DALL’ALTRO LATO DELLE COSE
Tradurre O verão selvagemdos teus olhos (2008)
di Ana Teresa Pereira
Gaia BERTONERI
ABSTRACT • From the other side of things. Translating O verão selvagem os teus olhos (2008)
by Ana Teresa Pereira. The author presents through her own translation experience the novel O
verão selvagem dos teus olhos (2008) by contemporary Portuguese writer Ana Teresa Pereira.
KEYWORDS • Ana Teresa Pereira, Portuguese Literature, Translation.
Parler, ce n’est pas voir.
Maurice Blanchot
CHI CONOSCE Ana Teresa Pereira, chi frequenta i suoi libri, chi legge le rare interviste
che concede, si accorge immediatamente di trovarsi davanti a un’autrice inconsueta. Il suo
esordio nel 1989 – con Matar a imagem (Pereira 1989) che vinse subito il premio Caminho
Policial – segnò una piccola novità nel panorama letterario portoghese. In seguito, man mano
che il suo stile diventava più definito, si cercò di inserire l’autrice all’interno di una tradizione
letteraria nazionale. Ben presto si capì quanto fosse difficile classificare la sua opera secondo
questi parametri. Si parlò di neo-fantastico e di neo-gotico, la critica constatò analogie con il
noir e con la letteratura per ragazzi, intercettandovi un forte ed evidente legame con la
letteratura anglo-sassone.
Solo passato un decennio, quando uscì O labirinto do Medo di Rui Magalhães (1999), il
primo vero studio dell’opera di Ana Teresa Pereira (che comprendeva già allora più di dieci
titoli), si comprese chiaramente che quel suo primo libro segnava di fatto il passaggio
irrevocabile da una condizione di lettrice onnivora a quella di autrice. Si capì che nel suo
universo, scrittura e lettura si fondono in una mise en abîme costante di riferimenti e citazioni,
compresi quelli rielaborati o inventati, come in fondo accade alla memoria di qualsiasi lettore
appassionato. Si capì infine che Ana Teresa Pereira, come Borges, continuava a essere
prigioniera dei libri che aveva letto, facendo trasmigrare da un romanzo all’altro personaggi che,
come in un’esperienza di metapsicosi, vivevano una nuova vita nelle sue opere. Finché la
scrittrice non ha affermato l’ovvio e cioè che la sua opera non era un’isola adiacente nella
letteratura portoghese, ma un vero e proprio continente a sé stante. Come sostiene l’autrice,
“può sembrare pretenzioso, ma penso che i miei libri costituiscano un genere” (Pereira 2008b;
t.d.A. – GB).
Di quale continente stiamo parlando? I romanzi As Rosas Mortas, O Rosto de Deus, Se
Nos Encontrarmos de Novo, O Mar de Gelo, Quando Atravessares o Rio, As Duas Casas, O
Verão Selvagem dos Teus Olhos e O Fim de Lizzie e Outras Histórias sono legati come un filo a
una never ending story, come se formassero un unico romanzo, per le tematiche ricorrenti e per i
RiCOGNIZIONI. Rivista di lingue, letterature e culture moderne, 1 • 2014 (1), pp. 295-304
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personaggi migranti. Ana Teresa Pereira sa captare l’attenzione del lettore, trasmettendo l’ansia
di scoprire qualcosa di invisibile che alla fine non è mai nascosto dove ci aspetta, anzi il più
delle volte si trova in bella vista fin dall’inizio. Ciò costringe il lettore a un intenso lavoro
immaginativo, suggerendogli una successione inesauribile di immagini che creano un forte
coinvolgimento sensoriale. Si passa da un’immagine a un’altra, in una sorta di visualità
sequenziale. Ogni sentimento viene espresso da un’immagine interiore. È come se osservassimo
il teatro di una mente e il nostro sguardo fluttuasse fra il materiale e l’immateriale.
Ciò contribuisce a creare un’impressione di disorientamento spaziale e anche temporale,
quasi una condizione di asincronia e atopia sistematiche. Si vive nei suoi romanzi una specie di
sospensione della realtà contingente, o come dice la scrittrice, un “pouco de eternidade”.
L’autrice stessa ha affermato che un incubo per lei è “una giornata piena di umidità e nebbia
(…). Quando non riusciamo a uscire da noi stessi. Quando ci troviamo in quel punto in cui
quella è l’unica immagine che ci resta e non ci piace. Quando l’altro è un mostro e nemmeno lui
ci piace” (Pereira 1993; t.d.A. – GB).
