CENTRO DI STUDI SUL CLASSICISMO
MODERNI e ANTICHI
Quaderni del Centro di Studi sul Classicismo
diretti da Roberto Cardini
II serie, V (2023)
Pubblicazioni del
CENTRO DI STUDI SUL CLASSICISMO
Prato
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ISBN 978-88-596-2377-9
INDICE
TEMA 1 Leon Battista Alberti
ROBERTO CARDINI, La palla e l’incudine
(L.B. Alberti, Apologi centum, I)
ROBERTO CARDINI, Nota alle Intercenales dell’Alberti
(Virtus 12-13)
p.
7
33
TEMA 2 Varianti redazionali e varianti editoriali
nelle stampe quattro-cinquecentesche di autori umanistici
MARIANGELA REGOLIOSI, Varianti redazionali
nelle stampe quattro-cinquecentesche delle opere di Lorenzo Valla?
GIULIA LEIDI, Varianti umanistiche:
gli Eroticon libri di Tito Strozzi tra manoscritti e stampa
51
63
TEMA 3 Agrippa d’Aubigné
JEAN-LOUIS CHARLET, Une forme particulière de réception
des classiques à la Renaissance, le centon: Lucain et Agrippa d’Aubigné,
ou faire parler l'antique au présent
BÉATRICE CHARLET-MESDJIAN, L’hybridation linguistique
des Jambonikes d’Agrippa d’Aubigné
91
117
ALTRI SAGGI
ROBERTO CARDINI, Il commento del Landino al “Canzoniere”
del Petrarca. L’atto di compravendita (23 luglio 1500)
in previsione della stampa
141
ANNA MARIA CABRINI, Fra Livio e Plutarco.
Donato Acciaiuoli e le Vite parallele di Annibale e di Scipione - I
FRANCESCO TATEO, Sul classicismo di Giovanni Pontano:
modelli, progetti e scelte editoriali
197
ABSTRACT
221
INDICI
Indice dei manoscritti, dei documenti d’archivio e delle stampe antiche
Indice dei nomi
233
235
155
ROBERTO CARDINI
NOTA ALLE INTERCENALES DELL’ALBERTI
(VIRTUS 12-13)
Viden quam sim nuda et feda? Hoc ita ut sim, effecit Fortune dee impietas atque iniuria.
(7) Aderam sane ornata apud Elisios campos inter veteres meos amicos media Platonem,
Socratem, Demosthenem, Ciceronem, Archimedem, Policlitem, Praxitelem et huiusmodi
doctos, qui me, dum vitam agebant, piissime atque religiosissime coluere. (8) Interea
loci, dum iam non pauci ad nos salutatum advolassent, e vestigio Fortuna dea insolens,
audax, temulenta, procax, maxima armatorum turba consepta atque stipata, properans
ad nos iactabunda: «Eu, inquit, plebea, tune maioribus diis adventantibus non ultro
cedis?». (9) Doluit iniuriam nobis immeritis eo pacto fieri, ac nonnihil ira concita inquam:
«Neque tu, maxima dea, his verbis me plebeam efficies, neque, si maioribus cedendum
est, tibi turpiter cedendum censeo». (10) Illa vero illico in convitium sese effert advorsum.
Pretereo hic quas contumelias in me primum, dum hec inter nos geruntur, effuderit. (11)
Idcirco Plato philosophus contra nonnulla de deorum officio cepit disputare. At illa excandescens: «Apage te hinc, verbose, inquit, non enim decet hic servos deorum causam
suscipere». (12) Ceperat et Cicero orator plura velle suadere. At ex turba armatorum
erupit Marcus Antonius prepotens, latera illa sua digladiatoria ostentans, gravissimumque
pugnum in os Ciceronis infregit. (13) Hinc ceteri amici mei perculsi metu, fuga sibi
propere consuluere. Neque enim Polycletus peniculo, aut Phidias scalpro, aut Archimedes
horoscopo, aut reliqui inermes adversus audacissimos armatos, eosdemque predis atque
homicidiis suetos, belle ad sese tuendos valebant. (14) Ergo me infelicissimam, ab ipsis
diis omnibus qui aderant atque ab hominibus desertam, pugnis et calcibus totam contrivere
vestesque meas diripuere, in lutum prostratam reliquere; demum abiere ovantes.1
In questo resoconto che Virtus fa a Mercurio dell’aggressione subita
nei Campi Elisi da parte di Fortuna e dei suoi seguaci mi pare ci siano
dei punti non ancora adeguatamente illustrati.
1
L.B. ALBERTI, Intercenales, introduzione, edizione critica e commento a cura di R. CARDINI, in
ID., Opere latine, a cura di R. CARDINI, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2010, pp.
167-617 (= ALBERTI, Intercenales): 231-32; ID., Propos de table / Intercenales, Édition critique par R.
CARDINI, Traduction de C. LAURENS, Introduction et commentaire de R. CARDINI, traduits par F.
LA BRASCA, 2 voll., Paris, Les Belles Lettres, 2018 (= ALBERTI, Propos de table), I, pp. 17-19.
33
ROBERTO CARDINI
Nella pericope latera illa sua digladiatoria ostentans (12) l’aggettivo digladiatorius non risulta dai lessici ed è presumibile che sia una neoformazione
momentanea che va ad aggiungersi al gran numero di neologismi da me segnalati nell’edizione critica e commentata delle Intercenales e che sono stati
ottenuti allo stesso modo: applicando inediti prefissi a vocaboli classici.
Questo è però un bell’esempio di arte allusiva. È nato per nascondere un
calco e al tempo stesso per stimolarne l’agnizione. E difatti digladiatoria latera direttamente discende dalle Philippicae, un’opera che a questo contesto
si attaglia alla perfezione: «At ego, tamquam mihi cum M. Crasso contentio
esset, quorum multae et magnae fuerunt, non cum uno gladiatore nequissimo, de re publica graviter quaerens de homine nihil dixi» (Cic. Phil. II 7);2
«tu istis faucibus, istis lateribus, ista gladiatoria totius corporis firmitate tantum vini in Hippiae nuptiis exhauseras ut tibi necesse esset in populi Romani conspectu vomere postridie» (ibid. II 63).3 Dunque il gravissimum pugnum che chiude la bocca a Cicerone mentre sta per perorare la causa di
Virtus è una sorta di giunta alla derrata. È la prosecuzione, nei Campi Elisi,
dell’odio cieco e implacabile nutrito da quel generale nei confronti dell’oratore: sulla terra gli fece tagliare la testa e mozzare la lingua, nell’aldilà gli
chiude la bocca con un cazzotto che pare una tranvata. Né sfugga che per
l’Alberti Cicerone così in vita come dopo morto è un campione e difensore
della Virtù, laddove Marco Antonio è presentato come lo raffigurava Cicerone: ha e ostenta la stazza e la violenza di un gladiatore.
***
Sempre al § 12, la pericope che subito segue, gravissimumque pugnum
in os Ciceronis infregit («appioppò [i.e. Marco Antonio] un gran cazzotto
2
«Eppure, se deplorai con energia la sua politica, non una sola parola pronunziai contro la
sua persona, trattandolo non da quel volgarissimo bandito che è, ma come se avessi di fronte, a
contesa, un Marco Crasso, col quale le mie polemiche furono né poche né piccole» (M.T. CICERONE, Le Filippiche, a cura di B. MUSCA, 2 voll., Milano, Mondadori, 1963 [= CICERONE, Filippiche], I, p. 134).
