di spiegazione psicologica
Sia che la spiegazione venga intesa come ricerca delle cause sia che
venga intesa come ricerca delle ragioni (o dell’intenzione che ispira e
fonda le azioni), si tratta comunque di compiere un processo: passare
dal fenomeno sensibilmente percepibile, rappresentato dall’azione
(comportamento), al fenomeno intellettivamente reperibile perché più
nascosto (la causa, la ragione), che deve venire esplicitato.
Gioverà ricordare che “spiegare”, almeno nel suo significato più ampio, equivale a compiere un processo che dal dato, ciò che Aristotele
definisce l’oti, conduce al “per che”, cioè al dioti, che costituisce ciò
mediante cui (dia) viene spiegato qualcosa.
17
F. CASTELLANI, Modelli di ragionamento pratico, cit., p. 36.
IV. Seconda esemplificazione: il riduzionismo nella spiegazione psicologica […]
241
Ciò che deve venire spiegato è il fenomeno, nel nostro caso un comportamento, e vale come primo per la ragione che esso costituisce il
punto di partenza della ricerca, essendo ciò che inizialmente compare
nel campo percettivo. Nel linguaggio usato dagli epistemologi, ciò che
deve venire spiegato è definito explicandum, laddove l’explicans costituisce ciò mediante cui si spiega.
Del resto, spiegare indica etimologicamente il “togliere le pieghe”,
ossia il far uscire dalle pieghe del fenomeno (l’oti, appunto) ciò che
consente di spiegarlo, così che spiegare significa “rendere piano”, cioè
“rendere evidente”. Precisamente per questa ragione l’explicandum è
tutt’uno con l’explanandum e l’explicans con l’explanans.
Se ne ricava che il processo della spiegazione coincide con il rendere
esplicito il nesso che vincola l’explicandum all’explicans, nesso che
non è immediatamente evidente (ad essere evidente è solo il percetto)
e, pertanto, permane inizialmente implicito. Non per niente, “implicito”
significa sia “nascosto”, “non esplicito”, sia “relativo all’implicazione”,
“implicato”.
Che cosa indica tutto questo? Che la spiegazione si fonda su un’implicazione, la quale vincola ciò che deve venire spiegato a ciò che lo
spiega, e che tale implicazione sussiste anche se inizialmente permane
tacita o implicita. Il processo della spiegazione si compie precisamente
nel renderla evidente, cioè nel passaggio che consiste nel rendere esplicito l’implicito.
Un secondo aspetto da chiarire concerne proprio l’explicans. Che
cosa si intende con questa parola? Se ci si riferisce alla conoscenza
scientifica in generale, si può dire che ciò che spiega viene identificato
con la causa del fenomeno, ossia con quella condizione che rende possibile il suo accadere. Le cause, a loro volta, sono state distinte in necessarie, sufficienti e necessarie e sufficienti.
Come abbiamo già visto, non necessariamente l’explicans deve però
venire ridotto alla causa, specialmente se con tale espressione si intendono solo fenomeni naturali. In questo senso, le cause sono state appunto distinte dalle ragioni.
Se le cause sono fenomeni fisici e naturali che precedono quei fenomeni fisici e naturali che sono i comportamenti (o le azioni), di contro
le ragioni sono state identificate con i valori verso cui un’azione si intenziona o con i significati che un’azione assume.
Per riflettere su questo aspetto, che è centrale, torniamo ai due tipi di
spiegazione che vengono contrapposti in ambito scientifico e cioè la
242
Sul riduzionismo
spiegazione meccanicista e la spiegazione funzionalista. La prima spiegazione si fonda su di un principio generale: il principio di chiusura del
mondo fisico, per il quale fenomeni fisici, come per esempio i comportamenti, possono essere prodotti solo da cause fisiche18.
Di contro, la spiegazione funzionalista configura un altro tipo di
spiegazione, volta ad individuare il fine dei comportamenti, piuttosto
che le cause che li producono e che precedono il loro accadere.
Tale spiegazione viene vista con sospetto da coloro che intendono
perseguire il progetto di naturalizzare la mente, giacché il progetto naturalista cerca una spiegazione dei fatti psicologici esclusivamente nel
senso che li considera “effetti”, che devono venire ricondotti a “cause”
e questa riconduzione vale come una riduzione.
Si tratta di una “riduzione” proprio perché vengono considerate solo
le cause fisiche o materiali, così che la psicologia viene di fatto ridotta
a neurobiologia e la prospettiva in cui questo modello si colloca tende
a risolvere lo stato psichico nello stato fisico corrispondente.
Gli stati, più radicalmente, non sarebbero due, ma uno soltanto,
quello fisico appunto, poiché – come ormai ben sappiamo – la grande
maggioranza dei ricercatori, che intendono naturalizzare la mente, rifiuta la prospettiva dualista e propone un monismo materialistico, volto
ad affermare l’esistenza di un’unica sostanza: la materia.
Si viene così a determinare un’interessante contrapposizione tra coloro che si occupano dello studio della mente. Gli anti-psicologisti, pur
occupandosi di psicologia, intendono ricondurla a scienze dure come la
fisica e, pertanto, ricercano spiegazioni psicologiche volte a valorizzare
solo cause materiali e che assumano forma soltanto meccanicista.
Di contro, i cosiddetti psicologisti negano che la psicologia possa
venire ridotta soltanto a spiegazioni fisicalistico-naturalistiche e cercano di valorizzare gli stati soggettivi.
In estrema sintesi, e per chiarire ulteriormente quanto è stato detto,
si potrebbe affermare che una causa spiega fisicamente un’azione; una
ragione la spiega logicamente, cioè la legittima, dunque ne spiega il
valore e il significato per l’agente, il quale appunto intenziona il fine
per una determinata ragione.
18
Cfr. S. NANNINI, «La naturalizzazione dei qualia. Un progetto di ricerca», in P. PARRINI
(a cura di) Conoscenza e cognizione. Tra filosofia e scienza cognitiva, Guerini e Associati,
Milano 2002, p. 89.
IV. Seconda esemplificazione: il riduzionismo nella spiegazione psicologica […]
243
Un punto, tuttavia, domanda di venire ribadito con forza: allorché si
parla di intenzione si configura un indubbio salto di qualità nel processo
della spiegazione e ciò anche rispetto alle stesse spiegazioni ermeneutiche.
Questo lo si deve al fatto che l’intenzione, se viene colta nel suo autentico valore, si riferisce non soltanto a un determinato fine di una determinata azione. Più radicalmente, essa si riferisce al fine ultimo di
ogni azione del soggetto, che è rappresentato dalla verità e dalla verità
soltanto.
Affinché la spiegazione intenzionale emerga nel suo significato più
radicale, procediamo nella nostra argomentazione e riprendiamo dalla
prospettiva naturalista che si esprime mediante spiegazioni meccaniciste.
Essa, infatti, descrive il comportamento usando lo schema azionereazione, inteso in una forma che può essere più o meno sofisticata e
cioè secondo funzioni più o meno complesse.
4.6. La spiegazione in ambito comportamentista e cognitivista
All’interno della prospettiva riduzionista, si pongono tanto la spiegazione comportamentista dei fatti psicologici (e dei comportamenti, in
particolare), quanto quella cognitivista, almeno se i processi cognitivi
vengono interpretati in senso classico e cioè come manipolazioni automatiche di segni che avvengono in conformità a regole.
La prima spiegazione non fa che ricondurre l’effetto, e cioè il comportamento inteso come insieme di risposte fornite da un qualunque organismo, alle sue cause, e cioè agli stimoli che tali risposte suscitano,
secondo lo schema di base di ogni procedura automatica, che può venire
espresso mediante una proposizione condizionale: “Se x, allora y”, in
cui x = S (stimolo) e y = R (risposta).
La seconda interpreta l’effetto in termini di output e le cause di input,
così che il processo cognitivo risulta ciò che intercorre tra l’input e
l’output e rende ragione del secondo in forza del primo. Anche qui la
spiegazione può venire essenzializzata nello schema indicato sopra e
cioè nella proposizione condizionale “Se I (input), allora O (output)”.
Tuttavia, e questo è il punto fondamentale, la spiegazione cognitivista, nonostante valga come una valorizzazione delle procedure automa-
244
Sul riduzionismo
tiche, di fatto apre le porte a una spiegazione ulteriore, che riesce a valorizzare anche ragioni e significati. Vedremo come e perché nel prosieguo della nostra argomentazione.
Per ora, ci accontentiamo di aggiungere due significative precisazioni, che risulteranno molto utili più avanti. Ogni spiegazione, e questo
lo abbiamo già visto, si fonda su una relazione19 e, in particolare, su una
relazione di implicazione, che vincola un effetto a una causa, oppure un
antecedente a un conseguente (a questo livello dell’indagine non ci interessa la differenza che sussiste tra cause e ragioni).
Tale relazione, come detto, è implicita, così che il renderla evidente,
cioè esplicita, configura propriamente il processo della spiegazione.
Proprio per questa ragione – e ciò costituisce la prima precisazione – la
spiegazione può trovare espressione in forma proposizionale, in modo
tale che il nesso logico dell’implicazione può venire espresso mediante
proposizioni condizionali e le proposizioni condizionali possono poi
vincolarsi logicamente tra di loro in modo da configurare sillogismi
condizionali.
La seconda precisazione è la seguente: l’inferenza può venire pensata sia come nesso causale (e questo è il senso induttivo – da alcuni
definito anche abduttivo20 – dell’implicazione), che vincola un effetto
alla sua causa, sia come una relazione di conseguenza logica (e questo
è il senso deduttivo dell’implicazione), che vincola un antecedente a un
conseguente.
Che è come dire: se si muove da un comportamento, allora si va alla
ricerca delle sue cause, dunque si risale dall’effetto alla causa o dal conseguente all’antecedente. Di contro, se si muove dalle cause o dagli antecedenti, si intende cogliere quali sono gli effetti o i conseguenti, cioè
si intendono derivare comportamenti da quelle che si considerano le sue
possibili cause o i possibili antecedenti.
19
A questo livello di indagine, il concetto di “relazione” non viene discusso nel suo presentarsi come uno status, cioè come un costrutto, ma semplicemente assunto e visto operare. Un
ulteriore livello di indagine potrebbe mostrare il cambiamento di quadro concettuale che si genererebbe intendendo la relazione come atto, secondo quanto da noi mostrato nei capitoli precedenti. Poiché in questo capitolo stiamo esaminando i referenti concettuali di alcuni modelli
operativi, non ci soffermiamo sui limiti teoretici che l’uso del concetto ordinario di “relazione”
comporta.
20
Cfr. R. FABBRICHESI LEO, Introduzione a Peirce, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 29-30 e
57-58.
IV. Seconda esemplificazione: il riduzionismo nella spiegazione psicologica […]
245
Nell’un caso come nell’altro ci si colloca in una prospettiva che fa
valere uno schema logico che per sua natura, proprio in quanto schema,
non può non essere meccanico.
Siamo così al punto. In cosa consiste propriamente il modello meccanicista di spiegazione? E in quale senso in ambito scientifico esso
viene contrapposto al modello funzionalista?
4.7. Modello meccanicista e modello funzionalista
Per rispondere alla domanda sopra formulata, utilizziamo quanto viene
affermato da Cherubini, il quale, per descrivere il modello meccanicista, lo contrappone appunto al modello funzionalista. Scrive Cherubini:
ci sono molti modi per “spiegare” qualcosa. Un esempio: una pianta, chiusa in
una stanza buia con un solo punto luminoso sulla parete destra, cresce deviando
verso destra. Perché? […] le risposte più tipiche e spontanee sono “ha bisogno
di luce”, “va verso la luce”, “desidera la luce”, “la luce le serve a sopravvivere”. Queste spiegazioni sono di tipo funzionalista: si spiega un comportamento appellandosi alla funzione che esso assolve, il suo scopo21.
La spiegazione funzionalista, dunque, per la scienza è in qualche modo
legittima, ma lascia molti punti oscuri:
come fa il bisogno di luce a far deviare la crescita? Come fa una pianta a “desiderare” qualcosa? […] Tutti i punti oscuri della spiegazione di tipo funzionalista discendono dal trovare la causa di un comportamento in uno stato successivo al comportamento stesso (l’obiettivo del comportamento): infatti, stati
non ancora esistenti, come un obiettivo che sarà, forse, raggiunto solo in un
istante futuro, non possono avere effetti causali su stati esistenti, come il comportamento intrapreso in questo istante. In altre parole, il futuro non può avere
effetti sul presente, perché il presente esiste, mentre il futuro non esiste ancora22.
