Academia.eduAcademia.edu

Giovani Jeunes Jovenes

2001

PRESENTAZIONE COMPARANDO TRE SOCIETÀ DI GIOVANI EUROPEI 1. Kinder der Freiheit: figli della libertà o schiavi della libertà? Qualsiasi ricerca sociologica nasce, cresce, matura e si conclude utilmente solo se si confronta da un punto di vista teorico con alcune ipotesi di carattere più generale che conferiscono senso prima al lavoro empirico sul campo e poi alla interpretazione dei risultati. La sociologia della condizione giovanile nella letteratura prodotta dalle scienze sociali europee, fatte le debite eccezioni, ha un retroterra teorico non troppo solido ma da qualche tempo la ricerca sulle nuove generazioni si intreccia con alcuni “topoi” di ampio respiro. Oggi si parla e si scrive dei giovani insieme alla questione della transizione dei valori, in associazione allo studio delle trasformazioni della cultura politica democratica oltreché, naturalmente, al fine di un approfondimento dell’analisi del mutamento sociale ed istituzionale che va accompagnando la tarda modernità dell’Occidente. Ulrich Beck con la sua teoria sulla società del rischio, sta dando un contributo decisivo per conferire spessore ad una sociologia delle giovani generazioni che prescinda dal descrittivismo banale e che proponga una riflessione sui giovani nei termini di un’analisi sociologica di largo raggio. È sua l’espressione “figli della libertà” sulla quale è opportuno, preliminarmente, spendere qualche parola. Questo Rapporto di ricerca dedicato ai giovani italiani, francesi e spagnoli è il frutto di una indagine complessa nella sua articolazione ma costan- Questa Presentazione è stata scritta da Gianfranco Bettin Lattes, promotore e coordinatore della ricerca “The Integration of Young People into Working Life and the Future of Democratic Culture in Southern Europe” oggetto del presente Rapporto. 11 temente orientata da un confronto con le linee del dibattito sociologico in corso che vede appunto Beck tra i principali interlocutori. Ci sia consentita allora un’apparente digressione che fa da indispensabile e più ampia cornice alla nostra ricerca. La caratteristica strutturale che Beck attribuisce alla società postmoderna è la crisi di quella capacità di garantire sicurezza che era riconosciuta un tempo alla tradizione, ai valori culturali comunitari e alla scienza. In particolare, la crisi ambientale degli anni Ottanta ha dimostrato come la scienza appaia ben poco in grado di padroneggiare le cosiddette “conseguenze secondarie” legate in maniera indissolubile alla sua azione1. La recente centralità politica delle “conseguenze secondarie” conduce ad un superamento della politica come attività dedicata alla “distribuzione sociale della ricchezza prodotta” e alla sua sostituzione con una politica rivolta alla “produzione e distribuzione sociale del rischio”2. L’emergere della società del rischio non ha soltanto cambiato le questioni rilevanti in politica e reso più impellente l’esigenza di partecipazione. Essa ha anche gettato le basi per il passaggio da un modello “lineare” ad un modello “riflessivo” di democrazia. Per Beck la nuova concezione di democrazia prende corpo attraverso l’applicazione dei principi della democrazia alla democrazia stessa, o meglio all’attuazione liberale e procedurale che ne danno i sistemi politici occidentali. Oggi, per la prima volta, si comincia a riflettere democraticamente sulle stesse basi della democrazia e si arriva a metterle in discussione; una situazione del tutto nuova, dato che in genere «le basi della democrazia sono come delle precondizioni dei processi democratici, sottratte (in larga misura) al mutamento stesso. Esse vengono trattate come se fossero eterne (Beck Le “conseguenze secondarie” sono gli effetti prodotti, costantemente e al di là delle capacita di previsione, da parte di ogni tipo di applicazione scientifica e tecnologica, sia essa una nuova strategia di produzione energetica, l’introduzione di applicazioni nella biogenetica, oppure il varo di una inedita piattaforma economica. Questo processo, nel momento in cui erode le basi dell’agire scientifico e tecnologico e ne distrugge l’autorevolezza sociale, apre lo spazio per la politicizzazione di ambiti sociali prima riservati esclusivamente all’autorità scientifica. 2 Accanto alle tradizionali insecurities (le questioni della marginalità economico-sociale affrontate con il Welfare State) vanno ad aggiungersi le diverse questioni della lake of safety (minacce alla salute e alla vita) e delle uncertainties (perdita di certezze verso il progresso e la scienza). 1 12 1999). La democrazia, nella definizione data dai classici, consiste nella partecipazione di tutti i soggetti interessati al processo decisionale, come è possibile allora, ci si deve chiedere, definire democratiche le nostre società se, ad esempio, gruppi importanti, come le nuove generazioni attuali e le generazioni che dovranno venire o i cittadini di altri Stati, non possono dire la loro su decisioni da cui dipenderà la loro stessa esistenza? Il nuovo modello della democrazia riflessiva appare profilarsi principalmente attraverso il processo che Beck chiama di “subpoliticizzazione della politica” o di “democratizzazione della struttura”. Di fronte ai limiti delle democrazie rappresentative e degli ordinamenti statuali nella gestione in termini democratici di fenomeni come le “conseguenze secondarie”, la politica “sconfina” e produce una subpolitica che non è in opposizione alla politica istituzionale, come avveniva nella protesta politica e studentesca degli anni Sessanta e Settanta, bensì “trasversale”, né pro né contro la politica ufficiale, ma essenzialmente un ambito distinto, un sistema di riferimento “altro”. La subpolitica costruisce ambiti in cui si assumono decisioni ad elevata valenza politica, ambiti che sono del tutto al di fuori dell’ordinamento statuale. Se guardata alla luce dei modelli teorici tradizionali, la subpolitica può essere vista come il segnale di una profonda crisi della politica3. Il processo di subpoliticizzazione sancisce quindi un allargamento della partecipazione e del ruolo dei non esperti, nonché della discussione pubblica in genere4. Con quali effetti di mutamento è tuttavia un aspetto tutto da verificare. 3 La subpolitica, come la “Life politics” di cui parla Giddens, può essere intesa come un momento di accrescimento degli spazi democratici, poiché sancisce, nelle parole di Beck, una sorta di “demonopolizzazione” dei sistemi esperti, come la politica formale o la scienza che oggi funzionano spesso come circoli chiusi in cui solo i loro pochi partecipanti sanno che cosa è giusto fare. 4 E’ chiaro che si tratta di un processo “rivoluzionario” sotto diversi aspetti. «La sovranità degli individui, affermata dalla democrazia, è legata alla sovranità e ai limiti dello Stato-nazione, e all’interno di esso, all’ambito di ciò che è politico in senso stretto. Visto così, a molti sembra non soltanto incomprensibile, ma riprovevole e pericoloso, parlare in un qualunque senso, della “democratizzazione” della famiglia, dell’economia, del lavoro industriale (per non parlare della scienza)» (Beck 1999). In realtà, evidenzia Beck, appare impossibile limitare i diritti fondamentali dei cittadini al solo ambito politico-statale. Va allora avviata una sorta di riflessività in senso orizzontale della democrazia, vale a dire un processo che sia in grado di estenderla a tutte le sfere dell’agire. 13 In estrema sintesi. Beck sostiene che il passaggio alla società postmoderna ha sancito un espandersi della democrazia al di là dei confini delle istituzioni politiche e un suo conseguente riconfigurarsi in termini non più strettamente procedurali ma nemmeno partecipativi e comunitari intesi in un senso tradizionale. Nella nostra società la democrazia si è trasformata nel principale strumento per gestire la diversità culturale e per fornire uno spazio pubblico in cui abbia luogo la discussione e il mutuo riconoscimento pacifico delle differenze tra le diverse culture, religioni e interessi. In secondo luogo, la democrazia allarga (o meglio tenderebbe ad allargare) i suoi ambiti di applicazione a tutte le sfere sociali, dalla famiglia alla scienza, dalla città alla scuola e via dicendo, come suggeriscono le espressioni di “subpolitica” e di “Life politics”. In terzo luogo, la democrazia non ha più un progetto complessivo da realizzare, piuttosto si trasforma in un processo che ha al suo centro il soggetto (vale a dire il singolo individuo consapevole) e la sua libertà creatrice e di autodeterminazione. L’analisi sociologica ha individuato come l’attuale processo di mutamento sociale segua un percorso tipicamente generazionale: le trasformazioni vengono enfatizzate e si riflettono innanzitutto nei giovani per poi diventare dominanti nel momento in cui, attraverso l’avvicendamento generazionale, le ultime generazioni sostituiscono quelle vecchie nei ruoli centrali della società. È dunque attraverso una ricognizione delle rappresentazioni sociali presenti nelle giovani generazioni che siamo in grado di evidenziare questo spostamento, culturale e sociale nello stesso tempo, del fenomeno democratico. A questo stesso proposito Beck ci parla dei “figli della libertà” per fornirci una categoria utile per riflettere sui giovani nella loro posizione di nuovi attori sociali e politici che sono stati da tempo socializzati in un clima di democrazia consolidata, non solo dal punto di vista istituzionale. L’analisi della società, e in particolare di quel suo speciale segmento costituito dai giovani, può procedere ad esplorare questo tipo di democrazia interiorizzata che qualifica politicamente in maniera inedita la gioventù (ma forse non solo essa) solo se riconosce che l’attrezzatura concettuale elaborata dalla sociologia per lo studio della modernità è ormai obsoleta. L’aspirazione alle nuove forme di libertà e ad una piena autorealizzazione che motivano uomini e donne del nostro tempo si confronta in modo assai pro14 blematico con la struttura di autorità che configura la famiglia. Il dato culturale che problematizza la relazione ai valori, ma pure l’azione ed i comportamenti sociali che ne discendono, è un surplus di libertà che dilaga nella vita quotidiana dell’uomo comune ed implica soprattutto i giovani che si formano in questo clima speciale. La veniente società della seconda modernità oscilla tra orizzonti radiosi e cupi paesaggi, densi di presagi funesti. I giovani crescono in un ambiente che rischia una distruzione integrale; non riescono ad intravvedere una soluzione al problema della disoccupazione; accettano di rimanere nel recinto familiare fino ad un’età che nella generazione precedente li vedeva già impegnati in ruoli da genitore; esperimentano una condizione di disagio che rende difficile le relazioni sentimentali e deforma il divertimento. L’agenda politica ufficiale dei partiti e delle istituzioni che governano non considera adeguatamente questi punti così vitali, ne consegue che “i figli della libertà” rifiutano di impegnarsi nelle organizzazioni che fanno politica, odiano il formalismo istituzionale, sono indifferenti ad ogni forma di militanza e si astengono dal voto. I giovani della incipiente seconda modernità risultano a-civici nel senso che si tengono alla larga dalla politica ufficiale, mentre sono invece inclini a praticare quella che Max Weber chiamava la politica della strada fatta di manifestazioni di piazza e di raccolta di firme per petizioni. Ma soprattutto “i figli della libertà” si divertono e si lasciano guidare dalla gioia di vivere: consumando, facendo sport, sentendo e facendo musica et similia (Hitzler e Pfadenhauer 1999). «I “figli della libertà” si ritrovano e si riconoscono in una variopinta ribellione contro la monotonia ed i doveri che devono assolvere senza apparente ragione e quindi senza partecipazione». Ma il punto forse più provocatorio della diagnosi di Beck, per chi sia interessato allo studio delle tendenze di mutamento della cultura politica democratica europea, è che esisterebbe un legame sotterraneo fra desiderio di godersi la vita ed opposizione politica: «il vero e proprio nucleo di quella che si può definire “politica dell’antipolitica giovanile”» sta nella politicità della scelta del divertimento: «… godersi la discoteca nella consapevolezza che si tratta di un’azione politica a tutti gli effetti….questa politica generale del rifiuto prima o poi metterà in questione l’intero sistema, per lo meno quello delle democrazie europee». Il punto non è così banale come si avrebbe la tentazione di dire, perché Beck non solo 15 individua in questo spinto e comodo ludismo una delle matrici della neodemocrazia riflessiva ma lo inserisce nella doppia strategia dei “figli della libertà” associandolo all’immagine del volontariato antieroico. «I “figli della libertà” sono una generazione attivamente impolitica in quanto negano la propria vitalità a istituzioni troppo chiuse in se stesse. Questa variante occidentale dell’anti-politica è integrata e resa credibile da un volontariato autogestito che non si lascia impigliare nelle maglie dell’organizzazione coatta delle grande organizzazioni. I “figli della libertà” praticano una morale innovativa ed accattivante, che riesce a mettere in connessione termini apparentemente antitetici: autorealizzazione ed impegno per gli altri, impegno per gli altri come autorealizzazione» (Beck 2000, 9). Si tratta di una diagnosi e di una previsione che la sociologia ha il dovere di verificare empiricamente in vario modo per evitare un fenomeno che già trent’anni fa ha attraversato la scena politica dell’Occidente postindustriale legittimando la protesta giovanile, vale a dire il fenomeno delle teorie che assumono la forma della profezia che si autoadempie. La verifica empirica, poi, ha un significato soprattutto per evitare delle analisi fuorvianti per il governo di una società democratica che deve tutelare le minoranze senza dimenticare i diritti di tutti mentre deve affrontare in tempi brevi il serio problema della cittadinanza europea. Non si può non essere d’accordo con Beck quando afferma che il mutamento dei valori non è da vituperare acriticamente ma che anzi è un processo che va di pari passo con lo sviluppo della democrazia: «tra l’ideale dell’autoaffermazione e quello della democrazia vi è un’intima affinità». Il valore immateriale della qualità della vita si coniuga con l’individualismo altruista e con la tolleranza della diversità nel caratterizzare politicamente “i figli della libertà”. Nella diagnosi di Beck c’è dunque una forte (e a parere di scrive un’irrealistica) svalutazione delle istituzioni tuttora alla base dell’ordine sociale e più ancora delle istituzioni di governo che in Europa, come in tutto l’Occidente moderno, continuano a determinare con le loro scelte i caratteri della condizione giovanile – ad esempio, senza impostare delle soluzioni ai loro, ormai annosi, problemi. In questa stessa diagnosi si ritrova pure una marcata sottolineatura dei nuovi valori che orientano il mondo dei giovani, associata però con una pretesa sovrapposizione tra una parte di questo mondo 16 “i figli della libertà” con il tutto, vale a dire l’intero universo dei giovani, favorita forse da un’eccessiva immersione empirica di Beck nella società tedesca dell’inizio del Terzo millennio. L’Europa è un aggregato ancora in formazione, è un insieme di società in movimento dove i processi di omologazione si confrontano in modo problematico e del tutto imprevedibile con i processi di differenziazione. Dunque è importante per un’analisi sociologicamente adeguata lavorare empiricamente su contesti omogenei che, dal punto di vista storico, abbiano manifestato legami e convergenze dallo spessore significativo: l’Europa del Sud nella sua componente socio-culturale di matrice latina è uno di questi contesti che condizionerà il modo di essere dell’Europa nel millennio in corso. L’universo giovanile è un magma mal decifrabile nei suoi confini e nelle sue inclinazioni ad assorbire ed a promuovere il mutamento. Non c’è dubbio che le nuove generazioni della seconda modernità rappresentino un canale potente di omogeneizzazione socioculturale tra società distinte e distanti dentro ma anche al di fuori del continente europeo. Tuttavia non si possono sottovalutare le peculiarità che i giovani manifestano in relazione ai contesti dove sono stati socializzati. Lo stato di moratoria ed il rinvio consapevole all’entrata nel ciclo della vita adulta mal si associano alle espressioni di libertà che caratterizzano oggi la prima, e domani ancor più, la seconda modernità, perché una soggettività matura si nutre di varie forme di azione elettiva, specialmente quelle associate all’esperienza di lavoro. La ricerca deve verificare la presenza e la consistenza dei “figli della libertà” nell’universo giovanile europeo e articolare meglio il loro modo di essere giovani a confronto con lo status di altri tipi di esperienza della gioventù che sono tutt’altro che minoritari, anche nella definizione della loro identità politica. Non si può asserire in tutta tranquillità che «per i “figli della libertà” le formule tradizionali della convivenza sociale – matrimonio, genitori, famiglia, classe e nazione – hanno perso molto in forza persuasiva e praticabilità» (Beck 2000, 25) senza una verifica adeguata ed analitica degli orientamenti effettivi di questo segmento di giovani, prescindendo tra l’altro integralmente dalla natura della sua composizione sociale e senza valutare il rapporto tra i “figli della libertà” e gli altri giovani che popolano la stessa società. L’individualizzazione e la globalizzazione sono due processi epocali che, se continueranno a diffondersi in maniera irreversibi17 le, trasformeranno radicalmente i fondamenti della convivenza sociale. La loro forza sembra per ora inarrestabile. Le istituzioni saranno travolte da questi orientamenti? Quali spazi riserverà ai giovani l’Europa nella sua imminente veste di società globalizzata? La percezione di questi processi è ancora troppo limitata; le vecchie categorie interpretative non riescono a decodificare adeguatamente la portata di questa novità. Secondo Beck «ambivalenza e vuoto» si accompagnano con il mutamento di valutazione di che cosa è politico e di cosa non lo è più. In breve non si può che leggere, da sociologi, questa suggestiva ed inquietante diagnosi teorica se non come un invito pressante ad esplorare una situazione in grande movimento; la nostra ricerca è un tentativo tra i molti che si stanno esperendo in questa direzione ed è un tentativo che opta, non poteva essere altrimenti, per un’impostazione aperta nei confronti del campo prescelto. Sono i giovani italiani, francesi e spagnoli che parlano di sé stessi e che ci offrono i dati per una valutazione dei processi che formano la loro identità di attori sociali e soprattutto di cittadini della nuova Europa. 2. Il disegno della ricerca: alcune linee fondamentali La nostra ricerca aveva come scopo primario quello di sviluppare un’analisi comparata dell’impatto della disoccupazione giovanile – sia come esperienza diretta che come rischio percepito – sui valori politici dei giovani in Italia, Francia e Spagna. Il lavoro dei tre team nazionali è stato orientato dall’ipotesi generale secondo cui l’indebolimento delle chances occupazionali delle giovani generazioni, comune alle tre società indagate, potrebbe determinare un’incrinatura della cultura politica democratica nel contesto indagato. Più specificamente, l’obiettivo dell’analisi empirica condotta simultaneamente in Italia, Francia e Spagna è stato non solo controllare quest’ipotesi di fondo, ma anche definire le condizioni della sua validità5 . In altre parole, si è fin dall’inizio delineata la possibilità che il rapporto tra prospettive occupazionali e valori politici Per un opportuno approfondimento si rinvia infra, all’Appendice metodologica del Rapporto. 5 18 fosse mediato da variabili intervenienti che ammortizzano, od enfatizzano, l’impatto sociale del problema della disoccupazione giovanile. In particolare, l’attenzione si è focalizzata sulle modalità di socializzazione familiare e dei contesti locali di appartenenza nonché sul ruolo dell’istruzione e della condizione socioeconomica determinata dalla esperienza di lavoro (o di non lavoro). L’analisi è stata focalizzata sui casi italiano, francese e spagnolo per almeno due ordini di motivi. Da un lato, si tratta dei tre maggiori paesi dell’Europa del Sud, in cui si registra la presenza di un “modello mediterraneo” di disoccupazione specialmente caratterizzato – a differenza che nel Centro-Nord Europa – dalle difficoltà di inserimento dei giovani nel mondo del lavoro e al tempo stesso da una centralità plurifunzionale dell’istituto familiare il cui effetto protettivo sugli effetti perversi della disoccupazione e sul suo vissuto da parte dei giovani è ancora tutto da verificare. D’altro lato, questi tre casi sono tra loro alquanto dissimili in termini storici, economici e politico-culturali. Mentre la Francia rappresenta una democrazia dalle radici storiche saldissime, la Spagna costituisce un caso di democratizzazione tardiva e il caso italiano si colloca, a sua volta, in una posizione intermedia. Dal punto di vista economico, peraltro, il sistema francese presenta i tratti di un’economia pienamente post-industriale in cui è forte la presenza di grandi imprese ed organizzazioni multinazionali, il sistema italiano si configura come un caso anomalo di superamento della società industriale senza che però abbia avuto luogo lo sviluppo di organizzazioni economiche di grande scala, mentre il sistema spagnolo si colloca in una posizione di latecomer nel processo di sviluppo economico, seppure con un ritmo di crescita accelerata. L’analisi comparativa si intreccia, allora, fruttuosamente con le analisi più approfondite sui casi nazionali. I punti di convergenza risultano forse più interessanti sotto il profilo interpretativo delle linee di divergenza; anche perché sarà proprio sulle convergenze emerse dall’esplorazione empirica che si potranno meglio impostare le linee delle politiche sociali più efficaci per il governo dell’Unione europea. Vi è in primo luogo da sottolineare come in Italia, Francia e Spagna i giovani manifestino una forte preoccupazione per la disoccupazione, che è sempre indicata come il problema principale delle società cui appartengono. Questo allarme per la carenza di 19 lavoro è ovviamente più forte tra i giovani disoccupati, ma resta comunque prioritario anche per gli studenti universitari. Ciò non comporta di per sé – al contrario di quanto ipotizzato a priori nel progetto di ricerca– un allontanamento generalizzato dai valori tipici delle democrazie liberali. Risulta cionondimeno un fattore che influenza in misura significativa: a) l’affievolimento della partecipazione politica ed associativa delle giovani generazioni; b) il ripiegamento della maggioranza dei giovani su posizioni etico-politiche di segno materialista (specie in Italia e Spagna), in controtendenza rispetto alle trasformazioni culturali del mondo occidentale in chiave postmoderna, postulate da Ronald Inglehart ed altri autori; c) la caduta verticale della fiducia dei giovani nelle istituzioni politiche a tutti i livelli: locale, nazionale ed anche europeo. Per contro, i fattori che consentono di attenuare l’impatto della disoccupazione – come esperienza diretta o come eventuale destino all’uscita dal sistema formativo – sulla cultura politica democratica sono sostanzialmente due: la famiglia e l’istruzione. In tutti i casi esaminati, la famiglia protegge la democrazia. Agendo come principale veicolo di socializzazione politica, rispetto al quale la scuola, i gruppi dei pari ed anche i mass media esercitano sul giovane in formazione un’influenza estremamente tenue, il gruppo parentale consente una riproduzione dell’adesione ai valori-cardine della democrazia relativamente al riparo dalle perturbazioni del contesto socio-economico. In questo quadro merita una sottolineatura la continuità di distinzioni di genere che si potevano ritenere superate, nel senso che – in tutti e tre i paesi esaminati – la figura paterna gioca un ruolo dominante quale riferimento per l’adozione, spesso integrale e quasi “meccanica”, di un sistema politicovaloriale precostituito che sembrerebbe storicamente e culturalmente radicato. Anche se nel caso italiano la figura materna sembra acquisire nuovi, significativi spazi di influenza. La centralità della famiglia nel processo di socializzazione politica è poi rinforzata dalla forza dei legami intergenerazionali familiari, che si manifesta soprattutto tramite il sostegno economico dei figli sino ad un’età assai più avanzata che in passato. Il secondo fattore che interviene a protezione dei valori democratici sembra essere l’istruzione. Gli effetti dell’esperienza universitaria, in particolare, sono piuttosto evidenti nel confronto tra studenti e disoccupati altamente scolarizzati da un lato e disoc20 cupati poco scolarizzati dall’altro6 . L’esperienza della disoccupazione, allorché si verifica senza un bagaglio di formazione superiore, determina una chiusura degli orizzonti vitali e valoriali dei giovani che si fa palese nell’adozione di atteggiamenti particolaristici e localistici. Il deficit formativo agisce, tra l’altro, anche sulle capacità di concettualizzare i fenomeni politici in maniera adeguata, come mostrano le risposte alle domande aperte proposte nelle interviste in tutti e tre i paesi, assai più confuse, reticenti o fuori bersaglio tra i giovani disoccupati meno istruiti che hanno della democrazia una rappresentazione assai poco partecipata. Più in generale, è da notare che lo scarto tra disoccupati e studenti universitari assume contorni più nitidi in Francia e in Spagna che in Italia, cioè nei paesi in cui il rendimento economico – nel medio-breve termine – dell’istruzione superiore è maggiore. Si può quindi forse ipotizzare che la resa sul piano civico dell’istruzione universitaria vada, in qualche misura, di concerto con il valore socio-economico delle credenziali formative. Se ciò è vero, se ne deve dedurre che l’efficacia del raccordo scuola-lavoro ha avuto, ha ed avrà effetti collaterali virtuosi anche in termini di rafforzamento della cultura democratica in sintonia con una prossima fase di ulteriore integrazione tra i paesi dell’Unione. Questo dato forte è una sorta di pietra angolare su cui i governi nazionali prima ed il governo dell’Unione europea, poi, possono e debbono costruire una nuova forma di cittadinanza. 3. Un caso mediterraneo di disoccupazione giovanile: per una lettura diacronica del problema Negli anni della ricostruzione economica e sociale dell’Italia che seguono il secondo conflitto mondiale i giovani non costituiscono una categoria dai contorni significativi né sul mercato del lavoro né nel panorama politico-culturale del Paese. Altri cleavages –le appartenenze subculturali familiari, la posizione di classe, 6 Si vedano, infra, il capitolo XII del Rapporto dedicato alle rappresentazioni sociali della democrazia e i capitoli XIX e XX dedicati al sentimento di appartenenza territoriale e di identificazione con l’Europa. 21 lo schieramento politico, la collocazione territoriale (Nord-Sud, città-campagna)– rivestono un’importanza assai più marcata che non la condizione generazionale. È soltanto sul finire degli anni Sessanta che i giovani cominciano a ritagliarsi un spazio autonomo come categoria socialmente distinta, con una cultura e problemi propri7 . Vale la pena sottolineare che questa ’“emersione” dei giovani ha luogo quasi contemporaneamente nella sfera della cultura politica e della situazione lavorativa. Se il 1968 rappresenta la data-simbolo delle rivendicazioni giovanili in campo culturale e politico in Italia come nel mondo, il 1967 costituisce un momento emblematico nell’evoluzione dell’occupazione giovanile: per la prima volta le rilevazioni ufficiali dell’Istituto nazionale di statistica indicano una maggiore consistenza, all’interno della popolazione disoccupata, dei giovani in cerca del primo lavoro rispetto a coloro che avevano un impiego e lo hanno perso (cioè, i disoccupati “classici”). È alla fine degli anni Sessanta, insomma, che l’associazione disoccupazione-giovane età, oggi consolidata, comincia ad imporsi all’attenzione come elemento nuovo e tipico del mercato del lavoro in Italia. Le cause di tale associazione sono tuttora oggetto di dibattito tra economisti e sociologi; certamente, tuttavia, un posto di prima fila spetta alla scolarizzazione di massa iniziata negli anni Sessanta e alla correlata trasformazione delle caratteristiche dell’offerta di lavoro giovanile che non trova corrispondenza in un adeguato mutamento delle forme organizzative e delle tecnologie dominanti del sistema produttivo nazionale. Ciò marca probabilmente una differenza decisiva tra i sistemi socioeconomici dell’Europa del Sud da un lato e i maggiori paesi industrializzati dell’Europa centrale e gli Stati Uniti dall’altro che si riverbera nella diversa dimensione e soprattutto nella diversa evoluzione del problema nel tempo (grafico 1). Negli anni Settanta, Ottanta e Novanta le prospettive occupazionali delle generazioni giovani continuano a peggiorare; senza interruzione o inversioni di tendenza, la disoccupazione italiana si caratterizza sempre più come disoccupazione giovanile. Anzi, la distanza tra le due componenti della popolazione dei senza lavoro – gli ex occupati e i mai occupati – cresce (con un picco nella 7 22 Per un quadro più dettagliato, cfr. il primo capitolo di questo stesso Rapporto. Grafico 1. - Tassi di disoccupazione dei giovani tra i 20 e i 24 anni in cinque paesi industrializzati (1973-1995) USA Germania Francia Italia Spagna 45 40 35 30 % 25 20 15 10 5 0 1973 1975 1979 1983 1992 1995 seconda metà degli anni Settanta) stabilizzandosi in anni recenti su un rapporto di due a uno: circa due terzi dei disoccupati italiani è formato da giovani che cercano il loro primo lavoro. Nel frattempo, e forse non casualmente, la contestazione giovanile monta per tutti gli anni Settanta, sia in forme estremiste e talora violente sia alimentando, specie negli anni Ottanta, comportamenti politici di rifiuto silenzioso della cultura politica dominante (di cui sono spia, fra le altre cose, il declino della partecipazione partitica e l’astensionismo elettorale delle giovani generazioni). Nel complesso, la caratterizzazione giovanile della disoccupazione italiana, insieme ai diversi tassi di partecipazione alle forze di lavoro e al maggior rischio di disoccupazione delle donne, identifica i tratti salienti di un “modello mediterraneo” di disoccupazione. È opportuno ribadire, infatti, che se il problema della disoccupazione si aggira per l’Europa tutta (anche se con diversa intensità), solo nell’Europa del Sud si presenta come problema specificamente giovanile. In Germania il rischio di essere disoccupati ha poco a che vedere con l’età dei lavoratori. In Gran Bretagna la disoccupazione è leggermente più alta della media fra chi ha meno di trent’anni ma anche fra chi ne ha più di cinquanta. 23 In Italia, Spagna, Portogallo e Grecia (e in misura minore in Francia), invece, i tassi di disoccupazione diminuiscono sensibilmente per le coorti più anziane. Ciò è particolarmente vero nel caso italiano: tra la popolazione attiva con oltre 35 anni i disoccupati si aggirano intorno al 5%, sono cioè meno che in Germania. Inoltre le differenze generazionali, tra i lavoratori over 35, sono praticamente nulle. Il rischio della disoccupazione è tutto concentrato nella fascia tra i 14 e i 35 anni (con un calo marcato tra i 30 e i 35 anni). I disoccupati sotto i 25 anni (quasi tutti individui in cerca di prima occupazione) costituiscono il 63% del totale dei disoccupati, contro il 43% in Gran Bretagna e il 48% in Germania (Eurostat 1997, 49). Insomma, la disoccupazione in Italia è disoccupazione giovanile in quanto disoccupazione da inserimento nel mondo del lavoro. 4. La mobilitazione cognitiva e la concezione del lavoro giovanile nell’Europa del Sud Il rapporto tra titolo di studio e articolazione delle aspettative lavorative costituisce un primo nucleo tematico di notevole rilievo nell’ambito della nostra ricerca, in quanto consente di mettere a fuoco in modo adeguato i molteplici nessi causali tra status sociale complessivo dei giovani e cultura politica democratica. In prima battuta sembra opportuno sottolineare che le società mediterranee studiate fanno registrare una crescita della popolazione universitaria assai rilevante, si tratta di un fenomeno molto articolato che si è sviluppato secondo fasi cronologicamente distinte nei diversi paesi, generando conseguenze sociali diversificate. In particolare, negli anni recenti la notevole crescita della “mobilitazione cognitiva” in Spagna ha prodotto una generazione di giovani che sono mediamente più istruiti dei loro genitori e che hanno sviluppato aspettative di inserimento professionale più elevate rispetto alle generazioni precedenti. Questo aspetto ha praticamente influenzato la struttura delle immagini del lavoro ampliandone le possibilità e trasformandola parallelamente al complessificarsi dei ruoli professionali nel mercato del lavoro. Le difficoltà, sorte in anni recenti nel mercato del lavoro, hanno seriamente compromesso la logica espansiva della diffusa mobilità sociale connessa all’incremen24 to del livello di istruzione. Nasce così un conflitto tra struttura delle aspettative e articolazione delle posizioni professionali che ha favorito lo sviluppo di importanti meccanismi adattivi. Nel caso spagnolo si assiste per un verso ad una diffusione del lavoro temporaneo nelle sue diverse forme, tale da caratterizzare ormai, come esperienza diffusa tra i giovani, un atteggiamento più pragmatico nei confronti del lavoro. Per l’altro verso la pratica di forme di lavoro flessibile non agisce come depotenziamento delle aspirazioni individuali ad una collocazione professionale corrispondente alle proprie aspettative. In altri termini si assiste ad una duplice dinamica in base alla quale la diffusione di forme di lavoro temporaneo non ridefinisce verso il basso le aspettative professionali legate al titolo di studio, la cui realizzazione viene procrastinata negli atteggiamenti dei giovani spagnoli. Si tratta di una dinamica che viene rilevata anche in Francia e in Italia, sebbene con le opportune distinzioni del caso. In Italia, ad esempio, per tutti, studenti e disoccupati, la trasformazione del mercato del lavoro in termini di una maggiore flessibilità rispetto al passato va di pari passo con l’elaborazione da parte dei giovani di una visione disincantata e pragmatica del lavoro medesimo. Si tratta di un orientamento che caratterizza in maniera inedita le nuove generazioni di italiani. La maggioranza dei giovani disoccupati come degli studenti ritiene che in un lavoro gli aspetti strumentali siano più importanti degli aspetti espressivi. Insomma, agli occhi dei giovani italiani l’importanza di un lavoro sembra risiedere anzitutto nella sua capacità di produrre benefici indipendenti dal contenuto del lavoro stesso. Questo atteggiamento ridefinisce il senso del lavoro in una sorta di adattamento alla pratica della flessibilità, che nella forma attuale, rappresenta un’esperienza assolutamente nuova per il mercato del lavoro italiano. Con esigue differenze tra studenti e disoccupati, dunque, lavorare ha senso soprattutto perché serve ad alimentare altre sfere dell’esistenza (dalla sussistenza alla possibilità di godere di svaghi o di privilegi). Vale la pena sottolineare che questa concezione (“lavorare non è una bella cosa, ma si deve fare per vivere”) è stata tradizionalmente fatta propria dagli strati meno privilegiati – e meno istruiti – della popolazione, come giustificazione di condizioni occupazionali alienanti o comunque poco gratificanti. Nella congiuntura attuale, tuttavia, l’atteggiamento strumentale nei confronti 25 del lavoro dilaga anche tra i figli dei diversi strati della borghesia e, specialmente, della classe media impiegatizia. In questo quadro, va osservato che di una visione eminentemente strumentale del lavoro sono portatori soprattutto i giovanissimi (il 59,2% degli studenti e il 71,1% dei disoccupati tra i 18 e i 22 anni). Poiché sarebbe stato logico attendersi il contrario, siamo forse testimoni di una piccola frattura generazionale. Forse perché coinvolta nella spirale di degrado delle prospettive occupazionali, la generazione dei ventenni in senso stretto si rende protagonista di un arroccamento senza precedenti nel succedersi delle generazioni giovani degli ultimi trent’anni a sostegno di valori materialisti che trovano una loro coerente manifestazione nell’attribuzione, già sottolineata, di un significato anzitutto strumentale al lavoro – a testimonianza di una cultura della generazione dominata da una sorta di allarmato pragmatismo. In linea con queste trasformazioni si colloca anche il caso francese. Per un verso le linee generali che caratterizzano la struttura delle aspettative professionali dei giovani francesi studiati sono quelle classiche di un lavoro sicuro e che offra allo stesso tempo l’opportunità di una gratificazione anche personale e creativa. Ciò è reso possibile da una ridotta disoccupazione giovanile, tale comunque rispetto ai due casi precedenti, e da una articolazione strutturale della relazione tra formazione e inserimento lavorativo che già nel corso degli studi favorisce una progressiva ridefinizione realistica delle aspettative individuali. Tuttavia, una distinzione significativa tra studenti e disoccupati emerge proprio nella definizione del significato del lavoro in relazione non tanto al titolo di studio, quanto alla complessiva esperienza sociale compiuta. Sembra infatti che l’esperienza del lavoro e della ricerca di un impiego contribuiscano a rendere i giovani più “realisti”: tra coloro che non hanno mai lavorato l’elemento creativo e autorealizzativo del lavoro è ritenuto importante da un terzo, mentre la quota di coloro che affermano l’importanza espressiva del lavoro si riduce ad un quinto tra coloro che hanno avuto esperienze lavorative. 26 5. Le relazioni familiari, le aspettative di lavoro e l’esperienza formativa Una condizione sociologicamente importante, condivisa integralmente anche dalla letteratura specialistica europea, della ridefinizione del significato del lavoro e della trasformazione delle aspettative lavorative è costituita dal ruolo delle relazioni familiari. Nell’analisi comparata dei tre casi nazionali i modelli familiari evidenziano differenze rilevanti che incidono in maniera significativa sui processi di allungamento della giovinezza e sulle modalità di sviluppo di relazioni sociali da parte dei giovani studiati, sia studenti che disoccupati. La famiglia esercita infatti un’importante influenza nella percezione soggettiva del senso del lavoro in rapporto con le modificazioni occorse nel mercato del lavoro. Nel caso spagnolo la spiegazione che viene avanzata indica la centralità delle relazioni familiari nello svolgere una funzione di mediazione tra le aspirazioni individuali e il mercato del lavoro. La famiglia rappresenta un network capace di attivare risorse e offre essa stessa possibili canali di reclutamento. È in ragione di questa centralità funzionale, nel mettere in relazione l’individuo con il mercato del lavoro, che è possibile spiegare la fiducia generalizzata degli studenti universitari spagnoli nella futura realizzazione delle aspettative lavorative: la lunga permanenza in famiglia, secondo uno schema tipico delle società europee mediterranee, consente ai giovani di compensare l’inevitabile abbassamento di status che l’esperienza di lavoro temporaneo comporterebbe, disponendo così di uno stile di vita più elevato e di ulteriori risorse, sia in termini di tempi di attesa che di chances lavorative, ricavate proprio dal sostegno dei genitori. Questo modello si applica efficacemente anche al caso italiano, che, come è noto agli studiosi del settore, costituisce la punta estrema della forma famiglia-centrica dell’allungamento della giovinezza. In questa situazione di ambivalenza tra le difficoltà che si trovano nel rapporto con la sfera pubblica, ivi compreso il mondo del lavoro da un lato e le risorse che le reti familiari sono capaci di attivare dall’altro lato, una possibile spiegazione della rinnovata centralità della famiglia, nei casi italiano e spagnolo, può essere individuata proprio nell’efficacia sociale dimostrata dalle reti familiari. La sfera pubblica diviene così il bersaglio principale di 27 critiche e di atteggiamenti di sfiducia da parte dei giovani. Questa stessa dinamica di conflittualità-integrazione tra pubblico e privato viene declinata nel caso francese in modi diversi proprio a causa di una diversa funzione sociale svolta in Francia dal network familiare. Dalla ricerca emerge che l’allungamento della giovinezza si struttura in Francia secondo forme relazionali e pratiche sociali in parte diverse da quelle italiane e spagnole. La famiglia riveste un’importanza ed un’efficacia sociale soprattutto per gli studenti, mentre i disoccupati non le riconoscono una rilevanza particolare nella loro formazione. Il sentimento di appartenenza alla famiglia coinvolge in modo rilevante soltanto la metà dei disoccupati rispetto agli studenti. I disoccupati mostrano un’esposizione alla sfera pubblica maggiore degli studenti in quanto da un lato sono meno coinvolti nei legami familiari mentre, dall’altro lato, dichiarano orientamenti politici più critici e più radicali di quelli degli studenti. Si tratta di un elemento di importante distinzione del caso francese da quelli spagnolo e italiano: in particolare, nei giovani spagnoli la sfiducia e la critica verso le istituzioni pubbliche non si traduce in un atteggiamento radicale e tendenzialmente delegittimante, quanto in un orientamento di maggior conformismo e maggior apatia politica. La ricerca evidenzia infatti che i disoccupati sono per un verso meno propensi a forme di partecipazione politica non convenzionale, quelle maggiormente diffuse tra gli studenti, e per l’altro verso mostrano un atteggiamento di delega ai politici di professione che è nettamente superiore a quello degli studenti. Si può ipotizzare, a spiegazione di questa differenza, che sia proprio la diversa rilevanza della famiglia nello strutturare le relazioni con la sfera pubblica. Nella società spagnola, come abbiamo visto, la famiglia offre una sorta di rete di sicurezza contro i rischi di caduta di status e un filtro di mediazione nell’allocazione delle risorse. Dal punto di vista della cultura politica questa funzione costituisce un elemento di temperamento degli atteggiamenti più estremi e delegittimanti. Il caso italiano evidenzia, per un verso una continuità significativa con il caso spagnolo in ragione della condivisione del modello familiare sopra accennato. Tuttavia emergono elementi di distinzione e di specificità che ne fanno un fenomeno intermedio della comparazione. Se le differenze tra studenti e disoccupati risultano sfumate in merito agli orientamenti politici e alle posizio28 ni ideologiche, una differenziazione interna appare particolarmente importante: si tratta della necessità emersa dai dati di dividere il campione di studenti e disoccupati non tanto in relazione allo status, quanto piuttosto in relazione al livello di istruzione. I temi della delegittimazione e della critica alle istituzioni politiche emergono, infatti, in misura prevalente proprio in coloro – tra i disoccupati – che dispongono di un basso livello di istruzione. L’elevato livello di istruzione agisce come fattore di uniformazione, indipendentemente dallo status del soggetto, e come fattore di promozione di nuove forme di partecipazione politica, quando si siano verificate le condizioni per lo sviluppo. A differenza del caso spagnolo, in Italia non è la condizione di disoccupato in quanto tale a favorire lo sviluppo di atteggiamenti di apatia e di disincanto politico, ma la combinazione di basso titolo di studio e della condizione di disoccupazione. Nei casi in cui i disoccupati siano portatori di elevati titoli di studio, infatti, gli orientamenti di interesse per la politica e di informazione politica sviluppati in precedenza restano elevati anche durante l’esperienza della disoccupazione. Una riprova di ciò è che sono coloro che hanno un titolo di studio basso a non sapersi collocare lungo l’asse destra-sinistra, mentre è la variazione di livello di istruzione e non la condizione di disoccupato o studente a costituire la variabile più significativa nella determinazione ad autocollocarsi politicamente. In generale, si può dire che, nel rispetto delle differenze dei diversi casi, è il basso titolo di istruzione in associazione con la condizione di disoccupato a costituire un fattore potente di distacco dalla politica e di apatia politica. Una riprova di questa interazione può essere riscontrata anche in un aspetto particolare quale sono le concezioni della democrazia proprie degli studenti e dei disoccupati. Gli studenti appaiono meglio in grado di cogliere gli aspetti procedurali, di garanzia della libertà d’espressione e di partecipazione della democrazia, mentre i disoccupati evidenziano di più gli aspetti legati all’uguaglianza e alla realizzazione personale, e mostrano un numero superiore di concezioni utopistiche e negative rispetto agli studenti. Si può anche dire che gli studenti sono più capaci di concepire la democrazia a prescindere dal contesto concreto, cogliendo l’importanza degli elementi di fondo del fenomeno democratico (procedura di pacificazione dei conflitti, partecipazione ai processi decisionali da parte dei cittadini, libertà 29 di opinione e di modo di vita) che le vicende attuali tendono spesso a far dimenticare, mentre i disoccupati, specie i soggetti meno istruiti, appaiono incapaci di giudicare e definire la democrazia a prescindere dalla situazione politica concreta, trasportando il pessimismo per l’andamento della politica e dell’economia italiana nella loro valutazione di democrazia. Nei disoccupati meno istruiti il termine democrazia si carica di esigenze frustrate di benessere personale, di sicurezza lavorativa e sociale, che si manifestano sia in termini di enfasi sull’eguaglianza sociale e sulle pari opportunità, sia in termini di sfiducia nelle istituzioni democratiche. Non si può non leggere in questi dati l’impatto problematico della condizione di disoccupazione combinata con un’integrazione formativa deficitaria. 