3
«Con una gola ampia come la tua, un petto così vasto, una corporatura così soda da sembrare quella di un gladiatore, tu, alle nozze di Ippia, avevi tracannato tanto di quel vino, che il giorno
dopo sei stato costretto a vomitare in pubblico, mentre parlavi al popolo romano» (CICERONE, Filippiche, I, p. 188).
34
NOTA ALLE INTERCENALES
in faccia a Cicerone»)4 secondo Alberto Martelli discenderebbe da Plaut.
Rud. 710 «pugnum in os impinge» («mollagli un pugno sul muso!»).5 Secondo me è invece una rielaborazione di Ter. Ad. 200 «homini misero plus
quingentos colaphos infregit mihi» («Mi ha appioppato, sventurato che
sono, più di cinquecento schiaffi! […]»)6. Per le seguenti ragioni. La prima
è che la supposta derivazione dal luogo plautino esclusivamente si basa sull’identità formale di pugnum in os ma trascura del tutto il verbo, ossia, ce
lo ha insegnato Machiavelli, «la catena et il nervo della lingua».7 E il verbo
di Virtus coincide col verbo di Terenzio e non con quello di Plauto. La seconda è che in Servus 123 c’è l’ancor più evidente imitazione di Ter. Ad.
200: «Quem [Birriam] cum herus, cuius mandata neglexerat, garrientem
repperisset, plus viginti in eum infregit pugnos» («Birria non si era dato pensiero degli ordini del padrone. Quando il padrone lo trovò a chiacchierare
gli appioppò più di venti cazzotti»)8. Dunque quel luogo degli Adelphoe
era ben fitto nella memoria dell’Alberti, e in particolare il verbo e la sua
forma (appunto infregit). La terza è che in entrambe le imitazioni, questa
di Virtus e l’altra di Servus, il furtum è celato con uno degli accorgimenti
che l’Alberti aveva appreso alla scuola del Barzizza, la «commutatio» di un
vocabolo del modello con un vocabolo vicino9. Da qui pugnum / pugnos
(cazzotto / cazzotti) che soppianta colaphos (ceffoni). La quarta è che il contesto terenziano è meno remoto da Virtus (e da Servus) di quello plautino.
Nelle due intercenali il passo in questione fa parte del racconto di una diQui e in seguito, quando non sia diversamente avvertito, le traduzioni sono di chi scrive.
A. MARTELLI, «Appresso i comici poeti». Spigolature plautine e terenziane in Leon Battista Alberti (Edizione nazionale delle opere di Leon Battista Alberti, Strumenti, 6), Firenze, Edizioni Polistampa, 2011 (= MARTELLI, Spigolature), p. 139 e n. 76.
6
P. TERENZIO AFRO, Tutte le commedie, traduzione di M. SCÀNDOLA, Milano, Rizzoli, 1951
(= TERENZIO), p. 325.
7
«dicono che chi considera bene le 8 parti dell’oratione nelle quali ogni parlare si divide, troverrà che quella che si chiama verbo è la catena et il nervo della lingua; et ogni volta che in questa
parte non si varia, ancora che nelle altre si variasse assai, conviene che le lingue habbino una comune intelligenza; perché quelli nomi che ci sono incogniti ce li fa intendere il verbo, quale infra
loro è collocato. Et così, per contrario, dove li verbi sono [di]ferenti, ancora che vi fussi similitudine ne’ nomi, diventa quella [lingua un’altra] lingua» (O. CASTELLANI POLLIDORI, Niccolò Machiavelli e il «Dialogo intorno alla nostra lingua». Con una edizione critica del testo, Firenze, Olschki,
1978, pp. 227-28).
8
ALBERTI, Intercenales, p. 370; ALBERTI, Propos de table, I, p. 187.
9
G.W. PIGMAN, Barzizza’s Treatise on Imitation, «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», 44 (1982), pp. 341-52: 351, rr. 96-111.
4
5
35
ROBERTO CARDINI
savventura toccata a un terzo (Cicerone / il servo Birria): il terenziano «homini misero plus quingentos colaphos infregit mihi» è sempre il racconto
di una disavventura e sia pure capitata a chi la narra, laddove il plautino
pugnum in os impinge è un ordine dato dal vecchio Daemones ad un aguzzino perché così punisca il lenone Labrax che ha preteso di «violare le leggi
che ci uniscono agli dèi». Certo in os in Terenzio non c’è. Ma non per questo si deve pensare a Plauto. “Colpire la faccia (o la bocca) di qualcuno con
un pugno, un ceffone, un’arma, un qualunque corpo contundente” è ben
attestato: Caes. Civ. III 99, 2 «Interfectus est etiam fortissime pugnans
Crastinus, cuius mentionem supra fecimus, gladio in os adversum coniecto»;10 Curt. VII 4, 37 «Sed ille extractam e vulnere hastam rursus in os dirigit»;11 Prud. Perist. X 548-549 «Vertat ictum carnifex / in os loquentis».12
Cosicché l’Alberti può averlo preso dovunque. A queste quattro ragioni,
che a mio parere sono più che sufficienti per respingere la derivazione da
Plauto, se ne può aggiungere un’altra che taglia la testa al toro: Virtus è del
1431-32,13 il Rudens è una delle dodici commedie scoperte dal Cusano nel
1426, ma che all’Alberti rimasero sicuramente sconosciute fino al 1438.14
***
Subito dopo, al § 13, il sintagma Polycletus peniculo, in sé e in relazione al contesto, si presta a diverse considerazioni. Il contesto informa che
tre seguaci di Virtus (Polycletus, Phidia, Archimedes), per difendersi dal10
«Restò ucciso anche Crastino, del quale abbiamo fatto parola di sopra [III 91, 1], mentre
combatteva con grande valore, colpito da un colpo di spada in pieno viso» (C.G. CESARE, La guerra civile, a cura di M. BRUNO, con un saggio di G. FERRARA, Milano, Rizzoli, 1984, p. 363).
11
«Allora Erigio, estratta l’asta dalla ferita, la diresse di nuovo contro il viso di Satibarzane»
(CURZIO RUFO, Storia di Alessandro Magno, testo latino, introduzione, versione e note di G. BARALDI, 2 voll., Bologna, Zanichelli, 1986, II, p. 39).
12
«Il carnefice diriga il colpo sulla bocca di chi parla».
13
ALBERTI, Intercenales, pp. 200, 605-606, 608-609 (Propos de table, I, XC; II, 489-92, 497).
14
La sicurezza (se il termine è consentito negli studi storico-filologici) è data dallo spoglio
completo di tutti i testi dell’Alberti compresi tra il 1428 e il 1441 e dalla minuziosa discussione di
tutti i passi in cui a ragione o a torto si è supposto o si può supporre la presenza del nuovo Plauto.
