LABORATORIO
54
PUBBLICAZIONI DELL’ISTITUTO
SUOR ORSOLA BENINCASA
Università degli Studî
Suor Orsola Benincasa
Giornate di studi
«Illusione. Atti del primo Colloquio di Letteratura italiana»
Napoli, 7-9 ottobre 2004
Questa collana risponde all’esigenza di fornire
ad un pubblico più vasto memoria del lavoro culturale e di ricerca
che ha luogo nell’Istituto Suor Orsola Benincasa
ILLUSIONE
DEL PRIMO COLLOQUIO
ATTI
DI LETTERATURA ITALIANA
A CURA DI
SILVIA ZOPPI GARAMPI
Questo volume è stato stampato con il contributo del
Copyright 2006 CUEN srl Napoli
MACHIAVELLI
E L’ILLUSIONE DIABOLICA DEL POTERE
PAOLA VILLANI
Ogni vocabolo porta seco, in misura maggiore o minore,
l’appicco a equivoci perché si aggira in questo basso mondo,
che è pieno di tranelli; e la ricerca di vocaboli
che impediscano assolutamente gli equivoci,
di quel fissamento dei significati che è il sospiro
di molte anime candide,
riesce affatto vana, perché bisognerebbe anzitutto
tarpare le ali allo spirito umano,
fermarlo nella sua opera incessante, progressiva e rivoluzionaria 1.
Nella piena coscienza dell’opportunità di questo scoraggiante
ammonimento crociano, il tentativo di lettura e comprensione del
lemma «illusione» in Machiavelli apre vasti scenari ermeneutici,
come campo dei possibili, come nuova chiave interpretativa di uno
degli autori più noti e discussi di tutta la cultura mondiale, e forse
come fondamento teorico del passaggio stesso dall’uomo e scrittore
Machiavelli a quel complesso e variegato fenomeno plurisecolare
che prende il nome di ‘machiavellismo’.
Purtroppo, necessaria premessa metodologica è che si tratta di
un iter in absentia: il termine «illusione» specificamente non compare in nessuno scritto machiavelliano. A dispetto di quest’assenza,
1 B. CROCE, Logica come scienza del concetto puro, Bari, Laterza, 1947 7 (I
ed. 1909), p. 24.
138
Paola Villani
però, Machiavelli insiste molto su questo stesso campo semantico:
alla «illusione», per diversi aspetti e con diversi rinvii, in modo diretto o indiretto, rimandano tutti gli scritti ed il pensiero stesso del
Segretario.
Innanzitutto, l’atto stesso di scrivere di politica si riconnette ad
una sua radice di «ambiguità», come insegna, tra i primi, il Ritter
nel noto volume sul Volto demoniaco del potere 2. Questa sfera
dell’«ambiguità» e dell’«incerto», nel quale si aggirerebbe qualsiasi
teorizzazione del potere, e dunque qualsiasi trattato che se ne occupi, viene celebrata a battesimo proprio nel Rinascimento, come
inizio dell’età moderna: il «politico» come sfera della sospensione
del giudizio etico, connaturata ambiguità di bene e male e dunque
terreno ingannevole, diabolico, appunto, secondo l’etimo greco (diaballo: inganno, scissione).
C’è dunque, fondato o meno, un tono satanico e demoniaco
nella figura e negli scritti di Machiavelli, un’anima oscura che si
presenta come chiave interpretativa di questo breve percorso incrociato tra il lemma «illusione», il suo vasto campo semantico, ed il
Segretario fiorentino. In fondo, quando Machiavelli dichiara di
amare «la patria più dell’anima», sembra quasi proporre un patto
faustiano col diavolo, un baratto della sfera etica, e dunque dell’anima, in cambio della sfera politica. L’assioma di fondo, che mutiamo dal sia pur superato ma affascinante testo del Ritter, è che
«demoniaco» non corrisponde alla negazione del Bene: «non è la
sfera della totale oscurità che si contrappone alla piena luce, ma è
quella mezza luce crepuscolare, dell’ambiguità, dell’incerto, di ciò
che vi è di più profondamente sinistro» 3. La suggestione di Ritter si
estende all’essere «posseduti da quella volontà senza di cui non ha
luogo nessuna grande creazione di potenza» 4; ma forse, almeno per
2 G. RITTER, Il volto demoniaco del potere, Bologna, Il Mulino, ed. it. 1997
(I ed. 1958).
3 Ivi, p. 13. Cfr. anche D. MAZZÙ, Mythos e Logos. Due figure dello scisma,
in Miti simboli e politica. L’immaginario e il potere, a c. di G.M. Chiodi, Torino,
Giappichelli, 1992, pp. 217-223.
4 G. RITTER, Il volto demoniaco del potere, cit., p. 13. Il Ritter continua con
una presa di posizione estrema: «Il fatto che una costruzione politica non sia quasi
mai possibile senza grandi distruzioni di valori umano-morali, che la potenza così
spesso sia contro il diritto, che nella volontà di potenza degli antagonisti politici
Machiavelli e l’illusione diabolica del potere
139
Machiavelli, ci si potrebbe fermare alla prima definizione, senza cadere nella suggestiva immagine dell’invasamento del Segretario.
Diabolon, quindi, come elemento gnosticamente necessario, o come
altro volto del divino, o ancora come elemento assimilabile all’alchimistico principium individuationis, ossia condizione indispensabile al raggiungimento della completezza del divino stesso 5. Il diabolico, inoltre, è, insieme, anche il titanico e sprezzante rifiuto della
società borghese laica, emblema del disordine interiore in una società senza dio eppure volutamente ordinata: è insomma ciò che
connota l’Altro nella società moderna, è il Nulla della società contemporanea 6.
Questa immagine ‘demoniaca’ del pensatore politico non è
certo nata col Ritter, ma vanta secoli di studi critici su Machiavelli
in tutta Europa, spesso nasce come derivazione, strada alternativa,
rispetto alla critica ufficiale.
All’interno della sterminata bibliografia machiavelliana resta
un punto di partenza di unanime accordo: ed è l’immagine di Machiavelli come fondatore, o almeno alfiere, dell’età moderna, l’immagine, suggerita da De Sanctis, di colui che respinse gli ideali
ascetici «di una civiltà al tramonto» 7. Nemico dei miti e fondatore
di una razionalità che non è fedele neppure all’imperante umanesimo, Machiavelli passa alla storia come fiero e forse donchisciottiano nemico della «illusione», sia pure sotto la veste di «immaginazione» o di «mito», politico o religioso che sia. Afferma un nuovo
ideale umano dinamico, senza pregiudizi, volto all’azione. Respinge
un’estrema abnegazione (al servizio, per esempio, di un’idea) si accompagni necessariamente al più alto egoismo, se vuole avere successo: tutto questo appartiene
a quel demoniaco che è insito nel potere. […] Ciò che Machiavelli seppe vedere
di demoniaco nel potere, acquista il significato di una scoperta realmente nuova, e
non solo di fronte al medioevo. Anche l’antichità non ne ebbe piena cognizione»
(ibidem).
5 Cfr. C.G. JUNG, Risposta a Giobbe, in Opere, Torino, Bollati Boringhieri,
1992, vol. 11, p. 67 ss.; ID., Prefazione a Z. WERBLOWSKY, Lucifero e Prometeo,
in C.G. JUNG, Opere, vol. 11, p. 300; ID., Il problema del quarto, in ID., Opere,
vol. 11, pp. 182-183.
6 Cfr. C. BONVECCHIO, Immagine del politico. Saggi su simbolo e mito politico, Padova, Cedam, 1995, pp. 177-178. Cfr. anche J.P. SARTRE, L’essere e il
nulla, ed. it. Milano, Mondadori, 1958, pp. 115 ss.
7 F. DE SANCTIS, Saggi critici, Bari, Laterza, 1954 (I ed. 1869), vol. II, p. 315.
Cfr. F. DE SANCTIS, Machiavelli, a cura di A. D’Orto, Atripalda, Mephite, 2003.
140
Paola Villani
i miti politici medievali, dissacra la virtù identificandola con la capacità di servizio nella vita civile. Respinge ogni presenza provvidenziale e vede nella storia il prodotto dell’agire umano nell’immenso conflitto delle forze naturali. De Sanctis, forse per primo,
loda questo atteggiamento disincantato e realistico, la chiarezza, l’irriverenza, l’ironia. La definizione è rinvenuta dal critico nella formula di «borghese» 8, inteso come esponente di una classe che nei
commerci e nei traffici aveva acquistato una visione cosmopolita e
poliedrica del mondo. Già Bacon, d’altronde, nel suo The Advancement of Learning, del Segretario fiorentino lodò la capacità di descrivere «ciò che gli uomini fanno e non ciò che dovrebbero fare»,
quello stesso Bacon che, sulla scorta del Machiavelli, teorizzò il metodo della «verità effettuale» 9.
Sicuramente il realismo politico non fu una prerogativa né una
scoperta di Machiavelli: questo lo ha dimostrato già il Gilbert, studiando le idee politiche di Firenze quali emergono dalle Pratiche e
Consulte nell’età di Savonarola e Soderini 10. D’altronde è l’autore
stesso a definirsi figlio di una «città di parlare avida», ma «che le
cose dai successi e non dai consigli giudica» 11; nutre il suo realismo
dell’avvedutezza spregiudicata degli uomini di cambi e mercature,
si avvicina quindi ad ambienti culturali scientifici, della ricerca rigorosa e coerente, scettici del metafisico e del soprannaturale e di
tutto quanto si discosti dalla verità empirica 12. «In principio era la
8 ID., Storia della letteratura italiana, a c. di B. Croce, Bari, Laterza, 1912,
(I ed. 1870), p. 73.
