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Guerra e pace: una metamorfosi

2023, Filosofia

https://doi.org/10.13135/2704-8195/

We try to delineate both the metamorphosis of the clear-cut relationship between peace and war and the semantic shift the latter have undergone. By reconsidering events since the birth of the modern state, through the use of lenses bequeathed by Carl Schmitt, we show how the clear distinction between peace and war has progressively faded to the point of eroding. Starting from the wars of the 1990s up to the most recent ones, the US has progressively deprived both the UN and NATO of their authority, setting itself up as the guardian of global law. No longer having an enemy of equal power to threaten it and expanding ever further east, it has transformed peace into international security and war into an international police operation. Being, in US narrative, a pacified and americanized world, war and peace have disappeared, being now only matters of'US domestic politics'.

Antonio Magariello Guerra e pace: una metamorfosi Abstract: We try to delineate both the metamorphosis of the clear-cut relationship between peace and war and the semantic shift the latter have undergone. By reconsidering events since the birth of the modern state, through the use of lenses bequeathed by Carl Schmitt, we show how the clear distinction between peace and war has progressively faded to the point of eroding. Starting from the wars of the 1990s up to the most recent ones, the US has progressively deprived both the UN and NATO of their authority, setting itself up as the guardian of global law. No longer having an enemy of equal power to threaten it and expanding ever further east, it has transformed peace into international security and war into an international police operation. Being, in US narrative, a pacified and americanized world, war and peace have disappeared, being now only matters of'US domestic politics'. Key words: war, peace, security, enemy, US In un celebre luogo delle Filippiche Cicerone tenta di delineare la fisionomia del rapporto tra guerra e pace, affermando che inter bellum et pacem nihil medium1. Questa affermazione godrà di notevole fortuna lungo i secoli successivi. Anzi, con sempre maggiore rigore e precisione la filosofia e il diritto si sforzeranno di definire cosa siano la pace e la guerra, enucleandone le rispettive caratteristiche e differenze. Avventurarsi in un excursus storiografico, che passi in rassegna anche solo le più note teorizzazioni di questi due concetti, sarebbe un compito improbo e assolutamente non realizzabile in poche pagine, senza far loro violenza. Ci atterremo, perciò, al più circoscritto scopo di mostrare come il rapporto di mutua esclusione vigente tra guerra e pace, riassunto brillantemente dalla formulazione ciceroniana, lentamente abbia cambiato volto. Se esso prevedeva che tra le due non potesse darsi un tertium, prescrivendo così che all’esserci dell’una doveva corrispondere l’assentarsi dell’altra, qui si cercherà di mostrare come alla luce degli accadimenti degli ultimi decenni, la nettezza della distinzione tra guerra e pace si è progressivamente erosa, causando una sinistra metamorfosi dell’uso e del significato di entrambe. Dalla pace di Westfalia alla fine del secondo conflitto mondiale 1 Cicerone 1996, 54. Nella ricostruzione giusfilosofica ideata da Carl Schmitt in Il nomos della terra viene avanzata una esegesi del moderno rapporto tra diritto, politica e guerra, il cui inizio è collocato in un preciso momento storico: la pace di Westfalia del 1648. Tramite questo accordo di pace viene ufficialmente riconosciuto lo Stato come detentore supremo della sovranità, cioè quale autorità politica e giuridica suprema, superiorem non recognoscens, comportando ciò l’interdizione per ogni Stato di interferire negli affari di un altro Stato. L’esser tutti gli stati sovrani in maniera paritetica implica che ciascuno è titolare in egual misura dello ius ad bellum. Uno degli esiti apparentemente paradossali della cessazione delle guerre civili di religione è stato, perciò, non la sparizione della guerra, ma la sua regolamentazione. Questo è accaduto perché dalla caratterizzazione del bellum, spiega Schmitt, è stata rimossa qualunque venatura religiosa e morale. Scompare, cioè, dalla scena delle guerre europee il concetto medievale di bellum iustum, per lasciare posto al bellum utrimque iustum. Il significato di questa locuzione stravolge il profilo che avevano avuto fino ad allora le guerre. Riconoscendosi infatti ciascuno Stato sovrano allo stesso titolo di qualsiasi altro, nessuno di questi è più legittimato a sacralizzare le ragioni della propria guerra. Viene così espunta dal lessico giuridico-militare interstatale la iusta causa, poiché da questo momento la iustitia “non consiste più nella concordanza con determinati contenuti di norme teologiche, morali o giuridiche, bensì nella qualità istituzionale e strutturale di entità politiche che si muovono guerra su uno stesso piano e che, malgrado la guerra, non si considerano reciprocamente come traditori e criminali, ma come iusti hostes”2. Un simile equilibrio consentì di erigere degli argini alla furia annientatrice della guerra, quantunque occorra precisare che non mancarono lotte spietate e massacri nei secoli successivi (una lugubre conferma furono di fatto i territori extra-europei). Era alle sole guerre combattute sul suolo europeo che erano stati posti dei