Antonio Magariello
Guerra e pace: una metamorfosi
Abstract: We try to delineate both the metamorphosis of the clear-cut relationship between peace and war and
the semantic shift the latter have undergone. By reconsidering events since the birth of the modern state,
through the use of lenses bequeathed by Carl Schmitt, we show how the clear distinction between peace and
war has progressively faded to the point of eroding. Starting from the wars of the 1990s up to the most recent
ones, the US has progressively deprived both the UN and NATO of their authority, setting itself up as the
guardian of global law. No longer having an enemy of equal power to threaten it and expanding ever further
east, it has transformed peace into international security and war into an international police operation. Being,
in US narrative, a pacified and americanized world, war and peace have disappeared, being now only matters
of'US domestic politics'.
Key words: war, peace, security, enemy, US
In un celebre luogo delle Filippiche Cicerone tenta di delineare la fisionomia del rapporto tra guerra
e pace, affermando che inter bellum et pacem nihil medium1. Questa affermazione godrà di notevole
fortuna lungo i secoli successivi. Anzi, con sempre maggiore rigore e precisione la filosofia e il diritto
si sforzeranno di definire cosa siano la pace e la guerra, enucleandone le rispettive caratteristiche e
differenze. Avventurarsi in un excursus storiografico, che passi in rassegna anche solo le più note
teorizzazioni di questi due concetti, sarebbe un compito improbo e assolutamente non realizzabile in
poche pagine, senza far loro violenza. Ci atterremo, perciò, al più circoscritto scopo di mostrare come
il rapporto di mutua esclusione vigente tra guerra e pace, riassunto brillantemente dalla formulazione
ciceroniana, lentamente abbia cambiato volto. Se esso prevedeva che tra le due non potesse darsi un
tertium, prescrivendo così che all’esserci dell’una doveva corrispondere l’assentarsi dell’altra, qui si
cercherà di mostrare come alla luce degli accadimenti degli ultimi decenni, la nettezza della
distinzione tra guerra e pace si è progressivamente erosa, causando una sinistra metamorfosi dell’uso
e del significato di entrambe.
Dalla pace di Westfalia alla fine del secondo conflitto mondiale
1
Cicerone 1996, 54.
Nella ricostruzione giusfilosofica ideata da Carl Schmitt in Il nomos della terra viene avanzata una
esegesi del moderno rapporto tra diritto, politica e guerra, il cui inizio è collocato in un preciso
momento storico: la pace di Westfalia del 1648. Tramite questo accordo di pace viene ufficialmente
riconosciuto lo Stato come detentore supremo della sovranità, cioè quale autorità politica e giuridica
suprema, superiorem non recognoscens, comportando ciò l’interdizione per ogni Stato di interferire
negli affari di un altro Stato. L’esser tutti gli stati sovrani in maniera paritetica implica che ciascuno
è titolare in egual misura dello ius ad bellum. Uno degli esiti apparentemente paradossali della
cessazione delle guerre civili di religione è stato, perciò, non la sparizione della guerra, ma la sua
regolamentazione. Questo è accaduto perché dalla caratterizzazione del bellum, spiega Schmitt, è
stata rimossa qualunque venatura religiosa e morale. Scompare, cioè, dalla scena delle guerre europee
il concetto medievale di bellum iustum, per lasciare posto al bellum utrimque iustum. Il significato di
questa locuzione stravolge il profilo che avevano avuto fino ad allora le guerre. Riconoscendosi infatti
ciascuno Stato sovrano allo stesso titolo di qualsiasi altro, nessuno di questi è più legittimato a
sacralizzare le ragioni della propria guerra. Viene così espunta dal lessico giuridico-militare
interstatale la iusta causa, poiché da questo momento la iustitia “non consiste più nella concordanza
con determinati contenuti di norme teologiche, morali o giuridiche, bensì nella qualità istituzionale e
strutturale di entità politiche che si muovono guerra su uno stesso piano e che, malgrado la guerra,
non si considerano reciprocamente come traditori e criminali, ma come iusti hostes”2. Un simile
equilibrio consentì di erigere degli argini alla furia annientatrice della guerra, quantunque occorra
precisare che non mancarono lotte spietate e massacri nei secoli successivi (una lugubre conferma
furono di fatto i territori extra-europei). Era alle sole guerre combattute sul suolo europeo che erano
stati posti dei freni, poiché finalmente la guerra era stata messa en forme. Con la sigla degli accordi
di pace a Westfalia, pertanto, non si ponevano le condizioni per l’instaurazione ubique et semper della
pace tra gli stati e non veniva neppure condannata la guerra in quanto tale. Quest’ultima diveniva
piuttosto uno strumento giuridicamente legittimo e controllato di regolazione delle controversie tra
stati. La pace in questo contesto non assumeva i tratti, come sarà per Kant, di quell’idea regolativa
che avrebbe dovuto trovare una – seppur perennemente perfettibile - realizzazione nella storia, quanto
invece quelli di una auspicabile, sebbene spesso non più che temporanea, assenza di conflittualità.
Tutto ciò, però, durò poco più di due secoli. L’ordine interstatale creatosi nel 1648, nonostante le
‘parentesi’ della Rivoluzione francese3 e degli abomini perpetrati dagli europei durante le guerre
2
Schmitt 1991, 167.
