LABORATORIO CALVINO
Clara Celati
PREMESSA
In un’intervista a La Repubblica (17.3.1993) su classici, classicismo e dintorni, 1
veniva chiesto a Tullio De Mauro: «Calvino è un classico?». Rispondeva De
Mauro: «Lo potrà essere e forse lo sarà sicuramente, ma è ancora troppo presto
per dirlo, perché è troppo vicino a noi». Proseguiva: «Personalmente lo amo
molto e posso ritenerlo un classico nel senso più esteso del termine, ma bisogna
appunto dare tempo al tempo».
Ha ancora senso nella nostra epoca parlare di classico, classicismo e dintorni? Dopo il postmoderno, la rottura dell’orizzonte tradizionale del discorso e
del racconto quali significati possono attribuirsi al termine «classico»?
Passo in rassegna i più noti:
a.
«di prima classe»: significato etimologico, derivato dal latino. Ai
tempi di Aulo Gellio venivano infatti chiamati così gli optimi
auctores con un’espressione mutuata dalla divisione in classi dei
cittadini;
b. «che resiste al tempo»: in quanto esemplare e portatore di valori
universali;
c.
«tipico»: di una certa persona, di una certa epoca, ecc. …
Vi sono poi alcuni significati storici della parola sedimentati nel tempo. Alcuni
di essi sono particolarmente rilevanti per la cultura italiana.
Provo a sintetizzarli. Nelle varie epoche i classici sono stati visti come:
a.
prototipi cui guardare con ammirazione (Umanesimo);
b. autori e testi con cui misurarsi in una sorta di sfida orgogliosa
della modernità con l’epoca antica (Rinascimento);
c.
fonti di imitazione (cultura seicentesca e accademica);
d. esempi di equilibrio e armonia compositiva (’700, Winckelmann,
Baumgartner);
e.
1
archetipi dell’immaginario perpetuamente attualizzabili (Foscolo);
Il titolo dell’intervista era «Classic and Soda».
1
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f.
modelli di «bella lingua» (La Ronda);
g. bersagli polemici (Futurismo, Dadaismo e dintorni).
A quindici anni dalla morte di Calvino e a sette dall’intervista che è stata il
nostro punto di partenza si può affermare che egli è e continuerà a essere con
ogni probabilità un «classico» della letteratura italiana del Novecento, in quanto
nella sua opera si riassumono tutti i caratteri di «classico» da me appena citati.
Non è un caso che Calvino sia anche all’estero scrittore tra i più conosciuti e
amati, nonché studiati nelle università straniere; egli infatti è autore di prima
classe, grazie alla formazione rigorosa che lo caratterizza fino dagli esordi
letterari; tipico della nostra epoca, in quanto interprete della sua polivalente
complessità che comprende sia la logica cartesiana di Mondrian e di Svevo che
quella esplosiva di Klee e di Joyce; infine universale, in quanto lui stesso
interprete di queste due diverse logiche che cerca di riassumere in una sintesi
combinatoria dalle infinite possibilità.
I CLASSICI SECONDO ITALO CALVINO
Ora la storia della cultura insegna che i classici, per divenire tali, hanno sempre
studiato, qualche volta imitandoli, altri «classici», autori che per la forza delle
loro idee e per il modo in cui le hanno espresse sono divenuti modelli destinati a
resistere nel tempo. Rispetto ai modelli essi introducono poi delle varianti per
cui sono riconoscibili e che tramandano a loro volta alle generazioni future.
Non vi è dubbio: i modelli letterari e culturali in genere formano una scia, una
sorta di album di famiglia, di cui sono evidenziabili le matrici. È questo
fenomeno di trasmissione diacronica di modelli ciò che Luciano Anceschi
definiva una «tradizione poetica» nozione che egli riferiva particolarmente ai
«suoi» poeti, cioè a quelli di «Linea Lombarda» e dintorni, ma che può riferirsi
ad altri ambiti.
