Andrea Merlotti
La tavola reale alla corte
di Carlo Alberto
Nuove pratiche e nuovi spazi
L’età di Carlo Alberto costituì un punto di svolta nella pratica dei pranzi di
corte. Sino alla fine del Settecento, e poi di nuovo con la Restaurazione, il
sovrano mangiava da solo o con la famiglia. Nessuno era ammesso alla tavola
del sovrano, se non, in alcuni casi, le dame della regina. I pranzi pubblici, assai comuni nel corso del Seicento, erano stati abbandonati a partire dal 17131.
Solo quando la corte si trovava in villeggiatura, i visitatori erano ammessi ad
assistervi2. Le pratiche sabaude incontravano allora il plauso della maggior
parte dei viaggiatori stranieri, soprattutto dei francesi, i quali coglievano lo
stridente contrasto con quelle di Versailles.
È importante notare, però, che già nel 1771 Giuseppe Baretti, in un memoriale
inviato da Londra a Vittorio Amedeo III (allora erede al trono) gli suggeriva
d’utilizzare la tavola reale come un luogo in cui invitare e conoscere le migliori
forze del Paese. Il consiglio era quello di tenere “una cena privata ogni sera,
e tante sere la settimana” e invitarvi “gente scelta e capace di suggerire cose
utili”3. Una proposta troppo avanzata per una corte i cui costumi erano sostanzialmente refrattari ad ogni innovazione, e che vedeva, anzi, nella continuità secolare delle proprie pratiche (a volte vera a volte presunta) una fonte
di legittimazione.
A cambiare la situazione – ma solo parzialmente – fu, sessant’anni dopo il consiglio di Baretti, Carlo Alberto. A raccontarlo è Luigi Francesco des Ambrois
de Névache (1807-1874), che del re fu a lungo intendente e poi ministro4, nei
suoi Notes et souvenirs inédits:
Charles Albert invitait presque tous le jours à sa table quelqu’une des notabilés du
Pays sans distiction de naissance.5
[...]
Il dinait, entouré da la famille Royale et de sa cour en uniforme ou en costume de
cour. A sa table le jours de conseil siégeaient aussi les ministres.
er l’autore:
inserire riferimenti infratesto alle immagini
fig. 1
Massimo d’Azeglio, Nizza
valorosamente difesa scampa
dall’assedio dei francesi e dei
turchi (1543), olio su tela, 1837.
Torino, Musei Reali, Palazzo
Reale, Appartamento dei Principi
di Piemonte, Sala rossa
Questo tipo di pranzi, che si svolgeva anche quando si riunivano il Consiglio di
Stato e le altre più alte istituzioni del Paese, non era registrato nei cerimoniali
di corte. Pur svolgendosi a palazzo, infatti, non era considerato una funzione
di corte. Solo una volta il conte Paolino Gazelli di Rossana, maestro di cerimonie dal 1822 al 1844 (dal 1834 col titolo di gran maestro) nei suoi pur molto
precisi registri cerimoniali accenna ad uno di essi, un pranzo per il Consiglio
di Stato, tenutosi nel febbraio 1843 con trentasei commensali6.
Des Ambrois notava che alla tavola privata del re erano invitate persone sia
nobili sia borghesi, persino studiosi ed intellettuali: una assoluta novità rispetto a quanto era stato sino allora:
Presque toujours y étaient invités des fonctionnaires éminents ou des personag-
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ges distingués dans les arts, les sciences ou les lettres ou des étrangers de distinction qui avaient obtenu una audience. Après le diner le Roi s’entretenait avec
ses commençaux, ayant toujours quelque mot gracieux pour chacun; puis il se
retirait dans ses appartements et bientôt aprés se couchait.7
Carlo Alberto, quindi, affiancò alla pratica dell’ammissione (quella per cui ad
un evento di corte poteva partecipare solo chi ne avesse diritto per il ruolo
ricoperto) quella dell’invito. Esser invitati a pranzo dal re era un evento che
non lasciava certo indifferenti. Ne ha lasciato una testimonianza Genova Thaon di Revel (1817-1910) nei suoi Ricordi. Nell’estate del 1841, giovane ufficiale,
era stato invitato dal re a pranzare alla sua tavola. Genova non si faceva illusioni: all’epoca suo fratello maggior Ottavio (1803-1868) era primo ufficiale al
ministero delle Finanze. “Era una prova di benevolenza del re per mio fratello”, scriveva, “ma figurarsi l’impressione prodotta in un tenentino da un invito
personale alla tavola reale”8. E a scrivere così era l’esponente d’una delle più
importanti famiglie della nobiltà piemontese, avvezzo alla vita di palazzo.