Galli 2009, 23, il quale spiega che, mentre con l’ordine politico pre-rivoluzionario era la politica a comandare sulla
guerra, dal 1789 fino alla nascita dello Stato nazionale ottocentesco la politica era diventata un «alimento incessante»
della guerra, individuando nel nemico “né l’alter ego né lo justus hostis, ma un nemico illegittimo, cioè ostile alla Verità,
3
coloniali4, era riuscito a reggersi e a conservarsi fino agli inizi della Grande Guerra. Si verifica in
questa occasione un evento nel quale Schmitt rintraccia la genesi del nuovo “concetto discriminatorio
di guerra”5: la dichiarazione del 2 aprile 1917, da parte del presidente Woodrow Wilson, dell’entrata
in guerra degli Stati Uniti. Per la prima volta, dopo circa due secoli e mezzo, uno Stato – per giunta
non europeo – adduce quale ius ad bellum il compito di difendere la “libertà dei popoli”, riaprendo
un forziere che era stato sigillato e che conteneva l’ancipite arma messa al bando nel 1648: il bellum
iustum. Nelle parole enfatiche del presidente Wilson si avverte infatti risuonare l’annuncio
dell’inderogabilità della missione che il destino aveva assegnato – a suo dire - agli Stati Uniti,
consistente nella “difesa dei principii di pace e di giustizia contro le Potenze autocratiche ed
egoistiche”, impugnando “la lotta contro il nemico naturale della libertà […] per la democrazia, per
il diritto dei popoli ad aver voce nei Consigli dei loro Governi, per la libertà delle piccole nazioni”6.
Si è visto che grazie all’ordine interstatale sorto con la pace di Westfalia lo Stato nemico non era
più classificato quale iniustus, costituendone anzi l’esatto contrario, cioè uno iustus hostis, di cui si
riconoscevano la piena sovranità e i relativi corollari giuridico-politici. Ora, con l’accusa rivolta alla
Germania di esser stata la causa dello scoppio delle ostilità e di aver voluto condurre una guerra contro
l’umanità, la squalifica e la delegittimazione che investono il governo tedesco creano un cortocircuito
foriero di conseguenze immani per l’ordine politico e giuridico internazionale. Il pericolo estremo
soggiacente al ritorno nell’area politica, in nuove vesti, del bellum iustum, viene perspicuamente
chiarito dalle parole di Danilo Zolo:
Monopolizzare questo concetto nel corso di una guerra significa tentare di negare al nemico ogni qualità
umana, dichiararlo hors-la-loi e hors-l'humanité, in modo da poter usare nei suoi confronti metodi spietati sino
all'estrema disumanità. In questo senso, il termine ‘umanità’– il riferimento agli Stati Uniti è anche qui ovvio
– è uno slogan etico-umanitario ‘particolarmente idoneo alle espansioni imperialistiche’7.
E se vogliamo un trovare un caso bellico esemplificativo della crudeltà fino alla disumanità, ci
basterà rivolgere lo sguardo all’epilogo della Seconda guerra mondiale rappresentato da quella
mostruosa esecuzione militare che fu il ricorso all’arma atomica.
La Guerra Fredda
alla Libertà, all’Uguaglianza, ai Valori, e quindi esposto al rischio di venire criminalizzato, screditato moralmente,
discriminato, disumanizzato”.
4
Losurdo 2016, 322-327.
5 Schmitt 2008, 4.
6
Wilson 1917.
7
Prefazione di Zolo in Schmitt 2008, XXII.
Gli implacabili massacri, i genocidi e i bombardamenti che senza posa segnarono la prima metà del
secolo XX spinsero la maggior parte degli stati del pianeta a istituire nel 1945 l’Organizzazione delle
Nazioni Unite. Lo Statuto di quest’ultima, recitante che il suo scopo è “salvare le future generazioni
dal flagello della guerra”, fu suggellato dal giuramento di tutti gli stati firmatari, i quali dichiararono
di unire tutte le loro forze “per mantenere la pace e la sicurezza internazionale”8. Da questo momento
la pace cessò di avere il significato meramente relativo di condizione temporanea di assenza di
conflittualità, assurgendo invece al rango di valore assoluto e indiscutibile9. Se il suo opposto (la
guerra) infatti incarnava il male (“il fardello") di cui sbarazzarsi, il bene non poteva che essere
impersonato dalla pace. È vero che già con la creazione, dopo la Prima guerra mondiale, della Società
delle Nazioni era stato fatto un tentativo di dare vita a un organismo internazionale che promuovesse
la pace, ma era naufragato presto dinanzi all’erompere di ideologie e movimenti politici che erano
animati dal proposito diametralmente opposto (nazionalsocialismo, fascismo). È dunque solo con
l’istituzione dell’Onu che viene ufficialmente e internazionalmente riconosciuta l’assoluta superiorità
assiologica della pace e la sua ‘vittoria’ sulla guerra. Attraverso la fondazione di una istituzione
internazionale, alla cui creazione aveva concorso la maggior parte degli stati allora esistenti, sembrò
concretizzarsi la possibilità di aver posto per davvero le fondamenta affinché il “flagello della guerra”
scomparisse per sempre dalla storia e iniziasse la nuova era della Pace. I rapporti tra pace e guerra,
infatti, subirono uno stravolgimento vistoso. Dinanzi alle disumane nefandezze e alle imperdonabili
efferatezze verificatesi nei due conflitti mondiali, venne stabilito che la guerra in quanto tale dovesse
essere estromessa non solo dal campo politico, bensì anche dal suo lessico. La parola guerra divenne
un tabù, lasciando assisa sul trono sola e invitta la pace, dando però così vita a un culto ideologico
della pace più che a una seria discussione sulle molteplici e spesso conflittuali modalità di intenderla
e di realizzarla.