6. Italia, Francia e Spagna: la relazione fra identità generazionale ed identità politica La situazione italiana assume contorni peculiari soprattutto per la significativa uniformità degli atteggiamenti di studenti universitari e disoccupati della stessa generazione. Vi è da considerare, in chiave comparata, che il differenziale di opportunità occupazionali tra laureati e giovani con titoli di studio inferiori risulta in Italia piuttosto ridotto. La convergenza di possibilità lavorative a breve può quindi sfumare le barriere tra questi due segmenti di popolazione giovanile che, negli altri paesi, si vedono invece proiettati su orizzonti alquanto distanti. Come conseguenza, la dimensione generazionale dell’identità sembra prevalere su quella socio-occupazionale, per cui si è (ci si sente di essere) prima giovani e poi studenti o disoccupati. Sul piano delle identità, occorre anche sottolineare lo straordinario senso di appartenenza dei giovani italiani alla propria famiglia. Sugli effetti integrativi di questo legame primario valgono le considerazioni generali fatte per tutti e tre i paesi, con un’accentuazione ulteriore dell’ambigua sovrapposizione di processi di riproduzione culturale e di dipendenza economica nel rapporto intergenerazionale (anche nella fascia tra i 25 e i 29 anni, la maggioranza dei giovani italiani vive con i genitori). L’attaccamento alla famiglia è l’epifenomeno di una più generale preferenza per i contesti di interazione primaria (il volontariato, 30 l’associazionismo ecologista) che fa da contraltare a un drammatico distacco da tutte le istituzioni politiche o persino pubbliche in senso lato (come la televisione e i giornali). Non si deve assolutamente sottovalutare il potenziale deviante di questo distacco, visto che il 14% degli studenti e il 18% dei giovani disoccupati italiani del nostro campione si dice disposto a compiere, se del caso, “una dimostrazione violenta”. La crisi della rappresentanza politica tradizionale (e specialmente di partiti e sindacati) emerge in piena luce anche tra i giovani francesi. La politica – almeno così come è stata concepita fino ad oggi – rappresenta un campo di interesse secondario nella vita degli studenti e dei loro coetanei senza un lavoro. Sicché, più dei loro pari età italiani e spagnoli, i giovani francesi rifiutano di collocarsi nello spazio politico delimitato dai poli “classici” della destra e della sinistra. A caratterizzare la loro situazione vi è anche una presa di distanza più marcata dalla religione. Depoliticizzazione e secolarizzazione accompagnano, apparentemente, una volontà emancipativa individualista su base elettiva dei giovani francesi, che si esprime nella rilevanza data ai contesti amicali e alla connotazione libertaria dei valori etico-politici. Piuttosto netto, infine, risulta il cleavage della condizione occupazionale, a sua volta fortemente influenzato dalle origini sociali, che trova espressione in un radicalismo tendenzialmente maggiore e, allo stesso tempo, in un più forte senso di estraniamento dei disoccupati dalla vita politica nazionale ed internazionale. In Spagna, la svalutazione della politica in senso lato appare ancor più generalizzata: la maggioranza di studenti e giovani disoccupati del campione è convinta che “la politica è una cosa sporca” e, di conseguenza, prende le distanze da ogni sua manifestazione. Questa visione tendenzialmente denigratoria della res publica non alimenta, tuttavia, il radicalismo politico (il rifiuto dei comportamenti politici illegali è unanime) quanto la depoliticizzazione. Che nei disoccupati si traduce in mera apatia e, alla fin fine, in conformismo politico, mentre tra gli studenti lascia presagire tentativi di ridefinizione della propria influenza diretta per via associativa o attraverso i mass media (giudicati con più favore dai giovani spagnoli che dai coetanei italiani e francesi). In ogni caso, le posizioni più radicali si ritrovano non tra i disoccupati bensì tra gli studenti universitari. Comune a tutti e due i segmenti della popola31 zione giovanile è un orientamento di fondo particolarista e pragmatico, in cui poco spazio è lasciato a forme di identificazione e di partecipazione agli eventi della sfera pubblica che travalichino i confini della vita di relazione quotidiana. Questo particolarismo localista si attiva su piani molteplici: cognitivo (l’attenzione è focalizzata su problemi dei gruppi primari di appartenenza), affettivo (è data precedenza assoluta ai legami ascrittivi) e persino lavorativo (con una bassa disposizione alla mobilità geografica come soluzione alle difficoltà di trovare un’occupazione). 7. Sviluppo, progressi e prospettive della ricerca: la “mise en valeur” La ricostruzione di una breve storia della ricerca rappresenta un aspetto tradizionale di ogni presentazione. Il progetto di ricerca triennale “The Integration of Young People into Working Life and the Future of Democratic Culture in Southern Europe” è stato avviato per iniziativa del CIUSPO (Centro Interuniversitario di Sociologia Politica dell’Università di Firenze) nel 1996 e concluso nel 2000. Il progetto ha impegnato, insieme al team dell’Università di Firenze, ricercatori dell’Università di Parigi-Sorbonne, del CNRS-Cevipof, dell’Università Complutense di Madrid e dell’Università di Alicante. Nel 1997, 1998 e 1999 la Direzione Generale XXII della Commissione Europea ha cofinanziato il progetto (convenzioni 97-10-EET-0079-00, 98-10-EET-0020-00 e 1999-1499/ 001-001) nell’ambito del programma “Youth for Europe”. Nel biennio di sviluppo della ricerca sul campo, secondo il calendario originario, si sono raggiunti gli obiettivi intermedi previsti: si sono completate sei surveys distinte (due per ciascun paese coinvolto nel progetto, dedicate rispettivamente ai giovani universitari e ai loro coetanei disoccupati) che sono andate a costituire un patrimonio di dati empirici di notevoli dimensioni: 1946 interviste a giovani italiani, 1418 a giovani spagnoli e 909 a giovani francesi. Non si può fare a meno di segnalare che questa mole ragguardevole di dati – 4273 casi – è stata raccolta grazie all’impegno di un’équipe di ricercatori particolarmente affiatati e appassionati, con costi di gran lunga inferiori ai prezzi di mercato usualmente praticati in indagini di questo tipo e di questa dimensione. Le fasi di codifica, elaborazione, analisi, discussio32 ne dei dati e stesura dei rapporti nazionali si sono giovate di un eguale impegno, competenza ed economicità di costi, in una prospettiva interdisciplinare che ha coinvolto sociologi dell’educazione, sociologi della politica, dell’economia e dell’organizzazione, oltreché ad alcuni metodologi. La ricerca è stata condotta nei tempi e nei modi previsti, per cui il secondo anno di lavoro è stato dedicato (a parte un primissimo periodo in cui si è completata la raccolta dei dati di survey sui giovani disoccupati) all’elaborazione dei questionari in possesso delle tre équipe nazionali e all’interpretazione dei dati rilevati. Ciò detto, non si può non ricordare che il patrimonio di conoscenza fin qui raccolto è stato analizzato prevalentemente secondo un disegno di comparazione nation-based. A questa prima fase, secondo quanto già previsto nel progetto originario, per un pieno approfondimento dei risultati è seguito un terzo anno di lavoro che ha visto i tre team impegnati nella comparazione issue-based. Questa ultima fase, che ha richiesto uno sforzo notevole per l’avvio della costruzione di una banca-dati unitaria ha conferito alla ricerca un carattere inedito e di marcata originalità nel panorama degli studi sui giovani in Europa. Questo lavoro, condotto autonomamente ma per linee parallele concordate a fasi successive in una serie di seminari, di workshop ed in una videoconferenza, ha avuto tra i suoi risultati: alcuni saggi preparatori ed altri più finalizzati che anticipano alcuni risultati dell’indagine raccolti nel volume in due tomi Giovani e democrazia in Europa, curato da Gianfranco Bettin Lattes, pubblicato nel 1999 presso la casa editrice Cedam di Padova ed, ovviamente, in un primo Rapporto di ricerca che ha riunito i rapporti distinti sui tre casi nazionali analizzati. Questo primo Rapporto è stato inviato nel maggio 1999 all’allora Direzione generale XXII della Commissione Europea. Vale anche la pena segnalare che, nel corso del suo sviluppo, il progetto ha stimolato, nel 1997, in feconda interazione con altri programmi di ricerca promossi da altri sociologi europei, un importante convegno internazionale dedicato a “Valori politici e nuove generazioni nell’Europa contemporanea”. Numerosi paper dei membri dell’équipe di ricerca sono stati presentati e discussi a convegni nazionali ed internazionali, essendo la diffusione dei risultati parte integrante dell’impegno previsto dal progetto. 33 La mappa di diffusione dei risultati della ricerca tramite partecipazione a convegni include: nel 1997, il già citato, Seminario Internazionale di studi Valori politici e nuove generazioni nell’Europa contemporanea, in Firenze il 25-26 settembre 1997 con le relazioni di base di Gianfranco Bettin e di Giorgio Marsiglia e con gli interventi di Anne Muxel, di Marlaine Cacouault-Bitaud, di Felix Ortega, di Antonio Alaminos, di Ettore Recchi e di Marco Bontempi. Nel 1998 (11-12 giugno) un intervento di Bettin nell’annuale occasione dei Recontres “C.Alfieri”–Sciences Po presso l’Institut d’Etudes politiques de Paris, dedicato a Réligion et Politique en France et en Italie; una relazione di Recchi al XIV Congresso Mondiale di Sociologia di Montreal (Planning WorkLife Entry: Expectations of Class Mobility among University Students in Italy, 27 luglio-1 agosto); nel 1999 (17-18 giugno) una relazione introduttiva di Bettin e gli interventi di Marsiglia, di Alaminos, della Muxel, di Ortega, di Recchi, di Bontempi, di Enrico Caniglia e di Paola Tronu nell’ambito del workshop “Giovani, cultura politica e trasformazioni della democrazia”, coordinato da Bettin, in occasione del convegno nazionale della sezione di Sociologia politica dell’A.I.S, “Politica, Istituzioni e sviluppo”, tenutosi presso l’Università della Calabria ad Arcavacata di Rende; nello stesso anno (28 settembre-1 ottobre) la relazione di Bontempi al VI Congrès de l’Association Française de Science Politique a Rennes nel workshop su “La socializzazione politica delle nuove generazioni” coordinato dalla Muxel. Nel 2000 (9 febbraio) la relazione di Recchi e l’intervento della Tronu nell’ambito dell’incontro internazionale dei Dottorati di Sociologia politica afferenti all’Institut d’Etudes Politiques di Parigi, all’Université Catholique di Louvain-La-Neuve, all’Università Panteios di Atene, all’Universitat Autonoma di Barcellona ed alla Facoltà di Scienze Politiche di Firenze, tenutosi presso la Facoltà di Scienze Politiche “C. Alfieri” di Firenze, in sinergia col programma intensivo Socrates dedicato a Identité(S), citoyenneté(s) et dysfonctionnements de la democratie dans le pays de l’Union européenne; la relazione di Bettin al seminario di studi AIS -Sezione di Sociologia Politica su “Potere ed immagine della democrazia” tenutosi nella Facoltà di Sociologia dell’Università di Roma (19 febbraio); le relazioni di Bettin, della Muxel e di Ortega e un intervento di Bontempi al convegno internazionale “I giovani e 34 la nuova cultura socio-politica in Europa. Tendenze e prospettive per il nuovo millennio” organizzato in Roma, dall’Istituto “L. Sturzo” in sinergia con il Ciuspo (17-19 maggio); l’intervento di Bettin al convegno internazionale “Europe: Toward What Kind of Integration?” organizzato dalla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Genova (5-6 luglio). È opportuno poi ricordare che nel corso dei due anni accademici 1997-1999, i materiali preparatori della ricerca ed i suoi risultati sono stati presentati e discussi nei seminari tenuti da Bontempi e da Recchi presso la cattedra di Sociologia della Facoltà di Scienze Politiche di Firenze e che il coordinatore della ricerca ha introdotto gli stessi dati, a fini didattico-formativi, nell’ambito del modulo Jean Monnet “Changement des valeurs politique et intégration européenne”. In questo modo la ricerca si è trasformata in uno strumento di stimolo dell’“immaginazione sociologica” delle giovani generazioni alimentando una forma significativa di consapevolezza critica e di acquisizione di conoscenze che contribuiscono alla costruzione di un’identità civica idonea a fronteggiare le sfide che i giovani hanno di fronte nell’Europa di oggi e dell’immediato domani. A costo di risultare immodesti ci sembra di potere affermare che questo Rapporto, con la sua natura prevalentemente comparativa, assolve ad una triplice finalità: alimenta il dibattito sociologico e politologico sulle trasformazioni della democrazia in Europa; fornisce utili elementi per un ripensamento delle categorie interpretative necessarie per lo studio del mutamento sociale nell’era della globalizzazione; ed infine promuove una riflessione scientificamente fondata sugli scenari di sviluppo e sulle politiche pubbliche in grado di governare i fenomeni indagati su scala europea. Su questa prospettiva che potrebbe impegnare nei prossimi anni il Ciuspo e gli altri istituti di ricerca è però prematuro avanzare sia previsioni sia progetti meglio definiti. È verosimile ed ovviamente augurabile che la diffusione del Rapporto, che qui viene presentato, alimenti ipotesi di lavoro ed incoraggi la configurazione di nuove ed opportune sinergie all’interno del mondo della ricerca europea e, naturalmente, anche con il mondo della politica. 35 CAPITOLO TERZO L’INTÉGRATION SOCIALE ET POLITIQUE (1960-2000) DES ÉTUDIANTS EN FRANCE 1. Un contexte en évolution En France, la sociologie de l’éducation a évolué, depuis les années soixante et soixante-dix, en relation avec les transformations du système d’enseignement et les changements qui marquent le débat social sur l’Ecole et l’Université. Les années soixante étaient dominées par la question de la démocratisation et de l’égalité des chances dans un système d’enseignement sélectif, socialement et scolairement. Au cours des décennies quatre-vingt et quatre-vingtdix, la fréquentation du second degré concerne tous les enfants1 . Par ailleurs, en 1996, 40% des jeunes âgés de 19 à 21 ans poursuivent des études supérieures (MEN-DEP 1997). La recherche en éducation se caractérise alors par des thématiques plus centrées sur les formes de différenciation interne des cursus scolaires et universitaires et sur les stratégies mises en oeuvre par les “acteurs sociaux” dans ce contexte-là (Cacouault et Oeuvrard 1995). Ainsi, dans les travaux récents qui portent sur les populations étudiantes, l’origine Questo capitolo è stato scritto da Marlaine Cacouault-Bitaud. Una prima versione è in G. Bettin (1999b), t. II, 701-725. 1 Le premier cycle du second degré (classes de 6ème, 5ème, 4ème, 3ème) a vu ses effectifs croître de 42,2% entre 1960-61 et 1985-86. Le second cycle général et technologique (classe de seconde, première, terminale) progresse constamment au cours de la période considérée; en 1985/86, il multiplie par 2,9 ses effectifs de 1960/61 qui en 1990/91 sont multipliés par 3,7. Entre 1985 et 1997 les taux d’accès de la 3ème vers la seconde sont passés de 63,9% à 66,5%; 93,2% des élèves entrés en seconde passent en première et 97,2% des élèves de première se retrouvent en terminale. Le taux d’élèves entrés en sixième et parvenant finalement en terminale est passé de 41,6% en 1980 à 56% en 1997. Cf. Repères et références statistiques, Ministère de l’Education nationale, 1998. 109 sociale, même s’il reste entendu qu’elle oriente les choix, n’est plus considérée comme “le” facteur qui instaure un clivage entre deux types d’étudiants, d’origine bourgeoise ou populaire, héritiers ou boursiers (Lapeyronnie et Marie 1992; Dubet 1994). C’est le rapport subjectif aux études des différents “publics” étudiants, très hétérogènes socialement et scolairement, qui constitue le point de départ de l’analyse. Les méthodes de recherche évoluent en même temps que les thématiques et les approches de la relation entre l’Ecole – ou l’Université – et les classes sociales, ou entre le système d’enseignement et ses “usagers”. Notre objectif est de resituer des problématiques dans le contexte où elles sont apparues et de montrer quels sont les enjeux théoriques et méthodologiques qui y sont attachés. Le changement d’optique identifiable dans le domaine qui nous occupe ici reflète les oppositions et les débats qui structurent non seulement le champ de la sociologie de l’éducation mais celui de la discipline dans son ensemble. Après avoir rappelé dans une première partie les présupposés et les conclusions principales d’études réalisées dans les années soixante et soixante-dix, nous consacrerons la deuxième partie de cet article à une synthèse partielle de résultats d’enquêtes et d’analyses qui portent sur l’intégration sociale et politique des étudiants à l’époque actuelle. 2. Les années soixante et soixante-dix: l’exclusion de l’Université comme source d’intégration et de mobilisation En 1960, les jeunes qui entrent en faculté représentent une minorité dans leur classe d’âge: on trouve 10% de bacheliers dans une génération, et 200 000 étudiants dans l’enseignement supérieur; un enfant de cadre a quatre-vingt fois plus de chances d’entrer à l’Université qu’un fils de salarié agricole, et quarante fois plus qu’un enfant d’ouvrier. Il s’agit alors pour les sociologues de l’éducation, de mettre à jour les mécanismes sociaux et scolaires qui provoquent l’exclusion d’une majorité de jeunes de l’enseignement secondaire et supérieur. L’attention est focalisée à la fois sur le capital culturel “hérité” de ceux qui fréquentent les facultés, et sur les contenus et les méthodes d’enseignement, l’hypothèse étant qu’une partie des étudiants sont préparés en raison de leur 110 origine sociale à recevoir cet enseignement, pendant qu’une autre partie n’a pour toute “culture” que la culture scolaire, ce qui constitue un handicap. L’enseignement supérieur fait l’objet de critiques appuyées pour être davantage fondé sur le prestige et le charisme du professeur, que sur une explicitation des objectifs du cours et des attentes envers les enseignés. Ces analyses deviennent, autour de 1968, autant de thèmes “mobilisateurs”, la mobilisation intellectuelle devant conduire à l’action, réformatrice ou révolutionnaire, pour changer les structures et les pratiques en vigueur dans l’institution scolaire et universitaire. Fait paradoxal, en apparence, la mobilisation (et la “politisation”) des étudiants qui s’exprime à cette époque, prend appui sur un phénomène d’exclusion, exclusion du plus grand nombre des strates supérieures du système d’éducation. Cette projection du dedans vers le dehors, si l’on peut dire, se traduit par des préoccupations et des initiatives militantes dépassant largement la sphère de l’Université pour s’étendre à “la société de classes” et aux phénomènes d’exploitation et de domination à l’échelle internationale. Autrement dit, une minorité d’ “inclus” se transforme en porteparole d’une majorité d’”exclus”... Les propos tenus dans La préface au numéro de juin 1968 de la revue La Pensée, dans laquelle paraît un article du sociologue Michel Verret sur Les Héritiers, sont révélateurs à cet égard: “On sait que la crise sociale et politique fut ouverte, au Quartier Latin, par la répression policière du mouvement étudiant... Il est apparu alors qu’en dépit de ses promesses et de sa suffisance, le pouvoir gaulliste devait compter avec l’opposition résolue qui s’exprimait dans les facultés comme dans les usines... Il apparaîtra, avec le recul de l’histoire, qu’en ce même mois de mai, à Paris, l’ouverture des négociations entre les représentants des Etats Unis et du Vietnam en lutte, marque aussi un autre point gagné pour la cause du droit, de la liberté et du progrès...”2 . Cette préface (dont nous n’avons cité qu’un court extrait) mériterait une analyse approfondie; nous l’avons retenue ici pour 2 La Pensee, N°139, Juin 1968, P. 3 et 4. 111 sa valeur illustrative. Quant à l’article de Michel Verret, il met l’accent, précisément, sur le fait que Les Héritiers nous parle en tout premier lieu des “absents”, que cet ouvrage représente “Mieux qu’une pensée pour les absents” (ceux qui ne sont même pas recalés aux examens puisqu’ils ne sont pas à l’Université), “une pensée sur les absents. Une vraie pensée, insistante, indiscrète, conceptuelle et même chiffrée”. Pour Bourdieu et Passeron, les présents à l’Université apparaissent, gobalement, comme un groupe de privilégiés: 65% d’entre eux en 1963/64 ont des pères appartenant aux catégories socioprofessionnelles moyennes ou supérieures, 8,7% seulement sont des enfants d’employés et 8,3% sont nés dans une famille d’ouvriers ou de salariés agricoles3. Ces étudiants cherchent à se persuader qu’ils vivent une période de leur existence vouée au travail intellectuel, à la culture désintéressée et aux débats politiques. Le temps des études est autonomisé par rapport à l’avenir professionnel auquel il est censé préparer. La population étudiante partage des activités, des intérêts et des difficultés. En effet, son travail est le plus souvent solitaire, elle souffre d’un manque d’intégration dans un milieu où les formes de sociabilité traditionnelle tendent à disparaître. On serait en droit de parler, pour toutes ces raisons, d’une condition commune. Toutefois, outre le fait que les représentations qui s’imposent à tous coïncident avec les valeurs des milieux favorisés, l’expérience réelle des étudiants varie en fonction de l’origine et du sexe qui déterminent la filière d’études et l’avenir professionnel4. Les garçons issus de familles modestes et les filles sont d’autant plus attachés à la fiction de la gratuité du travail intellectuel que leur avenir est plus vague. De surcroît, une profession comme celle d’enseignant, à laquelle ils peuvent prétendre, exige de renoncer à la pure “vocation” intellectuelle. 3 En 1963/64, 29,8% des pères d’étudiants sont cadres supérieurs ou membres des professions libérales, 17,9% sont cadres moyens, 15,5% patrons de l’industrie et du commerce, 5,5% agriculteurs, 0,9% personnels de service (13,3% autres catégories et inactifs). Cf. Marlaine Cacouault et Françoise Oeuvrard, Sociologie de l’Education, Paris, La Découverte, Coll. Repères, 1995. 4 Les filles de cadres supérieurs qui accèdent à l’Université ont 74,3% de chances de se retrouver dans une faculté de lettres ou de sciences “qui préparent à l’enseignement” pour 59,3% des fils. Cf. Les Héritiers, op. cit., p.17. 112 En définitive, étant donné le faible pouvoir intégrateur de l’Université, les liens sociaux qui préexistent à l’entrée dans le supérieur et notamment ceux qui tiennent à l’appartenance aux classes favorisées, vont jouer un rôle important et creuser le fossé entre les étudiants bourgeois et les autres. La moitié des enfants de cadres supérieurs et des membres des professions libérales habitent chez leurs parents pour à peine 30% des fils et filles des milieux populaires et des franges inférieures des classes moyennes; 1,5% des premiers et 21% des seconds financent leurs études par un travail personnel. Les associations et les partis offrent également une possibilité d’intégration. Presque 70% des étudiants en philosophie âgés de moins de 21 ans interrogés au début des années soixante, se réclament de la gauche et de l’extrême-gauche, il en est de même pour les 21/25 ans; 60% des étudiants en sociologie dans cette tranche d’âge fournissent une réponse similaire. Le taux d’adhésion à un syndicat est élevé, surtout chez les étudiants dont l’origine sociale est modeste ou moyenne. Toutefois, la sympathie pour les partis de gauche et pour des groupuscules d’“avant-garde” ou “extrêmistes”, est interprétée par Bourdieu et Passeron comme une forme de rejet purement symbolique des valeurs et des hiérarchies traditionnelles. Ils en veulent pour preuve le niveau d’“engagement” des étudiants parisiens chez lesquels la proportion d’enfants de la bourgeoisie est particulièrement élevée (79% des étudiants en lettres se disent à gauche et 20% seulement se disent hostiles à toute participation syndicale). Pour reprendre les propos de Michel Verret, l’“anomie” est “constitutive” du monde étudiant qui “se trouve voué à une quête symbolique de l’intégration dont l’intensité et la multiformité n’ont sans doute d’équivalent que dans le monde des églises, structurellement voué, lui aussi, par la même différenciation originelle des classes, à la même recherche de la communauté symbolique et au même symbolisme de la communauté”. La culture fournit l’occasion de communier dans le privilège (même s’il est plus symbolique que réel pour une partie des étudiants) et la politique permet de communier dans la dénonciation des privilèges. Les inclus, divisés, trouvent le moyen de s’unir en épousant la cause des exclus, constitués, dans l’imaginaire, en groupe homogène. Comme le souligne François Dubet dans un article déjà cité, l’impression dominante à l’issue d’une lecture, ou d’une relecture 113 des Héritiers, c’est que la figure de l’étudiant parisien en lettres érigée en type idéal et en modèle tend dès cette époque à n’être plus qu’une survivance. Les études supérieures se sont-elles démocratisées à la fin des années soixante-dix, quand plusieurs sociologues, dont Christian Baudelot, s’intéressent à l’Université qui serait devenue une fabrique de chômeurs? (Baudelot et al. 1981). L’origine sociale est-elle encore la variable discriminante par excellence, qui déterminerait des relations contrastées à la famille et des bénéfices inégaux sur le marché de l’emploi? Dans l’ouvrage auquel on vient de faire allusion (Les étudiants, l’emploi, la crise), les auteurs s’inscrivent en faux contre l’idée d’une dévalorisation des études et s’attachent à démontrer qu’il existe bien une condition étudiante, privilégiée s’il en est. Il ne s’agit pas de la définir par une approche exclusivement interne, mais en la comparant à la situation des jeunes qui ne prolongent pas leurs études. En effet, moins d’un jeune français sur cinq accède aux études supérieures en 1975/76 alors que le nombre d’étudiants a fortement augmenté entre 1961 et 1974. Cette croissance a profité surtout aux enfants de cadres. Ils représentent en 1973/74, 32,6% des étudiants; pour plus de 60% des inscrits à l’Université, le père appartient aux couches sociales moyennes ou supérieures. La part des fils et filles d’ouvriers est néanmoins passée de 8,3% à 13,1%. Mais “l’immense majorité des enfants d’ouvriers” restent exclus de l’Université en 1976 (95,7%) alors qu’à cette date plus de 70% des enfants de cadres supérieurs fréquentent les amphithéâtres. Par ailleurs, la proportion de filles a doublé entre 1930 et 1977 dans la population étudiante, passant de 25,8% à 51,7%. Loin d’être une masse inorganisée, cette population est répartie entre des institutions et des filières qui occupent une position plus élevée ou plus basse dans l’échelle du prestige, de même que les professions ou les emplois auxquels elles conduisent. Toutefois, les disparités qui marquent le groupe des étudiants ne leur ôtent pas un “statut” commun qui les distingue des non-étudiants. Ils profitent de leur jeunesse, si l’on entend par là qu’ils jouissent de la liberté et du temps libre dont le jeune ouvrier se trouve privé. Le travail rémunéré à temps complet ne concerne que 4,5% d’entre eux, 30,8% travaillent à temps partiel irrégulièrement et le plus souvent pendant les vacances. L’étudiant est protégé de la peur de l’avenir et de la précarité économique en raison de son intégration 114 dans la famille d’origine et des diplômes qui vont lui assurer un statut de cadre. La plupart des hommes licenciés seront devenus cadres à 35 ans; les femmes rentabiliseront un peu moins bien leurs diplômes et de façon prioritaire dans l’enseignement (Cacouault 1987). Il existe néanmoins des différences secondaires entre groupes d’étudiants qui tiennent à l’origine sociale et à la filière d’études, les deux facteurs étant étroitement corellés. Des divergences de comportement politique sont identifiables, les étudiants des facultés de lettres et de sciences étant plus portés à la contestation que ceux des facultés de médecine et de droit. Les traits considérés comme des caractéristiques de l’étudiant, à savoir l’intégration familiale et la confiance dans l’avenir professionnel sont plus accentués chez les futurs médecins, les juristes, les élèves des classes préparatoires aux Grandes Ecoles. A l’inverse, les littéraires d’origine populaire prennent davantage leurs distances par rapport à la famille et entrevoient un avenir plus flou. Ils sont plus souvent en rapport avec l’administration et les services publics que leurs homologues des facultés dominantes et réalisent, par là même, une socialisation professionnelle anticipée dans un secteur traditionnellement orienté à gauche. En résumé, il n’y a pas de “crise” de l’enseignement supérieur, ce dernier remplit ses fonctions traditionnelles de sélection et de reproduction sociale. De nombreuses enquêtes ont été menées par des enseignants-chercheurs dans les universités de province au fil des années soixante-dix pour connaître le devenir professionnel des étudiants (Cacouault et Oeuvrard 1995). Certes, pour ceux et celles qui n’ont pas subi une sélection à l’entrée et à la sortie de l’enseignement supérieur, le premier emploi est souvent de niveau inférieur à la qualification. Néanmoins, posséder des diplômes permet d’évoluer par le biais de la promotion interne. Dans les travaux qui mesurent l’évolution de l’accès aux différents niveaux d’enseignement et décrivent les inégalités concernant les diplômes et leur usage en termes de position professionnelle, les méthodes quantitatives sont privilégiées. La mise en place de systèmes d’informations statistiques par les administrations, dont le ministère de l’Education nationale, permet aux chercheurs de disposer de bases de données nationales. En outre, le Centre d’Etudes et de Recherches sur les Qualifications (CEREQ) a été créé en 1970. Dans la mesure où l’accroissement des effectifs d’élèves et 115 d’étudiants, la diversification des filières, sont des phénomènes en constante évolution depuis une trentaine d’années, les instituts et les services officiels produisent des données qui, si elles ne font pas l’objet d’analyses secondaires, servent de “cadrage” aux recherches qualitatives. En effet, des travaux micro-sociologiques se développent à partir des années quatre-vingt. Ils visent à appréhender des “logiques d’acteurs”, c’est à dire la manière dont les individus réagissent dans un contexte, dans une organisation, au sein d’une institution contraignante qui leur laisse, néanmoins, une marge de liberté. En conséquence, “l’attention (est) portée non plus seulement à des croisements de variables... mais à des trajectoires, à des histoires, même réduites à des cheminements partiels... Se pose alors le problème du statut de l’acteur par rapport aux structures où il est inséré.” (Berthelot 1983). Nous allons voir maintenant comment des études ainsi orientées rendent compte de l’“expérience” étudiante dans une conjoncture où la totalité des titulaires d’un bac général et la majorité des lycéens qui possèdent un bac technologique entrent à l’Université. 3. Différenciation des filières et construction des identités sociales et politiques Les effectifs du deuxième cycle de l’enseignement secondaire ont presque quadruplé entre 1960/61 et 1994/95. La proportion d’une classe d’âge qui obtient le baccalauréat général s’élève à 58,9% en 1994 (MEN-DEP 1995). Toutefois, les jeunes qui possèdent un bac scientifique “C” représentent seulement un quart des lauréats5 . En outre, la dualité qui caractérise le système français 5 Jusqu’en 1994, les bacs généraux se répartissent entre série A(lettres), B (économique et sociale), C (maths et sciences physiques) D (maths et sciences de la nature). Les “bons” élèves sont orientés en C même s’ils ont d’excellents résultats dans les disciplines littéraires et la section lettres tend à devenir une orientation par l’échec et féminine. Les bacheliers professionnels représentent 13% des lauréats, les autres bacheliers proviennent d’une filière technologique. En 1993, 45,3% des élèves ayant obtenu un bac C sont enfants de “cadres et professions intellectuelles supérieures”, 18,6% de membres des professions intermédiaire et 10% des enfants d’ouvriers. Cf. Cacouault et Oeuvrard, (1995, 33). 116 tend à s’accentuer, le nombre des étudiants inscrits dans les classes préparatoires aux Grandes Ecoles ayant pratiquement doublé entre 1980/81 et 1995/966 . Les disparités selon le sexe et l’origine sociale restent marquées: le taux de féminisation s’élève à 75% en lettres, à 35% à peine en sciences; les étudiants dont le père exerce une profession supérieure ou intermédiaire forment 60% des effectifs, les enfants d’employés et d’ouvriers 25% dans les universités publiques. Enfin la proportion d’enfants de cadres et professions libérales atteint 54% dans la filière Santé (médecine, pharmacie, odontologie) pendant que les fils et filles d’ouvriers ne représentent que 6,7% des effectifs dans cette spécialité. A l’inverse, ils constituent 26% des élèves des Sections de Techniciens Supérieurs où les enfants de cadres forment seulement 13,9% des inscrits (DEP 1997)7 . Pour Olivier Galland et Marco Oberti (1996), les facteurs “déterminants” “pèsent d’un poids encore lourd”, “en amont de l’expérience étudiante proprement dite, au moment du choix de la filière et du type d’établissement”. Pourtant, les recherches menées dans les années quatre-vingtdix minorisent l’importance de l’origine sociale et confèrent à d’autres variables, articulées, la capacité de modeler le rapport aux études et d’orienter les stratégies qui visent à en tirer profit. On ne naît pas étudiant au sortir des études secondaires, on le devient en fréquentant l’Université. Et on n’abandonne pas pour autant son passé, scolaire notamment. Aussi, des “jeunes” issus du même milieu social ont-ils une expérience différente des études étant donné, d’une part, que l’organisation du travail varie selon les universités et les cursus, et que, d’autre part, ils arrivent dans le supérieur avec un rapport au savoir, un bagage culturel et des aspirations disparates. L’idée (et le diagnostic) selon lequel l’Université, dans son ensemble, serait en proie à l’anomie et susciterait une déception générale et des conduites “négatives” comme la passivité, le conformisme, l’utilitarisme (Marie et Lapeyronnie 1992) n’est pas Les élèves des CPGE publiques étaient 33650 en 1980, ils sont 76030 en 1995/96 (et 78343 en 1996/97). Cf Repères et références statistiques 1997. 7 Les Sections de Techniciens Supérieurs (STS) offrent deux ans d’études après le bac. et préparent au BTS (brevet de tech. sup.); on y entre sur dossier. Les effectifs ont quadruplé depuis 15 ans, passant de 67315 en 1980 à 230346 en 1996/97. 6 117 universellement partagée par les sociologues. O. Galland, qui conteste cette vision unilatérale des choses, montre, enquêtes à l’appui, que le statut d’étudiant constitue une composante de l’identité renforcée par l’appartenance disciplinaire (à laquelle sont liées des valeurs, des types d’engagement, des habitudes dans le domaine de la sociabilité... ). Autrement dit, les difficultés d’adaptation au travail et à la vie universitaire, plus opaques, moins encadrés, moins contrôlés que le travail et la vie lycéenne, et la crainte de ne pas trouver d’emploi, n’enlèvent pas tout charme à la condition étudiante. Le choix des études est revendiqué comme une décision personnelle, inspirée par l’intérêt intrinsèque des matières étudiées, surtout dans les filières générales (Oberti 1995). Doit-on interpréter cette attitude en termes de fuite ou de compensation par rapport aux difficultés d’insertion professionnelle auxquelles on risque de se heurter plus tard? Dans cette optique, il vaudrait mieux profiter du présent qui assure une autonomie et du temps libre (relativement, étant donné le volume du travail universitaire et les occupations à but lucratif). Même si cet élément est à prendre en compte, on observe que le mécontentement porte avant tout sur le manque d’informations délivrées par l’administration universitaire, surtout à Paris et dans la région parisienne, sur l’état des locaux et les effectifs (dans les UFR de lettres et sciences humaines en particulier) et non sur le contenu des cours. Fait intéressant, les filles sont plus critiques que les garçons par rapport aux conditions dans lequelles se déroulent les études. L’auteur cité voit dans cette inquiétude une preuvre de sur-investissement: les femmes savent que le diplôme protège de l’inactivité et du temps partiel, qu’il garantit une indépendance grâce à l’exercice d’une profession (Cacouault et Fournier 1998). Dans le but de complexifier l’analyse et d’adopter un point de vue dynamique sur les “carrières” scolaires ou universitaires, François Dubet (1994) postule que le rapport aux études est le produit et le résultat d’une combinaison de plusieurs dimensions de l’expérience étudiante (le projet, l’intégration et la vocation). Les modalités plurielles de cette combinaison distinguent des individus et des sous-groupes et expliquent, en dernière instance, les choix culturels et politiques. En effet, la prolongation quasi automatique et généralisée des études, entraîne une diversification grandissante des parcours scolaires et universitaires. Les “vrais” ly118 céens (Dubet 1991) et les “vrais” étudiants qui ont satisfait aux critères de sélection scolaire, prennent la place des héritiers (mais il y a des boursiers parmi eux), sans leur correspondre totalement; les autres, les “nouveaux” (lycéens ou étudiants), fréquentent des établissements situés à la périphérie des villes (donnée significative au plan réel et symbolique). Ces derniers, bien que promus, ont fait ou font encore l’expérience de l’échec, et redoutent une “chute”, un déclassement qui les mettrait en difficulté aussi bien vis à vis de leur famille que d’eux-mêmes. Le projet, tel qu’il est entendu ici, n’a pas nécessairement une connotation positive; il s’agit d’une manière de se représenter l’avenir et de se représenter dans l’avenir qui peut se manifester par un “choix négatif” et résigné de la filière. Le projet est plus “professionnel” ou plus “scolaire” selon que les études débouchent directement ou non sur une profession. Certains étudiants n’ont pas de projet et se perçoivent en situation d’attente. L’intégration correspond “au niveau d’implication dans l’organisation où se déroulent les études”. Les littéraires sont peu intégrés car leurs loisirs se déroulent plutôt à l’extérieur du campus (Dubet et al. 1993). La sociabilité est plus forte dans les filières sélectives à Bordeaux comme à Rennes. La notion de vocation, quant à elle, rend compte de l’intérêt personnel à l’égard du cursus choisi: 50% des enquêtés pensent avoir pris une décision sur cette base-là. Chacune de ces dimensions est plus ou moins importante, plus ou moins dominante pour des sous-groupes d’étudiants réunis par une spécialité et une institution. Les étudiants en médecine revendiquent les trois dimensions sur un mode affirmé, ceux des Instituts Universitaires de Technologie8 privilégient la sécurité de l’emploi par rapport à l’investissement personnel, mais ils expriment un sentiment d’intégration très fort. Les nombreux étudiants qui cherchent à obtenir une licence pour passer des concours de la fonction publique ont un projet précis, mais ils se sentent peu intégrés et sans réelle vocation... En résumé, les caractéristiques familiales, le logement, les jobs d’appoint, tout ce qui est extérieur à la vie universitaire, a Les IUT, rattachés aux universités, ont été créés en 1965. Ils préparent au DUT (Diplôme Universitaire de Technologie). Une sélection existe à l’entrée. Les effectifs ont doublé (53667 en 1980, 108398 en 1996/97). Mais les étudiants des disciplines générales et de santé des universités sont presque 1500 000 à cette date. 8 119 un rôle d’autant plus grand que le cadre institutionnel est moins contraignant et moins rassurant. Toutefois, dans les années quatre-vingt-dix ce n’est plus le fait de travailler ou non qui sépare des groupes d’étudiants et ceux qui n’ont pas travaillé pendant une année sont minoritaires (14%, selon les résultats d’ une enquête d’O. Galland et collaborateurs dans trois universités). C’est le caractère occasionnel ou régulier du travail rémunéré qui apparaît comme discriminant: les travailleurs constants représentent 20% des étudiants en premier cycle et la moitié en second cycle. Le changement par rapport aux années soixante et soixante-dix se manifeste à travers la diffusion d’un comportement qui touche toutes les classes sociales. Néanmoins, les sociologues qui se sont penchés sur cette question reconnaissent que le sens du travail rémunéré diffère selon le milieu d’origine. Nécessité dans les familles modestes, il équivaut dans les milieux favorisés à une expérience qualifiante. Olivier Galland, malgré les réserves dont on a fait état plus haut, s’accorde à dire que “la filière fréquentée... paraît jouer un rôle plus important (que l’origine sociale) dans la détermination des aspirations scolaires et professionnelles... même si les deux variables ne sont pas totalement indépendantes” (Galland 1995). Autrement dit, des étudiants dont l’origine sociale est éloignée, auraient un rapport aux études comparable à partir du moment où ils suivraient le même cursus; ce rapport aux études conditionnerait à son tour la relation à la vie sociale et politique. Ainsi, l’auteur cité montre-t-il, dans un chapitre consacré à ce thème, que l’UFR de rattachement a une influence déterminante sur les choix politiques, en particulier lorsqu’il s’agit de se situer sur l’échelle “gauche/droite” (les littéraires se situent à gauche, 46% contre 21,5% à droite, les scientiques également mais chez eux la proportion des indifférents est importante; les médecins sont à droite, 44% contre 29%). Cette recherche menée avec M. Clémençon, P. Le Galès et M. Oberti sur des étudiants provinciaux et nanterrois, met en évidence le fait que l’intérêt pour la politique et l’engagement dans une association ou un parti, “varie considérablement... au-delà de l’origine sociale” en fonction de l’UFR et des contenus d’enseignement qu’elle propose. Les étudiants en droit et sciences économiques sont les plus motivés, les littéraires viennent en seconde position, les scientifiques, les jeunes inscrits dans un IUT ou dans 120 la filière “sports”9 seraient les moins intéressés par les questions politiques. L’intérêt, cependant, est plus ou moins accusé selon le milieu d’origine: les enfants dont le père (et parfois la mère) est cadre ou membre d’une profession intermédiaire, sont sur-représentés dans le groupe des étudiants qui sont les moins indifférents à la politique. Dans le même ordre d’idée, le choix d’une cause à défendre ou d’une organisation, connaît des variations assez nettes selon les études suivies; il en est de même pour la position déclarée sur l’axe droite/gauche, l’UFR de droit et sciences économiques étant davantage marquée à droite. Pierre Merle et Christian Le Bart (1997) quant à eux, utilisent le concept d’intégration pour appréhender les formes de la sociabilité et de l’engagement dans le monde étudiant. Ils s’attachent à identifier des pratiques, expression concrète de l’intégration ou de la non intégration. Comme précédemment, la variable de la filière a été prise en compte, et elle apparaît là encore comme plus déterminante que l’origine sociale lorsqu’il s’agit du degré de satisfaction par rapport aux études et de l’engagement social et politique. Les étudiants de l’Institut d’Etudes Politiques sont plus souvent engagés dans des associations sur leur lieu de travail que leurs homologues de la filière AES (filière administrative, économique et sociale des universités), les premiers sont plus impliqués que les seconds dans les associations politiques ou corporatistes. Les chercheurs expliquent ces différences par le caractère intégrateur de la filière IEP en raison du mode d’organisation des études, du contenu, de la confiance des étudiants dans leurs chances de promotion sociale. Toutefois, le non engagement dans l’université de rattachement ne signifie pas l’absence de participation à l’action collective. En effet, celles et ceux qui sont le moins intégrés dans la vie universitaire maintiennent ou initient un engagement “dans une commune extérieure (de 58,3 à 71,9%!)”