9 Per un approfondimento del parallelo Machiavelli-Bacone in campo epistemologico cfr. N. ORSINI, Bacone e Machiavelli, Genova, Degli Orfini, 1936,
pp. 36 ss.
10 F. GILBERT, Niccolò Machiavelli e la vita culturale del suo tempo, Bologna, Il Mulino, 1972 (I ed. 1964), p. 106 ss.; G. SASSO, Niccolò Machiavelli, Bologna, Il Mulino, 1993, parte I, Il pensiero politico, pp. 431 ss.
11 N. MACHIAVELLI, Istorie fiorentine, VIII, 22, in ID., Tutte le opere, a c. di
M. Martelli, Firenze, Sansoni, 1971, p. 833. Da ora, per semplicità, tutti i brani
machiavelliani saranno citati da questa edizione indicando soltanto l’autore, il titolo dell’opera ed il numero della pagina di questa edizione Sansoni.
12 Sul «realismo» si direbbe ‘scientifico’ machiavelliano insiste, tra l’altro,
la nota analisi del Firpo. Cfr. L. FIRPO, Nel V centenario di Machiavelli, in Il pensiero politico di Machiavelli e la sua fortuna nel mondo, Atti del convegno internazionale (Sancasciano, 28-29 settembre 1969), Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, Firenze, 1972, p. 4: «I suoi fratelli sono il Brunelleschi, il Leonardo,
Machiavelli e l’illusione diabolica del potere
141
norma», commenta il Martelli mutuando il versetto giovanneo ed
applicandolo al «buon geomètra di questo mondo» 13. La figura del
Segretario fiorentino, dunque, viene progressivamente accostandosi
a quella di Tommaso Moro o Erasmo, i quali, proprio nel periodo
della composizione del Principe, venivano componendo il primo
Utopia, e il secondo la Institutio principis christiani e la Querela pacis. Fino a giungere ad un Machiavelli «scienziato», seguendo l’accostamento a Galilei proposto già da Cassirer 14.
Questo discusso fondatore della politica moderna, però, sia
pure procedente con metodo non scientifico ma «storico-interpretativo» – secondo alcuni mantenendo una forte impronta classica, tesa
non tanto ad affermare l’autonomia della politica, quanto piuttosto a
restaurare la classica scientia civilis 15 – è diventato ben presto uno
degli autori più citati al mondo, da un lato come il diabolico distruttore della morale 16, dall’altro però anche come pensatore repubblicano difensore della libertà, secondo un’interpretazione che
trova seguito anche nella tradizione repubblicana inglese, come attestano, tra i primi, gli studi di John Pocock e Quentin Skinner 17.
gente che non appartiene alla casta degli uomini di lettere […]. Si tratta di un
mondo laico, scettico, diffidente del metafisico e del soprannaturale, assetato di
chiarezza concettuale, di conoscenza concreta».
13 M. MARTELLI, Il buon geomètra di questo mondo, Introduzione a N. MACHIAVELLI, Tutte le opere, cit., p. XI ss. L’espressione «buon geomètra» è utilizzata
da Machiavelli stesso. Cfr. N. MACHIAVELLI, Decennale primo, p. 947: «E s’alcun
da tal ordine s’arretra / per alcuna cagion, essere potrebbe/ di questo mondo non
buon geomètra».
14 Cfr. E. CASSIRER, The Myth of the State, in «Fortune», XV, giugno 1944,
p. 167 ss.
15 M. VIROLI, Niccolò Machiavelli, in Il pensiero politico. Idee, teorie, dottrine, a c. di A. Andreatta, A.E. Baldini, C. Dolcini, G. Pasquino, 4 voll., Torino,
UTET, 1999, vol. II, p. 2.
16 Spesso questa distruzione si affianca all’immagine di un Machiavelli teorico del potere forte, antidemocratico, ad un Machiavelli «monarchico». Su questo
aspetto complesso della critica machiavelliana, cfr. G. FERRONI, Machiavelli o
della contraddizione, in Machiavelli, o dell’incertezza. La politica come arte del
rimedio, Roma, Donzelli, 2003, pp. 5-23.
17 Q. SKINNER (L’origine del pensiero politico moderno, I, Bologna, Il Mulino, 1989, pp. 230-244) ha messo in evidenza che il machiavelliano De Principatibus è una critica alle dottrine umanistiche del buon principe, quelle che si ispiravano al De Officiis ciceroniano. Cfr. anche J.G.A. POCOCK, Il momento machiavelliano: il pensiero politico fiorentino e la tradizione repubblicana anglosassone,
ed. it. Bologna, Il Mulino, 1980, 2 voll. Cfr. anche V. SULLIVAN, Machiavelli,
142
Paola Villani
Semplice difensore dello stato repubblicano oppure vero anticristo, si conviene comunque sulla sostanziale frattura o soluzione
di continuità tra Machiavelli e il pensiero politico classico e anche
umanistico 18.
Questa rottura ha assunto caratteristiche diaboliche già nel periodo rinascimentale, nel quale si è andata formando l’immagine di
un Machiavelli satanico distruttore dell’etica tradizionale. È questo,
in fondo, il tratto principale e più ricorrente del ‘machiavellismo’.
[…] perché io credo che questo sarebbe
il vero modo ad andare in Paradiso:
inparare la via dello Inferno per fuggirla 19.
Nato dall’autore, e malgrado l’autore, il ‘machiavellismo’ diabolico è un suo figlio degenere, o almeno un erede spirituale che ha
cercato di compiere un freudiano ‘parricidio’, affrancandosi dal suo
padre naturale e rivendicando esistenza autonoma all’interno della
repubblica delle Lettere e del pensiero moderno di tutta Europa.
Quasi prevedendo quello che sarebbe avvenuto alla sua immagine di uomo e di scrittore, Machiavelli osservava la pericolosità
delle «sinistre opinioni» diffuse tra il «popolo» 20; quella «sinistra
opinione» che in vita gli ha procurato la disgrazia politica, sarebbe
stata superata da una «sinistra opinione» che ha colpito Machiavelli
letterato e trattatista dopo la sua morte, dando origine ad un ‘machiavellismo’ dai mille risvolti, spesso contraddittori, ma per lo più
negativi, tesi ad oscurare la personalità del genio e a dipingere
Hobbes, and the formation of a liberal republicanism in England, Cambridge University Press, 2004.
18 È questa la tesi già di Delio Cantimori, che è tra i più strenui difensori
dell’appartenenza di Machiavelli all’età che fu sua. Cfr. D. CANTIMORI, Retorica e
politica nell’Umanesimo italiano, in ID., Eretici italiani del Cinquecento, a cura di
A. Prosperi, Torino, Einaudi, 1992, pp. 483-512.
19 N. MACHIAVELLI, Lettera a F. Guicciardini, 17 maggio 1521, p. 1203.
20 Cfr. ID., Arte della guerra, IV, p. 354 [il corsivo è nostro]: «A persuadere
e a dissuadere a’ pochi una cosa è molto facile, perché, se non bastano le parole,
tu vi puoi usare l’autorità e la forza; ma la difficultà è rimuovere da una moltitudine una sinistra opinione e che sia contraria o al bene comune o all’opinione tua;
dove non si può usare se non le parole, le quali conviene che sieno udite da tutti,
volendo persuadergli tutti. Per questo gli eccellenti capitani conveniva che fussono
oratori, perché, senza sapere parlare a tutto l’esercito con difficultà si può operare
cosa buona …».
Machiavelli e l’illusione diabolica del potere
143
l’uomo e lo scrittore come disilluso e perverso ‘anticristo’, o maestro di corruzione politica ed etica in generale.
Nella vasta e affollatissima messe bibliografica sull’autore, già
molto è stato scritto sulla spregiudicatezza o sulla irreligiosità del
Segretario fiorentino. I diversi percorsi critici degli ultimi decenni
di studi sono tesi talvolta a rivalutare l’immagine del Machiavelli,
non senza incorrere nel pericolo di inseguire un dipinto di uomo
dalla forte moralità e dalla sentita religiosità che, ugualmente, non
rende giustizia all’autore 21. In questa sede, non si vuole ripercorrere
questo lungo e complesso itinerario critico, i cui risultati sono a
tutt’oggi non unanimi se non contraddittori; piuttosto si cerca di individuare il fondamento di un’immagine nuova dell’autore, per dar
corpo al Machiavelli come protagonista di un altro volto del Cinquecento, quello tragico e non ortodosso. Era, forse, quello stesso filone che alcuni, seguendo Haydn, individuano in un discusso «controrinascimento», fondante sulla sostanziale convinzione della incongruenza tra idealità e realtà. Era il filone della «cultura della
contraddizione», che talvolta scende in campo contro la «illusione»
antropocentrica del rinascimento ‘ufficiale’ 22.
Si giunge, così, ad un nuovo senso di humanitas, si direbbe
‘protestante’ perché insinua il dubbio, esprime ribellione rispetto
alla serena e statica esaltazione dell’uomo magnum miraculum nata
nella modernità (umanista oltre che rinascimentale) italiana e nutritasi alla linfa della religione di Roma. Ne vien fuori un Machiavelli
‘riformatore’, antipapale, anticuriale, ma mai completamente demoniaco e mai completamente credente in Dio. Già De Sanctis ebbe
21 È
questa la tesi portante del saggio di Sebastiano De Grazia. Cfr. S. DE
GRAZIA, Machiavelli all’Inferno, Roma-Bari, Laterza, 1990. Su queste linee interpretative si era già mosso Alderisio, che è giunto nel suo Machiavelli a sostenere
una religiosità specificamente cattolica dell’autore, conforme alle interpretazioni
unilaterali dell’Umanesimo offerte dal noto volume di Toffanin. Cfr. F. ALDERISIO,
Machiavelli: l’arte nello stato nell’azione e negli scritti, Torino, Bocca 1930; G.
