Introduzione all’edizione cinese
1 La Cina è vicina?
a) La scelta della «Central Compilation & Translation Press (CCTP)» di tradurre in cinese la Storia del marxismo italiano dalle origini alla grande guerra mi ha certamente lusingato, ma nello stesso tempo mi ha posto interrogativi a cui non sono in grado di dare risposte.
La CCTP ha come motto «being a cultural bridge between the east and the west » e afferma: «have been redoubling our efforts to bring out books of first class (…) for qualified readers».
Quando ho scritto questo libro conoscevo bene il mondo dei qualified readers italiani ai quali il lavoro si rivolgeva. Così come al momento della sua traduzione in inglese potevo individuare con sufficiente sicurezza il contesto del dibattito anglosassone sul marxismo e la sua storia in cui la mia ricerca si sarebbe inserita. Per quanto riguarda i qualified readers cinesi le cose stanno in maniera totalmente diversa. Sulla loro realtà posso riferirmi solo a suggestioni tratte da varia pubblicistica e non da ricerche personali basate sull’analisi sistematica degli studi seri, che pure non mancano nella nostra cultura critica, ma che restano fuori dalla mia attività di ricerca. Devo quindi concludere che non ho nessuna conoscenza vera, nel senso che gli studiosi professionali danno al termine, del contesto culturale in cui si muovono quei qualified readers cinesi a cui questo libro è destinato.
Penso, però, che possano essere un po’ incuriositi dal fatto che proprio da un uno studioso ed uomo politico italiano sia stato dato, più di un secolo e mezzo fa, uno sguardo sulla Cina del tutto insolito per i tempi, ma che, dal punto di vista metodologico si è dimostrato gravido di futuro. Non per caso, quindi, è stato recentemente di nuovo pubblicato
G. Ferrari, La Chine et l’Europe: leur histoire et leurs traditions comparées, Hachette s, Paris, 2013. un suo grosso studio (più di 600 pagine) del 1867 scritto a Firenze e poi subito pubblicato in francese
G. Ferrari, La Chine et l’Europe: leur histoire et leurs traditions comparées, Librairie_académique Didier, Paris,1867.. Il libro è costruito sulla base di fonti primarie e secondarie in quantità impressionante per l’epoca, ed anche impressionante (non solo per l’epoca) la sua narrazione parallela della storia cinese ed europea.
Giuseppe Ferrari, democratico-socialista, protagonista del Risorgimento, o anche Rivoluzione italiana secondo un’espressione largamente usata nella pubblicistica ottocentesca, è stato, nello stesso tempo, teorico politico e teorico della conoscenza storica. Il libro in oggetto, appunto, può considerarsi portatore di innovative riflessioni epistemologiche.
L’orizzonte su cui si esercita l’analisi spazia da est ad ovest, un orizzonte che oggi definiremmo di «storia globale» e di «storia comparata». Egli è stato uno dei primi studiosi ad usare termini come «monde», «mondial» per quanto concerne il sapere storico
V. Capdepuy , 2011, Au prisme des mots. La mondialisation et l’argument philologique », «Cybergeo, European Journal of Geography», article 576, p. 33.. Il punto di riferimento orientale è rappresentato dalla Cina, sulla cui storia Ferrari volge uno sguardo analitico del tutto privo di qualsiasi forma di quell’ «orientalismo che consiste nell’attribuire a luoghi distanti e poco conosciuti caratteristiche e dinamiche supposte o immaginate partendo dal nostro sistema di valori»
S. Pieranni, Red Mirror. Il nostro futuro si scrive in Cina, Laterza, Bari-Roma, 2020, p. 116..
Nel volume non appare la parola «orientalismo», ma tutta la puntigliosa e articolata disamina ne è la più netta negazione. Si veda, ad esempio, il modo con cui si sottopone a critica la supposta storia «stationnaire» della Cina:
La Chine est-elle stationnaire? Elle nous dit au jour le jour la date précise de ses inventions; elle nous apprend quand elle a inventé l'écriture, quand elle l'a perfectionnée, à quelle époque elle a fondé son académie, comment elle l'a depuis étendue, quelles ont été les vicissitudes de ses lois, les modifications qu'elle a imposées à la propriété, à la pénalité, à l'administration; elle nous dit combien de fois elle a réformé sa géographie, déplacé ses capitales, renouvelé son calendrier. L'idée qu'elle soit stationnaire vient de ce que nous croyons nos habits, nos modes, nos gouvernements beaucoup plus mobiles qu'ils ne le sont ; nos moindres variations nous absorbent ; nous y jouons la vie et les biens, tandis que les Chinois, vus à distance et engagés à leur tour dans des variations et des vicissitudes qui nous échappent, nous semblent immobiles comme les astres. Mais eux aussi, en nous observant de loin, en voyant les Grecs, les Romains toujours habillés de la même manière, les Français toujours sous la monarchie, les catholiques constamment attachés à la Bible, pourraient nous croire sinon barbares, au moins stationnaires
G. Ferrari, La Chine et l’Europe, (1867), cit., p. 10..
La stessa metodologia nella critica alla «barbarie», all’«isolamento» della Cina nello svolgimento della storia globale, pregiudizi dettati dalla «notre vanité».
Mais si n'est ni barbare, ni stationnaire, ni solitaire, si elle mérite toute notre attention, si ses ressemblances avec notre civilisation nous fascinent, comment comparer son histoire avec la notre?
Ivi, p. 11.