Le speranze di aver posato il primo mattone dell’edificio della Pace si infransero poco dopo, perché
il panorama politico vedeva allora opporsi i due grandi vincitori della Seconda guerra mondiale: da
un lato gli Stati Uniti, dall’altro l’Urss, la cui competizione non fu meramente militare, ma anche
tecnologica, economica, ideologica. È d’uopo notare, d’altronde, che le guerre non smisero mai di
funestare il nostro pianeta, sebbene si trattasse di guerre che non videro mai uno scontro diretto tra
gli Usa e l’Urss. Entrambe le super potenza infatti preferivano combattere guerre “su commissione –
attraverso alleati locali (i cosiddetti proxies) supportati dai servizi segreti – magari combattute negli
immediati sobborghi della periferia occidentale, a partire dal Medio Oriente o dal Centro America
8
9
Statuto delle Nazioni Unite 1945, 1.
Cotta 1989, 15.
sino all’Africa centrale e alla Corea”10. ‘Fedeli’ all’impegno contratto con la sottoscrizione della
Carta delle Nazioni Unite, gli stati coinvolti negli conflitti non parlarono mai di guerra – basti pensare
alla Guerra di Corea o a quella in Vietnam che erano ritenute ‘azioni di polizia’ sotto l’egida dell’Onu.
Quindi, se a Westfalia si concludeva un arco temporale di conflitti sanguinosi, preservando però per
ciascuno Stato il diritto di dichiarare guerra a un altro, riconoscendo cioè la legittimità di un certo
tipo di guerra – basti pensare agli aspetti rituali che la contraddistinguevano, come la dichiarazione
di guerra, la proporzione tra mezzi e fini, la distinzione tra belligeranti e non (queste ultime due facenti
parte di quello che viene denominato ius in bello) – a San Francisco, dove gli stati si riunirono per
firmare la Carta Onu, la guerra invece viene dichiaratamente condannata ed eliminata dal terreno
concettuale e lessicale del campo giuridico-politico internazionale. La sola eccezione consentita
riguardava la possibilità per uno Stato di difendersi in caso di aggressione da parte di un altro, ossia
era legittimata unicamente la guerra di difesa.
Così, sebbene durante il periodo del bipolarismo continuasse a esercitare la sua influenza il concetto
discriminatorio del nemico – basti pensare all’epiteto usato da Reagan per descrivere l’Urss,
qualificato come “l’Impero del male” – il disporre, da parte di entrambe le superpotenze, dell’arma
nucleare fece sì che si costituisse un ‘ordine internazionale’, oscuramente ribattezzato “equilibrio del
terrore”, che evitò lo scatenarsi di un terzo, immane, conflitto mondiale. Mentre l’equilibrio formatosi
dopo la guerra dei trent’anni, con la pace di Westfalia, aveva messo fine a decenni di conflitti efferati
e sanguinosi che sembrava potessero durare in indefinitum, l’equilibrio della seconda metà del XX
secolo si fondava al contrario sulla paura che sarebbe bastato un nonnulla per cancellare qualunque
forma di vita e disintegrare l’intero pianeta. La Guerra fredda o, se vogliamo, la Pace calda – poiché
il termometro delle relazioni tra le due superpotenze non si abbassò mai fino alla soglia di distensione
– sebbene non costituisse un periodo né di vera pace né di vera guerra, è stata “l’ultimo katechon,
l’ultima ‘forza che trattiene’ l’avvento del tempo nuovo”11. Questo ordine internazionale teso e
promiscuo riuscì con giganteschi sforzi a mantenersi in vita fino a che, prima con il simbolico
avvenimento dell’abbattimento del muro di Berlino nel 1989, poi con la definitiva caduta del
comunismo sovietico nel 1991, non si affacciò sulla scena del mondo sola e incontrastata l’unica
superpotenza della terra: gli Stati Uniti. L’unipolarità, che per molti rappresentava la sola alternativa
possibile al caos12, divenne da quel momento la categoria distintiva della fisionomia delle relazioni
internazionali. Tra i promotori teorici dell’interventismo e dell’internazionalismo degli Usa, ad
esempio, possiamo ricordare Krauthammer e la critica nei confronti delle posizioni isolazioniste, che
auspicavano l’abbandono dei ‘fardelli del passato’ e un pronto ritorno a ‘tempi normali’, in modo da
10
Fiorillo 2009, 145.
Galli 2002, 53.
12
Krauthammer 1990/1991, 32.
11
riportare l’attenzione sugli interessi nazionali. Con realistico cinismo questi riconosceva che il
multilateralismo necessario per conquistare consenso interno – e non solo - in verità non costituiva
che una misura dissumultatrice (uno pseudo-multilateralismo) con la quale mascherare l’unilateralità
delle operazioni americane. E aggiungeva addirittura - non essendo la stabilità internazionale un
qualcosa di dato, ma frutto delle decisioni e delle azioni dell’unica superpotenza globale - di coltivare
la speranza che l’America potesse continuare a nutrire la volontà di “guidare un mondo unipolare,
stabilendo senza vergogna le regole dell’ordine mondiale e preparandosi a farle rispettare (corsivo
mio)”13.
