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Note sul processo andreotti

2023, Nuovo Giornale Nazionale

IL PROCESSO ANDREOTTI VISTO DA VICINO Alcune note Vito Sibilio Quel Giulio Andreotti che, al termine della sua odissea processuale, fu prescritto per i reati imputatigli prima del 1980 e assolto per quelli successivi a tale data, fu veramente mafioso? Una domanda che si impone, alla luce della documentazione che ha dimostrato come gli USA fossero interessati alla sua caduta politica, riprendendo e ampliando un progetto che si era delineato sin dalla fine degli anni settanta in URSS. E che si impone perché gli italiani, a parte quelli che lo odiavano, vorrebbero sapere se sono stati governati da un criminale o no. Al netto del fatto che, prima di lui, Garibaldi, Crispi e Giolitti ebbero senz’altro rapporti strutturati con la mafia, senza che a nessuno venisse in mente di considerarli delinquenti da mandare sotto chiave. Il giudizio di primo grado assolse il Senatore a Vita da ogni accusa, ritenendo infondate le accuse che quaranta pentiti gli avevano scaricato addosso. Il che non deve stupire più di tanto, visto che ognuno dei collaboratori di giustizia aveva detto cose sostanzialmente diverse da quelle degli altri e, quando si erano cercati riscontri che andassero oltre l’attendibilità dei testi e la credibilità dei loro racconti, puntualmente non si erano trovati. Giulio il manipolatore di processi, il legislatore per il crimine, il mediatore di affari internazionali, il committente di delitti, il detentore di segreti carpiti dai picciotti era risultato inesistente. Mentre era stata confermata quella di Andreotti politico alla cui ombra di leader nazionale della DC si erano acquattati anche personaggi del partito siciliano evidentemente collusi con la mafia, così come avevano fatto a quella di altri notabili scudocrociati e di altri soggetti politici. Una cosa che si sapeva da prima dell’inchiesta e che non era suscettibile di processo, una conseguenza del fatto che in Sicilia era difficile vincere senza l’apporto di tutti i voti, compresi quelli mafiosi, e che la vittoria – ossia la maggioranza relativa – era indispensabile nell’ottica della contrapposizione frontale col PCI. Andreotti era stato, ma non da solo e non sempre lui, l’uomo della frontiera democratica, quella che cavalca tra legalità e illegalità dei cittadini, ma non l’aveva varcata. L’aveva custodita. Il giudizio su di lui spettava a Dio e alla Storia. Il secondo grado, forse per bilanciare la perdita di credibilità della magistratura e condizionato dalla condanna in appello di Andreotti per l’omicidio Pecorelli a Perugia, ritenne più opportuno confermare l’assoluzione per i fatti anteriori al 1980 e prescrivere i reati anteriori a quell’anno. Anche questo era poco per la Procura: con più di diecimila pagine raccolte, andava da sé che qualche indizio fosse stato trovato. Il guaio era che, tra menzogne e mistificazioni dei collaboratori, non si era riusciti a trovare una prova vera nemmeno per i reati minori, salvo quelli che, guarda caso, non potevano essere puniti, quasi per salvare la faccia degli inquirenti. Il terzo grado, mentre era intercorso l’annullamento in Cassazione della sentenza perugina, confermò la sentenza del secondo, ma solo perché non ravvisò i difetti formali che avrebbero giustificato il suo intervento, mentre sottolineò che, per quanto concerne i reati prescritti, sui quali aveva poca possibilità di intervenire, molte valutazioni espresse nel secondo grado non erano meno valide di quelle, diametralmente opposte, formulate nel primo sui medesimi episodi. In ogni caso, sia il secondo che il terzo grado sentenziarono in modi senz’altro formalmente corretti, ma privi di un certo tipo di approfondimento, che in effetti spetta più allo storico e all’analista politico, che al magistrato, specie se con in tasca una tessera dell’ANM e con una militanza in Magistratura Democratica. Vediamone alcuni. Cominciamo dal fatto che di alcuni pentiti si mise nero su bianco, nella sentenza della Cassazione, che erano inclini a fornire indicazioni su Andreotti. Una cosa senz’altro sospetta a posteriori, ossia quando, terminato il dibattimento, si era visto