Per le ragioni addotte da Cherubini, la spiegazione funzionalista è vista
con un certo sospetto dalla psicologia scientifica e sperimentale, che
poggia, come detto, su un’ontologia fisicalista: “In assenza di un altro
livello esplicativo la spiegazione funzionalista diventa finalista, e come
21
22
P. CHERUBINI, Psicologia del pensiero, Raffaello Cortina, Milano 2005, p. 6.
Ibidem.
246
Sul riduzionismo
tale esce dalla fisica per entrare nella metafisica, attribuendo potere di
causazione fisica a enti non fisicamente esistenti”23.
Rileviamo, per inciso, che il modello di spiegazione funzionalista,
cui noi ci riferiamo e al quale si riferisce anche Cherubini, intende il
funzionalismo in senso intrinsecamente finalista, e tuttavia si potrebbe
pensare anche a un tipo di funzionalismo che si dichiara non finalista,
come per esempio quello indicato da Putnam24.
Alla spiegazione funzionalista si oppone, secondo quanto sostiene
Cherubini, la spiegazione meccanicista, che è l’unica che possa venire
accettata da una scienza matura:
L’altro livello esplicativo, che compendia i limiti della spiegazione funzionalista, è detto fisicalista, o meccanicista. […] Nella spiegazione di tipo meccanicista le cause di un comportamento sono rintracciate nei suoi antecedenti,
non nei suoi conseguenti. Il conseguimento di stati futuri diventa l’effetto, e
non la causa, del comportamento25.
Orbene, è precisamente a questo punto che emerge la necessità di distinguere l’ordine delle cause dall’ordine delle ragioni:
In altre parole: la spiegazione di tipo funzionalista ci consente di comprendere
le ragioni di un comportamento, siano esse note o ignote all’ente che le attua,
e costituisce un prezioso primo livello di comprensione; ma è la spiegazione di
tipo meccanicista che ci consente di capire come quel comportamento viene
concretamente in essere. Una scienza empirica può avvalersi di spiegazioni
funzionaliste, purché assuma che ciascun fenomeno di cui offre una spiegazione abbia una sua causa fisica, e ne sia quindi possibile una spiegazione meccanicista26.
Come si evince anche dal passo di Cherubini, la distinzione tra cause e
ragioni è molto importante, in ordine al tema della spiegazione in psicologia, e può venire rintracciata anche facendo riferimento alla spiegazione funzionalista.
Da un lato, è da rilevare che, sia nel caso della ricerca delle cause sia
nel caso della ricerca delle ragioni, lo schema permane il medesimo:
23
Ibidem
Cfr. H. PUTNAM, «Minds and machines», in S. HOOK (Ed.), Dimensions of Mind, New
York University Press, New York 1960, pp. 138-164; trad. it. di R. Cordeschi, H. PUTNAM,
Mente, linguaggio e realtà, Adelphi, Milano 1987, pp. 392-416.
25
P. CHERUBINI, Psicologia del pensiero, cit., pp. 6-7.
26
Ivi, p. 7.
24
IV. Seconda esemplificazione: il riduzionismo nella spiegazione psicologica […]
247
“Se x, allora y”, che esprime in forma proposizionale una implicazione,
cioè un’inferenza logica.
Dall’altro, il valore che viene attribuito alla spiegazione meccanicistica fa sì che solo questa venga considerata un’autentica spiegazione
scientifica, così che la ricerca di ragioni viene subordinata alla precedente.
Non per niente, Cherubini le dispone su due livelli diversi:
In psicologia del pensiero [ma il discorso vale in generale], la maggior parte
delle spiegazioni procede, o dovrebbe procedere, dal livello funzionalista […].
In primo luogo i processi di pensiero sono spiegati chiarendo quale funzione
assolvano. In secondo luogo, si individua almeno un meccanismo fisico (per
esempio, un programma per computer) in grado di eseguire tali passaggi, dimostrando così che i processi individuati possono essere il prodotto di causazione fisica. Alla vera e propria spiegazione fisicalista si arriva solo a un quarto
e ultimo livello, che consiste nell’individuare l’esatto tipo di meccanismo fisico che effettivamente produce quel processo di pensiero (per esempio, una
rete di neuroni nel cervello). Solo una volta giunti al quarto livello disponiamo
di una piena spiegazione di un processo di pensiero27.
Che è come dire, in riferimento alla spiegazione dei comportamenti:
solo le spiegazioni meccaniciste producono anche una descrizione precisa di quel processo, fatto di stati fisici, che si conclude nel comportamento, che è il fenomeno fisico osservato.
Ebbene, come è possibile procedere dalla spiegazione funzionalista
a quella meccanicista? Ecco come risponde Cherubini:
Torniamo ora al concetto di spiegazione di tipo funzionalista: sembra adattarsi
particolarmente bene al comportamento umano e animale. Il comportamento
umano e animale ci appare spesso finalizzato, “diretto a un obiettivo”, e il
modo più immediato e intuitivo per spiegarlo consiste nel menzionarne l’obiettivo. […] Ciò nonostante, anche in psicologia è vero che uno stato futuro non
può causare uno stato presente: [per esempio] lo stato che Alberto desidera
raggiungere non è presente nell’attimo in cui egli si alza dal divano [per andare
in cucina e cercare qualcosa da magiare], e non può causare fisicamente il suo
comportamento. La soluzione a questo dilemma richiede l’introduzione del
concetto di rappresentazione mentale, che ci consente, tra l’altro, di capire la
definizione di pensiero precedentemente offerta. Riprendendo l’esempio: è
vero che il futuro stato di sazietà di Alberto non può causare il suo comporta-
27
Ibidem.
248
Sul riduzionismo
mento presente; ma se uno stato passato, per esempio la fame, che è un antecedente fisico del comportamento, causa il fatto che prima del comportamento
si costruisce una rappresentazione fisica del suo obiettivo (la sazietà), allora la
linearità temporale dei processi causali è ristabilita28.
Il punto riguarda ora la differenza che intercorre tra le due spiegazioni.
L’aspetto meccanico che le accomuna è legato al loro fondarsi
sull’implicazione logica; l’aspetto che le differenzia è legato al fatto che
la causa spiega il comportamento perché lo precede, laddove la ragione
lo spiega perché costituisce ciò in vista di cui si opera e, pertanto, segue
il comportamento.
Poiché è innegabile che tanti comportamenti coscienti si pongono
in vista di un fine, per una spiegazione scientifica del comportamento –
secondo quanto sostenuto da Cherubini – diventa fondamentale cercare
di capire come sia possibile tradurre in una spiegazione meccanicista
quella spiegazione che sembrerebbe rendere ragione di un
comportamento solo mediante uno schema funzionalista.
Cherubini – ma in genere gli psicologi di impostazione cognitivista
– risolve il problema introducendo il concetto di “rappresentazione”.
Tale concetto, quindi, viene a svolgere una funzione fondamentale, dal
momento che è solo in virtù della presenza di rappresentazioni, nonché
della loro valenza fisica, che una spiegazione, la quale potrebbe
inizialmente venire considerata funzionalista, a un più attento esame
risulta meccanicista.
Ci chiediamo: come è possibile questa trasformazione? Su questo
tema si dovrà adeguatamente riflettere, per la sua rilevanza. Tuttavia,
potremmo rispondere fin da ora in questo modo: le rappresentazioni non
soltanto consentono di “rendere fisiche” le ragioni, così che queste
ultime escono – questa, per lo meno, è l’interpretazione data dai riduzionisti – dall’ambito della “metafisica” e si collocano pleno iure
nell’ambito della “fisica”, ma altresì si pongono prima dell’azione o del
comportamento, e per questa ragione possono consentire la riproposizione della spiegazione meccanicista.
28
Ivi, pp. 8-9.
IV. Seconda esemplificazione: il riduzionismo nella spiegazione psicologica […]
249
4.8. Il ruolo della rappresentazione nel processo della spiegazione
In contrapposizione alla prospettiva comportamentista, il paradigma
cognitivista si pone poggiando su tre assunti fondamentali: il modello
informazionale; la teoria rappresentazionale della mente (TRM); la
teoria computazionale della mente (TCM). Come scrive Pitt,
Una “rappresentazione mentale” è anzitutto un concetto teoretico della scienza
cognitiva e, in quanto tale, costituisce una delle idee di base della teoria
computazionale della mente, secondo la quale gli stati ed i processi cognitivi
sono dati dalla verifica, dall’elaborazione e dall’immagazzinamento (nella
mente o nel cervello) di strutture (rappresentazioni) che contengono
informazioni di vario genere. Supponendo, tuttavia, che una rappresentazione
sia un oggetto dotato di proprietà semantiche (contenuto, riferimenti,
condizioni-verità, valore-verità, ecc.), una rappresentazione mentale potrebbe
essere considerata, in linea di massima, come un oggetto mentale dotato di
proprietà semantiche. Pertanto, la rappresentazione mentale (stati e processi
compresi) non deve essere intesa solo da un punto di vista computazionale29.
Il concetto di “rappresentazione” è dunque centrale nella spiegazione
psicologica. La centralità del suo ruolo è data dal fatto che la
rappresentazione sintetizza due aspetti: da un lato, ha valenza fisica;
dall’altro, ha valenza segnica, cioè metaforica.
Ogni rappresentazione si distingue da tutte le altre perché presenta
una sua forma fisica, che consente di identificarla. Che sia così lo si
riscontra facilmente, anche considerando quello che accade con i
simboli del codice binario: 0 e 1.
Il computer può svolgere tutte le operazioni di manipolazione di
queste due forme simboliche solo perché le distingue, cioè sa
riconoscere la loro differenza, che è legata alla loro specifica forma
fisica.
Tuttavia, accanto alla forma fisica, che identifica ciascuna
rappresentazione, sussiste anche la struttura intrinsecamente
relazionale che caratterizza ogni rappresentazione.
Ciascuna, infatti, si pone, da un lato, solo perché si distingue da
un’altra rappresentazione, ossia in virtù di una relazione disgiuntiva con
altra rappresentazione; dall’altro, solo perché rinvia a ciò di cui è
29
D. PITT, Mental Representation, Stanford Encyclopedia of Philosophy (http://plato.stanford.edu/entries/mental-representation/) 2000; trad. it. «La rappresentazione mentale. Definizioni, modelli, teorie», in G. GALLONI (a cura di), Identità e rappresentazione. Scienza cognitiva
e teorie della mente, Stamen, Roma 2006, p. 72.
250
Sul riduzionismo
rappresentazione, ossia in virtù di una relazione congiuntiva con il
rappresentato.
Per questo suo essere rinviando ad altro, ogni rappresentazione è un
segno. Del resto, quando abbiamo detto che la rappresentazione
consente di rendere fisica una ragione o, se si preferisce, un obiettivo
che si intende raggiungere con un certo comportamento, implicitamente
abbiamo ammesso che la traduzione della ragione o dell’obiettivo è resa
possibile dal fatto che la rappresentazione rinvia (di qui il suo valore
metaforico, nel senso del meta-pherein) proprio alla ragione o
all’obiettivo: rinvia all’obiettivo del comportamento a muovere dal suo
collocarsi prima di esso.
Si impone, dunque, la necessità di individuare due distinti ordini di
rinvio: il rinvio orizzontale, che vincola ciascuna rappresentazione a
tutte le altre e che configura l’ordine dei significanti, per dirla con De
Saussure30, e il rinvio verticale, che vincola ciascuna rappresentazione
(significante) al suo significato. Il primo rinvio configura l’ordine
sintattico-formale e il secondo quello semantico-valoriale31.
I due ordini sono distinti, ma non possono mai venire separati. Se si
assume il primo ordine a prescindere dal secondo si configura
un’astrazione o, se si preferisce, un’assolutizzazione indebita: appunto,
l’assolutizzazione del sintattico-formale.
Ricordiamo, a questo proposito, che il modello cognitivista classico,
che riduce la mente a un insieme di processi computazionali, descrive
molto bene le funzioni automatiche e i processi sintattico-formali, ma
incontra grosse difficoltà quando deve descrivere le funzioni più
complesse che presentano anche valenza semantica e che, grazie al
30
Cfr. F. DE SAUSSURE, Cours de linguistique générale, a cura di C. Bally e A. Sechehaye,
con l'assistenza di A. Riedlinger, Payot, Losanna - Parigi 1916; trad. it. di T. De Mauro, Corso
di linguistica generale, Laterza, Bari 1967.