freni, poiché finalmente la guerra era stata messa en forme. Con la sigla degli accordi di pace a Westfalia, pertanto, non si ponevano le condizioni per l’instaurazione ubique et semper della pace tra gli stati e non veniva neppure condannata la guerra in quanto tale. Quest’ultima diveniva piuttosto uno strumento giuridicamente legittimo e controllato di regolazione delle controversie tra stati. La pace in questo contesto non assumeva i tratti, come sarà per Kant, di quell’idea regolativa che avrebbe dovuto trovare una – seppur perennemente perfettibile - realizzazione nella storia, quanto invece quelli di una auspicabile, sebbene spesso non più che temporanea, assenza di conflittualità. Tutto ciò, però, durò poco più di due secoli. L’ordine interstatale creatosi nel 1648, nonostante le ‘parentesi’ della Rivoluzione francese3 e degli abomini perpetrati dagli europei durante le guerre 2 Schmitt 1991, 167. Galli 2009, 23, il quale spiega che, mentre con l’ordine politico pre-rivoluzionario era la politica a comandare sulla guerra, dal 1789 fino alla nascita dello Stato nazionale ottocentesco la politica era diventata un «alimento incessante» della guerra, individuando nel nemico “né l’alter ego né lo justus hostis, ma un nemico illegittimo, cioè ostile alla Verità, 3 coloniali4, era riuscito a reggersi e a conservarsi fino agli inizi della Grande Guerra. Si verifica in questa occasione un evento nel quale Schmitt rintraccia la genesi del nuovo “concetto discriminatorio di guerra”5: la dichiarazione del 2 aprile 1917, da parte del presidente Woodrow Wilson, dell’entrata in guerra degli Stati Uniti. Per la prima volta, dopo circa due secoli e mezzo, uno Stato – per giunta non europeo – adduce quale ius ad bellum il compito di difendere la “libertà dei popoli”, riaprendo un forziere che era stato sigillato e che conteneva l’ancipite arma messa al bando nel 1648: il bellum iustum. Nelle parole enfatiche del presidente Wilson si avverte infatti risuonare l’annuncio dell’inderogabilità della missione che il destino aveva assegnato – a suo dire - agli Stati Uniti, consistente nella “difesa dei principii di pace e di giustizia contro le Potenze autocratiche ed egoistiche”, impugnando “la lotta contro il nemico naturale della libertà […] per la democrazia, per il diritto dei popoli ad aver voce nei Consigli dei loro Governi, per la libertà delle piccole nazioni”6. Si è visto che grazie all’ordine interstatale sorto con la pace di Westfalia lo Stato nemico non era più classificato quale iniustus, costituendone anzi l’esatto contrario, cioè uno iustus hostis, di cui si riconoscevano la piena sovranità e i relativi corollari giuridico-politici. Ora, con l’accusa rivolta alla Germania di esser stata la causa dello scoppio delle ostilità e di aver voluto condurre una guerra contro l’umanità, la squalifica e la delegittimazione che investono il governo tedesco creano un cortocircuito foriero di conseguenze immani per l’ordine politico e giuridico internazionale. Il pericolo estremo soggiacente al ritorno nell’area politica, in nuove vesti, del bellum iustum, viene perspicuamente chiarito dalle parole di Danilo Zolo: Monopolizzare questo concetto nel corso di una guerra significa tentare di negare al nemico ogni qualità umana, dichiararlo hors-la-loi e hors-l'humanité, in modo da poter usare nei suoi confronti metodi spietati sino all'estrema disumanità. In questo senso, il termine ‘umanità’– il riferimento agli Stati Uniti è anche qui ovvio – è uno slogan etico-umanitario ‘particolarmente idoneo alle espansioni imperialistiche’7. E se vogliamo un trovare un caso bellico esemplificativo della crudeltà fino alla disumanità, ci basterà rivolgere lo sguardo all’epilogo della Seconda guerra mondiale rappresentato da quella mostruosa esecuzione militare che fu il ricorso all’arma atomica. La Guerra Fredda alla Libertà, all’Uguaglianza, ai Valori, e quindi esposto al rischio di venire criminalizzato, screditato moralmente, discriminato, disumanizzato”. 4 Losurdo 2016, 322-327. 5 Schmitt 2008, 4. 6 Wilson 1917. 7 Prefazione di Zolo in Schmitt 2008, XXII. Gli implacabili massacri, i genocidi e i bombardamenti che senza posa segnarono la prima metà del secolo XX spinsero la maggior parte degli stati del pianeta a istituire nel 1945 l’Organizzazione delle Nazioni Unite. Lo Statuto di quest’ultima, recitante che il suo scopo è “salvare le future generazioni dal flagello della guerra”, fu suggellato dal giuramento di tutti gli stati firmatari, i quali dichiararono di unire tutte le loro forze “per mantenere la pace e la sicurezza internazionale”8. Da questo momento la pace cessò di avere il significato meramente relativo di condizione temporanea di assenza di conflittualità, assurgendo invece al rango di valore assoluto e indiscutibile9. Se il suo opposto (la guerra) infatti incarnava il male (“il fardello") di cui sbarazzarsi, il bene non poteva che essere impersonato dalla pace. È vero che già con la creazione, dopo la Prima guerra mondiale, della Società delle Nazioni era stato fatto un tentativo di dare vita a un organismo internazionale che promuovesse la pace, ma era naufragato presto dinanzi all’erompere di ideologie e movimenti politici che erano animati dal proposito diametralmente opposto (nazionalsocialismo, fascismo). È dunque solo con l’istituzione dell’Onu che viene ufficialmente e internazionalmente riconosciuta l’assoluta superiorità assiologica della pace e la sua ‘vittoria’ sulla guerra. Attraverso