Una stima degli effetti macroeconomici del Fiscal Compact
Una stima degli effetti macroeconomici del Fiscal Compact
Giovanna Ciaffi, Matteo Deleidi, Enrico Sergio Levrero - 22/05/2019 [ papers ]
Abstract
This paper analyses the effects that the rules imposed by Fiscal Compact may have on the public debt/GDP ratio
trend. Fiscal Compact prescribes compliance with two main rules concerning public finance: (i) the need for a
substantial balanced budget, or more precisely, not allowing the structural deficit of the public sector to exceed
0.5% of GDP over an economic cycle; and (ii) the fact that the public debt/GDP ratio falls each year by one
twentieth of the distance between its actual level and the 60% target-threshold set out in the Maastricht Treaty.
The paper shows that, if the income trend is affected by changes in the autonomous components of aggregate
demand, a restrictive fiscal policy following these rules will not necessarily lead to a reduction in the public
debt/GDP ratio. Moreover, even if this reduction were to be eventually achieved, it would be at the cost of
substantial net wealth losses in the private sector and impoverishment of the population. The conclusion drawn is
that the effects produced by persistent public surpluses aimed at reducing the public debt/GDP ratio will be
different from those considered in a traditional theoretical approach and will generate 'perverse' patterns of that
ratio.
Fiscal Compact | Nel corso degli ultimi 20 anni la direzione seguita a livello europeo è stata quella di
una crescente rigidità nelle regole fiscali anche oltre quanto già previsto dal Trattato di Maastricht
del 1992, fino ad arrivare, nel marzo del 2012, al Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla
governance dell’Unione Economica e Monetaria, noto come Fiscal Compact e firmato da tutti gli
Stati membri dell’Unione Europea, esclusi il Regno Unito e la Repubblica Ceca. Come è noto, il
Fiscal Compact prevede il rispetto di due regole principali in materia di finanza pubblica: (i) un
sostanziale pareggio di bilancio, o più precisamente, il divieto per il deficit strutturale del settore
pubblico di superare lo 0,5% del Pil nel corso di un ciclo economico; e (ii) che il rapporto debito
pubblico/Pil scenda ogni anno di un ventesimo della distanza tra il suo livello effettivo e la sogliaobiettivo del 60% prevista nel Trattato di Maastricht. Per quanto dal 2012 la Commissione Europea
abbia concesso ai diversi Stati, tra cui l’Italia, deroghe alle regole imposte dal Fiscal Compact, ci si
può chiedere - anche alla luce di alcune proposte di riforma che ne prospettano un inasprimento in
vista di una possibile politica fiscale europea[2] - cosa accadrebbe se si imponesse ai singoli Stati
anche solo il puntuale rispetto delle regole fiscali finora previste. In particolare, ci si può chiedere
quali effetti diverse regole di politica fiscale potrebbero avere sull’andamento del rapporto debito
pubblico/Pil. Come si vedrà, qualora si ammetta che il trend del reddito dipende dalle variazioni nelle
componenti autonome della domanda aggregata, una politica fiscale restrittiva che segua le regole
del Fiscal Compact non determinerà necessariamente una riduzione di quel rapporto. Inoltre, anche
qualora tale riduzione fosse alla fine ottenuta, ciò avverrebbe a costo di consistenti perdite di
ricchezza netta del settore privato ed un sostanziale impoverimento della popolazione. Il presente
articolo è organizzato come segue: (i) nel paragrafo 1 verranno discussi i risultati di lavori empirici che
hanno analizzato gli effetti delle recenti politiche fiscali restrittive; (ii) nel paragrafo 2 verrà presentata
una simulazione circa l’evoluzione del rapporto debito pubblico/Pil qualora il tasso di crescita del
reddito sia considerato costante ed indipendente dalle politiche fiscali implementate; (iii) nel paragrafo
3 l’analisi è estesa al caso in cui si considerino gli effetti sul Pil derivanti dalla politica restrittiva; (iv)
nel paragrafo 4 viene rimossa l’ipotesi di indipendenza degli investimenti rispetto alla politica fiscale
adottata; (v) il paragrafo 5 conclude.