Onu14, Nato, Usa
Come opportunamente sottolineato da Samuel Huntington, nella società americana di allora si andò
diffondendo
la convinzione che fosse in atto una rivoluzione democratica universale e che in breve tempo la visione
occidentale del concetto di diritti umani e le forme occidentali di democrazia politica avrebbero prevalso in
tutto il mondo. Promuovere la diffusione della democrazia divenne quindi un obiettivo primario per gli
occidentali, fatto proprio dall'amministrazione Bush allorché nell'aprile del 1990 il segretario di Stao James
Baker, dichiarò che ‘Al di là del contenimento c'è la democrazia’, e che per il mondo post-Guerra fredda ‘il
presidente Bush ha indicato quale nostra nuova missione la promozione e il consolidamento della
democrazia’.15
La politica estera statunitense subì così una profonda metamorfosi, poiché l’obiettivo prioritario
non era più contenere la minaccia del grande antagonista sovietico, ma diffondere e promuovere la
cultura democratica in tutto il pianeta. Dissoltosi, però, il nemico per vincere il quale l’industria
bellica, la diplomazia, l’intelligence e la propaganda ideologica degli Stati Uniti avevano
febbrilmente lavorato, veniva meno il senso dell’esistenza di un’istituzione sorta nel 1949, poco dopo
la cessazione della Seconda guerra mondiale: la Nato, un’organizzazione internazionale di
collaborazione nel campo della difesa, il senso della cui esistenza era legato a doppio filo a quella
dell’Unione Sovietica16. Una volta che l’Urss si era dissolta, quale senso avrebbe infatti potuto ancora
avere la Nato, a maggior ragione per il fatto di presentarsi come un’alleanza con scopi difensivi?
L’occasione ghiotta per rilegittimare dinanzi all’opinione pubblica mondiale l’insopprimibile
Krauthammer 1990/1991, 33.
Sulle contraddizioni intrinseche alla struttura organizzativa e decisionale dell’Onu vedi Colombo 2006, 266.
15
Huntington 1997, 281.
16
Zolo 2000, 61.
13
14
necessità dell’Alleanza Atlantica e per la sua trasformazione in senso proiettivo si presentò con la
guerra del Kosovo. Dinanzi alle mostruosità delle epurazioni e alle atrocità perpetrate da parte degli
eserciti serbi di Milosevic nei riguardi dei kosovari, l’Alleanza Atlantica finse di adoperarsi per
trovare una soluzione pacifica al conflitto, partorendo la famigerata risoluzione di Rambouillet.
Accettarla avrebbe significato per Milosevic arrendersi immediatamente e acconsentire a una palese
occupazione militare da parte della Nato. Di fronte al prevedibile – e, molto probabilmente, previsto
– rifiuto da parte di Milosevic, le forze militari dell’Alleanza Atlantica si lanciarono in una offensiva,
durata due mesi, che vide l’utilizzo di cluster-bombs, vietate dalle convenzioni internazionali, e di
proiettili all’uranio impoverito. Vennero distrutti ospedali, scuole, acquedotti, asili e furono
bombardati treni con civili e profughi in fuga. L’attacco della Nato nella guerra del Kosovo
rappresentò uno scandalo, poiché per la prima volta dal 1945 erano stati deliberatamente e
sfacciatamente violati i trattati internazionali e l’iter legale necessario per ottenere l’autorizzazione
di un intervento militare17. Con la violazione delle norme prescritte dall’Onu, il dispositivo del bellum
iustum, ‘tenuto a freno’ nell’era bipolare, creò un nuovo, pericoloso, precedente giuridico. Tant’è che
il progressivo rafforzamento della Nato, il cui ‘socio di maggioranza’ erano – e restano – gli Stati
Uniti, l’inesorabile esautorazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per opera
dell’Alleanza Atlantica, e lo scioglimento delle Repubbliche sovietiche lasciarono nitidamente
intravedere che il reale arbitro delle relazioni internazionali e il ‘paladino della giustizia’, dietro la
maschera della Nato, erano in realtà solo gli Stati Uniti18. Il consacramento di questa missione
cosmico-storica avvenne l’indomani dell’attacco alle Torri Gemelle del 11 settembre 2001. Le
conseguenze provocate da questo attentato hanno segnato una nuova tappa nel cammino della storia
del diritto internazionale della guerra e della pace. Da questo evento trasse la scaturigine, in seno alla
fucina politico-giuridica statunitense, il Patriot Act, che si iscrive perfettamente nella più ampia
concezione della “guerra preventiva” di stampo americano, dottrina che prevede che, qualora venga
accertata la presenza di una potenziale minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale (cellule
terroristiche, armi batteriologiche, proliferazione nucleare) all’interno di uno Stato, diviene legittimo
ricorrere a qualunque mezzo per fermarla, prima ancora che l’attacco possa essere sferrato. A seguito
di questa nuova creazione politico-giuridica:
17
Crudeltà immani erano già state compiute durante la prima guerra del Golfo, quando con la Desert Storm furono
ammazzati durante gli attacchi della Nato civili e militari indistintamente. Ma quella guerra beneficiava ancora
dell’approvazione del Consiglio delle Nazioni Unite. Con la guerra in Kosovo la Nato non ha neppure tentato di trovare
in qualche modo una giustificazione che permettesse di iscrivere il suo attacco all’interno di un repertorio anche solo
vagamente legittimabile dalle risoluzioni Onu. Vedi Zolo 2000, 84.
18
Basti pensare alla decisione presa autonomamente, assieme alla Gran Bretagna, di invadere l’Iraq nel 2003. Cf. Dal
Lago, 2003, 48. A tal proposito riportiamo la perentoria affermazione presente in Krauthammer 1990/1991, 25: “The
United Nations is guarantor of nothing. Except in a formal sense, it can hardly be said to exist”.