La «nôtre attention», secondo Ferrari, doveva concentrarsi sullo studio attento delle culture, dalla filosofia alla scienza, sulle caratteristiche profonde della «civilisation de la Chine» nel lungo periodo della sua storia. In tale ambito spiccava il metodo della promozione degli alti funzionari imperiali tramite un percorso di esami molto impegnativo: «nous voyons le mandarin nourri par la lecture des livres canoniques, passé au fil de tous les examens, grave, fourbe, clairvoyant»
Ivi, pp. 110-120..
Una questione, quella della «meritocrazia», attualmente al centro dei dibattiti sulla qualità dei ceti politici dirigenti i paesi occidentali.
Oggi in Italia, come in tanta parte dell’Occidente, in particolare negli ultimi due decenni, l’interesse per la «questione» cinese ha prodotto una vasta letteratura, anche se a caratteri fortemente diseguali di valore conoscitivo. Nei libri della fine degli anni Sessanta e di gran parte degli anni Settanta il problema di un possibile impetuoso sviluppo dell’economia cinese non era contemplato. L’immagine stessa della Cina contemporanea, a parte rare eccezioni, non sfuggiva a rappresentazioni in perfetta contiguità con le logiche della guerra fredda. Ed anche dopo la dissoluzione dell’Urss, la Cina non appare come possibile protagonista di sfide globali. Ancora agli inizi degli anni Novanta, quando pure la tendenza «riformatrice» si è ormai affermata, nel libro
F. Fukuyama, The End of History and the Last Man, Free Press, 1992. che celebra l’ormai dominio incontrastato del Washington Consensus, la Cina «compare solo per un cameo»
B. Milanovic, Ingiustizia globale. Migrazioni, disuguaglianze e il futuro della classe media, Roma, Luiss, 2017, p. 149.. Poi, a cavallo tra i due secoli, il progressivo intensificarsi della pubblicistica che s’interroga su un evento che nell’età del capitalismo contemporaneo non sembra aver precedenti.
In una prima fase, fino al 2008, si cercavano spiegazioni al fatto che la sbalorditiva crescita economica cinese, svoltasi in un periodo brevissimo, contraddiceva la convinzione, basata sui presupposti della teoria economica neoclassica dominante, che fosse impossibile per un paese late comer, anzi appartenente all’area del sottosviluppo, raggiungere tali traguardi in tali tempi con l’imitazione dei paesi ad alto sviluppo industriale
In una seconda fase è prevalso lo stupore per la trasformazione della Cina da «fabbrica del mondo», fornitrice a basso prezzo di merci in gran parte imitate, a paese protagonista nella produzione e mercificazione di prodotti ai livelli più alti della tecnologia mondiale.
La circostanza che vede protagonista dei suddetti processi un paese erede di una lunga e grande civiltà e nello stesso tempo guidato da un Partito comunista, ha determinato i modi delle interpretazioni italiane, e occidentali in generale, su come intendere una realtà nella quale ci si dice impegnati nella costruzione di una società socialista con «caratteristiche cinesi».
Di fronte al un fenomeno del tutto nuovo che non si basa solo su enunciazioni e che può presentare le credenziali di solide basi materiali, la pubblicistica in oggetto ha oscillato, ed ancora in gran parte oscilla, tra i tentativi di negarne le possibilità di sviluppi in positivo, ed il rifugio nella vecchia riproposizione, appena aggiornata, di nuove forme di «orientalismo». Non a caso, ad esempio, a proposito del progetto chiamato Sistema dei crediti (Scs), che nell’intenzione dei dirigenti cinesi dovrebbe portare, attraverso meccanismi di sorveglianza reciproci, all’instaurazione di un clima di fiducia tra le diverse componenti della società, si è usato l’espressione «tecno orientalismo». Negazione e «orientalismo» sono le due facce tramite le quali viene espresso il rifiuto a comprendere una nuova e sorprendente realtà che non rientra negli schemi interpretativi correnti nell’area culturale e politica del Washington Consensus. Si tratta, insomma, di una forma esorcistica, assai poco raffinata peraltro, nei confronti dello spettro di un possibile Beijing Consensus.
b) È stato proprio un economista e sociologo italiano, Giovanni Arrighi, a dare un contributo fondamentale al definitivo accantomamento, per lo meno in sede scientifica, della categoria «orientalismo»
L’analisi critica della categoria «Orientalism» deve moltissimo, in primo luogo, a Edward Said, al suo libro Orientalism: Western Conception of the Orient (Pantheon Book, New York) tradotto in italiano prima da «Boringhieri» (Torino, 1991) e poi da «Feltrinelli» (Milano, 1999). Al centro dell’argomentazione di Arrighi non c’è il riferimento alla Cina, bensì quello al Medio-oriente. riferita all’esperienza cinese. In Italia L’aveva già fatto Ferrari nell’Ottocento, l’abbiamo visto, ma i tempi, del tutto interni alle logiche ed alle argomentazioni di un’Imperialismo europeo in piena affermazione, non erano certo adatti alla sua recezione.
Arrighi è, giustamente, considerato uno dei più grandi studiosi dell’economia-mondo sulla base dei lunghi cicli di accumulazione del capitale. Perciò il suo metodo d’indagine è del tutto esterno rispetto ai lineamenti analitici che trovano nel modello occidendentale di sviluppo, dalla rivoluzione industriale ai nostri giorni, il loro punto di partenza ed anche di arrivo.