Negli articoli e nei saggi brevi che Calvino scrisse sui suoi classici ora
raccolti in vari libri – Una pietra sopra, Lezioni americane e Perché leggere i
classici 2 – chiarisce questo e altri concetti sull’opportunità di leggere i classici
anche e soprattutto in merito alla sua storia personale e alla sua duplice
esperienza di lettore e di scrittore:
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2
Tra i quali gli ultimi due sono postumi e montati da Esther Calvino, moglie dello
scrittore.
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1. I classici sono quei libri di cui si sente dire di solito: «Sto
rileggendo» e mai: «Sto leggendo … ». (Perché leggere i classici 5)
2. Si dicono classici quei libri che costituiscono una ricchezza per
chi li ha letti e amati; ma costituiscono una ricchezza non minore
per chi si riserba di leggerli per la prima volta nelle condizioni
migliori per gustarli. (Op. cit. 7)
3. I classici sono libri che esercitano un’influenza particolare sia
quando s’impongono come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio
collettivo o individuale. (Ibid.)
Prosegue:
Se i libri sono rimasti gli stessi (ma anch’essi cambiano, nella luce
d’una prospettiva storica mutata) noi siamo certamente cambiati, e
l’incontro è un avvenimento del tutto nuovo. (Ibid.)
4. D’un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la
prima. (Ibid.)
5
D’un classico ogni prima lettura è in realtà una rilettura. (Ibid.)
6. Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da
dire. (Ibid.)
7. I classici sono quei libri che ci arrivano portando su di sé la
traccia delle lettura che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la
traccia che hanno lasciato nella cultura o nelle culture che hanno
attraversato (o più semplicemente nel linguaggio o nel costume).
(Op. cit. 7-8)
Precisa:
La lettura d’un classico deve darci qualche sorpresa, in rapporto
all’immagine che ne avevamo. [ … ] La scuola e l’università dovrebbero servire a far capire che nessun libro che parla d’un libro dice più
del libro in questione; invece fanno di tutto per far credere il
contrario. (Op. cit. 8)
8. Un classico è un’opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé , ma continuamente se li scrolla
di dosso. (Ibid.)
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9. I classici sono libri che quanto più si crede di conoscerli per
sentito dire, tanto più quando si leggono davvero si trovano
nuovi, inaspettati, inediti. (Op. cit. 9)
Aggiunge:
Naturalmente questo avviene quando un classico «funziona come tale,
cioè stabilisce un rapporto personale con chi lo legge». (Ibid.)
Si rivolge poi al lettore:
… la scuola deve farti conoscere bene o male un certo numero di
classici tra i quali (o in riferimento ai quali) tu potrai in seguito
riconoscere i «tuoi» classici. La scuola è tenuta a darti degli strumenti
per esercitare una scelta; ma le scelte che contano sono quelle che
avvengono fuori e dopo ogni scuola. (Ibid.)
10. Chiamasi classico un libro che si configura come equivalente
dell’universo, al pari degli antichi talismani. (Ibid.)
11. Il «tuo» classico è quello che non può esserti indifferente e che ti
serve per definire te stesso in rapporto e magari in contrasto con
lui. (Op. cit. 10)
12. Un classico è un libro che viene prima di altri classici; ma chi ha
letto prima gli altri e poi legge quello, riconosce subito il suo
posto nella genealogia. (Ibid.)
Inoltre:
per poter leggere i classici si deve pur stabilire «da dove» li stai
leggendo, altrimenti sia il libro che il lettore si perdono in una nuvola
senza tempo. Ecco dunque che il massimo rendimento della lettura dei
classici si ha da parte di chi ad essa sa alternare con sapiente dosaggio
la lettura d’attualità e questo non presume necessariamente una
equilibrata calma interiore: può essere anche il frutto d’un nervosismo
impaziente, d’una insoddisfazione sbuffante. (Op. cit. 11)
13. È classico ciò che tende a relegare l’attualità al rango di rumore
di fondo, ma nello stesso tempo di questo rumore di fondo non
può fare a meno. (Ibid.)