1.La crisi del 2007 e gli effetti del fiscal compact
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Una stima degli effetti macroeconomici del Fiscal Compact
A base del Fiscal Compact e delle posizioni della Commissione Europea vi è l’idea che i deficit fiscali
si traducano in una riduzione degli investimenti privati ed abbiano un effetto negativo sulle
potenzialità di crescita del sistema economico. Diverso è il punto di vista keynesiano: in economie
che normalmente funzionano al di sotto dei loro livelli di piena occupazione, la spesa pubblica avrà un
effetto espansivo sul reddito sia direttamente che per effetto dell’aumento degli investimenti privati
che l’incremento di spesa pubblica e quindi del reddito potrà determinare. Nella filosofia a base delle
prescrizioni della Commissione europea, l’effetto negativo di politiche fiscali espansive deriverebbe
in primo luogo dalle ripercussioni che si ritiene esse avranno sul costo del servizio del debito
pubblico. Quando tali politiche non siano finanziate con emissione di moneta – di cui è fatto esplicito
divieto nei trattati istitutivi della Banca Centrale Europea – esse determinerebbero infatti un aumento
dei tassi di interesse spiazzando così la spesa privata. I valori dei moltiplicatori fiscali risulterebbero
pertanto bassi o persino negativi, e si manifesterebbe di conseguenza un aumento del rapporto
debito pubblico/Pil e dunque ulteriori pressioni al rialzo sui tassi di interesse per il maggior rischio
associato al debito sovrano. Anche solo una stabilizzazione di quel rapporto potrebbe allora ottenersi
unicamente con avanzi primari tali da compensare la crescente spesa per interessi. Inoltre, solo
politiche fiscali restrittive in grado di abbassare il rapporto debito pubblico/Pil e con ciò i tassi
dell’interesse potrebbero effettivamente liberare risorse per la crescita e l’occupazione – ed avere
così, almeno nel medio periodo, un carattere espansivo.[3] Come previsto da autori di ispirazione
Keynesiana, l’applicazione di questa idea dell’austerità espansiva ha portato ad aumenti piuttosto che
a riduzioni del rapporto debito-pubblico Pil nei paesi costretti ad adottare politiche di consolidamento
fiscale, e ciò in particolare nel corso della crisi dei debiti sovrani del 2009-2010. Come ammesso
anche dal Fondo monetario internazionale,[4] i moltiplicatori fiscali sono risultati di fatto più elevati di
quelli precedentemente stimati e dunque gli effetti negativi sul reddito e sulle entrate fiscali dei tagli di
spesa maggiori di quelli inizialmente previsti. Born, Mu?ller, e Pfeiffer (2015) hanno calcolato che in
periodi di “stress fiscale” i tagli di spesa riducono la produzione di circa un punto percentuale per un
periodo prolungato determinando al tempo stesso (almeno per un certo periodo) un aumento del
rapporto debito pubblico-Pil e dello spread sui tassi di interesse dei titoli di Stato a lungo termine.[5]
Analogamente, Hall (2012) ha sottolineato come dalla crisi finanziaria del 2008 le riduzioni dei
disavanzi pubblici siano state correlate ad un calo del Pil a differenza di quanto sostenuto dai teorici
dell’austerità espansiva, con la conseguenza (cf. anche Batini, Callegari e Melina, 2012) che
l'austerità non ha generato il risparmio fiscale atteso. Il costo del consolidamento fiscale e l’inefficacia
delle misure di austerità sono risultati d’altra parte maggiori nelle economie che presentano
moltiplicatori fiscali relativamente più elevati come i paesi dell'Europa meridionale (cfr. Sanchez e
Sebastian 2013), determinando in questi paesi una forte caduta dell’occupazione. Come sottolineato
anche da Truger (2013), assumendo un valore del moltiplicatore pari a 1, dal 2009 al 2012 il
consolidamento fiscale ha portato ad una perdita del Pil del 3,5% per la media dell’area dell’euro
rispetto allo scenario base senza misure di consolidamento, con notevoli differenze tra paesi: le
perdite risulterebbero pari al 4,3% in Italia, al 5,7% in Spagna, al 10,3% in Portogallo, al 13,7% in
Grecia ed al 14,8% in Irlanda. Questi risultati sono in linea con quelli di Das e El Husseuiny (2018)
che - utilizzando dati per 175 paesi dal 2000 al 2014 - hanno evidenziato come tagli della spesa
pubblica potrebbero portare ad un più alto rapporto deficit pubblico/Pil per circa la metà dei paesi di
tutto il mondo. Gli studi che evidenziano moltiplicatori fiscali vicini a o maggiori dell’unità sono d’altra
parte ormai numerosi, sia con riferimento alla spesa pubblica complessiva che nel caso degli
investimenti pubblici.[6] La conclusione che se ne trae è che, al contrario di quanto previsto
dall’austerità espansiva, il rispetto del Fiscal Compact non potrebbe che avere pesanti conseguenze
sul benessere della popolazione. Ciò si verificherebbe anche qualora si ipotizzasse costante il tasso
di crescita del Pil reale a fronte degli interventi di consolidamento fiscale. Come mostrato da Gattei e
Iero (2014), anche sotto questa ipotesi occorrerebbe infatti nel caso dell’Italia realizzare e mantenere
per vent’anni un avanzo primario in media del 4,4%, il che ovviamente, come sottolineano gli autori,
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non potrebbe che determinare ricadute sulla dinamica del Pil, oltre che implicare un forte
ridimensionamento della spesa sociale e degli investimenti pubblici. L’analisi che segue rappresenta
un approfondimento dei calcoli di Gattei e Iero: ciò che si mostrerà è che, tenendo conto del possibile
impatto del consolidamento fiscale sull’andamento del reddito, il rapporto debito pubblico-Pil potrà
persino aumentare piuttosto che diminuire rendendo l’aggiustamento verso i valori previsti dal Fiscal
Compact praticamente impossibile in un definito orizzonte temporale.
2.La simulazione del rapporto debito pubblico/Pil nel caso di tasso di crescita del reddito
costante
Volendo effettuare una simulazione dell’andamento del rapporto debito pubblico-Pil in presenza di
diverse politiche fiscali alternative, si è in primo luogo quantificato, per il periodo di tempo che va dal
2018 al 2035, l’avanzo primario necessario a conseguire l’obiettivo del Fiscal Compact di ridurre ogni
anno di un ventesimo lo scostamento tra il peso del debito pubblico sul Pil dell’anno precedente e il
parametro indicato dal Trattato di Maastricht del 60%, tenendo presente che il saldo complessivo dei
conti pubblici non può salire al di sopra di un deficit strutturale dello 0,5% del Pil. Questa politica è
stata considerata come restrittiva (R) rispetto alla politica vigente (A) per la quale, invece, si è
considerato costante, dal 2018 al 2035, il rapporto deficit pubblico-Pil registrato nel 2017 pari a 2,3
punti percentuali. Per analizzare l’evoluzione nel tempo del rapporto tra debito pubblico e Pil
nominale si è utilizzata con riguardo al debito pubblico la relazione:
Bt=B t-1(1+i) - APt
(1)
e per il reddito:
Yt=Y t-1 (1+g)(1+?)