In un libro del 2007, diventato ormai un classico e tradotto in 15 lingue, lo sguardo di Arrighi si focalizza all’interno del processo che definisce di «accumulazione senza spoliazione», cioè all’interno di una via allo sviluppo e alla costruzione di una società ispirata a «una qualche versione di “socialismo riformato” »
G. Arrighi, Adam Smith a Pech Roientalismino. Genealogie del ventesimo secolo, Milano, Feltrinelli 2008. Le cit. pp. 398 e 391. che abbia alla base «caratteristiche cinesi».
L’espressione «con caratteristiche cinesi» che accompagna, quasi sempre, nei documenti provenienti da tutti i livelli dei quadri dirigenti il Pcc, sostantivi come «socialismo», «meritocrazia», «marxismo», «mercato interno», ecc., trova la sua esatta corrispondenza nell’espressione «in stile cinese» che Arrighi adopera correntemente.
Arrighi, l’abbiamo visto, è stato esponente di primo piano della scuola dell’economia-mondo e dunque ha utilizzato la sua strumentazione analitica su processi di lungo periodo. In tale contesto la sua attenzione al lungo periodo cinese si è concentrao su un problema fondamentale delle «caratteristice cinesi»: il modo in cui nella storia di quell’immenso paese si è posta la questione del rapporto tra interno ed esterno. La prevalenza dell’«interno» sull «esterno» è la chiave di spiegazione principale anche dell’attuale fase dello sviluppo della Cina e delle politiche economiche e sociali del Pcc.
Lo studioso italiano ha combinato la metodologia tipica della scuola dell’economia mondo con categorie analitiche marxiane, quindi non è errato che lo si possa definire un economista e sociologo «marxista». Sull’uso del termine «marxista» per connotare studiosi, politici, organizzatori sindacali, avrò modo di ritornare nel seguito di questa Introduzione. Vorrei far notare, però, che concentrarsi sull’«interno» e quindi sulle «caratteristiche cinesi», non è solo tipico di molti «marxisti», ma canone di ricerca necessario per chi si pone davvero l’obbiettivo della comprensione.
Ad esempio, già nei primissimi anni di questo nostro secolo, Ramgopal Agarwala, capo dell'Unità economica della Missione residente della Banca Mondiale a Pechino, sulla base della sua preziosa esperienza in loco, affermava che la vera cifra dell’imponente e rapido sviluppo del paese doveva cercarsi nelle «riforme “con caratteristiche cinesi”»
R. Agarwala, The rise of China: threat or opportunity?, Bookwell Publications, 2002, Cit., in Adam Smith a Pechino. Genealogie del ventesimo secolo, cit. p. 392.. E recentemente il teorico-politico canadese Donald A. Bell, studioso da lungo tempo delle strutture politiche cinesi, in un libro del 2016, tradotto in italiano nel 2019
D.A. Bell, The China Model. Political Meritocracy and the Limits of Democracy, Princeton University Press, 2016. Ed. It. Modello Cina, meritocrazia politica e limiti della democrazia, Roma, Luiss, 2019., ha ripreso le tematiche che mettono al centro lo studio dell’«interno» del grande paese asiatico, della sua storia, delle sue tradizioni culturali, della sua cultura politica. Tra le tradizioni culturali con evidente rilevanza politica, Bell si è concentrato su quella che, a suo parere, lega strettamente passato e presente nella costruzione di un modello da osservare attentamente anche in Occidente per coglierne gli aspetti utilizzabili pure nelle democrazie liberali: la via cinese alla «meritocrazia».
In Cina – scrive – il principale ideale politico – condiviso da funzionari di governo, riformatori, intellettuali e persone in genere – è quel che io definisco “meritocrazia democratica verticale” , intendendo una democrazia ai livelli inferiori di governo e un sistema politico che diventa progressivamente più meritocratico ai livelli più alti.
I dirigenti cinesi sono riusciti a generalizzare questa forma di governo meritocratico, anche se per ora in maniera imperfetta e con notevoli contraddizioni, perché hanno ristabilito «elementi della tradizione meritocratica [del paese], come la scelta dei leader in virtù di esami»
D.A. Bell, Modello Cina, cit., Prefazione all’edizione tascabile, Problemi con il “modello cina”?..
Prospettiva indagata da Giuseppe Ferrari già nel 1867.
L’analisi di questo aspetto dell’«interno» è essenziale per non giudicare su base aprioristica le attuali riforme politiche cinesi.
Si noti che, in contemporanea con gli studi citati, anche un sinologo italiano esperto del pensiero cinese classico, Maurizio Scarpari, ha messo l’accento sul rapporto, assai complesso, tra le riforme politiche di oggi e la cultura tradizionale cinese
M. Scarpari, Ritorno a Confucio. La Cina di oggi fra tradizione e mercato, Il Mulino, Bologna, 2015.. E come, su tale nodo, sia ritornato recentemente, indagando i nessi, continuità e rotture, tra etica confuciana ed etica socialista.
M. Scarpari, La cina al centro. Ideologia imperiale e disordine mondiale, Bologna, il Mulino, 2023.
c) Il salto di qualità metodologico rappresentato dall’attenzione conoscitiva verso l’«interno» per la spiegazione delle «caratteristiche cinesi» di uno sviluppo economico-sociale promosso e guidato dal un Partito comunista, sta generalizzandosi nella sfera scientifica sia per opera di studiosi non marxisti che di ascendenza marxista. Per i «marxisti» occidentali, però, la questione di leggere il fenomeno dal punto di vista delle loro categorie marxiane di riferimento, è questione assai controversa. Si può dire che siamo appena all’inizio dei tentativi di affrontarla in una logica teoricamente, e soprattutto storicamente, sistemica.