Le tematiche affrontate da Ana Teresa Pereira sono del resto ben note alla critica. Rui
Magalhães ne ha evidenziato due in particolare. Una è l’impossibilità della conciliazione degli
estremi (Magalhães 1999: 130). Basta leggere alcuni sottotitoli che appaiono in O Verão
Selvagem dos Teus Olhos o in As Duas Casas, per verificare come l’idea di un altro lato è
sempre presente: “Alice dall’altro lato dello specchio”, “La casa dall’altro lato del cancello”,
“La casa dall’altro lato della nebbia”. È come se ci trovassimo davanti a un miraggio che
inseguiamo storia dopo storia, cerchio dopo cerchio, fino all’infinito. Per questo, Magalhães
ritiene che la relazione ciclica e speculare tra la fine e l’inizio della storia sia un altro dei temi
pereiriani per eccellenza (Magalhães 1999: 137).
Sulla scia di questa intuizione, Fernando Guerreiro nella postfazione di O Fim de Lizzie e
Outras Histórias, osserva a sua volta che “nonostante l’apparente volontà di ritorno all’origine,
nei libri di Ana Teresa Pereira si può dire che tutto è già iniziato, che tutti noi siamo arrivati
ormai dopo la creazione e soffriamo della violenza di una rottura originale, che ci ha rubato la
possibilità di una relazione completa (…) con il reale” (Guerreiro 2009: 213). I personaggi
nominano gli oggetti che li circondano come se volessero aggrapparsi a qualcosa di concreto.
Amano, creano, disegnano, dipingono, stabilendo un contatto breve ma significativo con la
realtà che sfugge davanti a loro, come se cercassero di lasciare il segno del loro passaggio.
L’impressione stessa di carnalità è sempre qualcosa di evanescente o comunque
minacciato dalla scomparsa. Come nei quadri di Rothko, uno dei pittori di riferimento per Ana
Teresa Pereira, la sua scrittura sembra la radiografia di un momento, un tentativo di stabilizzare
un’instabilità. Non sarà un caso che uno dei temi più trattati sia il tema della morte apparente
come in Richilde di J.K. Musäus, o che, ad esempio, una delle immagini più rivisitate sia
l’Ophelia di John Everett Millais, che richiama fortemente quel legame inscindibile tra amore e
morte, bellezza e macabro, tanto caro ai romantici di cui parla Mario Praz in La carne, la morte
e il diavolo.
Un legame che, del resto, si può collegare a un’altra caratteristica già evidenziata da
Guerreiro (2009: 220), che fa notare la frugalità dei pasti consumati dai protagonisti dei romanzi
pereiriani. Questa impressione di anoressia letteraria si combina immediatamente con
l’impressione di trovarci davanti a dei personaggi eterei, semi-spettri, sempre in transito fra due
mondi. Questa condizione suggerisce a sua volta che il loro nutrimento sia una qualche sostanza
invisibile. Di fatto, si può affermare che i romanzi di Ana Teresa Pereira creano un mondo a
parte. Si direbbe che le sue storie si situino fuori dal tempo del mondo.
Per quanto riguarda lo stile, c’è da dire che la scrittura di Ana Teresa Pereira non ostenta
nessuna complessità verbale. Le frasi sono semplici, il lessico ridotto, i campi semantici
circoscritti, le descrizioni suggestive, i dialoghi naturali, quasi sempre intimi e limitati a due
voci. C’è però un sistema di riferimenti fortissimo che non evolve o si trasforma, piuttosto varia
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e si combina in un altro modo, come qualcosa di malleabile ma intrinsecamente centripeto, che
cambia di aspetto, ma mai di sostanza. C’è poi una tecnica sopraffina di combinatorie verbali
che suggeriscono l’immagine psichica, la sospensione del mondo reale, il sonnambulismo
orfico, il paesaggio contaminato di mistero, l’aria densa abitata da esseri invisibili.
Ciò rende il percorso di lettura un viaggio verso un luogo che “che talvolta appare e a volte
no”. Per questo, tradurre Ana Teresa Pereira è un’esperienza che non lascia indifferenti. Bisogna
accettare il gioco dell’autrice e cercare di ricostruire il medesimo clima psichico favorevole a
una rivelazione imminente. Lasciare le scarpe sulla soglia ed entrare a passo felpato, seguendo
le sue orme nel bosco, per non svegliare i mostri che lì dormono.
Lo stesso accade con il romanzo O Verão Selvagem dos Teus Olhos, i cui due capitoli
iniziali si presentano a seguire in traduzione. Il lavoro di traduzione di O Verão Selvagem dos
Teus Olhos può essere svolto solo se lo si considera in relazione – allusiva e trasversale – con il
romanzo Rebecca di Daphne du Maurier (1938) e soprattutto con il celebre adattamento
cinematografico di Alfred Hitchcock (1940), entrambi riattivati come memoria fantasmagorica
nel romanzo portoghese. Nelle storie di Ana Teresa Pereira gli spazi-sentimento sono sempre gli
stessi: la casa, la biblioteca, il giardino. Manderley, il luogo dove si svolge l’azione del
romanzo, è una sorta di vaso di Pandora, che contiene tutti gli altri spazi. Sono spazi avvolti in
qualcosa di sinistro, di misterioso, da suspense filmica.