. Ce comportement est aussi un effet de la délocalisation des premiers cycles universitaires dans des villes de seconde importance (Charlot 1994). Néanmoins, ce facteur ne joue pas isolément, il s’articule avec le rapport aux études, plus ou moins “heureux”. En effet, les étudiants Sciences et techniques des activités physiques et sportives dans les universités. 9 121 en droit de Rennes, bien qu’ils aient commencé leurs études à SaintBrieuc, s’engagent principalement à la faculté, ce qui exprime une “centration étudiante” plus forte que celle de leurs camarades d’AES. Ces derniers, pourtant, s’impliquent plus sérieusement dans les associations à mesure qu’ils progressent dans le cursus; ils sont plus impliqués que ceux de l’IEP dans les associations syndicales et humanitaires. Par ailleurs, la non-identification à des organisations syndicales de gauche, ne veut pas dire qu’on se reconnaît dans des organisations de droite. La majorité des réponses exprime l’absence d’opinion précise ou la distance à ce type d’organisation. Les auteurs de l’enquête précisent que ces réponses ont été obtenues alors qu’une protestation collective venait d’être formulée au printemps 1994. Ce mouvement était largement indépendant des syndicats, phénomène identifiable dans d’autres secteurs de la vie sociale en France depuis une vingtaine d’années. Quand les enquêtés assignent un but à l’action syndicale, ils souhaitent qu’elle vise une amélioration des conditions de travail, des aménagements dans la vie quotidienne. Les principes qui guident la sélection à l’Université, son degré d’intensité, semblent peu remis en cause. Jean-Paul Molinari (1992) a observé que le déclin du syndicalisme étudiant va de pair avec un regain de vigueur de la vie associative et corporative. Les listes constituées par les associations recueillent plus de voix que les listes syndicales “spécialement en droit et en santé” aux élections du Centre Régional des Oeuvres Universitaires et Scolaires (CROUS). L’insatisfaction par rapport aux études serait plutôt démobilisatrice, amenant les jeunes concernés à percevoir les problèmes comme purement individuels de même que les solutions à apporter. Au contraire, les moins insatisfaits, mieux intégrés, seraient davantage portés à l’action collective et revendicative pour défendre les avantages présents et futurs des études sélectives ou professionnalisées. Mais, d’une façon générale, tous hésitent à “sacrifier” des heures de travail pour faire aboutir des revendications qui ont peu de chances d’être satisfaites lorsqu’elles sont larges. Les étudiants, par ailleurs, tentent de se regrouper par affinités afin d’échapper à l’anonymat et de lutter contre l’individualisme propre à la vie universitaire. Dans les universités périphériques en particulier, ils fondent des associations pourvues d’un local dont le but n’est pas très défini mais qui procure au moins un 122 lieu de rencontre et d’échange. La volonté d’indépendance, ici, va de pair avec le rejet de la politique qui, bien qu’elle suscite un intérêt, se voit mise à l’écart par crainte des divisions qu’elle risque de créer. Dans la mesure où le but est de lutter contre la “désagrégation” du milieu étudiant, les prises de position radicales, les mouvements collectifs qui cherchent à imposer une conduite (la grève par exemple) sont ressentis comme une menace. Ils provoqueraient la dissolution d’une communauté fragile qui essaie de tisser des liens et d’apporter une aide en informant sur les méthodes de travail et sur les débouchés professionnels (Molinari 1992). Les relations avec la famille sont présentées comme exemptes de tensions, surtout dans les classes moyennes. La prise de distance par rapport aux opinions des parents est plus nette dans les milieux populaires (Molinari 1993). La proportion d’étudiants qui résident chez leurs parents varie en fonction de l’implantation de l’université et de l’âge: elle est particulièrement forte pour les étudiants parisiens et à Rennes 41% des étudiants de première année conservent ce type de résidence. L’intégration sociale dans la famille d’origine et son environnement se manifeste pourtant, par des pratiques différentes selon les études suivies: les étudiants d’IEP, proches de leurs familles, ont une relation forte, nous l’avons vu, au groupe des pairs et aux activités collectives organisées sur le lieu de travail; placés dans une situation similaire, leurs camarades d’AES ont tendance à quitter le campus pour retrouver leur place dans le réseau militant de la commune de résidence. Observe-t-on des changements qui méritent d’être soulignés par rapport aux résultats et aux conclusions de C. Baudelot et ses collègues quinze ans auparavant? Non, si l’on se souvient du fait que l’étudiant qui emprunte une voie sélective et valorisée sur le plan social (classe préparatoire, médecine, Institut d’Etudes Politiques...) est généralement soutenu par ses parents à la fois du point de vue financier et affectif. Ce genre d’études exclut la possibilité d’occuper parallèlement un emploi rémuéré. Dans le contexte français, une origine sociale élevée, si elle constitue un avantage, ne dispense pas de satisfaire aux critères de l’excellence scolaire et universitaire. Les enfants de milieu modeste qui y parviennent sont eux aussi encouragés par la famille. C’est plutôt la relation à la famille des étudiants moins sélectionnés et moins sûrs de leur avenir qui a été modifiée par l’évolution des moeurs et la “démocratisation” des rapports parents/en123 fants. En effet, l’accès à l’autonomie personnelle ne suppose pas, comme pour leurs prédécesseurs des années soixante et soixantedix, l’éloignement résidentiel. Il faut cependant introduire des nuances selon le milieu d’origine et le lieu d’implantation de l’université. Les étudiants semblent plus indépendants de leurs parents en province qu’à Paris et mieux intégrés dans la ville, même s’ils retournent à la maison chaque week-end. Il est cohérent de penser, en outre, que ces jeunes ont intérêt à cultiver des liens amicaux et familiaux afin d’utiliser cette source d’information pour une recherche d’emploi temporaire ou définitif. 4. Une démocratisation limitée? Les données chiffrées dont on a fait état, rendent caduque une représentation qui privilégierait la fonction d’”élimination” de l’Ecole et de l’Université. En conséquence, les systèmes d’explication qui appréhendaient ces institutions comme des vecteurs cachés de la reproduction sociale, ont perdu de leur puissance heuristique. C. Baudelot et R. Establet ont d’ailleurs publié une analyse des “avantages acquis par les filles à l’école”, une école “en avance” sur la famille et les entreprises dont les habitudes et les préjugés entravent les carrières féminines (Baudelot et Establet 1992). L’Université accueille donc une population plus hétérogène qu’il y a trente ans; mais, pour une majorité d’étudiants, tout n’est pas joué, tant du point de vue de la poursuite des études (les chances des entrants d’accéder au second cycle s’établissent en 1997 à 57%) (MEN 1998), que de leur usage professionnel. L’institution universitaire elle-même a adopté des mesures (équivalences entre formations pour l’obtention d’un diplôme, valorisation d’acquis professionnels, système de compensation entre disciplines au moment des examens, DEUG pluridisciplinaires... ) qui retardent le choix d’une spécialité, offrent une seconde chance et rendent possibles, ou favorisent, des stratégies de diffèrement et de rattrapage. Enfin la définition des emplois et des qualifications a évolué au cours des dernières décennies en raison du changement économique et technologique. En résumé, les modalités d’adaptation à la vie professionnelle sont moins prévisibles que par le passé et, par voie de conséquence, ce sont les modes de socialisation à l’Uni124 versité et à l’extérieur, les parcours biographiques, le processus de construction des identités sociales qui retiennent l’attention des sociologues. L’acteur individuel joue un rôle actif au fil d’un itinéraire qui suppose des ajustements, des tractations, des “bricolages” (Certeau 1980). L’influence du milieu d’origine et des conditions de vie qui en dépendent mériterait, dans cette optique, une approche plus complexe et une analyse plus fouillée. La confrontation entre les travaux de sociologie politique, qui s’intéressent simultanément aux étudiants, aux salariés ou aux personnes sans emploi, et les travaux de sociologie de l’éducation plus axés sur les populations “scolarisées”, devrait susciter un débat fructueux. En effet, la question de la transmission familiale d’intérêts et de valeurs est centrale quand il s’agit d’ expliquer les préférences du point de vue des “causes” que l’on veut défendre et des candidats auxquels on se rallie en tant qu’électeur (Muxel 1992). Si le degré d’intégration dans une institution ou dans le monde du travail joue sur les choix politiques, ne faut-il pas interroger les politiques éducatives qui instaurent la souplesse pour une partie des étudiants (et auparavant des élèves) alors que, parallèlement, des critères de sélection draconiens sont maintenus ou renforcés, pour d’autres? “L’envers de la médaille”, comme le dit un chercheur allemand “serait que les opportunités d’individualisation entraîneraient un haut degré d’incertitude et présenteraient donc des risques d’échec” (Heinz et Nagel 1995). La démocratisation des études est seulement relative (les chances d’accéder à l’Université sont passées de 1959 à 1989, de 37,3% à 83,9% dans les classes supérieures, de 20% à 55,2% dans les classes moyennes, et de 0,5% à 8,2% chez les ouvriers) (Dubet 1993). L’orientation selon le sexe ne connaît pas de modifications importantes, sauf pour les filles qui ont suivi un cursus prestigieux. La concurrence entre les diplômés, plus nombreux, rend moins efficaces les diplômes qui sanctionnent deux années d’Université. Faire face à la compétition scolaire et universitaire a un coût très élevé pour les familles et les jeunes des milieux populaires (Beaud et Pialoux 1997). Il est donc indispensable d’instaurer un va-et-vient entre analyse quantitative et qualitative. Les politiques gouvernementales ont plutôt échappé à la critique, en France, depuis une quinzaine d’années, étant donné que la volonté d’ouverture des strates moyennes et élevées du système d’enseignement a fait l’objet d’un consensus. On a insuffisamment 125 pris en compte les effets pervers et notamment le risque de désocialisation chez des jeunes “abusés” par le fait que les processus de sélection scolaire et universitaire sont devenus plus dissimulés et plus subtiles (Broccolichi et Oeuvrard 1993). Aux exclus se substituent les “ratés” (Berthelot 1982), les diplômés eux-mêmes ont peur de la précarité. Parallèlement, le diplôme reste une protection contre le chômage (cinq ans environ après leur sortie, le taux de chômage des diplômés du supérieur est inférieur à 10% alors qu’il atteint 39% pour les jeunes sans diplôme) (MEN 1998). L’Ecole et l’Université demeurent des institutions, contrairement à ce qu’affirme F. Dubet, elles conservent en tant que telles une capacité d’intégration (au sens durkheimien) et un rôle dans le maintien du lien social. 126 CAPITOLO SECONDO LES JEUNES FRANÇAIS ET LA POLITIQUE: ENJEUX DE LA RECHERCHE 1. Anomie ou réinvention du politique? En France, l’implication des jeunes dans la vie de la cité et leur participation électorale sont mises en question de façon récurrente dans le débat politique et social. Mais en cette fin des années quatre vingt dix, où la crise du politique est particulièrement exacerbée, l’interrogation sur leur engagement prend un relief particulier. Elle renvoie à la nature et à la qualité de leur lien aux institutions politiques elles-mêmes, à ce qu’ils font et attendent de la politique. Au travers de ses présupposés mêmes elle touche aux conditions de l’approfondissement de la démocratie. Elle s’inscrit également dans la problématique plus large de la succession des générations, de la transmission comme de la transformation des valeurs et des savoirs faire. Dans une période de crise économique et de profondes mutations sociales, touchant tous les domaines de la socialisation des individus, et tout particulièrement le monde du travail, les chemins de cette transmission sont devenus plus complexes. Les conditions de la transmission d’une culture politique commune aux différentes générations sont elles-mêmes mises à l’épreuve. Y-a-t-il continuité dans les représentations comme dans les comportements politiques ou rupture d’expériences comme d’interprétations entre les jeunes d’aujourd’hui et leurs parents, a fortiori leurs grands-parents? Plus encore, en dehors des apprentissages et des savoirs acquis dans le cadre de la famille, quelles images et quels types de comportements, d’autres instances de la socialisation politique telle que l’école ou encore les media véhiculent-elles? Si les jeunes d’aujourd’hui n’ont Questo capitolo è stato scritto da Anne Muxel. Una prima versione è in G. Bettin (1999b), t. II, 527-557. 87 jamais fait preuve d’autant de connaissances en matière politique, si le niveau de leur information n’a jamais été aussi élevé, il n’en reste pas moins vrai que bien des signes montrent leur perplexité devant des choix à faire ou encore leur incrédulité vis-à-vis du monde politique (Muxel 1996b). Dans ce contexte, les jeunes se désintéressent-ils de la politique ou au contraire témoignent-ils d’attentes particulières à son égard? Ont-ils d’autres manières de l’investir? Observe-t-on des attitudes et des comportements différents de ceux qui caractérisent l’ensemble des Français? Pour expliciter les conditions actuelles de leur rapport à la politique, il faut raisonner dans le cadre d’une problématique complexe, tenant compte de deux paradigmes d’analyse; l’un, structurel, lié à la crise identitaire constitutive du temps de la jeunesse, l’autre, conjoncturel, lié à la crise du politique particulièrement marquée depuis une quinzaine d’années. Plus largement, il faut interroger l’organisation de leur lien au politique à partir d’une négociation complexe entre les deux logiques constitutives du processus de formation de leur identité politique que sont l’identification et l’expérimentation. Deux logiques concurrentes mais complémentaires que résume bien l’écrivain Robert Musil: «Quand on est jeune, on n’accepte pas non plus n’importe quelle vérité, seulement celle à quoi quelque chose en nous correspond, celle qui, par conséquent, dans un certain sens, ne fait que s’éveiller, de sorte qu’on la connaît déjà au moment où on la découvre» (Musil 1956, 785). Dans la logique de l’identification nous chercherons dans les attitudes et dans les comportements des jeunes la trace des références et des repères politiques jusqu’alors en usage, mais aussi la reconnaissance d’une filiation, inscrivant leur parcours dans le sillage d’une continuité intergénérationnelle. En déduirons-nous la persistance d’une grille commune d’entendement politique et la pertinence d’une transmission toujours effective? Dans la logique de l’expérimentation, nous recenserons les zones non balisées de leur découverte de la politique, les signes de leur autonomie individuelle mais aussi générationnelle, témoignant de ruptures par rapport à l’expérience des générations antérieures. Y-verrons-nous des signes d’anomie ou au contraire les prémisses d’une réinvention et d’une reconstruction du politique? 88 2. Des logiques d’identification toujours à l’œuvre La famille est un creuset de l’identité politique des individus. Elle est un lieu d’inculcation mais aussi d’échanges où se façonnent et se transmettent les valeurs et les modèles culturels entre les générations. Elle fournit les premières balises, les premiers ancrages, à partir desquels tout citoyen va établir ses liens élémentaires au monde politique. L’ensemble des travaux menés sur la socialisation politique ont jusqu’à présent montré sa prédominance. Mais aujourd’hui, dans une période de crise du politique, crise d’appartenance et crise de représentation, la question de son influence sur la structuration des attitudes et des comportements politiques des individus doit être posée. Par ailleurs, la fragilisation de l’institution familiale et l’expérience de plus en plus généralisée de nouvelles formes de famille, notamment les «familles recomposées» après séparation ou divorce des parents, pourraient contrarier le travail de la transmission familiale sur la formation de l’identité politique des individus. Seules les enquêtes réalisées auprès d’échantillons appariés de parents et de leurs enfants permettent de mesurer un taux de transmissibilité des choix politiques (Jennings-Niemi 1981, Percheron 1985, 1989, 1993, Tournier 1997). Mais ces enquêtes sont rares car coûteuses et difficiles méthodologiquement à mettre en place. D’autres indicateurs de socialisation politique, certes plus sujets aux risques de reconstruction des réponses, se révèlent néanmoins pertinents pour appréhender l’influence de l’héritage familial. La perception que l’individu a des choix et des positionnements politiques de ses parents, a une incidence sur son rapport à la politique. Les données d’une enquête longitudinale menée pendant onze années sur les conditions d’entrée en politique d’une même cohorte de jeunes révèlent des itinéraires différents selon les informations données par les jeunes sur leurs parents, et on peut donc le supposer, selon le type de leur socialisation familiale (Muxel 1992). A partir d’une mesure de stabilité ou d’instabilité des positionnements des jeunes sur une échelle gauche-droite en sept points au cours des trois premières vagues de l’enquête (entre 18 et 22 ans), j’ai pu identifier quatre itinéraires d’entrée en politique: les «déterminés», les «hésitants», les «retardataires» et les «vrais ins89 tables»1 . Premier trajet, celui des «déterminés» (48% de l’échantillon). Un choix précoce, c’est-à-dire dès la première vague d’enquête, et stable, d’une position située à gauche ou à droite de l’échelle, les caractérise. Les jeunes appartenant socialement et culturellement à un milieu relativement privilégié, ainsi que les étudiants, sont dans ce cas un peu plus nombreux que les autres. Mais ce ne sont pas les paramètres socio-culturels qui sont les plus déterminants. En revanche, le contexte de la socialisation familiale s’avère tout particulièrement décisif. Le fait de connaître les orientations politiques de ses parents facilite l’affirmation d’un choix explicite. Parmi les jeunes déterminés à gauche, 70% situent leur père et 73% leur mère à gauche; parmi les jeunes déterminés à droite, 86% classent leur père et 85% leur mère à droite. La parité des opinions entre les deux parents renforce encore la détermination. Parmi les jeunes situant leurs deux parents à droite ou à gauche, on dénombre respectivement 62% et 68% de «déterminés», lorsque les parents sont déclarés d’opinions contraires, ils ne sont plus dans ce cas que 47%. Le profil des «hésitants» est tout autre: incertitude et flottement des positions dominent. Il rassemble les jeunes qui se sont classés au moins une fois sur la position centrale de l’échelle gauche-droite (position de refuge par non-choix) tout au long de la période d’observation, soit un peu plus du tiers de la cohorte (36%). Lorsque le choix de la position centrale est répété, il est généralement associé à un désintérêt pour la politique. Si ce cas de figure ne concerne qu’une minorité, pour la plupart des «hésitants», l’usage de la position centrale est intermittent et révèle une incertitude, une absence de fixité des choix. Là encore, le rôle du contexte familial prévaut sur les caractéristiques socio-culturelles des individus. Le contexte de la socialisation familiale a tout autant de poids que dans le cas précédent, mais il agit a contrario. Alors que 1 Cette typologie a été construite à partir de deux critères: la stabilité des classements sur une échelle gauche-droite en sept positions d’une part, et la fréquence des choix de la position centrale sur cette même échelle d’autre part, l’une et l’autre étant mesurées à partir de trois interrogations effectuées au cours d’une période de temps de deux ans et demie. Les patterns de mobilité ainsi constitués ont permis de définir des trajets d’entrée en politique. On peut se reporter pour une analyse plus détaillée à Muxel (1992). 90 les «déterminés» peuvent s’inscrire dans une filiation politique, et de fait, sont dotés de repères pour constituer leurs propres choix, les hésitants ne peuvent situer politiquement leurs parents. Ne pouvant situer les choix de leurs parents, les jeunes sont dans l’incapacité d’en exprimer un à leur tour. L’indétermination pèse d’une génération sur l’autre, et s’il y a héritage politique, celui-ci se solde plutôt par la répétition d’une absence de choix. 56% des hésitants ne peuvent classer les choix de leurs parents sur l’échelle ou bien les classent sur la position centrale (parmi les «déterminés», ils ne sont 26% dans ce cas). Les «retardataires» sont une minorité (12%) et se distinguent des profils précédents par un différement de leurs choix politiques. Ils s’abstiennent de se classer sur l’échelle gauche-droite lors de la première vague d’enquête et n’expriment un choix à gauche ou à droite que lors de la seconde, voire de la troisième. Contrairement aux hésitants qui sont flous, voire fuyants, dans l’expression d’un choix politique personnel, les retardataires arrêtent au bout du compte une décision. Ils sont plus nombreux dans les milieux populaires et en plus grand nombre aussi parmi les jeunes salariés. L’absence de reconnaissance franche d’une filiation politique prédomine là encore. Leur intégration politique est particulièrement faible: 68% d’entre eux déclarent ne pas s’intéresser à la politique, ils sont plus nombreux à ne pas être inscrits sur les listes électorales (21% contre 10% parmi les hésitants et 7% parmi les déterminés), ils sont aussi plus abstentionnistes (46% contre 35% parmi les hésitants et 25% parmi les déterminés). Les «vrais instables» sont les jeunes qui passent de la gauche à la droite et réciproquement. Bien que marginal (4%), ce groupe est intéressant, car il semble obéir à une tout autre logique de comportement que les trois autres. Les instables s’intéressent à la politique, sont inscrits sur les listes électorales et participent aux élections. Aucune caractéristique sociologique ou familiale ne permet de les distinguer franchement des autres. Ces quatre cheminements d’entrée en politique révèlent l’importance de l’influence de la socialisation familiale. Ces résultats confirment le poids toujours prépondérant de l’héritage familial dans la formation de l’identité politique. Mais plus que cela, ils laissent penser que la famille joue aujourd’hui un rôle qui s’est sans doute renforcé étant donné la plus grande difficulté pour les 91 jeunes de trouver des repères suffisamment fiables et facilement identifiables dans la sphère politique publique. Les jeunes utilisent les repères qui sont les plus proches d’eux, c’est-à-dire ceux de leurs parents. L’utilisation, même provisoire, d’une homogamie politique familiale, permet au jeune de définir une première attache politique, même minimale. Ce qui est vérifié dans le temps de la jeunesse et de la formation des premiers choix, se vérifie aussi pour les générations plus âgées. Le processus de la socialisation politique est à l’œuvre tout au long de la vie, et l’influence de la famille y perdure. Dans le cadre d’une enquête nationale post-électorale, au lendemain du deuxième tour de l’élection présidentielle de 1995, cette influence a pu être testée. Un autre indicateur de socialisation politique a permis de vérifier le rôle des parents dans les choix politiques appréhendés cette fois sur l’ensemble de la population française (Muxel e Jaffré 1997). Selon la façon dont on peut s’inscrire ou pas dans une filiation politique par rapport aux orientations de ses parents, et selon les modalités de cette inscription, les choix mais aussi les attitudes visà-vis de la politique. A partir des différentes configurations de classement d’un individu et de ses père et mère entre la gauche, la droite et ni la gauche ni la droite ou sans réponse, des types filiation peuvent être différenciés. Cet indicateur de filiation est significatif du point de vue du positionnement politique mais aussi sociologique des individus. Il s’impose comme un critère déterminant non seulement dans la construction de l’identité politique des individus mais aussi dans la constitution du système de repérage pouvant être mobilisé par ceux-ci pour se situer en politique, y faire des choix, et déchiffrer les enjeux structurels ou conjoncturels de celle-ci. Ainsi tout lien au politique s’inscrit-il bien dans un temps diachronique, s’enracine-t-il dans des repères ou référents originels, que chacun pourra soit revendiquer, soit modifier, soit encore rejeter. Dans la société française aujourd’hui, le poids de la filiation politique l’emporte. La moitié des Français (50%) reconnaissent s’inscrire dans une continuité politique par rapport à leurs parents et se départagent en deux parts égales entre la gauche et la droite. Ce résultat est d’importance et invite à nuancer les propos défendant une atténuation de la structuration des positionnements politiques des individus. Seuls 11% des Français déclarent avoir com92 plètement changé d’orientation par rapport à leurs deux parents classés de façon homogène à gauche ou à droite. Malgré ces résultats, il reste une proportion non négligeable d’individus (38%) dont la filiation est soit indéterminée, soit incohérente, dont les comportements et les opinions risquent d’être moins stables, plus malléables, et davantage soumis aux aléas de la conjoncture politique. Parmi ces quatre français sur dix, 17% répètent une même impossibilité ou un même refus que leurs parents de se situer entre la gauche et la droite, 16% ne peuvent s’inscrire dans une filiation homogène ou clairement explicitée même s’ils expriment pourtant un choix personnel de gauche ou de droite. Enfin, il reste une proportion plus faible (5%), constituée de ceux qui pourraient s’inscrire dans une filiation de gauche ou de droite mais qui ont «décroché» en refusant aujourd’hui d’énoncer un choix personnel. Observe-t-on des différences selon les âges, allant dans le sens d’un effritement du processus de transmission? Etant donné le contexte actuel de crise du politique, le poids de l’appartenance générationnelle sur les conditions de la filiation politique devrait être important. Or il n’en est rien. Les variations entre les âges sont faibles et ne s’effectuent pas dans le sens attendu. Chez les jeunes notamment, dans une conjoncture où les repères identitaires et les clivages idéologiques sont quelque peu brouillés, le rôle de la filiation semble bien résister. Contrairement à ce que l’on aurait pu penser, ils ne présentent pas plus de signes de décrochage politique que dans les autres générations. Ceci confirme bien le rôle toujours structurant de la socialisation familiale et la légitimité actuelle d’une transmission. Mais si les mécanismes de la socialisation politique semblent toujours fonctionner, qu’en est-il des contenus? La dimension gauche-droite est en France depuis longtemps un principe fondamental d’organisation de l’espace politique et de structuration des orientations politiques. Mais dans une période de relatif brouillage et de crise de la représentation politique il est légitime de s’interroger sur le contenu et sur la cohérence des identifications à la gauche ou à la droite. Pour les jeunes nés au tournant des années soixante-dix, dont la socialisation politique s’est effectuée dans un contexte marqué par des alternances politiques répétées, cette interrogation redouble de sens. Quels repères utilisent-ils pour caractériser et différencier la gauche et la droite? Ces 93 notions sont-elles encore valables pour leur permettre de décrypter l’espace politique et pour s’y situer? Même si près des trois quarts des Français (72%) considèrent que les notions de droite et de gauche sont dépassées, la quasi-totalité d’entre eux (98%) continue de se classer sur une échelle gauchedroite en sept cases. Il y a là un paradoxe qui peut révéler des incertitudes et des déplacements dans la constitution des repères politiques classiques et dans les modalités de leur apprentissage et de leur utilisation. Si les Français se classent bien toujours sur une échelle gauche-droite, comment se répartissent-ils? Un quart d’entre eux se classe sur la case centrale (25%), les trois positions de gauche recueillent 36% des classements, tandis que les trois positions de droite totalisent 37% des choix. Chez les jeunes âgés de 18 à 25 ans, le classement est relativement similaire: 38% sur les trois positions de gauche, 27% sur la casse centrale, et 35% sur les trois positions de droite. Entre 1988 et 1995, le nombre des sans-réponse ainsi que les choix de la position centrale ont même diminué (respectivement 4% en 1988 et 2% en 1995, 31% en 1988 et 27% en 1995). Les jeunes se classent donc sur le continuum spatial et hiérarchisé que représente l’échelle gauche-droite. Mais que signifie pour eux ce classement? Est-ce l’expression d’une appartenance de principe, mais faiblement investie de sens, surtout fixée par l’influence familiale et se définissant comme une identification plus affective que politique? En quelque sorte, une appartenance désincarnée de ses référents fondateurs? Ou bien les classements adoptés recouvrent-ils un contenu justifié et argumenté pour spécifier le choix d’une affiliation idéologique et d’un camp politique à proprement parler? Lorsque l’on demande aux jeunes de justifier les raisons du choix de leur classement sur l’échelle, leurs réponses révèlent l’existence d’un vocabulaire structurant se distribuant entre les cases de l’échelle gauche-droite selon un ordre non seulement cohérent, mais aussi porteur de sens2 (Muxel 1997). Les référents «social» et 2 Ces résultats proviennent d’une étude des réponses spontanées fournies par un échantillon de jeunes (n=1189) à la suite de leur autoclassement sur une échelle gauche-droite pour justifier et expliquer les raisons de leur choix. Les réponses ont été traitées à l’aide du logiciel d’analyse textuelle SPADT permettant un traitement statistique établi en fonction de la fréquence des mots utilisés dans les réponses. Chaque référent résulte de l’agrégation d’un certain nombre de mots comptabilisés par le logiciel. 94 «moral» définissent assez nettement ce que peut être une appartenance à la gauche, tandis que les référents «économique», «nationaliste» et «partisan», sont caractéristiques d’une appartenance à la droite. La case centrale rassemble toujours ce «marais» indécis et peu impliqué, bien repéré en France depuis la fin des années soixante (Deutsch, Lindon, Weil 1966). Les jeunes qui se situent en position 4 sont plus nombreux que les autres à déclarer ne pas s’intéresser à la politique (57% contre 46% de ceux qui se positionnent en 3 et 49% de ceux qui se positionnent en 7). Plus de la moitié d’entre eux (52%) ne déclare aucune proximité partisane. Les mots utilisés par les jeunes se classant sur cette position révèlent une demande de consensus politique et de réconciliation partisane qui vient sans doute suppléer à l’absence de choix véritable. Ils disent d’abord leur refus des clivages. «Il y a du bon dans les deux camps» est le leit-motiv des réponses fournies. Les classements sur l’échelle gauche-droite connaissent des variations significatives selon la situation sociale des jeunes et selon le niveau de formation. Les jeunes salariés se classent à gauche dans une proportion équivalente à celle des étudiants (respectivement 29% et 28%), mais les premiers occupent surtout la position 3 (21% contre 16% des étudiants), tandis qu’un nombre non négligeable d’étudiants se classent sur les positions 1 et 2 (12% contre 7% des jeunes salariés). Les classements à droite sont plus nettement différenciés (42% des étudiants contre seulement 30% des salariés). Le nombre de sans réponse varie du simple au double entre les étudiants et les salariés (respectivement 5% et 10%), tandis que la case centrale est utilisée de façon relativement comparable (respectivement 27% et 31%).En revanche cette dernière s’avère nettement plus attractive chez les chômeurs (37%). Ces différences de positionnement selon l’allégeance sociale ou culturelle se vérifient au niveau de la production même du discours. Les étudiants argumentent davantage et utilisent un vocabulaire plus diversifié que les jeunes salariés et que les jeunes chômeurs. Ils utilisent plus fréquemment des propos négatifs à l’égard de la politique (19% contre 9%), comme si la compétence culturelle induisait aussi une compétence critique. Ils dénoncent d’abord les luttes intestines ainsi que la vanité de la politique politicienne. Les jeunes chômeurs se distinguent par un fort taux de sans réponse (33%) ne répondent pas à la question, 20% des sala95 riés et seulement 11% des étudiants). Les jeunes salariés font souvent référence à la droite pour la critiquer ou pour se positionner contre elle. Alors qu’ils se classent majoritairement à gauche, cette fréquence d’utilisation témoigne de la nécessité de se positionner d’abord contre le camp adverse plutôt que de développer des arguments explicatifs du choix de la gauche. Le lien au politique s’établirait-il dans ce cas plutôt contre le camp adverse que pour le camp choisi? S’ils utilisent relativement peu de références négatives (10%), lorsqu’ils le font, leur dénonciation est d’une autre nature que celle des étudiants. Ils s’en prennent aux affaires, stigmatisent l’argent, et voient les hommes politiques comme des experts de magouilles en tous genres. On le voit, le brouillage idéologique est moindre que ce que l’on pouvait penser. Les fondements d’une culture politique référentielle, déclinant des attribut différenciés selon une appartenance à la gauche ou à la droite, existent toujours et ont donc été transmis. Le clivage gauche-droite est toujours un système de repérage politique opérationnel. Même s’il n’est sans doute pas incarné par les plus jeunes comme il l’était hier par leurs aînés, ni investi du même sens, il continue de fédérer des signes de reconnaissance, des principes d’identification, pouvant être partagés et pouvant relayer l’action collective. Toutefois, si des logiques d’identification persistent et demeurent, elles ne sont en rien des logiques de reproduction. Tout héritage pour se transmettre et rester vivant, doit être réapproprié et redéfini en fonction des expériences et des contextes nouveaux, auxquels tout génération nouvelle est confrontée. 3. Des logiques d’expérimentation Le temps de la jeunesse est un temps décisif d’expérimentation sociale et personnelle. Temps de transition entre la socialisation initiale, vécue en tant qu’enfant, et la socialisation secondaire intégrant les différents processus de construction identitaire vers l’état adulte. C’est une temps régi par une «crise normative d’identité», pour reprendre les termes d’Erik H. Erikson, au cours de laquelle sont évaluées et réajustées les identifications propres au temps de l’enfance, et notamment celles qui se sont construites 96 dans les relations intra-familiales. L’individu confronte à la réalité sociale qu’il découvre les choix initiaux, et notamment ceux de ses parents, ainsi que les éléments qui ont été mis à sa disposition pour décoder celle-ci. Par ailleurs, c’est le temps ou se réalise le passage de la formation vers la vie professionnelle et sociale. Un passage dont les chemins et voies d’accès se sont complexifiés et raréfiés, réclamant une période de temps de plus en plus longue. Dans la famille, comme à l’école, institutions en charge de la transmission des valeurs, des savoirs et des savoirs faire, les modèles de socialisation proposés et expérimentés par la génération précédente, et notamment en ce qui concerne la socialisation professionnelle, ne sont plus adéquats, car ils ne peuvent plus servir de références pertinentes pour intégrer et comprendre la société d’aujourd’hui. Il y a un hiatus dans les échanges mêmes d’expérience entre les générations. Le paradigme de l’allongement est d’une certaine manière entretenu par ce différement tant au début qu’à la fin de la jeunesse, c’est-à-dire pour en sortir. En effet, les seuils d’âge qui définissent l’autonomie et la responsabilité du citoyen, tels qu’ils sont institutionnalisés et légiférés par la société, sont de plus en plus précoces. Le droit de vote à 16 ans revient régulièrement à l’ordre du jour des débats parlementaires. C’est dans cette tension, à la fois sociale (qui touche l’organisation des âges dans la société ainsi que le processus de socialisation des nouvelles générations) et existentielle (qui concerne l’expérience toujours unique des individus), que peuvent être interprétés les décalages, les contradictions entre les seuils symboliques et les seuils réels du parcours de l’entrée d’un jeune dans son rôle de citoyen (Bourdieu 1982, Chamboredon 1985). Ces remarques et le pointage de ces paradoxes peuvent servir de cadre d’analyse préliminaire à la problématisation des liens qui peuvent être établis entre l’allongement de la jeunesse et le rapport des jeunes à la politique. Les difficultés croissantes de trouver une place et un statut sur le marché de l’emploi retarde l’obtention d’une compétence sociale objective des jeunes, et sa perception en tant que telle. Du coup le sentiment de leur compétence sociale subjective est elle aussi mise en difficulté, et ce n’est pas sans conséquence sur l’idée qu’ils peuvent se faire de leur capacité politique et de l’efficacité de leur vote (Bourdieu 1977). Sont-ils bien des citoyens à part entière de la société? Quelle place celle-ci leur réserve-t-elle? 97 La question de l’allongement de la jeunesse dans la période contemporaine renvoie aux critères de définition de la condition d’adulte. Quels sont aujourd’hui les seuils symboliques ou réels qui jalonnent ce temps de passage et de transition? De plus en plus complexes à identifier et n’obéissant que rarement à un enchaînement logique et rationnel, ces seuils apparaissent souvent en décalage ou déconnectés les uns par rapport aux autres. C’est ce qui caractérise, depuis une vingtaine d’années, la spécificité de la jeunesse en tant que «nouvel âge de la vie» (Galland 1991, Keniston 1965). Période de marge. Sur les marges. D’une certaine façon, période de mise en marge. Cette complexité se double du fait qu’il n’y a pas toujours concordance entre les attributs symboliques d’un seuil et leur transformation en des actes concrets opérationnalisant le franchissement de celui-ci. En effet, les signes d’une compétence reconnue par la société, et légitimée institutionnellement, peuvent être dissociés des passages à l’acte de l’individu, c’est-à-dire de l’exercice d’une compétence reconnue par le jeune lui-même. L’usage de la politique dans le temps de la jeunesse illustre ce paradoxe. 18 ans et l’acquisition à cet âge du droit de vote constituent bien un seuil marquant une forme première de reconnaissance adulte; il est un «rite d’institution», au sens où Bourdieu l’entend, un rite qui signe la légitimité de la compétence politique des jeunes. (Bourdieu 1982). Pour autant les jeunes sont nombreux à ne pas faire une utilisation immédiate de ce droit. Tout en y étant très attachés, ils peuvent le différer à plus ou moins brève échéance dans le temps. Jusqu’à une date récente (l’inscription sur les listes électorales n’est automatique en France que depuis septembre 1997), ils ne s’inscrivaient que lentement et progressivement sur les listes électorales. Si 9% des Français ne sont pas inscrits, chez les jeunes cette proportion est nettement plus marquée: 25% d’entre eux ne s’inscrivent pas avant l’âge de 25 ans, et à 25 ans on en dénombre encore 14% qui ne sont pas passés à l’acte. Même inscrits ils se montrent moins participationnistes aux élections. Lors des dernières élections législatives qui se sont déroulées en juin 1997, 31% des Français se sont abstenus d’aller voter, parmi les 18-25 ans, 4O% n’ont pas voté, et parmi les 25-34 ans, 43% (Enquête Cevipof-Sofres 1997). De ce strict point de vue, si le fait d’être «adulte» en politique a un sens, alors on l’est très tard. Il faut attendre de dépasser la trentaine, voire d’atteindre la quaran98 taine, pour que les taux d’inscription sur les listes électorales et de participation aux élections atteignent ceux de l’ensemble des classes d’âge. Il existe donc bien un décalage entre l’acquisition d’un droit objectif qui fixe une norme de comportement, et sa mise en pratique. Un seuil symbolique, établissant une compétence de droit, perçue et revendiquée comme telle par les jeunes, mais non utilisée, peut être franchi bien avant que des actes concrets tels que s’inscrire ou voter ne se soient exprimés. Selon les situations d’insertion sociale, selon les conditions de la socialisation initiale, et selon les contextes politiques, le jeu de ces décalages donne forme à une diversité de cheminements d’intégration politique. Rôles titulaires et rôles effectifs ne s’agencent pas dans un calendrier unique. Ils peuvent ne pas coïncider. La question sociale n’a sans doute jamais été aussi présente qu’aujourd’hui dans la constitution des enjeux politiques et partisans. Ces vingt dernières années le PIB n’a cessé d’augmenter, la France produit de plus en plus de richesses, alors que dans le même temps les inégalités dans la répartition de celles-ci n’ont cessé de se creuser (Commaille 1997, Castel 1995). Les partis de la droite modérée comme ceux de la gauche sont confrontés à ce paradoxe et ont à fournir des réponses aux citoyens. La question du chômage et les risques d’exclusion sociale encourus par une partie non négligeable de la population française, risques d’autant plus présents au sein de la jeunesse, représentent des enjeux incontournables pour l’ensemble de la classe politique. Si les réponses ne sont pas les mêmes selon les partis, pour autant des clivages internes aux camps de la gauche ou de la droite apparaissent, et ce, à l’intérieur même des partis, ce qui crée un certain brouillage des repères idéologiques. Les partis gouvernementaux se rattachant à la gauche ou à la droite, ne se départagent plus aussi nettement que par le passé quant à leur mode de traitement de l’économie et d’un certain nombre de problèmes sociaux. La question de l’immigration, de la prise en charge par l’Etat des dépenses de santé, ou encore la réalisation de l’Europe et de la monnaie unique, sont des enjeux qui suscitent de nouvelles lignes de clivages au sein de la classe politique comme au sein du corps social lui-même. Elles ne recoupent plus celles de l’échiquier partisan traditionnel. Ainsi les opinions à l’égard de la construction européenne divergent99 elles à la fois au sein de la gauche (le PS et le PCF sont en désaccord) et au sein de la droite (une fraction du RPR s’y oppose). Les jeunes rencontrent la politique dans un contexte relativement nouveau par rapport à celui que connût la génération de leurs parents. Le système de repérage en politique est partiellement brouillé, les grands clivages idéologiques ne sont plus aussi faciles à circonscrire. L’est et l’ouest. La gauche et la droite. Le socialisme et la société de marché. Le territoire d’action politique s’est considérablement élargi à l’échelle supranationale. Les possibilités de penser le politique sont confrontées à une diversité d’expérimentation du social. La mondialisation est une réalité qui change la perception de l’utilité de l’action collective à l’intérieur d’un cadre strictement national. Si les conflits entre les individus et entre les groupes sociaux existent bien toujours dans la société française, ils sont peut être même plus forts que jamais, ils ne sont plus relayés dans l’action collective par les mêmes formes d’expression et d’instrumentalisation du politique. Le potentiel de mobilisation reste élevé, l’activisme politique est bien réel, mais il se structure à partir de deux logiques relativement nouvelles: l’autonomisation des acteurs par rapport aux institutions que sont les partis ou les syndicats d’une part, et l’hétéronomie des causes nationales vis-à-vis de la réalité mondiale des échanges, des liens, comme des conflits. Ces déplacements, ces nouvelles zones de recouvrements ou d’alliances, ces enjeux de moins en moins lisibles qui débordent largement le seul cadre national, s’ajoutent à la disparité croissante des expériences sociales des individus engendrée par la crise économique et sociale. Les lignes de clivage politique recoupent moins que par le passé les clivages sociologiques traditionnels, et laissent des interstices par lesquels s’engouffrent de nouveau types d’expression ou de revendication politiques. Ces redéfinitions et ces recompositions, aussi bien politiques que sociologiques, s’avèrent être déterminantes pour comprendre, dans la période récente, les comportements électoraux des Français. L’affirmation croissante d’un vote protestataire se portant à l’extrême gauche et surtout à l’extrême droite, ou encore l’augmentation régulière de l’abstention ou du vote blanc, peuvent être analysées comme des réponses face à la montée générale non seulement du mécontentement, mais aussi d’une certaine perplexité. 