che quelle dichiarazioni erano risultate infondate. In un contesto normale quei pentiti sarebbero stati essi stessi oggetto di indagine, e invece non si fece nulla. Nessuno si sentì in dovere di chiedersi chi aveva interesse a far credere che Andreotti avesse incontrato Frank Coppola, Salvatore Riina, Nitto Santapaola e Michele Greco o aiutato Bruno Nardini tramite la mafia, nemmeno considerando la convergenza singolare di false testimonianze sulla medesima persona da parte di persone che, magari in altri procedimenti, erano state anche fededegne. Mentre si scrisse chiaro e tondo che alcuni testi avevano deposto contro Andreotti per ragioni di animosità personale, spesso indugiando su particolari privati privi di rilevanza penale – come presunti regali o telefonate di cortesia - senza che la cosa avesse per costoro particolari conseguenze. Proseguiamo considerando che il segreto dei segreti di Cosa Nostra, il rapporto diretto tra la Cupola e il Divo Giulio, era arrivato alla luce non mediante la testimonianza di potenti capi mandamento, ma attraverso quella di mafiosi subordinati. Nessuno si chiese mai quanto fosse incredibile che tanta gente di scarsa affidabilità potesse essere diventata depositaria di una simile informazione, senza che peraltro essa giungesse mai al grande pubblico per vie traverse in precedenza. Aggiungiamo che, secondo il giudice di secondo grado, il semplice fatto di aver posto in essere, da parte di Andreotti, delle condotte tali da far credere a Cosa Nostra di poter contare su di lui, si configurava come reato, sebbene, a conti fatti, nessun atto del sette volte Presidente del Consiglio a favore della mafia fosse stato provato, per cui se ne doveva dedurre che o il sodalizio criminale, in anni di contiguità col politico democristiano, non avesse mai avuto nulla da chiedergli, o lui, le volte in cui era stato interpellato, avesse detto di no, peraltro stranamente senza subire conseguenze. Due prospettive del tutto assurde, che il magistrato avrebbe dovuto avere presenti, prima di teorizzare un crimine in cui vi è intenzione, consenso ma non materia. Gli unici atti criminosi che, stando al secondo e terzo grado di giudizio – ma non per il primo – che l’illustre imputato avrebbe di fatto compiuto sarebbero stati costituiti da due incontri con Stefano Bontate, all’epoca latitante e membro, con Salvatore Inzerillo e Gaetano Badalamenti, del triumvirato che reggeva Cosa Nostra prima della dittatura dei Corleonesi. Il primo incontro sarebbe avvenuto tra il 20 giugno e l’8 luglio del 1979 a Catania. In esso Andreotti, di fatto chiamato a rapporto, sarebbe andato a tranquillizzare il capomafia promettendogli di intervenire per imbrigliare Pier Santi Mattarella nella sua azione moralizzatrice della politica. Bontate infatti sarebbe stato già intenzionato a farlo assassinare, qualora non si fosse adeguato al modus vivendi negoziato tacitamente tra la DC e la mafia. Su tale racconto e sulla sua valutazione processuale vanno evidenziate diverse cose. La prima è che la collocazione cronologica dell’evento è stata fatta sulla base delle indicazioni di Angelo Siino, in quanto il periodo individuato in origine dal Mannoia era stato scartato perché Andreotti aveva dimostrato di essere altrove. Una deposizione che per la Procura palermitana cadde a fagiolo, data la sua determinazione ad asserire che l’incontro tra Andreotti e Bontate era accaduto, nonostante Mannoia avesse clamorosamente sbagliato nel collocarlo, cosa che, ordinariamente, avrebbe dovuto inficiarne la testimonianza. La seconda è che, nella forbice di date fornite da Siino, stando alla sentenza di secondo grado – e che il terzo aveva confermato senza potere entrare nello specifico - non si poteva escludere che Andreotti avesse potuto incontrare Bontate, il che è semplicemente assurdo, in quanto una persona dovrebbe essere condannata per avere di certo incontrato un latitante e non perché non si può escludere che lo abbia fatto. La terza è l’inverosimiglianza di un meeting tra un capo mafia e il Presidente del Consiglio in carica – Andreotti lo fu fino all’8 agosto del 1979 – peraltro in casa del primo, ossia in Sicilia. La quarta verte sul contenuto dell’ipotetico