(2)
dove B t-1 ,Bt e Y t-1 ,Yt, rappresentano il Pil nominale e l’ammontare del debito pubblico
rispettivamente al tempo t-1 e al tempo t, g rappresenta il tasso di crescita reale del Pil, ? il tasso di
inflazione, i il tasso di interesse medio sul debito pubblico, e infine APt indica l’avanzo primario dei
conti pubblici al tempo t. L’evoluzione del rapporto tra debito pubblico e Pil nominale si può simulare
una volta definita la base di partenza al tempo zero, che nel nostro caso coinciderà con i dati del
2017, ipotizzando i valori futuri di quattro parametri: il tasso di interesse medio sul debito pubblico,
l’avanzo primario dei conti pubblici, il tasso di crescita reale del Pil e l’inflazione. In particolare, nella
nostra analisi si è preso inizialmente in considerazione il seguente scenario:
1. un tasso di crescita del Pil reale dell’1,502%, costante dal 2018 al 2035;[7]
2. un tasso di inflazione dello 0,6291% costante dal 2018 al 2035;[8]
3. un tasso medio di interesse sul debito del 2,8% per il 2018, del 2,7% per il 2019, del 2,8% per il 2020 e del 2,9% per il
2021 (come riportato nel DEF 2018) che viene proiettato fino al 2035.
Considerando l’obiettivo della politica restrittiva (R) di una riduzione ogni anno di un ventesimo tra lo
scostamento del debito sul Pil dell’anno precedente e il parametro del 60%, e considerando che il
deficit del settore pubblico non può superare lo 0,5%, si può simulare l’avanzo primario necessario
per conseguire l’obiettivo previsto dal fiscal compact nei diversi scenari ipotizzati.[9] Lo stesso
esercizio di simulazione è stato poi ripetuto considerando una politica che, come detto, abbiamo
definito politica vigente (A), dove invece si è considerato costante dal 2018 al 2035 il rapporto deficit
Pil registrato nel 2017 pari a 2,3 punti percentuali, da cui deriverà ogni anno un determinato avanzo
primario. Nell’Appendice 1 sono riportati i risultati completi dell’analisi di simulazione della politica
restrittiva (R) e della politica vigente (A) (Tabella A1.1 e A1.2). Per agevolare l’analisi dei risultati
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ottenuti, nella Tabella 1 si riporta solo il confronto degli andamenti dei rapporti debito pubblico/Pil e
avanzo primario/Pil nel caso della politica (R) e della politica (A) senza considerare per ora i possibili
effetti negativi sul reddito prodotti da una minor spesa pubblica. Per soddisfare i vincoli richiesti dal
Fiscal Compact (politica R) nel periodo considerato (2018-2035) l’avanzo primario in rapporto al Pil
medio risulterebbe essere pari al 3,2 %. L’entità dell’avanzo primario (in termini di Pil) risulterebbe in
progressiva discesa a partire dal massimo previsto per il 2018 (4,4% del Pil per un ammontare pari a
77,838 miliardi) (Tabella 1).[10]Alla fine del periodo da noi considerato (2035) l’avanzo primario
richiesto per il rispetto delle regole del fiscal compact dovrebbe ancora attestarsi al 2,2% (pari a
54,531 miliardi), un livello più elevato di quello attuale (1,5% per un ammontare di 25,94 miliardi). Il
rapporto debito pubblico/Pil nel 2035 risulterebbe inoltre essere pari all’88,54%, valore che è
superiore al valore “soglia” del 60%. Sarebbero quindi richiesti ulteriori sforzi negli anni successivi in
termini di un maggior prelievo fiscale ed una minore spesa pubblica. Nello scenario delineato il
rapporto debito/Pil risulterebbe essere inferiore al valore “soglia” del 60% soltanto a partire dal 2064.
[11] Con riferimento alla politica A possiamo notare come mantenendo costante il rapporto deficit
pubblico/Pil al 2,31% l’avanzo primario medio risulta essere pari all’1,3% nel periodo 2018-2035. Al
tempo stesso, il rapporto debito/Pil risulta essere decrescente perché il denominatore del rapporto (il
Pil nominale) nelle ipotesi fatte cresce più velocemente nel tempo rispetto al numeratore (lo stock di
debito), passando in particolare da un valore di 131,81% nel 2017 ad un valore di 124,96% nel 2035
(Tabella 1). Confrontando gli andamenti dei rapporti debito pubblico/Pil nel caso della politica vigente
(A) e nel caso della politica restrittiva (R), si nota come, in ogni periodo, la politica restrittiva (R)
determina rapporti debito pubblico/Pil più bassi rispetto alla politica vigente (A). La politica restrittiva
(R) determina infatti nel 2018 un minor rapporto debito pubblico/Pil pari a 128,22% (contro il valore di
131,36% della politica A), fino ad arrivare al 2035 dove si realizza un valore di 88,54%, (contro il
valore di 124,96% della politica A (Tabella 1). Il risultato è ovviamente raggiunto con avanzi primari
significativamente maggiori che nel caso della politica vigente, e dunque con tagli alla spesa sociale e
agli investimenti pubblici maggiori di quelli attualmente previsti.[12]
Tabella 1. Rapporto debito pubblico/Pil ed avanzo primario per la politica vigente (A) e per la
politica restrittiva (R) nell’ipotesi di tasso di crescita costante
3.Il confronto tra politiche alternative nel caso di effetto della politica restrittiva (R) sul tasso di
crescita del reddito reale
Possiamo a questo punto domandarci cosa accadrà all’andamento del rapporto debito pubblico/Pil
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nel caso in cui si considerino gli effetti sul Pil derivanti dalla politica restrittiva, per verificare in
particolare se, nei casi da noi considerati, sussistano le condizioni per effetti perversi sul rapporto
debito/Pil. Per semplicità assumeremo in prima istanza l’indipendenza degli investimenti rispetto alla
politica fiscale per poi introdurre anche tale effetto. Per poter considerare l’andamento del rapporto
debito/Pil nelle due politiche dobbiamo definire sia il numeratore che il denominatore del rapporto
rispettivamente nella politica A e nella politica R. Riprendendo le relazioni (1) e (2), nel caso della
politica A avremo:
BAt= BAt-1 (1+i)- APt
YAt=YAt-1 (1+g)(1+?)