14. È classico ciò che persiste come rumore di fondo anche là dove
l’attualità più incompatibile la fa da padrona. (Op. cit. 12)
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E ancora:
Resta il fatto che leggere i classici sembra in contraddizione col
nostro ritmo di vita, che non conosce i tempi lunghi, il respiro dell’otium umanistico; e anche in contraddizione con l’eclettismo della
nostra cultura che non saprebbe mai redigere un catalogo della
classicità che fa al caso nostro. (Ibid.)
Infine conclude:
I classici servono a capire chi siamo e dove siamo arrivati e perciò gli
italiani sono indispensabili proprio per confrontarli agli stranieri, e gli
stranieri sono indispensabili proprio per confrontarli agli italiani.
Poi dovrei riscriverlo ancora una volta perché non si creda che i
classici vanno letti perché «servono» a qualcosa. La sola ragione che
si può addurre è che leggere i classici è meglio che non leggere i
classici. (Op. cit. 13)
Le frasi che ho appena citato provengono da un articolo comparso per la prima
volta su L’Espresso («Italiani vi esorto a leggere i classici» 28/5/1971:58-68)
che ora apre e dà non a caso il titolo al libro Perché leggere i classici?
Esse corrispondono a una sorta di vademecum del lettore, soprattutto del
lettore giovane a cui Calvino parla (continui i riferimenti a scuola e università)
quasi facendo il verso a un maestro Zen.
Inoltre rilette rappresentano un’applicazione delle regole di scrittura che si
ritrovano in Lezioni americane come cinque delle «Sei proposte per il prossimo
millennio», cioè: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità.
Senza volermi sovrapporre all’autore,vi sono due o tre cose in queste incisive
definizioni che vale la pena di sottolineare.
La prima è l’idea di «classico» come testo che agisce oltre il testo, in modo
subliminale al di là e spesso nonostante la volontà dell’autore perché «non ha
mai finito ciò che ha da dire». Si infila «nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale» e quindi «serve per definire te
stesso in rapporto o magari in contrasto con lui» (Lezioni americane 10)
Per questo il classico «provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi
critici su di sé , ma continuamente se li scrolla da dosso» in quanto interprete di
«letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno
lasciato nella cultura o nelle culture che hanno attraversato». (Op. cit. 8).
Naturalmente – Calvino insiste molto su questo punto – chi si accinge a
scrivere non può leggere solo classici. È necessario, anzi, che legga anche testi
attuali e non solo di letteratura per diventare uno scrittore completo: le sue
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capacità si dimostreranno proprio nel saper dosare le lezioni ricevute dagli
antichi con il «rumore di fondo» da cui è attorniato, ma di cui non può fare a
meno. Il classico è un libro capace di andare al di là del «rumore di fondo» della
società contemporanea e metterne in discussione le modalità.
Altro elemento nodale di questo saggio è il fatto che vede il testo classico in
un rapporto dinamico col lettore, che ne diventa interprete e diffusore.
Dalla fine degli anni ’60 in poi il nostro Italo pensa sempre più spesso al
lettore come ad un interlocutore privilegiato, che vuole capire il labirintico
mondo in cui è collocato, ma qui il suo ruolo diviene davvero centrale. Non si
tratta più del lettore ingenuo che si limita a recepire quanto il suo autore
racconta; ma al contrario, del lettore esperto, che dialoga col libro e col suo
autore, un lector in fabula in grado di capire il valore di un’opera sempre più
«aperta» secondo la nozione che Umberto Eco usò nel titolo di un suo famoso e
fortunato libro.
Inoltre – e questo non è meno significativo in un’epoca definibile come postmoderna – introduce il concetto della distanza: solo riuscendo a capire dove si è
e ascoltando da dove si parla si può sperare di penetrare il senso di un’esperienza, ivi compresa quella della lettura di un classico.
I CLASSICI DI ITALO CALVINO
Non solo Calvino ci ha lasciato testimonianza di come leggere i classici, ma
anche di quali sono i suoi classici. Gli scrittori del nostro scrittore hanno origini
e patrie diverse.
Essi appartengono alla storia antica: Omero l’inventore delle storie nella
storia, Senofonte, Ovidio, Orazio.