In Italia tale compito se lo è assunto un professore di storia della filosofia dell’Università di Urbino recentemente scomparso (2018): Domenico Losurdo. Nel 2016 il giornale elettronico tedesco «Der Schattenblick» chiese a Losurdo un’intervista a proposito della forma assunta dall’Imperialismo nei nostri tempi. Nell’ampia ed articolata argomentazione che percorre la lunga intervista è presente un riferimento alla Cina indicativo per le riflessioni del professore urbinate sulle differenze tra cosiddetti «marxismo occidentale» e «marxismo orientale». «Molti Paesi – afferma Losurdo – sono politicamente indipendenti, ma economicamente e tecnologicamente completamente dipendenti dalle potenze più forti. Per questo ho sottolineato che la lotta della Cina per sfidare il monopolio occidentale della tecnologia, ad esempio, è una lotta anticoloniale»
«Schattenblik», Die Hierarchie der imperialistischen Kriegstreiber Interview am 10. Januar 2016 in Berlin. «Viele Länder sind zwar politisch unabhängig,aber wirtschaftlich und technologisch vollkommen abhängig von
den stärkeren Mächten. Deswegen habe ich betont, daß zum Beispielder Kampf Chinas, das westliche Monopol in der Technologiein Frage zu stellen, ein antikolonialer Kampf ist.» . In che senso lo sviluppo tecnologico cinese può considerarsi aspetto di una «lotta anticoloniale»? E soprattutto in che senso può considerarsi aspetto consustanziale del processo di costruzione di una società socialista, sia pure con «caratteristiche cinesi»?
I modi con cui la Cina, ed i paesi che sono stati coloniali o semicoloniali, cercavano di uscire dalla loro condizione, secondo Losurdo, non sono contemplati nella tradizione del «marxismo occidentale».
L’espressione «marxismo occidentale» è diventata di uso comune dopo che Perry Anderson, autorevole storico marxista inglese, direttore della «New Left Rewiew», pubblicò nel 1976 un denso volumetto, Considerations on Western Marxism, tradotto pochi mesi dopo in italiano
P. Anderson, Considerations on Western Marxism, Verso Book, London, 1976; Idem, Il dibattito nel Marxismo occidentale, Bari, Laterza, 1977..
Il saggio di Anderson è centrato su questioni filosofiche di grande rilievo. Egli studia e presenta una elaborazione di marxismo teorico che, a partire dagli anni Venti del XX secolo, si pone al livello della più alta produzione filosofica del pensiero novecentesco europeo.
Non è questa la sede per entrare nelle logiche argomentative di un saggio che, comunque, continua a conservare aspetti degni di attenta considerazione. In questa sede siamo interessati piuttosto a comprendere come le motivazioni addotte della netta contrapposizione tra «marxismo occidentale» e «marxismo orientale» ci aiutino a comprendere i meccanismi di sviluppo ed insieme di emancipazione di parte del mondo postcoloniale, la Cina in primis.
L’impostazione filosofica ed eurocentrica del «marxismo occidentale», secondo Losurdo, porta alla sottovalutazione dell’intreccio tra questione nazionale e questione sociale in paesi dove invece la «questione sociale» può presentarsi come «questione nazionale» e la lotta di classe configurarsi, almeno in una prima fase, come lotta nazionale
D. Losurdo, La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza, Bari-Roma, 2013, p. 155..
È nelle lotte di liberazione dei popoli sottoposti alle diverse forme di colonizzazione che il percorso verso l’emancipazione nazionale si può coniugare con estrema facilità a quello dell’emancipazione sociale. Gli esiti di queste lotte possono essere diversi, ma i paesi «liberati» che intendono mantenere strette le sfere della liberazione e dell’emancipazione sociale, devono necessariamente fare conti con la indispensabile costruzione delle «basi materiali» senza le quali qualsiasi progetto «socialista» si esaurisce in astratta evocazione. I criteri di giudizio sullo svolgimento, del suddetto processo, peraltro ancora in corso, non possono essere misurati sul modello di sviluppo tipico della lunga accumulazione del capitale in Occidente e sui modi di una sua transizione verso una forma, del tutto ipotetica, di post-capitalismo, magari con tratti di «socialismo».
d) Nel contesto del «marxismo occidentale», dove, peraltro, sulla questione non esiste una posizione univoca, emergono comunque lineamenti interpretativi secondo i quali «le rivoluzioni d’Oriente sono sostanzialmente altra cosa da quella emancipazione che Marx aveva in mente»
S. Petrucciani, La rivoluzione venuta da Oriente, «il manifesto», 5 maggio 2017.. Su questo punto credo sia opportuna una riflessione.
Penso che ormai sia un dato acquisito il fatto che né Il Capitale, né altri scritti teorici di Marx, contengano una qualsivoglia «teoria del socialismo». L’opus magnum di Marx è una summa teorica della logica del capitale e della critica dell’economia politica. Non può dirci molto su nessuna transizione al socialismo.
Altra cosa, invece, è sostenere che dal complesso degli scritti marxiani si possa ricavare che il modello dello sviluppo occidentale, e quindi il processo rivoluzionario connesso, sia l’unico possibile nel capitalismo-mondo. Tutte le riflessioni di Marx sulla «questione russa», che sono numerosissimi e iniziano già nel 1859, sono parte di un sistema storico-teorico in continua costruzione. Ciò significa, che, visti gli orizzonti più vasti dei suoi riferimenti teorici e della sua ricerca storica e del complesso delle sue indagini empiriche, la stessa «questione russa», seppure importantissima, è comunque una parte di una più generale riflessione in corso.