(3)
(4)
dove BAt-1 ,BAt e YAt-1 ,YAt rappresentano lo stock di debito e il Pil che si avrebbero con la politica
A rispettivamente nel periodo t-1 e nel periodo t, g rappresenta il tasso di crescita reale del Pil e ? il
tasso di inflazione come mostrati nella tabella A1.1 e A1.2, mentre APt indica l’avanzo primario del
periodo t. Per calcolare il rapporto debito pubblico/Pil prodotto dalla politica restrittiva (R) si sono
invece utilizzate le relazioni (cfr. Ciccone, 2002 e 2013):
BRt=BAt- (1-mz) ? s=ts=1 ?GRs (1+i) t-s
YRt=YAt – m?GRt
(5)
(6)
dove BRt, BAt e YRt ,YAt rappresentano lo stock di debito e il Pil che si avrebbero rispettivamente con
la politica restrittiva R e con la politica A, m= 1/ (1- c(1-z))è il valore del moltiplicatore keynesiano,[13]
c è la propensione media e marginale al consumo del settore privato, z è l’aliquota fiscale media e
marginale, i è il tasso medio sul debito e ?GRs rappresenta la variazione di spesa pubblica che si
realizza attuando la politica restrittiva (R) rispetto allo scenario vigente (A). Lo stock di debito nel caso
della politica restrittiva sarà al tempo t minore che nel caso della politica vigente sia per i maggiori
avanzi primari ottenuti dal tempo s = 1 al tempo t grazie alle riduzioni di spesa pubblica ?GRs al netto
delle minori entrate fiscali mz ?GRs
sia per la minore spesa per interessi derivante dalla
riduzione dello stock di debito pubblico.[14] Analogamente il reddito al tempo t nel caso della politica
restrittiva sarà minore di quello nel caso della politica vigente A per un ammontare pari alla variazione
di reddito - m?GRt derivante dalla politica fiscale restrittiva. Nella nostra analisi si ipotizzeranno un
valore della aliquota fiscale media e marginale di 0,43 e diversi valori del moltiplicatore m: un valore
del moltiplicatore pari a 1,8, un valore del moltiplicatore pari a 0,95 ed un valore del moltiplicatore pari
a 1,55.[15] Riguardo al tasso di interesse i, continueremo a prendere in considerazione i valori
riportati nel DEF 2018 (come mostrato dalle tabelle A1.1 e A2.1), mentre per ?GRt si è fatta l’ipotesi
che l’ammontare di riduzione della spesa pubblica sia quello definito dalla differenza tra gli avanzi
primari calcolati in corrispondenza delle due diverse politiche alternative (A) e (R) nello scenario di
tasso di crescita costante del Pil. [16] Affinché si possa verificare una riduzione del rapporto debito
pubblico-Pil, la riduzione proporzionale che il reddito subisce per effetto della politica restrittiva deve
essere inferiore alla riduzione proporzionale che il debito subisce per effetto della politica restrittiva. Si
dovrà cioè avere che:
(?YRt)/(YAt) < (?BRt)/(BAt )
Quindi, affinché la politica restrittiva non produca effetti perversi sull’andamento del rapporto debito
pubblico Pil si deve realizzare la condizione:
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dove,
seguendo Ciccone (2013), chiamiamo il membro che compare a destra della diseguaglianza (7)
“soglia di inversione” per ogni periodo t ipotizzato, perché, fintanto che BtA/YtArisulta superiore a tale
soglia, il rapporto debito pubblico/Pil BtR/YtR associato alla politica restrittiva R si troverà al di sopra
del rapporto debito pubblico/Pil risultante dalla politica A. Quindi fino a quel momento l’effetto della
politica restrittiva potrebbe essere “perverso”, avere cioè un segno opposto rispetto a quello atteso.