31
A questo livello di indagine, è sufficiente ricordare in nota che il rinvio verticale autentico
si realizza solo quando è al vero significato che il segno si riferisce. In effetti, i significati ordinari sono essi stessi segni, proprio in ragione del fatto che sono determinati. L’autentico significato, pertanto, è quello che emerge oltre l’ordine dei determinati ed emerge in virtù della sua
assolutezza. Come abbiamo cercare di dire nei precedenti capitoli, solo l’assoluto è effettivo
fondamento e solo l’assoluto configura quel significato al quale ogni determinazione (inclusi i
significati ordinari) rinvia stante il suo valere quale segno. Ogni determinazione, infatti, è sé
solo per il suo rinviare oltre sé stessa. Ciò non di meno, qui a noi interessa mostrare non tanto
il limite dell’assolutizzazione del determinato, della quale abbiamo parlato a più riprese nel
corso della presente ricerca, ma il limite dell’assolutizzazione del sintattico-formale, che astrae
dal semantico-valoriale.
IV. Seconda esemplificazione: il riduzionismo nella spiegazione psicologica […]
251
riferimento a significati, sono alla base del configurarsi dell’esperienza
cosciente del soggetto.
Le rappresentazioni, pertanto, possono venire pensate nella forma di
simboli mentali, come accade nella concezione di Fodor, che parla di
linguaggio della mente32, ma anche nella forma di pattern di attivazione
della rete, come accade nei modelli connessionisti.
Del resto, gli stessi correlati biologico-cerebrali di stati mentali
presentano una loro forma: anche di essi, pertanto, si dovrà dire che, in
qualche modo, sono delle rappresentazioni perché, in quanto correlati,
rinviano allo stato mentale corrispondente.
Le cosiddette “teorie identitiste”, infatti, non sono mai riuscite a
spiegare per quale ragione si continui a parlare di stati mentali e di stati
fisici, se solo gli stati fisici effettivamente esistono. Non ci interessa ora
approfondire questo aspetto: lo abbiamo fatto, anche se parzialmente,
in precedenza. Ci interessa, invece, approfondire il concetto di “rappresentazione mentale”.
Per riprendere il discorso, ci chiediamo: quale funzione si richiede
essa svolga? La prima funzione svolta dalla rappresentazione mentale è
quella di tradurre in forme interne le informazioni contenute negli
stimoli e sono proprio tali forme interne che vengono elaborate
(manipolate), così che subiscono un lungo processo di transformazione.
Tali forme, in effetti, costituiscono le tracce, sul versante interno, di
stimoli fisici provenienti dall’ambiente esterno33. Esse, ancorché si
collochino sul versante interno, mantengono una valenza fisica, in
continuità con gli stimoli, e solo in forza della loro valenza fisica
possono venire identificate e manipolate.
Tale manipolazione inizialmente avviene in forma esclusivamente
automatica e l’elaborazione si rivela solo sintattica, vale a dire che le
proprietà semantiche di tali forme, in questa fase, non hanno rilevanza.
Da un certo punto di vista, quindi, ciò che conta è soltanto la valenza
fisica che consente di discriminare le forme o rappresentazioni:
ciascuna forma, dicevamo, si determina in forza della relazione
oppositiva che la vincola a tutte le altre, distinguendola da queste
ultime.
32
Cfr. J.A. FODOR, Mente e linguaggio, cit., pp. 49- 60.
Riprendiamo così il tema trattato nel paragrafo 5 del secondo capitolo di questa Parte
Seconda.
33
252
Sul riduzionismo
Se non che, da un altro punto di vista – e questo costituisce il centro
della nostra argomentazione –, proprio in ragione del fatto che è la
forma che consente di determinare qualcosa, non si potrà considerare
solo l’aspetto fisico delle rappresentazioni, ma si dovrà anche
considerare il loro aspetto metaforico, cioè il fatto che ogni forma non
rinvia soltanto orizzontalmente ad altra forma, ma altresì, e questa volta
il rinvio è verticale, al significato di cui è forma.
Non è possibile dunque parlare di forme senza considerarle segni, i
quali sono segni solo in quanto si riferiscono a significati, costituendo
una lingua vera e propria. Quando entrano in gioco le relazioni
semantiche, pertanto, l’elaborazione è più articolata e complessa e le
forme o rappresentazioni assumono il valore di oggetti dell’esperienza
ordinaria, i quali, proprio in quanto oggetti, hanno un significato per il
soggetto34.
Se la rappresentazione costituisce il fondamento della spiegazione
meccanicista di un comportamento, allora non si potrà non rilevare che
è proprio essa a imporre, per il suo riferirsi anche a significati, dunque
a ragioni e valori, un senso ulteriore, che costringe ad andare oltre la
semplice dimensione meccanicista.
Si dovrà, cioè, delineare una spiegazione che, poiché esplicita
inferenze implicite, dovrà avere il rigore della logica, ma, poiché ha a
che fare con ragioni e significati, non potrà non avere uno spessore che
di per sé trascende i modelli riduzionistici.
4.9. Spiegazione intenzionale e valore della soggettività
Allorché entrano in gioco i significati, infatti, l’elaborazione cessa di
essere solo automatica ed emerge la soggettività con l’affacciarsi della
coscienza. È il soggetto che, quando sceglie o vuole qualcosa, individua
anche il comportamento che reputa più consono a raggiungere
l’obiettivo che si è prefisso. E proprio qui si deve fare la massima
attenzione.
34
Quando si parla di oggetti d’esperienza, e li si contrappone ai segni che ad essi si riferiscono, si tende ad obliare che, a rigore, anche gli oggetti sono forme rappresentazionali, come
abbiamo cercato di mostrare nel secondo capitolo di questa Parte Seconda. Sono forme rappresentazionali che, valendo come esito del processo elaborativo, si trasformano in percetti (oggetti percepiti) e vanno a configurare il campo percettivo, il quale si pone in virtù della coscienza.
IV. Seconda esemplificazione: il riduzionismo nella spiegazione psicologica […]
253
Lo schema condizionale vale anche in questo caso, nel senso che
anche il comportamento libero e cosciente del soggetto può venire
spiegato mediante la forma del “Se…, allora”: “Se voglio incontrare il
mio amico che arriva in treno, allora devo andare alla stazione”.
Ciò significa che la spiegazione, poiché esplicita un nesso logico
implicito, mantiene valenza meccanica anche quando vengono
esplicitate intenzioni e la mantiene, inoltre, perché la spiegazione è essa
stessa una procedura logica che può essere formalizzata.
Non di meno, pur essendo meccanica, la spiegazione che rintraccia
intenzioni non è definitivamente meccanicistica, perché qui si fa
riferimento a ragioni e a significati, che vengono colti e interpretati dal
soggetto in virtù della coscienza, che trasforma l’unilateralità di ciò
che è meccanico.
Quando il soggetto sceglie di compiere un’azione o di mettere in atto
un comportamento in vista di un obiettivo, egli, insomma, opera in virtù
di intenzioni e sono proprio tali intenzioni, in grado di fornire profondità
e senso ai suoi comportamenti, che domandano di venire esplicitate
mediante il processo della spiegazione.
Precisamente qui si impone la distinzione tra la spiegazione fornita
da un osservatore esterno, che non compie l’azione osservata, e la
spiegazione fornita da quel soggetto che, invece, compie l’azione che
poi si accinge a spiegare.
Se la spiegazione è fornita da un osservatore esterno, allora cogliere
le intenzioni che sostanziano un’azione equivale a rintracciarle dietro e
oltre i fattori meccanici che le producono.
Se, di contro, la spiegazione viene fornita dal soggetto stesso che
agisce, costui in genere sa riconoscere immediatamente le proprie
intenzioni e il processo della spiegazione risulta più agevole e rapido.
Tuttavia, non sempre è così. A volte l’agente non si riconosce
pienamente nella propria azione o nel proprio comportamento, magari
perché li giudica negativamente, e dunque tende a sottostimare il
proprio ruolo, così che anche intenzioni e ragioni possono venire
parzialmente occultate.
Anche in questo caso, quindi, il processo della spiegazione risulta di
estrema rilevanza per rendere esplicito, dopo attenta riflessione critica
e auto-critica, ciò che inizialmente permane implicito o tacito.
E siamo al punto nodale: questo processo di esplicitazione delle
intenzioni può venire messo in forma logica utilizzando il ragionamento
pratico di Aristotele e, cioè, mediante sillogismi condizionali. Questi
254
Sul riduzionismo
ultimi consentono di esprimere in una forma logica rigorosa, perché
basata su schemi formali, un comportamento, il quale tuttavia non è
soltanto frutto di meccanismi, ma anche di scelte consapevoli.
Il sillogismo condizionale consente, più precisamente, di derivare
l’azione dall’obiettivo intenzionato e dai mezzi scelti per ottenerlo. In
tal modo, si configura quella che definiamo la spiegazione psico-logica,
che può venire definita anche logico-proposizionale, di azioni e
comportamenti: una spiegazione in termini di intenzioni e di volizioni
espressa mediante enunciati strutturati in virtù di relazioni di
conseguenza logica.
Che è come dire: sempre di una spiegazione si tratta, così che essa
non potrà liberarsi totalmente dal suo configurarsi mediante una procedura che si richiede sia formalmente corretta.
Preferiamo parlare di “correttezza”, e non di “rigore”, per la ragione
che, a nostro giudizio, il rigore di un’argomentazione aggiunge alla correttezza formale la consapevolezza critica del limite che segna ogni discorso, ogni procedura logica, ogni argomentazione.
Tale limite è trasceso solo da quella intentio veritatis che di ogni
discorso, di ogni procedura logica e di ogni argomentazione costituisce
l’essenza ultima, perché alla verità stessa discorso e procedura e argomentazione intendono riferirsi e con la verità stessa essi intendono coincidere.
In questo senso e per questa ragione abbiamo affermato che l’intenzione, in quanto intentio veritatis, costituisce l’essenza stessa del soggetto, poiché lo proietta verso la sua autentica destinazione.
Chiarito questo punto, che è cruciale nell’economia della presente
ricerca, possiamo tornare all’esemplificazione dell’individuo che
sceglie di andare alla stazione. Diremo, pertanto, che il suo
comportamento si spiega in forza di cause, ma anche in virtù di ragioni
e di significati nonché di intenzioni.
Come cause, potremmo individuare quelle neurobiologiche, che
generano il movimento delle sue gambe. Tuttavia, queste cause non
bastano a spiegare il suo comportamento. Il movimento delle gambe,
infatti, potrebbe portare l’individuo ovunque.
Ma egli intende andare alla stazione e non altrove. Non bastano,
quindi, le cause, ma si impongono le ragioni, le quali soltanto sono in
grado di spiegare il senso di marcia del soggetto.
Il discorso che siamo andati svolgendo può così venire riassunto: per
spiegare un comportamento, almeno quando non lo si riconosce come
IV. Seconda esemplificazione: il riduzionismo nella spiegazione psicologica […]
255
palesemente involontario e meccanico, accanto a fattori neurobiologici
debbono venire considerate anche le intenzioni, le ragioni, le credenze,
le speranze e le volizioni del soggetto che compie l’azione, ossia tutto
ciò che da alcuni è stato definito come quell’insieme di stati mentali che
configurano gli atteggiamenti proposizionali.
Questi ultimi costituiscono gli antecedenti psichici di un
comportamento e vengono definiti “atteggiamenti proposizionali” per
il fatto che possono venire espressi mediante proposizioni di cui
costituiscono il contenuto, il quale non fa che mettere in forma quegli
stati psichici stessi.
Si vengono così precisando ulteriormente le ragioni per le quali
parliamo di spiegazione “psico-logica”. Innanzi tutto, perché, come
ogni spiegazione, essa si configura come un processo logico, cioè si
basa su regole che istruiscono la procedura e che servono ad esplicitare
l’inferenza implicita.
In secondo luogo, per il fatto che l’uso di proposizioni consente di
esplicitare gli stati interiori del soggetto (quelli che vengono definiti
“atteggiamenti proposizionali”), che si configurano come intenzioni
rivolte a qualcosa del mondo.
In terzo luogo, per il fatto che, mediante l’uso della lingua, si supera
l’unilateralità dei linguaggi formali e si può dare spazio non solo a
formule o equazioni, ma anche a stati soggettivi, a significati e a valori:
cioè a ragioni.
Se l’uso delle proposizioni condizionali e dei sillogismi condizionali
consente di fornire correttezza logico-formale a tale spiegazione35,
l’estensione a ragioni e significati le fornisce lo spessore di un’autentica
conoscenza.
35
Rileviamo che, secondo quanto indicato dagli stessi sostenitori del cosiddetto “comportamentismo logico” – che Searle distingue dal “comportamentismo metodologico” –, uno stato
mentale può venire tradotto in una serie di enunciati che esprimono comportamenti: “Nell’analisi comportamentistica tipica, dire che Jones crede che stia per piovere equivale a compiere un
numero indefinito di asserzioni come le seguenti: se le finestre di casa sono aperte, Jones le
chiuderà; se gli attrezzi per il giardinaggio sono fuori, Jones li porterà dentro; se esce per una
passeggiata si porterà un ombrello o si metterà un impermeabile o entrambe le cose, e così via.