Anche se quello di Marx è solo l’inizio di un processo analitico, il suo orizzonte non può rimanere all’interno delle logiche di funzionamento di un singolo processo di sviluppo considerato isolatamente. Le comparazioni, le transizioni non sarebbero possibili da analizzare senza la «storia nel suo complesso». È «la “storia nel suo complesso” al centro del discorso marxiano. Una “totalità” che non si può leggere attraverso la generalizzazione dell’astratto modello teorico». Questa “totalità”, infatti «si caratterizza per discontinuità, disomogeneità, asincronia. Per pluralità di ritmi e temporalità evolutive. Per la molteplicità di sequenze dinamiche tra loro non commensurabili»
A. Burgio, Sulla storicità del capitalismo. Marx tra Althusser e Hobsbawm, «Dianoia», 2018, pp. 19-35. La cit. p. 27 ». La comprensione di questa «totalità» passa attraverso la ricerca storica empirica, proprio quella disprezzata dai teorici marxisti puri. La costruzione teorica di Marx emerge sempre da una prolungata immersione nella materialità della ricerca empirica. Emerge da uno studio che analizza la dinamica dell’accumulazione ormai insopprimibile nel capitalismo-mondo alla luce dei suoi effetti tanto sulle società «sviluppate» che su quelle «arretrate» come India, Cina, Russia.
Lo studio della «logica specifica dell’oggetto specifico» non poteva non comportare mutamenti su giudizi prima desunti sulla base del modello astratto. Ad esempio, in una prima fase Marx aveva considerato il colonialismo inglese in India, pur negli orrori tipici di tutte le forme dell’«accumulazione originaria», come momento necessario per trascinare quel paese, urlante e scalciante, nell’area della modernità del capitale. Poi, affrontando progressivamente la realtà della colonizzazione in India, si rende conto che con «le ossa dei tessitori che imbiancano le pianure indiane»
K. Marx, Il capitale, Libro I, cit., p. 471., una distruzione non è di per sé progressiva, «un mondo antico è stato distrutto, [ma] un mondo nuovo non è stato conquistato»
I. Consolati, Marx e gli “accidenti” della storia universale. L’India, lo Stato e il mercato mondiale, in «Scienza & politica˚, 61, 2019, pp. 153-170. La cit. p. 156..
E in Russia si sarebbe potuto conquistare un mondo nuovo senza perdere aspetti fondamentali del proprio mondo rurale? La rivoluzionaria russa Vera Zasulic, a proposito della comune rurale russa (obscina), si rivolse a Marx perché dirimesse la «questione di vita o di morte» che gravava sulle scelte che dovevano fare i socialisti. Questi i termini della discussione: la «comune rurale (…) e[ra] in grado di svilupparsi nella via socialista» oppure i rivoluzionari avrebbero dovuto aspettare il tempo lunghissimo necessario all’estendersi «in Russia di uno sviluppo simile a quello dell’Europa occidentale? Questa è la posizione dei marxisti russi»
V. Zasulic a K. Marx, Lausanne, 16 febbraio 1881, in Il capitale, Libro I, Appendice, Torino, Utet, 2013, p. 1037..
Domande chiare e dirette quelle della Zasulic. Altrettanto chiara e diretta la risposta di Marx che non vuol lasciare dubbi «sul malinteso riguardo alla [sua] cosiddetta teoria, che non contempla davvero una universale «fatalità storica» e dunque sul fatto che «l’analisi data dal Capitale non offre […] ragioni né pro, né contro la vitalità della comune rurale»
Marx a V. Zasulic, Londra 8 marzo 1881, ivi, p. 1065..
Una risposta che non lascia spazio a fraintendimenti, ma certo molto, molto concisa. In verità dietro la stringatezza della risposta c’è un lungo periodo di riflessione e di studio che tra la fine degli anni Settanta e i primissimi Ottanta raggiunge alcuni punti relativamente consolidati. Il primo espresso in una lettera del 1877 alla rivista letteraria russa «Otecestvennye Zapiski», in quel periodo sostenitrice del populismo. La lettera, mai spedita e resa nota solo nel 1886, si muoveva sul piano epistemologico/metodologico, insomma era un’esemplificazione di «materialismo storico». Al centro dell’argomentazione il netto rifiuto di chi, «marxista» o «populista» che fosse, intendeva lo «schizzo storico sulla genesi del capitalismo nell’Europa occidentale» delineato nel XXIV capitolo de Il capitale, come «una teoria storico-filosofica del percorso universale fatalmente imposto a tutti i popoli, indipendentemente dalle circostanze storiche in cui si trovano posti»
Marx alla redazione della Otecestvennye Zapiski, novembre 1877, Marx-Engels, Lettere 1874-1879, Milano, Edizioni di Lotta Comunista, 2006, p. 235..
Solo lo studio attento dell’«ambiente storico» permette di comprendere la possibilità o meno della conservazione di strutture economiche, sociali, culturali che astrattamente vengono considerate «anacronistiche».
«Non ci si deve far troppo intimorire dalla parola arcaico» avverte Marx, per due motivi. In primo luogo «la formazione arcaica» che sopravvive fino in epoca moderna «contiene una serie di strati di epoche diverse» che così ci vengono rivelati, e che dimostrano quanto sia problematica un’evoluzione lineare delle varie formazioni nel tempo. In secondo luogo l’arcaicità della obscina è totalmente inserita «nella contemporaneità (il corsivo è nel testo) della produzione occidentale» e ciò può permettere alla comune rurale di «incorporare (…) tutte le conquiste positive elaborate dal sistema capitalistico»
Abbozzi di risposta alla lettera di V. I. Zasulic, in Appendice al I libro I de Il capitale, cit., pp 1040 e 1048. senza passare necessariamente da altre fasi.