Come ci ricorda la traduttrice Franca Cavagnoli, “quando si legge un testo in vista della
traduzione, tra le prime cose a cui bisogna prestare attenzione c’è il tipo di narratore scelto
dall’autore per raccontare la storia” (Cavagnoli 2012: 18). Senza poi dimenticare che la distanza
focale non è soltanto una posizione percettiva, ma anche una posizione concettuale. La
focalizzazione non si limita a organizzare le percezioni, ma crea un mondo immaginario che si
propone come immagine di un mondo reale. Questa “realtà” tende a imporsi agli occhi del
lettore, obbligandolo a condividere lo stesso punto di vista e a partecipare a un mondo che
adesso è costretto ad accettare come suo, se vuole realmente capire il testo (cf. Turchetta 1999: 5
passim). È una questione fondamentale in O Verão Selvagem dos Teus Olhos, dato che il punto
di vista che sorregge l’intero romanzo è quello di un fantasma.
Per tradurre O Verão Selvagem dos Teus Olhos – si ricordi che nel titolo è già presente il
tema dello sguardo (L’Estate Selvaggia dei tuoi Occhi) –, è quindi necessario identificare in
primo luogo le linee di forza percettive che attraversano lo spazio. Manderley è un macrocosmo
composto da microcosmi: “o jardim, a enseada, a casa de praia, são lugares onde estive em
criança” dice Ana Teresa Pereira in risposta a una nostra intervista. Questi sono i confini del
luogo, da quello più vicino a quello più lontano. Tenuto conto di questo scenario, la nebbia che
spesso avvolge tutto pone un evidente problema percettivo. La nebbia è soprattutto una
suggestione: offusca la percezione del luogo, impedisce di “vedere”.
A chi impedisce di vedere? Tanto ai personaggi quanto al lettore. Chi realmente vede – chi
ci fa vedere – è un fantasma e un fantasma cambia forma quanto la nebbia. Ciò crea una
dislivello fra il vedere e l’essere visto. Della nebbia si dice, nel romanzo, che è “fonda come un
pozzo”. Questo paragone suggerisce una specie di canale ottico, una protesi dello sguardo. È
come se la nebbia venisse dall’altro lato e che dall’altro lato ci fosse qualcuno che osserva.
Come è già stato notato dalla critica, in tutta l’opera di Ana Teresa Pereira sembra esistere un
unico personaggio che vive in un mondo popolato dalle sue creature. Nel romanzo in questione,
questo personaggio è un fantasma che vive circondato da “persone”. La storia è narrata, quindi,
dal punto di vista di una donna morta.
Per capire l’(in)consistenza del personaggio, non possiamo trascurare la fitta rete di
rimandi ma anche di piccoli tradimenti, a volte quasi impercettibili, al romanzo Rebecca – che
confluiscono verso una nuova logica narrativa. Si tratta fondamentalmente di un originale e
inatteso cambiamento di prospettiva: Rebecca, nome onnipresente come ricordo nel romanzo di
Daphne du Maurier, si materializza narrativamente in Ana Teresa Pereira, diventa voce e centro
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autoptico da dove la realtà viene percepita. Questa prospettiva è sintetizzata nel capitolo “Alice
dall’altro lato dello specchio”, nel seguente passo: “Cercai il mio riflesso sulla vetrata per
sistemare i capelli, è strano come non abbandoniamo le vecchie abitudini, ma sulla vetrata
vedevo soltanto il giardino, gli alberi che iniziavano a diventare scuri” (Pereira 2008a: 48).
Questa frustrante limitazione di un narratore-fantasma – la sua incapacità di agire, e cioè di
determinare con i suoi atti il corso delle azioni, dato che non è in grado di toccare, di
abbracciare, di stabilire un contatto fisico con gli altri personaggi – finisce per invertirsi in un
importante vantaggio cognitivo a suo favore: Rebecca, l’angelo cattivo, sa sempre più della
nuova sposa di Max de Winter, l’angelo buono. Si veda anche questo passaggio: “Per la prima
volta mi domando cosà saprà lei di me, questa intrusa che si siede al mio posto a tavola o sulla
sedia nella biblioteca e indossa il mio impermeabile che le sta troppo lungo. Cosa le avranno
detto di Rebecca de Winter, avvertirà la mia presenza quando sono dietro di lei, usa un profumo
leggerissimo, una semplice acqua di colonia, sentirà il mio profumo? Sentirà i miei passi o lo
strascichio del mio vestito quando la seguo per i corridoi?” (Pereira 2008a: 61).