Soltanto quando il rapporto debito/Pil derivante dalla politica A risulta essere inferiore al valore della
soglia di inversione, il rapporto debito/Pil prodotto dalla politica restrittiva R risulterà essere inferiore al
rapporto debito/Pil prodotto dalla politica A e quindi la politica restrittiva risulterà essere efficace nel
ridurre il rapporto debito pubblico/Pil. Nella Tabella 2 vengono mostrati i risultati dell’analisi di
simulazione considerando gli effetti sul Pil della riduzione di spesa pubblica. Si può notare come i
risultati ottenuti differiscano a seconda del valore del moltiplicatore utilizzato, e che, fintanto che il
rapporto debito/Pil prodotto dalla politica A risulta essere maggiore del valore della soglia di
inversione come sopra definita ed evidenziata nella tabella, il rapporto debito pubblico/Pil prodotto
dalla politica R risulta essere maggiore rispetto al rapporto debito/Pil che si avrebbe attuando la
politica vigente A (Tabella 2). A differenza di quanto si aveva nella simulazione precedente con tasso
di crescita del prodotto costante nel tempo (si veda Tabella 1), considerando il valore del
moltiplicatore di 1,8 la politica restrittiva (R) per 7 anni (fino cioè al 2024) determina un rapporto
debito pubblico/Pil maggiore rispetto al caso della politica vigente (A). Soltanto dall’anno 2025 il
rapporto debito pubblico/Pil prodotto dalla politica A (128.44%) diventa maggiore del rapporto debito
pubblico/Pil prodotto dalla politica R (128.31%). I risultati sono diversi nel caso in cui si considera un
moltiplicatore di 1,55 e di 0,95 dove il numero di anni in cui la politica restrittiva determina un effetto
perverso sull’andamento del rapporto debito pubblico/Pil si riduce rispettivamente a 5 e 2 anni
(Tabella 2). Tabella 2: Soglia di inversione e debito pubblico/Pil nel caso della politica (A) e
della politica (R) nell’ipotesi di effetti sul Pil della riduzione della spesa pubblica e diversi
valori del moltiplicatore m.
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È importante a questo punto sottolineare come la riduzione del rapporto debito/Pil della politica R,
rispetto a ciò che si sarebbe avuto con la politica A, è ottenuta attraverso una riduzione sia dello stock
di debito che del prodotto interno lordo, con lo stock di debito che diminuisce proporzionalmente di
più del Pil dopo un certo numero di periodi a causa dell'azione cumulativa sia dei tagli alla spesa che
degli interessi più bassi.[17] Gli effetti perversi sul rapporto debito/Pil sono quindi la manifestazione di
un cambiamento nel livello di trend della produzione, causati dalla modifica restrittiva nella politica
fiscale, e dovrebbero essere tenuti distinti da qualsiasi tipo di conseguenze a breve termine dovute a
circostanze temporanee o alle reazioni degli agenti a tale politica. Qualora poi la politica fiscale
restrittiva dovesse tener conto dello scostamento dai suoi obiettivi originari (nel 2018 il rapporto
debito pubblico/Pil obiettivo del Fiscal Compact risulta essere pari a 128,22 (Tabella A1.1)),
dovrebbero prevedersi ulteriori tagli di spesa con ulteriori effetti negativi sul reddito.
4.Il confronto tra politiche alternative nel caso di effetto negativo sugli investimenti privati
della politica fiscale restrittiva (R)
Fino ad ora nella nostra analisi si è assunto che gli investimenti privati non si modificassero a seguito
della politica fiscale adottata. Rimuoviamo ora tale ipotesi di indipendenza degli investimenti rispetto
alla politica fiscale adottata per tener conto che i minori livelli di spesa pubblica, generando minori
livelli di domanda e di reddito, potrebbero influire negativamente sulle spese per investimenti del
settore privato e quindi sui livelli di domanda e di reddito dei periodi successivi. In altri termini,
ipotizziamo in base al principio dell’acceleratore che gli investimenti siano influenzati dall’andamento
della domanda aggregata piuttosto che dal tasso di interesse come nelle tradizionali funzioni di
investimento. Indichiamo con ?IsR la riduzione (considerata come algebricamente positiva) degli
investimenti privati lordi che nel generico periodo s risultano essere associati alla politica fiscale R
rispetto a quelli che si sarebbero potuti avere nel medesimo periodo con la politica A. Ipotizziamo in
particolare che
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?IsR =k*m* ?GsR
(8)
dove il valore di k utilizzato nell’analisi risulta essere di 0,3[18] e definiamo, in questa nuova
situazione, sia il numeratore che il denominatore del rapporto rispettivamente nella politica A e nella
politica R. Per calcolare il rapporto debito/Pil prodotto dalla politica A abbiamo considerato di nuovo le
relazioni (3) e (4) della precedente sezione, mentre per il calcolo del rapporto debito pubblico/Pil
prodotto dalla politica restrittiva abbiamo utilizzato le relazioni[19]:
BRt= BAt – (1-mz) ? ts=1 ?GsR (1+i)t-s + mz ? ts=1 ?IsR (1+i)t-s (9)
YRt= YAt – m (?GtR + ?ItR)
(10)
La soglia di inversione in ciascun periodo come sopra definita risulta ora determinata dalla relazione
in cui si tiene conto al
numeratore dell’effetto sul debito delle minori entrate fiscali derivanti dalla riduzione degli investimenti
dal periodo s = 1 al periodo t, e al denominatore dell’effetto sul reddito della diminuzione degli
investimenti a seguito della politica R.[20] Nella Tabella 3 vengono mostrati i risultati dell’analisi di
simulazione dove si è ipotizzato che le variazioni degli investimenti avvengano dal primo periodo
(2018). Si nota come ancora una volta i risultati ottenuti differiscano a seconda del valore del
moltiplicatore utilizzato e che, fintanto che il rapporto debito/Pil prodotto dalla politica A risulta essere
maggiore del valore della soglia di inversione, il rapporto debito pubblico/Pil prodotto dalla politica R
risulta essere maggiore rispetto al rapporto debito/Pil che si avrebbe attuando la politica vigente A.
