Giuristi e mercanti
Il tema di cui ci occuperemo non è difficile a definirsi: si tratta di
cercare di capire quale fu, nell’esperienza giuridica del basso
Medioevo, il sistema delle regole che governarono l’attività del
mercante (singolo, o partecipe d'una struttura societaria), e le ragioni
e i modi secondo i quali questo sistema normativo riuscì a formarsi e
a funzionare. Le parole che intitolano questa riflessione cercano di far
intuire l’oggetto specifico di questo nostro ragionamento. Perché è
certamente vero che la costruzione dell’ordine giuridico
bassomedievale fu in larga misura opera della robusta riflessione dei
giuristi, ma resta altrettanto vero che anche i legislatori dei Comuni e
delle corporazioni (pur senz’attribuirsi l’onnipotenza, di cui così
spesso e tanto volentieri amano gloriarsi i loro moderni successori
statuali) seppero dare – mettendo a frutto e interpretando
l’esperienza che emergeva dal loro quotidiano vissuto – risposte
davvero notevoli, non poca della cui sostanza è arrivata viva e vitale
fino a noi.
Un nuovo (e forte) ceto mercantile
Non è questa la sede per attardarsi in descrizioni dettagliate del lungo
e complesso passaggio dall’esperienza giuridica del primo millennio
cristiano a quella del basso Medioevo. Di certo possiamo dire che tra
gli esiti più cospicui e caratterizzanti di questa (non breve né
superficiale) transizione possono inscriversi il rifiorire delle città e il
costituirsi in esse di quelle strutture comunali che seppero darsi
assetti normativi profondamente nuovi e commisurati alle loro vitali
(e largamente inedite) esigenze.
Di questo nuovo contesto uno dei protagonisti fu certamente il
mercante. Quanto l’esperienza giuridica del mezzo millennio
precedente si era fondata sulla consuetudine assunta a struttura
'costituzionale', altrettanto nel nuovo millennio furono invece la
funzione legislativa e la riflessione della (neonata, ma ben presto
vigorosa) scienza giuridica a progettare e costruire ordinamenti
altrettanto nuovi. E questa impresa di normazione fu in notevole
misura indirizzata alla definizione e alla tutela degli interessi dei
mercanti. Nei secoli precedenti era toccato alla consuetudine mettere
ordine nella convivenza in conformità ad alcuni semplici (ma severi)
canoni di comportamento; ora furono la scienza giuridica e le norme
degli statuti (comunali e corporativi) a dettare regole capaci di
disciplinare quella nuova vita delle città, nella quale ai
mercanti andava assicurata un’efficace tutela dei loro interessi
cetuali (che in larga misura corrispondevano con quelli generali delle
società urbane).
Un rischio del mestiere di mercante: il fallimento
Quando si afferma che gli ordinamenti dei Comuni bassomedievali
miravano a una tutela forte e primaria degli interessi del ceto
mercantile, non s’intende certamente dire che a chiunque esercitava
la mercatura dovessero essere leciti tutti i comportamenti che
comunque potessero proteggere efficacemente i suoi personali
tornaconti. Tutelato dall’ordine giuridico era l’interesse del ceto
mercantile, non quello personale dei singoli mercanti.
La riprova più convincente di tutto questo è offerta dalle norme che
regolarono il fallimento: che era certamente una grossa sventura per
il mercante, ma che sembrava impossibile non qualificare anche (e
non secondariamente) come una situazione della quale il mercante
stesso doveva esser chiamato a rispondere anche penalmente; e non
soltanto ai suoi creditori, ma all’intera collettività. Un giurista insigne
come Baldo degli Ubaldi non esitò ad affermare che «a stare a quel
che solitamente accade, i falliti son degl’ingannatori e dei truffatori; e
si può presumere che in ogni caso ricorra quel che quasi sempre
accade; né possono pretender d’essere scusati per via d’un imprevisto
colpo di sfortuna» ; sicché gli fu facile concludere che «i falliti sono
infami». La soluzione normativa a cui si giunse fu che dovesse aversi
per accertata la fuga (che non era solamente fuga, ma anche – e
soprattutto – insolvenza) se «l’interessato non comparirà […] dopo
che sia stato citato o se comparirà e non presterà idonea garanzia di
pagamento» (il che conferma che non era certo l’assenza l’elemento
fondamentale della fattispecie disciplinata).