Per questo Manderley è un luogo saturo di indizi della presenza di Rebecca: è lo scenario
in cui agisce, molte volte vicinissima agli altri personaggi che non la vedono, ma percepiscono
la sua presenza. Questo finisce per creare la sensazione di una coscienza itinerante o di una
memoria flagrante, che si aggira prigioniera della casa (o con-fusa con essa) e in qualche modo
dipendente della memoria degli oggetti e delle persone che l’hanno conosciuta in vita, sulle
quali proietta l’ombra della sua influenza. Questo rapporto può essere riassunto dal commento
di Jacques Lacan «Tu ne me vois pas d’où je te regarde» (Lacan 2006, 375), citato dalla stessa
autrice per caratterizzare il rapporto tra sguardo e oggetto: l’oggetto fondendosi nello sguardo
diventa nient’altro che sguardo.
Tradurre O Verão Selvagem dos teus Olhos significa tener conto dell’adattamento
cinematografico di Hitchcock in modo da visualizzare – concetto fondamentale in Ana Teresa
Pereira – le scene viste con gli occhi di questo narratore invisibile. La mediazione filmica ha
una funzionalità superiore a quella che a prima vista si suppone: funziona come memoria visiva.
Altrimenti, si farebbe fatica a immaginare certe situazioni narrative, come succede, ad esempio,
nel capitolo nono. In questo capitolo si direbbe che il punto di vista del narratore-fantasma si
sovrapponga spesso a quello di uno spettatore che assiste al film. Nel tradurre bisogna rispettare,
scrupolosamente, la stessa distanza focale, poiché è proprio la distanza focale a suggerire gli
spostamenti veloci di un fantasma. Vediamo qualche esempio e la rispettiva resa (i personaggi
sono: Max, il signore di Manderley, la nuova moglie, Jasper, il vecchio cane e Rebecca, il
fantasma):
A rapariga vestiu uma gabardina, uma das que estão no quarto de jardinagem e ainda deve
conservar um pouco do meu cheiro (…). ele deu-lhe a mão quando entraram no bosque (Pereira
2008a: 59).
La ragazza si mise un impermeabile, uno di quelli che sono nella stanza del giardiniere e deve
conservare ancora un po’ del mio profumo (…). Le diede la mano quando entrarono nel bosco.
Jasper corria à frente e de vez em quando voltava-se, para se certificar de que nós o
acompanhávamos. Quando chegámos à clareira onde a vereda se divide em duas, Jasper hesitou
como de costume (Pereira 2008a: 59).
Jasper correva davanti a noi e ogni tanto si girava per accertarsi che lo seguivamo. Quando
arrivammo alla radura dove il sentiero si divide, Jasper esitò come al solito.
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Max esperou que ela fosse ao seu encontro e depois seguiu pelo outro caminho (…). Ela e Jasper
têm dificuldade em acompanhá-lo, e eu sigo-os à distância. Tenho a impressão de que ela está quase
a chorar (Pereira 2008a: 62).
Max aspettò che lei gli andasse incontro e poi proseguì per un altro cammino (…). Lei e Jasper
fanno fatica ad accompagnarlo, e io li seguo a distanza. Ho l’impressione che lei stia quasi per
piangere.
Eu deixo-me ficar no jardim, encostada ao tronco do castanheiro. (…) A chuva cai com mais força,
as luzes da sala de jantar acendem-se e um criado passa em frente da janela (Pereira 2008a: 62-63).
Io rimango in giardino, appoggiata al tronco di un castagno. (…) La pioggia cade con più
insistenza, le luci del salotto si sono accese e un domestico passa davanti alla finestra.
Come si evince dagli esempi è tra l’enunciazione e la focalizzazione che si gioca l’effetto
di verosimiglianza delle situazioni. Il “noi” inclusivo del secondo caso è un bell’esempio di
cambiamento momentaneo del punto di vista: il vecchio cane percepisce la presenza di Rebecca,
la sua ex-padrona, e la include nel suo campo visivo. L’ultimo caso è anch’esso un esempio
palese della tecnica narrativa di Ana Teresa Pereira: la scena è vista dal giardino sotto la pioggia
battente. A rendere convincente la focalizzazione su questo punto è la presenza del domestico
che attraversa il campo visivo. Il contrasto suggerito tra dentro/fuori, luce/ombra, caldo/freddo,
asciutto/bagnato rende bene la solitudine del fantasma, estromesso dal convivio dei viventi. La
memoria del cinema è essenzialmente una memoria di immagini non una memoria di storie (cf.