La forbice tra guerra vecchia e nuove guerre finisce per rinchiudersi, spingendo addirittura a ritenere che la
scomparsa delle guerre d’antan abbia prodotto una situazione nella quale pace e guerra non sono più
distinguibili. E il passaggio per questa conclusione, paradossalmente, è stato il terrorismo che, come anello
mancante di una catena, è riuscito a saldare interno ed esterno, pace e guerra, in una fusione di elementi
magmatici e inestricabili di cui non si riesce più farsi una ragione.19
Ed è da questo momento che gli Usa – sebbene lo praticassero già da tempo, ammantandosi con le
vesti di legittimità internazionale garantite dall’Onu e, in qualche modo, poi dalla Nato – si arrogano
il diritto erga omnes di essere lo sceriffo del mondo.
Guerra globale
“Nell’età globale – con un crescendo che va dalla guerra del Golfo attraverso le guerre balcaniche
degli anni Novanta e che culmina con l’11 settembre – si manifesta anzi una nuova figura della
guerra”20, la guerra globale. Si tratta di una “guerra di tipo nuovo, postmoderna; una guerra senza
frontiere”21. “Alla guerra globale, priva di fronti e di eserciti regolari, incapace di distinguere fra
nemico e criminale, fra civile e militare, fra pace e guerra, si è cercato e si cerca di rispondere in vari
modi, di trasformarla in un diverso tipo di guerra, più comprensibile e più gestibile”22. Gli Usa, che
ne rappresentano lo stratega principale – sebbene avviati da tempo verso una fase di irreversibile
declino – hanno cercato di rendere la guerra globale “una guerra al terrorismo, che sia in grado di
stabilire una chiara differenza fra ‘noi’ e ‘loro’”23. Il terrorista, però, è un nemico sfuggente, deterritorializzato, di difficile categorizzazione giuridica e politica, che assume sembianze similari alle
nostre e che, soprattutto, ci porta ad adoperare gli stessi mezzi terroristici contro di lui24. Il suo essere
proteiforme, la sua capacità di assomigliarci e di confondersi con noi ha fatto sì che progressivamente
si producesse e diffondesse a macchio d’olio un clima di insicurezza. Dato che il nemico si può celare
dietro il volto più innocuo e impensabile, la sicurezza del mondo liberale è – deve essere percepita?
- perennemente a rischio. Ciò non ha fatto altro che porre le basi per l’imporsi di una condizione di
“guerra permanente”25. E la dichiarazione di guerra al terrore, che rappresenta una delle declinazioni
possibili della guerra permanente (poiché in questo caso il ‘nemico è il terrore’, domani sarà qualcosa
19
Colombo 2006.
Galli 2002, 52-53.
21
Galli 2002, 54.
22
Galli 2009, 216.
23
Galli 2009, 216.
24
Galli 2009, 216.
25
Colombo 2022, 25.
20
di ancor meno afferrabile), è una formula doppiamente contraddittoria e latrice di insicurezza. Da un
lato perché, mentre la guerra classicamente intesa si ingaggia solamente con un nemico chiaramente
identificabile, contro cui si dirigono operazioni militari in un determinato spazio (il cosiddetto ‘teatro
di guerra’) e per un limitato (non indefinito) intervallo di tempo, ora viene cancellato qualsiasi limite
temporale, spaziale e militare. Dall’altro perché, trasformando l’intero pianeta in un potenziale campo
di battaglia, in cui – trattandosi di guerra – è lecito ricorrere a mezzi che in tempi di pace non è
possibile utilizzare, si finisce con il provocare e diffondere un terrore ben maggiore di quello da cui
inizialmente si intendeva proteggere.
Alla base della dissoluzione della distinzione tra pace e guerra, va rintracciato un radicale
mutamento del concetto di nemico. Nella formulazione classica, il nemico era l’esterno per
eccellenza, anzi era la sua “estraneità a fare della guerra, propriamente, una guerra”26. Con la fine
dell’era bipolare e l’imposizione dell’unipolare modello liberale statunitense, “tutti i nemici
diventano per definizione interni: ‘interni’ a un complesso comune rappresentato di volta in volta
come ‘comunità internazionale’, ‘civiltà’ o ‘umanità’; ma sempre, in quanto interni, illegittimi”27.
Proprio perché i nemici sono squalificati come illegittimi, diviene ora legittimo ricorrere a qualunque
mezzo a disposizione per annientarli, ovunque essi si trovino, facendo uso di armi proibite, non
osservando le norme sui diritti dei prigionieri di guerra, distruggendo infrastrutture civili, mietendo
sempre più vittime tra gli innocenti28. Contro un nemico di tal genere non è più possibile, perciò, il
ricorso alla guerra, dato che non esiste più un ‘esterno’, di modo che il globo viene trattato come un
immenso spazio liberale il cui ‘sovrano’ sono gli Stati Uniti. Questi – sebbene non solo loro29 – hanno
infatti smesso di dichiarare la guerra, preferendo adoperare oblique perifrasi quali “operazioni di
polizia, di azioni militari di legittima difesa, o di interventi armati nello spazio e nel tempo”30.
L’apparentemente innocua differenziazione terminologica nasconde infatti una intenzione non solo
nient’affatto pacificista, ma al contrario subdolamente strategica e prevaricatrice. Trattandosi di
azioni di polizia, diviene possibile non coinvolgere gli organi rappresentativi dei paesi facenti parte
delle rispettive alleanze per autorizzare le operazioni, causando una silenziosa e catastrofica
esautorazione dei parlamenti. La scelta dell’espressione “guerra al terrore” trova pertanto la sua
spiegazione a partire dal divieto imposto dal diritto internazionale di aggredire o di dichiarare guerra
26
Colombo 2022, 189
Colombo 2022, 189.