I classici italiani: Dante, Petrarca, l’amatissimo Ariosto, Galilei e poi
Leopardi che sembra in un brano citato quasi precursore della luce elettrica
(Lezioni americane 42) e, diversamente dall’immagine agiografica, esaltatore
della velocità (Ibid.) e dell’esattezza. (Op. cit. 59)
Letteratura straniera:gli Illuministi, Diderot, Stendhal, poi Balzac, Dickens,
Flaubert, Stevenson e Conrad.
Autori del Novecento: Borges, Gadda, ma anche Kafka, Hemingway,
Queneau. Non meno importante per capire il rapporto coi classici e con la scrittura in genere di Calvino appare il suo epistolario. In una lettera a Roberto
Ognibene datata 4.1. 1956, Calvino scrive:
Il tuo concetto di evoluzione d’una tradizione è sì giusto ma ormai si
ha avuto il tempo di avvertire il difetto opposto: restringerci nella
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nostra tradizionale ristrettezza provinciale. Con la sola tradizione italiana non si può capire nulla del mondo contemporaneo. Il provincialismo resta il grande limite della nostra cultura anche di sinistra. (I
libri degli altri 169)
Dei Classici per l’infanzia a lui cari Calvino parla poi esplicitamente in una
lettera a Luigi Santucci (I libri degli altri 270), in polemica piuttosto esplicita
su alcune scelte del suo interlocutore: per lui vanno bene Perrault, i Grimm,
Kipling e soprattutto il grande Pinocchio.
Tale scelta tratteggia la sua idea di letteratura come «astrazione geometrica»,
«composizione di meccanismi che si muovano da soli, il più possibile anonimi»
mentre «tutto ciò che è esistenziale, espressionistico», «caldo di vita» viene
avvertito dallo scrittore come «molto lontano». (Op. cit. 523)
Incalza addirittura in una lettera successiva:
Più divento vecchio più il mio amore per la geometria e il mio fastidio
per la fisiologia si fanno esclusivi. (Op. cit. 551)
Dopo essersi definito «macchinatore di storie avventurose» (Op. cit. 104) dà in
una sua lettera consigli a Luciano della Mea:
Scrivi, fatica molto sul linguaggio, non lasciarti mai prendere dal
facile, dal sentimento. Sei di solito preciso come occhio, come cose
che vedi, e questo è molto importante.
Sulla propria laconicità, rivolgendosi a Domenico Rea (Op. cit. 125):
... mi domandi perché sono laconico. Per più di una ragione. Primo
per necessità, poiché scrivo in ufficio, sottoposto al febbrile ritmo
della produzione industriale che governa e modella fin i nostri
pensieri. Poi per elezione stilistica, cercando per quanto posso di
tener fede alla lezione dei miei classici. Poi per indole in cui si
perpetua il retaggio dei miei padri liguri, schiatta quant’altre mai
sdegnosa di effusioni …
Tale idea della letteratura come autodisciplina si vede affiorare in Calvino fin
dagli esordi quando ancora il mestiere con cui campa è quello di direttore
editoriale presso la casa editrice torinese Einaudi; interessante è vedere come
via via ci sia, nonostante le dichiarazioni, una sorta di arricchimento progressivo nell’orizzonte letterario di Calvino. In un primo tempo punta più che
altro a una tradizione aspra e scabra, nell’ultima parte accetta le tradizioni
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Clara Celati
diverse da sé Gadda, Lawrence, Joyce che pure dichiara di non amare in una
sorta di collage del secolo.
Inoltre mentre all’inizio dell’epistolario, ad esempio, si parla sempre e solo di
scrittori, alla fine di esso il riferimento più significativo è Northrop Frye, il
celebre critico letterario. (Op. cit. 581)
LA BOTTEGA DI UN GENIALE ARTIGIANO
Non so quale sarà la classificazione di Queneau nel prossimo futuro né posso
affermare o escludere che Calvino lo considerasse un classico di frequentazione
obbligata.
La contiguità oltreché la consuetudine tra i due fu costante e appassionata per
oltre un lustro.
I primi libri di Queneau trovarono in Calvino l’attento ed espressivo
traduttore.