Per questo l’ipotesi della contaminatio tra TER. Ad. 200 e PLAUT. Rud. 710 è improponibile. A meno, beninteso, di non confutare quanto è stato accertato in R. CARDINI, Quando e dove l’Alberti
conobbe il nuovo Plauto? (E qual è la cronologia del “De commodis” e dell’“Ecatonfilea”?), in Itinerari
del testo per Stefano Pittaluga, a cura di C. COCCO – C. FOSSATI – A. GRISAFI – F. MOSETTI CASARETTO – G. BOIANI, 2 voll., Genova, D.AR.FI.CL.ET, 2018, I, pp. 141-94.
36
NOTA ALLE INTERCENALES
l’assalto degli squadristi di Fortuna, impugnano, del rispettivo mestiere,
lo strumento-simbolo. Lo scultore Fidia impugna infatti uno scalprum
(ossia uno scalpello, l’unica accezione che il vocabolo ha in Alberti),15
laddove Archimede, in quanto «unicus spectator caeli siderumque»,16
impugna un horoscopus, ossia (vedi più oltre) un horoscopium. Ne segue
che peniculo è necessariamente lo strumento-simbolo del mestiere di Policleto. Per la filologia classica settecentesca, e quindi, a maggior ragione,
per quella quattrocentesca, peniculus aveva tre accezioni:
1. Dicitur de extrema cauda setosa, aut villosa quorundam animalium, ut boum,
equorum, vulpium, quibus utebantur ad pulverem et sordes abstergendas ex mensis,
vasis, vestibus: et ita dicitur tale instrumentum, etiam si ex cauda non sit, setoletta,
scopetta, spazzola […]. 2. Etiam spongiae longae, propter similitudinem caudarum,
peniculi dictae sunt, teste Paul. Diac. p. 208.7 Müll.; et fortasse huiusmodi spongiae
intelligit Ter. [Eun. 771-77]. 3. De penicillo pictorum, pennello. Plin. 35. Hist. nat.
10. 36. (81). Arrepto peniculo, lineam duxit summae tenuitatis per tabulam. Ita editio Jenson. a. 1472. Aliae antiquiores […] penicillo […]. Ceterum, si sana est lectio,
Marcell. Empir. c. 7. sect. 1. p. 97. retro ed. Ald. Atque hoc medicamento rasum caput
in umbra per peniculum pictoris. et paullo post. Raso capite in umbra per peniculum
pictoris (unguentum) imponas.17
Mi par chiaro che l’unica adatta al contesto di Virtus è quest’ultima
accezione. Un’accezione che peniculus assume (a quanto è dato sapere)18
15
L.B. ALBERTI, L’architettura [De re aedificatoria], testo latino e traduzione a cura di G. ORLANDI, introduzione e note di P. PORTOGHESI, 2 voll., Milano, Edizioni Il Polifilo, 1966 (= ALBERTI, L’architettura), II 8, p. 139.8 e III 16, p. 259.24.
16
LIV. XXIV 34, 2.
17
AE. FORCELLINI, Lexicon totius Latinitatis, ab AE. F. lucubratum, a I. FURLANETTO emendatum et auctum, F. CORRADINI et I. PERIN curantibus, IV ed. Patavii 1864-1926 (ed. an. Bononiae,
Forni, 1965), s.v.
18
Ho consultato: G. BALBI, Summa que vocatur Catholicon, Mainz, Johannes Gutemberg, 1460; A.
BLAISE, Dictionnaire latin-français des auteurs Chrétiens, Turnolti, Brepols, 1954; A. BLAISE, Lexicon
latinitatis Medii Aevi praesertim ad res ecclesiasticas investigandas pertinens, Turnholti, Brepols, 1975; F.
BLATT, Lexicon mediae latinitatis Danicae, III, Aarhus, Universitetforlag, 1990; C. DU CANGE, Glossarium
mediae et infimae latinitatis, 10 voll., Niort, Favre, 1883-1887 [rist. an. Bologna, Forni, 1981]; R. HOVEN,
Lexique de la prose latine de la Renaissance – Dictionary of Renaissance Latin from prose sources, LeidenBoston, Brill, 2006; ISIDORI HISPALENSIS EPISCOPI Etymologiarum sive Originum libri XX, recognovit brevique adnotatione critica instruxit W.M. LINDSAY, Oxonii, e Typ. Clarendoniano, 1911 [rist. 1987]; G.
KÖBLER, Mittellateinisches Wörterbuch (in rete); R.E. LATHAM, Revised Medieval Latin Word-List from
British and Irish Sources, London, British Academy, 1965; Mittellateinisches Wörterbuch bis zum ausgehenden
37
ROBERTO CARDINI
alle soglie del Medioevo,19 con Sidonio Apollinare (c. 431-486), con la
Collectio Avellana (che raccoglie epistole che vanno dal 367 al 553 e che
fu messa insieme nel 560), con il vescovo di Pavia Ennodio (473/74521) e con papa Ormisda (451-523). Le due occorrenze di Sidonio e
della Collectio erano note (si leggono nel citato passo del Thesaurus), meno le altre. Ennodio usò peniculus in luogo di penicillus tre volte, due
nell’Epistolario20 e l’altra nella ventunesima delle Dictiones XXVII; papa
Ormisda nell’Epistola ad Possessorem episcopum.21
Dunque il peniculo di Virtus è uno dei tanti medievismi che gremiscono
gli scritti latini dell’Alberti,22 è anzi, come suggerisce la voce del Forcellini,
uno dei non pochi medievismi nati dalla tradizione dei classici:23 nella fattispecie dalla linea che va dalla tradizione della Naturalis Historia di Plinio al
tardo De medicaminibus empiricis, physicis et rationalibus liber dell’archiatra
di Teodosio I, Marcello Empirico. Certo è che peniculus (“spazzola, spugna”)
col senso di penicillus/penicillum (“pennello”) in Alberti è legittimo, e la riprova
13. Jahrhundert, I-II, München, C.H. Beck, 1967-1968; J.F. NIERMEYER, Mediae Latinitatis lexicon minus,
Leiden–Boston-Köln, Brill, 2001; Novum glossarium mediae latinitatis ab anno DCCC usque ad annum
MCC, Hafniae, E. Munksgaard, 1957-; PAPIAS, Elementarium doctrinae rudimentum, per Philippum de
Pincis Mantuanum, 1496; P. STOTZ, Handbuch zur lateinischen Sprache des Mittelalters, 5 voll., München,
Beck, 2002-2004; UGUCCIONE DA PISA, Derivationes, edizione critica princeps a cura di E. CECCHINI et
alii, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2004; e ovviamente il Thesaurus linguae Latinae (s. v. peniculus: «b in
arte pingendi […] α proprie PLAUT. Mil. 18 legiones difflavisti spiritu quasi ventus folia aut –us tectorium
(trad. –um, corr. Ussing, sc. tectorium pro subst. accipiens; paniculum edd. plerique…). […] SIDON. epist.
7, 3, 1 hac temeritate Apellen –o, caelo Phidiam, malleo Polyclitum muneravemur. […] AVELL. 231, 12
quidam nobilis arte pingendi cum equum –o vellet explicare»).