TOFFANIN, Che cosa fu l’Umanesimo?, Firenze, Sansoni, 1929; ID., Storia dell’Umanesimo, Napoli, Città di Castello, 1933.
22 Con il termine «controrinascimento» alcuni traducono il concetto di
«Counter Renaissance» avanzato, per primo, da Hiram Haydn nel dopoguerra, ed
identificato in un anticlassicismo per lo più legato alle arti visive. Cfr. H. HAYDN,
The Counter-Renaissance, New York, 1950, p. 15 ss. Eugenio Battisti preferisce
usare il termine di «antirinascimento». Cfr. E. BATTISTI, L’antirinascimento, Milano, Feltrinelli, II ed. 1989 (I ed. 1962).
144
Paola Villani
modo di osservare, riguardo al Rinascimento italiano, che «il suo
Lutero fu Machiavelli» 23. Un Machiavelli, quindi, che, novello
Faust, sente la frattura tra sé e il mondo, e interpreta questa frattura
come Streben, spinta all’azione, nella tragicità della opposizione
quasi manichea tra ‘bene’ e ‘male’ 24. Un’opposizione che egli interpreta – faustianamente – come dualismo tra il limite e la tensione
al superamento del limite stesso, ma che riesce anche a personalizzare in una separazione tra ‘ideale’ e ‘reale’, anticipando così le
grandi acquisizioni dello storicismo moderno. Il Segretario supera di
molto l’intellettuale ‘laico’ rinascimentale, sia egli Leon Battista Alberti del Libro della famiglia, Benvenuto Cellini dei Trattati o Baldassar Castiglione del Cortegiano. È piuttosto un titanico fondatore
della modernità tragica. Seguendo questo percorso, potrebbe avanzarsi l’ipotesi che la demonizzazione del mito di Machiavelli, nata
proprio nel tardo Cinquecento, possa accostarsi alla demonizzazione
della figura di Faust 25.
Machiavelli e Faust sono i personaggi, storici o mitici poco
importa, nei quali l’individualismo non ortodosso festeggiava i suoi
più crudeli trionfi. Una strada singolare per la cultura italiana del
tempo, per alcuni versi inedita rispetto all’età che fu sua. Questi
23 F. DE SANCTIS, Storia della letteratura italiana, cit., p. 416.
24 Per l’accostamento Machiavelli-Faust si veda già M. DE CORTE,
Fenomenologia dell’autodistruttore, tr. it. di R. Antonetto, Torino, Borla, 1967, p. 170:
«L’uomo rinascimentale di cui Machiavelli analizza il comportamento è il primo
uomo faustiano: ‘Im Anfang war die Tat!’. […] Con straordinaria acutezza, Machiavelli intuisce questo aspetto nuovo dell’uomo che nasce sotto i suoi occhi sulla
scena della storia; per questo, egli volge risolutamente la schiena ai filosofi del Rinascimento rimasti prigionieri del vecchio schema dell’universo, come Nicola Cusano e Campanella, e adotta la nuova visione della natura […]. Per Machiavelli,
come per i suoi contemporanei consci dell’avvento dell’uomo nuovo, non c’è più
un universo armonioso, articolato nelle sue parti da Dio creatore e salvatore, ma
ci sono da una parte gli uomini, e dall’altra un mondo che gli uomini possono impunemente violare, purché siano abbastanza intelligenti e astuti. Per libertà, egli
non intende più, contrariamente al medioevo, la possibilità di fare il bene o il male,
ma – vedi i Discorsi – il potere di dominare un mondo divenuto plastico e malleabile, banale e profano, e tale che la ragione vi scopre soltanto più materia percettibile con i sensi».
25 Sulla demonizzazione di Machiavelli, sull’accostamento MachiavelliFaust e per una più dettagliata rassegna critico-bibliografica si rimanda ad un libro di chi scrive. Cfr. P. VILLANI, La tentazione del moderno. Percorsi critico-letterari da Machiavelli a Croce, Napoli, La Città del Sole, 2004, capp. I e II.
Machiavelli e l’illusione diabolica del potere
145
aspetti della complessa personalità machiavelliana hanno tenuto a
battesimo la nascita del ‘machiavellismo’.
Se il Machiavelli storico ha una sua patria… – anagrafica e
d’elezione – …in Firenze, il ‘mito’ di Machiavelli, intorno al quale
spesso si riduce a gravitare il ‘machiavellismo’, può avere patria in
Inghilterra, dopo una breve gestazione francese. Sembra quasi che
nell’Inghilterra elisabettiana, Faust e Machiavelli fossero segnati da
un comune destino: la condanna alla dannazione e insieme l’esercizio di un arcano, irresistibile fascino 26.
Agli occhi degli zelanti della Riforma, in un impeto manicheo
di lotta contro il male, Machiavelli, che era già inviso ai calvinisti
perché generalmente considerato profeta del libertinismo 27, diventa
il simbolo dell’Anticristo: «Machiavelli è dunque un ateo, un diavolo o un nipote del diavolo, un avvelenatore, un assassino, un perfido, e il suo nome s’accoppia con quelli di sodomia, di tradimento,
di menzogna, di seduzione, di crudeltà» 28. Avrà persino il potere di
cambiare significato alla parola politics, che progressivamente per
gli Inglesi diventa sinonimo non di scienza o attività della vita associata nello Stato, come era per la cultura classica, ma dell’arte di
ingannare, dell’insegnamento e della pratica di astuzia e frode 29.
Nell’immaginario collettivo, la condanna del Segretario si associava, nella cultura d’Oltralpe, a quella dell’Italia in genere. Machiavelli diventava simbolo del popolo italiano. D’altronde, anche
uno dei più attenti conoscitori e interpreti della fortuna inglese di
Machiavelli, Mario Praz, sottolinea che la condanna europea al Segretario si inseriva nella generale condanna al Rinascimento italiano: la leggenda nera di Machiavelli sorse all’epoca di Caterina
de’ Medici, quasi a coronamento dell’italofobia alimentata dal governo della sovrana fiorentina e dalle guerre di religione che turba26 Ibidem.
27 Cfr. G. MURESU,
Chierico e libertino, in Letteratura italiana, a c. di A.
Asor Rosa, Torino, Einaudi, 1986, vol. V, Le questioni, pp. 903-942.
28 G. PREZZOLINI, Machiavelli anticristo, cit., p. 335.
29 Sul significato del termine politics e sulla sua evoluzione legata all’etica
machiavelliana cfr. M. PRAZ, Machiavelli in Inghilterra ed altri saggi, Firenze,
Sansoni, 1962 (I ed. 1942), pp. 89 ss.; ID., Machiavelli e gl’Inglesi dell’epoca elisabettiana, in ID., Bellezza e bizzarria. Saggi scelti, a c. di A. Cane, Milano, Mondadori, 2003, p. 227 ss.
146
Paola Villani
vano quasi tutti i paesi d’Europa 30. Si trattava di una vera persecuzione, rivolta non già al personaggio storico e autore, quanto al
‘mito’ machiavelliano. Il mito era inteso come un indirizzo generale
di pensiero del quale il Segretario fiorentino era supposto essere all’origine, ma che successivamente aveva influenzato personalità
così diverse come il ‘politico’ Bodin e gli ugonotti Duplessis Mornay, La Noue e Bèze, fino alle correnti libertine, al ‘nicodemismo’
di cui Machiavelli fu considerato fondamentale premessa 31.
Al politico fiorentino si associavano, in un rapporto quasi di
causalità, tutti i soprusi dei favoriti italiani al potere nell’Europa del
Cinquecento.
I vari temi di odio, nazionali e religiosi, sono rinvenuti dal
Praz in un singolare libello scritto in inglese al principio del regno
di Enrico IV di Francia, probabilmente da un ugonotto francese 32.
30 M. PRAZ, Machiavelli e gl’inglesi …, cit., p. 220.
31 A sottolineare che la condanna si estendeva più al
Machiavellismo che
non a Machiavelli è stato anche R. DE MATTEI, Dal premachiavellismo all’antimachiavellismo, Firenze, Sansoni, 1969, p. 239 ss. Sul tema, cfr. S. MASTELLONE,
L’antimachiavellismo dell’«intransigente» Tommaso Bozio, in «Il pensiero politico», 1969, pp. 488-490; ID., Tommasio Bozio, teorico dell’ordine, in «Il pensiero
politico», 1980, pp. 186-194.