Anche Carlo Alberto, peraltro, dava grande importanza a tali inviti. Il senatore
Francesco Salata, curatore nel 1931 dell’edizione dei diari del re giunti sino
a noi, racconta che nel manoscritto il sovrano riportava ogni giorno la nota
degli invitati. Purtroppo egli ha espunto tali elenchi, rendendo quindi impossibile (almeno per ora) ogni riflessione che se ne potrebbe ricavare9.
È interessante notare che sia des Ambrois de Névache sia Thaon di Revel cogliessero l’importanza che il sovrano partecipasse ai pranzi sempre in divisa:
Le Roi se considérait constamment comme un suprème fonctionnaire dans
l’exercise de son autorité et dans l’accomplissement de ses devoirs. Il ne recevait
qu’en costume officiel (celui de général d’armée). Il dinait dans ce costume.10
Thaon di Revel, da parte sua, conferma che il re vestiva sempre in uniforme e
solo nei pranzi in villeggiatura la smetteva, per indossare un abito di panno blu11.
La nascita dei pranzi ad invito non mancò di avere ripercussioni anche sugli
spazi dei palazzi reali destinati ad accogliere la tavola del re. Carlo Alberto, infatti, nel 1837 decise di far approntare una nuova Sala da pranzo per il Palazzo
Reale di Torino.
La decorazione della sala mirava a dare alla sala un senso politico immediatamente percepibile dagli ospiti e dai visitatori. A raccontarlo era Carlo Alberto
stesso all’amica Maria di Robilant. “Si è deciso di decorarlo con scene storiche
rappresentanti sia battaglie sia fatti rimarchevoli riguardanti Casa Savoia”,
scriveva il re12. Ad occuparsi della sala fu chiamato per primo Francesco Gonin incaricato di dipingere la volta della sala con un affresco che raffigurava il
conte Umberto Biancamano che, nel 1035, sfidava il conte Oddone de Cham-
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pagne, agendo come “paladino dell’imperatore Corrado”, per riprendere ancora le parole dello stesso Carlo Alberto13. A rimarcare ancora il senso politico
della decorazione, a Gonin fu chiesto anche di dipingere negli angoli le allegorie delle principali province dello Stato. In un primo momento il re coinvolse
nella decorazione altri due pittori: Massimo d’Azeglio, per raffigurare la presa
di Varna da parte di Amedeo VI e la difesa di Nizza contro le truppe franco-ottomane, e Ferdinando Cavalleri, che avrebbe dovuto raffigurare la contessa
Adelaide che favoriva la riconciliazione a Canossa fra papa e imperatore e la
presentazione del Baiardo al duca di Savoia. Nel 1840 Bertolotti scriveva nella
sua Descrizione di Torino che la sala era decorata con “le battaglie de’ principi
della Real Casa, pinte dal Cavalleri, dal d’Azeglio e da altri artisti piemontesi”14.
Negli anni successivi, però, la decorazione sembra esser stata affidata alle
opere del solo d’Azeglio, nel frattempo divenuto – oltre che pittore e letterato
di spicco – anche protagonista della vita politica del regno. Nel 1858 Clemente
Rovere scriveva, infatti, che la decorazione della sala era interamente affidata a sei quadri di battaglia, tutti opera di d’Azeglio15. La decorazione della
Sala da pranzo andava letta, poi, insieme a quella della contigua Sala del caffè. Anche in essa le opere erano pressoché interamente dedicate alle glorie
militari e culturali della dinastia (dipinti dedicati all’eroismo di Pietro Micca e
Maria Bricca erano accostati all’accoglienza del Tasso da parte di Emanuele
Filiberto e alla fondazione dell’università di Torino)16. La scelta dei soggetti
delle opere pensate per queste sale acquista un senso solo se si pone mente
al nuovo ruolo che la politica carloalbertina aveva dato ai pranzi di corte ed
alla sociabilità ad essi relativa. La rimozione di tali opere in seguito ai riallestimenti delle sale voluti dalla regina Margherita nel suo inconfondibile barocchetto hanno quindi privato tali spazi del senso primo-->originale? che Carlo
Alberto aveva loro voluto imprimere.