la fondazione di una istituzione internazionale, alla cui creazione aveva concorso la maggior parte degli stati allora esistenti, sembrò concretizzarsi la possibilità di aver posto per davvero le fondamenta affinché il “flagello della guerra” scomparisse per sempre dalla storia e iniziasse la nuova era della Pace. I rapporti tra pace e guerra, infatti, subirono uno stravolgimento vistoso. Dinanzi alle disumane nefandezze e alle imperdonabili efferatezze verificatesi nei due conflitti mondiali, venne stabilito che la guerra in quanto tale dovesse essere estromessa non solo dal campo politico, bensì anche dal suo lessico. La parola guerra divenne un tabù, lasciando assisa sul trono sola e invitta la pace, dando però così vita a un culto ideologico della pace più che a una seria discussione sulle molteplici e spesso conflittuali modalità di intenderla e di realizzarla. Le speranze di aver posato il primo mattone dell’edificio della Pace si infransero poco dopo, perché il panorama politico vedeva allora opporsi i due grandi vincitori della Seconda guerra mondiale: da un lato gli Stati Uniti, dall’altro l’Urss, la cui competizione non fu meramente militare, ma anche tecnologica, economica, ideologica. È d’uopo notare, d’altronde, che le guerre non smisero mai di funestare il nostro pianeta, sebbene si trattasse di guerre che non videro mai uno scontro diretto tra gli Usa e l’Urss. Entrambe le super potenza infatti preferivano combattere guerre “su commissione – attraverso alleati locali (i cosiddetti proxies) supportati dai servizi segreti – magari combattute negli immediati sobborghi della periferia occidentale, a partire dal Medio Oriente o dal Centro America 8 9 Statuto delle Nazioni Unite 1945, 1. Cotta 1989, 15. sino all’Africa centrale e alla Corea”10. ‘Fedeli’ all’impegno contratto con la sottoscrizione della Carta delle Nazioni Unite, gli stati coinvolti negli conflitti non parlarono mai di guerra – basti pensare alla Guerra di Corea o a quella in Vietnam che erano ritenute ‘azioni di polizia’ sotto l’egida dell’Onu. Quindi, se a Westfalia si concludeva un arco temporale di conflitti sanguinosi, preservando però per ciascuno Stato il diritto di dichiarare guerra a un altro, riconoscendo cioè la legittimità di un certo tipo di guerra – basti pensare agli aspetti rituali che la contraddistinguevano, come la dichiarazione di guerra, la proporzione tra mezzi e fini, la distinzione tra belligeranti e non (queste ultime due facenti parte di quello che viene denominato ius in bello) – a San Francisco, dove gli stati si riunirono per firmare la Carta Onu, la guerra invece viene dichiaratamente condannata ed eliminata dal terreno concettuale e lessicale del campo giuridico-politico internazionale. La sola eccezione consentita riguardava la possibilità per uno Stato di difendersi in caso di aggressione da parte di un altro, ossia era legittimata unicamente la guerra di difesa. Così, sebbene durante il periodo del bipolarismo continuasse a esercitare la sua influenza il concetto discriminatorio del nemico – basti pensare all’epiteto usato da Reagan per descrivere l’Urss, qualificato come “l’Impero del male” – il disporre, da parte di entrambe le superpotenze, dell’arma nucleare fece sì che si costituisse un ‘ordine internazionale’, oscuramente ribattezzato “equilibrio del terrore”, che evitò lo scatenarsi di un terzo, immane, conflitto mondiale. Mentre l’equilibrio formatosi dopo la guerra dei trent’anni, con la pace di Westfalia, aveva messo fine a decenni di conflitti efferati e sanguinosi che sembrava potessero durare in indefinitum, l’equilibrio della seconda metà del XX secolo si fondava al contrario sulla paura che sarebbe bastato un nonnulla per cancellare qualunque forma di vita e disintegrare l’intero pianeta. La Guerra fredda o, se vogliamo, la Pace calda – poiché il termometro delle relazioni tra le due superpotenze non si abbassò mai fino alla soglia di distensione – sebbene non costituisse un periodo né di vera pace né di vera guerra, è stata “l’ultimo katechon, l’ultima ‘forza che trattiene’ l’avvento del tempo nuovo”11. Questo ordine internazionale teso e promiscuo riuscì con giganteschi sforzi a mantenersi in vita fino a che, prima con il simbolico avvenimento dell’abbattimento del muro di Berlino nel 1989, poi con la definitiva caduta del comunismo sovietico nel 1991, non si affacciò sulla scena del mondo sola e incontrastata l’unica superpotenza della terra: gli Stati Uniti. L’unipolarità, che per molti rappresentava la sola alternativa possibile al caos12, divenne da quel momento la categoria distintiva della fisionomia delle relazioni internazionali. Tra i promotori teorici dell’interventismo e dell’internazionalismo degli Usa, ad esempio, possiamo ricordare Krauthammer e la critica nei confronti delle posizioni isolazioniste, che auspicavano l’abbandono dei ‘fardelli del passato’ e un pronto ritorno a ‘tempi normali’, in modo da 10 Fiorillo 2009, 145. Galli 2002, 53. 12 Krauthammer 1990/1991, 32. 