Gli effetti giuridici che dal fallimento furono fatti derivare erano sia
personali-penali sia patrimoniali; perché appariva chiaro a tutti che
non l’assenza, ma l’insolvenza (che ne era, insieme, la causa e il
sintomo) costituiva lo specifico danno che con il fallimento si
arrecava: sia ai creditori sia (più in generale) all’ordinata convivenza
nelle città. Gli effetti personali del fallimento furono fin da principio
singolarmente gravi: l’equiparazione (che, sul piano dei fatti,
appariva ovvia) del fallimento al furto, e la condanna del fallito alle
pene per lui previste (che potevano arrivare fino alla morte o
all’ergastolo); ma fu soprattutto il bando (di cui era ovvio il diretto
collegamento alla specifica antigiuridicità della fuga) la sanzione che
più spesso gli statuti comminarono ai falliti. Sarebbe, poi,
interessante fare il censimento completo di tutte le (chiamiamole così)
'minori' sanzioni personali che son reperibili nelle diverse legislazioni
cittadine (si pensi alla fiorentina 'pittura infamante'); ma il discorso
andrebbe troppo per le lunghe. A noi basterà rammentare,
condividendolo appieno, il giudizio di chi ha scritto che i falliti,
malgrado la loro provenienza dal ceto (dominante) dei mercanti,
«scendevano nel brulicame degli uomini piccini e vituperati».
Naturalmente, accanto ai delitti del fallito, i legislatori si
preoccuparono di prevedere e punire anche quei comportamenti di
terzi che avessero ostacolato o reso impossibile il compimento degli
atti più importanti del procedimento fallimentare: furono perciò
previsti e puniti come delitti il favoreggiamento del fallito, la
ricettazione dei suoi beni e l’insinuazione di crediti falsi.
Il procedimento fallimentare venne costruendosi commisurato allo
scopo da raggiungere, che era il soddisfacimento dei debiti contratti
dal fallito (nei limiti del possibile, naturalmente, stante la sua
situazione patrimoniale di dissesto). Per far questo era necessario (e
così fu disposto): a) espropriare totalmente il fallito stesso del suo
patrimonio, provvedendone la sollecita alienazione al miglior
offerente; b) accertare integralmente la sua situazione debitoria; c)
procedere, infine, al soddisfacimento dei debiti accertati (nei limiti,
ovviamente, delle disponibilità offerte dalla vendita dei beni e dalla
riscossione dei crediti, e, d’altra parte, fermo restando, in via di
principio, il canone fondamentale della par condicio tra i creditori).
Un problema strettamente connesso alla situazione fallimentare fu
quello del trattamento da riservare a quei negozi, compiuti dal fallito
prima del fallimento, che avessero ulteriormente depauperato il suo
patrimonio, diminuendo così – di fatto – la sua (già disastrata)
capacità di adempiere le proprie obbligazioni. Se davvero il fallito era,
per definizione, un frodatore, questi suoi istinti fraudatori, se lasciati
privi di una specifica e severa sanzione, avrebbero potuto dare prove
particolarmente convincenti (ma forse anche irreparabili) della loro
efficacia. La soluzione che i legislatori statutari escogitarono fu quella
di sostituire al dolo – quale condizione per rendere inefficace
quell’alienazione – il tempo nel quale l’alienazione stessa era stata
compiuta (che era un dato oggettivo, in quanto tale più facilmente
accertabile del dolo), stabilendo in questo modo la generale rilevanza
di un 'periodo sospetto' che dava agl’interessi dei creditori del fallito
una tutela particolarmente qualificata. Questo rimedio è ancor oggi
presente in molti ordinamenti, nei quali dell’azione revocatoria son
previste due specie: una 'ordinaria' (che presuppone l’esistenza del
dolo) e un’altra – che solitamente viene definita 'fallimentare' – per il
cui utile esercizio è rilevante, in luogo del dolo, il tempo nel quale
l’atto soggetto a revocazione è stato compiuto.