colloquio, ossia sul fatto che Bontate abbia chiesto ad Andreotti di influire su Mattarella perché smettesse di fare la lotta a Cosa Nostra, altrimenti quell’ultimo sarebbe stato ammazzato. Esso cozza col fatto che, quando Mattarella fu ucciso, la mafia spacciò il delitto come politico, fatto da estremisti di destra. Come mai tanta circospezione, se persino il Presidente del Consiglio era stato intimidito per fermare quello della Regione Sicilia? Non avrebbe avuto ragione, la mafia, di far sapere da subito al mondo come si era vendicata di Piersanti? Evidentemente queste illogicità non sono state tenute in conto dalla magistratura inquirente e giudicante. La prima ha addirittura aggiunto infamia ad infamia, asserendo – e contraddicendo la deposizione di Mannoia – che la morte di Mattarella spianò la strada della presidenza regionale all’andreottiano Mario D’Acquisto, che veniva presentato come contiguo a Cosa Nostra. A tali condizioni, non si vede perché Andreotti avrebbe dovuto essere scomodato per impedire l’omicidio e tantomeno di volerlo fare. Appare invece a mio avviso degno di nota che Piersanti Mattarella era fautore della ripresa del Compromesso Storico. Una volta che esso fosse decollato nuovamente in Sicilia, siccome l’isola è l’incubatrice politica d’Italia, la formula sarebbe potuta tornare di nuovo a Roma, forse o con Andreotti ancora una volta alla testa dell’esecutivo o con lo stesso Mattarella, del quale un tempo si era interessato anche il gran maestro del terrorismo internazionale teleguidato da Mosca, Alexander Alexeevitch Soldatov, che ne aveva conferito con Licio Gelli. Il fatto è che i sovietici erano consapevoli che, se il PCI fosse entrato nella stanza dei bottoni di un Paese NATO, avrebbe dovuto rompere completamente i rapporti con Mosca e, ovviamente, non erano favorevoli. Non è peregrina perciò l’ipotesi che chi si oppose al Compromesso Storico arrivando ad uccidere Moro, avrebbe potuto continuare a farlo ordinando l’omicidio anche di Mattarella. Il secondo incontro tra Andreotti e Bontate sarebbe avvenuto nella primavera del 1980, ricostruito sulla base della testimonianza dello stesso Francesco Marino Mannoia, che vi avrebbe partecipato in una villa in quel di Palermo ma del quale non rammentava la data precisa, e sarebbe stato confermato, sia pure molto genericamente e de relato, da Antonino Giuffrè e Giuseppe Lipari, confidenti di Michele Greco e di Bernardo Provenzano, che però, ovviamente, non testimoniarono a loro volta in tal senso. In tale incontro Andreotti avrebbe protestato per l’assassinio di Piersanti Mattarella, ma il contenuto del colloquio non sarebbe stato ascoltato dal Mannoia, a cui sarebbe stato raccontato in seguito. In esso, alle minacce di Andreotti, indignato per il delitto, Stefano Bontate avrebbe replicato che egli era in grado di togliere alla DC i voti di tutto il mezzogiorno. Dopo tale incontro, Andreotti avrebbe interrotto ogni legame con Cosa Nostra. Al netto della credibilità del collaboratore di giustizia Mannoia – che può essere certa in un processo per narcotraffico ma deve essere presunta in uno con un chiaro contenuto politico e che, a conti fatti, è l’unica ragione per cui il magistrato ha prestato credito al suo racconto – vanno considerate tre cose: non dando una data, per purchessia ragione, il dichiarante non ha permesso all’imputato di dimostrare di essere altrove, costringendo i collegi giudicanti a scegliere tra credere a un ex criminale o a un politico sotto accusa. Che la cosa sia più che discrezionale, lo attesta che il primo grado credette ad Andreotti e il secondo a Mannoia, mentre il terzo non poteva, per legge, esprimersi, essendo entrambe opzioni giudiziariamente. Rimane poi fermo che un incontro di tale calibro, se non si situava nel tempo, era come se non fosse mai accaduto, perché ne era protagonista un uomo che, per incarichi politici, era quasi sempre – e il quasi è cautelativo – tracciabile nei suoi movimenti. La seconda cosa è l’inverosimiglianza del resoconto del dialogo, resoconto in cui Mannoia appariva chiaramente bugiardo, quando attribuiva a Bontate la minaccia di togliere tutti i voti del Sud alla DC, cosa che avrebbero potuto smentire tutti quei