L’obscina «si trova collocata in un ambiente storico in cui la contemporaneità della produzione capitalista le presta tutte le condizioni del lavoro collettivo». Un «ambiente storico» che prova come la questione dello «sviluppo» dell’osbcina non sia «più un problema teorico»
Ivi, p. 1051.. Non c’è nessuna ragione teorica «né pro, né contro la vitalità della “comune rurale”», sosteneva Marx, ma vi sono solo contesti storico-politici da analizzare specificamente, e sui quali intervenire politicamente.
Esattamente come oggi si pone la questione del socialismo e/o del marxismo «con caratteristiche cinesi».
2 L’età del marxismo fuori del marxismo
a) Credo che nello scorrere le pagine di questo libro un qualified reader cinese, a meno che non si tratti di un cultore di studi italiani, si troverà di fronte ad un insieme di lineamenti di storia del marxismo assai diversi rispetto a quelli che hanno caratterizzato quella stessa storia nel suo paese.
Tutto ciò, però, non ha niente a che vedere con la tensione, di cui si è detto, tra «marxismo occidentale» e «marxismo orientale». È solo con la «Grande guerra» che si pongono i primi elementi di quella tensione. «A Ovest – scrive Losurdo – il comunismo e il marxismo sono la verità e l’arma finalmente trovata per far terminare la guerra e divellerne le radici, a Est il comunismo e il marxismo-leninismo sono la verità e l’arma ideologica capaci di porre fine alla stagione di oppressione e di ‘disprezzo’ imposto dal colonialismo e dall’imperialismo»
D. Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può risorgere, Laterza, Bari-Roma, 2017, p. 12.. In Oriente non è tanto la «Grande guerra» l’evento periodizzanze fondamentale che apre il Novecento e le nuove dinamiche della lotta per l’emancipazione dei subalterni, bensì la Rivoluzione d’ottobre, con le successive ondate di rivoluzioni anticoloniali innescate negli spazi entra-europei da tale rivolgimento epocale. Da qui la necessità di un «marxismo» adeguato ai nuovi orizzonti aperti. L’esperienza cinese è, al proposito, del tutto esemplare.
Nel libro Storia del marxismo italiano. Dalle origini alla grande guerra, invece, il contesto studiato appartiene ad un’epoca del tutto differente, che ha bisogno, quindi, di un’ottica assai diversa sulla vicenda storica del marxismo.
«Conviene che l’Italia tenti due rivoluzioni ad un tratto, l’una politica, l’altra sociale»
G. Ferrari, La Federazione repubblicana, Capolago, Helvetica, p. 178.; questa affermazione di Giuseppe Ferrari del 1851, sembrerebbe richiamare la questione, alla quale si è fatto già riferimento in altra parte di questo testo, delle rivoluzioni nazionali come rivoluzioni sociali nei paesi sottoposti alle varie forme di colonialismo. Si tratta, però, di un’analogia solo di superficie. La costruzione di grandi stati-nazione (Germania, Italia…) nell’Europa dell’Ottocento è fenomeno che non rientra per niente in quel modello interpretativo. Tali processi s’iscrivono nella dinamica del confronto-scontro tra l’assolutismo residuo dell’ancien régime, il costituzionalismo liberale chiuso verso una sua estensione democratica, e la democrazia. Un confronto a tre, insomma, in cui le due ultime componenti sono unite contro la prima, ma che, contemporaneamente, sono separate da forte conflittualità. E nello stesso campo dei democratici, dopo le rivoluzioni del 1848, dopo la conclusione dell’«anno dei portenti», si acutizzavano tensioni tra quei democratici che ormai introducevano sempre più spesso nel loro lessico la parola «socialismo» e coloro, come Mazzini, l’«apostolo» del Risorgimento italiano, che i «socialisti» accusavano di «formalismo».
Il più importante storico del rapporto democrazia-socialismo nel Risorgimento, Franco Della Peruta, in studi molteplici condotti sulla base di un’imponente documentazione analizzata con accuratissima acribia filologica, ha trattato il tema in questi termini:
Uno dei problemi di fondo che la rivoluzione del ’48 lasciava in retaggio alla democrazia italiana era questo: legare in modo permanente le masse popolari alla rivoluzione, interpretarne le aspirazioni, e tradurle in programma politico. (…) Questo il problema che l’embrionale socialismo italiano, da Ferrari a Pisacane, da Montanelli ai proudhoniani, metterà al centro dei suoi interessi; questo il problema che invece Mazzini aveva eluso e si ostinava ad eludere
F. Della Peruta, I democratici e la rivoluzione italiana. Feltrinelli, Milano, 1958, p. 14..
Per Mazzini «la questione sociale veniva ricondotta in definitiva ad una questione di educazione, di miglioramento morale di ambedue le classi che la viziosa costituzione della società rendeva antagonistiche»
F. Della Peruta, Democrazia e sociasmo nel Risorgimento, Editori Riuniti, Roma, 1965, p. 27.
La costellazione dei democratici italiani, in cui i democratici-socialisti acquistano progressivamente sempre maggiore importanza, è, dunque, un anello fondamentale di comunicazione tra i diversi livelli in cui si articolavano le culture socialiste. Un insieme politico-culturale nell’ambito del quale maturano sia lineamenti teorici che organizzativi di quello che nel libro ho chiamato «marxismo fuori del marxismo». Sui motivi e sui modi di utilizzazione di tale categoria analitica tornerò tra breve.
b) In questa Storia del marxismo italiano in che modo viene a definirsi l’oggetto della ricerca?