28
Vedi Kaldor 1999, 117, la quale rileva come, tra l’inizio del XX secolo e la Seconda guerra mondiale, le vittime in
guerra erano per l’80-90 per cento militari; mentre, nel corso della Seconda guerra mondiale la percentuale dei civili morti
nel corso del conflitto salì al 50% per arrivare nel corso delle guerre dopo il 1990 all’80%”.
29
Basti pensare al rifiuto della Russia di chiamare guerra quella che sta combattendo, facendo invece ricorso
all’espressione “operazione militare speciale”.
30
Cassese 1999, 48.
27
a un’entità polito-giuridica, ragion per cui gli Stati Uniti non possono formalmente risultare
aggressori in caso di primo attacco contro una minaccia terrorista o contro una potenzialmente tale.
Polizia e sicurezza
Con la guerra del Kosovo (1999), con quella in Afghanistan (2001) e infine con la seconda guerra
del Golfo (2003, in Iraq) è venuto definitivamente meno uno dei pochi, sebbene preziosissimi,
guadagni del diritto internazionale: la distinzione tra belligeranti e non. Lo ius in bello è stato così
sacrificato sull’altare della superiorità morale dello ius ad bellum. E dietro l’apparente diversità delle
strategie di legittimazione della guerra (ius ad bellum), in realtà gli Stati Uniti hanno fatto
puntualmente ricorso al medesimo registro.
In alcuni casi (come in Iraq nel 1991 e in Ucraina oggi), il ricorso diretto o indiretto all’uso della forza è
avvenuto in nome della difesa del diritto internazionale, in altri (come in Somalia, a Haiti, in BosniaErzegovina, in Kosovo e in Libia) in nome di ragioni umanitarie [...]. Ma, in tutti i casi, la legittimazione
dell’interventismo militare delle grandi potenze democratiche non ha potuto prescindere da un richiamo
almeno cerimoniale alla grammatica della guerra giusta.31
Le ragioni – perlopiù pretestuose – in nome delle quali “lo sceriffo del mondo” è intervenuto nei
conflitti armati summenzionati hanno arrecato una ferita al tessuto del diritto internazionale, o meglio,
hanno aperto una voragine che ha finito con il subordinare il ‘politico’ e il diritto alla morale. Per
mezzo di questa inversione gerarchica accade che “la moralizzazione della guerra diviene il vettore
più potente di polemicità: la morale, da altro del politico, si fa incarnazione più nichilistica e
distruttiva del politico”32. Tutto ciò permette, inoltre, di intuire con inequivocabile chiarezza
l’equiparazione, da parte degli Usa, delle vicende internazionali a questioni di propria politica interna.
Gli Stati Uniti cadono così nella palese contraddizione di voler essere i garanti della sicurezza di un
mondo che loro stessi rendono instrinsecamente insicuro33. Se qualsiasi azione, gesto, dichiarazione
da parte di uno Stato o di un gruppo politico all’interno di uno Stato straniero può essere interpretabile
come una potenziale minaccia alla sicurezza internazionale, poiché devia dai ristretti parametri
liberali imposti dagli Usa (modificati ogni volta alla bisogna), non potrà che regnare sine fine
31
Colombo 2022, 167.
F. Mancuso 2003.
33
Si pensi al concetto di "Caoslandia", introdotto in Italia dalla rivista Limes per riferirsi alla politica estera inaugurata
dal Pentagono, dopo gli attentati dell’11 settembre, su iniziativa di Donald Rumsfeld e dall’ammiraglio Arthur Cebrowsky
e dettagliata da Thomas Barnett, assistente dell’ammiraglio Cebrowski, in The Pentagon’s New Map.
32
l’insicurezza globale e altrettanto permanente sarà la necessità di un gendarme del globo.
Conveniamo perciò con Colombo, quando afferma che “l’aspirazione alla sicurezza assoluta si
trasforma in una ricetta infallibile per la frustrazione. [...]. Una promessa irrealistica di sicurezza
trascina inevitabilmente con sé una percezione esagerata dell’insicurezza”34.
Che la guerra sia polizia internazionale significa, inoltre, che soltanto uno tra i due (o più)
schieramenti in conflitto beneficia del crisma della giustizia. Anzi, a rigore solo uno può
legittimamente rappresentarne il difensore e il custode, delegittimando in questo modo a tal punto il
nemico da non renderlo neppure più tale, cioè un nemico in senso politico, apparentandolo piuttosto
a una figura priva di politicità, bisognosa soltanto di “un’azione curativo-repressiva”35 per poter
essere riammessa nel solo ordinamento politico-giuridico riconosciuto giusto. Con la metamorfosi
della guerra di riflesso è avvenuto un mutamento anche nel volto della pace. Essa infatti non
rappresenta più il reale obiettivo degli interventi militari. Proprio perché la guerra è 'scomparsa’,
scompare anche la pace che ne costituiva il fine, di modo che quest’ultima si è trasfigurata in sicurezza
internazionale, seppur formaliter vengano ancora proclamati scopi di peacekeeping o peace-building.