I pranzi di gala
Se la quotidianità dei pranzi di corte non ha lasciato particolare traccia di sé
nei cerimoniali e pare sfuggire, almeno per il momento, ad una possibile ricostruzione, così non è per i pranzi di gala, tipica cerimonia di corte.
Un esempio fra questi era quello che si teneva ogni anno, la sera del 2 ottobre,
per il compleanno del re, il genetliaco. La giornata s’apriva alle 6 con lo sparo
di dodici colpi di cannone, e vedeva un susseguirsi di cerimonie militari, fra
cui una lunga sfilata in piazza Castello, cui la Casa Reale assisteva da Palazzo
Reale. Nel loro carattere militare, in effetti, tali feste mostravano ancora una
forte continuità con quelle nel Settecento.
Per la corte, però, il clou della giornata era la sera. Questa iniziava alle 18 con
il pranzo di gala. Esso, peraltro, costituiva solo uno dei pranzi ufficiali che si
svolgevano contemporaneamente in città per il compleanno in onore del so-
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fig. 2
Veduta della Sala da pranzo, direzione di Emilio
Stramucci, 1886-1899. Torino, Musei Reali,
Palazzo Reale, Appartamento di rappresentanza
vrano. Fra questi spiccava per importanza quello che il segretario di Stato per
gli Affari Esteri offriva nel suo palazzo al corpo diplomatico. Il pranzo precedeva la soirée a palazzo in onore del festeggiato, che terminava di norma fra
le 22.30 e le 23, e cui venivano invitati anche coloro che avevano partecipato
agli altri pranzi ufficiali.
Per quanto riguarda il pranzo del re, ad esso partecipavano non solo i grandi
di corte, i grandi di corona curiali e i cavalieri dell’Annunziata, ma diversi personaggi invitati direttamente dal re. I cerimoniali di corte forniscono a volte
i loro nomi, ma più spesso danno solo indicazioni sul numero complessivo
dei commensali. Un elemento importante a questo proposito è dato proprio
dall’incremento di tale dato. Nel 1837, infatti, i commensali erano 29, saliti a
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fig. 3
Veduta della Sala da ballo, progetto di Pelagio
Palagi, 1834-1841. Torino, Musei Reali, Palazzo
Reale, Appartamento di rappresentanza
35 l’anno successivo. Era il primo segnale di una progressione che pare non
essersi più arrestata nel corso del regno del sovrano. Nel 1839 il numero dei
commensali era salito a 35-->già 35 nel 1838, nel 1842 a 44, nel 1843 nel 54,
sino ai 62 del 1846 ed ai 63 del 1847.
Di dimensioni più ridotte era, invece, il pranzo di gala per il genetliaco della regina. Nel 1845, per esempio, esso vedeva la presenza di 25 commensali
(“comprese le persone reali”). Il gran maestro delle cerimonie, il duca Vivaldi
Pasqua, informa che erano divisi in due gruppi17. Il primo era composto da
“non invitati” perché presenti di diritto. Si trattava di: “dame di servizio alla regina e alla duchessa [di Savoia]; primi scudieri del re, dei duchi di Savoia e di
Genova; secondo scudiere del re; gentiluomo di camera del re, maggiordomo
di servizio; aiutante di campo di servizio”. “Invitati” erano, invece, otto donne
e sette uomini. Scorrendo i loro nomi si vede, però, che si trattava delle dame
di palazzo non in servizio e di alcuni fra i più importanti cortigiani. In questo
caso, il pranzo di gala restava quindi tutto interno alla corte.
Altro era, invece, il pubblico che partecipava alle soirées del dopo pranzo. Nel
1835, per esempio, a quella successiva al compleanno della regina si contarono centodieci dame e duecentocinque cavalieri.
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L’incremento dei partecipanti ai pranzi reali fu permesso anche dalla definizione di nuovi spazi per il loro svolgimento. Sappiamo, infatti, che almeno dal 1842
fu scelta come sede del pranzo per il compleanno del re non la Sala da pranzo, allora realizzata, ma la “nuova Sala da ballo” realizzata anch’essa da Pelagi
e inaugurata nel 1841 con le feste per il matrimonio del duca di Savoia (il futuro
Vittorio Emanuele II). La Sala da pranzo, infatti, non poteva accogliere più di
una trentina di commensali. Ben maggiore, come visto, era la capienza della
Sala da ballo. Questa, peraltro, s’affermò come il principale spazio cerimoniale
della reggia, soppiantando l’antico Salone degli svizzeri. Fu in essa, infatti, che
si decise di svolgere diverse cerimonie di corte. Fra queste anche alcune legate
ad importanti ricorrenze religiose, come il “lavabo” della regina, che si svolgeva
ogni anno il giovedì santo18 e i matrimoni civili dei membri della Real Casa19.