Dalla Tabella 3 è possibile vedere come, nel caso di valori del moltiplicatore di 1,55 e di 1,8, il
rapporto debito/Pil prodotto dalla politica A risulta essere maggiore del valore della soglia di
inversione in ciascun periodo analizzato, e quindi il rapporto debito pubblico/Pil prodotto dalla politica
R risulta sempre essere maggiore rispetto al rapporto debito/Pil che si avrebbe attuando la politica
vigente A nell’orizzonte temporale considerato 2018-2035. Nel caso di m = 1,8 la riduzione degli
investimenti risulta essere così marcata da rendere il valore della soglia di inversione negativo. La
politica fiscale restrittiva produce quindi permanentemente effetti perversi sull’andamento del rapporto
debito pubblico Pil. Le variazioni nel livello degli investimenti sono così marcate da fare in modo che
la riduzione del reddito derivante dalla politica restrittiva risulti essere maggiore rispetto alla riduzione
dello stock del debito pubblico, vanificando in questo modo gli sforzi di politica fiscale. Dalla Tabella 3
si può notare infatti che si parte da un valore nel 2018 della politica R di 144,52% (contro il valore di
131,36% della politica A), fino ad arrivare ad un valore di 135,42% nel 2035 (contro il valore di
124,96% della politica A).
Tabella 3: Soglia di inversione e debito pubblico/Pil per la politica A e la politica R
nel caso in cui si considerino gli effetti sugli investimenti (dal 2018) della politica fiscale
restrittiva ipotizzando diversi valori del moltiplicatore m.
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Nel caso di m=1,55 le variazioni degli investimenti sono molto marcati, ma tali da non rendere la
soglia di inversione negativa; questo fa si che gli effetti perversi sul rapporto debito pubblico/Pil non
risultino essere permanenti, ma ne allungano l’intensità rispetto al caso in cui non si considerino gli
investimenti dipendenti dalla politica fiscale adottata. In particolare, il rapporto debito pubblico Pil
prodotto dalla politica R risulterebbe essere inferiore rispetto a quello prodotto dalla politica A solo a
partire dal 2050 (dati non mostrati). A tale proposito ricordiamo come nel caso di investimenti
esogeni, per un valore di m=1,55 la politica restrittiva produceva effetti perversi fino al 2022 (Tabella
2). Nell’arco di tempo da noi analizzato la politica restrittiva R produce rapporti debito pubblico/Pil
sempre maggiori di quelli che si sarebbero avuti attuando la politica A: si parte da un valore del 2018
con la politica restrittiva di 141,34% (contro il valore di 131,36% con la politica A), fino ad arrivare ad
un valore di 126,76% (contro il valore di 124,96% con la politica A) (Tabella 3). Per m=0,95 la
riduzione degli investimenti risulta essere tale da generare un valore della soglia elevato e crescente.
Il numero di anni in cui la politica restrittiva determina un effetto perverso sull’andamento del rapporto
debito pubblico/Pil aumenta però di un solo anno rispetto al caso in cui gli investimenti si considerino
esogeni. Infatti, nel caso di investimenti esogeni (Tabella 2) il rapporto debito pubblico/Pil prodotto
dalla politica A (130,48%) diventa maggiore di quello prodotto dalla politica R (128,59%) nel 2020,
mentre considerando gli investimenti dipendenti dalla politica fiscale adottata il rapporto debito
pubblico/Pil prodotto dalla politica A (130,05%) diventa maggiore del rapporto debito pubblico/Pil
prodotto dalla politica R (128,62%) a partire dal 2021 (Tabella 3).
5.Conclusioni
Con il presente lavoro si è voluto mettere in evidenza come, quando si ammetta che il trend del
reddito sia determinato da quello della domanda aggregata, gli effetti prodotti da persistenti avanzi
pubblici tesi a ridurre il rapporto debito pubblico/Pil saranno diversi da quelli considerati in un
approccio teorico tradizionale e tali da generare andamenti ‘perversi’ di quel rapporto. Ovviamente,
l’analisi qui svolta risulta essere frutto di tutta una serie di assunzioni e semplificazioni, ed i risultati
ottenuti essere sensibili ai valori attribuiti in particolare ai moltiplicatori fiscali. Essa però esemplifica
quanto accaduto in Italia dopo la crisi dell’autunno del 2011 quando si sono avviate politiche di
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restrizione fiscale per riportare il rapporto di indebitamento sotto la soglia del 3% senza che ciò
determinasse una riduzione del rapporto debito Pil ma anzi un suo incremento da 120,7 nel 2011 a
133 nel 2013 (cfr. Paternesi e Stirati, 2018). Per quanto infatti altri fattori possano avere in quegli anni
concorso a rallentare la crescita del Pil, una politica fiscale restrittiva, se migliora il bilancio dello
Stato, determina una riduzione del reddito e può dunque avere effetti perversi sul rapporto debito
pubblico/Pil. Qualora quindi la Commissione Europea imponesse nei prossimi anni il puntuale rispetto
delle regole previste nel Fiscal Compact, i costi sociali e quelli in termini di potenzialità di crescita del
sistema economico potrebbero risultare molto elevati e soprattutto non implicare necessariamente un
miglioramento del rapporto debito pubblico/Pil. Una riforma dell’architettura istituzionale europea tesa