32 Il titolo completo: A Discovery of the great subtiltie and wonderful wisedome of the Italians, whereby they beare sway over the most part of Christendome
and cunninglie behave themselves to fetch the Quintescence out of the peoples purses: Discoursing at large the meanes, howe they prosecute and continue the same:
and last of all, convenient remedies to prevent all their pollicies herein (Scoprimento della gran sottilità e mirabil sagacia degl’italiani, per le quali essi hanno
il dominio sulla maggior parte della cristianità, e accortamente s’industriano di
spremer la quintessenza dalle borse dei popoli: ove si discorre ampiamente de’
mezzi da loro adoperati a perseguire e continuare la loro arte, e, finalmente, de’
rimedi acconci a frustrarla), stampato da J. Wolfe, London 1591. Dedicato ad Enrico IV e firmato con le iniziali G.B.A.F., l’autore mostra di conoscere i Discorsi
di Machiavelli. Il libello riprende Romolo e Numa Pompilio. Romolo, passato alla
storia come fondatore omicida di Roma, viene considerato da Machiavelli il primo
ordinatore della futura potenza; Numa Pompilio, invece, viene considerato il fondatore della religione romana. Cfr. N. MACHIAVELLI, Discorsi, I, 9, p. 90: «… dico
che molti per avventura giudicheranno di cattivo esemplo, che un fondatore d’un
vivere civile, quale fu Romolo, abbia prima morto un suo fratello, dipoi consentito alla morte di Tito Tazio Sabino, eletto da lui compagno nel regno […]. La
quale opinione sarebbe vera, quando non si considerasse che fine lo avesse indotto
a fare tal omicidio». Cfr. anche ID., Discorsi, I, 11, p. 93: «… giudicando i cieli
che gli ordini di Romolo non bastassero a tanto imperio, inspirarono nel petto del
Senato romano di eleggere Numa Pompilio per successore a Romolo […]. Il quale,
Machiavelli e l’illusione diabolica del potere
147
Il tipo del machiavellico elisabettiano, però, avrebbe origine
ufficiale con la pubblicazione del noto testo Discours contre Machiavel 33, scritto dall’ugonotto francese Innocent Gentillet, che fu
edito in Latino nel 1572, ebbe una grande fortuna editoriale e circolò in diverse redazioni in tutta Europa (tra il 1576 e il 1655 se ne
contano ventiquattro in diverse lingue), arrivando naturalmente anche Oltremanica. Contemporaneamente al Contre Machiavel di
Gentillet, intriso di echi machiavelliani sembra il Prince nécessaire
di Jean de La Faille de Bondaroy, poema inedito che doveva essere
offerto al futuro Enrico IV nel 1573 34. I Francesi, quindi, sembrerebbero i patrioti dell’antimachiavellismo, un po’ per il loro spirito
antistorico ed un po’ per il loro nazionalismo anti-italiano. Eppure
lo stesso Machiavelli anima in Francia la nascita di ragionamenti intorno alla «Ragion di Stato» e alla «sovranità».
In effetti, il processo di ‘demonizzazione’ dell’autore e dell’opera poteva dirsi compiuto già con il Cardinal Reginald Pole, autore del più citato e famoso fra tutti gli interventi antimachiavellici
del primo Cinquecento. Nel suo Epistolario, apparso postumo ma
redatto nel 1539, Machiavelli viene definito «nemico del genere umano» e soprattutto il Principe un libro «scritto col dito del diavolo» 35.
trovando uno popolo ferocissimo, e volendolo ridurre nelle obedienze civili con le
arti della pace, si volse alla religione, come cosa al tutto necessaria a volere mantenere una civiltà; e la costituì in modo, che per più secoli non fu mai tanto timore
di Dio quanto in quella republica; il che facilitò qualunque impresa che il Senato
o quelli grandi uomini romani disegnassero fare».
33 Cfr. I. GENTILLET, Contra-Machiavel, edito in latino nel 1572, pubblicato
nel 1602 (riedito a c. di P.D. Stewart e Antonio D’Andrea, Firenze, Casalini, 1974,
da cui si cita). Su Gentillet cfr. P.D. STEWART, Innocent Gentillet e la sua polemica
antimachiavellica, Firenze, La Nuova Italia, 1969. L’opera fu tradotta in inglese
da Simon Patericke soltanto nel 1677. I riferimenti al diabolico Machiavelli del
drammaturgo inglese Christopher Marlowe, quindi, potrebbero derivare dalla lettura della versione latina del saggio. A sostenere questa tesi è Praz (Machiavelli e
gl’Inglesi, cit., p. 222) sulla scorta del notissimo saggio del Meyer: E. MEYER, Machiavelli and the Elizabethan Drama, New York, Franklin 1964, I ed. 1897). Deriva da Meyer lo studio di Clarence Valentine Boyer. Cfr. C.V. BOYER, The Villian
as Hero in Elizabethan Tragedy, London 1914. Deriva pure dal Meyer le fondamenta per la sua «fantastica» costruzione Wyndham Lewis. Cfr. W. LEWIS, The
Lion and the Fox. The role of the Hero in the Plays of Shakespeare, London 1927.
34 G. PREZZOLINI, Machiavelli anticristo, cit., pp. 327 ss.
35 Epistolarum Reginaldi Poli S.R.E. Cardinali set aliorum ad ipsum pars I
148
Paola Villani
Tra la fine degli anni Quaranta e gli inizi degli anni Cinquanta,
già compaiono segni di condanna che precedono la pubblicazione
nell’Indice, avvenuta ufficialmente soltanto nel 1557 36. La condanna non coinvolgeva le opere, si direbbe, anzi più la persona che
i suoi scritti 37. Di lì a poco, nel 1562, proprio il Muzio pose mano
all’opera di pulitura dei Discorsi e dell’Arte della guerra.
Machiavelli compare quasi come novello Faust, venditore dell’anima in nome del successo mondano, per sé e per il suo principe.
Se, però, il Faust risponde ad una teologia dell’insicurezza radicale
nel segno dell’incertezza e dell’imprevedibilità 38, dalla quale nascerebbe la «scommessa» con Dio e la «teologia del gioco» 39, questa incertezza e imprevedibilità sono invece estranee alla Weltanschauung di Machiavelli. Qui c’è poco posto per la imprevedibilità:
dalla consapevolezza del limite l’accesso all’imprevedibilità è
tutt’altro che scontato. Domina, anzi, un ferreo razionalismo che si
quae scripta, complectitur ab anno MDXX usque ad an. MDXXXVI, excudebat
Joannes Maria Rizzardi, Brixiae, 1744, p. 137.
36 Il nome di Machiavelli, infatti, non figura né nell’Indice veneziano del
1549 né in quelli milanese e veneziano del 1554. La fine degli indugi è segnata
dall’avvento al soglio pontificio del Cardinal Carafa, Paolo IV. Cfr. G. PROCACCI,
Machiavelli nella cultura dell’età moderna, Roma, Laterza, 1995, p. 98.
37 A confermare questa tesi è anche il Procacci, che cita una lettera inviata
dall’ambasciatore fiorentino Giovanni Piccolini al Granduca nel dicembre 1596.
La lettera è significativa dimostrazione che ormai il nome di Machiavelli, più delle
opere, era segnato da infamia: «Conforme al comandamento di V.A. ho fatto offitio col cardinale Santaseverina [G.A. Santorio] perché quelli della famiglia Machiavelli possino far ristampare l’opere del Machiavelli, ma S.S.Ill.ma m’ha risposto, che se fussero dannate solamente l’opere di quell’autore, questo potrebbe
forsi succedere, ma che essendo dannato insieme con l’opere il nome et la memoria di detto autore quest’è una cosa che non si concederà mai …» (ASF. Mediceo,
3312, in G. PROCACCI, Machiavelli …, cit., pp. 113-114).
38 Spiega Neher: «Creando l’uomo libero, Dio ha introdotto nell’universo
un fattore radicale di incertezza che nessuna Saggezza divina o divinatoria, che
nessuna matematica e neppure nessuna preghiera possono né prevedere, né prevenire, né integrare in un momento prestabilito: l’uomo libero è l’imprevedibile assoluto, è il limite contro il quale vengono a urtarsi le forze direttrici del piano creatore …» (A. NEHER, Faust e Golem: realtà e mito del doktor Johannes Faustus e
del Maharal di Praga, tr. it. di V. Lucattini Vogelmann, Firenze, Sansoni, 1989,
p. 121).
39 Nei termini della teologia dell’ironia e del gioco si muoveva l’interpretazione del Faust da parte di Schelling, insistendo sulla definizione del Faust come
«commedia». Cfr. F.W.J. SCHELLING, Filosofia dell’arte, a c. di A. Klein, Milano,
Fabbri, 2001, pp. 352-354.
Machiavelli e l’illusione diabolica del potere
149
fonda proprio sullo stesso presupposto di Faust: l’uomo peccatore,
che in Machiavelli diventa l’uomo egoista, simulatore 40. Esiti diversi, dunque, di considerazioni antropologiche in parte affini.
In questa immagine cupa dell’umano – nella necessaria inferiorità dell’uomo rispetto a Dio – l’antropologia machiavelliana
sembra condurre ad una Sehnsucht tutta ‘protestante’. Non c’è certo
coincidenza con le note dottrine luterane in merito alla natura lapsa,
al servo arbitrio o alla giustificazione per fede; è vero, però, che
l’individualismo luterano, che secondo alcuni diverrebbe martire nel
mito faustiano, è sì l’individualismo della libertà, ma non quello del
libero arbitrio; non coincide pienamente con quello di marca rinascimentale. Non è infatti un individualismo hybrico (che nei secoli
successivi diventerà titanico e superomistico), piuttosto tragico, che
esalta il singolo solo per accentuare la necessità di un rapporto con
Dio senza intermediari, nell’affermazione della potenza del divino e
della incommensurabilità tra immanente e trascendente. Il tutto,
nella continua visione della vita, tipicamente luterana, come continua lotta con Satana, che spesso, seguendo l’impeto riformista di
quella prima metà del Cinquecento, si identificava nella corruzione
della Chiesa.