In più Calvino prese confidenza e utilizzò in proprio la strumentazione
sperimentale e applicativa di Queneau, autore aperto non soltanto a tutte le
esperienze e a tutte le suggestioni (dalla fisica alla patafisica, alla matematica
superiore, alle analisi dei metodi conoscitivi fino ai giochi) ma a suo modo e
forse neppure consapevolmente, esploratore di percorsi incompatibili e di
esperimenti audaci e talvolta apparentemente infantili; quelle indagini, o, se si
vuole curiosità anticipatorie e costitutive dei grimaldelli di rottura dell’unità del
sapere, dei metodi critici, delle conoscenze collaudate di cui noi osserviamo
adesso, in atto, gli effetti dirompenti di quelle che quarant’anni fa erano
potenzialità intraviste.
La spregiudicata ricerca di Queneau influenzò profondamente il Calvino
narratore avventuroso e curioso, e una traccia di questo interesse è nella prefazione al libro: Segni, cifre e lettere e altri saggi, tradotto in Italia nell’anno
1981 da cui ci piace estrapolare due estratti:
… la figura di Queneau «enciclopedista», «matematico», «cosmologico» va dunque definita con attenzione. Il «sapere» di Queneau è
caratterizzato da un’esigenza di globalità e nello stesso tempo dal
senso del limite, dalla diffidenza verso ogni tipo di filosofia assoluta.
Nel disegno della scienza che egli abbozza in uno scritto databile tra
il 1944 e il 1948 (dalle scienze della natura alla chimica e alla fisica, e
da queste alla matematica e alla logica) la tendenza generale verso la
matematizzazione si ribalta in una trasformazione della matematica al
contatto con i problemi posti dalle scienze della natura. Si tratta
dunque d’una linea percorribile nei due sensi e che può saldarsi in un
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cerchio, là dove la logica si propone come modello di funzionamento
dell’intelligenza umana, se è vero che, come dice Piaget, «la logistica
è l’assiomatizzazione del pensiero stesso».
E qui Queneau aggiunge: «Ma la logica è anche un’arte, e l’assiomatizzazione di un gioco. L’ideale che si sono costruiti gli scienziati
nel corso di tutto questo secolo è stata una presentazione della scienza
non come conoscenza, ma come regola e metodo. Si danno delle
nozioni (indefinibili) degli assiomi e delle istruzioni per l’uso.
Insomma un sistema di convenzioni. Ma questo non è forse un
gioco che non ha nulla di diverso dagli scacchi o dal bridge? Prima di
procedere nell’esame di questo aspetto della scienza, ci dobbiamo
fermare su questo punto: la scienza è conoscenza, serve a conoscere?
E dato che si tratta (sin questo articolo) di matematica, che cosa si
conosce in matematica? Precisamente: niente. E non c’è niente da
conoscere. Non conosciamo il punto, il numero, il gruppo, l’insieme,
la funzione più di quanto conosciamo l’elettrone, la vita, il comportamento umano. Non conosciamo il nome delle funzioni e delle
equazioni differenziali più di quanto “conosciamo” la Realtà Concreta
Terrestre e Quotidiana. Tutto ciò che conosciamo è un metodo
accettato (consentito) come vero dalla comunità degli scienziati,
metodo che ha anche il vantaggio di connettersi alle tecniche di
fabbricazione. Ma questo metodo è anche un gioco, più esattamente
quello che si chiama un jeu d’esprit. Perciò l’intera scienza, nella sua
forma più compiuta, si presenta e come tecnica e come gioco. Cioè né
più né meno di come si presenta l’altra attività umana, l’arte» (Op. cit.
14-15).
Prosegue:
Anche nelle invenzioni di Queneau stabilire un confine tra esperimento e gioco è sempre stato difficile. Possiamo distinguervi la bipolarità cui accennavo prima: da una parte divertimento del trattamento
linguistico insolito d’un tema dato, dall’altra divertimento della formalizzazione rigorosa applicata all’invenzione poetica. (Nell’uno e
nell’altro c’è un modo di ammiccare a Mallarmè che è tipico di
Queneau e che si distacca da tutti i culti del maestro che hanno avuto
corso durante il secolo, perché ne salva la fondamentale essenza
ironica).