a garantire maggiori spazi di manovra fiscale[21] o alternativamente trasferimenti di reddito verso i
paesi cui fosse richiesto un forte consolidamento fiscale, e/o una riforma concordata[22] tra paesi nel
regime monetario, appare dunque l’unica strada percorribile per evitare un declino del paese ed un
impoverimento crescente della popolazione. *Università degli Studi Roma Tre Appendice 1
Tabella A1.1 Risultati simulazione (politica restrittiva R)
*bt=bt-1-(bt-1-60%)/20; **Tasso di crescita del Pil reale + Tasso di inflazione; *** Spesa per interessi
(t) / Stock debito (t-1)Tabella A1.2 Risultati simulazione (politica vigente A)
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istituzionale europea cfr. Pisani-Ferry, J. (2018). [3] Come sostenuto da Schaltegger and Weder
(2012; 2014) utilizzando dati panel per 21 paesi OCSE dal 1970 al 2009, si dovrebbero effettuare
ampi aggiustamenti fiscali basati su tagli alla spesa per determinare tassi di interesse a lungo termine
notevolmente più bassi ed un significativo aumento degli investimenti privati. [4] Cfr IMF (2012) e
Blanchard O.J. e Leigh D. (2013), che riportano valori dei moltiplicatori tra 0.7 e 1.5 dalla crisi del
2007-08, mentre precedentemente erano stimati dal Fondo monetario internazionale
approssimativamente pari a 0.5. [5] Un taglio dei consumi pubblici dell’1% del Pil aumenterebbe gli
spread di circa 80 punti base per almeno un anno ed un calo significativo nei rendimenti dei titoli
pubblici si manifesterebbe solo dopo circa 6 trimestri. I risultati sono robusti anche per sotto-campioni
specifici. Se invece il consumo pubblico viene ridotto durante periodi espansivi, gli spread
diminuiscono di circa 20 punti base. Anche in questo caso l'effetto risulta essere persistente. [6] Oltre
ai lavori già citati, cfr. Gechert, S. (2015). Sugli investimenti pubblici cfr. anche Deleidi M., Iafrate F. e
Levrero E.S. (2019). [7] Si tratta dello stesso valore del tasso di crescita reale del Pil del 2017. Data
la recente caduta del Pil reale, tale stima tende a sottostimare l’aggiustamento fiscale richiesto. [8] Il
valore ipotizzato corrisponde al tasso di inflazione del 2017. [9] Sottolineiamo che in questo caso
stiamo imponendo il puntuale rispetto, in ogni anno, dei due criteri di valutazione dei vincoli sul debito
e sul deficit, ignorando le metriche di giudizio previste dalla Commissione Europea durante il percorso
di aggiustamento (backward looking, forward looking e la relazione tra debito e Pil strutturale). [10]
L’esistenza di un avanzo primario implica un prelievo fiscale superiore al valore dei servizi erogati
dalla pubblica amministrazione. Tenendo presente che nel 2017 l’avanzo primario si è attestato
all’1,5% del Pil (per un ammontare pari a 25,943 miliardi) (Tabelle A1.1 e A1.2), per portare l’avanzo
primario alle dimensioni richieste per il soddisfacimento delle regole imposte dal fiscal compact
sarebbe quindi necessaria una manovra di rilevante entità, ossia un aumento della pressione fiscale
e/o una riduzione della spesa pubblica. [11] Non mostriamo questi dati perchè già solo i risultati fino
al 2035 mostrano il maggior prelievo fiscale e la minore spesa pubblica necessari per il rispetto del
Fiscal Compact, che non potrebbero che avere degli effetti negativi sulla dinamica del Pil, ovvero
essere tali da non consentire che esso cresca al tasso ipotizzato dell’1,5% annuo come nello
scenario per ora ipotizzato. [12] Come già detto, seppure più lentamente, anche nel caso della
politica vigente (A) si verifica un calo del rapporto debito pubblico/Pil, la cui dinamica, come è noto, se
il deficit pubblico non è finanziato con moneta, è definita dal confronto tra il tasso di crescita del Pil
nominale yt da un lato, e la somma del tasso di interesse it e del rapporto tra deficit primario e stock
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Una stima degli effetti macroeconomici del Fiscal Compact
del debito pubblico dt dall’altro. I valori ipotizzati sono infatti tali che yt > it + dt.[13] Si ipotizza che tutto
il consumo sia dipendente dal reddito e che non vi siano imposte autonome dal reddito. Si assume
inoltre che tutti gli effetti che il moltiplicatore ha sul reddito si esauriscano nell’ambito dello stesso
periodo t. Il livello del reddito sarà allora definito dalla relazione Yjt= m (Itj + Gtj) , per j = A, R a
seconda della politica considerata. [14]Avremmo infatti che BAt= Bt-1 (1+i)+ GAt –zm(GAt + IAt) e BR
R
R
R
t= Bt-1 (1+i)+ G t –zm(G t + I t) , per cui, definendo la differenza tra i due livelli di spesa al tempo t
nell’ipotesi di politica A e politica R come ?GtR= GtA- GtR e ?ItR= ItA- ItR , e considerando
l’andamento per più periodi e che per ora ?ItR= 0, si ricava la relazione (5) di cui sopra riguardo al
debito con la politica R rispetto al debito che si sarebbe ottenuto con la politica A. [15] Per il valore
dell’aliquota media pari a 0,43 si è fatto riferimento al dato fornito dall’OECD (2017). Per il valore del
moltiplicatore Keynesiano di 1,8 si è fatto riferimento alle stime dei moltiplicatori fiscali effettuate da
Pusch (2012), dove l’approccio utilizzato è quello delle tavole input-output. È bene sottolineare come