Così, il binomio enunciato dalla Carta delle Nazioni Unite (pace e sicurezza), rappresentante il fine
ultimo della sua esistenza, si è trasformato in un monomio imperniato sulla sicurezza, inghiottendo
completamente in sé la pace. Tuttavia, proprio l’indeterminatezza della sfera dei diritti umani cui gli
Stati Uniti si sono appellati per intromettersi nei vari conflitti che sono stati prima ricordati, ha
provocato una eterogenesi dei fini che le operazioni di polizia internazionale si erano dati come
obiettivo. Se l’ordinamento internazionale, in particolar modo lo ius cogens che proibisce l’utilizzo
della forza quale mezzo di risoluzione dei conflitti – eccezion fatta per i casi di legittima difesa in
caso di aggressione – può essere violato non appena si paventi anche solo la minaccia di un pericolo,
essendoci potenze (Russia, Cina, India) che non riconoscono come propri quei diritti umani che per
gli occidentali sono invece universali36, è inevitabile che il pericolo del conflitto armato diventi
perennemente incombente. La missione di ergersi a unici custodi della pace e della sicurezza
internazionale ha così prodotto una nefasta condizione di insicurezza internazionale.
Pace, giustizia, sicurezza
Si deve sottolineare come la metamorfosi della pace in sicurezza sia la conseguenza della vittoria
degli Stati Uniti sull’Unione Sovietica, quantunque questa si sia dissolta per un proprio suicidio
34
Colombo 2022, 46-47.
Colombo 2022, 180.
36
Zolo 2000, 108.
35
piuttosto che a causa di una sconfitta militare. Negli anni più aspri del confronto tra le due
superpotenze, il registro linguistico e comunicativo costituiva la primaria e più visibile arma di lotta
per entrambe. Come ci fa notare Waever, prima degli anni Ottanta la pace era lo stemma del
socialismo reale di marca sovietica, mentre la sicurezza quello del liberalismo democratico
americano. Con il concludersi della Guerra Fredda si verifica qualcosa che di primo acchito parrebbe
contraddire la tesi che qui abbiamo tentato di esporre, ma al contrario la invera e la corrobora. Non
credendo più possibile il profilarsi di reali minacce all’ordine unipolare e non dovendo più
assecondare strategie di contenimento, gli Usa credevano che il mondo fosse finalmente stato messo
‘al sicuro’. Si trattava ora di guadagnare i territori fino ad allora sottoposti al dominio comunista
russo. E proprio contrassegnando come guerre i conflitti sorti nei Balcani, il registro governativo
statunitense, così attento fino ad allora a evitare di utilizzare la parola del nemico, venne stravolto.
Da allora l’appello alla pace divenne lo scopo ultimo della politica estera a stelle e strisce (“enduring
peace must be our mission”37). Il ricorso al lemma sicurezza venne così scalzato, passando a
significare qualcosa di più affine alla generale preoccupazione dei rischi della società38. Ma tale
scambio linguistico è solo apparente, perché, celati dietro l’enfasi retorica dell’avvento dell’era della
realizzazione della pace, si nascondevano invece i chiari segni della fusione, o meglio, della
identificazione di pace e sicurezza. La pace che di volta in volta gli Stati Uniti hanno dichiarato di
voler realizzare non aveva nulla delle tinte irenistico-ecumeniche in cui intingevano la bandiera issata
durante le operazioni militari. La loro missione ‘salvifica’ è stata dettata unicamente da interessi
strategici, “per qualche politica di isolamento, di intervento militare o, al punto più estremo, di
regime-change”39. La pace è divenuta così quell’instrumentum belli che nelle pagine precedenti
abbiamo tentato di analizzare, disseppellendo le radici storiche e geopolitiche che hanno presieduto
alla sua torsione.
Rebus sic stantibus, a nostro avviso non riesce persuasiva la proposta di chi rileva come il nuovo
approccio ermeneutico del diritto internazionale non limiti più la definizione della pace all’interno di
una sfera semantica “negativa”40 (dove pace e sicurezza formano un’endiadi41), ossia quella che
Bobbio ha circoscritto al suo significato tecnico-giuridico, riassumibile nel “mantenimento” della
situazione internazionale sorta l’indomani della fine della Seconda guerra mondiale. Il nuovo concetto
di pace avrebbe assunto caratteristiche sintetizzabili nei seguenti punti42: 1) il termine
“mantenimento” non può essere più riducibile alla custodia dello status quo; 2) il valore della pace
Bush 1991.
Waever 2004, 63.
39
Colombo 2022, 11.
40
Viola 2005, 27
41
Viola 2005, 499.
42
Viola 2005, 50.
37
38
va assumendo una sua specificità contenutistica, distinguendosi da quello della sicurezza e
avvicinandosi a quello della giustizia; 3) la cessazione del ruolo di valore primario della sicurezza
nella definizione della pace43. Chi sostiene questo nuovo approccio esegetico ritiene perciò inevitabile
adeguarsi alla rotta presa dalla prassi comunitaria internazionale, che ha rifidanzato guerra e giustizia,
spalancando così le porte al tempo nuovo della “pace giusta”44. Alla luce di quanto è stato
argomentato finora, dovremo però fare due precisazioni che non ci permetteranno di ritenere
auspicabile la proposta della pace giusta. Quest’ultima ipotesi sostiene che la prassi della comunità
statale internazionale ha fatto sì che la pace si disancorasse dal rapporto sororale con la sicurezza per
legarsi alla sfera dei diritti umani e della giustizia, ma è vero piuttosto il contrario. Tutte le guerre,
dirette o non, a partire dal 1991 sono state legittimate tramite l’appello alla giustizia e alla difesa dei
diritti umani. Perciò, lungi dal favorire una interpretazione risolutrice, “il richiamo alla giustizia ha
l’effetto di dissolverla o, più precisamente, di trasfigurarla nel suo opposto”45. È stata, infatti, proprio
la necessità di intervenire nei paesi in cui venivano conculcati i diritti umani, ossia in nome della
giustizia, a provocare immani conseguenze sul piano sociale, politico e ambientale. È in nome della
giustizia che la pace si è trasformata in sicurezza poliziesca. Volendo parafrasare il detto di Tacito,
potremmo affermare che gli Stati Uniti insecuritatem faciunt iustitiam appellant.