11 riportare l’attenzione sugli interessi nazionali. Con realistico cinismo questi riconosceva che il multilateralismo necessario per conquistare consenso interno – e non solo - in verità non costituiva che una misura dissumultatrice (uno pseudo-multilateralismo) con la quale mascherare l’unilateralità delle operazioni americane. E aggiungeva addirittura - non essendo la stabilità internazionale un qualcosa di dato, ma frutto delle decisioni e delle azioni dell’unica superpotenza globale - di coltivare la speranza che l’America potesse continuare a nutrire la volontà di “guidare un mondo unipolare, stabilendo senza vergogna le regole dell’ordine mondiale e preparandosi a farle rispettare (corsivo mio)”13. Onu14, Nato, Usa Come opportunamente sottolineato da Samuel Huntington, nella società americana di allora si andò diffondendo la convinzione che fosse in atto una rivoluzione democratica universale e che in breve tempo la visione occidentale del concetto di diritti umani e le forme occidentali di democrazia politica avrebbero prevalso in tutto il mondo. Promuovere la diffusione della democrazia divenne quindi un obiettivo primario per gli occidentali, fatto proprio dall'amministrazione Bush allorché nell'aprile del 1990 il segretario di Stao James Baker, dichiarò che ‘Al di là del contenimento c'è la democrazia’, e che per il mondo post-Guerra fredda ‘il presidente Bush ha indicato quale nostra nuova missione la promozione e il consolidamento della democrazia’.15 La politica estera statunitense subì così una profonda metamorfosi, poiché l’obiettivo prioritario non era più contenere la minaccia del grande antagonista sovietico, ma diffondere e promuovere la cultura democratica in tutto il pianeta. Dissoltosi, però, il nemico per vincere il quale l’industria bellica, la diplomazia, l’intelligence e la propaganda ideologica degli Stati Uniti avevano febbrilmente lavorato, veniva meno il senso dell’esistenza di un’istituzione sorta nel 1949, poco dopo la cessazione della Seconda guerra mondiale: la Nato, un’organizzazione internazionale di collaborazione nel campo della difesa, il senso della cui esistenza era legato a doppio filo a quella dell’Unione Sovietica16. Una volta che l’Urss si era dissolta, quale senso avrebbe infatti potuto ancora avere la Nato, a maggior ragione per il fatto di presentarsi come un’alleanza con scopi difensivi? L’occasione ghiotta per rilegittimare dinanzi all’opinione pubblica mondiale l’insopprimibile Krauthammer 1990/1991, 33. Sulle contraddizioni intrinseche alla struttura organizzativa e decisionale dell’Onu vedi Colombo 2006, 266. 15 Huntington 1997, 281. 16 Zolo 2000, 61. 13 14 necessità dell’Alleanza Atlantica e per la sua trasformazione in senso proiettivo si presentò con la guerra del Kosovo. Dinanzi alle mostruosità delle epurazioni e alle atrocità perpetrate da parte degli eserciti serbi di Milosevic nei riguardi dei kosovari, l’Alleanza Atlantica finse di adoperarsi per trovare una soluzione pacifica al conflitto, partorendo la famigerata risoluzione di Rambouillet. Accettarla avrebbe significato per Milosevic arrendersi immediatamente e acconsentire a una palese occupazione militare da parte della Nato. Di fronte al prevedibile – e, molto probabilmente, previsto – rifiuto da parte di Milosevic, le forze militari dell’Alleanza Atlantica si lanciarono in una offensiva, durata due mesi, che vide l’utilizzo di cluster-bombs, vietate dalle convenzioni internazionali, e di proiettili all’uranio impoverito. Vennero distrutti ospedali, scuole, acquedotti, asili e furono bombardati treni con civili e profughi in fuga. L’attacco della Nato nella guerra del Kosovo rappresentò uno scandalo, poiché per la prima volta dal 1945 erano stati deliberatamente e sfacciatamente violati i trattati internazionali e l’iter legale necessario per ottenere l’autorizzazione di un intervento militare17. Con la violazione delle norme prescritte dall’Onu, il dispositivo del bellum iustum, ‘tenuto a freno’ nell’era bipolare, creò un nuovo, pericoloso, precedente giuridico. Tant’è che il progressivo rafforzamento della Nato, il cui ‘socio di maggioranza’ erano – e restano – gli Stati Uniti, l’inesorabile esautorazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per opera dell’Alleanza Atlantica, e lo scioglimento delle Repubbliche sovietiche lasciarono nitidamente intravedere che il reale arbitro delle relazioni internazionali e il ‘paladino della giustizia’, dietro la maschera della Nato, erano in realtà solo gli Stati Uniti18. Il consacramento di questa missione cosmico-storica avvenne l’indomani dell’attacco alle Torri Gemelle del 11 settembre 2001. Le conseguenze provocate da questo attentato hanno segnato una nuova tappa nel cammino della storia del diritto internazionale della guerra e della pace. Da questo evento trasse la scaturigine, in seno alla fucina politico-giuridica statunitense, il Patriot Act, che si iscrive perfettamente nella più ampia concezione della “guerra preventiva” di stampo americano, dottrina che prevede che, qualora venga accertata la presenza di una potenziale minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale (cellule terroristiche, armi batteriologiche, proliferazione nucleare) all’interno di uno Stato, diviene legittimo ricorrere a qualunque mezzo per fermarla, prima ancora che l’attacco possa essere sferrato. A seguito di questa nuova creazione politico-giuridica: 17 Crudeltà immani erano già state compiute durante la prima guerra del Golfo, quando con la Desert Storm furono ammazzati durante gli attacchi della Nato civili e militari indistintamente. Ma quella guerra beneficiava ancora dell’approvazione del Consiglio delle Nazioni Unite. Con la guerra in Kosovo la Nato non ha neppure tentato di trovare in qualche modo una giustificazione che permettesse di iscrivere il suo attacco all’interno di un repertorio anche solo vagamente legittimabile dalle risoluzioni Onu. Vedi Zolo 2000, 84. 