19
Non prima. Nelle moderne edizioni di Plinio il Vecchio e di Marcello Empirico si legge infatti rispettivamente penicillo e penicillum, laddove PLAUT. Mil. 18, dal Th. l. L., s. v. dist. 1b compreso (si è visto)
tra le attestazioni di peniculus «in arte pingendi», a mio avviso non è prudente annoverarlo fra le testimonianze
affidabili perché come debba essere inteso è tuttora una vexata quaestio e perché molti recenti studiosi preferiscono intendere (col Turnèbe) «come fa il vento con le foglie, o con le stoppie dei tetti».
20
«ficta sunt quae scribis et peniculo decorata mendacii» (Epist. I 16, p. 28, Cl 1487); «excusationem veritatis coloratam peniculo» (ibid. III 24).
21
«Fertur quidam nobilis arte pingendi, cum equum peniculo vellet explicare, asellum sibi
proposuisse pingenti, asserens, non ut iumentum imitaretur informe, sed ne in alicuius deformis
lineamenti similitudinem lapsus incideret» (cap. 2).
22
Che nel latino dell’Alberti ci siano medievismi di ogni tipo l’ho sostenuto in R. CARDINI,
Attualità dell’Alberti, «Professione architetto», n. 2/1995, pp. 6-13: 9 (poi, rielaborato e col titolo
Alberti oggi, in «Moderni e Antichi», 1 [2003], pp. 61-72: 67-68) e diffusamente dimostrato nel
mio commento alle Intercenales.
23
R. CARDINI, Per “Uxoria” dell’Alberti, «Rivista di letteratura italiana», 11 (1993), 1-2, pp.
215-81: 254-55 (detractator), 263 (vituperium), 275-77 (nequicquam = nequaquam).
38
NOTA ALLE INTERCENALES
è data dall’usus scriptoris. Penicillus/penicillum nei suoi scritti non figura, laddove pen(n)iculus significa pennello anche nella redazione latina del De pictura,24 e nel De re aedificatoria.25 Nei primi tre casi pen(n)iculus è il pennello
del pittore («nunquam penniculum aut stilum ad opus admoveat pictor, quin
prius mente quid facturus et quomodo id perfecturus sit, optime constitutum
habeat»;26 «Si qui vero sunt pigri artifices, hi profecto idcirco ita sunt quod
lente et morose eam rem tentent quam non prius menti suae studio perspicuam effecere, dumque inter eas erroris tenebras versantur, meticulosi ac
veluti obcaecati, penniculo, ut caecus bacillo, ignotas vias et exitus praetentant
ac perquirunt»;27 «Et picturam ego bonam […] non minore voluptate animi
contemplabor, quam legero bonam historiam. Pictor uterque est: ille verbis
pingit, hic penniculo [ma peniculo in due testimoni] docet rem»),28 nel quarto
caso il pennello è invece quello del muratore.
Ma se lo strumento che Policleto impugna è un pennello, è ovvia conseguenza che quel celebre bronzista di Argo29 per l’Alberti non era uno
scultore, bensì un pittore. È una clamorosa bevue (mai corretta, nonostante che quel nome nell’intercenale ricorra due volte e nonostante soprattutto le ben quattro revisioni del testo) che può essere spiegata soltanto come l’ennesima confusione onomastica dovuta alla labilità di cui
24
L.B. ALBERTI, Opere volgari, a cura di C. GRAYSON, Bari, Laterza, 1973, III, p. 101, rr. 11,
22, 35.
25
ALBERTI, L’architettura, VII 10, p. 609.26-29 e X 17, p. 999.25.
26
«il pittore non accosti mai all’opera il pennello o lo stilo, se prima non avrà stabilito nella
mente quello che abbia intenzione di fare, e in che modo debba condurlo».
27
«E se alcuni artefici saranno pigri, lo sono perché lenti e tardi tenteranno quelle cose che
non avevano prima ben chiarite nella loro mente. Errando per di qua e per di là, si avvolgeranno
fra quelle tenebre tutti paurosi e come accecati, tasteranno con il pennello, come fanno i ciechi
con il loro bastone, le vie sconosciute e cercheranno dove sboccano». Si aggiunga a conferma che
la terza occorrenza del De pictura latino nella redazione volgare era stata resa con «pennello» (L.B.
ALBERTI, De pictura [redazione volgare], a cura di L. BERTOLINI, Edizione nazionale delle opere di
Leon Battista Alberti, Trattatistica d’arte, 1.1, Firenze, Edizioni Polistampa, 2011, p. 314).
28
«E indubbiamente la contemplazione della buona pittura […] mi dà una soddisfazione spirituale non inferiore alla lettura di un bel racconto. Difatti nell’un caso e nell’altro si fa della buona pittura: il pittore narra col pennello, il narratore dipinge con la parola» (ALBERTI, L’architettura,
p. 608).
29
In tutte le testimonianze latine (sicuramente note all’Alberti) è definito infatti statuarius:
cfr. CIC. Brut. 70, 296; ID., De or. II 70, III 26; ID. Parad. Stoic. 5, 37; ID. Verr. II, 4, 12; PLIN.
Nat. hist. XXXIV 10, 49-53, 55-56; QUINT. Inst. or. XII 10, 7-8; IUV. III 218-219; MART. IX 59,
12. Ma Policleto è, per antonomasia, sommo scultore anche nella Commedia (Purg. X 32) e nei
Rerum vulgarium fragmenta (LXXVII, 1), due opere all’umanista ugualmente familiari.
39
ROBERTO CARDINI
la memoria di Battista soffriva quanto ai «nomi di persona»: una labilità
da lui stesso confessata,30 non sfuggita ai contemporanei, e dalle cui conseguenze non è rimasto indenne praticamente nessuno dei suoi scritti.31
Nella fattispecie è presumibile che Polycletus stia in luogo del «vetus pictor» Polygnotus, non per nulla menzionato e così qualificato, sulla scorta
di Cic. Brut. 70,32 nelle due redazioni del De pictura,33 laddove Policleto
non figura mai altrove negli scritti dell’umanista. Questi accertamenti
non sono privi di conseguenze in sede ecdotica. Nell’edizione critica di
Virtus, Polycletus, in quanto errore d’autore, va ovviamente messo a testo, ma doverosamente giustificando la scelta, nell’introduzione oppure
nel commento, con le delucidazioni e le ipotesi suddette.34
Resta da chiedersi da dove allo scrittore sia venuto lo spunto per immaginare qualcuno che, durante una zuffa, peniculo pugnat. È una situazione
comica, e difatti è in una commedia (a lui notissima e da lui sfruttatissima)35
che si incontra un personaggio che, durante un assalto, peniculo pugnat:
THRASO. Hancin ego ut contumeliam tam insignem in me accipiam, Gnatho? /
mori me satiust. Simalio, Donax, Syrisce, sequimini. / Primum aedis expugnabo.
GNATHO. Recte. THRASO. Virginem eripiam. GNATHO. Probe. / THRASO.
Male mulcabo ipsam. GNATHO. Pulcre. THRASO. In medium huc agmen cum
vecti i, Donax; / tu, Simalio, in sinistrum cornum; tu, Syrisce, in dexterum. / cedo
alios: ubi centuriost Sanga et manipulus furum? SANGA. Eccum adest. / THRASO.