I cerimoniali si rilevano reticenti, purtroppo, in merito ai pranzi offerti dal re
in onore di importanti ospiti stranieri, per lo più “in incognito”. Quando nel
maggio 1835, per esempio, Leopoldo di Borbone conte di Siracusa giunse a
Torino, in incognito come conte di Teramo, si limitarono a registrare che l’ospite “in seguito all’invito restò a pranzo a corte”20. Il conte Gazelli, però, non
scrisse nulla in merito alle pratiche poste in essere. Lo stesso vale per numerosi altri ospiti. Qualche dato in più è offerto in occasione dei pranzi di gala.
Nel 1840 quello organizzato in onore dell’arciduca Carlo Ferdinando d’Asburgo
vide quarantaquattro commensali21. Sette anni dopo, nel giugno 1847, per i
principi di Salerno – Leopoldo di Borbone Napoli e sua moglie Maria Clementina d’Asburgo Lorena – fu allestito un “gran pranzo” con ventitré commensali22.
I pranzi di corte al Palazzo Reale di Genova
Se i cerimoniali quasi tacciono sui pranzi che Carlo Alberto organizzava a Torino, diversamente si comportano in relazione a quelli che si tenevano a Genova, dal 1815 seconda città degli Stati. Il primo sovrano di casa Carignano era
solito trascorrere nella seconda città dei suoi Stati un mese circa, di solito
fra ottobre e novembre23. In questo periodo egli invitava a pranzo quasi tutti
i giorni. Nel novembre 1833 Gazelli commentava: “durante il soggiorno della
real corte [a Genova] parecchi distinti personaggi ebbero l’onore di essere
invitati a pranzar cogli augusti nostri sovrani”24. Un comportamento che evidentemente non mancava di colpire il maestro delle cerimonie, il quale nel
1835 scriveva: “si degnava […] la Maestà Sua d’invitare quasi ogni giorno a
pranzo diversi personaggi”25. In effetti, nelle poche settimane in cui restava
a Genova egli sfruttava ogni occasione per avere a corte gli esponenti principali dell’aristocrazia genovese, la quale stava lentamente inserendosi nelle
strutture di governo sabaudo. Solitamente i registri di cerimoniale non riportano i nomi degli invitati. Fa eccezione, però, quello relativo al 1840. Esso ci
permette così di gettare uno sguardo più attento su tale politica del sovra-
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fig. 3
Veduta della Galleria degli specchi.
Genova, Palazzo Reale
no. Quell’anno Carlo Alberto e la sua corte restarono a Genova un mese: dal
4 novembre al 3 dicembre. In tutte le ventinove serate trascorse in città, il
sovrano invitò sempre a cena degli ospiti. Come scriveva Gazelli. “Degnava il
re ] invitare giornalmente alla regia mensa personaggi delle precipue dignità
ecclesiastiche e secolari e delle cariche di impiegati di stato civili e militari”26.
Fra i circa novanta invitati compaiono infatti le principali cariche del governo
sabaudo in città27, le più alte cariche della Regia Marina28 e dei reggimenti di
stanza in città29. L’attenzione ai militari, peraltro, si estendeva anche ai ranghi
degli ufficiali meno elevati, come il colonnello e capitano di vascello Giorgio
Mameli, allora celebre per il suo ruolo nelle spedizioni sabaude contro Tripoli
ed oggi ricordato per lo più per esser stato il padre di Goffredo, e il comandante dell’Arsenale Giuseppe Zicavo30. Vi erano poi le più alte cariche religiose,
dai cardinali Placido Maria Tadini, arcivescovo di Genova dal 1831, ed Adriano
Fieschi sino ai vescovi di Sarzana e Savona31. Il Comune di Genova era rappresentato da diversi fra i decurioni di prima classe, a partire dal sindaco, il
marchese Tommaso Spinola. A mancare, semmai, fra gli invitati era l’alta borghesia, che in una città come Genova rivestiva un ruolo determinante. Segno,
quindi, che l’apertura della corte era ‘relativa’. Certo, il passo avanti rispetto ai
pranzi della corte sabauda del Settecento e della Restaurazione era enorme,
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ma s’era ancora lontani dall’apertura della tavola reale al di fuori di quel mondo aristocratico e militare che da sempre era il cuore delle corti. Sarebbe un
errore, però, sottovalutare l’evoluzione che era stata compiuta.