Martelo 2012: 188). Sembra essere proprio questo il principio fondante dell’intero universo
immaginario di Ana Teresa Pereira, il quale può essere sintetizzato dalle parole di Maurice
Blanchot (apud Croisile 2009, 140): “qui veut se souvenir doit se confier à l’oubli, à ce risque
qu’est l’oubli absolu et à ce beau hasard que devient alors le souvenir”.
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GAIA BERTONERI • Master degree in Portuguese literature. She presented in 2013 her thesis
based on the translation and analysis of the novel O Verão Selvagem dos Teus Olhos by Ana Teresa
Pereira. She teaches Italian language and literature at the french school Victor Hugo in Florence.
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[email protected]
«Je reviens»
Gli ultimi giorni di aprile. C’è nebbia, fonda come un pozzo, intrisa di un leggero profumo
di fiori. Nel paese dove abitiamo i rododendri e le azalee iniziano a fiorire gli ultimi giorni di
aprile. Come qualcosa di nuovo. Inquietante e nuovo. E ci sentiamo appagati, perché il giardino
è la nostra creazione, lavoro delle nostre mani e della nostra anima, in qualche modo assomiglia
a noi, ha il nostro odore. Quando ci siamo incontrati a Madrid, lui mi disse che profumavo di
albicocca. A volte di mandarino. Successivamente mi guardò in modo strano e mi disse che io
profumavo di azalee, il profumo del giardino, quella parte del giardino che a lui piace di più, tra
i prati e il mare. Una valle tranquilla.
Alcune specie di rododendri vivono centinaia di anni. Crescono nei boschi, dove prendono
ombra ogni giorno. Si nutrono direttamente dell’humus del suolo, dato che le foglie cadute in
autunno, dagli alberi che li circondano, marciscono per terra. L’umidità indispensabile alle
radici più sottili è trattenuta dalla materia organica, e le sostanze nutrienti ritornano al suolo
seguendo un ciclo naturale.
Domando a me stessa come sarà vivere centinaia di anni. Il pittore giapponese Hokusai
scrisse che a settantatre anni iniziava a comprendere la natura degli uccelli, degli animali, dei
pesci, degli insetti, la natura vitale dell’erba e degli alberi, forse a novant’anni avrebbe penetrato
più a fondo il mistero delle cose, a cento il suo lavoro sarebbe arrivato alla fase dello stupore, a
centodieci, ogni punto, ogni linea, avrebbero preso vita.
In realtà, non ho mai voluto vivere a lungo. Finirla presto, e velocemente, come la fiamma
di una candela spenta da qualcuno nel buio. Non mi piaceva l’idea di invecchiare. Negli ultimi
tempi c’era già qualcosa, qualche ruga all’angolo della bocca, inizia dalla bocca…
Gli specchi vuoti riflettono le stanze e i vasi di fiori, e soltanto dopo il viso, allungato,
pallido, gli occhi verdi, quasi grigi, i capelli lunghi e scurissimi. La creatura più bella che avesse
mai visto in vita sua. Non la donna più bella. La creatura più bella. La creatura più bella che la
maggior parte delle persone abbia mai visto in vita sua.
Gli specchi vuoti riflettono le stanze e i vasi di fiori. E dopo, soltanto dopo, la sagoma
esile che cammina lentamente, come se riconoscesse il territorio, una volta e un’altra ancora. E
tuttavia conosco così bene la casa, gli angoli, le ombre, i mobili, gli oggetti, i libri. I romanzi
dell’Ottocento. I libri di poesia. E gli scaffali pieni di volumi rilegati che si trovavano qui prima
di me, che ho sfogliato nei primi tempi, ma sembravano rifiutarmi, come se stessero bene così,
chiusi, addormentati. I libri hanno un’esistenza tutta loro anche quando nessuno li legge,
nessuno li sfoglia, nessuno li annusa. Ed ho lasciato che continuassero a dormire, perché erano
in fondo alla casa, facevano parte dell’anima primitiva della casa e non avevano bisogno di me.
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Mi è sempre piaciuto girare intorno alla casa, all’alba. Facevo la stessa cosa nella casa
dove sono cresciuta, ancora più vecchia e più piccola, con i lillà in veranda e un tappeto d’erba
davanti che nel mese di marzo si copriva di narcisi gialli.
Mi è sempre piaciuto girovagare per case, per città, per parchi, per boschi. Ma alla fine
non c’era nulla. Forse non sono andata abbastanza lontano. A vent’anni programmavo grandi
viaggi, il Giappone, la Russia, e un giorno lo incontrai, a Madrid, e da quel momento l’idea di
un viaggio era un hotel a cinque stelle in una città europea. E alla fine non c’era nulla. Non si
arrivava da nessuna parte.