100 Il devient banal et récurrent d’évoquer une difficulté croissante dans l’établissement du lien entre les individus et la politique aujourd’hui. Les attitudes à l’égard de la politique sont assez négatives. Perte de confiance, perte de crédibilité tant au niveau du personnel politique que des institutions elles-mêmes sont la règle. Si l’on ne note pas plus de désintérêt des Français pour la politique que par le passé (50% déclarent s’intéresser beaucoup ou assez à la politique contre 46% en 1978), en revanche ils sont nettement plus nombreux à penser que les hommes politiques ne se préoccupent pas de leurs problèmes (72% aujourd’hui contre 59% en 1978) (Enquêtes Cevipof-Sofres 1978, 1988, 1995). Le contexte lui-même est révélateur de cette difficulté dans l’établissement et dans la stabilité du lien. La répétition des alternances gouvernementales depuis 1981 a accentué le scepticisme politique des Français. Depuis cette date, le balancier électoral a orchestré le changement de camp politique cinq fois, lors de presque toutes les grandes élections nationales. Les périodes de stabilité ne tiennent pas plus de trois ans en moyenne. En France, cette situation est relativement nouvelle. Jusqu’en 1981, la Vème République avait connu une longue période de stabilité, laissant la droite au pouvoir pendant vingt trois ans. Cette instabilité récente au niveau même des institutions , est sans doute révélatrice non seulement d’une évolution du système politique mais aussi d’un nouveau type de rapport des électeurs à la politique, peut être plus instrumental. Une moindre différenciation des programmes politiques et économiques dans l’offre des partis de gouvernement de gauche comme de droite, ainsi que l’installation durable de la crise socio-économique, l’explique en partie. L’attente d’un changement réel en matière d’emploi et de chômage, et de mesures concrètes prises en conséquence, est à chaque fois l’enjeu qui pèse le plus sur l’élection, et ce quels que soient les électorats. Pour 75% des Français, c’est le problème qui a compté le plus pour faire leurs choix lors des dernières élections législatives. Plus que jamais la question sociale est l’arbitre de la question politique. Les signes d’une crise de la représentation politique sont rappelés lors de chaque élection. Depuis une dizaine d’années le taux d’abstention des Français aux élections ne cesse d’augmenter. Même l’élection présidentielle, pourtant la plus mobilisatrice, connaît une baisse de participation significative. Seuls 15,1% des électeurs 101 s’étaient tenus à l’écart de l’élection en 1981, 18,3% en 1988, en 1995, 20,6%. Lors des dernières élections législatives de juin 1997, le taux d’abstention fut particulièrement marqué: un français sur trois (31,5%), et un jeune sur quatre (41% des 18-25 ans) sont restés hors-jeu de la décision électorale. A cela, il faut ajouter 5% de bulletins blancs et nuls, ce qui porte à 37,5% la part des électeurs inscrits qui n’ont pas jugé utile de se déplacer ou qui ne se sont pas reconnus dans l’offre politique proposée lors de cette élection. Crise de la représentation politique donc, mais aussi, et les deux sont liées, crise de l’adhésion et de la reconnaissance partisane. On constate en effet un effritement assez net du lien partisan. Ce dernier est plus incertain et plus fluctuant. Seuls 56% des Français peuvent déclarer spontanément, lorsque la question leur est posée, se sentir proche d’un parti politique. Et même lorsqu’il existe, le lien partisan reste lâche, autorisant ainsi une certaine volatilité électorale. Car si peu de gens franchissent la ligne de partage gauche-droite dans leurs choix électoraux (un français sur dix environ), on dénombre en revanche 30% d’électeurs pouvant modifier leur choix, à l’intérieur du camp de la gauche comme de celui de la droite, d’une élection à l’autre (Chiche, Jaffré 1997). Les logiques de reconnaissance et d’appartenance partisane se défont au profit d’identifications négatives. Les individus qui déclarent exprimer par leur vote un refus des autres partis plutôt qu’une adhésion véritable au parti pour lequel ils ont voté sont de plus en plus nombreux, 44%. La perplexité devant les choix à faire est de plus en plus marquée. Le moment du choix électoral est de plus en plus retardé, et de plus en plus incertain, ce qui met d’ailleurs à mal les prédictions des instituts de sondage à la veille des élections. La proportion de ceux qui se décident au dernier moment, soit le dernier jour de l’élection, est de plus en plus grande. En 1988, 18% des électeurs déclaraient s’être décidés dans les semaines qui ont précédé, voire le jour même du scrutin; en 1995, toujours au premier tour ils étaient dans ce même cas 41%. En 1997, la dissolution de l’Assemblée Nationale et l’organisation d’élections législatives anticipées, n’a pu que brouiller encore davantage la perception de l’espace politique et de ses enjeux. Leur perplexité a été encore plus forte, 56% reconnaissent s’être décidés en cours de campagne. Chez les jeunes l’incertitude semble avoir beaucoup pesé: plus 102 du quart d’entre eux, 26%, déclarent s’être décidés le jour même du scrutin. Les jeunes qui votent sont minoritaires; si l’on décompte les abstentionnistes et ceux qui ne sont pas inscrits sur les listes électorales, c’est une petite moitié seulement des jeunes en âge de voter qui se rend aux urnes. En 1997, ceux qui ont voté ont repris le gage de confiance qu’ils avaient assez largement accordé à Jacques Chirac en 1995 (55% des 18-25 ans avaient voté pour lui et 45% pour Lionel Jospin). Cette fois, ils donnent une majorité à la gauche, certes courte (51%), mais retrouvant le niveau des élections de 1986 et de 1988. Mais ils ne témoignent pas de choix spécifiques. Dans l’ensemble, leurs votes s’alignent sur ceux du corps électoral français. A gauche, le PS enregistre 28% de leurs suffrages, le PCF 11% (respectivement 26% et 10% dans l’ensemble de l’électorat). Leur sensibilité est un peu plus marquée à l’extrême-gauche (4% contre 2,5% pour l’ensemble), mais très semblable s’agissant des candidats écologistes ( 8% contre 7%). A droite, la coalition UDF-RPR est légèrement en retrait (28% contre 31% pour l’ensemble des Français). A l’extrême-droite, le FN recueille 16% de leurs voix, soit un point de plus qu’auprès de l’ensemble des Français (15%). Depuis dix ans, d’une façon à peu près constante, ce parti garde une assise électorale au sein de la jeunesse, mais ce vote est d’abord le fait des jeunes de milieux populaires, peu diplômés: 25% des jeunes ouvriers contre 7% parmi les étudiants. Comment expliquer le relatif crédit de ce parti au sein des jeunes électeurs? En France, cela n’est pas sans poser problème, car c’est la santé de la démocratie, inscrit dans le renouvellement même de la chaîne des générations, qui est en jeu. Dans le contexte politique relativement flou et brouillé décrit précédemment, les marqueurs et les enjeux du débat politique ne sont pas faciles à identifier. La gauche et la droite sont souvent renvoyées dos à dos dans le discours des jeunes, leur crédibilité réciproque mise en péril et leurs appartenances fragilisées. En revanche, les seules vraies balises qui délimitent le champ politique, facilement identifiables et identifiées par les jeunes, sont les «extrêmes». Extrêmes dont il faut se garantir et se protéger, mais extrêmes dont ils ont l’impression que ce sont les seules forces politiques à partir desquelles se structure le débat politique actuel. Et l’actualité politique ne peut pas leur donner vraiment tort. Lors 103 des dernières élections régionales en mars 1998, le Front National a été d’une certaine façon l’arbitre des élections. Ce qui n’est pas sans changer les équilibrages politiques, réels mais aussi imaginaires, dans la façon même dont ils sont représentés et réappropriés par les individus (Mayer e Perrineau 1996). De fait, le FN est un repère idéologique et politique facilement identifiable, faisant débat dans la société, et requérant un positionnement simple et radical (soit on est pour, soit on est contre). En dehors de ces extrêmes qui désignent souvent un seuil de dangerosité politique et une mise en péril de la démocratie, la confusion règne, les partis politiques sont peu différenciés. Le FN peut rassembler des électeurs qui ne peuvent ou ne veulent plus situer leurs choix en fonction de l’échiquier politique défini par les seuls partis traditionnels. Parmi les jeunes qui n’ont à leur disposition que peu de repères stables et fiables dans la conjoncture politique actuelle, il est une réponse possible. Le vote Le Pen est une réponse à l’anxiété croissante des jeunes les plus menacés par la crise sociale et économique et l’exclusion sociale. Le niveau d’instruction est déterminant. Lors de l’élection présidentielle de 1995, au premier tour, parmi ceux qui n’ont pas le Baccalauréat, 24% ont voté pour lui, la proportion tombe à 4% chez ceux qui poursuivent des études supérieures. Les disparités sont donc très fortes, d’où cette interrogation: n’y-a-t-il par risque d’une cassure irrémédiable au sein même de la jeunesse entre des catégories qui finiront par s’en sortir, diplômés, intégrés, et d’autres qui ne pourront pas rentrer dans le circuit? Y-aura-t-il solidarité entre ces différentes catégories de jeunes ou bien exclusion réciproque? Et quelles conséquences cela aura-t-il du point de vue de la transmission d’une culture politique référentielle commune aux différentes générations? Quelque chose de l’avenir de la démocratie se joue là, dans les conditions d’articulation entre une solidarité verticale dans la chaîne des générations, entre les plus anciens et les plus jeunes, et une solidarité horizontale entre différentes catégories sociales de la jeunesse, confrontées à des conditions d’insertion sociale de plus en plus inégalitaires et de plus en plus étrangères les unes aux autres. Si les jeunes sont nombreux à rester hors-jeu de la décision électorale, s’ils maintiennent une certaine distance , voire une certaine méfiance, à l’égard des hommes comme des institutions po104 litiques, s’ils restent sur leurs gardes en se montrant particulièrement lucides et critiques, ils ne sont pas pour autant dépolitisés. En effet, dès lors que la question du rapport des jeunes à la politique est évoquée dans le débat social, c’est non seulement le constat d’un malentendu qui s’impose, mais aussi celui d’une méprise. Tout d’abord un malentendu au sens propre du terme. Car les jeunes ne sont guère «entendus» dans une société qui les place en première ligne parmi les victimes des impasses et des effets d’une crise sociale et économique exacerbée, pas plus qu’ils ne veulent «entendre» une classe politique jugée dans son ensemble peu crédible, peu responsable et peu digne. La méprise, elle, est celle que l’on trouve dans nombre d’analyses et de commentaires qui cantonnent les jeunes dans un individualisme et une forme de renoncement détournant leurs intérêts et leurs préoccupations hors du champ politique. Pourtant ceux-ci ne sont ni dépolitisés ni démobilisés. Ils font preuve au contraire d’une conscience aiguë des problèmes touchant la collectivité, ils se manifestent lorsqu’il s’agit de défendre les droits de l’homme bafoués en France ou dans le monde, ils prennent la tête des mouvements de revendication en matière d’éducation ou de formation. Bref, s’ils ne veulent plus « entendre » le monde politique tel qu’il est, pour autant ils ne délaissent pas la scène politique. Ils en sont des acteurs à part entière. D’une autre façon, à leur façon certainement, ils sont politiquement en-jeu. Et au-delà du jeu de mots, c’est la façon dont se noue aujourd’hui leur lien sinon au politique en tous cas au collectif qu’il faut tenter de comprendre. De quelle façon sont-ils ces acteurs à part entière de la politique? Aujourd’hui les jeunes français sont plus nombreux à déclarer s’intéresser beaucoup ou assez à la politique qu’à la fin des années quatre-vingt, 49% en 1995 contre 40% en 1988, soit une proportion équivalente à celle que l’on trouve dans l’ensemble de la population. Et cet intérêt semble assez stable dans le temps, puisqu’au début des années soixante, un sondage de l’IFOP conduit auprès des 16-24 ans faisait état d’une proportion assez semblable, 53%. Par ailleurs, à cette époque on ne comptait pas plus de jeunes qu’aujourd’hui adhérents de partis ou de groupements politiques, entre 2% et 3%. Le mythe d’un âge d’or de l’engagement politique des jeunes des années soixante doit donc être assez largement révisé. 105 En revanche, les contenus de leur engagement et de leur intérêt ont changé. Les formes d’implication et les thèmes qui peuvent conduire à leur implication se sont déplacés. Les partis politiques n’attirent plus et suscitent de la méfiance. Quant aux syndicats, lors de tous les mouvements sociaux récents, ils ont été supplantés par des formes autonomes et spontanées de mobilisation, les «coordinations autonomes». En revanche les associations ont gagné leur confiance. Et même s’ils ne sont que très peu à franchir le pas pour y adhérer, selon un sondage récent seuls 11,5% des jeunes participent aux activités d’une association ou d’un mouvement de jeunesse, en revanche ils sont trois sur quatre à penser qu’elles permettent d’améliorer les choses, et deux sur trois à estimer que l’engagement associatif est un bon moyen de lutter contre l’égoïsme social3 . Mais les jeunes en cela ne font que s’inscrire dans une évolution d’ensemble de l’action collective qui a caractérisé tous les grands mouvements sociaux en France ces dernières années. Ce qui est en revanche singulier en ce qui concerne leur expérimentation de la politique est qu’ils découvrent la mobilisation collective dans ce contexte de relative désinstitutionnalisation de l’action politique. Leurs aînés, tout en se tournant vers des formes autonomes et spontanées de revendication, conservent la mémoire des modes d’action traditionnels; de même l’image négative qu’ils expriment à l’égard de la politique peut être référée à un «avant», à une mémoire capable de décliner un ensemble de signifiants organisateurs du débat politique d’alors mais aussi d’aujourd’hui. Les jeunes n’ont plus accès à ce répertoire politique classique. Leur socialisation politique est en ce sens plus expérimentale. Elle suppose un mode de participation de plus en plus orientée par des actions ponctuelles et ciblées, selon les enjeux et les intérêts spécifiques de certains groupes, certaines catégories sociales, ou même en fonction d’intérêt individuels (Inglehart 1990). Quels repères, quelles valeurs, quels récits d’expérience les nouvelles générations ainsi socialisées à la politique transmettront-ils à leurs enfants? Si l’héritage s’amenuise en termes de contenu, si la mémoire fondatrice s’estompe, d’autres repères, d’autres fondements, produits 3 Baromètre MCGénération/CSA/Le Parisien ayant pour objectif d’étudier les valeurs que les Français se transmettre d’une génération à l’autre. 106 de l’expérimentation, doivent trouver leur place, recomposer l’héritage pour donner forme et légitimité sinon à une nouvelle culture politique, en tous cas à une culture politique vivante. L’activisme politique des jeunes est réel. Tous les grands mouvements sociaux qui ont marqué l’actualité politique de la France ces dix dernières années sont partis des universités, et notamment le mouvement de novembre-décembre 1995. Interrogés au printemps de cette même année, 44% des jeunes déclarent avoir participé au moins une fois à une manifestation récente (contre 10% dans l’ensemble de la population). Antiracisme, défense des moyens d’éducation et de formation, soutien aux populations immigrées et aux sans-papier, manifestations contre le Front National… les occasions furent nombreuses, et les jeunes ont souvent pris l’initiative des actions entreprises. Donc les jeunes ne sont ni absents ni démissionnaires. Mais ce qui les caractérise est sans doute une volonté de se démarquer d’une façon de faire ou d’user de la politique dans laquelle ils ne se reconnaissent pas. Les mots mêmes et le langage des hommes et des appareils politiques ne sont ni entendus ni réappropriés par eux. Ils réclament l’instauration d’un véritable dialogue, à la fois plus transparent et plus engagé. Les seuls mots ne suffisent pas. Ils veulent que soient réconciliés le terrain des idées et celui de l’action politique. Par-delà la dénonciation des promesses jamais tenues, c’est en fait au retour de la responsabilité et d’une certaine éthique politique qu’ils aspirent. Les modèles de l’engagement, et paradoxalement du militant, contrairement à ce que l’on pourrait croire, font recette. Les jeunes attendent des hommes politiques une implication personnelle dans leurs idées comme dans leurs actions. Les jeunes sont en demande de sens et de concret à la fois. Par ailleurs, la mondialisation des enjeux économiques et des problèmes à résoudre, en plaçant le terrain de l’action politique au-delà des seules frontières nationales, entraîne une conscience planétaire et des connaissances supplémentaires qui pourraient à termes formaliser de nouveaux positionnements politiques et idéologiques. Entre héritage et expérimentation, bien des signes dans les attitudes et les comportements politiques des jeunes français esquissent les grandes lignes d’un «nouveau» répertoire politique. Engagement, vérité et humanité en seraient les maîtres-mots. Rien 107 de très neuf à cela, mais le rappel de vertus politiques quelque peu oubliées pour signer la continuité d’une culture politique fondée sur les principes de la démocratie, vertus qu’il ne faut pas cesser de réaffirmer. 108 PARTE I I GIOVANI E LA CULTURA DEMOCRATICA: I CASI NAZIONALI 37 38 CAPITOLO PRIMO NUOVE GENERAZIONI E MUTAMENTO POLITICO TRA TEORIA E RICERCA (CON ALCUNE CONSIDERAZIONI SUL CASO ITALIANO) 1. Perché riflettere sul concetto di generazione politica? Questo capitolo ha l’intento di fornire una sorta di frame introduttivo alla ricerca, sia nel senso di proporre alcune categorie usualmente neglette, che appaiono di non poca utilità euristica, sia nel senso di delineare alcune fasi della complessa relazione tra giovani e politica nel caso italiano. La seconda parte del capitolo non ha il valore di una semplice appendice empirica, costituisce, invece, un esempio di come sia opportuno tentare di applicare alcune categorie interpretative a questo campo tematico che, a parere di scrive, soffre forse ancora troppo di descrittivismo sociologico e, in questo modo, non acquista nel dibattito scientifico il posto che merita. L’interrogativo principale cui ci si propone di dare una risposta in queste pagine è: perché (e come) riflettere sul concetto di generazione politica? L’interrogativo è apparentemente confinato ad un tema dai contorni piuttosto limitati. Il nodo da sciogliere, in realtà, è assai più complicato ed è da rintracciare nella palese insufficienza dell’armamentario sociologico tradizionalmente adottato per lo studio del mutamento politico. Un esempio di come si pone il problema è forse utile anche ai fini analitici. Nella storia europea uno dei dati ricorrenti è quello di una duplice forma di conflitto che ha sempre agito come motore di mutamento politico: da un lato il conflitto tra le nazioni, dall’altro lato il conflitto tra le classi. Il conflitto tra la coscienza nazionale e la coscienza di clasQuesto capitolo è stato scritto da Gianfranco Bettin Lattes una prima e parziale versione è in G. Bettin (1999b), t. I, 143-188. 39 se è stato in generale risolto a vantaggio del valore della nazione; tuttavia oggi questi due tipi di conflitto non hanno molto spazio perché sono mutati – forse in modo irreversibile – i loro fondamenti sociali, culturali e politici. Questo stesso tema acquista interesse proprio nell’Europa di oggi dove sembra dimostrato che è in atto un progressivo declino del nazionalismo tra i livelli più istruiti della popolazione e soprattutto tra i giovani (Dogan 1993, 225-228) e dove il senso di appartenenza ad una classe sociale vede fortemente attenuati i suoi effetti in termini di comportamento politico. Ci si trova dunque in una condizione di trasformazione delle basi sociali e valoriali del conflitto senza che si sia sufficientemente valutato un altro livello di manifestazione della coscienza politica quello che discende dall’appartenenza ad una distinta generazione. Questo processo ha comunque un suo percorso che meriterebbe di essere attentamente ricostruito, sia per interpretare adeguatamente le forme che ha assunto negli anni più recenti sia per delineare qualche aspetto previsivo. Alla luce di alcune riflessioni elaborate dalla storia sociale sembra di poter affermare che l’avvento di una divisione per generazioni sia stato l’effetto delle trasformazioni sociali verso la modernità che hanno comportato, tra l’altro, la demolizione delle gerarchie basate su status ascritti. A partire dal secolo scorso la successione generazionale non era più un processo di sostituzione dello stesso con lo stesso, ma diventava un rimpiazzare qualcosa con qualcosa d’altro. La distanza che separava i gruppi di età non era più data da un intervallo di tempo, riempito soltanto dalla capacità di produrre nuova vita, ma dalla somma di cambiamenti che discendeva dai nuovi comportamenti e dai valori introdotti dalla nuova generazione. Il passaggio è da una distanza meramente anagrafica ad una distanza culturale e politica. Sono molteplici i fattori che hanno aperto questa nuova prospettiva. Nel secolo scorso si è assistito all’elaborazione di una vera e propria ideologia della giovinezza che aveva le sue ragioni strutturali nei bisogni tipici della società industriale. L’ideologia della giovinezza trovava il suo fondamento in un complesso di conoscenze e di esperienze che erano appannaggio esclusivo dei giovani. La scuola e il servizio militare consentirono ai giovani, praticamente per la prima volta su una scala di massa, la conoscenza 40 del mondo fino a quel momento prerogativa assoluta degli adulti; anzi, l’età adulta venne sempre più ad indicare lo status di estraneità alla modernità. Nella seconda metà dell’Ottocento, poi, emergono delle istituzioni nuove ed ispirate integralmente all’ideologia della giovinezza: i movimenti giovanili (Kriegel 1978). Ben presto i movimenti giovanili contribuiranno a consolidare in Europa quella consapevolezza generazionale che tanto colpirà i primi studiosi del fenomeno, da Ortega y Gasset a Karl Mannheim. Un dato storico e sociologico che non va trascurato a questo proposito è che il nostro secolo è stato parzialmente contrassegnato dai movimenti politici studenteschi: il 1968 ha rappresentato un momento apicale per la diffusione del fenomeno che, pur in forme e con intensità diverse, tende a ripetersi e ad essere promosso da una parte speciale delle giovani generazioni. In altre parole si aprono nuovi spazi a forme di aggregazione sociale sulla base dell’età e nuovi attori pretendono di ridefinire lo scenario politico accanto agli attori istituzionali tradizionali. Sembra indubbio, poi, che anche i valori politici più consolidati si trovino di fronte al problema di essere legittimati ed adattati ai tempi da parte delle giovani generazioni perché ad esse, in quanto formate da neocittadini e da possibili membri di una nuova classe dirigente, viene delegato il compito fondamentale di riprodurre e di innovare la cultura politica. Lo scopo di una sintetica riflessione sul concetto di generazione politica è dunque ambizioso ed include la possibilità di una lettura significativa delle complesse relazioni che storicamente intercorrono fra mutamento sociale e mutamento politico. Inoltre, va sottolineato che il concetto di generazione politica offre un’efficace prospettiva per lo studio delle trasformazioni politiche ai diversi livelli del rapporto tra individuo e società nel momento in cui taglia trasversalmente l’analisi dei processi di socializzazione politica, delle forme di azione collettiva e delle rappresentazioni ideologiche dello spazio politico (Bontempi 1997). In breve: una sociologia politica in sintonia col nostro tempo può rivalutare questo concetto proponendolo come una delle chiavi di lettura dei molteplici segnali di cambiamento che caratterizzano i sistemi politici nell’éra della globalizzazione. 41 2. La teoria delle generazioni nei precursori: Giuseppe Ferrari, José Ortega y Gasset e Karl Mannheim Riflettere sulla teoria delle generazioni e in particolare sul concetto di generazione politica – che ne rappresenta una parte costitutiva fondamentale – è un po’ come entrare nella soffitta piena di ragnatele della casa dei nonni e scoprire un vecchio baule pieno di fotografie di avi sconosciuti, dall’espressione molto severa, ma tutti con un certo fascino. In questa sede non si affronta certo un inventario critico-sistematico delle teorie delle generazioni; altri ha già pensato a questo tipo di lavoro, e con successo anche in anni non troppo lontani: basti ricordare gli studi approfonditi di Julián Marías (Marías 1949 e 1968). Ci si limita a ricordare tre contributi classici che hanno valorizzato questo approccio sul quale, peraltro, si è esercitata una pletora di studiosi di diverse discipline dallo storico della politica al filosofo sociale, dall’umanista allo storico dell’arte e non ultimo il sociologo. Una proto-teoria sulle generazioni che merita di essere citata è quella dovuta a Giuseppe Ferrari (1812-1876), uno storico italiano costretto ad emigrare in Francia a causa delle sue idee politiche progressiste, la cui formazione vichiana si completa con le influenze del positivismo e segnatamente di Comte. Il cardine della sua teoria è l’individuazione scientifica dei periodi politici; lo scopo primario della sua ricerca è quello di elaborare una teoria «sulla misura del tempo e sul meccanismo delle rivoluzioni». Ferrari pubblica molte opere tra le quali va menzionata, nonostante il disprezzo espresso da Benedetto Croce, la Teoria dei periodi politici (1874) ove porta a maturazione il suo pensiero sulle generazioni ed introduce per la prima volta l’espressione “generazione politica” dedicando al tema un lungo capitolo. Il punto di partenza della sua analisi è la generazione «primo elemento di ogni ritorno» che «ripete di continuo il medesimo dramma in tutte le epoche, con tutte le civiltà» e agisce di conseguenza come motore primo della storia. Al fine di individuare le generazioni e la relativa appartenenza di ciascuno si adotta il facile postulato secondo cui la politica governa il mondo. Il vero e solo mutamento che conta dunque è il mutamento politico: il cambiamento dei governi si accompagna al succedersi delle generazioni. «Ad ogni trentennio le generazioni si rinnovano coi governi; ad ogni trentennio 42 incomincia una nuova azione; ad ogni trentennio un nuovo dramma si presenta con nuovi personaggi; finalmente ad ogni trentennio si elabora un nuovo avvenimento» (Ferrari 1874, 16). Nell’ambito di una stessa cultura sono i governi e gli uomini politici che li rappresentano a dare un nome alle generazioni e, così facendo, a delimitarle. Ferrari, pur nel suo dogmatismo, propone un’impostazione che oltrepassa la prospettiva genealogica e che ha il merito, quantomeno, di farci comprendere la rilevanza del ruolo storico e politico svolto da una generazione. La sua definizione pecca forse di genericità ma contiene alcuni elementi che ritornano in quasi tutte le definizioni sociologiche successive con le quali ci si misura anche oggi. La generazione politica pone a fondamento della sua azione una collaborazione tra gli individui che materialmente la costituiscono ed è in questo stesso legame associativo, che si traduce in un agire per il cambiamento politico, che una generazione trova il suo significato più genuino. La generazione politica ci viene dunque proposta come una forma di realizzazione concreta e piena di un aggregato che altrimenti non avrebbe altro significato che quello di una presenza fisica, pari a qualsiasi altra entità del mondo naturale. «La generazione politica o storica, che non si deve confondere con la generazione materiale costituita da un certo numero di individui che nascono, vivono e muoiono nel medesimo tempo senza essere associati, senza collaborare alle medesime imprese, senza neppure conoscersi» deve necessariamente «comporsi di uomini che nascono, vivono e muoiono nei medesimi anni e, amici o nemici, appartengono alla medesima società» (Ferrari 1874, 7-8). Dunque per Ferrari ogni generazione ha una sua funzione storica che ne individua la specificità. Tuttavia, uno dei limiti della sua teoria è che non chiarisce bene né le origini sociali della generazione né l’essenza della sua composizione, anche se intuisce che è necessario travalicare il dato meramente anagrafico. Il secondo contributo che viene qui richiamato è particolarmente significativo in quanto si ritiene comunemente che «la prima vera teoria delle generazioni sia opera di Ortega» (Marías 1983, 81). Preliminarmente va osservato che la teoria di Ortega y Gasset (18831955) rappresenta un dato cruciale nell’economia del suo sistema filosofico pur implicando una valutazione sociologica di ampio respiro che resta come impostazione suggestiva anche per lo studioso 43 contemporaneo. A ben guardare Ortega si è preoccupato del tema delle generazioni nel corso di tutta la sua vita. La prima espressione formale di questa teoria, articolata attorno ad una rete di concetti fondamentali la si rintraccia in El tema del nuestro tiempo (1923). Successivamente in La rebeliòn de las masas (1930) viene ripreso e teorizzato l’aspetto specifico della durata della generazione nell’ambito di una concezione del conflitto intergenerazionale che rappresenta una scelta teorica importante, mentre in En torno a Galileo (1933), infine, si ha la formulazione matura della sua teoria generale delle generazioni. Sembra opportuno sottolineare la dimensione sociologica del discorso orteghiano anche se non è possibile prescindere dall’impostazione da filosofo della storia e da filosofo della politica che contraddistingue la sua opera. L’attenzione si rivolge soprattutto alla teoria analitica delle generazioni cioè ad una dottrina che, peraltro, non considera un altro problema rilevante quello della definizione empirica delle generazioni e del metodo più idoneo per stabilirne la serie. Il problema storico delle generazioni ed il problema metodologico del significato che assume l’idea generazionale vengono parzialmente rimossi1 . 1 Tre citazioni ricavate da El tema de nuestro tiempo (Ortega 1966, 145-8) sono paradigmatiche di questo profilo analitico astratto, che è comunque il cuore della prospettiva orteghiana. «Le variazioni della sensibilità vitale, decisive nella storia, si presentano sotto l’aspetto delle generazioni. Una generazione non consiste in un gruppo ristretto di uomini egregi, né in una massa: è come un nuovo corpo sociale integro, con la sua minoranza eletta e la sua moltitudine, che è stato lanciato nell’ambito dell’esistenza con una traiettoria vitale determinata. Il concetto di generazione, compromesso dinamico tra massa ed individuo, è il più importante della storia e, per così dire, il cardine intorno al quale essa compie i suoi movimenti». «Ciascuna generazione rappresenta una certa altezza vitale, da cui si sente l’esistenza in maniera determinata. Se prendiamo l’evoluzione di un popolo nel suo complesso, ognuna delle sue generazioni ci si presenterà come un istante della sua vitalità, come una pulsazione della sua potenza storica. Ogni pulsazione ha una sua fisionomia particolare, unica, è un battito non intercambiabile nel ritmo del polso, alla stessa maniera di una nota nello svolgersi di una melodia. In tal modo possiamo immaginare ogni generazione sotto forma di proiettile biologico lanciato nello spazio in un attimo preciso, con un impulso ed una traiettoria prestabiliti». «Le generazioni nascono le une dalle altre, sicché quella nuova incontra le forme che la precedente ha già dato all’esistenza. Per ciascuna generazione, vivere è dunque un impegno su due piani, uno dei quali consiste nel ricevere quello che è stato già vissuto dalla precedente: idee, valutazioni, istituzioni, ecc.; l’altro, nel lasciare fluire la propria spontaneità». 44 Le generazioni, in altre parole, rappresentano uno strumento sociale che consente la realizzazione del mutamento storico. All’interno della generazione come “corpo sociale” è sociologicamente distinguibile un’élite ed una massa, ma la generazione come entità sociale travalica il senso pur profondo di questa distinzione nell’adempimento della sua funzione di perno imprescindibile del mutamento. La teoria orteghiana propone, poi, un’ulteriore classificazione tra epoche cumulative che registrano una perfetta sintonia tra vecchie e nuove generazioni ed epoche polemiche in cui, invece, le nuove generazioni sono impegnate nel ribaltamento dello status quo e nell’eliminazione dei vecchi per attuare innovazioni radicali. Caduca a fronte dei condizionamenti sociali e demografici contemporanei che hanno variato la definizione e fin il ritmo della vita umana appare, poi, la suddivisione che Ortega ci propone in cinque periodi, ciascuno di quindici anni per un totale complessivo di settantacinque, cui corrisponderebbe l’intero ciclo di vita. L’infanzia prende i primi quindici anni; la giovinezza si prende il periodo tra i 15 e i 30 anni (per Ortega si tratta di un’epoca ricettiva nella quale l’attore sociale recepisce passivamente gli impulsi esterni); dai 30 ai 45 anni si ha l’iniziazione cioè un’epoca di gestazione che vede la lotta con la generazione precedente per la presa del potere; dai 45 ai 60 si realizza una condizione di predominio e l’epoca della gestione del potere da parte di chi nella fase antecedente ha lottato per conquistarlo ed ora ha anche il problema di difenderlo dalle nuove generazioni scalpitanti; ed, infine, tra i 60 ed i 75 anni e più si ha la vecchiaia, una condizione in cui la prolungata esperienza può conferire un ruolo di testimonianza che esclude completamente ogni potere reale così come ogni possibilità di partecipare alla competizione tra le generazioni. In breve, la scansione dei cicli generazionali è decisamente importante nell’ambito di una teoria delle generazioni anche se è da valutare criticamente; ma quel che più conta sotto il profilo sociologico è che nell’Europa in questo scorcio di fine secolo la passività dei giovani e l’esclusione integrale dei vecchi dal potere sono entrambe problematiche e meritano un’osservazione più approfondita. Il terzo contributo teorico che merita di essere rivisitato appartiene al pensiero sociologico in senso stretto ed è quello di Karl Mannheim (1893-1957). L’analisi generazionale di Mannheim rappresenta una sorta di pietra angolare su cui si può edificare una 45 moderna teoria sociologica, e dunque meriterebbe una rivisitazione assai più attenta di quella che qui si avanza. La teoria delle generazioni, sviluppata da Mannheim, principalmente nel saggio Das Problem der Generationen pubblicato nel 1928, è per sua esplicita ammissione strettamente legata alle dinamiche tipiche della sfera politica. Questo punto non è stato evidenziato dalla critica che troppo spesso tende a sottolineare le venature marxiane di Mannheim, mentre è lo stesso Mannheim ad usare, in questo ed in altri saggi dedicati alle generazioni ed ai giovani in particolare, un’impostazione secondo la quale è nello studio della politica che la «situazione strutturale degli impulsi sociali decisivi come pure la differenziazione delle generazioni si può cogliere nel modo più evidente» (Mannheim 1974, 410 nota 52 spec.). Mannheim accetta, ovviamente, come dato metastorico il processo di successione delle generazioni ma cerca di analizzarlo sociologicamente in maniera formale per meglio comprendere il ruolo che le generazioni sono in grado di svolgere rispetto alla congiuntura storica e politica che caratterizza la loro formazione. La riflessione mannheimiana, mentre propone per la prima volta una ricognizione delle strutture essenziali del fenomeno generazionale, cerca di chiarire la natura del legame sociale che unisce gli individui in un insieme generazionale e la natura della sua specificità rispetto al fenomeno della formazione di gruppi concreti. Nella fattispecie Mannheim intende chiarire – lo si ribadisce – qual’è il significato sociologico della ininterrotta successione delle generazioni nel tempo. Inoltre, Mannheim sembra preoccuparsi di delineare i confini, piuttosto estesi ovviamente, del concetto di gruppo nell’intento, secondo alcuni dei suoi critici, di dimostrare che l’appartenenza di classe non va concepita come l’unica matrice formativa degli altri gruppi sociali. Mannheim distingue il gruppo concreto (koncrete Gruppe) come la famiglia, dalla generica collocazione sociale (soziale Lagerung). La collocazione allude ad una condizione storico-sociale oggettiva che accomuna alcuni attori sociali. I singoli attori sociali possono anche non avere coscienza degli aspetti comuni che li legano ad altri attori e, comunque sia, la loro collocazione non discende da una loro libera scelta. Il legame sociale che unisce gli appartenenti ad una generazione sarebbe costituito dalla affinità di collocazione fondata sul dato dell’esser nati (e vissuti) in un certo 46 momento ed in una certa epoca. Eppure questo fondamento biologico non è sufficiente – di per sé – a coprire concettualmente la connotazione sociologica del fenomeno generazionale. L’analisi teorica del fenomeno generazionale deve andare al di là del semplice aspetto della collocazione; la collocazione generazionale non è equivalente al legame generazionale. La collocazione generazionale implica delle potenzialità che si possono attuare e sviluppare oppure che possono essere compresse ed annullate. La collocazione implica «uno spazio limitato di esperienze possibili»; ciò nel senso che alla posizione in cui si è collocati socialmente corrisponde una gamma di modalità di interpretazioni della realtà sociale e culturale. Così come da una oggettiva collocazione di classe può emergere una classe con una sua prospettiva di azione politica consapevole, allo stesso modo la coesistenza di alcuni attori con la stessa età può dar vita ad una o più unità di generazione. Le unità di generazione non si formano sullo sfondo di una generica collocazione sociale, è necessario considerare un aspetto sociologico più specifico che è per l’appunto quello del legame generazionale o connessione di generazione (Generationszusammenhang). Il legame generazionale implica un dato ulteriore e cruciale, «si potrebbe definire questo nesso semplicemente come una partecipazione ai destini comuni di questa unità storico-sociale» particolarissima che è l’appartenenza alla stessa generazione. Questo aspetto meriterebbe un approfondimento sociologico non facile da esperire. Il legame generazionale implica il dato ineluttabile che gli attori sono nati in un contesto storico e culturale omogeneo, ma pure che partecipano ad un “comune destino” – secondo la terminologia di Heidegger esplicitamente evocata da Mannheim. Il legame di generazione allude, vale la pena di sottolinearlo, alla possibilità che gli attori appartenenti alla stessa generazione partecipino con piena coscienza e responsabilità ai problemi del loro tempo. In particolare, poi, va detto che la partecipazione ai problemi politici caratteristici di un’epoca crea indubbiamente un legame di generazione ma non impedisce certo che esista una diversità di punti di vista e che la diversità dei punti di vista si traduca in una pluralità di unità di generazioni. Questo dato è particolarmente rilevante e dimostra l’importanza di affrontare la questione delle generazioni da un’angolazione sociologica. I giovani della metropoli ed i giovani di campa47 gna, nati nello stesso periodo, sono indubbiamente affini sotto il profilo della collocazione generazionale eppure, non per questo fanno un’esperienza di vita basata sul legame di generazione perché non vivono gli stessi problemi e non hanno un destino comune. In altre parole, secondo questo esempio portato proprio da Mannheim, il contesto di socializzazione con le sue particolarità induce a percorsi di vita peculiari. Oggi, in una situazione di tendenziale globalizzazione assistiamo ad una pluralità di universi giovanili che solo in apparenza possono esser percepiti come un tutto omogeneo ed indistinto, anche se tra questi diversi universi esistono nuovi ed interessanti aspetti di convergenza. E’ necessario riflettere, poi, sull’ulteriore livello di esperienza tramite cui si manifesta l’appartenenza generazionale; Mannheim definisce questo livello: unità di generazione. L’unità di generazione rappresenta una forma di unione più concreta, anche sotto il profilo politico, di quella che viene espressa al livello, più generale, del legame di generazione. Mannheim precisa con grande chiarezza la specificità di questo livello: «la gioventù che è orientata in base alla stessa problematica storica attuale vive in un ‘legame di generazione’; i gruppi che elaborano queste esperienze all’interno dello stesso legame di generazione in modo di volta in volta diverso, formano diverse ‘unità di generazione’ nell’ambito dello stesso legame di generazione» (Mannheim 1974, 353). Il punto è cruciale per l’elaborazione concettuale relativa alle generazioni politiche. Da uno stesso legame di generazione possono emergere più unità di generazione, con punti di vista del tutto differenti talché il nucleo che dà compattezza e forza ad un’unità di generazione è rintracciabile – idealtipicamente – nelle intenzioni di base (Grundintentionen) e nei principi formativi (Gestaltungsprinzipen) che rappresentano i presupposti della socializzazione politica ed il fondamento di una comune Weltanschauung da cui possono poi derivare comportamenti congruenti, tesi all’innovazione oppure alla conservazione. Questi principi attivi – che potremmo denominare valori politici, anche se Mannheim non arriva a questa puntualizzazione terminologica – tuttavia non mettono radici né si sviluppano nell’ambito delle unità di generazione bensì in ambiti ancora più ristretti cioè nell’ambito di gruppi concreti ove si intrecciano dei legami effettivi e dove si verifica un’interazione diretta. La dinamica generazionale va quindi interpretata in stretta 48 connessione con la configurazione assunta dalla congiuntura storica ed ideologica nella quale i gruppi concreti come le famiglie, le associazioni e i partiti si sono formati ed attivati. Il rapporto tra generazioni e politica viene mediato dalla storia e dalle spiegazioni del mondo che le generazioni elaborano nel corso della esperienza della società del loro tempo. Naturalmente la teoria di Mannheim, come ogni altra teoria, ha un suo spazio e dei suoi confini che la critica ha individuato. Mannheim, come s’è visto prende le distanze dall’approccio positivista ma pure da ogni altra impostazione che rimuova dalle sue prospettive analitiche l’influenza delle strutture socio-culturali. Ciò nonostante egli stesso «si limita ad operare un generico richiamo alla dinamica dell’esperienza ed al rapporto di tensione (Spannungsverhaltnis) che i gruppi con le proprie Weltanschauungen instaurano ed alimentano». Ed ancora: «il ricorso alle intenzioni di base ed ai principi formativi, quali dati socializzanti, risulta troppo vago ed incerto, ed allo studioso che intenda spostarsi sul terreno della sociologia storica, per conoscere le fasi di passaggio da una semplice posizione di generazione ad una generazione come unità, manca qualsiasi criterio definito e preciso; ed anzi egli rischia di non ricevere alcun lume sull’origine stessa di quelle intenzioni e di quei principi, nonché sui motivi che spingono i giovani ad aderire a certi sistemi di pensiero ed a potenziarne gli aspetti» (Corradini 1976, 168-9). A questo punto possiamo osservare che è evidente l’importanza di un’articolazione analitica – in termini sociologici – delle differenze e delle interdipendenze che intercorrono fra collocazione della generazione, legame della generazione ed unità della generazione. Lo sforzo analitico di Mannheim inquadra teoricamente il problema – definendo un’utile tappa anche per l’analisi sociologica contemporanea – e lascia poi ad altri il compito di sviluppare ulteriormente una teoria sociologica delle generazioni politiche. Alcuni dati sono però latenti nel suo contributo e meritano di essere posti in maggiore evidenza. Ad esempio, è sulla scia della sua analisi che si può stabilire, come un punto di partenza della ricerca empirica, che all’interno di ogni generazione convivono più unità generazionali, vale a dire gruppi di individui che comparano le loro diverse e peculiari percezioni della congiuntura politica nella quale vivono. Queste diverse unità generazionali hanno in comune solo la preoccupazione per il tipo di sviluppo che intra49 prenderà il loro periodo storico, ma ciò che merita di essere osservato dal punto di vista della ricerca empirica è che una generazione è una realtà plurima (ed anche stratificata al suo interno, soprattutto sul piano delle motivazioni a partecipare politicamente). In sintesi: i modelli sociologici che vengono usualmente adottati dalla sociologia politica possono essere letti nella loro problematicità perché spiegano la generazione con il ricorso a fattori come età, coorte e periodo che sono piuttosto ambigui. Come mostra la sociologia delle generazioni proposta da Mannheim: a) l’età non definisce affatto una generazione; ciò che la definisce, invece, è la comune esperienza. Ciò significa che un individuo può far parte di una generazione senza partecipare della stessa età; b) la coorte non è la generazione ma coincide con un semplice aggregato di individui che hanno in comune un dato temporale; la generazione è qualche cosa di più e di diverso in quanto presuppone una coscienza di gruppo; c)la generazione politica, poi, si definisce anche in funzione del possesso di una memoria collettiva omogenea filtrata dalle unità generazionali cui hanno appartenuto gli individui che la formano materialmente (Devriese 1989, 16). Ma con questa osservazione critica si esce – forse – dal campo di analisi rigorosamente e formalmente sociologico tracciato da Mannheim il quale tuttavia, non va dimenticato, faceva ricorso al concetto aristotelico di entelechia, rielaborato da Wilhelm Pinder, al fine di individuare l’unicità di una generazione. L’entelechia di ogni generazione esprime l’unità e l’unicità del suo “fine interiore”, il suo senso della vita e la sua concezione del mondo. La tensione verso il telos politico specifico di una data generazione la individua nel tempo come un gruppo che sa e che vuole tradurre socialmente in forma concreta la sua visione del mondo, caratterizzando così la sua epoca. L’entelechia delle generazioni e l’unità generazionale che essa richiama ci riconduce (con Pinder) all’unità stilistica che segna un movimento artistico, ma la concezione mannheimiana va ben al di là di questo aspetto proprio perché cerca di rintracciare il significato profondo dell’unità della generazione in un processo culturale, sociale e politico più ampio. Lo sviluppo successivo dell’analisi generazionale ha un debito importante con Mannheim perché gli studi sociologici più recenti si sono fondati su alcuni aspetti tipici dell’impostazione mannheimiana che appaiono a tutt’oggi imprescindibili, anche se 50 reclamano un aggiornamento empirico e degli adattamenti metodologici specifici caso per caso; essi sono, principalmente: a)l’influenza che esercita il periodo storico in cui nasce una generazione; b)il rapporto tra ritmi generazionali e processi di mutamento sociale, talché dove più rapido diventa il tasso di mutamento sociale più rapido diventa l’avvicendamento di nuove generazioni; c)la stabilità della visione del mondo che si costituisce nella prima giovinezza. In questo modo Mannheim ci apre delle prospettive sulla valenza euristica del concetto di generazione politica, sia perché lo svincola dai suoi condizionamenti anagrafici e biologici sia perché ne conferma la definizione in termini di un attore collettivo consapevole che, oltre ad imprimere il suo segno su un’epoca, assume una centralità per lo studio del mutamento sociale concepito come mutamento politico. 