La riflessione della scienza giuridica non tardò a uniformarsi
all’indirizzo delle legislazioni. Fin dalla seconda metà del Duecento fu
opinione diffusa l’ammissibilità di un accertamento presuntivo della
frode, finché – nel secolo successivo – anche i giuristi accettarono
senza riserve questa soluzione che era stata elaborata dai legislatori
statutari, fondata sul cosiddetto periodo sospetto come unico criterio
oggettivo di revocabilità delle alienazioni compiute dal mercante
prima del suo fallimento.
Il nodo più difficile da sciogliere era quello del criterio secondo il
quale procedere alla divisione tra i creditori dell’attivo fallimentare.
Un primo criterio avrebbe potuto essere quello della graduazione: di
soddisfare, cioè, le pretese dei singoli creditori partendo da quelli
'meritevoli' – per ragioni da ritenersi 'oggettive' – di una più intensa
tutela, e proseguendo per questa via fino all’esaurimento dei fondi
disponibili. La soluzione che i legislatori statutari scelsero senza
alcuna esitazione, invece, fu quella, sostanzialmente opposta,
della par condicio creditorum: di soddisfare, cioè, i singoli creditori
del fallito seguendo la regola che ancor oggi si chiama del
concorso (la quale impone di pagare, di ogni debito del fallito, una
quota percentuale pari a quella del valore stimato dell’intero attivo
fallimentare rispetto all’importo complessivo dei debiti accertati e
ammessi).
Le eccezioni furono pochissime: una delle più ragguardevoli ed
efficaci fu quella di riconoscere il diritto delle donne viventi nella
famiglia del fallito, a favore delle quali fosse stata costituita una dote,
di averne restituito l’intero importo, senza dover sottostare alla regola
fallimentare della par condicio. La ragione che giustificava questa
tutela preferenziale appare evidente: chi aveva costituito la dote
aveva inteso proteggere la (futura) sposa da ogni possibile rischio di
perdere la sua nativa agiatezza economica; anche perché i beni
costituiti in dote non provenivano dalla famiglia della quale la dotata
sarebbe entrata a far parte con il matrimonio. Sarebbe perciò apparso
palesemente iniquo che, verificatosi un fallimento nella nuova
famiglia della dotata, in esso fossero coinvolti anche quei beni dotali
che nulla avevano a che fare con il patrimonio familiare del fallito
(giustamente destinato – quello, ma solamente quello – al
soddisfacimento concorsuale delle ragioni dei creditori).
Il procedimento fallimentare si concludeva con il pagamento dei
debiti del fallito fatto dagli organi fallimentari secondo i criteri
della par condicio.
Malgrado tutta la severità che i legislatori usarono nei confronti dei
falliti, non fu, però, del tutto negata a costoro la possibilità di
ricorrere a un rimedio contrattuale per alleggerire il carico delle
conseguenze (personali e patrimoniali) del fallimento mediante uno
strumento che attenuasse i non piccoli danni che il fallimento portava
al fallito e ai suoi creditori. Nacque così quell’esito alternativo del
fallimento che ancora chiamiamo concordato: un accordo transattivo
avente a oggetto l’ammontare della massa passiva e i termini del suo
saldamento. Le soluzioni normative non furono dappertutto
identiche tra loro (anche se ebbero la sostanza e gli effetti tipici della
transazione): non si negò che questi accordi, com’era scritto nello
statuto fiorentino del 1415, tutelassero gli interessi dei falliti, ma –
sempre a Firenze – si stabilì, per il fallito tornato poi a miglior
fortuna, l’obbligo di saldare integralmente le sue residue quote di
debito. Gli statuti lombardi stabilirono che il concordato valesse, oltre
che a saldare i debiti, anche a rimuovere il bando, ma non le altre
conseguenze personali del fallimento.
La Repubblica di Venezia, in questa specifica materia, seguì un
indirizzo profondamente originale, facendo dell’accordo tra fallito e
creditori l’esito naturale di ogni fallimento, ma questa scelta di
politica del diritto rimase una caratteristica specialissima
dell’ordinamento veneziano; tantoché, quando la Serenissima estese
il suo domino verso la terraferma lombarda, non impose a queste
nuove terre le sue specialissime regole fallimentari.