Il Segretario, in qualche modo, partecipa all’ansia di renovatio
luterana, erasmiana e ‘protestante’ in genere. D’altronde, i suoi
scritti spesso rivelano il tentativo di svelare la «illusione» della
Chiesa, il suo «illusorio» potere e ruolo all’interno della identità nazionale italiana. Il potere temporale del pontefice era inteso come
fonte e insieme espressione della corruzione stessa. Si trattava di
una questione innanzitutto tecnico-storiografica, ma quella questione non poteva non coinvolgere anche la sfera etica in modo più
vasto. D’altronde, l’interesse di Machiavelli per la religione si presenta già nel Libro I dei Discorsi 41. Poco dopo Machiavelli colloca
40 Ormai noto è il capitolo del Principe dedicato alla crudeltà, in cui l’autore espone la sua triste antropologia. Cfr. N. MACHIAVELLI, Principe, XVII, p.
284: «Perché degli uomini si può dire questo generalmente: che sieno ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno: e mentre fai loro bene, sono tutti tua, offeronti el sangue, la roba, la vita, e’ figliuoli […]
quando il bisogno è discosto; ma, quando ti si appressa, e’ si rivoltano».
41 Cfr. N. MACHIAVELLI, Discorsi, I, 11, p. 94: «E veramente mai fu alcuno
ordinatore di leggi straordinarie in uno popolo che non ricorresse a Dio […]. Per-
150
Paola Villani
un gruppo di Discorsi dedicati alla religione romana, esaltando quest’ultima nella precisa distinzione tra «religione» e «Chiesa»; il capitolo 12 infatti s’intitola «Di quanta importanza sia tenere conto della
religione, e come la Italia, per esserne mancata mediante la Chiesa
romana, è rovinata». In molti punti, inoltre, la trattazione dello Stato
Pontificio e dei suoi reggitori sembra voler dichiaratamente confutare i toni trionfalistici che qualche anno prima Paolo Cortesi, amico
comune dei Soderini, aveva firmato nel suo De cardinalatu 42 e questa posizione l’autore manterrà anche nell’opera commissionata, in
quelle Istorie fiorentine dedicate a Clemente VII 43.
Machiavelli, quindi, sembra rispondere alla posizione ‘antiromana’. Si aggiunga che la sua Weltanschauung è retta dalla necessità, in un meccanicismo di impronta lucreziana nella quale c’è una
grande costante: la malvagità dell’uomo. In questo il Segretario è il
vero incendiario: l’«illusione» sta dalla parte del Rinascimento, in
quel trionfalistico inno all’uomo come creatura centrale dell’universo. Questo, per Machiavelli, era «illusione». Dunque Machiavelli
contro la «illusione» rinascimentale, contro il lusus di un uomo che
celebra i suoi trionfi e del quale invece Machiavelli svela la tragica
vanità.
È questa convinzione della natura corrotta dell’uomo che giustifica e dà senso al rifiuto dell’etica tradizionale, e fonda la tradizione di un Machiavelli spietato dissacratore, profeta di ferocia e
crudeltà. Tenendo fisso l’obiettivo ultimo del politico, che non è un
ordinamento repubblicano, ma uno stato ben governato, Machiavelli
giunge a giustificare i mezzi con cui ottenere questo obiettivo. Si
legge infatti nei Discorsi:
[…] la patria è bene difesa in qualunque modo la si difende,
o con ignominia o con gloria: […] dove si delibera al tutto della saché dove manca il timore di Dio conviene o che quel regno rovini, o che sia sostenuto dal timore di uno principe che sopperisca a’difetti della religione».
42 Sul frontespizio dell’edizione a stampa dell’opera compare la dicitura De
cardinalatu ad Iulium Secondum pont. Max. per Paulum Cortesium, Castro Cortesio, Symeon Nicolai Nardi alias Rufus calcographus imprimebat, 1510.
43 Cfr. N. MACHIAVELLI, Istorie fiorentine, I, p. 640: «Di modo che tutte le
guerre che […] furono da’ barbari fatte in Italia furono in maggior parte dai pontefici causate; e tutti i barbari che quella inundorono furono il più delle volte da
quegli chiamati. Il quale modo di procedere dura ancora in questi nostri tempi; il
che ha tenuto e tiene la Italia disunita e inferma».
Machiavelli e l’illusione diabolica del potere
151
lute della patria, non vi debbe cadere alcuna considerazione né di
giusto né d’ingiusto, né di piatoso né di crudele, né di laudabile né
d’ignominioso; anzi, posposto ogni altro rispetto, seguire al tutto
quel partito che le salvi la vita e mantenghile la libertà 44.
In questo intento, innovatore e restauratore ad un tempo, lo
studioso si sofferma spesso a delineare le linee programmatiche del
suo metodo: lo studioso di «cose di Stato», infatti, crede sia utile andare innanzitutto contro gli «errori» della mente, e dunque le sue
creazioni, che sono «imaginazioni» o, diremmo, «illusioni», che egli
contrappone alla «verità effettuale». Espone, infatti, nel noto capitolo XV del Principe i termini chiave del suo pensiero:
Resta ora a vedere quali debbano essere e’ modi e governi di
uno principe con i sudditi e con gli amici. […] Ma sendo l’intento
mio scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conveniente
andare drieto alla verità effettuale della cosa, che alla imaginazione
di essa. E molti si sono imaginati republiche e principati che non si
sono mai visti né conosciuti essere in vero; perché egli è tanto discosto da come si vive a come si dovrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si doverrebbe fare impara piuttosto la ruina che la preservazione sua […] 45.
Sono qui, in nuce, i pilastri del pensiero machiavelliano. Innanzitutto i criteri di discernimento sono l’«utile» e il «conveniente», e dunque la «verità effettuale» contro la «imaginazione» 46,
44 ID., Discorsi, III, p. 249.
45 ID., Principe, XV, p. 280.
46 Per la definizione del termine
si utilizza quella offerta dal Dizionario Universale UTET: «Particolare forma del pensiero, che non segue regole fisse né legami logici, ma si presenta come riduzione ed elaborazione libera del contenuto
sensibile, legata ad un determinato stato affettivo e, spesso, orientata intorno ad un
tema fisso». Nella psicologia aristotelica, l’immaginazione è la facoltà di produrre
immagini sensibili, fantavsmata, connessa ai sensi ma non limitata ad essi, distinta dall’intelletto e intesa come movimento (kinesis). A separare il concetto di
«idea» da ogni rapporto con il mondo della «estensione» e dunque dall’evidenza
empirica, è stato, in genere, anche il rigorismo scientifico illuminista; si veda la
voce «idee» del Dizionario filosofico di Voltaire. Cfr. VOLTAIRE (FRANÇOIS-MARIE
AROUET), Dizionario filosofico, a c. di M. Bonfantini, Torino, Einaudi, 1969, p.
244-245. Husserl, in Ideen, distingue nettamente immaginazione da fantasia, e
fonda sull’immaginazione creativa il concetto di genio. Cfr. E. HUSSERL, Idee per
152
Paola Villani
che egli intende appunto nella accezione di «errore dei sensi», e
dunque come sinonimo di «illusione». È interessante notare che per
Machiavelli la «imaginazione» corrisponde sempre ad un’ideale
aspettazione di positività, è il «dovere» secondo l’etica tradizionale,
contrapposto alla lezione dei fatti («quello che si fa», contro quello
che «si doverrebbe fare»). Insiste nel distinguere tra «le cose […]
imaginate» e «quelle che sono vere» 47, sulla distinzione dunque tra
oggetti della mente ed oggetti della realtà storica:
Lasciando, adunque, indrieto le cose circa uno principe imaginate, e discorrendo di quelle che sono vere, dico che gli uomini,
quando se ne parla, e massime e’ principi, per essere posti più alti,
sono notati in alcune di queste qualità che arrecano loro o biasimo
o laude 48.
***
[…] sarebbe laudabilissima cosa in uno principe trovarsi, di
tutte le soprascritte qualità, quelle che sono tenute buone; ma perché le non si possono avere né interamente osservare, per le condizione umane che non lo consentono, gli è necessario essere tanto
prudente che sappia fuggire l’infamia di quelli vizii che li torrebbano lo stato, e da quelli che non gnene tolgano, guardarsi, se gli è
possibile; ma, non possendo, vi si può con meno respetto lasciare
andare 49.
Nel suo linguaggio, il modo dell’indicativo si oppone nettamente al modo condizionale del dovere: quello che si dovrebbe non
è quello che è necessario fare. C’è inoltre un’aspra nota polemica:
«molti si sono imaginati…». Contro chi se la prende Machiavelli?
Certamente, tra i suoi bersagli polemici è Platone politico, ma anche gli umanisti, le cui posizioni sono considerate «idealistiche» 50.
una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, a c. di E. Filippini,
vol. I, Introduzione generale alla fenomenologia pura, Einaudi, Torino 1976
(1958), pp. 155 ss. Cfr. anche J.P. SARTRE, L’immaginazione: idee per una teoria
delle emozioni, a c. di A. Bonomi, Milano, Bompiani, 1972 (1936); ID., Immagine
e coscienza; psicologia fenomenologica dell’immaginazione, Milano, I.S.U. Università Cattolica, 2003 (1940).