Quid ignave? peniculon pugnare, qui istum huc portes, cogitas?36
30
«Nomina […] interdum familiarissimorum, cum ex usu id foret futurum, non occurrebant» (L.B. ALBERTI, Autobiografia, testo e nota al testo a cura di R. CARDINI, con la collaborazione di M. REGOLIOSI, in L.B. ALBERTI, Opere latine, a cura di R. CARDINI, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2010, § 9, p. 990).
31
R. CARDINI, Onomastica albertiana, «Moderni e Antichi», 1 (2003), pp. 143-75: 144-46.
32
Ma su Polignoto pittore l’Alberti aveva certamente presente anche PLIN. Nat. hist. XXXIII
160, XXXV 42, 58-59, 122-123.
33
ALBERTI, De pictura (redazione volgare), p. 289; ALBERTI, Opere volgari, III, p. 81.29; Leon
Battista Alberti. La biblioteca di un umanista, a cura di R. CARDINI, con la collaborazione di L.
BERTOLINI e M. REGOLIOSI, Firenze, Mandragora, 2005, p. 397 (scheda 60 a cura di M.L. TANGANELLI [per il manoscritto] e di S. DONEGÀ [per le fonti]).
34
R. CARDINI, Ortografia e consolazione in un “corpus” allestito da Leon Battista Alberti. Il codice Moreni 2 della Biblioteca Moreniana di Firenze, Firenze, Olschki, 2008, pp. XVIII-XIX, n. 33.
35
MARTELLI, Spigolature, pp. 151-52.
36
TER. Eun. 771-77 («TRASONE E io dovrei accettare un insulto così atroce, Gnatone? Piuttosto la morte! (Ai suoi uomini) Simalione! Donace! Sirisco! Seguitemi. Per prima cosa darò l’assalto
40
NOTA ALLE INTERCENALES
Sennonché il «centurione Sanga» è un cuoco e il peniculus che impugna come un’arma è la spugna con cui pulisce le scodelle. Siccome però,
si è visto, l’Alberti dava costantemente a pen(n)iculus il significato di
pennello, non è arbitrario supporre una terza anomalia. L’umanista, coerentemente con le sue abitudini linguistiche, il peniculo di Ter. Eun. 777
è presumibile che l’abbia preso per un pennello e, su tale base, abbia fatto
combattere un pittore con lo stesso strumento di lavoro che Terenzio
aveva invece fatto impugnare ad un cuoco.37
***
Ma, l’ho già anticipato, anche il sintagma seguente, Archimedes horoscopo,
dà da pensare. Horoscopus in Alberti figura solo due volte, qui e in Picture 13,
dove è Inimicitia che tiene in mano un horoscopum fractum.38 Ma in entrambi
i casi, è manifesto, non può significare oroscopo. Horoscopus ha due accezioni:
orizzonte orientale da cui sorgono le costellazioni (Manil. II 829) e genitura
(Pers. VI 18). Che l’orizzonte orientale possa essere tenuto in mano da qualcuno
alla casa. GNATONE Bene! TRASONE Porterò via la fanciulla. GNATONE Ottimamente! TRASONE Concerò quella donna per le feste. GNATONE A meraviglia! TRASONE Donace, qui al
centro della colonna, col piccone! Tu, Simalione, all’ala sinistra! Tu, Sirisco, alla destra! Sotto gli altri!
Dov’è il centurione Sanga? E il manipolo dei ladri? SANGA Eccomi! Sono qui! TRASONE Cosa?
Buono a nulla! Pensi di combattere con la scopetta, che porti qua quest’arnese?», TERENZIO, p. 119).
37
Uno dei due anonimi revisori del presente articolo, trovando del tutto convincenti le mie
considerazioni, a conferma dell’origine medievale dell’equivalenza peniculus/penicillus, della circolazione umanistica di quel medievismo e dell’agnizione terenziana, mi suggerisce una preziosa integrazione. La faccio mia, e lo ringrazio: «p. 3 peniculus / penicillus: Sarebbe interessante confrontare con Perotti, Cornu copiae 2,429 (ed. Charlet, t. II, Sassoferrato 1991, p. 161 (U, f. 134r; Aldina 1526 c. 215): et peniculos siue penicillos. Item neutro genere penicula et penicilla, quibus calciamenta detergunt. Item quibus pingunt, quoniam ex caudarum extremitatibus fiunt […] Omne praeterea quo ad aliquid mundandum illinendum ue utimur, peniculum seu penicillum uocamus, praesertim si ex spongia factum sit. Terentius [Eun. 777 var.]: Quid ignaue? Peniculon pugnare, qui istuc
huc portes, cogitas? (interessante il contesto: Peniculo pugnare: cf. pp. 9-10 [qui 40-41] dell’articolo). Ovviamente, Perotti è posteriore ad Alberti di una generazione. Ma è interessante notare
l’equivalenza peniculus / penicillus che sembra normale a Perotti (dunque anteriore a lui e dunque
rilevante per illustrare l’uso dell’Alberti) e anche la citazione di Terenzio, che Alberti aveva già nella testa in legame con il senso particolare di peniculus una generazione prima del Perotti».
38
«Quarto loco mulier picta est vultu et oculis turbulentissimo, erecta in pedes, cervice sublata, manuum altera proiecta gladium in nubes protendens, altera horoscopum fractum tenens,
pede vero saxum catena alligatum trahens. Huic superadscriptus titulus INIMICITIA INDIGNATIONIS FILIA» (ALBERTI, Intercenales, p. 300; ALBERTI, Propos de table, I, p. 93).
41
ROBERTO CARDINI
è arduo supporlo. Ma altrettanto inverosimile è una genitura (ossia una carta
sulla quale sia riportato l’ascendente) fracta. Ed è inverosimile perché frango
(“rompere, spezzare, fracassare; stritolare, macinare”) si dice di una noce, dell’osso del collo, di un’onda che si frange su uno scoglio, di una spada, di una
porta, di un dente, di un’anca, di un’oliva e così via, ma non di un pezzo di
carta. Quanto all’occorrenza di Virtus, David Marsh ha scritto:
The meaning of “horoscopus” is not certain. I conjecture that Alberti may have confused Archimedes with Eratosthenes, who calculed the earth’s circumference using
the pointer of a sun-dial, or gnomon. The latter word occurs in Vitruvius’ mention of
Eratosthenes’ calculation (lib. 6.9), and in Pliny’s Natural History, 2.74, where “vasa
horoscopica” are also mentioned.39
Come già scrissi nel 2010,40 l’Alberti non ha però confuso Archimede
con Eratostene, ma horoscopus con horoscopium, “strumento per trarre gli
oroscopi”, che in latino tardo e medievale significa astrolabio.41 Archimede
non era soltanto un matematico e un fisico, anche era, già lo sappiamo,42
un incomparabile astronomo-astrologo, un «unicus spectator caeli siderumque», talché l’horoscopium doveva averlo continuamente in mano. E in
Virtus lo impugna, come Fidia impugna lo scalpello, perché ne simboleggia la professione. E può impugnarlo come un’arma perché l’astrolabio è
uno strumento metallico (solitamente di bronzo, di rame oppure di ottone). Ma la confusione tra horoscopus e horoscopium a mio parere spiega anche il passo di Picture. Che discende, posto che ira e indignatio sono stretti
sinonimi, dalla definizione ciceroniana dell’inimicitia: «inimicitia ira ulciscendi tempus observans».43 E difatti come l’inimicitia di Cicerone è ira,
così l’Inimicitia dell’Alberti è Indignationis filia. Ma l’ira è un furor brevis,
una pazzia di breve durata.44 Dunque chi è in preda all’inimicitia è un paz39
L.B. ALBERTI, Dinner Pieces. A Translation of the Intercenales, by DAVID MARSH, Binghamton-New York, Medieval and Renaissance Texts and Studies in conjunction with the Renaissance
Society of America, 1987, p. 229, n. 7.