18 Basti pensare alla decisione presa autonomamente, assieme alla Gran Bretagna, di invadere l’Iraq nel 2003. Cf. Dal Lago, 2003, 48. A tal proposito riportiamo la perentoria affermazione presente in Krauthammer 1990/1991, 25: “The United Nations is guarantor of nothing. Except in a formal sense, it can hardly be said to exist”. La forbice tra guerra vecchia e nuove guerre finisce per rinchiudersi, spingendo addirittura a ritenere che la scomparsa delle guerre d’antan abbia prodotto una situazione nella quale pace e guerra non sono più distinguibili. E il passaggio per questa conclusione, paradossalmente, è stato il terrorismo che, come anello mancante di una catena, è riuscito a saldare interno ed esterno, pace e guerra, in una fusione di elementi magmatici e inestricabili di cui non si riesce più farsi una ragione.19 Ed è da questo momento che gli Usa – sebbene lo praticassero già da tempo, ammantandosi con le vesti di legittimità internazionale garantite dall’Onu e, in qualche modo, poi dalla Nato – si arrogano il diritto erga omnes di essere lo sceriffo del mondo. Guerra globale “Nell’età globale – con un crescendo che va dalla guerra del Golfo attraverso le guerre balcaniche degli anni Novanta e che culmina con l’11 settembre – si manifesta anzi una nuova figura della guerra”20, la guerra globale. Si tratta di una “guerra di tipo nuovo, postmoderna; una guerra senza frontiere”21. “Alla guerra globale, priva di fronti e di eserciti regolari, incapace di distinguere fra nemico e criminale, fra civile e militare, fra pace e guerra, si è cercato e si cerca di rispondere in vari modi, di trasformarla in un diverso tipo di guerra, più comprensibile e più gestibile”22. Gli Usa, che ne rappresentano lo stratega principale – sebbene avviati da tempo verso una fase di irreversibile declino – hanno cercato di rendere la guerra globale “una guerra al terrorismo, che sia in grado di stabilire una chiara differenza fra ‘noi’ e ‘loro’”23. Il terrorista, però, è un nemico sfuggente, deterritorializzato, di difficile categorizzazione giuridica e politica, che assume sembianze similari alle nostre e che, soprattutto, ci porta ad adoperare gli stessi mezzi terroristici contro di lui24. Il suo essere proteiforme, la sua capacità di assomigliarci e di confondersi con noi ha fatto sì che progressivamente si producesse e diffondesse a macchio d’olio un clima di insicurezza. Dato che il nemico si può celare dietro il volto più innocuo e impensabile, la sicurezza del mondo liberale è – deve essere percepita? - perennemente a rischio. Ciò non ha fatto altro che porre le basi per l’imporsi di una condizione di “guerra permanente”25. E la dichiarazione di guerra al terrore, che rappresenta una delle declinazioni possibili della guerra permanente (poiché in questo caso il ‘nemico è il terrore’, domani sarà qualcosa 19 Colombo 2006. Galli 2002, 52-53. 21 Galli 2002, 54. 22 Galli 2009, 216. 23 Galli 2009, 216. 24 Galli 2009, 216. 25 Colombo 2022, 25. 20 di ancor meno afferrabile), è una formula doppiamente contraddittoria e latrice di insicurezza. Da un lato perché, mentre la guerra classicamente intesa si ingaggia solamente con un nemico chiaramente identificabile, contro cui si dirigono operazioni militari in un determinato spazio (il cosiddetto ‘teatro di guerra’) e per un limitato (non indefinito) intervallo di tempo, ora viene cancellato qualsiasi limite temporale, spaziale e militare. Dall’altro perché, trasformando l’intero pianeta in un potenziale campo di battaglia, in cui – trattandosi di guerra – è lecito ricorrere a mezzi che in tempi di pace non è possibile utilizzare, si finisce con il provocare e diffondere un terrore ben maggiore di quello da cui inizialmente si intendeva proteggere. Alla base della dissoluzione della distinzione tra pace e guerra, va rintracciato un radicale mutamento del concetto di nemico. Nella formulazione classica, il nemico era l’esterno per eccellenza, anzi era la sua “estraneità a fare della guerra, propriamente, una guerra”26. Con la fine dell’era bipolare e l’imposizione dell’unipolare modello liberale statunitense, “tutti i nemici diventano per definizione interni: ‘interni’ a un complesso comune rappresentato di volta in volta come ‘comunità internazionale’, ‘civiltà’ o ‘umanità’; ma sempre, in quanto interni, illegittimi”27. Proprio perché i nemici sono squalificati come illegittimi, diviene ora legittimo ricorrere a qualunque mezzo a disposizione per annientarli, ovunque essi si trovino, facendo uso di armi proibite, non osservando le norme sui diritti dei prigionieri di guerra, distruggendo infrastrutture civili, mietendo sempre più vittime tra gli innocenti28. Contro un nemico di tal genere non è più possibile, perciò, il ricorso alla guerra, dato che non esiste più un ‘esterno’, di modo che il globo viene trattato come un immenso spazio liberale il cui ‘sovrano’ sono gli Stati Uniti. Questi – sebbene non solo loro29 – hanno infatti smesso di dichiarare la guerra, preferendo adoperare oblique perifrasi quali “operazioni di polizia, di azioni militari di legittima difesa, o di interventi armati nello spazio e nel tempo”30. L’apparentemente innocua differenziazione terminologica nasconde infatti una intenzione non solo nient’affatto pacificista, ma al contrario subdolamente strategica e prevaricatrice. Trattandosi di azioni di polizia, diviene possibile non coinvolgere gli organi rappresentativi dei paesi facenti parte delle rispettive alleanze per autorizzare le operazioni, causando una silenziosa e catastrofica esautorazione dei parlamenti. La scelta dell’espressione “guerra al terrore” trova pertanto la sua spiegazione a partire dal divieto imposto dal diritto internazionale di aggredire o di dichiarare guerra 26 Colombo 2022, 189 Colombo 2022, 189. 