47 N. MACHIAVELLI, Principe, XV, p. 280.
48 Ibidem.
49 ID., Principe, XV, p. 280.
50 Cfr. F. GILBERT, Il concetto umanistico di principe e «Il Principe» di Nic-
Machiavelli e l’illusione diabolica del potere
153
Dunque, Machiavelli contro l’idealismo umanistico di marca stoicoplatonica. Le posizioni umanistiche sul principe, infatti, dal Petrarca
al Pontano, continuano a consistere in una raffigurazione ‘ideale’, e
dunque illusoria perché lontana dalla realtà. L’orientamento religioso della vita politica ha sì perduto, rispetto alla trattazione medievale, il suo predominio, e se per Egidio Colonna il compenso del
buon principe rientrava nella rosa di premi ultraterreni, per gli umanisti sarà dato dalla fama e da una posizione di rilievo tra i beati, secondo l’insegnamento ciceroniano del Somnium Scipionis 51. Gli
umanisti, quindi, introdussero una nuova argomentazione distante
dalla teorica deduttiva medievale, ma «non uscirono dalla posizione
tradizionale dell’etica, per la quale essa si fondava ed era costituita
da proprietà innate ed ontologiche dell’essenza umana» 52. È vero
che gli umanisti si rivolgevano a un principe reale – Petrarca a Francesco da Carrara e Pontano al Duca di Calabria –, ma mancava ancora una scienza o comunque un orientamento ideologico che cocolò Machiavelli, in ID., Niccolò Machiavelli e la cultura del suo tempo, cit., pp.
109-146. Cfr. anche U. DOTTI, Niccolò Machiavelli. La fenomenologia del potere,
Milano, Feltrinelli, 1979, passim.
51 Tra i testi più citati dell’umanesimo ‘civile’ è il racconto che Cicerone inserisce nel suo De republica, Scipione Africano Maggiore, l’eroico vincitore di
Annibale, che appare in sogno a Publio Cornelio Scipione Emiliano per rafforzare
in lui il senso dello Stato: «per tutti coloro che hanno conservato, aiutato, ingrandito la patria è assicurato in cielo un posto particolare, dove i beati si godono l’eternità; nulla infatti è più gradito a quel primo dio che governa tutto il mondo, almeno di ciò che accade in terra, delle riunioni e dei sodalizi degli uomini associati
nel diritto, i quali sono chiamati Stati; ed i loro governanti e conservatori, di qui
partiti, qui ritornano» (M.T. CICERONE, De Republica, in Opere politiche e filosofiche, a c. Leonardo Ferrero, Torino, UTET, vol. I, p. 233).
52 U. DOTTI, Niccolò Machiavelli …, cit., p. 87. In effetti, però, già in Cicerone è introdotto il criterio della «circostanza» che può mutare il giusto in ingiusto. La «circostanza» può anche spingere a venire meno alla parola data. Cfr.
M.T. CICERONE, I doveri, I, X, in Opere politiche e filosofiche, cit., vol. II, pp. 358359: «Si verificano tuttavia spesso delle circostanze in cui, proprio ciò che sembra
degno di un giusto e di chi chiamiamo un galantuomo, muta e si capovolge, come
nel restituire un deposito, nel mantenere una promessa; e per quanto attiene alla
veracità ed alla lealtà, talvolta è giustizia l’ometterlo e il non mantenerlo. […] Può
accadere che mantenere una promessa od un patto diventi inutile o a colui al quale
è stato promesso o a chi ha promesso. […] Non si debbono dunque mantenere
quelle promesse che siano inutili a coloro cui tu le abbia fatte, né osta al tuo dovere che il dovere maggiore venga anteposto al minore allorché la promessa nuoccia più a te di quanto giovi a colui cui hai promesso qualcosa …».
154
Paola Villani
minciasse a studiare i fenomeni della realtà come essi veramente
sono. Soprattutto, non si credeva che questi fenomeni potessero dirigere le azioni future. Machiavelli, invece, si fonda proprio sui fatti.
Si veda Il Principe a proposito dell’essere amati o temuti; è una
chiara polemica contro quanto affermato dal Petrarca e in genere
dall’umanesimo di marca ciceroniana 53: «Nasce da questo una disputa: s’egli è meglio essere amato che temuto, o e converso. Rispondesi che si vorrebbe essere l’uno e l’altro; ma perché egli è difficile accozzarli insieme, è molto più sicuro essere temuto che
amato, quando si abbia a mancare dell’uno dei dua» 54. È così che
la liviana «inhumana crudelitas» di Annibale 55 diventa virtù 56.
Dopo Aristotele ed Epicuro, bene e male non vengono determinati in astratto ma in riferimento alla prassi del volgo, secondo la
massima «nel mundo non è se non vulgo». Al mito del dover essere
si contrappone l’essere storico:
Cominciandomi, a dunque, alle prime soprascritte qualità,
dico come sarebbe bene essere tenuto liberale: nondimanco la liberalità, usata in modo che tu sia tenuto, ti offende; perché se la si usa
virtuosamente e come la si debbe usare, la non fia conosciuta, e non
ti cascherà la infamia del suo contrario. E però, a volersi mantenere
infra gli uomini el nome del liberale, è necessario non lasciare indrieto alcuna qualità di sontuosità; talmente che sempre uno principe così fatto consumerà in simili opere tutte le sue facultà, e sarà
necessitato alla fine, se si vorrà mantenere el nome del liberale, gravare e’ populi estraordinariamente ad essere fiscale, e fare tutte
quelle cose che si possano fare per avere danari. Il che comincerà a
farlo odioso con sudditi, e poco stimare da nessuno […]. Uno prin-
53 Cfr. F. PETRARCA, Seniles, XIV, 1, in ID., Prose, a c. di G. Martellotti, P.G.
Ricci, E. Bianchi ed E. Carrara, Milano-Napoli, Ricciardi, 1954, p. 1128: «L’essere temuti si oppone tanto alla durata quanto alla sicurezza del regno mentre ad
ambedue dà forza l’essere benvoluti …».
54 N. MACHIAVELLI, Principe, XVII, p. 282.
55 Cfr. TITO LIVIO, Storie, Libri XXI-XXV, a cura di P. Ramondetti, Torino,
UTET, 1989, Libro XXI, 4, p. 64.
56 Sulla crudeltà si era soffermato anche Cicerone. Nel De officiis (III, IX,
4, in ID., Opere politiche e filosofiche, cit., vol. II, p. 351): «… nulla di crudele
può mai essere utile». Machiavelli, invece, distingue tra «crudeltà mal usate» e
«bene usate» (N. MACHIAVELLI, Principe, VIII, p. 270).
Machiavelli e l’illusione diabolica del potere
155
cipe, adunque, […] debbe, s’egli è prudente, non si curare del nome
del misero: perché col tempo sarà tenuto sempre più liberale, veggendo che con la sua parsimonia le sua intrate li bastano, può difendersi da chi li fa guerra, può fare imprese sanza gravare e’populi
[…] 57.
Si giunge, così, ad un altro campo semantico della illusione in
Machiavelli. Il nemico della «illusione» dell’uomo rinascimentale
giunge infatti a difendere un altro tipo di illusione: rifiuta la illusione antropologica, ma giustifica la illusione politica. È la illusione
del potere, appunto, o la «menzogna del potere» per mutuare un’espressione di Giulio Maria Chiodi 58, quella già adombrata o almeno
concepita in età classica nella Repubblica platonica 59, ma che in età
moderna trova piena elaborazione (si pensi al Seicento e alla «simulazione» dell’Oracolo manuale di Gracián) e in Machiavelli assume connotati diabolici: è cioè l’inganno. Anche in questo si fonda
la demonizzazione di Machiavelli, non tanto nella spregiudicatezza
etica della sua vita, quanto piuttosto nell’aver semplicemente mostrato la utilità della spregiudicatezza politica; la illusione del potere, l’inganno, la macchinazione diabolica del principe necessari a
farlo rimanere tale e a giustificare se stesso ed il suo operato. È dunque una illusione come «menzogna consapevole, necessaria a creare
uno scompenso informativo tra detentore del potere e sudditi che è
necessario a conservare il potere stesso» 60.
57 N. MACHIAVELLI, Principe, XVI,
58 Cfr. G.M. CHIODI, La menzogna
pp. 280-281 [il corsivo è nostro].
del potere. La struttura elementare del
potere nel sistema politico, Milano, Giuffrè, 1979.
59 Platone riconosce ai filosofi-re il diritto, e talvolta la necessità pratica, di
mentire ai sudditi, e tale inganno è definito «nobile menzogna»: «Se c’è qualcuno
che ha diritto di dire il falso, questi sono i governanti, per ingannare nemici o concittadini nell’interesse dello stato» (PLATONE, La Repubblica, 389 b, tr. it. di F. Sartori, Bari, Laterza, 1967.
60 G.M. CHIODI, La menzogna del potere …, cit., p. 76. Continua Chiodi:
«Posto che la finzione ideologica stabilisca un sistema di comunicazione tra il detentore e i dominati, di questo sistema di comunicazione fa parte l’impossibilità
più radicale ed assoluta di comunicare ai dominati i messaggi nel contesto, nella
forma e nel grado di verità che essi posseggono all’interno dell’orizzonte del detentore del potere. E tra le condizioni di mantenimento della linea di dominio e
della sua invalicabilità è da contemplare il possesso, da parte del soggetto o dei
soggetti detentori, di elementi di conoscenza o qualità di conoscenza che non siano
156
Paola Villani
Non a caso, fuori d’Italia il ‘machiavellismo’ veniva visto
come sinonimo della finzione, dell’inganno, ed accomunava Machiavelli ai cattolici italiani.
È, appunto, la citata finzione ideologica del potere stesso, il
quale per sopravvivere deve vivere sulla finzione, su una immagine
che sempre più si discosta dal mondo reale e avvicina lo spazio della
politica ad una scena teatrale 61. I precetti che Machiavelli lascia al
suo Principe sono appunto il ritratto di come il Principe non «deve
essere» ma «deve mostrarsi», e dunque «illudere».