3. La generazione politica nella sociologia contemporanea Il mondo della sociologia contemporanea è stato per molto tempo refrattario all’uso del concetto di generazione politica. Anche lo struttural-funzionalismo, che ha pur proposto come suo pilastro teorico lo studio del processo di socializzazione, ha quasi ignorato questo concetto, prova ne sia il saggio di Talcott Parsons Age and Sex in Social Structure (1949) ove il riferimento alle generazioni è sviluppato unicamente in una chiave comportamentale senza valutare l’incidenza politica del senso di appartenenza ad un gruppo d’età e senza alcun interesse per la ricostruzione sociologica degli effetti politici di una forma mentis e di uno stile generazionale. Questa impostazione, che rimuove il concetto di generazione dalle ricerche sui giovani effettuate da Linton, da Davis e da altri funzionalisti, esercita un effetto inibitorio saldandosi con la scarsa influenza avuta dal lavoro di Mannheim. Il saggio di Mannheim sulle generazioni penetra, infatti, assai lentamente negli Stati Uniti tramite alcuni studiosi come Sigmund Neumann e Rudolf Heberle emigrati dalla Germania negli anni Trenta e verrà tradotto per il pubblico americano solo nel 1952. Sarà proprio Heberle a rilanciare in forma forte, nel 1951, il concetto di generazione politica con esplicito riferimento agli studi di François Mentré e di Mannheim. Heberle rileva le sovrapposizioni e le differenze che 51 sussistono tra generazione biologica e generazione intesa in senso sociologico. Egli propone la seguente definizione, assai semplificata, di generazione: «una generazione è formata da contemporanei approssimativamente della stessa età». Laddove con il termine età non si intende l’età anagrafica in senso stretto ma l’età segnata dall’esperienza e dal calendario degli avvenimenti. «Una generazione sociale non può essere definita in termini biologici o nei termini di gruppi di età definiti, ma piuttosto nei termini di esperienze, sentimenti ed idee comuni e collegati. Una generazione è pertanto un nuovo modo di sentire e di percepire la vita, che si pone in contrasto con il modo precedente o almeno ne differisce. Una generazione è un fenomeno morale e mentale collettivo. I membri di una generazione si sentono legati da una comunanza di punti di vista, credenze, desideri» (Heberle 1951, 119, c.m.). Le generazioni agirebbero come una sorta di matrice di mutamento sociale allorché reagiscono, come attori collettivi, «ad esperienze decisive, politicamente rilevanti». In Heberle, come per Mannheim, una generazione in senso proprio, dal punto di vista sociologico, è dunque una generazione politica. La caratterizzazione sociale di una generazione viene fatta dipendere dal fatto che un insieme di persone – che hanno all’incirca la stessa età anagrafica – hanno convissuto alcuni eventi politicamente cruciali e sulla base di un’esperienza di questo tipo tentano di innovare il sistema sociale nel quale sono nate e cresciute. Vediamo ora alcune più recenti definizioni di generazione politica nell’intento di evidenziare ulteriormente dimensioni e significato di questo concetto. Le definizioni proposte, tutt’altro che apparentabili, hanno solo un valore esemplificativo. Esse mostrano l’utilità di un lavoro di classificazione sistematico da sviluppare in altra sede, finalizzato alla definizione di una tipologia accurata e forse persino alla formulazione di una definizione teoricamente più solida. Qui ci si limita a presentare definizioni generiche e definizioni che sono incentrate sulla dimensione conflittuale, nonché a sottolineare alcuni elementi cruciali e ricorrenti. «Una generazione politica è formata da un gruppo di individui che ha fatto le stesse esperienze storiche fondamentali nel corso dei propri anni formativi. Una generazione siffatta troverà difficile se non impossibile comunicare politicamente con le generazioni precedenti e con quelle successive» (Rintala 1968, 93). «Per generazio52 ne politica si intendono quei membri di un gruppo di età o coorte che – confrontati con determinati eventi chiave – sono giunti ad una contrapposizione consapevole, sulla base di idee affini con le idee guida ed i valori tipici dell’ordine politico in cui sono cresciuti» (Fogt 1982, 21). «Si ha una generazione politica allorquando un gruppo di età storico si mobilita per produrre cambiamento sociale o politico...Una generazione politica sopraggiunge quando l’età si correla al comportamento politico collettivo» (Braungart e Braungart 1989, 9). La comparsa di una generazione politica, quasi tutti gli autori sono concordi, si lega strettamente ad un evento decisivo. Sull’evento come fattore determinante delle generazione politica si sviluppano una serie di considerazioni che in questa sede è necessario ridurre a sintesi. Prima di tutto gli eventi non sono facilmente classificabili per tipi; anche nelle surveys si parla di evento decisivo con riferimento ad una pluralità di avvenimenti, ad esempio: la Seconda Guerra Mondiale, la Resistenza, i Fatti di Ungheria, il Maggio 1968, il terrorismo degli anni Ottanta, Tangentopoli e via dicendo. Per il sociologo non ha senso parlare di eventi storici avendo riguardo al loro succedersi nel tempo guardando ai fatti, quel che connota come “storico” un evento è invece la sua significatività per un gruppo o per più gruppi o per l’intera società. Questo carattere distacca l’evento in questione dal flusso indistinto e continuo degli avvenimenti e gli conferisce una peculiarità sociale oltreché temporale. Detto forse meglio: non è l’avvenimento in sé ad originare una generazione politica quanto la sua rielaborazione sociale e la sua ricostruzione nella memoria collettiva di un gruppo. L’elaborazione sociale del significato delle esperienze è all’origine della costituzione delle generazioni. Dalla elaborazione degli eventi come eventi significativi per la definizione di un’identità politica si diparte sia la loro qualificazione di “eventi storici epocali” sia la costituzione di un determinato gruppo di età che si organizza culturalmente ed agisce come generazione politica qualificata dall’elaborazione di quegli stessi eventi. Benché l’impatto di un evento decisivo ed epocale non si confini sempre e necessariamente ad una classe di età particolare ma si estenda a tutte le classi di età i giovani ne dànno, tuttavia, una rielaborazione specifica che senz’altro è influenzata anche dalla loro posizione nel ciclo della vita. I giovani sono degli attori so53 ciali che hanno un livello di chance di vita potenziale assai alto e dunque possono anche permettersi di investire le loro energie per un progetto politico radicalmente innovativo. Va da sé che un evento storico di grande portata segna tutte le generazioni vecchie e nuove; ma è anche altrettanto evidente che esso viene percepito dai singoli attori in relazione ad una condizione diversa e specifica. Per un individuo maturo, sperimentato, l’evento in questione si colloca, quasi sempre, in una serie di eventi già noti; per un giovane, invece, può esser percepito come una prima importante, forse definitiva, esperienza che diventa una sorta di pietra angolare in riferimento alla quale vale la pena di costruire un codice di comportamento etico e politico e poi applicarlo, anche in modo radicale, nell’ambito di un progetto politico dalle ampie prospettive. In linea di massima, gli studiosi affermano che per la formazione degli orientamenti politici sia cruciale il periodo che va dai 17 ai 25 anni. Nel corso di questo periodo si costruirebbero in parallelo l’identità sociale e la visione politica della vita. Sarebbe inoltre implicito nell’approccio generazionale alla politica l’assunto che gli atteggiamenti politici individuali si formino nella giovinezza e non cambino per il resto della vita (Rintala 1968, 93). Le ipotesi ora enunciate e in particolare il termine a quo e il termine ad quem hanno un valore relativo e convenzionale: come dire che reclamano delle verifiche storicamente e sociologicamente tutte da attuare. E’ probabile che un gruppo che ha un’età ed un’esperienza formativa omogenea, realizzata sotto l’influsso degli stessi eventi storici, non riesca a comunicare agevolmente con la generazione precedente che ha subìto l’influsso di altre circostanze: è questa la fonte principale della differenza generazionale che può anche scatenare prima distanza e separazione e poi conflitto aperto tra le generazioni. Questo esito non è però sempre necessario; la casistica generazionale è straordinariamente varia sotto il profilo storico – oltreché essere condizionata da variabili specifiche al sistema politico considerato – che può, ad esempio, promuovere delle politiche per la gioventù dagli effetti profondamente integratori. Lo stesso avvenimento si riflette in un’interpretazione differenziata a seconda della caratterizzazione sociale degli individui e, naturalmente, della loro età. Si spiega così come uno stesso evento possa segnare per sempre un’intera generazione – il termine segnare è quanto mai pertinente sul piano semantico (Devriese 1989, 54 12) – mentre può lasciare completamente indifferente un’altra generazione oppure una parte degli individui che appartengono alla stessa generazione. Non va tuttavia sottaciuto che alcuni grandi eventi possono travalicare le barriere di età (e di esperienza di vita) che separano le generazioni e, all’opposto, farle convergere in una valutazione e in un tipo di atteggiamento politico comune (si pensi al crollo del Muro di Berlino e alle conseguenti revisioni ideologiche che si sono manifestate in ambiti politici lontani anche sul piano generazionale). Ciò mostra che ci si muove nell’ambito di un terreno di ricerca straordinariamente vario e piuttosto incerto nella sua definizione. Usualmente all’interno di uno stesso ciclo politico si presentano ed agiscono sempre più di due generazioni. L’ipotesi che solo due generazioni partecipino al ciclo politico e si confrontino tra di loro soffre di un eccesso di semplificazione. Il mutamento politico, in una società complessa come la società contemporanea, non attende per attuarsi che il potere passi dagli adulti-anziani agli adultigiovani o addirittura ai giovani. La questione generazionale non può essere ridotta al rapporto tra genitori e figli anche se si tratta di un rapporto da sempre cruciale. Chi fa ricerca non può, come avviene non di rado, considerare uno scenario politico limitato a sole due generazioni perché impostare le cose in questo modo significa partire dal postulato, assai problematico, che gli adulti siano sempre e per forza conservatori e che i giovani siano a tutti i costi progressisti (Rintala 1968, 92). Vale la pena di ricordare che, a questo stesso proposito, Karl Mannheim molto acutamente scriveva: «La gioventù non è per natura né progressiva né conservatrice, ma è una potenzialità pronta a qualsiasi nuovo passo (...) Nel linguaggio del sociologo esser giovane significa soprattutto essere un uomo che vive al margine, essere sotto molti aspetti un outsider (...) Naturalmente questa condizione da outsider è soltanto una potenzialità e dipende in gran parte dal modo di maneggiare e dirigere le influenze che vengono dall’esterno, se questa potenzialità sarà soppressa o mobilitata ed integrata in un movimento (...) La gioventù è una parte importante di quelle riserve latenti che sono presenti in ogni società. Dipende dalla struttura sociale se quelle riserve, e quali di esse, sono mobilitate ed integrate in una funzione (...) Il fattore particolare che rende il giovane uno degli elementi positivi più importanti per un nuovo passo della società 55 è che egli non accetta come dato l’ordine stabilito e non ha interessi investiti o nel suo ordine economico o in quello strutturale. Infine le tradizionali società statiche o che mutano lentamente fanno a meno della mobilitazione e dell’integrazione di queste risorse. Esse staranno persino attente a soffocare queste potenzialità, mentre una società dinamica è costretta presto o tardi a chiamare avanti queste risorse latenti, e in molti casi persino ad organizzarle» (Mannheim 1951, 60-62). 4. Come operativizzare il concetto di generazione politica L’operativizzazione del concetto di generazione politica e quindi il suo impiego come strumento per l’analisi empirica deve tenere conto delle molteplici dimensioni implicate nel concetto. Ragionando in una forma schematica si può dire che quando usiamo l’espressione “generazione politica” ci riferiamo quantomeno a tre ordini di variabili indipendenti; il cambiamento o la stabilità negli atteggiamenti politici possono essere il risultato di tre variabili: l’effetto del corso della vita, l’effetto di coorte, l’effetto di periodo (Attias-Donfut 1988, 148-162). L’effetto del corso della vita o effetto di età si riferisce all’influenza che la collocazione dell’individuo in una certa fase del suo ciclo di vita (l’esser giovane, adulto o anziano) può avere sui suoi comportamenti politici. E’ questo, ad esempio, il fattore cui Eisenstadt riporta fondamentalmente la spiegazione dei conflitti tra le generazioni (giovani vs. adulti). L’effetto di coorte fa invece riferimento all’influenza del periodo di socializzazione e sostiene che questa influenza perdura al di là della fase giovanile del ciclo di vita. L’individuo, in altre parole, forma la propria identità politica ed i propri orientamenti politici di base nella prima fase della vita e li mantiene successivamente inalterati passando dalla giovinezza alla età adulta ed infine alla vecchiaia. Per una generazione avere esperimentato la propria socializzazione politica in un certo periodo e a contatto con certi eventi produrrà una comunanza di orientamenti che rimarrà inalterata nel tempo. L’effetto di periodo si riferisce, invece, ad eventi e/o tendenze peculiari di un determinato periodo storico che influenzano tutte le generazioni e non soltanto quelle giovani come può avvenire nel corso di una grande depressione economica. Non è facile, tut56 tavia, distinguere sul piano concreto tra eventi che producono effetti di coorte ed eventi che producono effetti di periodo. La Seconda Guerra Mondiale è, ad esempio, un evento che ha prodotto effetti di coorte ed effetti di periodo. Sono stati proposti diversi metodi in grado di misurare e di descrivere questi tre tipi di effetti. Il modello Cross-Sectional è notoriamente il più semplice. Si tratta di raccogliere e di confrontare gli atteggiamenti di diverse classi di età, entro un dato periodo. In questo caso la generazione viene intesa come l’insieme di individui che hanno la stessa età in un dato momento. In genere, gli individui vengono aggregati in gruppi formati da classi di nove anni: 21-30; 31-40; 41-50 etc. Con questo metodo si mettono in evidenza le differenze “generazionali” ma non si perviene a delle spiegazioni univoche su quale sia il tipo di effetto prevalente. Le differenze riscontrate tra i giovani e gli adulti possono essere collegate alle diverse fasi del ciclo di vita ma nulla esclude che siano interpretabili come risultato di effetti di coorte o di periodo. Del resto Inglehart ha usato questo metodo ma ha ricondotto le differenze riscontrate tra le fasce di età ad effetti di coorte piuttosto che di ciclo di vita e ha assunto queste differenze come prova indiretta del diverso periodo di socializzazione. I metodi ,un poco più sofisticati, Longitudinal Sequence e Time-Series permettono di vedere come e in che misura cambia o non cambia nel corso del tempo l’atteggiamento politico di una generazione. Questi metodi hanno il vantaggio di potere isolare gli effetti del ciclo di vita dagli effetti di coorte. Un campione di nati in un certo arco di tempo, ad esempio dieci anni, viene seguito nel suo ciclo di vita (Longitudinal Sequence) oppure si estraggono diversi campioni nati in un certo periodo e vengono indagati nei loro atteggiamenti politici (TimeSeries). In ambo i casi si ottiene come risultato sia di seguire una generazione nel suo invecchiamento sia di poter confrontare le generazioni fra di loro. Esiste poi il problema di specificare ulteriormente le dimensioni costitutive di una generazione politica; di solito l’analisi sociologica seguendo un itinerario un poco manualistico tiene conto di tre aspetti interdipendenti: l’ampiezza della generazione in termini di membership; la sua durata in termini di intervallo temporale; il suo territorio, vale a dire il suo ambito spaziale di espressione. Ogni generazione politica varia in relazione al numero dei 57 suoi componenti, come qualsiasi altro gruppo sociale. Si è già detto che gli eventi storici che producono quel particolare legame che fa una generazione politica non sono vissuti da tutti i membri di una stessa coorte d’età con la stessa intensità; così come quegli eventi politici che una generazione politica determina con la sua azione specifica vedono una partecipazione ed un impegno politico assai diversificato2. In politica ovviamente la quantità ha un peso specifico sui generis: le masse e le élites hanno un’influenza ciclicamente differenziata. Il ruolo delle élites è decisivo anche all’interno delle generazioni politiche ma l’influenza delle élites si misura anche in relazione al numero di coloro che fanno propri i valori e le indicazioni di comportamento politico provenienti dalle avanguardie. Sembra indubbio che gli effetti del movimento del ‘68 hanno travalicato i confini della minoranza attiva per coinvolgere un’intera generazione. Al problema della membership di una generazione politica si lega un problema di metodologia della ricerca, specifico tra i tanti che questa prima dimensione può comportare. L’ampiezza di una generazione politica dipende, tuttavia, anche dai confini temporali e spaziali che caratterizzano un evento storico. Così come l’unicità di quello stesso evento incide in maniera decisiva nell’agevolare oppure nell’ostacolare la comunicazione tra una generazione politica quelle che l’hanno preceduta e quelle che la seguiranno. E’ utile poi, anche se non è agevole, fissare dei confini temporali che segnano l’inizio e la fine di una generazione politica; lo stretto legame che intercorre fra generazione politica e mutamento sociale presuppone che si tenga conto di un tasso temporale di mutamento che regola anche la durata della generazione politica nel tempo. Sulla lunga scia aperta da Erodoto si è diffusa quasi stabilmente l’idea che si parla di generazione alludendo all’intervallo di tempo che è necessario affinché i figli sostituiscano i padri nei loro ruoli e nelle loro funzioni sociali. Questo intervallo oscilla tra Un esempio: la generazione del famoso ‘68 italiano era formata da giovani socializzati politicamente negli anni del “miracolo economico”. Solo una piccola minoranza ha partecipatao all’esperienza del movimento studentesco e della contestazione: nel 1970, all’apice della protesta, la quota di giovani tra i 16 e i 24 anni che si dichiarava politicamente impegnata non superava il 7%. Per un approfondimento si rinvia alle considerazioni sul caso italiano, infra. 2 58 i 30 e i 33 anni; ogni secolo comprenderebbe tre epoche e tre generazioni. L’ipotesi è facile da smentire; non ha senso comune pretendere che ogni generazione biologica lasci un’impronta indelebile innovando la propria epoca. C’è quasi sempre una sfasatura tra generazione politica e generazione biologica. Le generazioni si succedono incessantemente così come avviene per le generazioni politiche, ma con un ritmo che non ha una regolarità necessaria e dunque, a maggior ragione, diventa importante fissare i confini temporali entro cui sorge, opera politicamente e scompare una generazione. Non ha tuttavia molto senso proporre, come si trattasse di una legge, un ambito temporale standard per ciascuna generazione. In linea di massima si può essere d’accordo con Bennet M. Berger (1960) che tende a relativizzare la rilevanza del problema della durata di una generazione con i seguenti argomenti: a) le età di un individuo, vale a dire il suo essere giovane, adulto, vecchio appaiono regolate da norme di status o di gruppo e dunque dipendono dalla sua condizione sociale e non solo temporale; b) le generazioni sono delle espressioni culturalmente definite, vale a dire sono l’esito soprattutto di una lotta ideologica cioè di un processo che non ha una durata temporale prevedibile. Sta di fatto, ed è un fenomeno che è sotto gli occhi di tutti, che oggi si assiste al prolungamento progressivo della giovinezza. Uno degli effetti di questa tendenza culturale è che alcuni atteggiamenti tipici della condizione giovanile vengono tollerati e socialmente apprezzati, anche quando ad adottare un comportamento poco congruo con lo status corrispondente siano individui in età chiaramente adulta. In altre parole la popolazione “giovane” tende a dilatarsi in un mondo che anagraficamente tende ad invecchiare sempre più. La nostra epoca, dunque, tende ad allungare certe fasi della vita e a modificare per quanto possibile i condizionamenti biologici ma pure quelli sociali. Il succedersi delle generazioni si intreccia con il mutamento culturale, ne deriva un’instabilità nella mentalità delle giovani generazioni che ha importanti riflessi politici ma, che soprattutto, rende più complicata l’identificazione di una specifica generazione e della sua durata. I nostri contemporanei si stratificano in una forma multipla: nel passato c’erano delle generazioni sociologicamente ben distinte e corpose quantitativamente; oggi abbiamo uno strato di giovani che si assottiglia demograficamente 59 ma che prolunga nel tempo il suo status senza entrare nella condizione adulta nei tempi usuali. Al tempo stesso gli anziani diventano sempre più numerosi ma non vogliono abbandonare la condizione attiva ed uno stile di vita che li mantenga vicini il più possibile alle generazioni successive. E’ evidente la mancanza di ricerche che valutino empiricamente gli effetti politici di questa particolare divaricazione generazionale. La generazione politica, poi, ha un suo radicamento spaziale che, a seconda delle epoche, ha un’estensione ed un’importanza assai varia. La coesistenza temporale non ha comportato comunicazione politica fra le generazioni delle diverse società-Stato per molti secoli. Un evento storico relativamente recente e di ampia portata come la Prima Guerra Mondiale è da considerarsi un fenomeno prettamente europeo che ha comportato la creazione di una nuova generazione politica europea mentre le altre giovani generazioni formatesi negli stessi anni, ad esempio in Asia, non hanno dato molto peso a questo evento. Oggi lo sviluppo tecnologico e l’infittirsi della comunicazione, la formazione di esperienze politiche e culturali sovranazionali e la tendenza alla globalizzazione incoraggiano potentemente un processo di omogeneizzazione e di avvicinamento delle generazioni politiche indipendentemente dalle appartenenze territoriali originarie. Il “1968” rappresenta un buon esempio di come questo processo agisca come dato caratteristico del modo di essere delle giovani generazioni politiche del nostro tempo da Berkeley a Parigi, da Roma a Praga. Così come la strage di Piazza Tien a Men a Pechino collega tra loro i giovani, specialmente studenti, di tutto il mondo e li fa prendere coscienza di una loro identità politica distinta. La crescente interdipendenza dei processi sociali, politici ed economici a livello mondiale incoraggia la caduta delle barriere spaziali e promuove la formazione di una generazione politica potenzialmente globale aprendo, ovviamente, nuovi ed interessanti problemi di ricerca sul tema. Ancora: si parla di una generazione dell’immagine avendo riguardo ad una generazione che vive immersa in un mondo prodotto dai mezzi di informazione di massa. I giovani (ma non solo loro naturalmente) vivono attraverso la comunicazione di massa simultaneamente nella totalità del pianeta. Si moltiplicano gli eventi significativi che potrebbero riorientare la progettualità politica giovanile; i massmedia agiscono come strumento potente di omogeneizzazione ma 60 pure di banalizzazione culturale. Quali i riflessi sulle generazioni politiche del nostro tempo? Le giovani generazioni sono omologate nella definizione della loro cultura politica e nella loro azione politica? Le risposte a questi interrogativi sembrano fin troppo sicuramente positive ma le ricerche empiriche non sono ancora capaci di chiarire se esistono delle controtendenze altrettanto potenti prodotte, ad esempio, dalla condizione di insicurezza generalizzata nelle quali molte società hanno posto i giovani. Da queste controtendenze potrebbe anche derivare un processo di disaggregazione che rafforzi le barriere territoriali che sembravano abbattute, alimentando nuovi conflitti di interesse tra giovani generazioni di diverse società-stato. 5. Temi e problemi della generazione politica, oggi La sociologia politica contemporanea si è occupata in maniera discontinua del problema delle generazioni. Quando lo ha fatto ha seguito, quasi sempre, due impostazioni parzialmente complementari. La prima impostazione è incentrata sul tema dei valori e della socializzazione politica. Questa prospettiva cerca di capire secondo quali meccanismi e secondo quali procedure la società integra le nuove generazioni e di conseguenza in che modo si trasmette il patrimonio culturale proprio delle generazioni precedenti nell’ambito di un processo ininterrotto di nuove morti e di nuove vite che potrebbe comportare un’instabilità sociale perenne, una sorta di anomia permanente dovuta al ciclo biologico. Grazie al processo di socializzazione le cose non vanno così, la società si garantisce una continuità intergenerazionale che tuttavia non esclude e che, anzi non di rado, reclama un intervento innovativo da parte delle nuove generazioni per far fronte alle esigenze generali di trasformazione della società stessa. Si tenta in altri termini una risposta all’interrogativo: in che modo e fino a che punto le vecchie generazioni si garantiscono una possibilità di riproduzione della cultura politica che le ha orientate? Tuttavia, nel caso in cui si adotti questa prima impostazione sarebbe assai banale credere che le nuove generazioni aderiscano acriticamente, ed in modo del tutto passivo, alla pressione culturale che proviene dalle generazioni che le hanno precedute. La dinamica di adattamento dei gio61 vani alla cultura politica degli anziani è assai articolata (anche nei casi in cui il sistema non manifesti delle crisi e non esperimenti la protesta e la mobilitazione sociale dei giovani) e lo studio sociologico di questo processo merita un lavoro di indagine attento, diversificato caso per caso. La seconda impostazione, invece, è di carattere conflittualista ed è unicamente mirata ad interpretare l’apporto che le nuove generazioni danno al cambiamento politico e sociale. Questa impostazione implica una particolare attenzione per le fratture e per le crisi che separano le differenti generazioni. In questo modo si attira l’attenzione dello studioso sull’area tematica del conflitto intergenerazionale, un’area che peraltro ha anch’essa a che fare con lo studio dei valori e dei valori politici specificatamente. Il conflitto intergenerazionale consiste, in buona misura, in un processo di delegittimazione dei membri di una generazione da parte di quelli della generazione successiva che si vogliono sostituire ai precedenti nelle posizioni-chiave del sistema sociale ed innescano così un meccanismo di conflitto ricorrente da sempre, anche se non con sicura continuità, nella storia delle società moderne. Questo tipo di conflitto si manifesta adottando espedienti e modalità che variano ovviamente a seconda delle epoche e delle caratteristiche strutturali dei sistemi politici. Merita di essere verificata l’ipotesi secondo cui il conflitto tra le generazioni tende a mantenere in vita certe funzioni fondamentali a livello societario: da un lato così si garantisce alle nuove generazioni uno spazio sociale adeguato, dall’altro lato le generazioni mature ed anziane si impegnano al massimo e danno il meglio di sé per conservare le loro posizioni di potere e di influenza. Va da sé che non ci si può limitare ad un’impostazione analitica eccessivamente formale e che è utile, specialmente nel corso di una ricerca empirica concreta fare riferimento alle caratteristiche più generali di un ciclo storico-politico. La prospettiva generazionale va applicata cum grano salis a cicli specifici, tenendo conto dell’oscillare del pendolo che vede le giovani generazioni spostarsi tra cicli alterni: tra conflitto ed integrazione, tra apatia e partecipazione. Appaiono allora interessanti i casi, frequenti in molte società dell’Europa contemporanea, di giovani generazioni politicamente indifferenti che possono rifarsi acriticamente agli orientamenti “tradizionali” già elaborati dai loro genitori oppure rimuo62 vere quasi completamente la politica dai loro orizzonti di azione pubblica. Qualche esempio rilevante. Nella Germania del secondo Dopoguerra viene pubblicata una importante ricerca di Helmuth Schelsky, Die skeptische Generation (1954) dedicata alla gioventù tedesca fra il 1945 ed il 1954. La democrazia viene percepita impropriamente dai giovani tedeschi d’allora sulla base di un’idea di incondizionata libertà personale che la fa identificare con l’assenza di qualsivoglia forma di costrizione. Il loro atteggiamento viene definito come “apolitico democratico” e corrisponde ad una conoscenza assai limitata delle forme razionali ed astratte della politica. Questo comportamento pre-politico dei giovani tedeschi (comportamento “senza noi”) deve essere visto, secondo Shelsky, come il trasferimento in politica dell’atteggiamento passivo tipico del consumatore ed egli lo spiega in termini di scetticismo pseudo-adulto cioè nei termini di un atteggiamento che prende a prestito le esperienze disincantate degli adulti. Ma va anche considerato, soprattutto ai fini comparativi con gli orientamenti dei giovani contemporanei, che i due aspetti che incidono negativamente sulla rappresentazione della democrazia da parte della gioventù tedesca del Dopoguerra sono il “bisogno di ordine” (la democrazia viene valutata come una forma di disordine) ed il “bisogno di simboli” (cioè l’esigenza di personificare le funzioni politiche che potrebbe anche portare ad uno spostamento su posizioni filoautoritarie) (Schelsky 1954, 451-459). Oggi sembriamo completamente immersi in uno di questi cicli di apatia politica che si situano nell’intervallo tra una generazione politica innovatrice e l’altra. Questi cicli forse sono inevitabili come fasi volano di preparazione all’innovazione. Naturalmente la ricerca empirica potrà intervenire a spiegare il perché le giovani generazioni, quasi ovunque appaiono ripiegate su sé stesse nella ricerca di un’identità che, soprattutto nel periodo dell’adolescenza, sembra sfruttare ogni occasione per impedirsi una maturazione socialmente e politicamente significativa. Le esperienze di aggregazione sociale giovanile sono comunque diversificate nel tempo e dunque anche dal punto di vista della generazione politica è importante individuare empiricamente le soglie di età che segnano i confini tra apatia e partecipazione e addirittura un ingresso in politica (Muxel 1993 e 1996, 84 ss.), così come è importante diagnosticare diverse forme di apatia politica perché gli effetti dell’apatia possono essere 63 di segno molto diverso e non escludere, ad esempio, uno straordinario impegno nelle attività di solidarietà sociale. Vale comunque la pena osservare alcune macrotendenze rilevabili nell’Europa contemporanea che sembrano idonee a valutare il movimento del pendolo delle generazioni politiche, anche se non è facile muoversi sul terreno delle previsioni. Circa il 22% dell’intera popolazione dell’Europa occidentale si può considerare giovane cioè risulta collocata in una fascia d’età tra i 18 e i 30 anni; detto meglio i giovani europei sono oggi circa ottanta milioni. La generazione dei giovani europei di cui si parla ha un patrimonio di esperienze che è piuttosto ridotto e tendenzialmente opaco sotto il profilo politico-sociale. Le grandi crisi degli anni Novanta sono mediate dai mass-media e non vengono partecipate direttamente innescando l’esperienza della militanza spontanea, come era accaduto alla fine degli anni Sessanta e all’inizio degli anni Settanta, né tantomeno trovano delle opportunità di essere rielaborate collettivamente dai giovani nell’ambito di istituzioni fondamentali per la storia della cultura politica europea come i partiti. L’ipotesi sembra convalidata soprattutto per i primi paesi che hanno dato vita alla comunità europea, i cui giovani sono cresciuti all’ombra del Welfare State ed in una condizione di relativa pace sociale e soprattutto di profondo deficit ideologico. A parte i casi della Grecia, della Spagna e del Portogallo che sono casi di tarda democratizzazione, negli altri paesi europei noi constatiamo l’amaro dato della perdita della memoria storica come dato che caratterizza in maniera forte sia i giovani di oggi sia buona parte dei loro genitori e dei loro insegnanti cresciuti negli anni del secondo Dopoguerra e negli anni successivi. La now generation sembra sostenere un aspetto culturale tipico di una parte importante delle società economicamente avanzate che si manifesta a cicli ricorrenti. Ha perso significato per moltissimi l’iscrizione e la militanza di base in un partito; sono pochissimi i giovani che riconoscono ai partiti una capacità di rappresentanza dei loro interessi. Uno studio empirico sui giovani europei promosso dalla Commissione della Unione Europea rivela che i valori maggiormente dichiarati dai giovani appartengono alla categoria dei defensive values: pace, protezione dell’ambiente, diritti umani, libertà di opinione, guerra contro la povertà. Tuttavia il punto-chiave, per le implicazioni che può avere anche sotto il profilo politico, è che un sentimento generale di 64 insicurezza pervade le giovani generazioni nell’Europa di oggi: questo senso di insicurezza ha delle radici profonde, mal decifrabili e non può essere banalmente ed unicamente ricondotto a problemi di carattere economico come la difficoltà di trovare e di mantenere il posto di lavoro. Il declino delle vecchie forme di azione politica approda anche ad una costellazione di valori alternativi di carattere neo-conservatore fatta di rispetto per l’autorità, bisogno di ordine, domanda di disciplina ed intolleranza verso le minoranze. Una lettura analitica dei dati rilevati all’inizio degli anni Novanta dallo studio dell’Eurobarometro sui giovani in Europa consente di identificare ben sei tipi di orientamento giovanile: gli individualisti; i conformisti; i neo-conservatori; i post-materialisti; i Cristiani impegnati; i tradizionalisti. Ci si limita ad osservare che i 4/5 della popolazione giovanile intervistata in Europa si ritrova nei primi tre tipi, vale a dire tra gli individualisti, i conformisti ed i neo-conservatori (Cavalli 1992). In breve il panorama non è roseo e le chances per lo sviluppo di una generazione politica che coltivi, in forme attive e partecipate, i valori democratici come valori prioritari e indiscutibili non sembrano altissime. Un’ulteriore ed ultima osservazione di natura empirica che collega la condizione giovanile contemporanea con la questione della generazione politica si impone. Negli ultimi decenni si constata una dilazione progressiva dei tempi di ingresso in aree istituzionali e comportamentali che usualmente segnavano la definizione sociale dell’età adulta. Si studia per un numero di anni sempre crescente, si conquista un lavoro sempre più tardi, ci si sposa e ci si riproduce in età sempre più avanzata e si lascia la casa dei genitori ad un’età che negli anni Sessanta aveva un giovane padre di allora. C’è poi il dato apicale, rilevato in un’indagine Eurostat del 1997, che riguarda l’Italia ove il 56% dei giovani tra i 25 ed i 29 anni risulta vivere ancora con i genitori. L’abbraccio familiare stringe, inoltre, il 58,5% dei singles tra i 18 ed i 34 anni. Non sappiamo quale relazione si stabilisce tra questa “sindrome familista” e gli orientamenti politici degli stessi giovani, ma i dati non consentono di prevedere a breve termine l’insorgere di una generazione politica orientata alla partecipazione sociale e ad atteggiamenti universalistici. Questa tendenza va comunque qualificata sociologicamente; per alcuni passaggi risulta esser tipica dei giovani degli strati sociali più alti per i quali può esser adeguato parlare 65 di prolungamento della giovinezza. Per altri giovani di estrazione sociale inferiore, con la disoccupazione e con l’abbandono precoce della scuola, si rafforzano invece gli stati di disagio tipici di una condizione sociale segnata dalla instabilità economica e dunque si tratta in realtà dell’anticipazione di un modo di vita che forse sarà sempre lo stesso anche negli anni a venire della vita adulta e poi della vecchiaia. In ambo i casi, sia pure con motivazioni diverse abbiamo una situazione di marginalizzazione dei giovani ed un’assenza troppo prolungata dalle esperienze della vita adulta che vanno comunque fatte se non vogliamo che la nostra società sperimenti i danni di una duplice forma di invecchiamento quello demografico e quello politico. Il vissuto giovanile oggi è caratterizzato in maniera forte dall’attesa e dall’incertezza biografica (Cavalli 1994a, 333). La ricerca si deve chiedere quali sono e saranno i riflessi politici di questa condizione che pare diffusa nella gioventù contemporanea. I giovani, anche al di fuori del loro contesto, oggi non hanno un punto di riferimento politicamente adeguato; il potere appare nell’Europa del Duemila più che mai un affare da adulti. Diversamente dal 1968 i giovani sembrano disinteressati a questo problema, anche le relazioni interne all’area giovanile sembrano poco intense e poco mirate alla costituzione di una generazione politica nel senso classico del termine. Si tratta di un ciclo di breve o di media durata? Sia come sia, ognuna delle impostazioni analitiche ricordate finora propone una serie di tematiche, di concetti e di ipotesi che non è agevole verificare, stanti le rare ricerche disponibili. In particolare si sa che l’impostazione che privilegia lo studio delle dinamiche di trasformazione politica indotte dalle nuove generazioni sottolinea troppo spesso solo la dimensione movimentista e subculturale che caratterizza le giovani generazioni nonché la crisi valoriale che sostiene, in genere, in una forma esplicita e conclamata, il loro progetto di innovazione politica. Le vie che le giovani generazioni intraprendono per affermare una loro visione del mondo e per tentare di trasformarlo, invece, sono varie ed una ricerca sociologica attenta si deve sforzare di vederle e di esplorarle nel contesto specifico. Ad esempio, sono ancora troppo rare, anche se alcune oggi cominciano a vedere la luce, le ricerche sociologiche sui giovani politici, cioè sui giovani che scelgono la carriera da politico di professione (Recchi 1997) e dunque concorrono al mutamento come membri di una generazione politica che usa un canale istituzionale, 66 al cui interno – tra l’altro – le lotte tra le generazioni rappresentano un dato costante, come già Roberto Michels aveva rilevato nella sua classica Sociologia del partito politico (1911). 