L’idea era che avere un certo stato mentale consistesse semplicemente nell’avere una disposizione verso certi tipi di comportamento; e la nozione di disposizione doveva essere analizzata
in termini di asserzioni ipotetiche, asserzioni della forma: ‘Se p, allora q’. Nella loro [Searle si
riferisce, appunto, ai comportamentisti logici] applicazione al problema degli stati mentali, queste asserzioni assumerebbero la forma: ‘Se si verifica una condizione così-e-così, allora seguirà
un comportamento così-e-così’” (J.R. SEARLE, La mente, cit., p. 47).
256
Sul riduzionismo
In conclusione, la spiegazione psico-logica dei comportamenti
esplicita non solo le cause neurobiologiche che li pongono in essere, ma
anche gli stati mentali che li giustificano, poiché individua il complesso
insieme di fattori implicato da quei comportamenti e consente di
riferirlo mediante proposizioni e sillogismi condizionali.
In tal modo, l’explicans che viene implicato si presenta in quella
forma articolata e complessa che associa stati fisico-materiali a
intenzioni e pensieri, nonché ad aspirazioni, desideri e volizioni: si
tratta di fattori che domandano tutti di venire adeguatamente esplicitati,
perché costituiscono gli antecedenti di quei conseguenti che sono,
appunto, i comportamenti.
Grazie a tale processo esplicativo, il soggetto diviene totalmente e
pienamente consapevole delle ragioni che fondano e legittimano non
solo i comportamenti dell’altro, ma anche i propri comportamenti.
In questo senso e per queste ragioni, il processo della spiegazione
diviene un momento costitutivo della coscienza stessa dell’agente:
mediante esso si perviene a sapere l’intenzione e, quindi, si diventa
pienamente consapevoli di voler ottenere qualcosa per determinate
ragioni.
L’intenzione si rivela così il fondamento dell’azione e l’intenzione di
verità il fondamento dell’intenzione stessa. Nel compiere un’azione o
nel mettere in atto un comportamento, infatti, si intende che azione e
comportamento raggiungano veramente lo scopo prefissato.
Nel pronunciare un discorso, inoltre, si intende che ciò che si dice
sia vero, universale, giacché solo in quanto tale ha senso il pronunciarlo
e il comunicarlo anche ad altri.
Pronunciando un discorso, insomma, si intende che ciò che si dice
sia vero, ancorché si sappia – qualora il tema della verità sia stato affrontato veramente – che il dire potrà solo valere quale espressione determinata di ciò che, invece, si richiede come assoluto, stante che solo
l’assoluto è vero e solo il vero è assoluto36, come direbbe lo Hegel della
Fenomenologia dello spirito.
36
“Questa conseguenza risulta dal fatto che l’Assoluto solo è vero, o il Vero solo è assoluto”
(G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 66).
IV. Seconda esemplificazione: il riduzionismo nella spiegazione psicologica […]
257
4.10. La spiegazione psico-logica: due esemplificazioni e possibili
campi di applicazione
Tornando al tema della spiegazione dei comportamenti, va notato
quanto segue: anche se spiegare il comportamento in termini di
atteggiamenti proposizionali è una spiegazione che gli scienziati della
mente definiscono una spiegazione propria della psicologia popolare o
di senso comune, ci si deve comunque domandare se si possa tanto
disinvoltamente prescindere da essa.
La domanda è: certi comportamenti possono venire spiegati
indipendentemente dai pensieri (volizioni, speranze, desideri e così via)
che sono da essi implicati? Ci si può attestare, insomma – e questo è
precisamente il senso della nostra domanda –, solo su un livello in cui
le cause sono fisico-biologiche e cioè prendendo in considerazione
esclusivamente le cause che Aristotele definirebbe materiali o, al
massimo, efficienti?
La nostra risposta è, come si è visto, negativa: a nostro giudizio
devono venire considerate anche le cause formali e finali di Aristotele,
che corrispondono a ciò che noi abbiamo definito ragioni.
In tal modo il soggetto che entra in gioco non è soltanto una
“macchina per inferire”, secondo l’espressione di Zamparini, ma è un
attore dotato di una propria spontaneità e di una propria libertà, che
gli consentono di utilizzare le elaborazioni automatiche, proprio perché
non ne è totalmente condizionato.
Il nostro progetto è ora quello di fornire due esemplificazioni della
spiegazione logico-proposizionale e scegliamo due casi, che possano
avere carattere paradigmatico: quello di Giovanni, che deve andare a
prendere l’amico in stazione (secondo l’esempio già proposto), e quello
di chi presenta un comportamento genericamente indicabile come “anoressico”.
Forniremo una spiegazione logico-proposizionale del primo caso,
formulando pensieri e intenzioni in terza persona e postulando che
determinati obiettivi non possano non implicare determinati
comportamenti; nel secondo caso, invece, formuleremo le proposizioni
condizionali in prima persona, ponendoci dal punto di vista del soggetto
che agisce ed esplicitando il vincolo sussistente tra obiettivi e regole
comportamentali.
258
Sul riduzionismo
Il caso di Giovanni può venire così espresso, usando proposizioni
condizionali tra loro collegate in modo da formare un sillogismo condizionale che si avvale di numerose assunzioni: “Se Giovanni vuole incontrare il suo amico, allora gli deve andare incontro; se il suo amico
arriva in treno, allora Giovanni deve andare alla stazione; se Giovanni
è a casa sua e se casa sua è distante dalla stazione, allora egli deve muoversi in tempo; se non ha la macchina, allora deve andare a piedi. Dunque, se Giovanni vuole incontrare il suo amico, allora si deve incamminare in tempo verso la stazione”.
Ciò che risulta come comportamento è il movimento di Giovanni
verso la stazione. Tale comportamento implica una serie di cause, che
possono così venire indicate: cause fisico-materiali, intese come l’insieme dei sistemi biologici che costituiscono la base materiale
dell’azione e del comportamento; cause efficienti, nel senso degli impulsi elettrici che transitano per i nervi e inducono la contrazione dei
muscoli che fanno muovere le gambe di Giovanni; cause formali, che
coincidono con le rappresentazioni mentali e con i processi della loro
elaborazione, in parte inconsci e in parte coscienti, e che consentono a
Giovanni di programmare il suo comportamento. Ma questi tre ordini
di cause non sono sufficienti a spiegare il comportamento in questione.
Si impone anche la necessità di individuare cause finali, cioè ragioni, nel senso che le azioni che compongono il comportamento sono
programmate in vista di un fine: incontrare l’amico.
Alle ragioni si vincolano anche i significati, nel senso che Giovanni
dà valore all’incontro con l’amico e sa cosa deve fare per incontrarlo.
Potremmo dire, allora, che, se il comportamento di Giovanni si pone a
causa del movimento delle sue gambe, le gambe spingono Giovanni
verso la stazione, e non verso il centro della città, in ragione del fatto
che l’amico arriva in treno, ma anche del fatto che egli sa che l’amico
arriva in treno e del fatto che per lui questo incontro ha un significato
particolare e Giovanni sa valutare tutti questi fattori e incanalarli verso
un comportamento che, almeno in parte, dipende da una sua libera
scelta, cioè dalla sua intenzione cosciente.
Le spiegazioni meccanicistiche, e cioè quelle che fanno riferimento
solo alle cause fisiche, sono insomma insufficienti a spiegare il comportamento di Giovanni. Esse sono in genere considerate le uniche spiegazioni scientifiche non solo perché, a differenza del modello funzionalista, in esse la causa precede l’effetto – e un fisicalista non potrà mai
IV. Seconda esemplificazione: il riduzionismo nella spiegazione psicologica […]
259
accettare che la causa lo segua –, ma anche perché vengono tradotte in
processi in cui ogni tappa viene individuata e descritta.
I cognitivisti, come abbiamo visto, per spiegare come l’obiettivo di
incontrare l’amico preceda il comportamento di Giovanni, affermano
che tale obiettivo viene rappresentato nella sua mente ed è proprio tale
rappresentazione che causa l’azione.
Se non che, la rappresentazione non ha solo valenza fisica, ma ha
anche valenza cognitiva e, dunque, semantica. Essa, cioè, si riferisce a
“significati” nonché vale come “ragione”, nel momento in cui giustifica
l’azione.
In questo senso, se la rappresentazione precede temporalmente
l’azione, e per questo ne costituisce la causa, essa non di meno implica
ciò di cui è rappresentazione, il rappresentato (il fine, l’obiettivo
dell’azione), che diventa ragione della stessa causa e vale come l’intenzionato.
In altre parole: la ragione, cioè il fine o l’obiettivo dell’azione, vale
a rigore come la condizione di possibilità (intelligibilità) della stessa
causa, intesa come rappresentazione, giacché, se non ci fosse il rappresentato (intenzionato), essa sarebbe rappresentazione di nulla e, dunque, varrebbe come rappresentazione-nulla.
Il comportamento di Giovanni, è questo ciò che intendiamo mettere
bene in evidenza, non si spiega se si prescinde dalle cause formali e
dalle cause finali, intese nel senso di ragioni, significati e, soprattutto,
intenzioni.
Se, tuttavia, la spiegazione accoglie ragioni, significati e intenzioni,
allora non è più una spiegazione meccanicistica e, quindi, cessa di essere riduzionistica: il soggetto non è più rappresentabile come una macchina, neppure come una macchina per inferire.
Se passiamo al secondo caso, non potremo non rilevare che le
intenzioni e i pensieri (nonché i desideri, le aspirazioni, le volizioni,
ecc.) che stanno alla base di un comportamento anoressico possono
venire rigorizzati e messi in forma di enunciati condizionali, del tipo:
“Se mangio zuccheri, allora il mio corpo non sarà mai come vorrei che
fosse ed io mi sentirò inadeguato”, “Se non brucio calorie, allora non
potrò mai riconoscermi nel mio corpo”, “Se non provoco il vomito dopo
un’abbuffata, allora il mio corpo si deformerà e non avrà mai la forma
che auspico” e così via, ma le regole comportamentali sono dettate a
muovere da un obiettivo che si intende raggiungere e che è stato scelto
dal soggetto: quello di adeguare il corpo reale al corpo idealizzato.
260
Sul riduzionismo
Gli enunciati condizionali, pertanto, possono venire riassunti in un
sillogismo condizionale nel quale la premessa maggiore pone l’assunto
fondamentale o ragione del comportamento anoressico, ossia la
credenza di fondo del soggetto che equipara il mangiare a un’attività
che, invece di consentirgli la vita, lo getta in rovina, decretando la fine
del suo modello ideale: “Se mangio, allora mi rovino”.
La premessa minore, invece, formalizza la presa d’atto
dell’inevitabilità del mangiare per vivere: “Ma se vivo, allora mangio”.
La conclusione, infine, esplicita la drammaticità dello status che ne
deriva, stante che l’intenzione è quella di realizzare un corpo scarnificato e, per questo, “idealizzato”: “Dunque, se vivo, allora mi rovino”.
Il sillogismo indicato può venire definito sillogismo dell’annichilimento proprio perché esprime la contraddizione in cui versa chi,
per realizzare un’intenzione, rifiuta radicalmente la realtà da cui prende
le mosse.
A noi pare, insomma, che certi comportamenti, e il caso indicato lo
testimonia con chiarezza, siano spiegabili solo in termini di intenzioni
e di significati che sono sempre implicati e che devono adeguatamente
venire esplicitati.
Anzi, se intenzioni e significati impliciti (implicati) sono
adeguatamente esplicitati, l’anoressico (se di esso ci si occupa) potrà
riconoscerli come propri e ciò costituirà la condizione necessaria,
anche se non sufficiente, per un qualche progetto di cambiamento.
4.11. Alcune considerazioni sugli esempi proposti
Ciò che abbiamo cercato di evidenziare mediante le nostre
argomentazioni può così venire sintetizzato: il modello meccanicista
deve venire adeguatamente integrato e ampliato, specialmente quando
si tratta di fornire una spiegazione a fenomeni complessi e articolati
come i comportamenti.
Se la formula condizionale può venire considerata l’esplicitazione di
quella relazione di implicazione che costituisce il fondamento di ogni
processo esplicativo, e che evidenzia il carattere meccanico
dell’inferenza, tuttavia è possibile configurare una spiegazione che, pur
conservando l’aspetto meccanico dell’implicazione, vada oltre la forma
meccanicistica (riduzionistica) che caratterizza le spiegazioni
naturalistiche e fisicalistiche, ossia le spiegazioni che si riferiscono solo
a cause fisiche e materiali.