Studio problemi strettamente legati alla storia del marxismo ormai da moltissimo tempo, tuttavia avrei seri problemi a rispondere alla domanda: «Che cosa è il marxismo?». Non si tratta di una civetteria, ma della consapevolezza rafforzata da questi lunghi anni di scavo sulla dimensione storica di tale costruzione culturale e politica, che quello che abbiamo di fronte è non tanto e non solo un insieme plurale, i «marxismi» (la qual cosa è da tempo un’ovvietà), ma un contesto spaziale e temporale strutturato su “storicamente determinati”. Tali marxismi storicamente determinati, compresi i «marxismi fuori dal marxismo», hanno rapporti spesso assai problematici con il «marxismo secondo testi». Qualche volta ne sono la negazione, eppure restano «marxisti» nella storia. Il problema è, piuttosto, quello della comprensione delle ragioni dell’assunzione di una identità che si esprime con l’uso della stessa denominazione per realtà spesso diversissime e divaricanti.
Per orientarmi meglio in quel vero e proprio universo che la parola «marxismo» suggerisce, ho usato spesso l’espressione «forme di marxismo». Ebbene credo che la storia del marxismo non possa essere altro che quella del sistema di relazioni tra le sue forme, che si presentano, a loro volta, come incroci, risultanti di percorsi molteplici, «enchevêtrements de références dont le sens est pluriel»
«W, Gianinazzi, «Mil neuf cent,» N°15, 1997. pp. 221-223. La cit. p- 221.
, come l’ha definiti un recensore francese di questo libro. Un tipo di molteplicità, dunque, che è cosa altra rispetto a quella storia dei marxismi praticata da tempo e che ha dato risultati conoscitivi importanti. Quest’ultima però, è una molteplicità che attiene quasi esclusivamente al marxismo teorico, cioè ad una forma di marxismo.
D’altra parte anche il «marxismo teorico» si presenta quasi sempre come materia spezzettata, disposta su diversi livelli, con andamento intermittente. Solo cercando non le pepite ma il filone dalle lunghe continuità sarà possibile dare un senso alle articolazioni interne del «marxismo teorico» come oggetto di studio. Tra le molte «forme» marxismo quella di «marxismo teorico» parrebbe avere una solida struttura di riferimento, e quindi caratteristiche di denotazione attraverso parametri certi. Dal punto di vista dell’analisi storica, invece, i parametri di definizione dell’oggetto di studio in questione non si delineano con nettezza. I loro confini sono sfumati sia in profondità che in ampiezza. Ci troviamo di fronte, infatti, a livelli diversi di «marxismo teorico». Diversi per capacità euristica, diversi per la scelta del punto ritenuto essenziale allo svolgimento della teoria, diversi infine per gli effetti su processi culturali di lunga durata.
Una storia condotta mediante l’analisi delle «forme di marxismo» potrebbe suggerire elementi d’analogia con una metodologia tipicamente marxiana. Il termine «forma/e», infatti, è usato con frequenza sistematica da Marx a partire dai Grundrisse e poi in particolare nel I libro del Capitale, ed è un concetto decisivo di spiegazione, il punto nodale di un vero e proprio linguaggio teorico.
È del tutto evidente che il linguaggio esplicativo attraverso cui viene data ragione delle metamorfosi del «valore» attraverso il moltiplicarsi delle forme fenomeniche, non può essere applicato al sistema di relazioni che intercorre tra le varie forme di marxismo storico. Nondimeno suggerisce meccanismi di analisi del rapporto tra «concreto» ed «astratto» che non possono rimanere estranei ad una storia in cui il riferimento «astratto» (la teoria) viene sempre evocato come spiegazione dei fenomeni «concreti» (strutture, mentalità, comportamenti).
Nella realtà vischiosa dei processi storici la comprensione delle «forme di marxismo» non può certo godere della compattezza analitica mediante la quale si spiegano i mutamenti delle «forme di valore». Anzi spesso è necessario utilizzare categorie analitiche diverse a seconda dei contesti in cui si collocano le diverse forme. Alcune categorie, poi, possono essere utilizzate per la comprensione di «forme» di lungo periodo, altre invece possono essere utilizzate solo tramite periodizzazioni specifiche. Nel primo caso vedremo come la forma di marxismo in questione deve essere analizzata con una pluralità di categorie, alcune delle quali trascendono il periodo in cui tale forma si manifesta nella maniera più evidente. Nel secondo caso, invece, vedremo come la categoria utilizzata (una sola) sia in grado di dare conto esclusivamente di una forma legata ad una periodizzazione specifica e limitata.
c) Nella prima parte di questo libro incontreremo più volte l’espressione «marxismo fuori del marxismo». Tale categoria è stata pensata ed utilizzata soltanto per spiegare un processo di formazione di culture precedente rispetto al momento in cui il marxismo assume aspetti strutturati.
La nostra esperienza novecentesca ha incontrato il «marxismo» soprattutto nella forma della scuola e del sistema di dottrine, del movimento politico, od addirittura dell’insieme di istituzioni statali. Un marxismo, quindi, assai strutturato. Il fatto che sia stato anche un marxismo plurale (una pluralità di marxismi) non è contraddittorio con il carattere «organizzato» di tanta parte della sua storia.