6. La New Politics, le generazioni e la società postmoderna Prima di presentare alcune osservazioni sul sistema politico italiano adottato come case study cui applicare la specifica chiave interpretativa delineata sopra è forse opportuno fare un primo, sintetico e provvisorio bilancio relativo alla capacità analitica offerta dal concetto di generazione politica. L’analisi generazionale pare idonea ad evidenziare una tendenziale e permanente discontinuità nella storia politica di una società così come a mettere in luce uno dei processi che ne permette la trasformazione. Mannheim nel suo saggio sul problema delle generazioni segue in buona misura questo approccio e lo coniuga con un’impostazione che è, per sua esplicita indicazione, ancorato alla prospettiva analitica propria della sociologia formale. Sembra indubbio che l’impostazione bivalente suggerita da Mannheim vada intrecciata con le altre sopra evocate, in quanto seguendo questo percorso sincretico si potranno promuovere con miglior esito degli studi empirici di sociologia politica applicata a casi storici concreti e si potrà sviluppare un lavoro di carattere storico-comparativo utile per una moderna teoria delle generazioni politiche (Abrams 1983). A questo stesso proposito è appena il caso di ricordare che anche il modello interpretativo del cambiamento culturale e politico elaborato da Ronald Inglehart (1977; 1990; 1996) pone al suo centro il processo di avvicendamento generazionale. La “rivoluzione silenziosa”, un processo di lungo periodo che sta ancora trasformando la società, è il portato di un avvicendamento di generazioni titolari di valori e di atteggiamenti politici differenti: i materialisti vengono sostituiti dai post-materialisti (almeno tendenzialmente) per effetto dell’influenza del contesto storico-sociale nel cui ambito si compie il processo di socializzazione. Come è facile intuire i punti di contatto con la definizione di generazione di Mannheim sono significativi; tuttavia, ci sono anche punti di significativa divergenza. In Inglehart il concetto di generazione sembra declinato nel senso prevalente degli studi nord-americani; la gene67 razione è essenzialmente la coorte dei nati e dei socializzati in un contesto di sicurezza e di benessere tipico dei paesi occidentali industrialmente avanzati. Il patrimonio valoriale che contraddistingue la sindrome generazionale nella postmodernità non assume il profilo di una Weltanschauung ma, più semplicemente, quello di un più diffuso coinvolgimento in un certo tipo di issues postmaterialiste. Il legame generazionale non assume qui uno spessore significativo né dal punto di vista teorico né come dato empirico. In breve Inglehart sembra poco interessato ad una visione generale da sociologo del mutamento; la centralità della svolta postmaterialista non lo induce ad adottare la generazione politica come una chiave interpretativa centrale. Naturalmente si tratta di un’impostazione più che legittima specialmente in uno studioso preoccupato, da quasi sei lustri, di controllare empiricamente un processo vasto e complesso che sta connotando culturalmente la globalizzazione. La generalità del linguaggio e dei concetti proposti da Mannheim sembrano suggerire una gamma più ampia di utilizzazione mentre Inglehart ci propone un modello lineare e chiaro, anche se troppo semplificante, nella individuazione dei meccanismi in gioco nel corso della trasformazione generazionale tipica del nostro tempo. Scott Flanagan (1982 e 1987) disegna un’interpretazione del cambiamento valoriale alternativa a quella di Inglehart. Le scale Authoritarian-Libertarian e la scala materialismo-postmaterialismo vengono indebitamente confuse. Per Flanagan la dimensione Authoritarian-Libertarian è quella che meglio ricalca la distinzione fra le generazioni; il cleavage Authoritarian-Libertarian non va considerato come un prodotto dell’idealismo dei giovani né verrà assorbito con l’avanzare dell’età. L’emergere di nuove generazioni libertarie innesca una reazione dei settori sociali più legati ai valori autoritari; questa tensione provoca, a sua volta, una nuova configurazione della politica che sostituisce la politica tradizionale. La vecchia politica ruotava quasi esclusivamente sulle questioni economiche (mercato, politiche distributive, Stato sociale) e vedeva una divisione cruciale tra la vecchia sinistra che difendeva gli interessi dei lavoratori dipendenti e la vecchia destra che rappresentava gli interessi delle classi medie ed alte. La nuova politica, invece, è il risultato dell’emergere di conflitti legati a delle issues, quali l’enfasi sulla libertà personale, la tolleranza delle 68 minoranze, l’aborto, l’omosessualità, le unioni al di fuori dal matrimonio et similia. Tutte queste issues vengono definite e sostenute dai giovani con la propaganda di valori ad esse consone, l’effetto è quello di provocare un’ostilità di buona parte delle generazioni adulte che si orientano sulla base di valori di segno opposto, connotati da conservatorismo moralistico-religioso. Inglehart, impropriamente, identifica i postmaterialisti con i libertari ed i materialisti con gli autoritari: si tratta di due dimensioni distinte ed indipendenti in quanto è possibile che ci siano dei materialisti libertari e dei postmaterialisti autoritari. E’ la diffusione del benessere che incoraggia il cambiamento dei valori dal materialismo al postmaterialismo e non il cambiamento generazionale. La diffusione del benessere ha consentito alle giovani generazioni di avviare uno scontro sui valori con le vecchie generazioni. La nuova politica è caratterizzata da uno scontro generazionale che riguarda un conflitto non più su questioni economiche ma su problemi valoriali. La ricostruzione di una generazione politica consente comunque di mettere in luce il salto o per lo meno la diversità di orientamenti che esistono tra un modello di azione politica e un modello precedente ed un altro successivo. Va anche ribadito che una generazione politica non adotta necessariamente e sempre come forma di espressione politica quella della mobilitazione e dell’azione rivoluzionaria, in particolare. La scelta di un’azione collettiva di carattere radicale indica, più semplicemente, l’arrivo sulla scena di una coorte che, in forza di esperienze particolari condivise assume un’identità politica distinta e manifesta nel suo comportamento politico una discontinuità rispetto alle generazioni antecedenti (Sirinelli 1989, 68), senza per questo sovvertire integralmente e sempre il quadro nel quale è stata socializzata. L’apporto della nozione di generazione politica appare, poi, di sicura utilità euristica allorquando si voglia ricostruire il livello delle rappresentazioni sociali della cultura politica. Lo studio empirico delle ideologie e delle idee politiche passa agevolmente attraverso il filtro delle generazioni politiche che ne sono gli attori portanti. Vale la pena di osservare che uno studio di questo tipo non si deve limitare allo strato delle generazioni intellettuali, pur fondamentali nella determinazione delle innovazioni politiche e dei progetti relativi. A questo stesso proposito va evocato – 69 ancora una volta – l’insegnamento di Ortega y Gasset. Ortega articola, infatti, il concetto di generazione sottolineandone, segnatamente, la differenziazione interna tra élite e massa, unite tuttavia da una comune esperienza sociale. Se è vero che è l’élite generazionale che agisce da motore del mutamento è solo nella complessa dinamica di confronto e di sostituzione delle generazioni che il processo di mutamento sociale e politico trova la sua compiutezza storica. Ancora: una generazione politica non è un luogo di monocultura politica ma è da considerarsi come uno spazio sociale dove coesistono e dove si confrontano orientamenti politici assai diversificati quasi sempre in competizione. Studiare in che modo e perché un’unità generazionale sappia prevalere sulle altre coeve e sulla generazione antecedente ed inoltre riesca a dare l’imprinting politico di un ciclo storico significa far raggiungere una nuova tappa alla sociologia del mutamento politico. Eppure lo studio in chiave generazionale non è solo questo e non lo si può confinare solo ai movimenti sociali e alle espressioni politiche radicali, più o meno violente. In questo stesso ambito di studio – non è un paradosso – vanno incluse le osservazioni sulla condizione generazionale degli anni Novanta definite, per ora, dalla crescita del disinteresse per la politica tradizionale e dall’emergere di un coinvolgimento alternativo nel sociale e nel privato. La chiave del problema è sociologica e si rintraccia nelle trasformazioni della giovinezza e delle sue definizioni nella società contemporanea nonché nelle particolari influenze che il contesto esterno esercita sulle nuove generazioni. Le generazioni degli anni Novanta marginalizzano l’impegno politico tradizionale; manca una visione forte della politica il che conduce a degli interrogativi sulla qualità e sull’efficacia di una cultura politica democratica. La famiglia di origine, oltreché funzionare da sostegno economico imprescindibile, rappresenta il solo riferimento di senso che la società contemporanea è in grado di offrire ad una quota decisamente maggioritaria di giovani che guarda al proprio futuro in termini di “incertezza” (Donati e Colozzi 1997). Tuttavia ciò che sembra solo negativo in queste generazioni può rappresentare l’anticamera di un cambiamento sociale e di uno sviluppo politico dalle direzioni imprevedibili per la stessa generazione che oggi appartiene al variegato universo dei giovani. 70 7. Il caso italiano: dall’apatia, alla protesta, alla violenza politica. Questo paragrafo presenta una sintetica lettura delle dinamiche di trasformazione del sistema politico italiano determinate, o comunque in vario modo partecipate, dalle generazioni di giovani che si sono succedute dal dopoguerra ad oggi. La prospettiva prescelta, in sintonia dissonante con la tesi sulla crisi irreversibile delle ideologie, si preoccupa di attribuire un’influenza cruciale ai valori politici, alle modalità della socializzazione politica che forma l’identità dei neo-cittadini e al modo concreto in cui i valori politici vengono vissuti da parte dei giovani. Senza la presenza e senza il ricorso a questi valori le chances di riproduzione della cultura politica democratica ed un aspetto fondamentale della convivenza sociale rischierebbero di dissolversi. Nelle pagine che seguono si avvia un tentativo, nemmeno troppo originale ed appena delineato, di fare della sociologia politica applicata alla questione giovanile, così come si propone nell’Italia contemporanea. Il 1968 ha da poco compiuto trent’anni; al di là di una esigenza di bilancio di ciò che quel periodo ha rappresentato per chi lo ha vissuto, sembra indubbio che quella data si ponga come un cippo di confine tra due cicli caratterizzanti il sistema politico italiano: quello della ricostruzione post-bellica e dello sviluppo economico moderno che stabilizza la democrazia partitocratica e quello della pervasività del benessere che, grazie ad un intreccio perverso tra politica, mercato e Stato, apre le porte alla critica del sistema dei partiti e intraprende un percorso, non di rado tortuoso, di revisione della democrazia. Oggi sembra importante cercare di prevedere, anche facendo ricorso alle scienze sociali, le linee di trasformazione della cultura politica democratica proprio perché la democrazia italiana manifesta dei persistenti problemi di consolidamento sul piano interno oltreché non pochi problemi di competizione sul piano esterno. Sono molte le variabili in gioco: una di queste, e non certo tra le meno significative, ha a che fare con la riproduzione della cultura politica e con la formazione delle nuove generazioni di cittadini. La sociologia politica europea e quella italiana, forse più e meglio delle sociologie cugine, si sforzano di verificare l’ipotesi secondo cui il futuro della democrazia potrebbe dipendere non poco dai processi di socializzazione politica che preparano le nuove ge71 nerazioni e, con loro, i membri della classe dirigente. Venendo al caso italiano ed alle vicende politiche che hanno visto i giovani oscillare tra adattamento e protesta, si può dire che i movimenti della fine degli anni Sessanta rappresentano forse il caso più interessante di generazione politica nella storia recente del nostro Paese perché la capacità di mobilitazione espressa a quel tempo aveva raggiunto indubbiamente un livello considerevole, ma soprattutto aveva saputo coinvolgere gruppi di giovani eterogenei sotto il profilo della collocazione sociale. La generazione del ’68 era costituita da giovani nati nell’immediato dopoguerra e cresciuti nella fase del miracolo economico; orbene, questi giovani non sono stati coinvolti, se non per una minoranza, nell’esperienza diretta e continua del movimento. Le ricerche provano, senza ombra di dubbio, che nel 1970, all’apice della protesta, la quota di giovani tra i 16 ed i 24 anni che si dichiarava politicamente impegnata non superava il 7% (in un’inchiesta Doxa del 1969, i giovani studenti che si ritenevano politicamente impegnati erano il 6,2%). Ciononostante gli effetti del movimento hanno travalicato i confini della sua minoranza attiva per coinvolgere un’intera generazione. Anche chi non ha partecipato direttamente all’azione di contestazione antiautoritaria che ha attraversato le istituzioni fondamentali – dalla scuola alla Chiesa, dai partiti alla famiglia – ha condiviso, magari rielaborandolo in una forma meno radicale, il messaggio di matrice movimentista ed ha rivisto il modello di comportamento che si ispirava alla cultura politica tradizionalista messa in discussione dal movimento. L’analisi in termini di differenziazione interna alla generazione politica potrebbe comunque essere ulteriormente approfondita; si deve almeno citare il dato riguardante le differenze di genere che hanno acquistato all’interno delle generazioni politiche dal ’68 in poi uno spazio progressivamente più ampio, traducendosi spesso in orientamenti politici di segno fortemente contrastante. A questo punto si può avanzare un’altra osservazione di carattere generale nell’intento di rintracciare degli elementi teorici idonei alla costruzione di un modello interpretativo del comportamento politico della gioventù nel contesto di una società postindustriale quale è la società italiana contemporanea. La relazione tra generazioni politiche e società moderna – in quanto società vocata al mutamento – sembra tradursi nell’affidare alle giovani 72 generazioni il compito di riprodurre la cultura politica o meglio di garantirne la vitalità e la qualità a parziale bilanciamento di un processo dilagante di secolarizzazione e di progressiva perdita di influenza delle ideologie che tende ad impoverire di significato l’azione politica un po’ ovunque. Questa funzione, delegata o acquisita che sia da parte dei giovani, viene adempiuta attraverso un’esperienza di separazione dalle generazioni più anziane e, a volte, perfino in diretto antagonismo con la società nella sua globalità. La distanza generazionale sembra rappresentare una conditio sine qua non per conferire peso politico ai giovani. Il conflitto tra le generazioni si presenta, allora nella sua gamma di forme variegata, come un dato endemico della vita collettiva e il suo andamento funziona da indicatore per l’analisi delle dinamiche politiche. Naturalmente il conflitto tra le generazioni, che non è sempre necessariamente aspro e radicale, può tradursi molto spesso in un confronto tra subculture che procedono su strade parallele e che non comunicano tra di loro. Il conflitto ha quasi sempre come obiettivo il controllo della risorsa “autorità ” negli ambiti istituzionali fondamentali ed è proprio su questo terreno che si può constatare come il permissivismo degli adulti, un atteggiamento che sembra prendere campo sempre più ampio negli ultimi trent’anni, abbia anch’esso una sua funzionalità avvalorando l’inclinazione a delegare ai giovani la prerogativa di mantenere vitale la cultura politica democratica in un ciclo prolungato di crisi della democrazia. Le generazioni politiche che si sono succedute nel ciclo storico di trasformazione radicale della società italiana che va dagli anni Cinquanta ad oggi non hanno saputo né voluto svolgere questa funzione con finalità omogenee e con eguale intensità. L’interrogativo che necessariamente si pone lo studioso interessato al tema è: come si spiega la disparità di partecipazione politica delle diverse generazioni? Attorno a questo interrogativo se ne pongono altri a mo’ di corollario, in particolare: come si può misurare empiricamente l’impatto di trasformazione del sistema politico determinato dall’azione politica dei giovani (ove questa si sia manifestata)? La sintetica ricostruzione storico-sociologica della serie delle generazioni politiche nell’Italia contemporanea rappresenta solo un dato preliminare ad un ben più articolato lavoro empirico indispensabile per tentare la risposta agli interrogativi ora richiamati. 73 La sequenza di generazioni politiche che si sono presentate sulla scena della vita politica italiana di questo ultimo mezzo secolo trova, come si è già detto, il suo discrimen fondamentale nel 1968. Le poche ricerche effettuate prima del 1968 ci parlano di un disinteresse quasi totale dei giovani per la politica cui si associa, invece, un interesse alla sicurezza del posto di lavoro ed una ricerca di tranquillità di vita che li appiattisce sulle posizioni degli adulti, i quali erano però giustificati nelle loro scelte di vita a sfondo materialistico quantomeno perché erano appena usciti dalla drammatica esperienza della guerra. Questa è la nota generazione delle tre M (moglie/marito, mestiere, macchina) le cui aspirazioni corrispondono alle aspettative di benessere materiale diffuse ovunque dal clima della Ricostruzione e dallo sviluppo del Paese. Già nella prima metà degli anni Sessanta, tuttavia, si intravedono degli elementi di interessante novità. Le ricerche si imbattono in una minoranza di giovani, caratterizzata da un più alto livello di scolarità e abitante nelle aree metropolitane settentrionali, che sembra voler fuggire alla cappa generalizzata dell’apatia politica. Questa minoranza che prepara la generazione di svolta del ’68 risulta disinteressata o conformista nella scelta di un partito mentre, “messa di fronte a scelte ideologiche e politiche a carattere più ampio, manifesta delle preferenze più coerenti, meno esitanti e soprattutto una forte inclinazione a soluzioni radicali” (Martinotti 1966, 365). Il protagonismo politico giovanile esplode nella seconda metà degli anni Sessanta; prima si manifesta nelle aule universitarie nella forma transnazionale del movimento studentesco e poi dilaga anche nel mondo del lavoro. Lo zoccolo duro del movimento è formato dai figli della borghesia urbana colta e progressista: un ceto che ha rappresentato forse la base sociale più importante di reclutamento della leadership di tutte le forme di opposizione politica giovanile che hanno animato la vita politica italiana contemporanea. Via via che impallidisce la spinta protestataria del movimento studentesco si dilata un nuovo orientamento politico sui diritti civili, anche per effetto dell’abbassamento del livello di età di voto ai 18 anni e del consolidamento del movimento femminista che avrà nei primi anni Settanta la sua età dell’oro. Ma si consolida anche un’aspirazione all’estremismo politico che avvierà una frazione importante di una generazione prima sulla strada dell’estremismo di sinistra poi sulla strada della “violenza d’avanguardia”, prodromo della lotta armata. 74 Il ciclo politico degli anni Settanta è forse confuso anche perché rappresenta una sorta di crocevia di segmenti di generazioni politiche molto diverse tra di loro negli obiettivi e nei valori che li motivano. Questo ciclo, tuttavia, è caratterizzato anche dai 5.300.000 giovani tra i 18 ed i 25 anni che votano per la Camera nel 1976. Alberto Marradi e Giovanni Sartori stimano che il 65% dei giovani neo-elettori abbia espresso la propria preferenza per la sinistra; può darsi che si tratti di una stima sovradimensionata, sta di fatto che i partiti della sinistra ed il PCI specialmente, beneficiano dell’onda lunga del ’68 che porta i giovani di nuovo nell’alveo della politica ufficiale con l’attribuzione di una larga fiducia alle forze che promettono il cambiamento. Paolo Giovannini, studiando all’epoca da una distanza ravvicinata la generazione politica del voto a sinistra, osserva acutamente che: «la delega che i giovani danno al PCI è di natura fondamentalmente elettiva e non prescrittiva e dunque di per sé soggetta ad essere ritirata in ogni momento, qualora venga meno la fiducia riposta nella possibilità di un cambiamento» (Giovannini 1988, 498). Il ritiro della fiducia si manifesterà puntualmente alla fine degli anni Settanta confermando la diffidenza che i giovani hanno per chi fa la politica come professione ma soprattutto le aspettative che le giovani generazioni hanno ormai per la realizzazione concreta ed immediata di una società diversa. Risultato: un incremento considerevole dell’astensionismo elettorale che trova la sua molla principale nell’elettorato giovane deluso dalla Sinistra. Non è che i giovani avvertano più degli altri gruppi sociali la caduta di partecipazione politica diffusa in tutti sistemi democratici; quello che li caratterizza, in questa fase, è invece, oltre all’insofferenza per l’autoritarismo, il disprezzo per il deficit di efficienza tipico del mondo della politica professionale. L’astensionismo elettorale è una specie di anticamera del bivio che si apre per la generazione politica del tempo. Da un lato il rifluire nel privato e negli spazi del gruppo dei pari e della famiglia cioè all’interno di un tessuto di relazioni dove è ancora possibile la fiducia, dall’altro lato la militanza movimentista assai variegata da cui si diparte il ramo della sub-generazione del terrorismo cioè quella minoranza che farà della violenza armata il principale strumento di opposizione allo Stato. Il terrorismo avrà come effetto virtuoso e non voluto quello di contrastare la delegittimazione del sistema ed il recupero dell’autorità dello Stato. Questa 75 controtendenza non argina comunque gli altri processi di media durata che anche oggi stiamo vivendo, vale a dire la delegittimazione dei partiti ed il parallelo affermarsi della personalizzazione della politica. Come reagiscono i giovani a questi processi di crisi e di trasformazione della cultura politica democratica e alle pesanti disfunzionalità delle istituzioni che dovrebbero garantirla? Il ridimensionamento della politica e la reinterpretazione del suo senso presso i giovani si manifestano con una crisi di militanza. Secondo Luca Ricolfi si passa da 1 giovane che si autodefinisce “impegnato” su 3 alla fine degli anni Sessanta a meno di 1 su 10 nel 1983 (Iard 1984). Un altro dato interessante è il decremento degli iscritti alla FGCI dai 142.000 del 1976 ai 46.000 del 1986 (Caciagli 1987). La generazione politica della seconda metà degli anni Ottanta diventa allora la generazione del disincanto che ha compreso la vacuità del ricorso alla violenza politica ma che continua a diffidare dei politici di professione, così come dei partiti e di ogni ideologia totalizzante. La ricostruzione della breve storia delle generazioni politiche che si sono succedute nel secondo dopoguerra attribuisce di solito alla generazione dei giovani che si colloca a cavallo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio del decennio successivo un atteggiamento di rifiuto della dimensione politica così come era andata definendosi dalla fine degli anni Sessanta ad allora. I giovani dei primi anni Ottanta sono lontanissimi dall’idea che il privato, il personale ed il quotidiano siano politica; sembrano piuttosto inclinare verso l’idea che la politica costituisca una tra le tante dimensioni della vita quotidiana. Questa trasformazione non segna però una fase di totale abbandono e riflusso dell’impegno politico. Anche Loredana Sciolla, che si propone come uno degli studiosi tra i più attenti e tra i più attrezzati teoricamente a scavare nell’universo giovanile del tempo, osserva che «gli anni del ‘ridimensionamento’ della politica non sono affatto, se confrontati con gli anni della contestazione, anni di privatizzazione e di riflusso» (Sciolla-Ricolfi 1989, 156). Al contrario, è in quegli anni che si prepara quello sviluppo di una coscienza dell’impegno pubblico, prevalentemente attraverso il tessuto associativo extrapartitico, che caratterizzerà in modo evidente la seconda metà degli anni Ottanta. 76 8. Una generazione in attesa: i giovani e la voglia di cambiare A questo punto l’attenzione si deve concentrare sulla generazione politica degli anni Novanta: un universo sociale eterogeneo che riflette, con tutte le sue incertezze, le difficoltà dei tempi e la condizione di trasformazione critica in cui versa ancor oggi il nostro sistema politico. D’altra parte proprio questa condizione di perenne transizione verso lidi che non compaiono ancora all’orizzonte contribuisce ad avvalorare il ruolo che le giovani generazioni possono svolgere per consolidare la cultura politica democratica che, nel bene o nel male, resta il solo patrimonio su cui possiamo contare tutti, giovani e meno giovani, per un futuro politico meno fosco. A questo proposito, si possono citare i dati selezionati da alcune ricerche pertinenti al nostro tema allo scopo di formulare qualche ipotesi di ordine più generale che, poi, proprio il nostro Rapporto tenta di verificare alla luce di dati rilevati alla fine degli anni Novanta. L’atteggiamento politico dei giovani si può misurare empiricamente con riferimento a tre punti-chiave: la fiducia nelle istituzioni, la domanda di legalità, la collocazione sull’asse destra-sinistra. Vediamoli distintamente. Il grado di fiducia del popolo dei giovani tra i 15 ed i 29 anni studiato periodicamente in Italia dall’Istituto Iard nei confronti degli uomini politici, del Governo e dei funzionari della pubblica amministrazione sembra toccare i minimi storici nei primi anni Novanta, soprattutto come effetto del ciclone Tangentopoli. I giovani registrano in una maniera molto sensibile la delegittimazione delle istituzioni: tra il febbraio 1992 ed il settembre 1993 la fiducia verso gli uomini politici diminuisce del 62%, quella verso il Governo del 29%, mentre cresce la fiducia verso la magistratura (+ 52%) e verso le forze dell’ordine che vengono percepite come un argine efficace contro la corruzione politica dilagante. Tuttavia va osservato che già nel 1983, cioè dieci anni prima, l’area del potere giudiziario e quella della forze dell’ordine attiravano una quota di fiducia più che doppia rispetto all’area del potere politico. Un altro dato Iard da sottolineare è che i giovani esprimono una indiscutibile e consistente domanda di legalità, che è in rapido incremento: nel 1992 veniva avanzata dal 52,7% dei giovani, nel 1993 dal 69% vale a dire da oltre i due terzi degli intervistati. Merita di aggiungere un’osservazione più analitica, cioè che il sottotipo di 77 giovane orientato alla “legalità ed al controllo” trova la massima espressione nelle regioni centrali del Paese ed in particolare nelle città di media grandezza. Si tratta di giovani di oltre 26 anni, di ceto medio, di buona istruzione; i 2/3 dei giovani missini di allora e più dei 2/5 dei giovani leghisti si ritrovano in questo sottotipo. A questo punto è opportuno aprire una breve parentesi. Non pochi esperti di sociologia della gioventù si chiedono se la domanda di legalità non preluda ad una concezione politica estremamente conservatrice o peggio incline alla restaurazione di un regime antidemocratico. Mi sembra che l’interrogativo sia ancora più interessante di fronte a ricerche sulla condizione giovanile effettuate all’interno di subculture politiche specifiche come quella vicentina dove Belotti e Diamanti si imbattono, nell’autunno del 1994, in un 23% di intervistati che si definisce di centro-destra, in un 26% che si dichiara di destra e in un ridotto 12% che opta per il centro-sinistra. Forze dell’ordine, magistratura e Comune insieme alla scuola ed alla parrocchia sono percepite come istituzioni finalizzate alla sicurezza, alla stabilità e all’integrazione e sono le istituzioni che riscuotono un’adesione fortemente maggioritaria. Gli estensori del rapporto scrivono che «i giovani guardano a destra perché questa parte, più delle altre, ha saputo e sa interpretare le loro paure e le loro speranze. La paura dei mutamenti che turbano il loro mondo: le immigrazioni, le patologie sociali come il diffondersi della droga e della criminalità. La speranza che il miracolo economico possa rinnovarsi, garantendo la ripresa del meccanismo occupazionale. E’ vero che coerentemente con le radici ed i valori dell’area di riferimento queste ipotesi coniugano il bisogno di autorità e di normalità in termini autoritari e di normalizzazione. Tuttavia nel vuoto di alternative credibili queste risultano vincenti» (Belotti e Diamanti 1994, 12). Con il che si attribuisce una forma di indiscutibile razionalità politica ai giovani vicentini. D’altra parte non andrebbe dimenticato che la destra, nelle sue forme moderne, emerge in questi anni per la prima volta con forza anche nel mondo giovanile, ma esisteva in una forma più o meno catacombale e silenziosa anche durante “il glorioso Sessantotto”; solo che la congiuntura attuale le consente di mostrarsi pubblicamente e di prendersi uno spazio culturale che prima le era negato. Ancora: il bisogno di legalità e di autorità denuncia una ricerca di sicurezza e di protezione che svela un’identità incerta e dunque una potenziale disponibilità a soluzio78 ni le più diverse, pur che qualcuno le presenti in un modo convincente. Dunque lo spostamento evidente e diffuso a livello di massa giovanile verso destra, tipico della generazione degli anni Novanta, è comparabile in forma speculare allo spostamento verso sinistra degli anni Settanta: le generazioni politiche che domandano all’esterno di sé stesse la soluzione dei loro problemi si orientano verso i punti di riferimento emergenti proposti dalle generazioni adulte che promettono di più, o per lo meno in forma più suadente, di rispondere ai loro problemi. Ma l’universo giovanile è, come si è visto, eterogeneo e soprattutto in una condizione endemica di instabilità sotto il profilo dell’orientamento politico; dunque si tratta di un universo non facilmente interpretabile. Sta di fatto che, in coerenza con le sue caratteristiche sociologiche strutturali, la generazione politica degli anni Novanta non sembra del tutto rassegnata politicamente. L’ampia sfiducia verso il mondo politico ufficiale non si traduce in un atteggiamento di apatia totale demotivante. Tutto all’opposto, i giovani mostrano un rinnovato ed inaspettato interesse alla partecipazione. Nel febbraio del 1992 solo il 29% dei giovani intervistati, nell’ambito della ricerca Iard, era convinto che il cittadino comune avesse delle chances di influenzare le decisioni di chi governava, nell’autunno del 1993 questi giovani fiduciosi nel potere dell’uomo della strada salgono al 44%. Inoltre mentre prima della scoperta ufficiale di Tangentopoli e dell’intervento riparatore della magistratura ben il 64,7% dei giovani si dichiarava d’accordo con la visione elitistica (e rassegnata) espressa nella proposizione: “La società è diretta da poche persone che detengono il potere e la gente comune può farci ben poco ”, dopo le elezioni e dopo l’intervento dei magistrati del pool di mani pulite il gruppo dei delusi dalla democrazia che abbraccia la diagnosi elitistica e un po’ cinica espressa nell’item sopracitato si riduce al 46,7%. Giustamente, dunque, Antonio De Lillo sottolinea che «gli eventi di Tangentopoli sembrano aver aumentato l’interesse per la politica e diminuito l’atteggiamento di delega» (Iard 1993, 19). Siffatta tendenza, pur significativa, andrà misurata nel medio-lungo periodo perché questi incrementi riflettono anche sensazioni e reazioni emerse per effetto di vicende agitate dai mass-media e come tali esposte non poco al vento effimero della comunicazione di massa. Sta di fatto che un esame più analitico dei dati riguardanti questa 79 nuova inclinazione o meglio la dichiarazione di una nuova propensione giovanile alla partecipazione politica mostra come la tendenza riguardi prevalentemente giovani del Sud più che del Nord; giovani che abitano più nei piccoli che nei grandi centri ed appaia più tra coloro che sono cresciuti in famiglie operaie ed impiegatizie che nelle classi sociali alte. Dunque la cultura politica democratica sembrerebbe avere un futuro specialmente per merito di un giovane cittadino che si forma, almeno per ora, in prevalenza alla periferia del nostro sistema sociale. Il terzo ed ultimo tema che sembra pertinente ad una prima esplorazione sui valori politici dei giovani riguarda la risposta alla domanda: «Esiste ancora la dimensione sinistra-destra in politica?» Non sembra esservi dubbio che la diade destra-sinistra appare, in linea generale, sufficientemente caratterizzante le scelte politiche dei giovani degli anni Novanta. Detto ciò va osservato che l’area dell’incertezza di collocazione lungo l’asse sinistra-destra è ampia ed è in crescita nel breve periodo proprio come reazione immediata ad eventi politicamente critici. Comunque i dati disponibili dimostrano che la collocazione è fortemente correlata con le scelte di voto. Al di là di una lettura analitica, formazione politica per formazione politica, di questa parte della ricerca che forse risulta esposta più di altre ad una dimensione di volatilità, appare chiaro che l’elettorato giovanile della Lega, pur addensandosi in prevalenza nell’area di centro-destra, sembra sfuggire alla regola della correlazione con la scelta di voto perché il suo range di collocazione appare più elevato di quello di qualsiasi altra formazione politica. Sul senso che ha oggi presso i giovani la distinzione destra-sinistra pare, tuttavia, opportuno gettare più luce utilizzando delle ricerche mirate sul tema ed approfondite con riferimento ad una gamma di giovani sociologicamente più varia di quella che si può indagare in un campione costruito ad un livello nazionale, per quanto raffinati siano i metodi che portano a lavorare empiricamente su una popolazione giovanile di questo tipo. D’altronde la ricerca sui giovani vicentini ci mette sull’avviso: esistono degli universi giovanili che sono strettamente legati a dei territori con una storia politica, economica e culturale caratterizzata da forti elementi di omogeneità. Dunque non sempre è conveniente ed adeguato parlare di una popolazione giovanile in termini di un’entità unica e soprattutto unitaria a meno che non si confrontino queste 80 diagnosi generali con le caratteristiche specifiche delle varie tessere che compongono il mosaico della gioventù italiana di fine secolo. Lavorando in questo modo, cioè anche su studi del caso specifici in una chiave comparativa, si possono scoprire meglio tutte le incertezze che caratterizzano la generazione politica del nostro tempo in quanto generazione che tende più alla frammentazione che all’unità e in quanto generazione che oscilla tra l’apatia ed il ritorno alla politica intesa, però, in un senso nobile e pragmatico al tempo stesso. La vivace discussione, tuttora in corso, sulla dicotomia destra-sinistra può opportunamente giovarsi di una dimensione empirica che aiuti a specificarne la consistenza e forse anche ad avanzare qualche previsione sulle sue prospettive di durata. Sembrerebbe utile richiamare, in termini brutalmente empirici, lo spessore sociologico che qualifica la distinzione ed il vissuto politico che l’accompagna sia al livello delle singole soggettività degli attori politici sia al livello delle istituzioni deputate a produrre azione e progettazione politica. Va da sé che questo tipo di analisi si arricchisce ulteriormente quando si concentra su un universo particolare, quale può essere il frastagliato universo generazionale e che il recupero della distinzione destra-sinistra da parte della cultura politica dei giovani può assicurarle delle nuove prospettive come altri ha già sostenuto. Su questo tema, ad ogni modo, è opportuno rinviare il lettore all’approfondimento critico di Enrico Caniglia nel capitolo X da lui redatto, dedicato agli usi e al significato della dicotomia destra-sinistra nel mondo dei giovani europei. 9. Due ipotesi sulla cultura politica dei giovani A questo punto una conclusione di ordine più generale, pur provvisoria, si impone allo scopo di mettere meglio a fuoco quali meccanismi e quali procedure sociali caratterizzano una generazione, specificandone l’apporto politico in un modo piuttosto che in un altro. Molte ricerche sui valori politici dei giovani condotte nei primi anni Ottanta hanno sottolineato la fase del distacco e del riflusso e sono spesso finite con il dare un’immagine che si direbbe unilaterale della trasformazione del rapporto dei giovani con i valori politici. Ciò che di questa trasformazione è rimasto nella 81 penombra è stata proprio la lenta ascesa dell’impegno pubblico come dimensione autonoma e sovente contrapposta rispetto alla politica: la vita quotidiana non è più il luogo del privato che si contrappone al pubblico, ma è il luogo in cui privato e pubblico, evasione e impegno trovano le forme e i modi di una reciproca integrazione. Questo processo di trasformazione giunge a maturazione con la coorte dei nati nei primi anni Settanta, ovvero con la generazione politica della prima metà degli anni Novanta. E’ in questa generazione che l’impegno pubblico raggiunge i livelli maggiori, connotandosi allo stesso tempo per una sostanziale indipendenza dalla tradizionale distinzione destra-sinistra. L’elemento caratterizzante dell’impegno politico di questi giovani sembra da individuare in una singolare combinazione di universalismo e di solidarismo, di interesse per le regole del gioco e di mobilitazione single issue. Nel cercare di indicare una possibile spiegazione delle ragioni del passaggio dalla crisi della politica all’ascesa dell’impegno pubblico, viene sottolineata una caratteristica specifica di questa ultima generazione politica: sono questi i giovani che per primi non hanno alcuna relazione né diretta né indiretta (attraverso i fratelli maggiori) con la grande stagione della politica degli anni ’60-’70, dal momento che il loro ingresso nell’adolescenza è avvenuto alla fine degli anni del terrorismo. Anche il ruolo dei padri nel processo di socializzazione politica sembrerebbe essere reso meno centrale dalla loro rinuncia a trasmettere in maniera esclusiva ed unilaterale la propria cultura politica ai figli. Ciò può aver comportato un’importante trasformazione nelle dinamiche della socializzazione politica intergenerazionale, attribuendo alle madri un nuovo ruolo socializzante. Questo può essere colto nei tratti che marcano la qualità particolare dell’impegno pubblico dei giovani – pragmatismo, rifiuto delle ideologie, centralità delle relazioni faccia a faccia, interesse per la solidarietà che potrebbero essere ricondotti a modelli culturali e d’azione di derivazione femminile. Non a caso dalla ricerca condotta nel 1986 su un campione di oltre ottocento giovani reggiani emergeva che «sia l’interesse politico che l’impegno pubblico dipendono dall’interesse politico della madre, ma non da quello del padre. [...] La centralità della figura materna nei meccanismi di socializzazione aiuta forse a capire in che senso i caratteri peculiari che l’impegno dei giovanissimi tende ad assumere non sono completamente senza rapporti con ciò 82 che li ha preceduti. Se il tipo di sensibilità con cui le leve più giovani affrontano la politica e l’impegno pubblico è, per tanti versi, quello di una ‘generazione femmina’ è forse anche perché l’ultimo grande movimento degli anni Settanta, quello che ha modificato il costume e la mentalità collettiva, è stato il movimento delle donne. Troppo giovani per poter imparare dai fratelli maggiori, gli adolescenti di oggi sembrano esposti soprattutto all’influenza e ai modelli culturali delle loro madri, nelle cui biografie gli eventi del ‘decennio caldo’ hanno probabilmente depositato le tracce più durature» (Sciolla e Ricolfi 1989, 151 e 153). L’ipotesi è suggestiva e proprio per questo merita di essere verificata anche con riferimento ad altri casi e su contesti diversi da quelli metropolitani ed economicamente sviluppati del Centro-nord. Non solo ma si dovrebbe tenere conto anche della varietà di segmenti che compongono la galassia-giovani nell’Italia d’oggi. Il discorso, delicato ed importante, è da affrontare attraverso delle ricerche ad hoc e dunque non resta che svilupparlo nei capitoli successivi del Rapporto. Anche in un capitolo di carattere introduttivo si può comunque tentare di rispondere all’interrogativo: perché focalizzare l’attenzione sui giovani nell’analisi delle trasformazioni della cultura politica? Due ipotesi, forse, si possono comparare in quanto attribuiscono un ruolo specifico alle nuove generazioni nella determinazione delle dinamiche di mutamento politico. Sotto questo stesso profilo anche il dato riguardante il comportamento elettorale dei giovani si presenta come uno degli indicatori empirici del loro orientamento civico. Se si prendono in considerazione i dati sul comportamento politico delle coorti italiane degli anni 1975-1994 si vede come le scelte dei giovani mettano in risalto più che anticipare gli spostamenti dell’elettorato nel suo complesso. A parte il fatto noto che i dati di coorte sono indicatori grossolani perché solo indagini longitudinali di lungo periodo permettono un affinamento delle ipotesi e le correlative verifiche, una lettura degli episodi elettorali cruciali di questi ultimi lustri conferma l’instabilità del voto giovanile ma soprattutto la sua incidenza relativa nella trasformazione del sistema politico. Senza dubbio, come si è visto, il voto dei giovani dà spessore ai successi elettorali del PCI nel 1975-76, ma non prefigura uno spostamento successivo del baricentro della politica italiana a sinistra. Negli anni Ottanta il favore accordato dai giovani ai partiti laici (e al PSI in particolare) 83 riflette il clima dell’epoca, ma non prepara un consolidamento di quell’area politica come ci si attendeva in quella congiuntura. Ancora: il successo del MSI-AN e della Lega tra i giovani del 1994 esalta la deriva a destra del Paese ma non sembra tradursi in un’ascesa massiccia ed inarrestabile di quei partiti. E’ comunque troppo presto, ovviamente, per inficiare la valenza tendenziale di quest’ultimo orientamento che ha uno spessore assai più complesso che non quello connesso al voto proprio perché tra i valori politici ed il comportamento di voto la connessione è tutt’altro che lineare, a maggior ragione quando si tratta di giovani. Ma valutiamo ora meglio queste due ipotesi, tutt’altro che conclusive. La prima ipotesi assume che lo studio della cultura politica dei giovani ha una valenza prefigurativa: serve cioè a tracciare le coordinate valoriali della popolazione negli anni a venire. La cultura politica delle generazioni giovani, per questa sua valenza anticipatoria, agisce come una sorta di barometro della stagione politica prossima ventura. Ciò perché ai giovani viene riconosciuta una speciale capacità di innovazione culturale che discende dalla loro esigenza di stabilire una corrispondenza tra valori e comportamenti – un atteggiamento che le generazioni adulte hanno dismesso grazie alla loro esperienza un po’ cinica della vita. In altre parole, con il tempo i valori e gli atteggiamenti di cui i giovani si fanno per primi portatori – e che talvolta propugnano con particolare energia – diventeranno centrali nella cultura politica complessiva del Paese. Un corollario di questa opzione interpretativa è che, avendo chiara la cultura politica delle élites giovani, in particolare degli studenti universitari (ossia di coloro che, grazie al loro livello di istruzione, detengono forse la più importante risorsa per accedere alle posizioni sociali superiori) si può avere un quadro indicativo dei valori della classe dirigente di domani. E’ questa l’ipotesi che ha orientato in più ampia misura la ricerca presentata in questo Rapporto. La seconda ipotesi sottolinea, invece, la relativa transitorietà degli atteggiamenti politici giovanili, quale riflesso di una contingenza storica ed individuale – la fase del ciclo di vita. La maggiore provvisorietà della posizione dei giovani rispetto alle fasi successive dell’esistenza in cui le scelte di vita essenziali sono già state compiute fa ritenere che la giovinezza sia l’età in cui le preferenze politiche sono le più fluide, sperimentali e volatili nell’intero corso della vita anche perché abbastanza sgan84 ciate da interessi più stabili come gli interessi professionali o strettamente economici. La plasticità degli orientamenti politici fa sì che i giovani possano più facilmente accodarsi a tendenze culturali incipienti che hanno le loro determinanti in dinamiche culturali e strutturali assai profonde e che risultano amplificate dalla disponibilità della popolazione giovanile ad assecondare la corrente caratterizzante il ciclo politico dato. Nel far ciò i giovani ingrossano la corrente stessa, rendendola quindi più visibile ed effettiva. Per chi studia la cultura politica, dunque, le giovani generazioni fungono da cartina di tornasole dello stato della cultura politica stessa. I giovani, allora o meglio lo studio della cultura politica che li caratterizza, fanno risaltare e comprendere meglio il presente più che consentire di anticipare il futuro. Le due ipotesi sono state formulate in una forma un po’ estremizzata per renderle più esplicative. Va da sé che non si escludono nettamente l’un l’altra; all’opposto sono suscettibili di modulazioni che le rendono fin complementari per alcuni elementi. Ad esempio, si può accettare la tesi di una relativa stabilità degli orientamenti politici acquisiti in giovane età ed ammettere, al tempo stesso, che questi orientamenti in non piccola parte hanno una componente eterodiretta. Un contemperamento parziale dei due schemi interpretativi consiste poi nel riconoscere che l’equivalenza di situazioni strutturali e l’esposizione allo stesso clima culturale imprimono uno schema di orientamenti e di correlativi comportamenti negli anni della giovinezza destinato a perdurare con adattamenti (minimi o massimi) nelle fasi successive del corso della vita. Detto in parole più semplici, per conoscere la cultura politica di un Paese e coglierne le tendenze dinamiche occorre anche scomporre e ricomporre nelle loro caratteristiche determinanti le culture delle generazioni politiche che si sono succedute confrontandole, naturalmente, anche con le caratteristiche socio-economiche che definiscono il sistema politico dove i giovani concorrono a configurare il significato e la pratica della democrazia di fine secolo. La formazione di un’entità socio-politica sovranazionale come l’Unione europea non semplifica certo il quadro interpretativo. Sicuramente suggerisce nuovi metodi di ricerca sul tema al fine di meglio cogliere tramite la comparazione le tendenze in atto. Aprire questo Rapporto con una rassegna di casi nazionali non vuol dire certo adottare una prospettiva di ricerca tradizionale si85 gnifica, invece, proporre i singoli sistemi politici come piattaforma empirica imprescindibile per lo sviluppo successivo di una più solida analisi comparativa transnazionale. 