Un tramonto di aprile. Nel nostro paese i rododendri e le azalee iniziano a fiorire gli ultimi
giorni di aprile. Mi avvicino alla finestra e cerco inutilmente il mio riflesso sulla vetrata. Fuori i
rododendri… alberi di rose. Rhodon – rosa; dendron – albero. I fiori iniziano a germogliare,
piccole fiamme rosse nel fogliame. Sotto la finestra ci sono le azalee. Questa specie necessita di
acqua ogni giorno, quando è in fiore, preferibilmente di acqua piovana, precedentemente
conservata, perché è acida ed è a temperatura ambiente. I fiori, color pesca, sono inodori. (Il
profumo più intenso è quello dell’azalea Pontica. Nei giorni di sole, un solo arbusto può
avvolgere il giardino in una fragranza dolce e penetrante.)
Alla fine il mio riflesso sul vetro, confuso con le prime ombre. Il che mi tranquillizza un
po’. Il viso allungato, il grande ammasso di capelli scuri. Sussurro il mio nome, varie volte di
seguito e anche quello mi tranquillizza un po’. Rebecca. Rebecca de Winter. E la casa si chiama
Manderley. In ogni paesino della Cornovaglia i turisti possono comprare delle cartoline che
raffigurano Manderley con colori accesi. Il lunedì mattina la casa è aperta ai visitatori.
Non voglio dimenticare. Nulla. Le cose importanti. Sono una donna che ha perso il
contatto con le cose non essenziali. Una frase di un libro, magari di una pièce teatrale. E, come
se pregassi, cerco di ricordare le cose essenziali.
Ricordo la preghiera che recitavo ogni notte, e una canzone che una delle mie tate mi ha
insegnato, Willow Wally. We lay my love and I beneath the weeping willow…
We lay my love and I beneath the weeping willow.
But now alone I lie and weep beside the tree.
Singing “Oh willow wally” by the tree that weeps with me.
Singing “Oh willow wally” till my lover returns to me.
We lay my love and I beneath the weeping willow.
A broken heart have I. Oh willow I die, oh willow I die.
Non so perché, ma sono sempre a canticchiare questa canzone. Non lo facevo dal tempo in
cui pregavo ogni notte, affinché Dio custodisse la mia anima se io fossi morta prima di
svegliarmi. Le cose essenziali:
Qualche anno fa, vidi Duke Ellington che suonava il piano in un bar di Londra. Una notte
di settembre, vidi Michael Redgrave che rappresentava Amleto a Stratford-upon-Avon.
Mi addormentai nei boschi, a maggio, in mezzo alle campanelle blu (e in nessuna parte
dell’Inghilterra hanno un blu simile a quello dei campi che circondano Manderley).
In un tramonto di nebbia, mi persi per le viuzze di Londra, vicino al fiume. Entrai in un
negozio buio e comprai un anello d’argento con una pietrina azzurra.
In un museo di Parigi, vidi alcune copie di Hokusai e Hiroshige. Ed imparai a guardare in
modo diverso la neve, i ponti, il mare, la luna, i fiori di lillà.
In Spagna, vidi i dipinti di El Greco, quei visi allungati, i corpi alti ed esili e un uomo mi
disse che avrei potuto esser ritratta da lui, creata da lui.
In tutta la mia vita, ho avuto cani, cavalli e una barca.
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Ero bella, la creatura più bella che la maggior parte delle persone abbia mai visto in vita
loro.
Feci un giardino con le mie mani, e i miei libri di botanica, e la mia anima. Con l’acqua
piovana e le foglie dell’anno precedente.
Per alcuni mesi, un uomo fu innamorato di me ed io fui innamorata di lui. Fuori, è notte
inoltrata. La massa scura dei rododendri, davanti alla finestra. I suoni indistinti della notte. Il
mio riflesso è scomparso dalla vetrata. Dentro casa è buio, il focolare è spento, suppongo che
faccia freddo. A me è sempre piaciuto più il freddo del caldo, più l’ombra della luce, più
l’amaro del dolce.
Non mi piace molto vagare per casa dopo il crepuscolo. Le creature della notte avranno
paura del buio?
Adesso vado in biblioteca. Mi piace trascorrervi la notte. Non manca mai la brace sul
focolare… e le ceste per i cani… Mi piace sedermi accanto a loro, le gambe accavallate, mentre
loro si addormentano tranquilli perché sanno che io sono lì. Sentono la mancanza del padrone.
Anche io la sento.
Non è difficile trovare il percorso per la biblioteca. La galleria centrale, un corridoio, la
porta della biblioteca. Negli ultimi tempi vedo al buio… Una strana familiarità con gli animali
selvaggi e gli angeli.
Spero che lui torni. Nei primi mesi, passava la notte qui, insonne, camminando da una
parte all’altra. Una mattina, prima della colazione, se ne andò.