40
ALBERTI, Intercenales, p. 235; ALBERTI, Propos de table, II, p. 18.
41
NIERMEYER, s.v.
42
Cfr. supra, n. 16.
43
CIC. Tusc. IV 21.
44
HOR. Ep. I 2, 62. Ma si veda soprattutto l’avvio dell’Amator: «Scripsere veteres vario multiplicique plerumque motu animos hominum exagitari, et inter animi motus, odia, expectatio-
42
NOTA ALLE INTERCENALES
zo accecato dall’ira: è come se inforcasse un paio di occhiali con le lenti
frantumate che gli impediscono di spiare con la necessaria lucidità non solo il momento più opportuno per vendicarsi ma qualunque altra occasione. Ed è per questo che tra gli emblemi di Inimicitia c’è un horoscopium
ma fractum. L’horoscopium, lo dice l’etimologia, è uno strumento che serve
nes, desideria, metum atque inprimis iram amoremque et huiusmodi connumerarunt; quas quidem res perturbationes nuncuparunt, mea quidem sententia ut dici commodius nihil possit;
nam, ut ceteras omittam, ira profecto, ut videre licet, maiorem in modum commutamur: quo
quidem fit ut flagrantes ira animi non satis sui compotes et prope furentes efferantur, quoad per
iram fecisse dixisseque complurima, sedato animi tumultu postea peniteat; accedit eo, quod irati ferme omnes fronte, superciliis ac omni denique vultu inhausti furoris notas et signa indecentissime depromunt: ut cum illinc satis appareat iratos nullam constantie firmitatisque laudem
in se a natura expetitam servare, tum conspicuum ac plane dilucidum sit in animis hominum
iracundiam habere vim tantam, ut queat rationem prosternere atque penitus subigere perdereque. […] Iram idcirco in animis hominum vehementem primariamque esse perturbationum
omnium possumus affirmare, quod idem poetis placuisse in promptu est; namque primis in
faucibus Orci cum Luctu et ceteris istiusmodi monstris, item et ultrices circum Curas collocarunt: ut hinc eos cum primas animi partes, tum primores in pectoribus hominum motus notasse possimus interpretari. Denique inveniri posse doctum neminem reor qui quidem iram perturbationum esse acerrimam neget, ac fortassis plerique reperientur, qui perturbationum omnium, quibus animi vexantur, nullam huic fore comparandam diiudicabunt» («Gli antichi scrivevano che l’animo umano è agitato da vari e molteplici moti, e tra i moti dell’animo annoveravano l’odio, l’aspettazione, il desiderio, la paura e sopra tutti l’ira, l’amore e altri del genere;
questi moti li chiamarono appunto ‘perturbazioni’ e, a mio parere, nessuna definizione è più
adatta; infatti, lasciando da parte le altre, è certo che l’ira, per quanto ci è dato vedere, ci trasforma oltre ogni misura; per cui accade che l’animo infiammato d’ira non ha più sufficiente
controllo di sé e cade quasi in preda alla follia, finché poi, una volta placatosi il tumulto dell’animo, ci pentiamo di aver detto e fatto tante cose sotto l’effetto dell’ira. Aggiungi che praticamente tutte le persone irate mostrano assai indecorosamente nella fronte, nel cipiglio e insomma in tutto quanto il volto, le tracce e i segni della follia che le divora: tanto che, se da un lato
è abbastanza chiaro che chi è irato non conserva in sé alcuna traccia delle doti di imperturbabilità e fermezza richieste dalla natura, dall’altro risulta del tutto evidente che l’iracondia ha un
tale potere sull’animo umano da essere in grado di distruggere, soggiogare completamente e annientare la ragione. […] Possiamo dunque affermare che nell’animo umano l’ira è la prima e
più violenta tra tutte le perturbazioni, ed è evidente a tutti che anche i poeti la pensassero così;
infatti la collocarono proprio all’entrata dell’Orco, insieme al Lutto e a tutte le altre funeste mostruosità, e la circondarono con i Rimorsi vendicatori; tanto che possiamo dedurre da questo
che essi avevano preso nota di quali fossero sia il ruolo principale dell’animo sia i moti più significativi del cuore umano. Penso insomma che non esista persona esperta che possa negare
che l’ira è la più furiosa delle perturbazioni; ed è probabile che i più ritengano che fra tutte le
perturbazioni che affliggono l’animo non ce ne sia nessuna che possa essere paragonata a questa»; L.B. ALBERTI, Amator, testo e nota al testo a cura di R. CARDINI, con la collaborazione di
M. REGOLIOSI; traduzione e note a cura di M.L. BRACCIALI MAGNINI, in ALBERTI, Opere latine,
pp. 89-122: §§ 1-4, pp. 91 e 103-04).
43
ROBERTO CARDINI
ad osservare le ore, il tempo del sorgere e del tramontare delle costellazioni. Ma se è spezzato è come un paio di occhiali con le lenti frantumate.