86 CAPITOLO QUARTO LE NUOVE GENERAZIONI NELLA SPAGNA CONTEMPORANEA: IDENTITÀ IN MUTAMENTO 1. Elementi di persistenza e fattori di mutamento nella cultura politica Quando ci si disponga ad esaminare la cultura politica dell’insieme della società spagnola in generale e nelle nuove generazioni in particolare emergono alcuni elementi significativi, che è opportuno considerare al fine di inquadrare adeguatamente i processi di mutamento e le dimensioni costanti nei valori politici e nelle forme di partecipazione politica. Un primo elemento importante è costituito dalla particolare relazione tra valori materialisti e valori postmaterialisti, secondo la celebre categorizzazione di Inglehart. Nel modello inglehartiano la relazione tra le due dimensioni valoriali è descritta secondo una dinamica lineare del mutamento sociale in forza della quale l’avvento di nuove generazioni in un contesto di crescita economica produrrebbe necessariamente un progressivo superamento della dimensione materialista dei valori a favore della dimensione postmaterialista. Questo modello lineare di mutamento ha ricevuto conferme significative soprattutto nei paesi anglosassoni, mentre evidenzia alcune difficoltà nell’interpretare il mutamento nei paesi dell’Europa mediterranea. Il caso spagnolo mostra elementi di particolarità di notevole interesse, in quanto sembra investire, in misura più rilevante che in altri casi, anche le nuove generazioni in una sorta di patchworck valoriale costituito da valori materialisti e valori postmaterialisti. Secondo Montero e Torcal (1994), anche quando ci troviamo in presenza di una configurazione della relazione tra valori mateQuesto capitolo è stato scritto da Marco Bontempi. 127 rialisti e postmaterialisti che si avvicina alla relazione diffusa negli altri paesi dell’Unione Europea, come accade per la prima volta in Spagna nella metà degli anni Novanta, la dimensione materialista condiziona, in un certo senso, lo sviluppo della dimensione postmaterialista contribuendo ad orientarla in un senso filo-materialista. In particolare, ciò avviene in riferimento ad un indicatore che secondo l’ipotesi di Inglehart dovrebbe rilevare la presenza di atteggiamenti materialisti: si tratta di ‘‘Lottare contro le diseguaglianze sociali’’. Contrariamente all’ipotesi di fondo, questo indicatore viene scelto in modo sistematico e massiccio da coloro che condividono i valori della dimensione postmaterialista, stabilendo delle relazioni significative con altri indicatori di postmaterialismo. Nel periodo tra il 1990 e il 1993 questo indicatore mostra una correlazione significativa con quello, tipicamente postmaterialista, di ‘‘Garantire le libertà civiche’’; inoltre, ciò che risulta ancora più sorprendente è che ‘‘Lottare contro le diseguaglianze sociali’’ mostra «una correlazione negativa, sebbene piuttosto debole, con indicatori materialisti con contenuto economico come ‘‘Lottare contro la disoccupazione’’ e ‘‘Frenare la salita dei prezzi’’» (Montero e Torcal 1994, 189). Questo dato evidenzierebbe la persistenza nel tessuto sociale di importanti diseguaglianze sociali anche in presenza di una notevole crescita del livello di ricchezza e di sicurezza individuali e collettive. Questa condizione riorienterebbe la dimensione estetico-espressiva dei valori postmaterialisti verso temi connessi con gli aspetti strutturali del sistema sociale. Una spiegazione condivisa di questo duplice fenomeno – la persistenza dei valori materialisti anche nelle generazioni più giovani e la particolare configurazione del rapporto tra le due dimensioni valoriali – è che sia il segnale della sovrapposizione di due processi di mutamento sociale che negli altri paesi dell’Europa occidentale hanno potuto svilupparsi durante un arco di tempo più lungo, riducendo così le probabilità di sovrapposizione. Da un lato il processo di modernizzazione della società soprattutto nel senso della sua compiuta industrializzazione e trasformazione valoriale, come per esempio lo sviluppo di processi di secolarizzazione. Iniziato durante gli anni Sessanta sotto il controllo del regime autoritario, questo processo ha potuto svilupparsi compiutamente solo con la fine del fascismo e con l’avvento del sistema democratico (Benedicto Millán 1989, 651). Inoltre, la rapida crescita dell’eco128 nomia spagnola è stata accompagnata dall’esistenza di profonde diseguaglianze sociali che sono state scarsamente mitigate dalla costruzione di un precario Stato sociale. Le diseguaglianze che caratterizzavano la società spagnola preindustriale, sebbene ridotte dalla crescita economica degli anni Sessanta-Settanta «non solo non scomparvero totalmente, ma furono parzialmente sostituite da altre [così che] all’inizio della Transizione ancora esistevano, com’è noto, grandi diseguaglianze. Questo dato, insieme alle scarse politiche di ridistribuzione del reddito operate dallo Stato (...) spiegherebbe non solo l’elevato atteggiamento riformista degli spagnoli, ma anche la ancora maggioritaria presenza dei materialisti e la tendenza dei postmaterialisti a scegliere l’indicatore ‘‘Lottare contro le diseguaglianze sociali’’» (Montero e Torcal 1994, 189190). Dall’altro il processo di trasformazione della società spagnola in un senso postmoderno il quale, come viene anche evidenziato dalla riduzione nelle giovani generazioni dell’elevato livello di valori materialisti, viene così a sovrapporsi con un processo di modernizzazione ancora non totalmente compiuto, così che gli elementi di sviluppo dell’autonomia e di autorealizzazione individuale si combinano con elementi più strettamente connessi agli aspetti strutturali del sistema sociale. Gli effetti socioculturali di questa sovrapposizione di processi di mutamento sociale sono significativi anche per il secondo tratto peculiare della cultura politica: il conflitto tra i valori materialisti dell’autorità e dell’ordine da un lato e il valore postmaterialista della libertà dall’altro. La dinamica tra valori dell’ordine e valori della libertà costituisce un aspetto fondamentale delle condizioni di sviluppo della partecipazione democratica come anche delle forme che questa assume di fatto nel concreto contesto sociale. Nella società spagnola la difesa dell’ordine in quanto valore socio-politico occupa una posizione prioritaria, rispetto ai valori libertari. Tuttavia, sarebbe superficiale interpretare questa preferenza come eredità della socializzazione politica avvenuta durante il regime franchista. Se nella fase della Transizione questo può essere un fattore esplicativo dotato di una certa probabilità, è certo che l’incremento del sostegno all’ordine se posto in alternativa con la libertà costituisce un fenomeno significativo che è necessario spiegare facendo riferimento ai processi di mutamento sociale in atto nella società spagnola. Tra i molteplici significati ai quali 129 rinvia il concetto di ordine sociale un ruolo particolarmente importante è svolto dalla definizione di ordine come sicurezza fisica, sia in senso privato che in senso collettivo. A questo proposito i dati degli anni della Transizione sono particolarmente significativi: come si può notare dalla tavola 1, con l’instaurazione della democrazia il sostegno nei confronti dell’ordine è andato incrementandosi, come è avvenuto anche per il sostegno verso la richiesta di riduzione delle diseguaglianze sociali esistenti, sebbene in misura minore. Tuttavia, più che come una reazione di timore nei confronti delle possibilità di mutamento che si aprivano con l’instaurazione della democrazia, si possono interpretare questi dati come l’espressione di un senso di insicurezza soggettiva, ciò anche in considerazione del carattere specifico dei momenti di transizione da un regime autoritario ad una democrazia in quanto momenti privilegiati per l’espressione di elevate dosi di anomia collettiva, anche «come conseguenza del rapido passaggio da una società tradizionale e arretrata, caratterizzata da codici di condotta Tavola 1. Preferenze tra alcune polarità ideologiche durante la Transizione 1977 1979 1977 1979 1977 1979 Ordine 40 50 Uguaglian. 35 39 Rivoluz. 52 52 Libertà 17 15 Libertà 26 23 Libertà 83 82 Entrambi 39 30 Entrambe 32 31 Entrambe 36 37 Fonte: Benedicto Millán (1989, 654). (% per colonna) Tavola 2. Polarità libertà-uguaglianza nei giovani per anno e per età 1982 1989 Età 1989 15-17 18-20 21-24 Libertà 23 40 39 40 41 Uguaglianza 33 33 35 32 31 Entrambe 40 16 13 17 18 Fonte: Toharia (1989, 244). (% per colonna) 130 altamente standardizzati, ad una società molto più moderna e complessa, nella quale diviene sempre più difficile stabilire criteri universalmente condivisi di valutazione dei comportamenti» (Benedicto Millán 1989, 654-655). Interpretare la preferenza per l’ordine principalmente come un risultato della lunga socializzazione fascista, piuttosto che come un elemento strutturante la cultura politica spagnola, sarebbe senz’altro riduttivo come emerge con maggiore evidenza da un’indagine compiuta dal Centro de Investigaciones Sociológicas1 dieci anni dopo la morte di Franco e nella quale si segnala in modo particolare il sostegno delle giovani generazioni al mantenimento dell’ordine, anche se in una forma un poco diversa dagli altri gruppi di età. Nel 1985 tra i giovani dai 18 ai 25 anni il 59% indicava come elemento prioritario da perseguire quello dell’ordine pubblico, il 26% indicava la partecipazione e soltanto il 13% sceglieva la libertà di espressione come valore primario. Ciò avveniva in un contesto in cui la preferenza delle altre generazioni verso i due valori di matrice postmaterialista era sempre inferiore rispetto al livello manifestato dai giovani, così come il sostegno giovanile al tema dell’ordine pubblico rappresentava, nel confronto con quello delle altre generazioni, il livello più basso. In altri termini, se per un verso i dati di questa inchiesta mostrano lo sviluppo di una trasformazione profonda nella cultura politica nella direzione di uno spostamento verso dimensioni valoriali di tipo postmaterialista, anche a conseguenza del mutamento intergenerazionale; per l’altro verso emerge chiaramente che anche coloro che nel momento della fine del franchismo si trovavano tra l’infanzia e l’adolescenza, e dunque in una fase non ancora direttamente segnata dalle forme della socializzazione politica, mostrano un significativo orientamento del proprio sistema di valori politici nel senso del sostegno all’ordine. La dinamica del conflitto ordine/libertà sembra quindi costituire un elemento fondamentale della cultura politica degli spagnoli anche in un contesto di piena democratizzazione, ciò favorisce la ricerca di interpretazioni che tengano in considerazione la sfasatura dei due processi fondamentali nel mutamento sociale simultaneamente in atto in Spagna: il processo di modernizzazione e il processo di trasformazione del1 Banco de Datos CIS Estudio 1446 (1985). 131 la società in senso postmoderno. Se per un verso è individuabile la persistenza di un grado significativo di tradizionalismo che tende invariabilmente a ridursi con il passare del tempo, soprattutto come conseguenza del ricambio generazionale, per l’altro la trasformazione dei sistemi di valore nel senso della loro progressiva deistituzionalizzazione e frammentazione, e la diffusione sempre più ampia di atteggiamenti di tolleranza normativa sembrano favorire l’ipotesi di un atteggiamento pragmatico e non marcatamente tradizionalista nel sostegno delle generazioni più giovani verso il mantenimento dell’ordine sociale, anche in considerazione della pressione esercitata sulla società spagnola dalla presenza del terrorismo indipendentista basco. In sintesi, sembra di poter dire che la cultura politica degli spagnoli entra negli anni Novanta con «una marcata percezione dell’esistenza di profonde diseguaglianze tra i diversi settori sociali, [con] la percezione della necessità di incrementare i livelli di benessere della società [e con] il desiderio di una maggiore sicurezza fisica e materiale per l’insieme della popolazione. Però unitamente a queste coordinate fondamentali del sistema di valori predominanti si possono osservare sintomi di un processo di mutamento, ancora in fase emergente, che si manifesta nella progressiva importanza che determinati gruppi sociali (sostanzialmente giovani e individui con alto livello di istruzione) attribuiscono ad altre dimensioni valutative come la libertà, l’autonomia, la realizzazione personale e la partecipazione sociale (...). In questa confluenza (...) si configurano i tratti caratteristici della visione del sistema sociale che hanno gli spagnoli» (Morán e Benedicto 1995, 38). Il terzo elemento strutturale della cultura politica dei giovani spagnoli concerne un altro tipo di conflitto tra i valori fondamentali della democrazia: quello tra uguaglianza e libertà. Già Tocqueville aveva sottolineato l’importanza di un bilanciamento tra queste due dimensioni valoriali come condizione primaria dello sviluppo e consolidamento della democrazia, indicando soprattutto nelle forti preferenze per l’uguaglianza a svantaggio della libertà un fattore di latente destabilizzazione del sistema democratico. In particolare, nel caso spagnolo questi due poli, che sono spesso stati presentati in contrapposizione, hanno dimostrato un progressivo processo di avvicinamento, e per certi aspetti anche di integrazione, fino ad delineare atteggiamenti nei quali è dominante la richiesta di conciliare le due dimensioni attraverso politiche di compensazione. Negli anni 132 cruciali della Transizione l’atteggiamento maggiormente diffuso di fronte alla necessità di dover scegliere tra una o l’altra dimensione valoriale era decisamente a favore dell’uguaglianza. Come si può vedere dalla tavola 1 la preferenza per l’uguaglianza a scapito della libertà è un elemento che struttura in modo significativo la cultura politica del periodo, anche in considerazione della riduzione del numero di coloro che guardavano con interesse alla composizione tra le due sfere valoriali. Ancora una volta la percezione delle diseguaglianze sociali esistenti nel paese come un problema fondamentale per l’azione politica emerge come un tratto peculiare dello sviluppo economico e industriale del paese. Tuttavia, può essere utile osservare che la preferenza per l’uguaglianza lungi dall’essere un indicatore di radicalismo politico, ovvero di agire in un senso di delegittimazione politica secondo l’ipotesi classica di Tocqueville, si combina con un atteggiamento marcatamente orientato al mantenimento dell’ordine esistente, anche tra le giovani generazioni, dando forma ad un atteggiamento riformista ampiamente maggioritario. Tra gli anni della Transizione e la prima metà degli anni Novanta una proporzione di circa i due terzi degli spagnoli sposa le tesi del riformismo, a svantaggio tanto dell’opzione conservatrice quanto di quella radicale, facendo registrare livelli di riformismo superiori a quelli degli altri paesi della UE (Morán e Benedicto 1995, 39). Durante gli anni Ottanta, in modo particolare dopo l’inizio della fase più ottimista della ripresa economica a partire dal 1985, si verifica un progressivo scivolamento delle posizioni egualitariste verso orientamenti libertari, fino ad arrivare per la prima volta nel 1989 ad una inversione nella relazione uguaglianza-libertà così come emerge da una indagine condotta in quell’anno dalla Fundación S.M. sui giovani tra i 15 e i 24 anni (Toharia 1989). Tuttavia, ciò accade principalmente per un marcato spostamento di coloro che durante la Transizione sostenevano la necessità di una compensazione tra le due, più che per una riduzione di chi opta per posizioni egualitarie (cfr. tav. 2). L’opzione per la libertà diviene maggioritaria per tutti i gruppi di età del settore giovanile, anche se non si deve sottovalutare la persistenza di un individuo su tre a favore dell’uguaglianza. La combinazione di attenzione alle diseguaglianze sociali presenti nel paese e di crescente richiesta di maggiori libertà, pur senza scardinare l’ordine socio-politico esistente, configura un atteggiamento di critica sociale alle conseguenze dello sviluppo industriale 133 e di moderatismo politico nella loro correzione che rivela uno dei suoi aspetti più caratteristici nella costante affermazione – anche da parte dei giovani – di una funzione centrale dello Stato nella trasformazione della società in senso moderno. Oltre all’esperienza diretta di un incompiuto processo di modernizzazione, alcuni interpreti indicano in questo atteggiamento statalista un’eredità della funzione determinante che lo Stato svolse nell’epoca del primo sviluppo industriale durante il regime franchista (López Pintor e Buceta, 1975; Morán e Benedicto 1995). Gli indici della diffusione di questa mentalità sono particolarmente espliciti: nel 1980 il 60% degli intervistati concordava con l’affermazione che ‘‘lo Stato deve pianificare l’economia’’, mentre solo il 9% riteneva che ‘‘lo Stato non deve intervenire nella vita economica’’ (Morán e Benedicto 1995, 42). Tuttavia, le richieste di maggiori libertà mostrano come durante gli anni Ottanta si sia verificata una importante trasformazione verso una maggiore legittimazione anche in senso culturale e valoriale delle dinamiche sociali specifiche del capitalismo. In particolare, è ancora una volta il ricambio generazionale il fattore di mutamento più significativo in questa dimensione, infatti sono i giovani coloro che – rispetto agli altri gruppi di età – si dichiarano maggiormente a favore di una riduzione del ruolo dello Stato nei diversi settori economici, anche se sempre all’interno di questa configurazione specifica della cultura politica che siamo venuti delineando (cfr. tav. 2). Un indicatore significativo di questo processo di legittimazione può essere individuato nella trasformazione dei contenuti dell’orientamento riformista durante gli anni Ottanta. Secondo quanto emerge da due ricerche del Centro de Investigaciones Sociológicas, rispettivamente del 1985 e del 19892 , lo spostamento più significativo all’interno di un ampiamente maggioritario orientamento riformista che si mantiene stabile è dato proprio dalla transizione di quote rilevanti della popolazione giovane da un riformismo radicale ad uno più moderato. Nel 1985 l’88% dei giovani tra i 18 e i 25 anni si dichiarava a favore di riforme, superando del 4% la media della popolazione, in particolare, il 62% concordava con l’affermazione che la società spagnola ‘‘Necessita di profonde riforme’’, mentre il 26% dava il proprio consenso all’idea che ‘‘Si può migliorare con piccoli cambiamenti’’; solo l’1% riteneva che la società 2 134 Banco de Datos CIS Estudio 1461 (1985) e Estudio 1788 (1989). ‘‘Va bene così com’è’’ e il 5% riteneva che ‘‘Si deve cambiare mediante un’azione rivoluzionaria’’. Quattro anni dopo, l’84% dei giovani era su posizioni riformiste, sempre al di sopra del 4% della media di tutti i gruppi di età, ma l’orientamento riformista radicale raggiungeva il 49% con una riduzione del 13%, mentre mostravano significativi livelli di incremento del consenso sia l’orientamento riformista moderato con un 35% (+9%) che l’orientamento conservatore con un 5% (+4%), senza cambiamenti restava soltanto la posizione rivoluzionaria (5%). L’ultimo elemento peculiare della cultura politica nella Spagna democratica concerne la configurazione che assume la relazione tra legittimazione del sistema politico e partecipazione politica. Uno degli aspetti più significativi della relazione degli spagnoli con la politica nel periodo successivo alla fine del franchismo è sempre stato l’elevato grado di sostegno e di legittimazione del sistema democratico, così come la netta difesa di quei diritti e di quelle libertà che sono imprescindibili per una effettiva realizzazione della democrazia come sistema politico. Tra il 1980 e il 1990 il sostegno dei cittadini alla democrazia come forma di governo preferibile a qualsiasi altra è passato dal 50% al 80%, mentre posizioni di indifferenza rispetto a qualsiasi regime sono oscillate tra l’8% e l’11% (Morán e Benedicto 1995, 101). Tuttavia, un sostegno così diffuso non necessariamente esprime una idea della democrazia quale era quella di alcuni classici del pensiero politico, cioè basata sulla competenza e sulla partecipazione dei singoli cittadini. Al contrario, se andiamo a vedere qual è il significato che nella cultura politica spagnola si attribuisce al termine democrazia si osserva, altrettanto nitidamente che per la sua legittimazione, che il criterio fondamentale che struttura l’idea di democrazia è soprattutto il riferimento alle libertà individuali e di opinione. Nel 1989 il 52% degli spagnoli pensava alla democrazia come alla opportunità di realizzare le libertà individuali, ma solo il 3% indicava nella partecipazione, ovvero nella realizzazione delle libertà collettive, l’elemento peculiare dei regimi democratici3 , mentre il 7% vedeva in essi la possibilità di realizzare una maggio3 Banco de Datos CIS Estudio 1788 (1989), oltre agli items relativi alle libertà individuali, le risposte a questa inchiesta fanno registrare un’alta dispersione, soprattutto, è da segnalare il 28,4% assegnato alla voce “Altro” . 135 re uguaglianza. Nel confronto intergenerazionale sono le generazioni più giovani a mostrare, com’è normale, più alti livelli di legittimazione del sistema democratico, però anche da parte dei giovani l’idea di partecipazione politica non è direttamente connessa con l’impegno specifico individuale. Nel 1990 l’86% dei giovani tra i 16 e i 29 anni sosteneva che il migliore indicatore di partecipazione politica era ‘‘Votare quando ci sono le elezioni’’ e in secondo piano l’81% indicava la ‘‘Partecipazione ad associazioni di quartiere, ecologiste, di difesa dei diritti umani ecc...’’. Ne emerge una idea di partecipazione politica che si manifesta «in termini di elezioni e società e non mediante le manifestazioni specifiche dei professionisti della politica. In ogni caso, nel quotidiano più che una partecipazione politica si produrrebbe una identificazione con i fini che perseguono i differenti movimenti sociali come le associazioni di quartiere, i movimenti ecologisti e pacifisti, ecc...» (Alaminos 1994, 67). L’idea di democrazia come sostanzialmente connessa con l’esercizio di libertà individuali è ulteriormente sostenuta dall’apparentemente paradossale combinazione degli alti livelli di legittimazione della democrazia e del bassissimo livello di interesse per la politica dimostrato da tutte le generazioni. In linea generale, solo un quarto o un quinto degli spagnoli dimostra un apprezzabile grado di interesse relativamente alle questioni politiche, mentre un 40% dichiara apertamente di non avere nessun tipo di interesse verso la politica e un 35% sostiene di avere un basso interesse per la politica e comunque sicuramente non superiore ad interessi di altro genere. In questa dimensione il livello dimostrato dagli spagnoli è di appena la metà della media dei paesi dell’Unione Europea, così come i livelli di disinteresse si avvicinano al doppio della media europea: nel 1983, ad esempio, di fronte ad un livello di interesse scarso o nullo del 58% nei paesi dell’Europa occidentale, il grado di disinteresse e di basso interesse dimostrato dai cittadini spagnoli raggiungeva il 77% (Morán e Benedicto 1995, 55-56). Naturalmente si tratta di un atteggiamento che è particolarmente sensibile alle variazioni prodotte dalle condizioni contingenti, anche se l’elemento strutturale del basso interesse è evidenziabile lungo tutto l’arco della storia politica postfranchista. Secondo questa prospettiva le tre fasi della instaurazione della democrazia e del suo consolidamento cui abbiamo fatto riferimento sono naturalmente caratterizzate da livelli di interesse politico diversi. Com’è facilmente comprensibile 136 tra la morte di Franco e la fine degli anni Settanta si registrano i livelli più elevati di interesse per la politica, livelli che comunque oscillano tra il 33% dei “molto + abbastanza interessati” del 1976 e il 38% del 1978. Non a caso la generazione che in quegli anni ha tra i 18 e i 25 anni si forma come la generazione maggiormente interessata alla politica, tratto che conserva anche nei cicli politici successivi. Durante gli anni Ottanta vi è una ripresa dell’interesse per la politica soltanto nel periodo di crisi degli ultimi governi della UDC (il tentativo di colpo di Stato guidato dal colonnello Tejero è del 1981) e nella fase di avvento al potere del PSOE, nel 1982. Infatti, nel 1981 e nell’anno seguente i “molto + abbastanza interessati” erano rispettivamente il 35% e il 38%, dopo questa data si assiste ad una sorta di fuga collettiva dall’interesse per la politica, dal momento che già nel 1984 i “molto + abbastanza interessati” erano il 23% e nel 1989 il 22%. In altri termini, dopo l’euforia iniziale e la preoccupazione per una effettiva transizione alla democrazia sembra crescere notevolmente quell’atteggiamento di «disincanto politico» che Juan Linz ha indicato come conseguenza dell’esperienza diretta della democrazia, in contrasto con le attese generate dalla fase della Transizione (Linz 1981). Tuttavia, se uno stato d’animo di allontanamento e di disinteresse per la politica è abbastanza tipico della fase che ha caratterizzato gli anni Ottanta in tutti i paesi industrializzati, bisogna osservare che nel caso spagnolo questo disinteresse esprime anche un atteggiamento di fondo di sostanziale sfiducia tanto verso il sistema politico quanto verso gli altri. Come ha osservato Benedicto Millán: «per comprendere l’effettiva dimensione del fenomeno della mancanza di efficacia politica nella nostra giovane democrazia è necessario porlo in relazione con il diffuso sentimento di sfiducia e il prevalente atteggiamento di cinismo con il quale gli spagnoli valutano i politici. Ancora dobbiamo far riferimento alla influenza culturale del franchismo, così come al rapido processo di “normalizzazione” sperimentato dal regime democratico quasi fin dai suoi inizi» (Benedicto Millán 1989, 663). Per quanto questo atteggiamento di sfiducia costituisca tradizionalmente uno dei tratti della cultura spagnola attestati dalle diverse ricerche sui valori compiute nel corso degli anni, è da sottolineare che la tendenza alla sfiducia è andata progressivamente incrementandosi soprattutto per i giovani, anche se nel 1994 è cresciuta notevolmente anche nelle fasce di età più mature (cfr. grafico 1). 137 Grafico 1. Sfiducia negli altri* *Non si è mai abbastanza prudenti con gli altri meno Si può confidare negli altri. Elab. propria da Orizo (1996). La diffusione in molti gruppi di età di un generale atteggiamento di diffidenza verso gli altri costituisce un indicatore significativo dell’incremento del processo di individualizzazione, soprattutto se considerato in quanto orientamento tendenziale verso una rappresentazione della società molto più come aggregazione di individui, che come insieme più o meno organico ma comunque connotato da un condiviso sentimento di appartenenza. Il rapporto con la sfera pubblica della vita sociale, ed in particolare con la dimensione della politica, viene inevitabilmente influenzato da questa trasformazione del rapporto con gli altri. In particolare, se confrontiamo la variazione dei livelli di sfiducia con quella relativa all’interesse per la politica (grafico 2), si nota che anche in momenti nei quali il sistema politico era investito da importanti trasformazioni che da sole potrebbero giustificare un elevato interesse per la politica, come nel periodo della Transizione, in realtà l’interesse per questa dimensione è evidentemente sostenuto da un diffuso atteggiamento di fiducia nei confronti degli altri; allo stesso modo, alla progressiva diffusione della sfiducia si accompagna lo sviluppo di un crescente disinteresse per la politica. Un ulteriore indicatore di questa connessione è dato dall’effetto di coorte che è possibile osservare nel grafico 1: la genera138 Grafico 2. Sfiducia negli altri ed interesse per la politica per età e anno Elaborazione propria da Orizo (1996). zione di coloro che avevano nel periodo della Transizione tra i 18 e i 24 anni, ovvero coloro che – secondo la tesi di Inglehart – entravano nella fase più marcata della loro socializzazione politica, conserva l’atteggiamento di fiducia anche dopo 13 anni, facendo registrare, allo stesso tempo, il più basso livello di sfiducia verso gli altri. L’insieme dei tratti strutturali che sono stati sinteticamente delineati gioca un ruolo significativo nella definizione della particolare configurazione dei sistemi di valore e della cultura politica delle diverse generazioni che formano la società spagnola. In questo senso vi faremo riferimento nel prossimo paragrafo, dedicato all’analisi degli elementi che caratterizzano la cultura politica dei giovani nella società spagnola dell’ultimo decennio del XX secolo. 2. Partecipazione politica e valori democratici negli anni Novanta A partire dagli anni Novanta, soprattutto dopo il 1992, la configurazione liberale del sistema dei valori, che sembrava un orientamento ormai consolidato, entra in crisi e di nuovo riappare un sostegno preponderante nei confronti della richiesta di maggiore uguaglianza. Anche in questo caso sono i giovani a segnare in modo più marcato la vera e propria inversione di tendenza, rispetto all’orientamento generale del resto della popolazione. Nel 1990 il 139 51% dei giovani tra i 18 e i 24 anni indicava la libertà individuale come l’elemento più importante e solo il 36% optava per l’uguaglianza, dopo quattro anni i sostenitori dell’uguaglianza sono saliti al 46%, mentre quelli della libertà sono scesi al 44%. Questo ritorno a valori egualitari può essere interpretato come una reazione di fronte all’incertezza generata dalla crisi economica che si è diffusa a partire dal 1992 e dalle trasformazioni occorse nel mercato del lavoro, che hanno reso più instabile il posto di lavoro e più difficile la sua ricerca4 . In questo senso è evidente che il gruppo sociale maggiormente esposto a questo tipo di “effetto di periodo” sia proprio quello dei giovani e che manifesti la percezione della propria insicurezza e precarietà con una riaffermazione di valori orientati in senso egualitario piuttosto che libertario. Ciò non significa, tuttavia, che l’inversione di tendenza segni una restrizione nel processo di individualizzazione che caratterizza la società postmoderna, in altri termini la riaffermazione di valori di tipo egualitario non comporta la ripresa di un orientamento ideologicamente orientato in senso egualitarista. Al contrario, si tratta piuttosto di una richiesta di una maggiore “uguaglianza individualistica”, nel senso che di fronte alla necessità di concretizzare le vie per il conseguimento di questa maggiore uguaglianza, i valori dell’uguaglianza ottengono consenso solo se non sono posti in alternativa alle dimensioni della capacità individuale e del merito personale. Di fatto quello che si intende affermare è una maggiore uguaglianza di opportunità che non vincoli però l’individuo nello spazio della sua libertà di azione soggettivamente intesa. Questo orientamento emerge abbastanza chiaramente nelle risposte ad alcuni items, come si può vedere nelle elaborazioni delle tavole 3, 4 e 5. Sono da sottolineare in particolare l’incremento di più del doppio nella proporzione di coloro che pur richiedendo maggiori elementi di eguaglianza non considerano la ricchezza come posSecondo dati del Ministero del Lavoro nel 1996 degli oltre 8 milioni e mezzo di contratti stipulati da 4 milioni di lavoratori, solo il 4,1% è stato relativo ad assunzioni a tempo indeterminato, mentre il 50% è stato di durata inferiore ad un mese, e, complessivamente, il 70% di tutti i contratti non ha superato la durata di 3 mesi. (La contratación y el paro registrado en 1996, Ministerio del Trabajo, Madrid, 1997, cit. in El Pais del 24/1/1997, p.54). 4 140 Rappresentazioni della dicotomia collettivo/individuale5 Tavola 3 Tavola 4 1990 1994 18-24 5.2 5.7 Totale pop. 5.0 5.7 1992 1994 18-24 13 31 Totale pop. -8 16 Tavola 5 1992 1994 18-24 5.8 6.2 Totale pop. 5.9 5.7 sesso di rilevanza sociale e come una condizione di ulteriore sviluppo economico. Si può dire insomma che gli elementi legati al merito individuale vengono premiati, ma all’interno di una logica che riserva allo Stato un maggiore ruolo nella garanzia delle condizioni individuali di opportunità. La chiara accentuazione dell’importanza dello Stato in anni di trionfo liberista, per un verso costituisce l’espressione – particolarmente sentita da parte dei giovani – della percezione della precarietà economica che sembra caratterizzare in modo sempre più marcato la condizione giovanile in tutti i paesi europei e in particolare in quelli dell’Europa mediterranea; per l’altro costituisce una seconda inversione di tendenza rispetto agli orientamenti emersi nel decennio precedente, ma, come già abbiamo detto a proposito dei valori egualitari, è anche un ritorno di un atteggiamento strutturale alla cultura politica spagnola, connesso con la sovrapposizione dei due processi di modernizzazione e di transizione alla società postmoderna. A corollario di questa configurazione di fine secolo della relazione tra eguaglianScala tav. 3: Salari più uguali (1) - Maggiori incentivi individuali (10). Indice tav. 4: I ricchi possono spendere per sé meno I ricchi devono investire per tutti (%). Scala tav. 5: Maggiori responsabilità individuali (1) - Più responsabilità allo Stato (10). 5 141 za, libertà individuale e funzione sociale dello Stato, troviamo una significativa trasformazione dell’etica del lavoro, o comunque di ciò che potremmo definire «una certa riduzione dei valori del liberalismo economico o, ancora meglio, un deterioramento dei valori del modello capitalista inteso in senso stretto, cioè di quei valori che favoriscono la proprietà privata delle imprese e la libera impresa, il lavoro sistematico, la disciplina, la pazienza, la posticipazione delle gratificazioni, l’etica del risparmio (...) a favore di un atteggiamento più egualitariamente giacobino. Oggi gli spagnoli hanno accentuato la loro visione pessimista sul guadagnarsi da vivere e sul conseguimento del successo o di una vita migliore attraverso il lavorare duramente (...) per questo in una maggior proporzione si rivolgono allo Stato, al quale chiedono di estendere il proprio manto protettivo. (...) Perché, in generale, si crede più che dieci anni fa che lo Stato può risolvere quasi tutti i problemi» (Orizo 1996, 209). Questa trasformazione è connessa ad una crescente diffusione della considerazione del lavoro come un peso necessario per vivere, non un modo per realizzare le proprie capacità individuali: nel 1994 un giovane su quattro (24%) ritiene il lavoro una necessità e non lavorerebbe se potesse. Da un punto di vista intergenerazionale ciò costituisce un mutamento radicale, dato che la motivazione al lavoro come qualcosa di importante nella vita dell’individuo rimane un tratto tipico di coloro che hanno superato i 45 anni. La particolare commistione di individualismo e statalismo che si viene configurando costituisce un elemento significativo anche in relazione alle trasformazioni relative all’interesse per la politica. Come si vede nel grafico 2, rispetto al 1981 l’interesse per la politica si è ridotto drasticamente, passando dal 34% di interessati che partecipano attivamente e interessati che non partecipano attivamente, al 21% del 1994. Nel 1996 il livello di interesse attivo e non attivo nei giovani tra i 15 e i 29 anni si colloca al 22%, essendo quasi esclusivamente formato da persone che non prendono parte attiva nella politica (gli attivi sono solo il 3%). Ancora più significativi sono il 44% di coloro che dichiarano di non essere affatto interessati alla politica e il 33% che considera la politica non più interessante di altre cose (CIS 1996, 7). Tuttavia, diventa sempre più importante distinguere tra le due accezioni del concetto di politica: la dimensione istituzionale della politica, intesa come 142 attività quotidiana realizzata dagli attori politici tradizionali, come i partiti e i politici di professione da un lato, e dall’altro la politica come espressione collettiva di principi e di diritti che si esprime al di fuori delle sedi istituzionali e, molto spesso, anche al di fuori delle forme convenzionali. Considerato in questa seconda accezione e definito come uno degli “aspetti molto importanti nella vita” l’interesse per la politica cresce rispetto al 1990, passando nei giovani tra i 18 e i 24 anni dal 15% al 23%, anche se collocandosi ampiamente al di sotto di tutte le dimensioni relative alla sfera privata e alle relazioni interpersonali – nell’ordine: famiglia, lavoro, amici, tempo libero (Orizo 1996, 303). A conferma dell’incremento del processo di tendenziale separazione di queste due accezioni della politica nell’esperienza e nella valutazione delle giovani generazioni vengono alcuni dati particolarmente interessanti. In un’indagine condotta dal CIS nell’ottobre del 1996 (CIS 1996, 7) si chiedeva di indicare quali tre di una serie di aggettivi caratterizzano meglio i politici così da delineare una sorta di profilo della percezione del personale politico. Il 70% li definisce “ambiziosi” e il 40% parimenti “egoisti” e “lontani dalle preoccupazioni della gente”, mentre per il 25% sono “disonesti” e “necessari”, solo un 20% li ritiene “competenti” e un 15% “responsabili”. Insomma, il politico costituisce uno dei pochi modelli negativi ampiamente condivisi nelle valutazioni delle giovani generazioni, a testimonianza della sensazione di lontananza e di disillusione che caratterizza la percezione della politica istituzionale. Notevolmente diverso è il caso del potenziale di mobilitazione relativo alle forme non convenzionali di azione politica. Rispetto al 1990 in Spagna è progressivamente aumentata la proporzione di coloro che “hanno compiuto” o che “potrebbero compiere” azioni politiche come firmare una petizione, partecipare a manifestazioni, occupare edifici, bloccare il traffico per protesta, scrivere frasi di protesta sui muri, ciò che viene maggiormente rifiutato sono soltanto le azioni che comportano il ricorso alla violenza, sia verso oggetti, come il danneggiamento di vetrine, cartelli stradali, ecc., sia come disponibilità alla partecipazione di scontri tra manifestanti o con la polizia (cfr. grafico 3). L’interesse per questo genere di azioni può essere interpretato anche come una sorta di valvola di sfogo che acquista rilevanza in conseguenza del declino dell’identificazione in un partito e dell’allontanamento dalle 143 forme istituzionalizzate di partecipazione politica, compresa l’espressione del voto. Grafico 3. Forme di partecipazione politica non istituzionale Bisogna tuttavia osservare che in questa seconda metà degli anni Novanta si registra una crescente diffusione degli orientamenti favorevoli all’impiego della violenza nelle azioni politiche. In particolare, le coorti più giovani (15-20 anni) mostrano atteggiamenti di giustificazione della violenza sia per fronteggiare il terrorismo sia per conseguire o contrastare le richieste di autonomia politico-istituzionale. Il 27% dei giovani che si dichiarano favorevoli all’autodeterminazione territoriale, sostengono apertamente l’impiego della violenza per questo scopo, allo stesso tempo anche gli atteggiamenti di coloro che sono contrari all’incremento di autonomie si coniugano sempre più con l’accettazione della violenza in funzione di antiterrorismo (51%). Più in generale, l’estensione oltre la soglia maggioritaria del consenso al ‘modello del giustiziere’, cioè al ricorrere personalmente alla violenza per evitare furti (59%), per lottare contro gli spacciatori di droga e i tossicodipendenti (65%) e per evitare violenze sessuali (73%), ha fatto parlare di una ‘sindrome autoritaria’ che sarebbe in formazione negli orientamenti dei giovani come metodo di soluzione dei problemi collettivi (Martín Serrano e Velarde Hermida 1996, 144 251), ma anche, si può aggiungere, come espressione di un basso livello di fiducia istituzionale e interazionale. La crescita del potenziale di mobilitazione verso azioni politiche non convenzionali segnala anche un avvicinamento nella dinamica intergenerazionale tra giovani e adulti sostanzialmente attraverso un movimento dei secondi verso le posizioni non convenzionali tradizionalmente appannaggio delle giovani generazioni. Questo tipo di disponibilità sorge in un contesto nel quale è di fatto quasi inesistente una tradizione di associazionismo politico. Pur prescindendo dalle differenze di età, che pur sono rilevanti anche in questo caso, nella società spagnola non vi è mai stato un livello significativo di associazionismo. In Spagna la diffusione dei cosiddetti nuovi movimenti sociali si è verificata molto lentamente e soprattutto non ha mai suscitato un interesse particolare. Pur trattandosi di un fenomeno quasi esclusivamente giovanile i livelli di partecipazione all’attività di questi movimenti sono sostanzialmente uguali a quelli relativi all’iscrizione ad un partito. L’appartenenza ad associazioni ecologiste, ad esempio, non è mai stata superiore al 2%, né negli anni Ottanta né negli anni Novanta, allo stesso modo, l’appartenenza ad associazioni per la difesa dei diritti umani non ha mai superato, nei giovani tra i 18 e i 24 anni, l’1%, lo stesso si può dire per i movimenti pacifisti. Più significativi sono gli indici di atteggiamento verso i temi peculiari dei nuovi movimenti sociali, nel caso spagnolo la significatività è data soprattutto dalla riduzione di sostegno che si è verificata con l’inizio degli anni Novanta. Mentre infatti nel 1990 il 71% dei giovani (18-24 anni) diceva di “approvare totalmente” i movimenti in difesa dei diritti umani, nel 1994 mantiene questa posizione il 50%, lo stesso si può dire per i movimenti pacifisti i cui sostenitori sono passati dal 60% nel 1990 al 47% nel 1994, infine, anche i movimenti ecologisti hanno visto scendere la proporzione di coloro che li approvano totalmente dal 66% del 1990 al 53% di quattro anni dopo (Orizo 1996, 138-140). Un poco diverso sembra il caso dell’interesse per le attività umanitarie degli organismi non governativi (ONG), soprattutto per la capacità di mobilitazione che hanno dimostrato nel biennio tra il 1994 e il 1996 in occasione di progetti specifici di intervento, come è accaduto per l’aiuto ai profughi in occasione del conflitto nella regione dei Grandi Laghi. 145 Per quanto concerne la legittimazione del sistema democratico emergono alcune tendenze degne di nota. In generale è condivisa maggioritariamente l’affermazione che la democrazia è il miglior sistema politico per un paese come la Spagna, anche se bisogna osservare che lo è di più dagli adulti che dai giovani. Non a caso il gruppo di età maggiormente impegnato nella legittimazione del sistema democratico è formato dalla generazione di chi ha tra i 35 e 45 anni, che ha vissuto direttamente l’esperienza della transizione alla democrazia. Assai diverso è il giudizio da parte di coloro che sono nati e vissuti in un contesto ormai ampiamente democratizzato, ovvero la generazione degli attuali quindicenniventicinquenni. Da parte di questi il consenso verso la democrazia mostra incertezze e zone d’ombra soprattutto quando viene loro chiesto di scegliere tra opzioni differenti dalla democrazia: di fronte ad un 67% che opta per la democrazia in quanto preferibile a qualsiasi altra forma di governo, c’è un 19% che sostiene che “per me è uguale che ci sia un sistema democratico o uno autoritario” e un 12% che concorda con l’affermazione che “a volte è preferibile un governo autoritario ad uno democratico”. Vi è quindi un 31% di giovani che non riconosce come necessario il sistema democratico e che in certi casi perfino ne preferirebbe uno autoritario (Orizo 1996, 240). Si tratta di una netta inversione di tendenza rispetto ad altri momenti della storia politica spagnola che vede protagonisti proprio i settori più giovani delle nuove generazioni, sono infatti coloro che hanno tra i 15 e i 20 anni a sostenere di più le posizioni filoautoritarie. In conclusione, si configura uno spostamento delle giovani generazioni verso destra, rispetto alla collocazione a sinistra che era stata un elemento caratterizzante le giovani generazioni fin dagli ultimi tempi del franchismo. A partire dalla fine degli anni Ottanta si assiste ad un lento ma consolidato processo di convergenza tra le generazioni dei giovani e quelle dei padri; mentre questi ultimi, anche per l’effetto del ricambio generazionale che vede entrare nelle fasce adulte la generazione della Transizione, segnano un progressivo spostamento da destra verso il centro, le prime si spostano – anche se in modo minore dei padri – da sinistra verso il centro, il risultato è una progressiva riduzione delle differenze intergenerazionali e una generale convergenza su posizioni meno ideologizzate e più moderate. 