Dovrà tornare, prima o poi. Perché io sono qui e lui non riesce a stare a lungo lontano da
me.
Ed io riconoscerò i suoi passi, come la cagna cieca riconosce i miei passi nel buio.
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A quindici anni sognavo Mr. Darcy e le fiabe.
Era una mattina d’inizio maggio, l’auto procedeva lentamente lungo il viale scuro, dove il
sole non entrava. Le cime degli alberi si chiudevano, formando un tunnel. La vegetazione
intorno era selvaggia, i rampicanti voraci avvolgevano i tronchi, le erbacce crescevano
spontaneamente fra gli arbusti. Alleggiava su quel posto un silenzio pieno di uccelli.
Sembra di essere in un racconto dei fratelli Grimm, disse Rebecca.
Il padre distolse lo sguardo dal percorso e le sorrise.
Se fosse un racconto dei fratelli Grimm…
Sì.
Tu eri in casa, in fondo al viale.
Come una principessa.
Tu sei una principessa.
La chiamava la sua principessina da tanto. Non era più giovane quando lei era nata, e la
morte della moglie poco dopo li aveva lasciati da soli. La vecchia casa era il suo castello, un
castello un po’ fatiscente, con le tende di velluto alle quali il tempo aveva sbiadito i colori, i
mobili e i quadri che alle volte scomparivano misteriosamente, un ampio giardino dove un solo
giardiniere si sforzava di tenere in vita qualche pianta, le azalee sotto la finestra, i rododendri
lungo i vialetti, le ninfee negli stagni, le campanelle bianche e i narcisi sul prato.
Quando aveva sei o sette anni, Rebecca immaginò che il padre l’avrebbe rinchiusa in un
collegio, in una delle vie più buie di Londra, prima di disperdere quello che rimaneva della sua
fortuna. E avrebbe vissuto in una soffitta, con una botola che dava sui tetti di Londra, e avrebbe
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Dall’altro lato delle cose
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camminato per le vie in inverno, con un vecchio vestito azzurro e il suo unico paio di scarpe,
ogni giorno più consumate. Ma sarebbe sempre stata una principessa.
Tuttavia, non aveva motivo di preoccuparsi. Se il padre, in gioventù, aveva disperso la
fortuna della famiglia quasi in un batter d’occhio, il fatto di avere una figlia lo fece diventare
previdente. Continuava a spendere più di quello che doveva perché desiderava che la figlia
avesse il meglio; come quando organizzò la festa per i suoi quindici anni, durante la quale
ricevette gli invitati con lei al suo fianco, con un vestito bianco addosso e delle perline
intrecciate nei capelli e (a lui così sembrò) un po’ di trucco.
Rebecca. Era così bella che faceva addirittura fatica a immaginare da dove fosse venuta, la
madre era incantevole, ma non aveva quella bellezza intensa e inquietante che la figlia aveva
rivelato sin dai primi anni dell’adolescenza. Era intelligente, persino brillante, ed era stata
educata dai migliori precettori. Le comprava delle fiabe e storie di pirati, ed era a conoscenza
che erano i suoi libri prediletti; ma fin da subito aveva manifestato un grande interesse per la
letteratura e per l’arte.
Tuttavia, c’era qualcosa in lei di ragazzino ribelle, nel modo in cui trattava i cavalli, e
nuotava nell’acqua fredda, e imponeva la sua volontà ai precettori e alla servitù. Rebecca con i
capelli raccolti, inseguita dai suoi due cani, mentre istruiva il giardiniere e sfogliava libri di
botanica che nemmeno lui sapeva che esistessero in casa.
Quel giorno presentava il suo stile più femminile, con un vestito verde, troppo caro e forse
troppo da adulta, e i capelli scuri, foltissimi, pettinati dietro le orecchie.
Il viale sembrava non aver fine.
Se io vivessi qui, disse Rebecca.
Trasformerei tutto.
Se io vivessi qui pianterei dei rododendri lungo il percorso, rododendri rossi, e delle
ortensie, per farle fiorire dopo i rododendri…
Il viale descrisse un’altra curva tortuosa e si trovarono in un’ampia radura. La casa
apparve all’improvviso, quasi come se si materializzasse davanti a loro, ed entrambi trattennero
il respiro.
È come nelle cartoline, disse lei sottovoce.
La casa di pietra grigia era enorme, con un disegno perfetto, i comignoli simmetrici, una
terrazza davanti: gli scalini scendevano fino ai prati, che si estendevano verso il mare.
Manderley. Sono stata qui molti anni fa, a una festa.
Chi erano i proprietari?
I signori de Winter. E c’era un ragazzino.
Lui fermò l’auto nel cortile di pietra. C’erano alcune macchine parcheggiate più avanti.