Nella prima direzione si situa un’autobiografia in versi (Chêne et
chien) in cui è soprattutto il virtuosismo metrico a ottenere effetti
esilaranti; la Petite cosmogonie portative, il cui intento dichiarato è di
far entrare nel lessico della poesia in versi i più ostici neologismi
scientifici; e naturalmente quello che è forse il suo capolavoro, proprio per l’estrema semplicità del programma, gli Exercices de Style,
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Clara Celati
dove un aneddoto banalissimo riferito in stili diversi dà origine a testi
letterari distantissimi tra loro. Nell’altra direzione troviamo il suo
amore per le forme metriche come generatrici di contenuti poetici, la
sua aspirazione a essere l’inventore d’una struttura poetica nuova
(quale quella proposta nell’ultimo libro di versi, Morale elementaire
(1975) e naturalmente la macchina infernale dei Cent mille milliards
de poèmes (1961). In una direzione o nell’altra, insomma, l’intento è
quello della moltiplicazione o ramificazione o proliferazione delle
opere possibili a partire da un’impostazione formale astratta.
Il campo privilegiato del Queneau produttore di matematica è la
combinatoria – scrive Jacques Roubaud – combinatoria che si inserisce in una tradizione antichissima, quasi altrettanto antica che la
matematica occidentale. L’esame, da questo punto di vista, dei Cent
mille milliards de poèmes ci permetterà di situare questo libro nel
passaggio dalla matematica alla sua letteralizzazione.
Ricordiamo il principio: vengono scritti dieci sonetti con le stesse
rime. La struttura grammaticale è tale che, senza sforzo, ogni verso di
ciascun sonetto «base» è intercambiabile con ogni altro verso situato
nella stessa posizione del sonetto. Si avrà dunque per ciascun verso
d’un nuovo sonetto da comporre, dieci possibili scelte indipendenti. I
versi, essendo 14, si avranno virtualmente 1014 sonetti, ossia
centomila miliardi.
Infine:
Proviamo, analogicamente, a fare qualcosa di simile con un sonetto di
Baudelaire, per esempio: sostituirne un verso con un altro (preso nello
stesso sonetto o altrove), rispettando ciò che fa un sonetto (la sua
«struttura»). Ci si scontrerà con delle difficoltà d’ordine soprattutto
sintattico, contro le quali Queneau s’era premunito in anticipo (ed è
per questo che la sua «struttura» è «libera»). Ma, ed è questo che
insegnano i «cento mila miliardi», contro le costrizioni della verosimiglianza semantica la struttura sonetto fa, virtualmente, d’un
sonetto unico, tutti i sonetti possibili per le sostituzioni che la
rispettano. (Op. cit. 21-22)
SOGGETTIVAZIONE DELLA DISTANZA
Mi trovo a Oslo in un pomeriggio di fine primavera. La luce è tanta e durerà
ancora a lungo. Sto scrivendo un articolo su Italo Calvino.
Rifletto sulla distanza: come dato fisico, psicologico, entità che ti permette di
vedere come si era e ciò che si fa o si faceva, i luoghi e le persone di un altrove
in una dimensione straniata e diversa.
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Laboratorio Calvino
L’essere altrove non è mai in ultima istanza un cambiamento spaziale, ma
implica sempre e comunque cambiamento e ridefinizione di se stessi. In questo
compito mi ha aiutato molto Italo Calvino. Il tema del viaggio, dell’allontanamento dalle proprie radici e dell’eventuale recupero di esse – lo sappiamo
benissimo – è topos fondamentale di tutta la letteratura occidentale, forse di
tutta la letteratura.
Sia che si viaggi alla ricerca di qualcosa che non si sa bene che cos’è come
faceva l’ Bruce Chatwin, sia che si viaggi alla ricerca delle proprie radici o con
la fantasia, mentre si continua a abitare la propria «contrada» tale movimento
implica notevole spostamento di energia e quindi mette in atto un mutamento.