meridionali che, in quarantotto anni, avevano votato la Balena Bianca senza essere avvicinati da nessun uomo di (dis)onore, a cominciare dal sottoscritto e dai suoi genitori e nonni prima di lui. La terza cosa è che, guarda caso, dopo questo incontro fantasma, Andreotti avrebbe interrotto i rapporti con la mafia. Una testimonianza che, di fatto, smentiva tutte le deposizioni dei collaboratori di giustizia attestanti la perduranza di tali relazioni dopo il 1980, fino al famigerato bacio ricevuto da Totò Riina. Strano che i magistrati inquirenti e quelli giudicanti di secondo grado non abbiano notato la contraddizione che minava alla base tutto l’impianto accusatorio. Ancor di più che nessuno abbia approfondito le ragioni per le quali, evidentemente, o mentiva Mannoia o mentivano tutti gli altri collaboranti. Concludo con una serie di considerazioni sulla deposizione di Mannoia su questi incontri presunti tra Andreotti e Bontate. Supponendo che essi siano veri, il resoconto del pentito non può che essere il punto di arrivo di una tradizione orale interna a Cosa Nostra, la quale, attestando la fine delle relazioni tra Andreotti e la mafia al 1980, non può essere che di poco posteriore a quella data. Se poi è falsa, la sua composizione potrebbe essere anche di molto posteriore. Ma il fatto che il racconto metta in relazione la morte di Mattarella e i rapporti tra la mafia e Andreotti si presta ad un sospetto, specie se partiamo dal presupposto che l’omicidio del Presidente della Regione Sicilia sia stato fatto per impedirgli di fare da volano ad un rilancio del Compromesso Storico. Il sospetto è che, se dopo la morte di Mattarella, Andreotti avesse tentato di ritornare alla maggioranza DC PCI, complice la frammentarietà del quadro politico, l’accusa di collusione con la mafia e addirittura di aver conosciuto in anticipo l’intenzione di quella di assassinare il politico siciliano, avrebbe potuto essere usata contro di lui. Se questa ipotesi fosse verificata, allora il progetto contro Andreotti da me descritto da queste colonne qualche settimana fa si arricchirebbe di un nuovo strumento di pressione che, nella fattispecie, non fu necessario usare ma che poi, per vie traverse, finì nell’arsenale di quei collaboratori di giustizia che un lucido superpotere, sopravvissuto alla guerra fredda come vincitore, usò per decimare la classe dirigente italiana. Infatti, il fatto che la storia degli incontri sia stata attestata dal Mannoia, pentito gestito per anni dall’FBI, ci permette di connetterla con la dimostrata volontà dell’Amministrazione Americana di eliminare Andreotti dal potere, indipendentemente dal fatto che la testimonianza sia vera. E’ un dato di fatto che Mannoia, nella sua carriera mafiosa, sia passato con disinvoltura da una fazione all’altra, come che, in quanto collaborante, abbia fatto dichiarazioni anche molto discutibili se non addirittura false sui rapporti tra Cosa Nostra e politica – penso al Caso Contrada o sullo stesso Piersanti Mattarella, del quale infangò la memoria affermando che all’inizio della sua carriera era stato contiguo alla mafia, con una asserzione del tutto falsa. Il fatto che Mannoia, una volta diventato collaborante, abbia subito gravi perdite familiari, non lo mette al di sopra di certi sospetti. Un uomo del genere di Mannoia avrebbe potuto prestarsi ad una calunnia per conto dell’FBI, per certi versi non avrebbe potuto sottrarsi ad una richiesta in tal senso. Una calunnia che, peraltro, andando a confluire nel calderone delle testimonianze contraddittorie di tutti i pentiti raccolti dalla Procura di Palermo, non serviva tanto a far condannare Andreotti, ma semplicemente a distruggere politicamente lui e la DC, come in effetti avvenne. Uno scopo molto diverso da quello dei giudici palermitani, che ebbero proprio dalla giustizia USA il permesso di utilizzare Mannoia e che ovviamente volevano arrivare alla condanna di Andreotti. Uno scopo che non riuscirono a realizzare nemmeno con le integrazioni di Angelo Siino, anch’egli molto discutibile come collaboratore di giustizia quando parlò di politica, proprio perché anche essi, nel loro zelo inquisitorio, furono usati e condotti per mano verso obiettivi politici.