28 Vedi Kaldor 1999, 117, la quale rileva come, tra l’inizio del XX secolo e la Seconda guerra mondiale, le vittime in guerra erano per l’80-90 per cento militari; mentre, nel corso della Seconda guerra mondiale la percentuale dei civili morti nel corso del conflitto salì al 50% per arrivare nel corso delle guerre dopo il 1990 all’80%”. 29 Basti pensare al rifiuto della Russia di chiamare guerra quella che sta combattendo, facendo invece ricorso all’espressione “operazione militare speciale”. 30 Cassese 1999, 48. 27 a un’entità polito-giuridica, ragion per cui gli Stati Uniti non possono formalmente risultare aggressori in caso di primo attacco contro una minaccia terrorista o contro una potenzialmente tale. Polizia e sicurezza Con la guerra del Kosovo (1999), con quella in Afghanistan (2001) e infine con la seconda guerra del Golfo (2003, in Iraq) è venuto definitivamente meno uno dei pochi, sebbene preziosissimi, guadagni del diritto internazionale: la distinzione tra belligeranti e non. Lo ius in bello è stato così sacrificato sull’altare della superiorità morale dello ius ad bellum. E dietro l’apparente diversità delle strategie di legittimazione della guerra (ius ad bellum), in realtà gli Stati Uniti hanno fatto puntualmente ricorso al medesimo registro. In alcuni casi (come in Iraq nel 1991 e in Ucraina oggi), il ricorso diretto o indiretto all’uso della forza è avvenuto in nome della difesa del diritto internazionale, in altri (come in Somalia, a Haiti, in BosniaErzegovina, in Kosovo e in Libia) in nome di ragioni umanitarie [...]. Ma, in tutti i casi, la legittimazione dell’interventismo militare delle grandi potenze democratiche non ha potuto prescindere da un richiamo almeno cerimoniale alla grammatica della guerra giusta.31 Le ragioni – perlopiù pretestuose – in nome delle quali “lo sceriffo del mondo” è intervenuto nei conflitti armati summenzionati hanno arrecato una ferita al tessuto del diritto internazionale, o meglio, hanno aperto una voragine che ha finito con il subordinare il ‘politico’ e il diritto alla morale. Per mezzo di questa inversione gerarchica accade che “la moralizzazione della guerra diviene il vettore più potente di polemicità: la morale, da altro del politico, si fa incarnazione più nichilistica e distruttiva del politico”32. Tutto ciò permette, inoltre, di intuire con inequivocabile chiarezza l’equiparazione, da parte degli Usa, delle vicende internazionali a questioni di propria politica interna. Gli Stati Uniti cadono così nella palese contraddizione di voler essere i garanti della sicurezza di un mondo che loro stessi rendono instrinsecamente insicuro33. Se qualsiasi azione, gesto, dichiarazione da parte di uno Stato o di un gruppo politico all’interno di uno Stato straniero può essere interpretabile come una potenziale minaccia alla sicurezza internazionale, poiché devia dai ristretti parametri liberali imposti dagli Usa (modificati ogni volta alla bisogna), non potrà che regnare sine fine 31 Colombo 2022, 167. F. Mancuso 2003. 33 Si pensi al concetto di "Caoslandia", introdotto in Italia dalla rivista Limes per riferirsi alla politica estera inaugurata dal Pentagono, dopo gli attentati dell’11 settembre, su iniziativa di Donald Rumsfeld e dall’ammiraglio Arthur Cebrowsky e dettagliata da Thomas Barnett, assistente dell’ammiraglio Cebrowski, in The Pentagon’s New Map. 32 l’insicurezza globale e altrettanto permanente sarà la necessità di un gendarme del globo. Conveniamo perciò con Colombo, quando afferma che “l’aspirazione alla sicurezza assoluta si trasforma in una ricetta infallibile per la frustrazione. [...]. Una promessa irrealistica di sicurezza trascina inevitabilmente con sé una percezione esagerata dell’insicurezza”34. Che la guerra sia polizia internazionale significa, inoltre, che soltanto uno tra i due (o più) schieramenti in conflitto beneficia del crisma della giustizia. Anzi, a rigore solo uno può legittimamente rappresentarne il difensore e il custode, delegittimando in questo modo a tal punto il nemico da non renderlo neppure più tale, cioè un nemico in senso politico, apparentandolo piuttosto a una figura priva di politicità, bisognosa soltanto di “un’azione curativo-repressiva”35 per poter essere riammessa nel solo ordinamento politico-giuridico riconosciuto giusto. Con la metamorfosi della guerra di riflesso è avvenuto un mutamento anche nel volto della pace. Essa infatti non rappresenta più il reale obiettivo degli interventi militari. Proprio perché la guerra è 'scomparsa’, scompare anche la pace che ne costituiva il fine, di modo che quest’ultima si è trasfigurata in sicurezza internazionale, seppur formaliter vengano ancora proclamati scopi di peacekeeping o peace-building. Così, il binomio enunciato dalla Carta delle Nazioni Unite (pace e sicurezza), rappresentante il fine ultimo della sua esistenza, si è trasformato in un monomio imperniato sulla sicurezza, inghiottendo completamente in sé la pace. Tuttavia, proprio l’indeterminatezza della sfera dei diritti umani cui gli Stati Uniti si sono appellati per intromettersi nei vari conflitti che sono stati prima ricordati, ha provocato una eterogenesi dei fini che le operazioni di polizia