La necessità di attirare a corte un’ampia parte della classe dirigente aiuta anche a capire lo sfarzo che Carlo Alberto diede a tali pranzi. La maggior parte di
essi si svolgeva, infatti, nella galleria degli Specchi del Palazzo Reale e spesso
al suono della musica. Nel 1833 Gazelli informa che a suonare erano chiamate
le bande dei reggimenti di stanza in città, le quali s’alternavano nel servizio
a corte32. A volte capitava che degli stranieri fossero ammessi ad assistere
a tali pranzi. Interessante quanto accaduto nel novembre 1836. Protagonisti
furono gli ufficiali d’un brik egiziano da un mese circa ancorato nel porto di
Genova. Essi chiesero al sovrano di poter esser ricevuti a corte per recare al
sovrano il loro saluto33. Stando al racconto del cerimoniere, gli ufficiali chiesero al sovrano “di sentire la musica che si suole suonare in Genova nel tempo
che la Real Corte sta a pranzo, e di vedere dalla porta la tavola delle Loro Maestà”. Il re acconsentì un tal favore e diede ordine al maggiordomo di servizio
“che li facesse servire di gelati e confetti”34.
Col tempo, comunque, Carlo Alberto – almeno per quanto riguarda Genova ridusse sensibilmente la pratica dei pranzi ad invito. Già nel novembre 1843,
infatti, scriveva alla Robilant: “Non invito più a pranzo tutti i giorni: oltre che
alla domenica […] dò solo due grandi pranzi, lunedì e giovedì; la musica viene
solo in quei due giorni, quando prima e dopo si passa nel mio nuovo grande
salone, che è ben illuminato; gli altri giorni restiamo nella Sala del trono, come
nei bei tempi”35.
Qualunque cosa il sovrano volesse dire con quest’ultima espressione, certo il mondo era troppo cambiato negli ultimi cinquant’anni. Quando Vittorio
Amedeo III era morto, nel 1796, certo non poteva immaginare un pranzo come
quello che il suo lontano cugino Carlo Alberto avrebbe tenuto nel 1846. Se nel
1836 la mensa del sovrano non si era aperta ad accogliere gli ospiti egiziani,
l’evoluzione politica del Mediterraneo fece sì che pochi anni dopo le cose andassero diversamente.
Domenica 16 novembre 1845 giunse al porto di Genova il vapore egiziano Nilo
con a bordo Ibrahim Pascià, figlio di Mehmet Alì, il generale musulmano d’origine albanese che aveva di fatto reso indipendente l’Egitto dall’impero ottomano. Ibrahim Pascià era arrivato in Toscana alla fine d’agosto, inizio d’un
lungo viaggio europeo. Giunto a Genova chiese di esser ricevuto in udienza
da Carlo Alberto, che desiderava conoscere. Il sovrano acconsentì e decise,
inoltre, che al militare egiziano fosse riconosciuto il trattamento reale. Nel
pomeriggio di domenica, quindi, Ibrahim fu accolto a corte, insieme al suo
seguito di ventidue persone. Al termine dell’udienza il re invitò il suo ospite
a cena. Alle 6 di quella sera, quindi, probabilmente nella splendida galleria di
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quello che era stato palazzo Durazzo, Carlo Alberto e altri trentatré commensali accolsero a tavola Ibrahim Pascià, suo figlio Ismail Bey, il cugino Ibrahim
Bey e tre persone del seguito. Intorno alla tavola, ad accogliere il generale
musulmano, erano anche don Carlos di Borbone, il pretendente al trono di
Spagna che aveva dato vita al movimento carlista, e i suoi figli. Purtroppo il
conte Gazelli non ci ha lasciato alcun elemento sul modo in cui si svolse un
pranzo tanto particolare. Certo, esso mi pare segnare meglio di ogni altra immagine quanto nel giro di pochi decenni fosse cambiata la tavola di corte, per
i Savoia e insieme per la gran parte delle monarchie europee.