***
Il prelievo da Cicerone, l’icastico dileggio di Marc’Antonio (latera sua
illa digladiatoria ostentans), e gli altrettanto puntuali prelievi da Terenzio
sopra segnalati certificano che perfino la disperata e disperante Virtus se
non voleva derogare allo statuto dell’opera cui appartiene non poteva essere
priva di comicità. Comico-parodica è in primo luogo l’azione e l’ambientazione: una scazzottata fra gli spiriti magni dei Campi Elisi. Un manipolo
di squadristi capeggiati da Marc’Antonio concia per le feste Cicerone che
si apprestava a plura velle suadere. Tutti i veteres amici di Virtus (Plato,
Socrates, Demosthenes, Praxiteles… et eiusmodi docti), terrorizzati, se la danno
a gambe. Né sono in grado di difendersi Policleto/Polignoto, Fidia, Archimede, che per far fronte ad una banda di predoni e di assassini armati fino
ai denti impugnano un pennello, uno scalpello e un astrolabio («Hinc ceteri
amici mei perculsi metu, fuga sibi propere consuluere. Neque enim Polycletus peniculo, aut Phidias scalpro, aut Archimedes horoscopo, aut reliqui
inermes adversus audacissimos armatos, eosdemque predis atque homicidiis
suetos, belle ad sese tuendos valebant», 13). Sennonché a questa scena, sicuramente comica e magari farsesca, si intreccia una scena tutt’altra: gli
sgherri della dea Fortuna prendono a pugni e calci la dea Virtù, la pestano
ben bene, le strappano le vesti, la lasciano riversa nel fango e se ne vanno
esultanti («Ergo me infelicissimam […] pugnis et calcibus totam contrivere
vestesque meas diripuere, in lutum prostratam reliquere; demum abiere
ovantes», 14). È un contrappunto penoso e doloroso che trasforma la comicità in umorismo. Ma comico è anche Giove che non può dare udienza
a Virtus perché troppo occupato a dipingere le ali alle farfalle («curat ut papilionibus ale perpulchre picte adsint», 16): una spiritosa invenzione che
Dosso Dossi, credendola di Luciano, recuperò un secolo dopo per porla al
centro di una sua celebre tela.45 Sennonché non è affatto quello, come
45
Il dipinto (già a Vienna, Kunsthistorisches Museum, inv. n. 9110, tela, cm 112x150) è ora
a Cracovia, Castello Reale del Wawel, inv. n. 8486: cfr. A. BALLARIN, Dosso Dossi e la pittura a Ferrara negli anni del ducato di Alfonso I, 2 voll., Ferrara, Ca.Ri.Fe., 1994-1995, scheda n. 433 (vol. I,
pp. 339-40), figure: CLXXV, 701, 702, 704, 709. Virtus nacque come una giarda: fu fatta circola-
44
NOTA ALLE INTERCENALES
invece ritiene Andrei Bliznukov, «il momento cruciale del testo albertiano»,46
un testo che pur essendo l’obbligato punto di partenza per correttamente
interpretare e valutare la riscrittura di Dosso, non è stato, secondo me, ben
compreso dagli storici dell’arte.47
re come scritto di Luciano dallo stesso Alberti, fu inclusa negli Opera omnia del Samosatense dal
1491 fino a quasi tutto il Settecento (ALBERTI, Intercenales, pp. 172-75, nn. 19 e 22; Propos de table, pp. XLII-VII nn. 74 e 77; R. CARDINI, Enigni albertiani, in Il cantiere degli umanisti. Per Mariangela Regoliosi, a cura di L. BERTOLINI – D. COPPINI – C. MARSICO, Firenze, Edizioni Polistampa, 2014, pp. 221-75: 267-68), e soltanto nel 1887 fu attribuita all’Alberti (G. MANCINI, Nuovi
documenti e notizie sulla vita e sugli scritti di Leon Battista Alberti, «Archivio Storico Italiano», s. IV,
t. XIX [1887], pp. 3-70: 33-34).
46
L’uomo del Rinascimento. Leon Battista Alberti e le arti a Firenze tra ragione e bellezza (Firenze, Palazzo Strozzi, 11 marzo 2006-23 luglio 2006), mostra e catalogo a cura di C. ACIDINI e G.
MOROLLI, Firenze, Mandragora/Maschietto Editore, 2006, scheda n. 139 a cura di A. Bliznukov,
p. 356.
47
È quanto si ricava dalla rassegna compilata da Andrei Bliznukov in calce alla scheda citata alla
nota precedente delle diverse interpretazioni che del dipinto di Dosso sono state date a partire da Julius von Schlosser (1900) fino ad oggi. Per quanto mi riguarda ho trattato di Virtus (e dei suoi molti
risvolti, da quello autobiografico a quello teologico) in R. CARDINI, Mosaici. Il “nemico” dell’Alberti,
Roma, Bulzoni, 1999 (20042), p. 37 e (segnatamente in ordine al § 22) in ALBERTI, Intercenales, pp.
232-36 (Propos de table, II, pp. 18-21), mentre ho analizzato le due interpretazioni che di essa dette
l’autore (quella esplicita in calce alla dedica al Toscanelli e l’altra implicita nell’ordinamento delle sei
intercenali del primo libro) in L.B. ALBERTI, Intercenales. Editio minor, a cura di R. CARDINI, 2 voll.,
Firenze, Edizioni Polistampa, 2022, I, pp. X-XI; II, pp. 542, 546. Ma evidentemente non sono stato
chiaro. Mi licenzio pertanto da questo contributo erudito tornando brevemente su questa bellissima
e sconvolgente intercenale sì da ribadirne e precisarne la corretta esegesi. Come si è visto, Virtus racconta che un bel giorno, nei campi Elisi, è stata presa a botte da Fortuna e dai suoi sgherri. La dea,
lacera, imbrattata e piena di lividi, va a protestare dal sommo Giove. Dopo un mese di inutile anticamera, scrive a Mercurio chiedendogli aiuto. Mercurio va alla porta dell’Olimpo e lei gli racconta la
sua disavventura. Ma più che quella l’ha abbattuta e umiliata il totale disinteresse del Padre degli uomini e degli dèi che pur di non darle udienza accampa ogni volta una scusa diversa: deve far crescere
le zucche, deve dipingere le ali alle farfalle. Mercurio si dispiace ma le risponde che il suo è un caso
disperato. Giove non potrà mai difenderla dalle prepotenze di Fortuna perché è a Fortuna che deve il
suo potere. Si rassegni, dunque, e fino a quando l’odio che Fortuna nutre nei suoi confronti non si
sia placato, vada a nascondersi. Ma se le cose stanno così, chiosa Virtù, allora il mio destino è segnato: sarò perseguitata ed esclusa per sempre («Eternum latitandum est. Ego et nuda et despecta excludor», 20-22). Questo amarissimo epilogo meglio lo si capisce tenendo presente la costruzione del
libro primo e la sequenza dei testi. Siccome il libro si era aperto col “silenzio di Dio” (Pupillus), ed
era proseguito con un dibattito sulla ragionevolezza e l’utilità delle preghiere (Religio), con la terza intercenale, Virtus, si ripiomba dunque nel non ascolto e nell’abbandono di Dio: in un silenzio di Dio
che è disinteresse e al contempo impotenza. È, lo si vede, una teologia degna di Leopardi. E difatti
turbò le prime generazioni di lettori, che pure pensavano di trovarsi davanti un testo di quel miscredente di Luciano di Samosata, dalla metà del Settecento innanzi ribattezzato il Voltaire dell’antichità.