internazionale si erano dati come obiettivo. Se l’ordinamento internazionale, in particolar modo lo ius cogens che proibisce l’utilizzo della forza quale mezzo di risoluzione dei conflitti – eccezion fatta per i casi di legittima difesa in caso di aggressione – può essere violato non appena si paventi anche solo la minaccia di un pericolo, essendoci potenze (Russia, Cina, India) che non riconoscono come propri quei diritti umani che per gli occidentali sono invece universali36, è inevitabile che il pericolo del conflitto armato diventi perennemente incombente. La missione di ergersi a unici custodi della pace e della sicurezza internazionale ha così prodotto una nefasta condizione di insicurezza internazionale. Pace, giustizia, sicurezza Si deve sottolineare come la metamorfosi della pace in sicurezza sia la conseguenza della vittoria degli Stati Uniti sull’Unione Sovietica, quantunque questa si sia dissolta per un proprio suicidio 34 Colombo 2022, 46-47. Colombo 2022, 180. 36 Zolo 2000, 108. 35 piuttosto che a causa di una sconfitta militare. Negli anni più aspri del confronto tra le due superpotenze, il registro linguistico e comunicativo costituiva la primaria e più visibile arma di lotta per entrambe. Come ci fa notare Waever, prima degli anni Ottanta la pace era lo stemma del socialismo reale di marca sovietica, mentre la sicurezza quello del liberalismo democratico americano. Con il concludersi della Guerra Fredda si verifica qualcosa che di primo acchito parrebbe contraddire la tesi che qui abbiamo tentato di esporre, ma al contrario la invera e la corrobora. Non credendo più possibile il profilarsi di reali minacce all’ordine unipolare e non dovendo più assecondare strategie di contenimento, gli Usa credevano che il mondo fosse finalmente stato messo ‘al sicuro’. Si trattava ora di guadagnare i territori fino ad allora sottoposti al dominio comunista russo. E proprio contrassegnando come guerre i conflitti sorti nei Balcani, il registro governativo statunitense, così attento fino ad allora a evitare di utilizzare la parola del nemico, venne stravolto. Da allora l’appello alla pace divenne lo scopo ultimo della politica estera a stelle e strisce (“enduring peace must be our mission”37). Il ricorso al lemma sicurezza venne così scalzato, passando a significare qualcosa di più affine alla generale preoccupazione dei rischi della società38. Ma tale scambio linguistico è solo apparente, perché, celati dietro l’enfasi retorica dell’avvento dell’era della realizzazione della pace, si nascondevano invece i chiari segni della fusione, o meglio, della identificazione di pace e sicurezza. La pace che di volta in volta gli Stati Uniti hanno dichiarato di voler realizzare non aveva nulla delle tinte irenistico-ecumeniche in cui intingevano la bandiera issata durante le operazioni militari. La loro missione ‘salvifica’ è stata dettata unicamente da interessi strategici, “per qualche politica di isolamento, di intervento militare o, al punto più estremo, di regime-change”39. La pace è divenuta così quell’instrumentum belli che nelle pagine precedenti abbiamo tentato di analizzare, disseppellendo le radici storiche e geopolitiche che hanno presieduto alla sua torsione. Rebus sic stantibus, a nostro avviso non riesce persuasiva la proposta di chi rileva come il nuovo approccio ermeneutico del diritto internazionale non limiti più la definizione della pace all’interno di una sfera semantica “negativa”40 (dove pace e sicurezza formano un’endiadi41), ossia quella che Bobbio ha circoscritto al suo significato tecnico-giuridico, riassumibile nel “mantenimento” della situazione internazionale sorta l’indomani della fine della Seconda guerra mondiale. Il nuovo concetto di pace avrebbe assunto caratteristiche sintetizzabili nei seguenti punti42: 1) il termine “mantenimento” non può essere più riducibile alla custodia dello status quo; 2) il valore della pace Bush 1991. Waever 2004, 63. 39 Colombo 2022, 11. 40 Viola 2005, 27 41 Viola 2005, 499. 42 Viola 2005, 50. 37 38 va assumendo una sua specificità contenutistica, distinguendosi da quello della sicurezza e avvicinandosi a quello della giustizia; 3) la cessazione del ruolo di valore primario della sicurezza nella definizione della pace43. Chi sostiene questo nuovo approccio esegetico ritiene perciò inevitabile adeguarsi alla rotta presa dalla prassi comunitaria internazionale, che ha rifidanzato guerra e giustizia, spalancando così le porte al tempo nuovo della “pace giusta”44. Alla luce di quanto è stato argomentato finora, dovremo però fare due precisazioni che non ci permetteranno di ritenere auspicabile la proposta della pace giusta. Quest’ultima ipotesi sostiene che la prassi della comunità statale internazionale ha fatto sì che la pace si disancorasse dal rapporto sororale con la sicurezza per legarsi alla sfera dei diritti umani e della giustizia, ma è vero piuttosto il contrario. Tutte le guerre, dirette o non, a partire dal 1991 sono state legittimate tramite l’appello alla giustizia e alla difesa dei diritti umani. Perciò, lungi dal favorire una interpretazione risolutrice, “il richiamo alla giustizia ha l’effetto di dissolverla o, più precisamente, di trasfigurarla nel suo opposto”45. È stata, infatti, proprio la necessità di intervenire nei paesi in cui venivano conculcati i diritti umani, ossia in nome della giustizia, a provocare immani conseguenze sul piano sociale, politico e ambientale. È in nome della giustizia che la pace si è