IV. Seconda esemplificazione: il riduzionismo nella spiegazione psicologica […]
261
La spiegazione che abbiamo proposto, quindi, può venire pensata
come un’evoluzione del modello che si fonda su una singola
implicazione e che trova espressione in una singola proposizione
condizionale, come accade nel caso della spiegazione comportamentista, la quale esplicita il nesso che sussiste tra stimolo e risposta.
Quando il modello che si usa per spiegare il comportamento è più
complesso, come per esempio nel caso del modello cognitivista,
allorché vengono adeguatamente esplicitate le elaborazioni più o meno
consapevoli che stanno alla base di un’azione, allora la spiegazione si
articola in una sequenza di inferenze, che si esprimono in sillogismi
condizionali.
Questi ultimi, proprio per il fatto che fanno interagire molteplici
fattori, non soltanto danno una forma più sofisticata al processo
esplicativo, ma altresì consentono di configurare una spiegazione che
può andare oltre la forma meccanicistica, creando le condizioni formali
per un’apertura esplicativa che abbracci come fattori anche le ragioni
e i significati: i comportamenti, in tal modo, possono venire interpretati
alla luce di scelte intenzionali compiute dal soggetto.
La “spiegazione psico-logica”, dunque, si presenta in forma di
modello integrato, per il suo coniugare le molteplici dimensioni che
caratterizzano la vita dello psichico: aspetti neurobiologici e
motivazionali, suggestioni provenienti dall’inconscio affettivo ed
elaborazioni proprie dell’inconscio cognitivo, pensieri coscienti e
pensieri taciti o impliciti.
Inoltre, in forza della possibilità che offre di rappresentare la psiche
nelle sue molteplici funzioni e nelle sue variegate dinamiche, tale spiegazione lascia emergere un soggetto che non è soltanto soggiacente alle
sue scelte, ma ne è anche attore.
Essa si propone, insomma, come spiegazione sofisticata dello
psichico, poiché non soltanto si esprime mediante un processo di
rigorizzazione, che tuttavia non produce una riduzione del mentale, ma
altresì realizza quella integrazione della dimensione sintattica e della
dimensione semantica, che restituisce la mente al suo autentico valore.
Si tratta – questo è il punto che vorremmo sottolineare con forza – di
una spiegazione che si fonda, da un lato, sull’uso della lingua naturale
e, dall’altro, sulla funzione critica svolta dalla coscienza37.
37
Per un approfondimento di questo aspetto, si rinvia ad A. STELLA, Questioni di psicologia
del pensiero, Guerini Scientifica, Milano 2008, pp. 201-233.
262
Sul riduzionismo
Se la lingua naturale riesce ad esprimere qualunque altra forma di
linguaggio, perché si dispone a un diverso livello e dunque vale come
metalinguaggio, altrettanto il pensiero riflessivo e critico, e per questo
cosciente, ha un valore non tanto metateorico, quanto emergente, per la
sua possibilità di riflettere su qualunque sistema della teoria e, dunque,
su qualunque modello esplicativo, che al sistema della teoria rimane
subordinato. Ciò è reso possibile proprio dal suo emergere oltre il
campo dei contenuti, i quali risultano tali solo in virtù della suddetta
emergenza38.
Se il pensiero automatico, che poggia su inferenze implicite o tacite,
rivela il suo potere causale, di contro il pensiero riflessivo e critico, che
quelle inferenze rende esplicite, rivela non soltanto il suo valore fondante ogni contenuto, stante il suo porlo nel limite che lo costituisce
come contenuto, ma altresì il suo valore esplicativo, che si aggiunge al
potere causale delle scelte intenzionali.
Per le ragioni addotte, il processo della spiegazione può venire
definito un processo di pensiero esplicito ed esplicitante, che si pone
proprio in virtù della funzione riflessiva e auto-riflessiva del pensiero,
cioè in virtù della coscienza39, la quale trova sé stessa, come genesi ultima del comportamento, nella forma dell’intenzione che non può non
essere cosciente.
Grazie alle caratteristiche indicate, tale spiegazione può avere un
ruolo centrale anche nel processo terapeutico, che per sua natura è
sempre da intendersi come logoterapia, ossia come terapia basata sulla
parola e sul discorso, nonché sulle ragioni e sui significati.
Rendere esplicito ciò che permane implicito in un comportamento,
ma anche in uno stato psichico, può avere fondamentali conseguenze
tanto sulla ristrutturazione cognitiva di un soggetto sofferente, quanto
sull’elaborazione delle dinamiche affettive che risultano disturbate.
Tale spiegazione, inoltre, consente di coniugare modelli diversi di
descrizione della mente: il modello cognitivista può coniugarsi con
quello psicoanalitico, ma anche con il sistemico-relazionale nonché con
Il tema dell’“emergenza” è stato più volte affrontato: ciò che si vuol dire è che l’emergente risulta tale se ci si pone dal punto di vista di ciò su cui si emerge; di contro, se si considera
che ciò su cui si emerge è il determinato, allora “emergere” coincide con il “venire meno a sé
stesso” da parte del determinato, sì che solo il fondamento (l’essere, l’assoluto) risulta essere
veramente e la stessa emergenza cessa di valere.
39
Per la differenza che sussiste tra coscienza empirica e coscienza trascendentale rinviamo
a quanto è stato detto nel capitolo precedente.
IV. Seconda esemplificazione: il riduzionismo nella spiegazione psicologica […]
263
la prospettiva costruttivista. E ciò è garantito proprio dall’uso della
lingua naturale, adeguatamente rigorizzata in forza dei sillogismi
condizionali.
Capitolo V
Modello riduzionistico
e modello sistemico-relazionale
5.1. La differenza tra il modello riduzionistico e quello sistemicorelazionale
In quest’ultimo capitolo, intendiamo affrontare il tema della differenza
che sussiste tra il modello riduzionistico e il modello sistemico-relazionale, che costituiscono i due principali modelli su cui si basano le
odierne scienze empiriche e sperimentali, che comprendono anche le
scienze umane.
Il nostro obiettivo non è soltanto quello di mostrare come il modello
sistemico intenda correggere il limite del modello riduzionistico, ma è
anche quello di mostrare il limite dello stesso modello sistemico.
Per svolgere l’indagine, prendiamo spunto da due interessanti lavori,
che si occupano appunto della differenza indicata e che sono comparsi
nel numero 1 del volume 37 (gennaio-giugno 2014) della Rivista “Epistemologia”. I due lavori sono scritti da Francesco Bottaccioli e Giovanni Villani e ad essi abbiamo rapidamente fatto cenno nella nota 1
del primo capitolo di questa Parte Seconda.
Anche Bottaccioli e Villani riconoscono che il modello riduzionistico non può non venire trattato senza fare riferimento al metodo analitico di indagine nonché alla prospettiva naturalistica, la quale, nella
sua versione più estrema, si traduce nella concezione del monismo materialistico.
Il modello sistemico-relazionale è un modello complesso, perché fa
valere il primato del sistema sui suoi elementi e il valore delle interazioni che sussistono tra questi. Tale modello nasce in ambito fisico con
l’affermarsi del concetto di “informazione”, che consente di intendere i
sistemi non più come chiusi, ma in continua comunicazione gli uni con
gli altri.
265
266
Sul riduzionismo
Con l’opera Teoria generale dei sistemi, von Bertalanffy1 pone i
concetti fondamentali del nuovo modello, che viene poi proposto all’attenzione generale da Bateson2 e da Morin3.
Morin, in particolare, parla di pensiero complesso e, soprattutto, di
unitas multiplex, per indicare la necessità di intendere anche l’unità in
senso dinamico. Del resto, lo stesso concetto era stato espresso ancora
prima da Severino4, il quale aveva parlato di struttura originaria, per
intendere un fondamento che sia in sé dinamico e articolato: l’unità di
un molteplice.
Il modello della complessità incontra sempre maggiori consensi e, in
particolare, le scienze umane fanno ricorso alle teorie sistemiche per
fornire una lettura pregnante delle dinamiche che caratterizzano la vita
di ciascun soggetto.
Le stesse scienze biologiche e mediche, che inizialmente avevano
sposato il modello riduzionistico, come sottolinea Bottaccioli, recentemente si stanno aprendo a una diversa prospettiva, cioè al modello biopsico-sociale, volto a sottolineare la necessità di intendere la stretta interconnessione che sussiste tra la dimensione biologica, quella psichica
e quella sociale.
La nostra ricerca intende stabilire se i due modelli debbano effettivamente venire contrapposti o se, invece, essi si pongano a condizione
di integrarsi reciprocamente. Per fornire una risposta alla domanda formulata, non si può non tornare al concetto di “relazione”, che risulta
centrale sia che si valorizzi il suo sciogliersi nei termini che la costituiscono (modello riduzionista) sia che si valorizzi il suo congiungerli
(modello sistemico).
5.2. I tratti essenziali del modello riduzionistico
A proposito del modello riduzionistico, così scrive Bottaccioli: “Un paradigma basato sulla grande illusione di poter ridurre a determinanti
1
Cfr. L. VON BERTALANFFY, General System Theory. Foundations, Development, Applications, George Braziller, New York 1968; trad. it. di E. Bellone, Teoria generale dei sistemi,
Mondadori, Milano 1983.
2
Cfr. G. BATESON, Steps to an Ecology of Mind: Collected Essays in Anthropology, Psychiatry, Evolution, and Epistemology, University of Chicago Press, Chicago 1972; trad. it. di
G. Longo, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1977.
3
Cfr. E. MORIN, Introduzione al pensiero complesso, già citato.
4
Cfr. E. SEVERINO, La struttura originaria, già citato.
V. Modello riduzionistico e modello sistemico-relazionale
267
semplici e quindi a conoscenze incontrovertibili la complessità della
vita”5.
Ebbene, il fondamento di tale modello è precisamente il metodo analitico, che caratterizza la ricerca scientifica. Aggiunge, infatti, Bottaccioli, che si occupa della scienza medica:
La ricerca delle cause, nel paradigma meccanicista, segue la procedura analitica che consente di scendere dal complesso al semplice con l’obiettivo di trovare a questo livello i determinanti molecolari della condizione fisiopatologica
analizzata6.
Analizzare significa “scomporre” e ciò è testimoniato dall’etimo stesso
della parola: ana-lyein, infatti, indica lo “sciogliere un vincolo”.
Da un punto di vista teoretico, l’analisi, di qualunque tipo di analisi
si tratti, per essere pienamente intelligibile deve richiedere come condizione a parte ante l’intero, perché solo quest’ultimo non è esito di un
processo analitico e, dunque, vale effettivamente come originario.
Se non che, nel suo esercitarsi, l’analisi trasforma l’intero e lo riduce
a composto. Si potrebbe anche dire che l’analisi assume l’intero come
se fosse un composto, stante che solo il composto può venire analizzato
senza venire alterato, cioè senza perdere quell’interezza che non gli appartiene.
Se, quindi, l’intero vale come il fondamento dell’analisi, perché è
originario rispetto ad essa e ne costituisce la condizione di intelligibilità, di contro il composto costituisce ciò che l’analisi presuppone.
Tuttavia, poiché il composto si ottiene soltanto mediante la riunificazione degli elementi ottenuti con l’analisi, consegue che esso, a sua
volta, presuppone l’analisi, in un circolo che non può non risultare vizioso.
L’irriducibilità dell’unità, che caratterizza l’intero, alla sintesi, che
caratterizza il composto, è indicata dallo stesso Aristotele e Calogero
non manca di rilevarlo, nel momento in cui distingue due modi mediante i quali lo Stagirita intende l’unità del sinolo:
La teoria che caratterizza la concezione aristotelica del reale nel suo rapporto
con l’ideale è, come è noto, quella per cui l’uno e l’altro, come materia e forma,
5
F. BOTTACCIOLI, «La fine della grande illusione del riduzionismo in biologia e in medicina», cit., p. 6.
6
Ivi, p. 9.
268
Sul riduzionismo
raggiungono, al di là della loro astratta separazione, il loro vero essere
nell’unità del sinolo. Dottrina fondamentale nel sistema aristotelico in quanto,
coincidendo la materia con la potenza e la forma con l’atto (come actum), il
concetto di sinolo s’identifica con quello mediante cui si risolve principalmente, in quel sistema, l’aporia platonica del divenire. Nei testi aristotelici si
trova d’altra parte espressa anche una diversa veduta, che si sostituisce alla
prima (o le si aggiunge, ma in modo che il primo termine finisce poi per essere
dimenticato e trascurato) e in forza della quale l’unità dinamica del sinolo viene
trasformata in un’unità di mera giustapposizione, per cui il reale si presenta
come nesso di una substantia e di vari accidentia7.