Figurarsi il turbamento se avessero supposto che era invece dovuto alla penna di Battista Alberti fiorentino, scrupolosissimo nel frequentare con assiduità le chiese, come si raffigura all’inizio dei Profu-
45
ROBERTO CARDINI
Cosicché, alla luce di quanto precede e degli accertamenti fatti in altra sede,48 la traduzione che proporrei di Virtus 6-14 è la seguente:
Non lo vedi in che stato sono, con le vesti lacere e tutta imbrattata? A ridurmi così
sono stati l’empietà e gli oltraggi della dea Fortuna. (7) Mi trovavo, molto onorata,
ai Campi Elisi: mi facevano corona i miei vecchi amici Platone, Socrate, Demostene,
Cicerone, Archimede, Policleto, Prassitele ed altri dotti del genere che, in vita, mi
avevano venerato con estrema pietà e devozione. (8) Proprio mentre una gran folla
si affretta per venire a rendermi omaggio, all’improvviso la dea Fortuna, sfrontata,
audace, superba, petulante, circondata da una moltitudine di gente armata, corre
verso di me e piena di boria mi fa: «Benissimo, plebea! E tu quando gli dèi maggiori
si avvicinano, non cedi spontaneamente il passo?» (9) A me, che non lo meritavo,
gia, nonché, per quarant’anni, abbreviatore apostolico. Due di questi lettori, i timorati Jean Petit e
Josse Bade, repressero il turbamento, e si cavarono d’impaccio sostenendo che si trattava invece di un
testo pio, anche se forse non abbastanza pio era l’animo con cui era stato dettato, perché in fondo
Giove era un falso dio, un dio pagano, cosicché non essendo dio né per natura né per meriti, era giusto sostenere che il suo posto lo doveva a Fortuna. L’hominum deorumque derisor maximus la pensava
dunque come noi cristiani, anche se con minore lucidità, perché gli restò sconosciuto il vero lume:
«Luciani de virtute cum Mercurio in Iovem conquerente Dialogus, in quo id pium est, licet forte
non sat pio animo dictum, Iovem quoque debere Fortune divinitatem acceptam ferre. Cum enim
neque natura neque meritis deus sit, fortuita quadam opinione habitus est; cum multi longe meliores pro deis recepti non sint, si vero ne Iuppiter quidem verus deus, ergo nec ceteri quos gentilitas asseruit. Nobiscum ergo sentit hominum deorumque derisor maximus: sed minus lucide, cum verum
lumen non agnorit» (il passo si legge nell’indice premesso a CENSORINUS, Opuscula quedam literata
virorum doctorum opusculis Plutarchi preiungenda. Luciani de Virtute cum Mercurio in Iovem conquerente. Dialogus folio I. […] Censorini in die natali libellus. folio II. Cebetis Thebani Tabula. folio XIII,
in edibus Ascensianis [Parigi], Jean Petit-Josse Bade, 1514). Questa cervellotica arrampicata sugli
specchi è davvero preziosa: la toppa, come spesso succede, è peggio del buco. Involontariamente sottolinea uno dei passi più eversivi dell’intercenale. E quindi suggerisce un’ipotesi che, per quanto ne
so, non è mai venuta in mente a nessuno. Se l’Alberti la pubblicò alla spicciolata per ben due volte e
in redazioni diverse, ma sempre attribuendola a Luciano, è probabile che lui per primo fosse consapevole di quanto quel testo potesse apparire appunto eversivo, e in quanto eversivo parecchio rischioso. Non è invece un’ipotesi che quel passo è davvero fondamentale. Lo sfogo di Virtù non è semplicemente uno sfogo, è in primo luogo una preghiera rivolta a Mercurio e per suo tramite a Giove.
Una disperata e disperante preghiera non di un peccatore qualsiasi ma della dea Virtù in persona che
Giove neanche ascolta, né vuole ascoltare. E se anche volesse, non può. E non può perché sebbene
sia il sommo Giove, è assoggettato alla Fortuna, e quindi al Fato, due potenze a lui sovraordinate (di
cui non per nulla si occupa l’intercenale successiva, la quarta: Fatum et Fortuna). Donde l’ovvia e inquietante deduzione: ma se è una divinità impotente allora, segnatamente da parte dei virtuosi, è
inutile pregarla. Un paralipomeno niente male a Religio, che nel libro viene subito prima di Virtus e
che appunto verte sulle preghiere.
48
Per ornata “onorata” (§ 7) cfr. Uxoria 128 (ALBERTI, Intercenales, pp. 419-20; Propos de table,
II, p. 261); per eu “benissimo!” (§ 8) cfr. ALBERTI, Intercenales, p. 235 (Propos de table, II, p. 17).
46
NOTA ALLE INTERCENALES
dispiace di essere insultata in quel modo, e parecchio irritata rispondo: «Né tu, che
presumi di essere la dea più grande, con codeste parole mi renderai plebea, né, se agli
dèi maggiori si deve cedere il passo, ritengo di doverlo cedere a te, disonorandomi».
(10) Lei non si tenne, e subito si mise ad urlarmi addosso. Tralascio le contumelie
che mentre accadevano fra di noi queste cose, scagliò contro di me. (11) Per questa
ragione Platone, il filosofo, prese a sua volta la parola e cominciò ad addurre molte
argomentazioni riguardanti i doveri degli dèi. Ma quella prese fuoco, e disse: «Levati
dai piedi, chiacchierone, è un’indecenza che, in un luogo come questo, i servi si mettano a perorare, come se fosse faccenda loro, la causa degli dèi». (12) Anche Cicerone,
l’oratore, desiderava dare parecchi consigli. Ma aveva appena aperto bocca quando
dalla turba di quella gente armata balzò fuori il nerboruto Marc’Antonio, ostentando
quel suo torace da gladiatore, e gli appioppò in faccia un gran cazzotto. (13) A questo
punto gli altri amici miei, terrorizzati, pensarono in fretta e furia a salvarsi, e si dettero
alla fuga. Policleto col suo pennello, o Fidia con lo scalpello, o Archimede con l’astrolabio, oppure gli altri inermi non erano infatti in grado di difendersi da gente armata
e per di più avvezza ai saccheggi e agli omicidi. (14) Sono pertanto il più infelice
degli esseri: gli uomini e gli stessi dèi lì presenti mi abbandonarono, fui presa a calci
e pugni, mi pestarono ben bene, mi strapparono le vesti, mi gettarono nel fango e se
ne andarono esultanti.
47
ABSTRACT
R. CARDINI, Nota alle Intercenales dell’Alberti (Virtus 12-13)
L’articolo documenta che nel breve giro di soli 4 righi di una delle più famose intercenali dell’Alberti si annidano diverse insidie e novità precedentemente non notate oppure erroneamente interpretate: il neologismo (foggiato
sul ciceroniano gladatorius) digladatorius; il medievismo peniculus/um col senso di “pennello da pittore”; horoscopus invece di horoscopium nel senso medievale di astrolabio; due originali riscritture di Terenzio (la prima, gravissimumque pugnum in os Ciceronis infregit, ha per ipotesto Adelphoe 200; l’altra, peniculo pugnat, ha preso spunto da Eunuchus 771-77), e finalmente, considerato
che peniculus/um in Alberti significa costantemente “pennello”, e dato che chi,
nell’intercenale, peniculo pugnat è Polycletus, l’ennesimo errore dovuto alla labile memoria onomastica dello scrittore – stavolta è lo scultore Policleto che
ha preso il posto del pittore Polignoto.
The article shows how, in the brief space of just 4 lines of one of Alberti’s
most famous Intercenales, we find a series of pitfalls and previously unnoticed
or erroneously interpreted novelties. These comprise the neologism digladatorius (modelled on the Ciceronian gladatorius); the medievalism peniculus/um,
meaning “artist’s brush”; horoscopus instead of horoscopium in the medieval
sense of astrolabio; two original rewritings of Terence (the first, gravissimumque pugnum in os Ciceronis infregit, takes as its hypotext Adelphoe 200; the
other, peniculo pugnat, uses Eunuchus 771-77 as its starting point), and lastly,
given that for Alberti peniculus/um always means “brush”, and that in the Intercenales, it is Polycletus who peniculo pugnat, yet another of the many errors
attributable to the scribe’s poor memory for names – this time it is the sculptor Polycletus who has replaced the painter Polygnotus.
KEYWORDS: Leon Battista Alberti; Intercenales; Virtus; digladatorius; peniculus; horoscopus;
Polycletu; Polygnotus