trasformata in sicurezza poliziesca. Volendo parafrasare il detto di Tacito, potremmo affermare che gli Stati Uniti insecuritatem faciunt iustitiam appellant. Se non vogliamo che la guerra, mascherata sotto le forme umanitarie o poliziesche che abbiamo indicato, continui a essere la prima ratio di risoluzione delle controversie, bisogna allora ripensare ab imis il rapporto tra pace e giustizia, visto che i diritti umani non sono condivisi universalmente da tutti, o perlomeno non tutti gli stati addivengono con la gerarchia assiologica occidentale-statunitense. Infatti I non occidentali definiscono occidentale ciò che gli occidentali definiscono universale. Ciò che gli occidentali vedono come un utile mezzo di integrazione globale, ad esempio la diffusione planetaria dei mezzi di comunicazione, viene denunciato dai non occidentali come nefando imperialismo occidentale. L'integrazione del mondo in un'unica entità è percepita dai non occidentali come una minaccia.46 Nelle summenzionate parole di Huntington si può individuare “un riconoscimento di grande portata perché svela la falsa coscienza e l’ipocrisia della cultura occidentale, demistificandone la natura ideologica di copertura delle concrete pratiche di dominio”47. Questi, inoltre, mostra come il presunto universalismo dei diritti e dei valori non sia altro che “l'ideologia dominante dell'Occidente nei 43 Viola 2005, 50. Viola 2005 68. 45 Colombo 2022, 173. 46 Huntington 1997, 85. 47 Azzarà 2006, 853. 44 confronti delle culture non occidentali”48 e come l’imperialismo americano non possa essere che la logica, necessaria conseguenza dell’universalismo49. Se crediamo di anelare all’avvento nel mondo di una Pace secondo Giustizia, dobbiamo però essere consapevoli che, fintanto che gli stati agiranno in contrasto con le norme del diritto internazionale e fintanto che gli organismi internazionali resteranno preda delle decisioni dei loro membri militarmente più forti, la iusta pax recherà sempre con sé l’ombra del bellum iustum. Sarebbe allora forse giunto allora il momento di pensare una pace che non sia né meramente negativa (assenza momentanea di guerra), né asfitticamente securitaria, né – e qui forse il compito più difficile – monoliticamente iusta, aprendo alla possibilità di dare vita a delle paces iustae, provando così a esplorare un terreno in cui possano incontrarsi differenti concezioni di pace e giustizia, animate dal desiderio di individuare quei pochi valori, principi e diritti non negoziabili che permettano alla “tormentata marcia verso l’universalità” di liberarsi delle mistificazioni universalistiche dell’eccezionalismo americano e di lasciar esprimere le altre istanze sottese dalla particolarità delle altre culture. Ciascuna cultura reca con sé, però, il pericolo di innalzare la parzialità del proprio orizzonte valoriale a verità oggettiva e universale. Si rischierebbe così di assistere, a parti invertite, alla reviviscenza del medesimo atteggiamento prevaricatore degli Stati Uniti, al punto che non sarebbe impensabile che una potenza, qualora raggiunga un tale potere militare, oltre che economico e geopolitico, possa ricorrere alla forza e alla sua rete di alleanze per imporre la propria Weltanshacuung. Per scongiurare che una simile eventualità possa verificarsi, bisogna da un lato prendere consapevolezza e dichiarare apertis verbis che “l’universalismo occidentale si rivela ormai esaurito e inutile” e che va “sostituito con una diretta e aperta rivendicazione del particolarismo della civiltà occidentale”50; dall’altro è necessario prendere atto dell’ormai irreversibile tramonto di qualsiasi universalismo, incluso quello in statu nascenti che connota le rivendicazioni delle nuove emergenti potenze globali. Risulta a tal proposito pragmaticamente fruttifera la proposto di Salvatore Veca di una priorità metodologica del male sul bene, quale “premessa di qualsiasi tesi sui diritti umani e sulle ragioni del pluralismo morale”51. Non essendo infatti possibile fondare un universalismo, seppur minimale, su una qualche idea di ciò che è bene, la convergenza può allora essere trovata su ciò che è male. Il nostro compito consisterà così nell’ “accettare l'idea che dovremmo essere intransigenti con ciò che è male, non dovremmo praticare la tolleranza verso ciò che è male, nel senso che ho detto, e dovremmo nello stesso modo essere libertari verso ciò che variamente può essere per noi bene”52. Attraverso un lento e faticoso processo e negativo, perciò, si può nutrire la speranza di 48 Huntington 1997, 85. 49 Huntington 1996, 41. 50 Azzarà 2006, 853. 51 Veca 2003, 122. 52 Veca 2003, 130. costruire una rete di rapporti internazionali che non costringa più a sottostare ai valori impartiti da una potenza egemone e che per mezzo del dialogo possa costituire la base per l’inizio di un diverso, nuovo modo di convivere nel mondo. Bibliografia Azzarà, Stefano G. 2006. “La crisi della globalizzazione e il conlitto delle civiltà. Una lettura critica di Huntington” in Filosoia e globalizzazione, Domenico Losurdo, Stefano G. Azzarà, a cura di. Millepiani Editori: Pisa. Bush, George H. W. Transcript of President Bush's Address on End of the Gulf War, 6 Marzo 1991. Cassese, Antonio. 1999. I diritti umani nel mondo contemporaneo. Bari: Laterza. Cicerone, Marco Tullio. 1996. Le Filippiche, voll. II. Tr. it. Bruno Mosca. Milano: Oscar Mondadori. Colombo, Alessandro. 2006. La guerra ineguale. 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