In alcuni passi machiavelliani «mostrarsi» è utilizzato come sinonimo di ‘dimostrarsi’, dunque dimostrazione veridica della realtà:
«nobilissimi scrittori […] se ne ingannarono, e mostrorono di cognoscere poco l’ambizione degli uomini» 62. Ma nel Principe spesso
«mostrarsi» equivale ad «apparire in modo fallace»: ciò che appare,
per Machiavelli, spesso inganna, ‘illude’ appunto:
[…] se si considera bene tutto, si trova qualche cosa che parrà
virtù, e, seguendola, sarebbe la ruina sua; e qualcuna altra che parrà
vizio, e, seguendola, ne riesce la securtà e il bene essere suo 63.
Si prospetta, quindi, la necessità di un occultamento del reale
da parte del Principe, avanza la giustificazione razionale degli «arcana imperii» sui quali si sarebbe fondata la trattatistica politica
della «Ragion di Stato» tra Cinquecento e Seicento. Strettamente
collegato al ‘machiavellismo’, infatti, è la teorizzazione politica
della «Ragion di Stato», secondo un’espressione che, per primo, utilizzò Guicciardini nei Ricordi (a lungo inediti e conosciuti solo nel
1576) nel 1523. In effetti, si trattava di una necessità «di dare una
fisionomia presentabile al machiavellismo operante nella pratica ma
combattuto nei proclami teorici, di dare una legalità sovrana al
assolutamente trasmissibili ai dominati. Questa è un’altra regola del potere assolutamente inderogabile» (ibidem).
61 Per questo aspetto i precetti al Principe si accostano a quelli rivolti al
cortigiano da Castiglione. Cfr. G. FERRONI, Sprezzatura e simulazione, in La corte
e il «Cortegiano», I, La scena del testo, a c. di C. Ossola, Roma, Bulzoni, 1980,
pp. 119-147.
62 N. MACHIAVELLI, Istorie fiorentine, Proemio, p. 618.
63 ID., Principe, XV, p. 280. Cfr. L. VISSING, Machiavel et la politique de
l’apparence, Paris, Presses Universitaires, 1986.
Machiavelli e l’illusione diabolica del potere
157
nuovo potere pratico con la formulazione dei suoi limiti» 64. Anche
il noto trattato Della ragion di Stato di Botero (edito a Venezia nel
1589) dà una validità giuridica al potere politico e fissa una sua misura: l’ubbidienza alla Chiesa della Controriforma. In effetti, seguendo l’interpretazione di Reinhard, «Ragion di Stato» significa razionalizzazione e legittimazione dei fenomeni politici di crescita osservati da Machiavelli e da Guicciardini. Conformemente a essi il
governante è giustificato, addirittura obbligato, a porsi in caso di necessità al di sopra del diritto e della morale nell’interesse della collettività politica 65. Del resto, all’inizio dell’età moderna, il potere in
divenire dello Stato ascriveva espressamente a se stesso il diritto di
far uccidere in caso di bisogno i sudditi e gli avversari senza una
procedura giudiziaria ordinaria 66.
I fondamenti teorici di questo potere forte erano già nel medioevo: sin dal tardo medioevo le dottrine del diritto romano e canonico sulla posizione del princeps e del papa erano state applicate
anche al re, ivi compresa la prerogativa di disporre del diritto. Nel
Rinascimento, all’interno della animata discussione sulla forma politica del Principato, che spesso trovava giustificazione grazie al co64 A. FONTANA e J.-L. FOURNEL, Piazza, Corte, Salotto, Caffè, in Letteratura
italiana, a c. di A. Asor Rosa, cit., vol. V, Le questioni, p. 666.
65 Cfr. W. REINHARD, Il pensiero politico moderno, Bologna, Il Mulino,
2000, p. 19. Si veda già F. MEINECKE, La idea di ragion di Stato nella storia moderna, ed. it. a c. di D. Scolari, Firenze, Sanosni, 1970 (I ed. 1942), pp. 119 ss.
66 Cfr. L. FIRPO, Il pensiero politico del rinascimento e della controriforma,
Milano, Marzorati, 1966, pp. 416 ss. Spesso la teorizzazione della ragion di Stato
si univa alla ricezione di Tacito, al ‘tacitismo’. In effetti il vero creatore di «Ragion di Stato», Giovanni Botero, appunto, utilizza Tacito per esporre le teorie di
Machiavelli. Dopo che Giusto Lipsio presentò Tacito come pensatore politico, si
aprì una schiera di tacitisti. In Italia il primo fu forse Scipione Ammirato, con i
suoi Discorsi sopra Cornelio Tacito (1594), Bernardo Davanzati tradusse Tacito in
fiorentino. Più interessante Traiano Boccalini (1556-1613), con i suoi Ragguagli
di Parnaso (1612-1623), Boccalini descrive le leggi della politica, che sono in contrasto con tutte le leggi e smaschera l’ipocrisia dei politici. Molti anni prima, nella
lontana Polonia, Jan Ostroròg (1436-1501) nel suo Monumentum pro Reipublicae
ordinatione (1475-77), insieme all’umanista italiano attivo in Polonia Filippo Callimaco Buonaccorsi, annunciava almeno il programma di una forte monarchia. Cfr.
A.E. BALDINI, Ragion di Stato, Tacitismo, Machiavellismo e Antimachiavellismo
tra Italia ed Europa nell’età della Controriforma, Genova, Name 1999; G. TOFFANIN, Machiavelli e il tacitismo: la politica storica al tempo della controriforma,
Napoli, Guida, II ed. 1972 (I ed. 1921).
158
Paola Villani
siddetto ‘tacitismo’, si individuava la capacità di ‘finzione’ come
prerogativa necessaria, prerogativa che spesso fondava la critica
stessa al principato da parte dei difensori degli ideali repubblicani 67.
Il Botero inaugura una messe sterminata di testi sulla «Ragion
di Stato» che si chiuderà solo alla fine della prima metà del Seicento. Si tratta di una delle ultime grandi dottrine politiche elaborate
in Italia, capace di estendere la propria egemonia su tutta l’Europa,
una vasta corrente intellettuale unificata ai suoi esordi dalla volontà
di mediare tra due istanze insopprimibili dell’età barocca: che la politica non abbandoni il riferimento ai princìpi religiosi, ma anche che
da questo legame con la religione non tragga motivi di debolezza,
ma anzi di forza ed efficacia pratica, sapendo unire l’interesse con
l’onestà, il successo con la giustizia. Per Botero la virtù del Principe
è la «prudenza politica». La «Ragion di Stato» definisce se stessa
come «conoscenza», come «dritta regola», come una «contravvenzione alle ragioni ordinarie in vista del Pubblico Bene», mira
all’«interesse» dello Stato 68.
La parabola di studi sulla «Ragion di Stato», attraverso autori
come Ludovico Zuccolo o Ludovico Settala, può considerarsi conclusa con Scipione Chiaramonti. Nel suo Della ragion di stato 69, del
1635, viene finalmente distinta una «ratio status» ordinaria ed una
straordinaria. Non si mette in discussione la legittimità di un potere
assoluto, è la definitiva ammissione, da parte dei governati, della
loro estromissione dallo spazio dei governanti. Si comprende che altro è la «politica vera e buona» altro è la «politica mascherata» 70.
Con Chiaramonti gli scritti sulla «Ragion di Stato» si esauriscono perché sembrano prevalere gli «arcana imperii», o meglio la
67 Già Savonarola, infatti, individuava gli «arcana imperii» come condizione necessaria al tiranno per l’esercizio del suo potere. Cfr. G. SAVONAROLA,
Trattato circa il reggimento e governo della città di Firenze, a c. di L. Firpo, Torino, Bottega d’Erasmo, 1963, pp. 114 ss.
68 Cfr. G. BOTERO, Della Ragion di Stato, a c. di C. Morandi, Bologna, Cappelli, 1930, pp. 9 ss. Simili convinzioni Botero esprime anche in altre sue opere:
Delle cause della grandezza e magnificenza delle città (1588) e Relazioni Universali (1590). Cfr. Botero e la ragion di Stato, Atti del Convegno in onore di Luigi
Firpo (8-10 marzo 1990), a c. di A.E. Baldini, Firenze, Olschki, 1992.
69 S. CHIARAMONTI, Della Ragion di Stato, Venezia, 1635.
70 Ibidem, p. 408.
Machiavelli e l’illusione diabolica del potere
159
asimettria informativa tra governanti e governati 71: la «illusione»
del potere appunto.
Machiavelli inaugura questa corrente di teorizzazione della
«Ragion di Stato» e la fonda appunto sulla necessità del Principe di
non svelarsi, di «parere» come apparire in modo fallace o ‘illusorio’,
cioè distante dal vero. Dopo aver elencato tutte le caratteristiche che
per il principe «è necessario» avere, infatti, il Segretario spiega:
Alessandro VI non fece mai altro, non pensò mai ad altro, che
ingannare gli uomini: e sempre trovò subietto da poterlo fare. E non
fu mai uomo che avessi maggiore efficacia in asseverare, e con
maggiori giuramenti affermassi una cosa, che la osservassi meno:
nondimeno sempre li succederono gli inganni ad votum, perché conosceva bene questa parte del mondo.