La famiglia che diventa società
Per la sua complessità e per i modi in cui veniva esercitata, era
manifestamente impossibile che qualsiasi mercatura restasse
interamente affidata alle cure di una sola persona. Per convincersene
basta pensare alla molteplicità delle operazioni che dovevano essere
compiute e alla diversità dei luoghi nei quali la presenza di un
mercante poteva essere contemporaneamente indispensabile. La
soluzione di questo problema non fu difficile da trovare: la famiglia,
con la consueta ampiezza della sua struttura (si parla in genere, e
giustamente, di 'aggregati soprafamiliari'), era in grado di facilitare il
coinvolgimento di molte persone – già legate tra loro da vincoli
naturali particolarmente forti – in quell’esercizio comune della
mercatura che richiedeva da ciascuno un impegno senza riserve né
temperamenti. Si spiegano così certe norme statutarie che potrebbero
sembrare inutilmente ridondanti: già loStatuto del Popolo di Bologna
del 1287, per es., disponeva che si dovessero ritenere membri della
famiglia «l’insieme dei padri, dei fratelli, dei figli legittimi e di quelli
naturali, delle sorelle, delle madri, delle mogli e delle nuore»: più
generazioni messe a convivere secondo una logica certo assai diversa
da quella che governa le nostre moderne famiglie nucleari.
La famiglia del mercante aveva queste misure proprio in funzione dei
compiti (di quelli mercantili assai di più che di quelli strettamente
familiari) che essa era chiamata a svolgere. Un sintomo
particolarmente convincente della robustezza di queste strutture –
familiari e mercantili a un tempo – è ancor oggi offerto dai sontuosi
palazzi dove vissero le maggiori casate dei mercanti, e che non
fungevano solamente da abitazioni (spaziose, e talora addirittura
monumentali), perché in essi c’era posto, oltre che per l’abitazione di
tutti i (molti) familiari, anche per i magazzini, e per lo 'scrittojo' (nel
quale si trattavano gli affari e si formava e conservava la contabilità).
Ma non era – nella sostanza – molto differente la (pur tanto più
modesta) famiglia dell’artigiano, che viveva anche lei 'a uscio e
bottega', tutta dedita all’esercizio in comune di un medesimo
mestiere.
Stante la totale convergenza – all’interno delle compagnie – della
logica familiare con quella mercatoria, da questa convergenza derivò
il principio della solidarietà di tutti i 'compagni' nei confronti dei terzi,
che nessuno avrebbe mai saputo o voluto smentire. Era un principio
che appariva esattamente conforme a un ovvio (e ineccepibile)
canone di giustizia sostanziale: la rappresentanza della
famiglia-compagnia era 'naturalmente' esercitata da tutti quelli che,
in virtù del loro personale statuto di membri della famiglia stessa,
erano da ritenersi – altrettanto 'naturalmente' – legittimati a gestire
gli affari di quella compagnia che con la famiglia si identificava,
restando così consensualmente astretti all’osservanza delle regole che
discendevano dalla duplice 'natura' – familiare e mercantile – della
compagnia.
Di questa situazione troviamo ancora segni leggibilissimi negli
ordinamenti giuridici moderni. Per far solamente un esempio,
basterà rammentare che «nella società in nome collettivo tutti i soci
rispondono solidalmente e illimitatamente per le obbligazioni
sociali» (come dispone l’art. 2291 del nostro codice civile, seguendo
un’antica regola che proprio nel «nome collettivo» ha il suo
fondamento e il proprio limite; ed è ovvio che questo nome collettivo,
alle sue origini, altro non era che il patronimico della
famiglia-compagnia.
Un patto fra denaro e 'fantasia'
La compagnia, dunque, fu lo strumento giuridico che permise a un
soggetto collettivo antico, come la famiglia, di scoprire e di coltivare
la propria naturale vocazione mercantile, con gli esiti che abbiamo
appena visto. La compagnia fu (ed è restata) una realizzazione
puntuale ed efficace, pur in contesti profondamente nuovi, di quella
che un antichissimo vocabolario giuridico definiva causa societatis,
consentendo così a una pluralità di soggetti, legati tra loro da un
vincolo naturale molto forte, di innestare questo vincolo nel tessuto –
di per sé nuovo e diverso, ma perfettamente adeguabile –
dell’esercizio plurisoggettivo della mercatura.
In questo universo della mercatura medievale, però, la causa
societatis assunse anche un’altra possibile funzione, diversa ma non
certo meno importante rispetto a quella svolta dalla compagnia.