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Sulle pratiche dei pranzi di corte nel XVIII
secolo si vedano Merlotti 2013 e 2021, pp.
47-52.
Sul pranzo pubblico “à la campagne” cfr.
Merlotti 2013, pp. 292-308; Merlotti 2021, pp.
114-115.
Cfr. Bianchi 1877, p. 484. Sullo scrittore e il
suo rapporto con la corte sabauda si veda
ora Merlotti 2022b-->ok?.
Prima degli interni dal 1844 al 1847, poi dei
lavori pubblici nel 1848. Su di lui si veda la
bella voce di P. Casana Testore, in Dizionario
Biografico degli Italiani, vol. 39, Roma 1991.
des Ambrois de Névache 1901, pp. 51-52.
Gazelli 1841-1844, ms., c. 200. Il conte Gazelli
(1782-1844), sui cui registri è costruita gran
parte delle pagine che seguono, era inoltre
decurione di Torino e fu sindaco della città
nel 1841.
des Ambrois de Névache 1901, pp. 45-46.
Thaon di Revel 1892, p. 60.
Salata 1931, p. 48.
des Ambrois de Névache 1901, p. 45.
Thaon di Revel 1892, p. 60.
La lettera, datata il 7 giugno 1838, è (tradotta
in italiano) in L’epistolario di un re 1999, pp.
67-68.
Ibidem.
Bertolotti 1840, p. 122. Risale probabilmente
a questa fase la realizzazione da parte di Gonin della Battaglia di Mombaldone (1637), poi
trasferita in un’altra sala del palazzo.
Rovere 1858, pp. 153-154.
Sulla Sala del caffè cfr. Gozzoli 1980.
Vivaldi Pasqua 1844-1848, ms., c. 81.
In tale occasione sul muro dalla parte opposta alla tribuna veniva posto un piccolo altare. Alla destra di questo era la tavola per le
ventitré povere, cui la regina avrebbe lavato
i piedi. Innanzi tavola, era il trono (“seggiolone”) su cui la regina sedeva durante il sermone dell’oratore di corte. Cfr. Vivaldi Pasqua
1844-1848, ms. Sulla cerimonia del lavabo
cfr. Gentile 2009 e Merlotti 2021, pp. 84-86.
Per esempio quello di Amedeo d’Aosta e del-
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la principessa Maria dal Pozzo della Cisterna
nel 1867.
Gazelli 1835-1937, ms., cc. 44-45 (7 maggio
1835). Il principe si legò poi ai Savoia, sposando nel 1837 la principessa Maria Filiberta
di Carignano-Villafranca.
Il re e l’arciduca era parenti prossimi. Carlo
Ferdinando, infatti, era figlio dell’arciduca
Carlo, il celebre avversario di Napoleone, il
quale a sua volta era cognato di Carlo Alberto, perché suo fratello minore Ranieri aveva
sposato Elisabetta di Carignano, sorella del
re di Sardegna.
Vivaldi Pasqua 1844-1848, ms., c. 255 (15 giugno 1847).
Cfr. Merlotti 2012, 2015, 2016.
Gazelli 1833-1834, ms., c. 55.
Gazelli 1835-1837, ms., c. 89.
Ivi, c. 172.
È il caso, per limitarmi ad alcuni esempi,
del marchese Filippo Paolucci, governatore
della città, del cavalier Crotti di Costigliole
comandante della stessa, del conte Giacinto
Borelli, primo presidente del Senato di Genova, del barone Gaspare Brunet, intendente generale di Genova.
Ricordo qui solo il conte Carlo Alberti di Villanuova, viceammiraglio e comandante generale della Regia Marina ed il conte Giovan
Giorgio de Viry, contr’ammiraglio della stessa, l’intendente generale di Marina Priamo
Manconi.
Come il maggiore generale Carlo Battaillard,
comandante della Brigata Aosta.
I due furono invitati a pranzo da Carlo Alberto la sera del 16 novembre insieme al barone
Marcellino Corporandi d’Auvare, maggiore
dei Carabinieri, ed al marchese Serra.
Si tratta dei monsignori Francesco Agnini e
Agostino Maria de Mari.
Gazelli 1833-1834, ms., c. 50.
Gazelli 1835-1837, ms., c. 172 (26 novembre
1836)
Ibidem.
L’epistolario di un re 1999, pp. 135-136.