A uno principe, adunque, non è necessario avere in fatto tutte
le soprascritte qualità, ma è bene necessario parere di averle. Anzi
ardirò di dire questo, che, avendole e osservandole sempre, sono
dannose; e parendo di averle, sono utili; come parere pietoso, fedele, umano, intero, religioso, ed essere; ma stare in modo edificato
con l’animo, che, bisognando non essere, tu possa e sappi mutare el
contrario […]. E però bisogna che egli abbia uno animo disposto a
volgersi secondo ch’e’ venti della fortuna e le variazioni delle cose
li comandano, e, come di sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo,
ma sapere intrare nel male, necessitato. […] E gli uomini, in universali, iudicano più agli occhi che alle mani; perché tocca a vedere
a ognuno, a sentire a pochi. Ognuno vede quello che tu pari, pochi
sentono quello che tu se’; e quelli pochi non ardiscano opporsi alla
opinione di molti che abbino la maestà dello stato che li defenda; e
nelle azioni di tutti gli uomini, e massime de’ principi, dove non è
iudizio a chi reclamare, si guarda al fine. Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e’ mezzi saranno sempre iudicati onorevoli e da ciascuno laudati 72.
71 Cfr. A. FONTANA e J.L. FOURNEL, Piazza, Corte, Salotto, Caffè, cit., p.
666: «Gli arcana imperii non sono solo una necessità tecnica, ma fondano una
nuova società politica, nella quale, in un circolo vizioso, il monopolio del potere
trova sia la sua origine sia la sua legittimazione nel sottrarre informazioni al suddito. La discorsività originale che sarebbe potuta essere la trattatistica della ragion
di stato si esaurisce dopo l’opera del Chiaramonti. Cortina di fumo tra ministri e
sudditi la ratio status, valvola di sfogo degli intellettuali della Controriforma, non
può raccontare il governare e l’ammaestrare della corte di decisione».
72 N. MACHIAVELLI, Principe, XVIII, pp. 283-284 [il corsivo è nostro].
160
Paola Villani
C’è, infine, un altro risvolto di questo intricato, quanto affascinante, rapporto tra Machiavelli e la «illusione». Questo studioso
di «cose di Stato», infatti, profonde grande energia nel dipingere affreschi di vita civile che ancora non riesce a vedere realizzabili nei
tempi suoi. Le sue «verità» sono per lo più difficili da raggiungersi.
Sembra quindi di intravedere non semplicemente un’anti-utopia, ma
anzi una strana assonanza con la letteratura utopica che proprio in
quegli anni stava per essere tenuta a battesimo dall’umanista inglese
More nella sua Utopia. Il precettore del perfetto Principe e dello
Stato repubblicano perfetto stava cedendo all’utopista, come ha
avuto modo di osservare già Gramsci nell’accostamento del libro
«vivente» del Principe al pensiero utopico 73. Si affaccia quindi, proprio nell’antidealista per eccellenza, un mal celato sostenitore di una
«illusione» politica e cioè l’illusione di uno ‘Stato senza illusioni’ e
senza errori di immaginazione. In fondo, il filone dell’utopia potrebbe intendersi come momento precedente – o forse successivo –
rispetto alla illusione; l’insieme di rappresentazioni non rispondenti
alla realtà, perché migliori o ideali, frutto della mente, precede (o
forse succede come elaborazione volontaria) rispetto alla fase di disvelamento del vero e dunque disvelamento della «illusione» in
quanto tale. In questa prospettiva, il profeta della «verità effettuale»
è nemico dell’una come dell’altra, dell’utopia come della illusione.
Non in modo assoluto, però.
Difficile qui ripercorrere il lungo cammino critico ermeneutico
della utopia. Se però lo si intende come «progetto della ragione,
espresso nelle forme fantastiche del romanzo o in quelle argomentate del trattato oppure in quelle sistematiche del codice, […] orientato all’azione» 74, allora si comprende la vicinanza della trattatistica
machiavelliana a quella dell’utopia. Il Segretario fiorentino, infatti,
non si ferma alla mera constatazione della falsità dell’illusione, non
si fa solo leopardiano profeta del vero e del disvelamento dell’illusione. Il suo progetto è più ambizioso, perché a quella idealità che
non ha luogo oppone una verità effettuale che neppure ha mai avuto
73 Cfr. A. GRAMSCI, Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno, Torino, Einaudi 1949, pp. 3-4.
74 A. ANDREATTA, Il pensiero utopico in età moderna, in Il pensiero politico.
Idee, teorie, dottrine, cit., p. 21.
Machiavelli e l’illusione diabolica del potere
161
realizzazione se non, ma solo in parte, nel mondo antico. Il fatto
stesso di proporre un trattato, il fatto stesso di farsi precettore indica
che si crede in una illusione, si crede nella realizzabilità della propria «illusione», al contrario di quanto farà, di lì a poco, il vero ‘cinico’ e relativista del Cinquecento, Francesco Guicciardini. In questo senso, Machiavelli non può essere ascritto al filone dell’utopia
inteso in senso marcusiano (quella che prevede come requisito fondamentale della utopia la sua impossibilità a realizzarsi) 75, ma piuttosto sarebbe un utopista secondo la definizione del Maffey che, nel
distinguere la utopia dagli utopisti, definisce questi ultimi solo coloro che credono che «il migliore dei mondi […] sia possibile o addirittura certo» 76. Contro un’accezione ristretta dell’utopia, che
vede nella contraddizione una condizione necessaria, Andreatta propone una definizione ben più ampia, che sembra potersi adattare al
pensiero politico machiavelliano: «Sembra di poter dire che il pensare politica in modo utopico esprima, in ogni caso, il disagio di chi
scrive rispetto all’ordine sociale in cui si trova immerso, e che contenga la sua protesta contro di esso. Disagio e protesta si sviluppano,
per lo più, secondo il modulo seguente: l’utopista mette a nudo gli
pesudo-valori su cui l’ordine sociale che ha di mira si fonda e ne
esplora gli effetti perversi che ricadono sui consociati; egli oppone,
quindi, a quegli pseudo-valori i valori da lui ritenuti giusti; massimizza tendenzialmente il contenuto di ciascuno di questi; analizza
ed esibisce gli effetti benefici che dalla loro realizzazione ricadono
sui consociati» 77. Ora attenzione: considerando che per Machiavelli
la scala di valori e pseudovalori non si fonda sull’etica tradizionale,
75 Cfr. H. MARCUSE, La fine dell’utopia,
76 A. MAFFEY, L’utopia della ragione,
Bari, Laterza, 1968, p. 11.
Napoli, Bibliopolis, 1987, p. 17.
L’ambiguità è già insita nel termine: è noto che il prefisso «u» è inteso sia come
negazione (nessun-luogo) che come contrazione di «eu» (ottimo-luogo). Ma forse
è proprio quest’ambiguità che va salvaguardata, come contraddizione che determina il carattere dell’utopia, insieme «ottimo-luogo in nessun luogo» (A. ANDREATTA, Il pensiero utopico in età moderna, cit., p. 23). Sulla «contraddizione»
intesa come condizione necessaria per l’utopia insiste anche Marcuse. Cfr. H.
MARCUSE, La fine dell’utopia, cit., p. 11: «Io credo che si possa parlare di utopia
[…] quando un progetto di trasformazione sociale si trova in contraddizione con
leggi scientifiche realmente determinate e determinabili. In senso stretto solo i
progetti di questo genere sono utopistici».
77 A. ANDREATTA, Il pensiero utopico in età moderna, cit., p. 23.
162
Paola Villani
né tanto meno sulla religione rivelata, allora Machiavelli, secondo
questa definizione, è scrittore utopico, o almeno al confine tra Utopia e Mito.
Il suo inseguire la «verità effettuale» finisce col costruire una
realtà alternativa, un altro dover essere che, però, risulta anch’esso
fondato proprio su una, affascinante quanto diabolica, «illusione».
INDICE
SILVIA ZOPPI GARAMPI, Presentazione
7
MARIO SCOTTI, «Illusione»: appunti per una storia semantica
dell’idea
9
PASQUALE STOPPELLI, Illusione: storia di una parola
25
ROSALBA GALVAGNO, Il paradigma dell’illusione
37
NINO BORSELLINO, Paradisi perduti. Paesaggi poetici dell’utopia
63
RAFFAELE MORABITO, L’ombra di Narciso. L’illusione
in un racconto del Novellino
75
VINCENZO DE CAPRIO, Le illusioni in Leon Battista Alberti
91
CORRADO BOLOGNA, Illusioni, ghiribizzi, capricci
nel primo Cinquecento
115
PAOLA VILLANI, Machiavelli e l’illusione diabolica del potere
137
GIULIA NATALI, Di alcuni aspetti dell’illusione
nella Gerusalemme Liberata
163
PASQUALE SABBATINO, Imitazione e illusione nella scrittura dell’arte.
Leonardo da Vinci, Varchi, Marino, Milizia
187
ANDREA BATTISTINI, «Qualche riposo al vero». Le illusioni
del Barocco
215
EMANUELA BUFACCHI, Illusione e disillusione teatrale
nell’illuminismo lombardo
235
382
Indice
NICOLÒ MINEO, Progetto e scacco nel romanzo da Rousseau
a Foscolo
255
ACHILLE TARTARO, Il «senso dell’animo» e la rinascita
dell’illusione leopardiana
277
EMILIO RUSSO, Illusione (e disillusione) in Nievo
299
SERGIO CAMPAILLA, L’illusione di De Roberto
315
DANTE DELLA TERZA, Come opera l’illusione nella trama
de Il fu Mattia Pascal di Pirandello. Gli espedienti
della «lanterninosofia»
327
SILVIA ZOPPI GARAMPI, Illusione: sondaggi nella narrativa
del primo Novecento
347
LEONE PICCIONI, L’illusione in Ungaretti
361
INDICE
367
DEI NOMI