Se, insomma, l’unità è autentica, allora deve venire pensata come irriducibile alla semplice sommatoria dei costituenti, giacché quest’ultima
configura una relazione, una sintesi.
Facendo valere un punto di vista meno teoretico e più operativo, è
possibile ravvisare il limite dell’analisi nel fatto che la scomposizione
si compie applicando una forza che deve superare la “forza unificante”.
Allorché si cerca di ricomporre l’unità, tale vis deve venire considerata come componente essenziale, anche se non è facile determinarla.
La fisica contemporanea, proprio per la ragione addotta, allorché intende ricostituire l’unità non considera solo i componenti elementari,
ma anche i coefficienti di interazione. In tal modo, si supera bensì la
semplice giustapposizione, ma non si torna però all’unità dell’intero.
Non di meno, la conoscenza degli elementi viene ordinariamente
considerata come il coglimento della struttura intrinseca dell’oggetto
(fenomeno). Pervenire all’elemento costituisce, pertanto, l’obiettivo
dell’analisi, perché solo di fronte ad esso l’analisi può considerarsi effettivamente compiuta.
Tuttavia, conoscere un fenomeno (oggetto) significa non solo individuare le relazioni intrinseche che, vincolando i suoi costituenti, configurano la sua struttura, ma altresì individuare le relazioni estrinseche
che vincolano il fenomeno considerato ad altri fenomeni, che ne costituiscono le cause o i fattori che concorrono al suo prodursi.
Del resto, lo stesso processo della spiegazione – come abbiamo detto
nel capitolo precedente – può venire pensato come poggiante sulla relazione tra l’explicandum (explanandum), ossia ciò che domanda di ve
7
3-4.
G. CALOGERO, I fondamenti della logica aristotelica, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp.
V. Modello riduzionistico e modello sistemico-relazionale
269
nire spiegato, e l’explicans (explanans), ossia ciò che consente di spiegare. La relazione riveste, dunque, un ruolo fondamentale nel processo
conoscitivo, inteso nelle modalità più significative del suo configurarsi.
La questione, però, è se i fattori individuati possano davvero venire
considerati gli unici ad avere un ruolo nella produzione del fenomeno
esaminato o, nell’altro caso, se il fenomeno, inteso nella sua interezza,
possa venire ridotto alla sommatoria delle sue componenti e, inoltre, se
gli elementi individuati siano davvero atomici, cioè non ulteriormente
divisibili.
Si pensi, ad esempio, alla fisica atomica. Ciò che risulta indivisibile
a muovere da determinati strumenti, può risultare divisibile se si usano
strumenti più sofisticati. Se non che, l’analisi non può accettare un progressus in indefinitum. Essa è costretta a postulare, di volta in volta, di
essere pervenuta a qualcosa che funga da elemento, perché solo l’elemento può giustificare l’arresto del processo analitico8.
La difficoltà a reperire l’elementare ha comportato la necessità di
procedere sempre avanti nella scomposizione, così che la ricerca scientifica si è caratterizzata per la tendenza ad “esasperare” l’analisi.
L’oggetto del conoscere viene così frantumato, quasi polverizzato,
senza che si riesca mai a legittimare, in forma definitiva, né ciò che
viene assunto come indivisibile né la sintesi degli elementi, alla quale
l’unità originaria del fenomeno non può mai venire ridotta, almeno in
un modello ideale di conoscenza.
Quanto è stato affermato vale anche per la scienza medica, che ha
scelto l’individuo come suo oggetto di ricerca, come ci fa notare Bottaccioli che del modello medico principalmente si occupa.
L’individuo, inteso nel senso di persona, è l’elemento su cui poggia
quell’insieme che viene definito “società” e vale come indivisibile per
la scienza che di quell’insieme si occupa. Non per niente, la parola “individuo” indica precisamente questo: non diviso (e indivisibile).
Tuttavia, se vale come indivisibile per la scienza che si occupa della
società, non di meno esso diventa divisibile per quella scienza che progetta di coglierne la struttura.
Si impone qui una importantissima precisazione: la dualità di mente
e corpo, che molti considerano il retaggio della cultura idealistica, inaugurata da Platone, o del razionalismo cartesiano, è in effetti non altro
8
Per quanto attiene all’analisi, si rinvia a quanto è stato detto nel paragrafo 6 del secondo
capitolo della Parte Seconda.
270
Sul riduzionismo
che l’esito dell’iniziale scomposizione dell’individuo, scomposizione
che è la possibilità stessa che esso venga conosciuto, secondo il modello
scientifico del conoscere.
Conoscere l’individuo significa precisamente ridurlo alle sue componenti, le quali vengono connotate, in prima approssimazione, come
“mente” e “corpo” proprio per il fatto che il conoscere trova in esso un
elemento attivo, che si esprime nella stessa attività conoscitiva, e un
elemento passivo, che è ciò su cui l’attività si esercita e che viene definito corpo – o materia – perché, almeno inizialmente, risulta soggiacere
totalmente all’attività, come qualcosa di inerte.
Ogni ulteriore conoscenza dell’individuo si pone a muovere dall’assunzione del corpo e della mente come oggetti di ricerca successiva.
Intendiamo dire che, dopo la prima scomposizione, è possibile procedere analizzando sia la mente che il corpo, i quali, ancorché reciprocamente vincolati, una volta che sono stati sciolti dal vincolo possono venire assunti separatamente l’uno dall’altro e su ciascuno di essi è possibile esercitare l’attività analitica.
Con questa conseguenza: il corpo viene smembrato in una molteplicità di organi, gli organi vengono sistematicamente analizzati e risolti
in una molteplicità di cellule e le cellule in elementi sub-cellulari, secondo una progressione che aspira a pervenire all’atomo biologico, ma
che si trova di fronte sempre e soltanto un elemento che può, a sua volta,
venire ulteriormente scisso.
Questo sviluppo iper-analitico della ricerca ha comportato, sul piano
operativo, la iper-specializzazione delle competenze scientifiche, in generale, e mediche, in particolare, dando luogo altresì a uno sviluppo
impetuoso delle conoscenze specifiche e specialistiche, ma anche alla
perdita del senso di unità che vincola ciascuna parte al tutto.
A un analogo destino, del resto, è andata incontro la mente, la quale
è stata anch’essa scomposta in una molteplicità di funzioni, variamente
configurate e variamente espresse e riprodotte in forma computazionale, alla ricerca di quello che potremmo definire lo “psicone”, ossia di
quell’atomo psichico che possa in qualche modo venire assimilato al
neurone e svolgere, a livello della psiche, la funzione elementare che il
neurone svolge a livello del sistema nervoso.
In un simile universo teorico, la parte rischia di non essere colta
come parte-di-un-tutto, ma finisce per valere come una realtà che, in
una qualche misura, può venire considerata autonoma e autosufficiente.
V. Modello riduzionistico e modello sistemico-relazionale
271
Questo, a nostro giudizio, costituisce il limite principale della concezione riduzionistica: l’attenzione è stata rivolta essenzialmente
all’elemento, così che si è finito per dimenticare quel vincolo che intrinsecamente lo connette all’insieme degli altri elementi.
Ciò ha comportato, da un lato, il perdere di vista il significato che la
parte ha all’interno del sistema; dall’altro, il non considerare la peculiarità dei cosiddetti “sistemi complessi”, che sono tali per la ragione che
presentano proprietà emergenti. Tali proprietà, infatti, non sono riducibili a quelle dei loro costituenti elementari:
Negli anni Ottanta il filone della biologia teorica che propone nuove soluzioni
non meccaniciste si arricchisce della ricerca sulle proprietà emergenti nei sistemi complessi, proprietà quindi che non sono presenti in quanto tali nei costituenti il sistema, ma che sorgono come novità dalle interazioni tra questi
elementi9.
5.3. Riduzionismo e monismo
Per la ricerca che andiamo conducendo, non risulta essenziale considerare l’aspetto per il quale il riduzionismo si è spesso accompagnato al
determinismo. Ci interessa ribadire, però, che in taluni casi esso si è
saldato con una forma di naturalismo fisicalistico sempre più radicale,
così che – lo abbiamo visto, ma ci sembra essenziale ripeterlo – quella
concezione che è stata definita “monismo materialistico” può venire
oggi considerata la forma più estrema di riduzionismo.
Tale estremizzazione, non si può mancare di rilevarlo, è in contrasto
con la concezione dello stesso Quine, cui si deve il progetto di naturalizzare l’epistemologia, che configura la premessa sulla quale si basa il
processo di naturalizzazione della mente.
Quine non intende fare riferimento a un modello riduzionista e per
questo sottolinea non solo la sottodeterminazione delle teorie empiriche, ma altresì il vincolo tra linguaggio e teoria e, pertanto, la necessità
di far valere la tesi olistica, che impone di assumere ogni teoria in stretta
9
F. BOTTACCIOLI, «La fine della grande illusione del riduzionismo in biologia e in medicina», cit., p. 11.
272
Sul riduzionismo
connessione con tutte le altre, senza poterne assumere alcuna come
unica e definitiva10.
Del resto, anche il fisicalismo non sempre si è associato a un monismo radicale, come testimonia la prospettiva delineata da Davidson.
Davidson propone un monismo anomalo, perché il fisicalismo ontologico non necessariamente comporta la completa riduzione della mente
alla dimensione fisica e materiale. Per questo motivo, si parla di un “fisicalismo non riduttivo”.
Non di meno, in molte altre concezioni, che associano naturalismo e
fisicalismo, l’esito è quel monismo materialistico che, a nostro giudizio,
costituisce la forma più radicale di riduzionismo.
In tale prospettiva, infatti, viene bandita ogni forma di dualismo, perché ritenuta contraria alla concezione scientifica del mondo. Il dualismo, questo è il cuore della questione, viene considerato con sospetto
in ogni sua forma, proprio perché contrasta con la riduzione dell’oggetto di indagine alla realtà fisica, considerata appunto l’unica realtà
veramente esistente.
A muovere dalla concezione di Ryle, che nega il soggetto perché
rifiuta quello che definisce “il dogma cartesiano dello spettro nella macchina”11, la posizione dominante, variamente espressa e sostenuta, è il
materialismo:
esiste un solo tipo di sostanza, e cioè la materia – la sostanza fisica di cui si
occupano la fisica, la chimica e la fisiologia – e la mente è in un certo senso
niente altro che un fenomeno fisico. In breve la mente è il cervello12.
Abbiamo mosso numerosi rilievi critici al monismo materialistico. Qui
rileviamo che, se il modello riduzionistico si vincola al metodo analitico, almeno nel senso che l’analisi riduce-riconduce il composto ai suoi
costituenti, allora esso non può non postulare la relazione come suo
punto di movenza.
Se non che, nella misura in cui il punto di approdo del riduzionismo
è il monismo, allora il processo della riduzione si configura come la
negazione del suo stesso punto di movenza, rappresentato appunto
10
W.V.O. QUINE, «The nature of natural Knowledge», in S. GUTTELPAN (Ed.), Mind and
Language: Wolfson College Lectures, Oxford University Press, Oxford 1975; trad. it. di M.
Leonelli in W.V.O QUINE, Saggi filosofici 1970-1981, Armando, Roma 1982.
11
Cfr. G. RYLE, The concept of Mind, Hutchinson, London 1949; trad. it. di G. Pellegrino,
Il concetto di mente, Laterza, Roma-Bari 2007.
12
D.C. DENNETT, Coscienza. Che cosa è?, cit., 45.
V. Modello riduzionistico e modello sistemico-relazionale
273
dalla relazione. Quest’ultima, infatti, non può non implicare la differenza dei termini relati e ciò vale, in un certo senso, per la stessa relazione di identità.
In effetti, alcuni studiosi, come per esempio Searle, pur parlando di
monismo di sostanza, ammettono un dualismo di proprietà e in ciò mostrano di riconoscere il problema13.
Se non che, nel momento in cui al sostantivo “monismo” viene aggiunto l’aggettivo “materialistico” si finisce per determinare quel monos che, invece, è autenticamente uno solo nella misura in cui è assoluto, cioè sciolto da ogni relazione, da ogni vincolo ad altro da sé.
Come abbiamo rilevato in altra parte del lavoro, de-terminare significa de-limitare e cioè porre un limite, il quale identifica ciò che è limitato (A) solo in quanto lo riferisce a ciò che lo limita (non-A).
La relazione torna così a riproporsi come essenziale e pretendere di
ridurla a una dimensione solo fenomenica, che domanda di venire superata, contrasta con il fatto che essa costituisce proprio la condizione
di possibilità del porsi di ciò che la concezione monista considera come
“sostanziale”.