Un maggiordomo, ancora giovane, li ricevette all’ingresso. Era lunedì, il giorno in cui la
casa era aperta ai visitatori. Si unirono a un gruppo che percorreva le stanze del pianoterra.
Rebecca si ricordò di Lizzie, mentre visitava il palazzo di Mr. Darcy. Era da poco più di un
anno che Jane Austen era diventata la sua scrittrice preferita. E s’immedesimava nelle sue
eroine, Lizzie, Emma e Marianne. Come Marianne, si sarebbe potuta innamorare solo di un
uomo che avesse provato le stesse emozioni per la musica, i libri, le poesie. Qualcuno tanto
innamorato quanto lei. E allo stesso tempo freddo e orgoglioso come Mr. Darcy, forse freddo e
affettuoso come Mr. Knightley. Da un po’ di tempo si era accorta che la sua bellezza attirava gli
sguardi degli uomini. E l’idea la divertiva. Sarò così bella che avrò tutti gli uomini che vorrò.
Il padre aveva iniziato a parlare con una donna giovane che faceva parte del gruppo.
Rebecca lo seguì con gli occhi, pensierosa. Non le piaceva l’idea che lui fosse stato lì in qualità
di invitato, e che adesso attraversasse le stanze aperte al pubblico come un turista. Ad ogni
modo, lei provava avversione per i gruppi. Quello che le interessava della casa erano le stanze
dietro le porte chiuse, le stanze in cui loro vivevano. Approfittò del momento in cui il
maggiordomo mostrava un vecchio ritratto e sgattaiolò per un corridoio.
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Aspettò un po’, per accertarsi che nessuno si fosse accorto della sua fuga. Poi tirò dritto, in
tutta naturalezza, come se fosse a casa sua. Aprì la porta in fondo al corridoio.
Entrò, trattenendo il respiro, e chiuse la porta dietro di sé. Soltanto dopo si guardò intorno
e vide che si trovava in un’enorme biblioteca.
La sua prima impressione fu quella di conoscere quel posto. Il salotto con le tende scostate
e una finestra aperta, ma da dove sembrava non passare il fresco. Le pareti coperte di scaffali
fino al soffitto. C’era un profumo intenso di rose e lillà e fumo da tabacco, e libri vecchi. I vasi
erano stracolmi di lillà, e un’ape svolazzava tra i fiori del vaso più vicino. Il focolare era spento
e faceva freddo.
Si voltò di colpo quando sentì qualcosa intorno alle gambe. Uno spaniel dal pelo dorato le
annusava la caviglia. Rebecca s’inginocchiò e lo prese in braccio; lui le leccò il viso. Era come
se l’avesse riconosciuta, come se avesse sentito la sua mancanza.
Si avvicinò alla scrivania che si trovava in un angolo. C’erano alcuni libri e dei calamai,
un giornale del giorno precedente. Un libro aperto quasi alla fine.
Rebecca prese il libro con un’emozione strana. Era una raccolta di poesie di Stevenson, ed
era aperta a una pagina dove una poesia era sottolineata.
My house, I say
Lesse la poesia a bassa voce. Aveva l’impressione di averla già letta in precedenza. Era
cresciuta con le poesie di Stevenson che parlavano della Regina della Neve, di torri misteriose e
gabbiani, dell’uomo che ogni notte accendeva i lampioni nelle vie.
Una voce aspra la interruppe.
Lei chi è?
Il cane saltellava intorno a un ragazzo di una ventina d’anni che era entrato nel salotto. Un
ordine secco lo fece accucciare, ma i suoi occhi brillavano di venerazione. Il ragazzo era alto,
dai capelli e gli occhi castani, molto bello. Ma il suo sguardo severo la intimidì.
Stavo visitando la casa.
La biblioteca non è aperta al pubblico.
Lo so.
Allora, cosa ci fa qui?
Aveva un’espressione così intimidatoria che Rebecca indietreggiò involontariamente.
Ma lo fissò dritto negli occhi prima di parlare.
Me ne vado subito.
Quando si trovò dall’altro lato della porta, prese a correre. Uscì in giardino e si appoggiò a
un albero. Si accorse di aver portato il libro con sé e lo strinse al seno.
Che vada al diavolo, mormorò.
Lui l’aveva trattata come una bambina. O un’intrusa.
E, tuttavia, la strana familiarità che aveva sentito nella biblioteca, il modo in cui il cane
l’aveva accolta… Si sentì inaspettatamente felice.
Non gli venne nemmeno in mente di restituire il libro. S’incamminò verso l’auto e aspettò
che il padre tornasse.
Ana Teresa Pereira
O Verão Selvagem dos Teus Olhos
Lisboa, Relógio D’Água, 2008, pp. 11-21
Traduzione dal portoghese di Gaia Bertoneri
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