per queste stime si considera un’economia aperta e si tiene quindi conto del contenuto delle
importazioni richiesto dalle diverse tipologie di spesa finale. Infine, per i valori del moltiplicatore di
0,95 e di 1,55 si è fatto riferimento alle stime dei moltiplicatori fiscali effettuate da Gechert (2015) il
quale - utilizzando 104 lavori empirici dal 1992 al 2012 per un totale di 1064 osservazioni dei valori
del moltiplicatore - ottiene diverse stime dei moltiplicatori, con riferimento alle diverse voci di spesa e
di entrata del settore pubblico: spesa pubblica per investimenti (INVEST), pressione fiscale (TAX),
trasferimenti al settore privato (TRANS), spese militari (MILIT), spesa per consumi (CONS) e
occupazione nel settore pubblico (EMPLOY). La stima dei valori di 0,95 e di 1,55 è ottenuta da
Gechert considerando i soli valori cumulati, non distinguendo tra le varie componenti di spesa (per il
valore di 0,95) e considerando la spesa pubblica per investimenti (per il valore di 1,55). [16]
Implicitamente si sta ipotizzando che la politica restrittiva sia ottenuta non aumentando le imposte,
ma riducendo il termine G, inteso in questo caso come spesa pubblica per consumi e investimenti più
i trasferimenti alle famiglie. [17] Il Pil al denominatore del rapporto si riduce comunque
proporzionalmente di meno dello stock di debito al numeratore del rapporto sia perché le variazioni di
spesa pubblica ipotizzate sono via via decrescenti (come si può vedere dalla prima colonna della
Tabella 2, che mostra le variazioni di spesa pubblica nelle due diverse politiche in ciascun periodo t),
sia perché lo stock di debito risente dell'azione cumulativa non solo dei tagli alla spesa, ma anche
degli interessi più bassi (come mostrato dalla seconda colonna della Tabella 2 che riporta le
variazioni cumulate di spesa pubblica nei diversi periodi t e la riduzione nella spesa per interessi che
ne deriva in ciascun periodo t). [18] Il valore attribuito a k deriva da una stima della funzione degli
investimenti in Italia dal 1961 al 2017. Cfr. G. Ciaffi, M. Deleidi, E.S. Levrero (2019). Per una
conferma della rilevanza dell’andamento della domanda aggregata nella determinazione degli
investimenti cfr. tra gli altri Barkbu, B., Berkmen, S., Lukyantsau, P., Saksonovs, S., Schoelermann,
H. (2015); e Lewis C., Pain N., Strasky J., Menkyna F, (2014). [19] La relazione (10) è immediata.
Riconsiderando la nota 14, la relazione (9) tiene conto che adesso la minore spesa pubblica riduce il
deficit e quindi il debito pubblico rispetto alla politica A in misura inferiore al suo ammontare per la
riduzione delle entrate del settore pubblico derivante dall’effetto negativo sul reddito non solo della
diminuzione della spesa pubblica ma ora anche della spesa per investimenti. [20] Il confronto con la
medesima condizione non considerando variazioni nei livelli dell’investimento privato mostra che la
soglia di inversione subisce con gli investimenti dipendenti dalle variazioni di reddito due importanti
modificazioni: a) al denominatore compare ora, in aggiunta al valore della minor spesa pubblica, il
valore dei minori investimenti privati. Questo riduce, ceteris paribus, il valore della soglia; b) vi è un
termine negativo - z=(? ts=1 ?IsR(1+i)t-s)/(?GtR + ?ItR ) che, se sufficientemente grande, può
imprimere alla soglia un andamento decrescente, in questo caso non necessariamente ristretto a un
intervallo limitato di tempo. Ovviamente la dimensione di questo effetto negativo sui valori della soglia
dipende dalla dimensione delle riduzioni nei flussi di investimento privato che la politica fiscale R
indurrebbe rispetto alla politica fiscale A. La riduzione degli investimenti privati provoca in altri termini
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due effetti: (i) innalza i valori del rapporto debito reddito associati alla politica R in ciascun dato
periodo, semplicemente per il fatto che livelli di reddito più basso generano minori entrate per il
settore pubblico; e (ii) riduce i valori della soglia di inversione. [21] Come sottolineato da Realfonzo
(2019) sarebbe necessario in questo caso disporre di un bilancio dell’Unione Europea piu? ampio, da
utilizzare per politiche territoriali redistributive, con meccanismi tali da incrementare le entrate e
ridurre le spese nei Paesi che conoscono shock positivi, e contemporaneamente ridurre la pressione
fiscale e aumentare la spesa pubblica nei Paesi che subiscono shock negativi. Dovrebbe poi
costituirsi un debito pubblico europeo per finanziare spese per investimenti in infrastrutture materiali e
immateriali da effettuare nelle aree che hanno un ritardo di sviluppo rispetto alle zone centrali. [22] Si
parla qui di riforma concordata per i problemi che un paese incontrerebbe con una decisione
unilaterale di uscita dall’euro anche alla luce della crescente proporzione di debito pubblico non
ridenominabile in valuta nazionale. Cfr. Levrero (2012) e Guglielmi, Minenna, Signani e Suarez
(2017).
Fiscal Compact
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Fiscal Compact[/caption]
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