La relazione, infatti, costituisce precisamente ciò che consente di
identificare la sostanza come “materiale”, dal momento che consente di
differenziare quest’ultima da ciò che materiale non è: la non-materia è
postulata dalla stessa materia.
Che è come dire: se si ammette un’unica sostanza aut la si intende
come l’assoluto stesso, ma allora non la si può determinare, aut la si
determina, ma allora si nega per ciò stesso la possibilità di considerarla
autenticamente unica, così che l’espressione “monismo materialistico”
si rivela, a rigore, un’antilogia.
5.4. Il modello sistemico-relazionale
Il modello sistemico-relazionale, invece, mette in primo piano la relazione e ne enfatizza il ruolo. Così scrive Bottaccioli, a proposito dell’affermarsi del modello sistemico: “Insomma siamo dentro un epocale
cambiamento del paradigma della biologia molecolare: nel micro
13
Cfr. J.R. SEARLE, The Mystery of Consciousness, New York Review of Books, New York
1997; trad. it. di E. Carli, Il mistero della coscienza, Cortina, Milano 1998; Id., Mind. A Brief
Introduction, già citato.
274
Sul riduzionismo
mondo della vita, dove sembrava obbligatorio il dominio dell’approccio
riduzionista, emerge con forza dirompente l’approccio sistemico”14.
E aggiunge: “Quello che conta quindi è l’interazione tra gli elementi,
non semplicemente la loro analisi. Comprendere come interagiscono
tutti gli elementi significa darsi una rappresentazione del sistema che
opera”15.
Ciò che si impone come imprescindibile è dunque l’esigenza del recupero di una visione d’insieme, di una sintesi che sappia ricomporre la
molteplicità degli elementi in una configurazione unitaria.
A muovere dalla Teoria generale dei sistemi, che costituisce il manifesto del nuovo programma della fisica teorica, anche le altre scienze,
incluse le scienze mediche e psicologiche, sono diventate sempre di più
“scienze di relazioni”.
La consapevolezza, che ha fondato l’autentica rivoluzione epistemologica rappresentata dai modelli della complessità e dell’olismo, è precisamente quella che coglie la determinazione come intrinsecamente
connessa a tutte le altre, giacché queste ultime sono essenziali al suo
porsi come “quella” determinazione.
Anche qui va ribadito che, senza la relazione, cioè senza il limite,
nessuna identità potrebbe porsi in forma determinata; ma quella identità, che viene posta in forza del limite, è un’identità che si vincola inscindibilmente alla differenza e solo astrattamente può venire separata
da essa.
La scienza, dopo il suo enorme sviluppo analitico, tende ora a dispiegarsi in forme altrettanto compiute sul versante della sintesi, cioè della
ricomposizione di ciò che è stato diviso.
Si potrebbe così affermare che, se la spiegazione vale come esplicitazione della genesi di un fenomeno, la genesi tuttavia non può esaurirsi, ingenuamente, nella individuazione di una causa unica.
Parlare di “causa” comporta il riferirsi, almeno implicitamente, al
concetto di “concausa”. Il modello multifattoriale, in tal modo, viene
progressivamente ad imporsi in virtù della consapevolezza del valore
della relazione, che consente di porre in essere un tipo di spiegazione
sempre più aperta, perché non dogmatica, non più basata, cioè, sulla
valorizzazione esclusiva di un elemento, di una causa, di una teoria.
F. BOTTACCIOLI, «La fine della grande illusione del riduzionismo in biologia e in medicina», cit., p. 12.
15
Ibidem.
V. Modello riduzionistico e modello sistemico-relazionale
275
Si prenda, come esemplificazione, il modello bio-psico-sociale.
Questo nuovo modello di spiegazione, in grado di far interagire sistemi
teorici diversi – oltre che diverse sezioni di esperienza, che a quei sistemi si riferiscono –, è più comprensivo, nel senso che è in grado di
cum-prehendere una molteplicità di fattori che entrano in gioco nel produrre un fenomeno, anche somatico (un sintomo, una sindrome, una
malattia).
Più in generale, ogni evento può venire effettivamente conosciuto
solo perché viene colto nella fitta rete di rinvii che lo vincola ad altri
eventi, in quel tessuto che è appunto l’esperienza, la cui concretezza
deve venire intesa nel senso del cum-crescere degli eventi, cioè del
porsi e dell’evolversi di ciascuno in riferimento a tutti gli altri.
Questa molteplicità di riferimenti determina un’influenza reciproca
tra gli eventi, così che valorizzarne uno soltanto, promuovendolo a
causa unica, equivale a configurare un’autentica astrazione, ossia un
abs-trahere, un tirare fuori un dato dalla catena dei riferimenti che lo
vincola agli altri dati.
Se il riduzionismo preso in esame in precedenza aveva messo capo,
in quanto estremizzato, a una concezione rigidamente fisicalistica e materialistica, il modello complesso produce una concezione funzionalistica, la quale, in una qualche misura, determina una nuova forma di
riduzionismo: un riduzionismo funzionalistico, piuttosto che materialistico.
La concezione funzionalistica, infatti, consente bensì di andare oltre
l’aspetto ingenuo del materialismo e del determinismo e abbandona la
pretesa di definire le essenze ultime dei fenomeni, giacché si accontenta
di descriverli come processi funzionali; tuttavia, la conoscenza viene
risolta in termini computazionali: conoscere una cosa significa ormai
conoscere i rapporti che la vincolano a tutte le altre cose, così che il
calcolo diventa la forma ideale di una descrizione che è soprattutto
quantitativa e misurazionistica.
Come esemplificazione potremmo indicare il funzionalismo computazionale in cui si esprime il modello cognitivo classico o simbolico (del
quale abbiamo parlato nel secondo capitolo di questa Parte Seconda).
Precisamente per le ragioni addotte la matematica costituisce il paradigma essenziale di ogni scienza empirica, configurando la modalità
più precisa per formalizzare e calcolare i nessi che sussistono tra le determinazioni. Ciò comporta, però, la valorizzazione del solo aspetto sintattico e la messa in parentesi dell’universo dei significati.
276
Sul riduzionismo
Ma la dimensione del significato non può venire eliminata, giacché
costituisce l’elemento qualitativamente più rilevante almeno di una funzione: della funzione psichica.
In questo senso, parliamo di riduzionismo funzionalista, per il limite
che questo modello denuncia nel trattare il tema della coscienza, la
quale è intrinsecamente vincolata alla dimensione semantica.
Villani, nel suo saggio, per sottolineare il ruolo avuto dal modello
sistemico-relazionale nella definizione del concetto di vita, parla di
“complessità sistemica”16 e scrive:
Lungo la storia della biologia, l’alternativa è sempre stata […] tra una visione
“passiva” della materia e con proprietà (come la vita) generate dalla sua organizzazione (meccanica) spaziale e una visione “attiva” della materia (come
quella chimica), ma le cui proprietà (compresa la vita) dovevano essere inglobate negli elementi costitutivi, fossero essi le particelle vive o una materia organica specifica17.
Per giungere a questa conclusione:
L’opposizione quindi, tra proprietà e organizzazione, tra materia attiva e passiva, è eliminata dicendo che è vero che le caratteristiche originali dei costituenti (le loro proprietà e la loro attività) preesistono al sistema, ma esse sono
modificate per avere nuove proprietà e attività dall’organizzazione che, tuttavia, non va intesa come semplice organizzazione spaziale e meccanica. In pratica, abbiamo sistemi che, interagendo, costituiscono nuovi sistemi18.
Abbiamo parlato di “riduzionismo funzionalista” per sottolineare che la
contrapposizione tra il modello riduzionista e quello sistemico non ci
convince. A noi sembra infatti che, se il modello riduzionista tende a
valorizzare gli elementi, mettendo in secondo piano le relazioni che li
vincolano e li strutturano, altrettanto il modello sistemico-relazionale
tende a valorizzare le relazioni, mettendo in secondo piano i termini sui
quali pure esse poggiano.
Entrambi i modelli, insomma, sono segnati da un certo riduzionismo e per questa ragione si impone la necessità di integrarli, piuttosto
che contrapporli.
16
G. VILLANI, «L’approccio sistemico della chimica al concetto di vita», cit., p. 34.
Ivi, p. 35.
18
Ibidem.
17
V. Modello riduzionistico e modello sistemico-relazionale
277
Del resto, il dibattito sul primato o meno della relazione non costituisce di certo una novità. Heidegger19, prima, e Dewey (insieme a
Bentley)20, poi, hanno affermato proprio questo primato, parlando del
“circolo ermeneutico” (Heidegger) e del concetto di “transazione”
(Dewey e Bentley), laddove von Hartmann ha riproposto una concezione ontologista, volta ad affermare il primato dei termini21.
Di tale dibattito intendiamo ora dare rapidamente conto, per evidenziare che la questione non è stata risolta e, forse, non può venire risolta
fino a che la relazione viene pensata come medio tra estremi.
5.5. La relazione e i suoi termini
Il primato della relazione sui relati ha indotto Dewey e Bentley a introdurre il concetto di transazione, che viene compiutamente tematizzato
nell’opera Conoscenza e transazione.
Prendendo in esame le molteplici forme del “conoscere” e il loro
rapporto con i “conosciuti”, i due autori precisano che
qualsiasi conoscere [knowing] o qualsiasi conosciuto [known] si stabilisce o
meno unicamente attraverso una continua e infaticabile ricerca, e mai sulla
base di un qualche presunto “fondamento”, “premessa”, “assioma” o ipse dixit
estrinseco22.
Qui il concetto di “ricerca” non fa che anticipare il concetto di “transazione”, giacché con esso si intende indicare la necessità di valorizzare
il primato della relazione conoscitiva sui termini di cui essa si compone,
e cioè sul conoscere e sul conosciuto: “i conoscere [knowings] sono
sempre dunque inseparabili da i conosciuti [knowns]: essi sono aspetti
gemelli di un fatto comune”23.
L’istanza transazionale indica dunque, come giustamente osserva
Visalberghi, “qualunque processo dove il corso delle attività in giuoco
non sia riducibile a qualcosa di ‘accidentale’ fra entità ‘sostanziali’, ma
al contrario ci si mostri tale da costituire o ricostituire di continuo i suoi
19
Cfr. M. HEIDEGGER, Essere e tempo, già citato.
Cfr. J. DEWEY, A.F. BENTLEY, Conoscenza e transazione, già citato.
21
Cfr. N. VON HARTMANN, Zur Grundlegung der Ontologie, W. De Gruyter & Co, Berlin
1935; trad. it. di F. Barone, La Fondazione dell’Ontologia, Fratelli Fabbri, Milano 1963.
22
J. DEWEY, A.F. BENTLEY, Conoscenza e transazione, cit., p. 62.
23
Ivi, p. 68.
20
278
Sul riduzionismo
propri termini”24. Ciò comporta una critica radicale di ogni ontologismo, inteso come sussistenza di una res che funge da fondamento del
rapporto:
1) in qualunque genere di ricerca dobbiamo tener presente che le distinzioni,
determinazioni e specificazioni introdotte hanno valore funzionale rispetto ai
problemi del caso, e non ontologico […]; 2) in qualunque genere di ricerca
dobbiamo tener presente che le realtà che studiamo sono strettamente interdipendenti ed interconnesse, non solo fra loro ma anche con altri aspetti del reale
lasciati necessariamente ai margini dell’indagine in atto25.
Difficile non riconoscere in questa concezione un modello circolare, e
cioè un modello nel quale si intenderebbe valorizzare il rapporto, considerandolo prioritario rispetto ai termini, senza però che questa valorizzazione significhi il considerarlo “fondamento”, giacché quest’ultimo viene considerato, da Dewey e da Bentley, ma anche da Visalberghi, che sul pensiero di Dewey e Bentley riflette, un’ipostasi, una sostantivazione di matrice ontologistica.
Chi, invece, ripropone il punto di vista ontologico, contrapponendosi
in particolare a Heidegger – che parla non soltanto di “circolo ermeneutico”, ma anche di “apertura originaria”26, proprio per valorizzare il
ruolo della relazione –, è von Hartmann, il quale accusa di vuoto relazionalismo il circolo sussistente tra la relazione e i suoi relati27.
Hartmann evidenzia che la concezione volta ad affermare il primato
della relazione, nonostante intenda superare la presupposizione dei dati,
in effetti non può non riproporla allorché la relazione viene intesa come
medio.
Se, infatti, i dati sono impensabili senza la relazione, e per questa
ragione vengono definiti “termini”, a sua volta la relazione è impensabile senza i termini, i quali si trovano a presupporre quella relazione che
li presuppone, riproponendo quel regressus in indefinitum che invece si
vorrebbe evitare.