Una vicenda nella quale la dimensione strutturata ha avuto così tanto peso non poteva non influenzare notevolmente la letteratura storica sul marxismo. Così, in genere, il punto d’inizio di tale storia è stato fissato nell’opera marx-engelsiana per quanto concerne le coordinate teoriche, e nella prima formazione dei «partiti marxisti» per quanto concerne le coordinate del movimento politico.
Eppure i percorsi del marxismo, quando il marxismo come tale non c’era, appartengono completamente a quella storia. Indicano possibilità di un rapporto tra elaborazione teorica e movimento reale al di fuori di organizzazioni politiche a ciò deputate proprio perché ritenute in possesso della «giusta» teoria.
Già alla fine dell’Ottocento quello che siamo soliti chiamare marxismo aveva ormai una sua presenza piuttosto corposa e già relativamente strutturata nella realtà culturale italiana. Inoltre, e non è aspetto di poco conto, negli anni Novanta, si era formato un partito che aveva dichiaratamente assunto il «marxismo» come elemento fondante della propria identità. Anche allora l’«oggetto» marxismo aveva, in realtà, una multiforme identificabilità, era un insieme di «cose» assai diverse, ma è difficile negare il suo carattere complessivamente organizzato.
Diverso il discorso nel periodo precedente. Al di fuori di qualsiasi «partito marxista» venivano sviluppandosi in Italia, e non solo, le logiche «marxiste» delle unioni operaie in relazione ai compiti della resistenza e in rapporto al ruolo politico possibile da esercitare in quanto «classe» organizzata. Logiche «marxiste» significa soltanto coincidenti, consapevolmente o meno, assai spesso proprio non consapevolmente, con le indicazioni di Marx concernenti il movimento operaio maturate principalmente nell’esperienza della I Internazionale, sebbene fossero state elaborate a partire dall’esperienza inglese degli anni Cinquanta.
Durante la vicenda della I Internazionale, per lo meno finché il durissimo scontro con il bakuninismo non portò al centro della discussione la distinzione delle scelte dottrinarie e la tendenza a definirle nominalisticamente in termini negativi, il «marxismo» come «dottrina», come «partito», come «setta» non risulta particolarmente rilevabile. Sviluppare questo tipo di marxismo era ipotesi del tutto estranea agli intendimenti di Marx e del tutto irrealistica rispetto alle tendenze in atto nel movimento operaio europeo.
Nelle Istruzioni per i delegati del consiglio generale provvisorio al congresso di Ginevra del 1866 Marx diceva chiaramente che il compito dell’Associazione Internazionale era «di generalizzare e di dare uniformità ai movimenti spontanei delle classi operaie, ma non di dirigerle o di imporre loro un qualunque sistema dottrinario». D’altra parte si sarebbe trattato di una impossibile «imposizione».
Il rapporto tra il Marx membro influentissimo del Consiglio generale e le più importanti organizzazioni operaie d’Europa, in particolare con le Trade Unions, rapporto non facile, non unidimensionale, si configura come un aspetto essenziale della non lineare affermazione di un impianto marxiano sulla questione del ruolo dell’organizzazione operaia pur nell’assoluta mancanza di qualsiasi corrente dell’Internazionale che potesse essere definita «marxista».
Ed anche là dove ci fu una «battaglia per il marxismo», come in Francia ed in Germania, la componente «fuori» doveva dimostrarsi essenziale.
I membri delle chambres syndicales, ad esempio, erano anche membri di sezioni dell’Internazionale e spesso anche le sedi ed i luoghi di riunione erano gli stessi. Il loro quadro di riferimento socialistico era assai definito, non certo in senso «marxista» (fino a dopo la Comune lo stesso nome di Marx era pressoché ignoto nell’ambiente operaio francese), ma sicuramente in senso proudhoniano. Sostenevano le loro posizioni con argomentazioni proudhoniane, mantenendo così il quadro di riferimento ideologico della loro tradizione. Per quanto concerneva però la linea generale dell’Internazionale sul ruolo e funzione della organizzazione operaia, della coniugazione tra resistenza ed iniziativa politica, si schierarono sempre con completa convinzione dalla parte del Consiglio generale. L’opzione ideologica doveva restare un elemento «esterno» alla logica «interna» dell’Associazione Internazionale degli operai.
Ed in Germania, come riconosceva lo stesso Marx, non era forse il «lassalliano» Schweitzer ad essere più «interno» alle logiche dell’Internazionale rispetto al «marxista» Liebknecht?
Ancor più in Italia, negli anni Settanta ed Ottanta dell’Ottocento, si formò un amalgama culturale strutturalmente inidoneo ad essere scisso in una coscienza interna ed in una coscienza esterna, coordinate magari in scale di priorità ideologica. E proprio nell’Italia di quegli anni la struttura portante di ciò che sarebbe diventato «marxismo» passò principalmente attraverso l’esperienza del Partito operaio italiano e l’elaborazione del «non marxista» Gnocchi Viani. Un «marxismo fuori del marxismo», appunto.
La categoria nasce, dunque, per essere utilizzata in un contesto specifico e limitato. Tuttavia il complesso analitico in cui si trova inserita e che la giustifica è il medesimo che definisce (non definisce) l’oggetto marxismo così come viene delineandosi nel volume: cioè un insieme di forme storicamente determinate.
Non so se il qualified reader cinese troverà in questo processo una qualche analogia con alcune «forme» della storia del marxismo nel suo paese. Il «cultural bridge between the east and the west» si costruisce, però, non solo sulla base delle analogie, ma anche sul riconoscimento delle differenze.