Se non vogliamo che la guerra, mascherata sotto le forme umanitarie o poliziesche che abbiamo
indicato, continui a essere la prima ratio di risoluzione delle controversie, bisogna allora ripensare
ab imis il rapporto tra pace e giustizia, visto che i diritti umani non sono condivisi universalmente da
tutti, o perlomeno non tutti gli stati addivengono con la gerarchia assiologica occidentale-statunitense.
Infatti
I non occidentali definiscono occidentale ciò che gli occidentali definiscono universale. Ciò che gli
occidentali vedono come un utile mezzo di integrazione globale, ad esempio la diffusione planetaria dei mezzi
di comunicazione, viene denunciato dai non occidentali come nefando imperialismo occidentale.
L'integrazione del mondo in un'unica entità è percepita dai non occidentali come una minaccia.46
Nelle summenzionate parole di Huntington si può individuare “un riconoscimento di grande portata
perché svela la falsa coscienza e l’ipocrisia della cultura occidentale, demistificandone la natura
ideologica di copertura delle concrete pratiche di dominio”47. Questi, inoltre, mostra come il presunto
universalismo dei diritti e dei valori non sia altro che “l'ideologia dominante dell'Occidente nei
43
Viola 2005, 50.
Viola 2005 68.
45
Colombo 2022, 173.
46
Huntington 1997, 85.
47
Azzarà 2006, 853.
44
confronti delle culture non occidentali”48 e come l’imperialismo americano non possa essere che la
logica, necessaria conseguenza dell’universalismo49.
Se crediamo di anelare all’avvento nel mondo di una Pace secondo Giustizia, dobbiamo però essere
consapevoli che, fintanto che gli stati agiranno in contrasto con le norme del diritto internazionale e
fintanto che gli organismi internazionali resteranno preda delle decisioni dei loro membri
militarmente più forti, la iusta pax recherà sempre con sé l’ombra del bellum iustum. Sarebbe allora
forse giunto allora il momento di pensare una pace che non sia né meramente negativa (assenza
momentanea di guerra), né asfitticamente securitaria, né – e qui forse il compito più difficile –
monoliticamente iusta, aprendo alla possibilità di dare vita a delle paces iustae, provando così a
esplorare un terreno in cui possano incontrarsi differenti concezioni di pace e giustizia, animate dal
desiderio di individuare quei pochi valori, principi e diritti non negoziabili che permettano alla
“tormentata marcia verso l’universalità” di liberarsi delle mistificazioni universalistiche
dell’eccezionalismo americano e di lasciar esprimere le altre istanze sottese dalla particolarità delle
altre culture. Ciascuna cultura reca con sé, però, il pericolo di innalzare la parzialità del proprio
orizzonte valoriale a verità oggettiva e universale. Si rischierebbe così di assistere, a parti invertite,
alla reviviscenza del medesimo atteggiamento prevaricatore degli Stati Uniti, al punto che non
sarebbe impensabile che una potenza, qualora raggiunga un tale potere militare, oltre che economico
e geopolitico, possa ricorrere alla forza e alla sua rete di alleanze per imporre la propria
Weltanshacuung. Per scongiurare che una simile eventualità possa verificarsi, bisogna da un lato
prendere consapevolezza e dichiarare apertis verbis che “l’universalismo occidentale si rivela ormai
esaurito e inutile” e che va “sostituito con una diretta e aperta rivendicazione del particolarismo della
civiltà occidentale”50; dall’altro è necessario prendere atto dell’ormai irreversibile tramonto di
qualsiasi universalismo, incluso quello in statu nascenti che connota le rivendicazioni delle nuove
emergenti potenze globali. Risulta a tal proposito pragmaticamente fruttifera la proposto di Salvatore
Veca di una priorità metodologica del male sul bene, quale “premessa di qualsiasi tesi sui diritti umani
e sulle ragioni del pluralismo morale”51. Non essendo infatti possibile fondare un universalismo,
seppur minimale, su una qualche idea di ciò che è bene, la convergenza può allora essere trovata su
ciò che è male. Il nostro compito consisterà così nell’ “accettare l'idea che dovremmo essere
intransigenti con ciò che è male, non dovremmo praticare la tolleranza verso ciò che è male, nel senso
che ho detto, e dovremmo nello stesso modo essere libertari verso ciò che variamente può essere per
noi bene”52. Attraverso un lento e faticoso processo e negativo, perciò, si può nutrire la speranza di
48 Huntington 1997, 85.
49 Huntington 1996, 41.
50 Azzarà 2006, 853.
51 Veca 2003, 122.
52 Veca 2003, 130.
costruire una rete di rapporti internazionali che non costringa più a sottostare ai valori impartiti da
una potenza egemone e che per mezzo del dialogo possa costituire la base per l’inizio di un diverso,
nuovo modo di convivere nel mondo.
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