È proprio per questa ragione che il circolo si rivela vizioso e Hartmann non manca di rilevarlo: “Si risolvono in relazioni i sostrati del
24
A. VISALBERGHI, «Il concetto di “transazione”», in F. ROSSI-LANDI (sotto la direzione
di), Il pensiero americano contemporaneo, Edizioni di Comunità, Milano 1958, p. 274.
25
Ivi, pp. 282-283.
26
Cfr. M. HEIDEGGER, Essere e tempo, già citato.
27
N. VON HARTMANN, La Fondazione dell’Ontologia, già citato.
V. Modello riduzionistico e modello sistemico-relazionale
279
rapporto. E non ci si accorge che si finisce così nel vicolo cieco del
vuoto relazionalismo”28.
Poco più avanti, Hartmann definisce “argomento correlativistico”
l’affermazione del primato della relazione nella costituzione sia del soggetto sia dell’oggetto, ma tale argomento può venire esteso alla costituzione di ogni determinazione, in quanto questa si configura in forza del
rapporto con altra determinazione:
Ma dietro questo disconoscimento del problema c’è ancora una considerazione
che è molto più antica e che domina, come fonte d’errore con estese conseguenze, anche la critica della ragion pura. La si può chiamare l’“argomento
correlativistico”. Esso afferma che non c’è alcun oggetto di conoscenza senza
un soggetto di conoscenza; che non si può separare l’oggetto dalla coscienza,
che l’oggetto in generale è tale solo “per” la coscienza29.
A tale argomento Hartmann oppone la sua concezione, che propone un
ritorno all’ontologia tradizionale:
a differenza dalla rappresentazione, dal pensiero, dalla fantasia, l’essenziale
nella conoscenza è che il suo oggetto non si risolve nel suo essere oggetto per
la coscienza. Ciò a cui la conoscenza si rivolge effettivamente, cercando di
comprenderlo e di sondarlo sempre più, ha un “essere” superoggettivo. Esso è
ciò che è, indipendentemente dal fatto che una coscienza lo faccia o no suo
oggetto, e indipendentemente anche dal grado maggiore o minore in cui essa
lo fa tale. Il suo essere oggetto è in esso, in generale, qualcosa di secondario30.
A nostro giudizio, quando Hartmann pretende di affermare che il fondamento oggettivo va inteso nella forma di una molteplicità di enti, i
quali dovrebbero essere irrelati, ma anche determinati, egli ripropone
un concetto ingenuo di realtà, nel quale le determinazioni avrebbero una
loro identità autonoma e autosufficiente, dunque esibirebbero un’immediatezza che invece è tolta proprio dal loro reciproco riferirsi.
Da un lato, dunque, non si può non concordare con Hartmann nel
riconoscere che la soluzione transazionale non perviene a un’autentica
fondazione, ma semplicemente al circolo della presupposizione infinita,
al diallele: se i termini presuppongono la relazione, a sua volta la relazione presuppone i termini.
28
Ivi, p. 84.
Ivi, p. 92.
30
Ibidem.
29
280
Sul riduzionismo
Dall’altro, se si cerca di assumere la res come un’ipostasi, cioè nella
forma dell’immediatezza, si dimentica il suo intrinseco carattere relazionale, ossia il fatto che essa si determina solo in virtù del suo differenziarsi.
Come uscire allora dall’aporia? A nostro giudizio, e lo abbiamo già
anticipato, v’è un unico modo: intendendo la relazione non più come
costrutto, ma come atto.
5.6. Sul riduzionismo: conclusioni
Precisare ulteriormente il concetto di relazione configura la naturale
conclusione del discorso che siamo andati svolgendo, comprendente sia
il riduzionismo teoretico sia il riduzionismo teorico.
Riproponiamo, in forma essenzializzata, il tema della relazione proprio per fornire un senso unitario al discorso svolto sul riduzionismo.
La riduzione della relazione a costrutto configura, infatti, non solo una
delle forme fondamentali del riduzionismo teoretico, ma essa è vigente
e operante anche nelle molteplici forme del riduzionismo teorico.
Ricordiamo, quindi, che ordinariamente, quando si parla di “relazione”, si intende proprio un costrutto formato da due termini estremi
(A e B) e un nesso (r) che li vincola. È precisamente per questa ragione
che si è soliti parlare di costrutto mono-diadico.
Il costrutto relazionale, ancorché svolga una funzione insostituibile,
si è rivelato un costrutto problematico. Se, infatti, la relazione è pensata
come intercorrente tra A e B, allora essa si propone come un nuovo
termine: il termine medio.
Quest’ultimo, da un certo punto di vista unisce A e B; ma, da un altro
punto di vista, divide A da B. Se lo indichiamo con la lettera C, allora
si vengono a configurare due nuove relazioni: quella intercorrente tra A
e C e quella intercorrente tra C e B, in modo tale che dalle due nuove
relazioni originano due nuovi medi, e così via all’infinito.
Ebbene, proprio l’inconcludenza di un regressus in indefinitum
viene evidenziata da Platone nel Parmenide31, allorché l’Eleate prende
in considerazione la relazione che intercorre tra i modelli ideali e le
cose. Aristotele, nella Metafisica, accenna più volte all’argomento del
terzo uomo, intendendo il carattere aporetico del concetto platonico di
31
Cfr. PLATONE, Parmenide, 130 e - 132 b; trad. it. cit., pp. 20-23.
V. Modello riduzionistico e modello sistemico-relazionale
281
“partecipazione”32, in quanto esso – lo ribadiamo anche qui – viene ridotto al concetto ordinario di relazione.
In epoca più recente Bradley ha efficacemente essenzializzato il circolo cui mette capo il concetto di relazione e lo ha mirabilmente
espresso in questo passo, che riproponiamo proprio perché ne riconosciamo l’importanza capitale:
Una relazione indipendente dai suoi termini è un’illusione. Se essa deve essere
reale deve esserlo in un certo senso a spese dei termini o, per lo meno, deve
essere qualcosa che si manifesta in loro o a cui essi appartengono. Una relazione tra A e B implica realmente un fondamento sostanziale in loro. […] La
nostra conclusione sarà, in breve, la seguente: la relazione presuppone la qualità [i termini], e la qualità la relazione; nessuna delle due può esistere indipendentemente dall’altra né in sua compagnia e il circolo vizioso nel quale entrambe si avvolgono non può essere l’ultima parola sulla realtà33.
Se Bradley34 intende la relazione come intrinseca al dato, di contro
Moore35 e Russell36 – lo abbiamo rilevato anche nel paragrafo 5 del
terzo capitolo della Parte Prima – ne affermano il carattere estrinseco,
32
Cfr. ARISTOTELE. Metafisica I, 9, 990 b, 1-18; tr. it. cit., p. 105.
F.H. BRADLEY, Apparenza e realtà, cit., pp. 160-163.
34
BRADLEY, come è noto, è autore studiato e commentato oggi soprattutto dal punto di vista
storico. E così “I vari temi trattati in Apparenza e realtà e nelle sue altre opere principali […]
raramente fanno capolino nei testi di filosofia contemporanea. Unica eccezione è la questione
delle relazioni, della loro natura e del presunto regresso cui per Bradley esse darebbero luogo”
(L. CIMMINO, Il cemento dell’universo, Cantagalli, Siena 2009, pp. 9-10). Sul tema del regresso,
che non possiamo approfondire in questa sede, ma che emerge anche dal passo di Bradley citato,
si è acceso un importante dibattito, del quale sono espressione numerosi lavori. Fra gli altri,
ricordiamo quelli di P.F. STRAWSON (Individual: An Essay in Descriptive Metaphysics, Methuen & Co., London 1958), di D.M. ARMSTRONG (Universals: An Opinionated Introduction,
Westview Press, Boulder 1989), di R. GASKIN («Bradley's Regress, the Copula and the Unity
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2004, pp.159-183), di F. ORILIA («Stati di cose, esemplificazione e regresso in Bradley», Rivista
di Filosofia, XCVII (3), 2006, pp. 349-385) e di F.F. CALEMI («La disputa nominalisti-universalisti», APhEx Portale Italiano di Filosofia Analitica, I, 2010, pp. 34-57; «Teorie realistiche
dell’istanziazione», in G. MARI, F. MINAZZI, M. NEGRO, C. VINTI (a cura di), Epistemologia e
soggettività. Oltre il relativismo, Firenze University Press, Firenze 2013, pp. 39-52), oltre
quello dello stesso Luigi Cimmino sopra menzionato. Ci sembra interessante rilevare come,
proprio per evitare il regresso, Armstrong abbia inizialmente ripreso l’idea di Strawson postulando un’istanziazione che dovrebbe valere quale “nesso non-relazionale”.
35
Cfr. G.E. MOORE, «The Refutation of Idealism», cit., pp. 433-453.
36
Cfr. B.A.W. RUSSELL, I principi della matematica, già citato; Id., Logica e conoscenza,
già citato; B.A.W. RUSSELL e A.N. WHITEHEAD, Principia Mathematica, già citato.
33
282
Sul riduzionismo
perché paventano che la relazione intrinseca possa sottrarre consistenza
ontologica al dato stesso.
A noi sembra che proprio questo sia il tema e, per argomentare su di
esso, aggiungiamo un’ulteriore considerazione. La relazione intesa
come costrutto mono-diadico, da un lato, postula l’identità dei relati (A
e B) e la postula secondo la forma in cui l’identità viene ordinariamente
concepita e cioè tale che tanto A quanto B risultano ciascuno identico a
sé stesso e per questo differente da ogni altro.
Dall’altro lato, richiede che l’identità di ciascun termine non sia
chiusa, cioè autonoma e autosufficiente, ma sia aperta all’identità
dell’altro, onde giustificare il loro vincolo. Ma è bene il vincolo che non
si concilia con l’autonomia delle identità, nel senso che, se A è A perché
è autonomo, nel momento in cui entra in relazione con B perde la sua
autonomia e, dunque, cessa di essere A. Se non venisse meno come A,
nessuna relazione si sarebbe instaurata.
La relazione, pertanto, richiede i termini come se fossero due identità
distinte e autonome (A non è B), ma, insieme e contraddittoriamente,
come se l’un termine si fondasse sull’altro (A c’è perché c’è B; A non
può stare senza B). Che è come dire: il costrutto mono-diadico concilia
l’indipendenza dei termini con la loro reciproca dipendenza e, cioè,
concilia ciò che è in sé inconciliabile.
Per uscire dall’antilogia, la relazione deve venire pensata come intrinseca alla determinazione e non come disponentesi tra le determinazioni. Ogni dato è, in sé, sé et non sé: una contraddizione.
Riconoscere il valore intrinseco della relazione non decreta, tuttavia,
la dissoluzione del dato, ma impone invece di coglierlo nel suo contraddirsi, che è poi il suo trasformarsi (mediarsi), cioè il negare la pretesa
di valere come effettivamente autonomo e autosufficiente.
Reciprocamente, la relazione cessa di valere come un’ipostasi, un
quid medium che la irrigidisce a status, e viene a coincidere con
quell’atto del riferirsi, che costituisce l’essenza del determinato e lo
spinge a trascendere la propria immediatezza.
In tal modo, si supera una visione sostanzialistica dell’esperienza e
si approda veramente a una sua visione dinamica e vitale. Ogni determinazione si rivela un segno, che vive nel suo rinviare non soltanto a
ogni altra determinazione (segno), ma, più radicalmente, a quell’unico
significato, che di tutti i segni – inclusi i significati ordinari, che altro
non sono che segni – costituisce il referente ultimo.
V. Modello riduzionistico e modello sistemico-relazionale
283
Ne consegue che il sistema non è tanto l’insieme statico delle determinazioni, ma quell’universo di senso in cui il segno non si irrigidisce
in una determinazione che non sia, ancora, il suo inarrestabile oltrepassarsi37.
In questa prospettiva è possibile superare l’unilateralità del modello
riduzionista e del modello sistemico e così si evita il rischio di cadere
tanto nel riduzionismo materialistico, che è poi sostanzialistico, quanto
nel riduzionismo funzionalistico, che è poi correlativistico.
L’integrazione dei due modelli, pertanto, deve venire pensata oltre
la loro semplice giustapposizione, lasciando emergere un senso di
un’unità che li ricomprenda e risignifichi.
37
Cfr. A. STELLA, La relazione e il valore, cit., pp. 100-143.
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CUM–SCIENTIA. PER L’UNITÀ NEL DIALOGO
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. Aldo S
Sul riduzionismo. Dal riduzionismo teoretico al riduzionismo teorico
----, formato × cm, pagine, euro
Finito di stampare nel mese di febbraio del
dalla tipografia «The Factory S.r.l.»
Roma – via Tiburtina,
per conto della «Gioacchino Onorati editore S.r.l. – unipersonale» di Canterano (RM)