Come si collega quanto precedentemente detto con il tema prescelto per
questo articolo e cioè il rapporto tra Italo Calvino e i classici da una parte; si
può considerare Italo Calvino un classico dall’altra?
Italo Calvino non ha – ahimè – mai vinto un Nobel, anche se se lo meritava;
non si è mai radicato in un luogo solo e forse anche per questo è uno scrittore
classico nel senso di universale.
Primi vent’anni di vita a Sanremo e paesaggio ligure, aspro, montano, un po’
selvaggio, del quale rimangono numerosi echi nelle sue opere, poi Torino, casa
editrice Einaudi, dove fioriscono le amicizie con Pavese, Vittorini, Natalia
Ginzburg, quelli che possono definirsi i suoi amici di sempre; ancora Parigi,
dove si radicherà per lungo tempo; poi Roma, luogo di nascita della figlia
Giovanna, la Toscana, i viaggi per il mondo; le città da lui amate, New York,
una sorta di ombelico del mondo e altre ancora infinite, trasparibili al di sotto
dell’aspetto affascinante delle narrazioni, un mondo grande, ma anche riconducibile ad una serie di incastri mutevoli e riproducibili come un dipinto di
Escher o un paesaggio di Borges.
Ciò nonostante Calvino in testimonianze diverse dei diversi momenti della
sua vita afferma che viaggiare è inutile per conoscere con un’affermazione che
per molti apparirebbe eretica. Ció che conta rimane sempre il punto di osservazione dell’universo e l’osservatore stesso.
Certamente egli deve la sua fama iniziale di scopritore alle Fiabe Italiane
(1961) in cui ricostruisce il tessuto delle novelle popolari del nostro paese,
interesse non disgiunto da un approccio narratologico e formalistico dell’opera
letteraria; tale processo nella sua tradizione personale trova pooi il capolavoro
nell’Orlando Furioso di Ariosto che egli riesce a tradurre per i lettori meno
esperti in una celebre sintesi einaudiana.
La tradizione continua con cui dialoga a distanza nel nostro secolo conta il
già ricordato Borges, gli scrittori dell’Ou-li-po, Queneau e gli appassionati di
logica combinatoria.
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Tra i suoi epigoni voglio citare lo scrittore anglo-indiano Salmon Rushdie
che in un’intervista dello scorso anno ha pubblicamente riconosciuto il suo
debito di gratitudine verso Calvino.
Da scrittore veramente «classico» Calvino si è servito dei suoi modelli per
arricchire una tradizione letteraria nella fattispecie quella della creazione
fantastica, che ha e avrà lunga prosecuzione dopo di lui.
Ho cominciato con un’ intervista e vorrei finire con una storia.
Si tratta di un apologo raccontato dallo stesso Calvino in Lezioni americane:
Tra le molte virtù di Chiang-Tzu c’era l’abilità nel disegno. Il re gli
chiese il disegno d’un granchio. Chiang-Tzu disse che aveva bisogno
di cinque anni di tempo e di una villa con dodici servitori. Dopo
cinque anni il disegno non era ancora cominciato. «Ho bisogno di
altri cinque anni,» disse Chiang-Tzu. Il re glieli accordò. Allo scadere
dei dieci anni, Chiang-Tzu prese il pennello e in un istante con un
solo gesto, disegnò il più perfetto granchio che si fosse mai visto.
(«Storia cinese» raccontata da Calvino in Lezioni americane 53)
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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Venezia.
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– 1984. Collezione di sabbia, Milano, Garzanti..
– 1988. Lezioni americane Milano,Garzanti.
– 1991. I libri degli altri, Torino, Einaudi.
– 1991. Perché leggere i classici, Torino Einaudi.
Eco, Umberto. 1979. Lector in fabula. Bompiani. Milano.
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Puppo, Mario 1975. Poetica e poesia neoclassica, Sansoni.
Queneau, Raymond. 1981 Saggi, cifre e lettere e altri saggi, Einaudi.
Riga n.14 Aprile 1998, dedicato alla rivista Ali Babà Marcos y Marcos, Milano.
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