146 CAPITOLO QUINTO CAMBIO POLÍTICO Y IMÁGENES DE LA JUVENTUD ESPAÑOLA 1. La juventud y la política en la sociedad española La concepción más extendida acerca de las relaciones entre los jóvenes actuales y la democracia es aquélla que afirma la creciente desafección de los primeros hacia la última. Nuestros jóvenes se estarían alejando, quizá irremediablemente, de la política institucional, bien por su falta de interés por la misma, por la pasividad en sus comportamientos políticos, o por el enfrentamiento al participar en movimientos y prácticas antisistema. No es ahora el momento de hacer una revisión crítica de estas creencias (puede verse en Ortega, en Bettin 1999b: tomo II), pero al menos conviene dejar sentados ciertos presupuestos de los que partimos. El primero de ellos es que necesitamos, si queremos ser mínimamente coherentes con la lógica de la investigación, confrontar las pautas políticas de esta juventud con las de sus padres. En segundo lugar, refiriéndonos a estos últimos, dejar claro que vivieron en un contexto en el que el “clima” antisistema fue bastante más radical que el de nuestros días (al menos, por el momento). Es necesario, en tercer lugar, situar a la juventud dentro de las tendencias políticas más consolidadas de su sociedad. En fin, conviene no tratar a la juventud como un grupo homogéneo en el que las diferencias asociadas a la adscripción o a los itinerarios biográficos e de integración social no tuvieren relevancia. Con todo ello queda dicho que se necesita más amplia y diversificada información sobre los jóvenes para tener a disposición una imagen más ajustada de los mismos. Es este un trabajo en el que vienen realizándose logros imQuesto capitolo è stato scritto da Félix Ortega. 147 portantes, y me remito a los ya conseguidos por el grupo de investigadores de la red europea de los que este ensayo forma parte. Aquí solamente me detendré en analizar aquellos aspectos que se refieren los comportamientos políticos de la juventud, así como a sus orientaciones ideológicas. Para explicar tales vertientes del comportamiento político juvenil es necesario en primer lugar hacer explícito el marco político dentro del cual estos jóvenes se sitúan. De no hacerlo así, corremos el riesgo de atribuirles unos rasgos meramente coyunturales, asociados a su ciclo vital, y que bien pudieran volatilizarse rápidamente en pocos años. Si lograr la identidad en términos personales es un largo y nunca acabado proceso, mucho más frágil puede serlo cuando se trata de su dimensión política. De ahí que si queremos descubrir rasgos más duraderos (en tal caso estaríamos ciertamente ante un cambio generacional), tengamos que perfilarlos dentro del conjunto de la sociedad española. Con ello conseguiremos sacar a flote afinidades y diferencias entre la juventud y el resto de la sociedad. Este marco general ha sido trazado en sendas investigaciones (Morán y Benedicto 1995; Orizo 1996). Una exposición inteligente de las relaciones entre este marco y la cultura política juvenil es la de M. Bontempi (en Bettin 1999: tomo I). Todos estos análisis tienen la virtud de proporcionarnos las tendencias de la cultura política en España a lo largo del período de vigencia del sistema democrático. Los efectos coyunturales o más efímeros tienen aquí escasa relevancia, emergiendo, por el contrario, actitudes y comportamientos relativamente consolidados. ¿Cuáles son las características políticas principales del conjunto de la sociedad española? Siguiendo el esquema de análisis utilizado por Mª. L. Morán y J. Benedicto, son éstas. – En primer lugar, si consideramos al individuo como ciudadano, sus creencias políticas suelen ser de lejanía e impotencia respecto del mundo político, si bien van sabiendo cada vez más de él. Entienden, pero no actúan, porque estiman que su influencia sobre la política es escasa; una razón que les lleva a un bajo nivel de movilización política y a que cuando lo hacen sea sobre todo en formas de protesta alejadas de los cauces convencionales. – Como actores políticos, los españoles se caracterizan por otorgar una alta legitimidad al sistema político democrático, al tiem148 po que es muy bajo su nivel de implicación y participación en el mismo. Sus conocimientos del sistema político, que no son muy elevados, los obtienen de los medios de comunicación, su principal fuente de información política. El nivel de asociacionismo (en partidos y sindicatos) es escaso. La única conducta política que cuenta con un arraigo importante es la participación en los procesos electorales. Por lo que se refiere a prácticas políticas no institucionales, hay un alto grado de legitimidad para aquellas que respetan el ordenamiento legal (manifestaciones, huelgas), descalificándose por el contrario a cuantas se enfrentan al mismo e implican el uso de la violencia. Sin embargo, son muy pocos los que han participado en cualquiera de estas prácticas. –Las representaciones e imágenes elaboradas por los españoles sobre la democracia son ambivalentes. De un lado, se acepta ampliamente este sistema político, ya que al mismo se le concede el significado de libertad, un valor altamente apreciado. Pero por otro, se le atribuye un bajo nivel de eficacia en la defensa de esos mismo valores, por lo que estiman que se necesitaría profundizar aún más en la intensificación de la democracia. Asimismo, el crédito otorgado a las principales instituciones, organizaciones y agentes de la vida política es poco alto. De esta baja valoración sólo se libran la prensa y los jueces. A pesar de la indudable desideologización producida en la sociedad, el eje izquierda-derecha sigue siendo el principal referente político de los ciudadanos españoles. – Acerca de los efectos y resultados de la acción política, existe la convicción, que se incrementa con el paso del tiempo, de la creciente influencia de lo político en la vida cotidiana. A ello se añade la decepción creada por la actuación del gobierno, especialmente en lo que concierne al empleo dado al dinero público (en los últimos años del gobierno socialista). De nuevo vemos aparecer en esta valoración la típica ambigüedad de la cultura política española: el ciudadano percibe que entre él y el Estado hay una distancia considerable, pero simultáneamente se siente cada vez más dependiente de tal Estado, al que pide y del que espera más y mejores servicios públicos. Una observación de carácter general es que los índices más positivos (en información, participación, imágenes y valoraciones) aparecen por lo general en los grupos con un nivel de estudios 149 más elevado, una variable bastante más explicativa de las diferencias políticas que la edad y el género. Nacidos, socializados y situados en este contexto, ¿cuál es marco político específico de la juventud española? La información acumulada por una amplia gama de estudios empíricos sobre los jóvenes desde mediados de los ochenta hasta la actualidad (véase como ejemplo el más reciente, J. Elzo et aliis 1999) permite afirmar que el perfil político de la juventud no difiere sustancialmente del que aparece en otros grupos de edad. Como ya he señalado, son otras variables (especialmente asociadas a la capacidad intelectual y cultural) las que explican de manera más significativa las diferencias en el terreno político. Es lógico, por lo demás, que la juventud, socializada dentro de un horizonte de referencia como el anteriormente descrito, haya asimilado gran parte de los valores y pautas del mismo. Ahora bien, ello no presupone en ningún caso que no existan peculiaridades dignas de tenerse en cuenta entre los jóvenes. Para poner de relieve tanto las semejanzas como las diferencias, vamos a efectuar un análisis, con la información obtenida en la investigación de nuestra red europea, en una triple perspectiva: las relaciones del joven con la política institucional, sus vinculaciones con formas políticas alternativas (periféricas u opuestas al sistema) y el universo normativo-valorativo que han desarrollado acerca de la política. 2. La estructura de los valores entre materialismo y postmaterialismo Una primera aproximación a la cultura política, en sentido amplio, de la juventud nos la proporciona el eje materialismopostmaterialismo concebido por R. Inglehart. A la dimensión de naturaleza más bien pública de ese eje, nosotros hemos añadido otro que implica el ámbito privado, aquél que concierne a los valores que se estiman importantes en el desarrollo y socialización de la personalidad. Los resultados aparecen expresados en sendas tablas, en las que figuran los porcentajes de respuestas correspondientes a cada uno de los valores numéricos en la escala que va del 1(menos importante) al 10 (más importante). La primera conclusión que se impone es que los estudiantes manifiestan una mayor preferencia por valores postmaterialistas que materialistas, si bien estos últimos cuentan con suficientes adeptos 150 Tabla 1 Importancia atribuída a cada uno de los siguientes valores políticos (sólo estudiantes) (%) Tabla 2. Cualidades más importantes en la educación de los hijos (sólo estudiantes) (en %) entre ellos. Por lo que se refiere a valores personales, cuentan más aquéllos que tienen que ver con el desarrollo y la confianza individuales que con los que suponen una integración en la sociedad. En ambos casos, estos jóvenes son un poco más postmaterialistas y también individualistas que sus padres. Dicho esto, conviene que nos detengamos en señalar qué valores concretos generan mayor identificación y cuáles menos. Una ordenación de estos valores por orden de preferencia es el que recoge el siguiente cuadro: 151 Tabla 3. Valores políticos y personales preferidos por los estudiantes El orden de los valores se ha establecido a partir de las dos primeras puntuaciones más altas obtenidas por cada cada uno de ellos en la escala 1-10. En lo que concierne a los valores políticos no cabe ninguna duda de la preeminencia del postmaterialismo, si bien conviene hacer alguna matización. La primera es que algún valor postmaterial (“Contribuir a que la sociedad sea menos impersonal”) no goza de tan alta estima como el resto, lo cual puede suponer que el alto individualismo que encontramos en otros datos se refugie cada vez más en el ámbito privado, abandonando así cualquier intento de transformación de la sociedad en la misma sintonía de lo deseado para la intimidad. De ser así estaríamos ante un fenómeno doble: un décalage cada vez más acusado entre individuo-sociedad, y la emergencia de actitudes proclives a la pasividad frente al orden institucional. La segunda precisión que cabe hacer es que a pesar del segundo plano que ocupan los valores materialistas, éstos no tienen una baja consideración para los estudiantes, ya que todos ellos se sitúan en torno a la puntuación 7 de promedio. En el caso de los valores personales, el panorama es bastante más complejo y contradictorio. En efecto, al analizar el cuadro precedente podemos comprobar la mezcla de valores materialistas con postmaterialistas: entre ambas dimensiones no parece darse una barrera divisoria tan nítida como en los valores políticos. Así, resulta llamativo comprobar que valores como la “aplicación en el trabajo” y la “autodisciplina”, marcadamente materialistas, ocupan un lugar destacado en las preferencias de los estudiantes. ¿A 152 qué podemos atribuir esta aparente paradoja? Desde mi punto de vista, a dos factores íntimamente asociados. El primero de ellos guarda relación con el proceso de movilidad social (o por lo menos académica) a que están sometidos estos estudiantes, que les lleva a otorgar importancia a valores típicamente individualistas que en la disciplina (en el estudio, en la vida) ven un medio de superar otras limitaciones adscritas al origen. En segundo lugar, esta disciplina implica también aplicación y (considerando sus expectativas de eventuales trabajos cualificados en el futuro) profesionalismo. En suma, rasgos característicos de clases medias con aspiraciones de logro estimuladas por el éxito académico. En estas creencias, al igual que en las políticas, las valoraciones en todos los casos se situan en la mitad superior de la escala. Un caso singular es el del “amor al propio país”, que no goza de excesiva estima precisamente dentro de un grupo que muestra en otros casos un patriotismo destacado, tal y como ya hemos puesto de relieve. Es posible que tal disparidad de los datos se deba a que el patriotismo se ha confrontado con dos órdenes de realidad diferentes: en el primer caso, cuando aparece como un valor apreciado, se le ofrece al joven como una dimensión, junto con otras, supraindividual con la que identificarse; por el contrario, en el último supuesto se trata del valor más alejado de la realidad personal (se trata de un grupo territorial) a que se refiere el conjunto de valores propuestos. Dado el fuerte individualismo que hemos detectado y la preferencia por los grupos personales primarios, resulta coherente la postergación de un valor que apenas se relaciona con el desarrollo personal. En otras palabras: el patriotismo de los jóvenes aparece como un valor con más relieve cuando la comparación se efectúa con otros grupos territoriales; pero pierde importancia si se le confronta con grupos personales. La vida dentro de estos grupos parece eclipsar a cualquier otra opción. Es necesario por tanto hablar de la existencia de un continuum materialismo-postmaterialismo, antes que de su oposición o superación. Que los valores materialistas se situen en un segundo, pero inmediato, segundo plano respecto de los postmaterialistas no significa su relegación, sino que hay una mayor seguridad en su estabilidad o consecución. El hecho de que sea en el plano del desarrollo personal donde estos últimos valores tienen un mayor relieve 153 indica que al menos para este grupo social de estudiantes hay todavía un claro horizonte materialista por lograr y afianzar. Así vistas las cosas, es lógico sostener (Orizo 1996) que estamos, al menos por el momento, en una sociedad de un materialismo renovado. Pero cabe hacer todavía algunas objeciones al planteamiento postmaterialista. En mi opinión peca éste de una lectura, si bien no confesada, sesgada de Weber y de una pretensión, bastante más explícita, de dar por muerto el marxismo. De Weber ha retomado un enfoque que situa el universo cultural del capitalismo en una moral radicalmente ascética, basada en el trabajo y en la negación del hedonismo. Pero no se tienen en cuenta que la interpretación weberiana del capitalismo contenida en La ética protestante y el espíritu del capitalismo se refiere al primer capitalismo, como el propio Weber se guarda mucho de subrayar. Esa tendencia tan acusada entre muchos sociólogos a establecer como una contradicción capitalismo y hedonismo (o entre trabajo/ocio y consumo) no es desde luego weberiana y choca además con el desarrollo histórico del capitalismo. En todo caso, de darse tal contradicción no es nueva, sino que hemos de remontarnos a la centuria precedente, como hace D. Bell, para encontrarla ya plenamente activa. Hay también un supuesto subyacente en el postmaterialismo que tiene relación con el empeño por decretar la muerte, en este caso teórica, de Marx. Primero ha sido la salida del escenario de una parte muy destacada de las Ciencias Sociales de las clases sociales como objeto de estudio; después se ha tratado de minimizar los conflictos económicos como factor crucial en la dinámica social. Soslayar la dimensión económica y centrarse en aspectos del desarrollo personal son los sustitutos conceptuales del viejo marxismo. Que el marxismo como proyecto político haya sido un fiasco, y que a impulsos del marxismo se hayan desatendido dimensiones de la vida social que no siempre son comprensibles en razón de las clases o el conflicto social, no ha de llevar a la posición contraria y a negar la vigencia o la importancia de lo material-económico en nuestras sociedades. Es más: resuelta la dicotomía democracia-comunismo en favor de la primera, el capitalismo se ha quedado como el único sistema económico posible. Más que nunca, los intereses económicos tienen una relevancia crucial, y, sin embargo, parece haberse producido un extraño consenso en las Ciencias Sociales para desentenderse de la marcha económica del 154 mundo. Ensimismadas en lo post, estas Ciencias están dejando sin explicaciones las transformaciones derivadas de una nueva realidad material. Ciertamente que retornar sin más a las tesis de Marx es insuficiente e inadecuado para explicar nuestras sociedades, pero no lo es seguir poniendo el énfasis en lo material como fundamento de la realidad. Y claro, sólo conociendo ésta es como estaremos en condiciones de comprender el sistema de valores que la explica o legitima. En suma: los datos que aquí hemos manejado nos llevan a replantearnos la necesidad de no proclamar alegremente el fin de lo material. 3. Desencanto y participacíon política En lo que concierne al ámbito público, en términos generales, los estudiantes muestran una muy baja estima por la mayor parte de las instituciones que configuran el espacio público; tal actitud tiene sus efectos principales en la percepción de lo político y en cuanto concierne a su participación en esta dimensión. Pero es necesario añadir que esta desafección por lo público no significa que no se tengan simultáneamente altas expectativas acerca de las prestaciones que pueden obtenerse de aquél, ni tampoco que no exista un espacio público alternativo al político. Veamos con algún detenimiento este cuadro valorativo, no exento de notables contradicciones. De las diversas instituciones que configuran los ámbitos sociales distintos del privado, los estudiantes confeccionan un cuadro valorativo constituído por tres grupos de ellas: (I) Instituciones a las que suspenden y por tanto hacia las que tienen escasa confianza: en orden de menor a mayor confianza se situan la Iglesia Católica, el Ejército, los Partidos políticos, el Gobierno, los Alcaldes, los Empresarios y los Sindicatos. (II) El Parlamento y los Jueces obtienen un aprobado. (III) Por encima del aprobado aparecen de menos a más confianza la Policía, la TV, la Universidad, las ONG, la Radio, los Periódicos y el Rey. Todo el entramado institucional que encarna el orden económico y político encuentra un alto grado de desafección entre estos jóvenes, si bien en algunos casos (Partidos y Sindicatos), su confianza es algo superior a la de sus padres. Por el contrario, son las instituciones 155 académicas (pero su confianza en la Universidad es inferior a la de sus padres), los medios de comunicación y las ONG quienes se erigen en el espacio público con más alto aprecio. Dos instituciones merecen ser mencionadas aparte. El Rey, que es quien goza de más alta confianza, da la impresión de aparecer desvinculado del orden político-institucional dentro del cual se integra. Quizá estemos, una vez más, ante un caso de confianza personal, lo que si bien puede ser un dato positivo para el actual Monarca, no presupone que se tenga el mismo tipo de valoración hacia la institución monárquica. Por lo que a la Policía se refiere, contrasta su alto aprecio con el bajo rango que los estudiantes atribuían al valor de “mantener el orden en el país”. Tal disparidad podríamos explicarla en virtud de la utilización frecuente que se suele hacer de una doble escala valorativa en aquellas dimensiones que afectan a la vida cotidiana: de un lado, una escala abstracta que sintoniza con el actual universo cultural que suele rechazar todo lo relacionado con el orden (visto como resultado de imposiciones autoritarias); de otro, una escala concreta que valora positivamente la eliminación de conductas, personas y situaciones que trasgreden el orden normativo inmediato o interfieren disruptivamente en la apreciada vida privada. Dada la importancia que la esfera política tiene en nuestras sociedades, conviene que nos adentremos algo más en poner de relieve los criterios que en torno a la misma asumen estos jóvenes; criterios que no siempre son coincidentes con su baja estima hacia las instituciones políticas. Más bien parece que su actitud negativa es hacia los políticos y no hacia la política. En efecto, la mayoría de estos jóvenes se muestra en desacuerdo con que la política sea una cosa sucia y con que la política se deje en mano de los políticos. Asimismo, creen no tener influencia real sobre las decisiones políticas, razón por la que consideran necesaria la intervención activa de los ciudadanos en la resolución de los problemas sociales y políticos, no limitándose por tanto a ocuparse de sus asuntos privados. Es preciso observar, no obstante, que la alta proporción de mujeres en la muestra quizá esté sesgando bastante estas opiniones: es posible que se trate de un caso más de la expansiva tendencia reivindicativa de la mujer en un sector que, como el político, les ha sido tradicionalmente vetado. Lo que vendría a coincidir con el fuerte grado de acuerdo que estos estudiantes tienen con otorgar a la mu156 jer una mayor presencia en la política activa. En todo caso, hay que abandonar, al menos en sectores de población como el de nuestra muestra, el lugar común de que el joven “pasa” de la política; al menos idealmente no parece hacerlo. Otra cosa distinta es el el grado real de participación de este mismo joven en los asuntos políticos. Sin duda alguna, por su edad y posición, no se encuentra en la situación más idónea para intervenir de forma directa en la política, aun cuando estime que tal intervención sea necesaria. De otro lado, participar no significa necesariamente hacerlo a través de los cauces institucionales establecidos (tabla 4). Tabla 4. De las siguientes actividades, ¿cuáles ha hecho, cuáles estaría dispuesto a hacer y cuáles no haría nunca? (Sólo estudiantes) (%) Las formas de participación que hasta ahora han hecho se caracterizan por su carácter no institucional, pacífico y que requieren un bajo grado de implicación y compromiso por tratarse de conductas esporádicas. El mayor rechazo se concentra en actividades que suponen el empleo de la violencia y en cuantas conciernen a la política institucionalizada. En comparación con sus padres, su desvinculación con las instituciones es mayor, como mayor es su predisposición a emplear la violencia y a intervenir en acciones políticas no convencionales. De conformidad con tales actitudes, la participación y el interés de los estudiantes por implicarse en 157 actividades relacionadas con los partidos políticos, los sindicatos o las asociaciones religiosas son casi nulos. Podría pensarse que la canalización de su mostrado interés político y social pasaría por las ONGs. Pues bien, la participación en éstas es desde luego más elevada que en cualquier otro tipo de organización (uno de cada cuatro estudiantes confiesa que lo hace), y su desinterés hacia las mismas es escaso. Sin embargo, cerca de siete de cada diez estudiantes no ha participado nunca en una ONG. Una primera conclusión que se impone a partir de cuanto hemos analizado hasta ahora es que los modos (reales o preferidos) de participación política y social de estos estudiantes son sobre todo los desinstitucionalizados, en prácticas o movimientos que cuentan con una débil estructura organizativa, y cuya intervención en la sociedad es esporádica y por tanto no estable. Este sería sin lugar a dudas uno de los componentes del espacio público más apreciado por estos estudiantes. El otro es el que constituyen los medios de comunicación, cuya valoración hemos visto que es una de las más altas concedidas al orden institucional. Medios de masas y movimientos no institucionales configuran así el nuevo espacio público es estos jóvenes, en detrimento del ámbito político tradicional, pero también de otras organizaciones sociales más arraigadas y permanentes. Dado que este espacio público se vincula más directamente que ningún otro con el simulacro y la representación, tendremos que afirmar que los valores y las actitudes públicas de los estudiantes son básicamente postmodernas. Otra cosa es si se trata de actitudes y valores definitivamente asentados o, por el contrario, son atribuibles al efecto del ciclo vital. Al final de este apartado volveremos sobre ello. Pero la configuración del nuevo espacio público postmoderno no presupone el abandono por completo del viejo espacio público, en particular de una de sus instituciones claves: el Estado. La percepción del mismo puede efectuarse desde la óptica del entramado político; en este sentido, ya hemos señalado el bajo crédito que le conceden. Pero el Estado se puede contemplar también en su vertiente benefactora, esto es, como institución que presta (gratuitamente) servicios y garantiza derechos incondicionados. Así entendido, el Estado se erige en una instancia sobre la que se vuelcan altas y crecientes expectativas. 158 Tabla 5. Grado de acuerdo con que el Estado: (Sólo estudiantes)(en %) Apenas necesitamos comentar estas cifras. Si el ciudadano sólo paga en proporción a lo que recibe, se liquida el sentido mismo de la fiscalidad redistributiva y progresiva. Porque es claro que las clases sociales menos favorecidas, al depender más en la utilización de servicios esenciales de la aportación estatal, tendrían, según esta lógica, que aportar más que las clases acomodadas, que no necesitan del Estado para tener acceso a la educación o la sanidad. Es muy elocuente, además, que la conciencia fiscal retroceda entre los jóvenes si los comparamos con sus padres, precisamente cuando los primeros han sido los que han gozado de mayor número de prestaciones sociales gracias a un sistema fiscal de naturaleza redistributiva. Ello nos llevaría también a plantearnos si la gratuidad absoluta en los servicios públicos contribuye a valorarlos debidamente y, sobre todo, a percatarse de los costes económicos de los mismos. Pero se trata de un debate que desborda las pretensiones de este trabajo. Si del orden institucional pasamos al ideológico, la dicotomía izquierda-derecha aparece plenamente vigente, al menos formalmente, entre estos estudiantes. La inmensa mayoría de ellos se ubican en posiciones claramente de izquierdas; el resto lo hace en el centro (uno de cada cuatro) y en la derecha (uno de cada diez). Una identificación más a la izquierda que la que sus padres efectuan de sí mismos. ¿Hay correspondencia entre esta ubicación y los contenidos políticos que los estudiantes atribuyen a la izquierda y a la derecha?. En principio así es. Los valores que estos estudiantes especifican como propios de la izquierda son los que históricamente le pertenecen: la igualdad, y la solidaridad, mientras que a la derecha le corresponden la competitividad, el orden y la seguri159 dad. Otros dos valores que también atribuyen a la izquierda necesitan de explicaciones adicionales. Se trata de la libertad y el riesgo. Aunque la libertad (al menos entendida como liberalismo y libertad de mercado) ha aparecido siempre conexa a la derecha, no ha sido así en la sociedad española, cuya derecha histórica, ultraconservadora y dogmática, ha atacado siempre casi todas las formas de libertad posibles. Es por tal razón que la libertad (sobre todo política, de pensamiento y opinión) ha tenido entre nosotros un claro significado progresista y de izquierdas. El riesgo es un valor que probablemente pertenece en este grupo social al nuevo universo postmoderno, a esa concepción tan en boga que ha cristalizado en la creencia generalizada de que vivimos en una “sociedad de riesgo”. Entendido así, es posible que se trate de un valor transversal, difícilmente situable en la izquierda o en la derecha. La traslación de estos valores al plano electoral es bastante coherente. En efecto, una proporción similar a la de aquéllos que se ubican en el centro y la derecha (30 por 100) ha votado al PP, primer partido en el recuerdo de voto de estos estudiantes. De todos modos, han votado al partido de la derecha en bastante menor medida que sus madres y padres. Los ubicados en la izquierda han repartido sus preferencias entre IU (con un porcentaje de recuerdo de voto casi similar al del PP), formación a la que eligen muy por encima de sus padres, y al PSOE (al que han votado uno de cada cinco, proporción notablemente menor a la de sus padres). Los propios estudiantes afirman que en la decisión de su voto han influido sobre todo las ideologías y los programas. Tal vez se trate de una respuesta políticamente correcta o puramente retórica. Pero todos los datos de que disponemos y que acabamos de exponer indican que se da una estricta congruencia entre ubicación ideológica, valores políticos y preferencias electorales. Asunto distinto es si se trata de posiciones políticas consolidadas, o varían en virtud de la dinámica de los referentes políticos que les proporciona el nuevo espacio público mediático, o a medida que el ciclo vital hace cambiar la perspectiva política. Los estudiantes mayoritariamente reconocen que sus ideas políticas evolucionan de acuerdo con los acontecimientos, aun cuando en torno a un tercio de ellos piensan que sus ideas políticas son estables. Es lógico pensar que un grupo de edad joven, todavía en fase de socialización, no ha elaborado plena y definitivamente su concep160 ción política. Además, la asunción de una ideología política de forma estable dista mucho de ser hoy una característica incluso de la población más adulta. Es lo que sucede con los padres de estos estudiantes: sólo algo más de la mitad cree tener ideas estables; el resto las hace variar con los acontecimientos. En suma: cabe pensar que la orientación ideológica dominante entre los estudiantes es la izquierda, si bien se trata de una posición no rígida sino flexible y pragmática; y a partir de esta posición la variación más significativa y probable tendrá lugar en el terreno de las preferencias electorales. 4. Pautas de la identificacíon política El mundo de la vida de estos jóvenes se caracteriza por relaciones ambiguas con el sistema. Participan poco en la política, que valoran negativamente, pero esperan de ella mucho. Su desafección política se traduce, más que en radicalismo, en apatía (sobre todo los desempleados), en pragmatismo expectante (en los estudiantes) y en todos los casos en consumo depredador sobre los servicios y ayudas estatales. Su exploración de vías alternativas al orden institucional es escasa, aun cuando están favorablemente predispuestos hacia las mismas, siempre y cuando no conlleven el empleo de la violencia. ¿Cómo se organiza este conjunto de actitudes y percepciones en el plano de las representaciones simbólicas? ¿Cuál es el esquema ideológico de la juventud, caso de tenerlo? El primer aspecto que hemos de señalar es su opinión sobre la democracia como sistema político. Aunque hemos visto un juicio muy severo hacia la política globalmente considerada, los datos desagregados que nos han proporcionado sendas encuestas a universitarios y estudiantes ponen de manifiesto el alto grado de legitimidad que conceden a la democracia. La mayoría de ellos asume que, pese a sus problemas, es preferible que exista tal régimen político a otro. Una valoración que coincide básicamente con la que se da en el conjunto de la sociedad española. A pesar de no disponer, como los adultos, de la comparación con otro régimen, y aun siendo este un momento político cargado de valoraciones negativas debidas a los múltiples “casos” de corrupción y a las altas tasas de desempleo (que afectan mayoritariamente a la juventud) 161 la democracia como marco político formal parece gozar de buena salud, aunque no suceda lo mismo con su eficacia. Aceptado el marco constitucional, queda por averiguar dónde se sitúan los jóvenes en el espectro político. A este respecto conviene indicar algunas precisiones referidas a la sociedad española. Como consecuencia de la dilatada dictadura, cuando desaparece trae consigo un cierto descrédito de la pertenencia (o por lo menos de manifestarla en público) a la ideología de derecha. Es esta una razón en virtud de la cual existe una marcada tendencia en la sociedad a considerar que sus creencias políticas están más inclinadas a la izquierda que a la derecha. Tendencia que se acentúa en las generaciones jóvenes, que se sitúan más la izquierda que sus padres. Es este un dato común a la encuesta a estudiantes y a desempleados. Nada de extraño tiene, por tanto, que enfrentados a definir su posición en una escala ideológica, estos jóvenes lo hagan ubicándose en primer lugar en posiciones de centro, después de centro izquierda y sólo en tercer lugar de centro derecha. Las posiciones más extremas apenas concitan seguidores. Ahora bien, existen algunas diferencias pequeñas, pero remarcables, entre estudiantes y desempleados, dentro de esa pauta común dominante de centrismo ideológico: los últimos se inclinan un poco más a la derecha y a posiciones extremas, mientras que los estudiantes son más de centro izquierda. Dentro de las pequeñas diferencias porcentuales entre unos y otros, quizá es posible mantener que una menor integración social, desarraigo en definitiva, puede producir mayor simpatía política por fórmulas más autoritarias o de contenido más radical. Por el contrario, un grado mayor de cultura (al menos académica) es probable que favorezca a opciones de carácter más socialdemócrata o en todo caso de naturaleza más moderada. Pero la cuestión no es tan simple, sobre todo si tenemos en cuenta que la opción socialdemócrata ha correspondido en España a los sucesivos gobiernos del PSOE, que sale del poder en 1996 entre otras causas por un voto juvenil de rechazo (a la corrupción, pero también a un gobierno que para ellos se confundía con la autoridad y la política en general). De modo que las orientaciones ideológicas que acabamos de establecer hemos de reinterpretarlas en términos electorales, siendo el referente las elecciones generales de 1996. En el caso de los estudiantes, la congruencia es bastante alta (Ortega, en Bettin 1999: tomo II), de forma que el parti162 do político de la derecha (PP) acaparaba los votos de quienes se declaraban de centro derecha, mientras que los orientados a la izquierda destinaron sus votos principalmente a IU y muy en segundo lugar al PSOE, esto es, no tanto al partido que en teoría tendría que sintonizar con sus preferencias (un PSOE desprestigiado), sino a otro cuyas señas de identidad son de una izquierda contraria a la mayoría de los presupuestos socialdemócratas. En el caso de los desempleados, el mapa electoral es algo diferente. Es cierto que los que votan dirigen sus preferencias sobre todo al partido de la derecha (PP), y en mucha menor medida a los de la izquierda. Pero el dato de que uno de cada cinco no votase (aun teniendo edad para hacerlo), nos está indicando no sólo apatía, sino muy probablemente un rechazo silencioso (pauta que parece ser frecuente en este subgrupo juvenil) del sistema político, o cuando menos de sus partidos. Lo que los jóvenes parecen haber asumido plenamente en su esquema ideológico es el papel que corresponde desempeñar al Estado: en todos ellos vemos emerger una imagen que del Estado espera servicios, derechos y protección, y hacia el cual apenas sí hay responsabilidad alguna. Estas ambiguas relaciones que esperan todo del Estado sin contrapartidas (el “viaje gratis”), aparecen en primer lugar en el siempre conflictivo tema de los impuestos: la mayoritaria opinión (tres de cada cuatro estudiantes, y más de ocho de cada diez desempleados la sustentan) considera que en impuestos sólo debe pagarse en proporción a lo que se recibe. Con tal convicción nos muestran su desconocimiento del papel redistributivo que tiene los impuestos. El que sea minoría de jóvenes la predispuesta a pagar todos los impuestos no indica exclusivamente una baja conciencia fiscal (con su correlato favorecedor de la evasión), sino sobre todo una falta de lógica absoluta al seguir demandando servicios públicos cada vez más costosos (como la sanidad y la educación). Ésta es, por lo demás, una contradicción muy extendida en la sociedad, que prefiere menos impuestos pero sin que ello suponga reducir la cantidad y la calidad de los servicios públicod ofrecidos por el Estado. En todo caso, las preferencias de nuestros jóvenes en lo que concierne a la confrontación de lo público y de lo privado en materia de servicios parece decantarse abiertamente por lo público. Las razones principales de esta elección son, a nuestro entender, dos. Una, propia de una sociedad que ha accedido muy 163 recientemente a la universalización de servicios públicos: el Welfare State tiene en España una corta y frágil historia. Otra, característica del proceso modernizador de nuestra sociedad que ha permitido un cierto ascenso y una cierta movilidad sociales gracias sobre todo a los cauces establecidos por el sistema público (la educación como vía meritocrática y la administración pública como institución basada en criterios universalistas). Desde este punto de vista, los jóvenes muestran una clara conciencia de los mecanismos que más favorecen la igualdad. No menos paradójica viene a ser la opinión acerca del papel del Estado entre lo local-regional y lo supranacional. Así, en relación con la estructura política de España, la mayoría (siete sobre diez) afirma que el Estado central debe prevalecer sobre fórmulas federales, confederales o cualesquiera otras que supongan la desmembración de dicho Estado. (Hemos de añadir que nuestra muestra no recoge población juvenil con fuertes sentimientos nacionalistas como Cataluña, País Vasco y Galicia). Sin embargo, consideran que la unificación europea debe construirse respetando las diferencias regionales y locales. Quizá se trate, en este caso, de una proyección a escala europea de lo que está sucediendo en la sociedad española: en definitiva, Europa tendría que organizarse a partir del respeto a las diversas identidades culturales (naciones) que subyacen en los diversos estados miembros, pero sin que ello suponga dotarlas de independencia en términos políticos. Esto es: unificación política, diversidad cultural. Tal opción se ajusta, por lo demás, bastante fielmente a algunas de las señas de identidad juveniles que ya se han expuesto: la afinidad que expresan con los grupos y escenarios donde transcurre su vida cotidiana. Así, la familia en términos grupales y la ciudad (en un contexto nacional español) en términos territoriales son sus principales marcos de referencia y de identidad. Un último aspecto a tener en cuenta es el que se refiere a si nuestros jóvenes se han vuelto, o se están volviéndo, más postmaterialistas. La confrontación materialismo/postmaterialista carecería de mayor interés si sólo se tratase de una moda, muy asimilable por cierto en la comunicación mediática. El problema reside en que bajo ella se esconde una distorsionada visión de la modernidad, muy apegada además a la inmediata evolución seguida en las sociedades occidentales surgidas de la Segunda Guerra 164 Mundial. En otro lugar (Ortega, en Bettin 1999: tomo II) nos hemos ocupado de criticar algunos de sus supuestos y de exponer la mixtura de valores materialistas y postmaterialistas que tiene lugar en los universos culturales de los jóvenes estudiantes. A la vista de la información aportada en este caso por la encuesta efectuada a los jóvenes desempleados, es posible dar un paso más. Y éste no es otro que el que nos revela que el postmaterialismo, como esquema de creencias, sólo se desarrolla a condición de que estén aseguradas las bases materiales derivadas de un desarrollo económico sostenido. Cuando éstas fallan o hay dificultades personales para acceder a las mismas, retroceden los valores postmaterialistas. Por otro lado, en sociedades que han conseguido un elevado bienestar, la expectativa no puede ser el incremento indefinido del mismo, sino un reparto menos desigualitario de sus beneficios. Todo ello conduce a que los jóvenes desempleados organizan un esquema en el que aparecen valores situados a un lado u otro de la dicotomía materialismo/postmaterialismo; lo cual no implica contradicciones sino ajustes muy realistas. Así, “Combatir el desempleo” es el objetivo más importante para ellos, seguido de cerca por la postmaterialista mejora de la “calidad de vida y del medio ambiente”. La “libertad” es más deseable que la “igualdad”, y consiguientemente atribuyen a la competencia un papel positivo en el trabajo y en la vida. Pero ello no impide que consideren que la solidaridad es una actitud que favorece el bienestar. En resumidas cuentas, más que de postmaterialismo convendría hablar de un tipo nuevo de materialismo. Ni materialismo grosero, de desarrollo puro y duro a cualquier precio; ni superación o sublimación de lo material en aras de redes solidarias y estilos de vida extremadamente expresivos. Un materialismo, podríamos decir, con “certificado de calidad”, pero materialismo al fin y a la postre. Con la lógica cautela impuesta por las limitaciones de nuestros datos (pero con son bastante coincidentes con los obtenidos en muestras más amplias como en el ya citado de Elzo 1999), podemos concluir que el perfil político de la juventud española no difiere sustancialmente del de sus adultos. Son, para expresarlo de otra manera, herederos de la cultura política en la que han nacido. Una leve mayor desafección a la democracia y alguna menor inhibición y simpatía por los movimientos antisistema no parecen, al menos por ahora, situarles en posiciones abiertas o contrarias al 165 orden democrático. Mas de lo que no parece haber tampoco demasiadas dudas es de que los canales formales de participación suscitan en ellos escaso entusiasmo: pero no sólo los políticos, sino cualesquiera otros. En definitiva, conviene ir asumiendo (y explicando) que estamos ante una etapa social nueva en la que el arraigado individualismo se ve favorecido por nuevas modalidades (no directas ni presenciales) de actuar social y políticamente, propias de un nuevo escenario público (Ortega y Humanes 2000). Un cierto círculo parece haberse cerrado: el que posibilita intervenir socialmente desde el más radical individualismo. Otra cosa es que estas acciones virtuales, si conocen una larga duración histórica, acaben por transformar los sistemas democráticos. Pero ya se sabe que la historia sigue derroteros inescrutables. 5. La socialización en lo público: una transmisión incompleta El sistema de valores que hemos descrito es el producto de la socialización a que estos jóvenes han sido sometidos. Desentrañar tales procesos de socialización es una tarea que desborda ampliamente los recursos metodológicos que hemos empleado, y exige nuevas y cualitativas aproximaciones. Pero es posible efectuar, a partir de cuanto ya hemos expuesto y con los datos que a continuación ofreceremos, algunas inferencias y diversas hipótesis. Los escenarios en los que hasta ahora ha transcurrido su socialización son básicamente los que corresponden al ámbito privado de la familia y los amigos y al ámbito público de la escuela y los medios de comunicación. En correspondencia con estos contextos, sus valores tienden a guardar una cierta sintonía con los mismos y con el grado de prestigio concedido a cada uno de ellos. Sabemos ya que cuanto forma parte de la vida privada tiene para estos jóvenes un alto crédito, y que de las instituciones públicas son la escuela y los medios de masas las mejores situadas en sus preferencias. Es lógico pensar que el conjunto de estas instituciones y grupos ha modelado de manera bastante eficaz las creencias juveniles. Pero no de todas ellas, desde luego. Es el caso de las orientaciones políticas (y por extensión de cuantas se relacionan con la esfera pública), en las que voy a detenerme de manera singular. En efecto, no todas las instituciones de socialización parecen 166 haber influido en las formación de los valores políticos de estos estudiantes. Son de manera relevante las que pertenecen al mundo privado las que también les han proporcionado referentes y pautas, tal y como se refleja en la tabla 6. Tabla 6. Al recordar los años de su adolescencia, ¿qué figuras han sido más importantes en la formación de sus orientaciones políticas? (Sólo estudiantes) (en %) Por esferas es la privada la que ha servido de referencia en el desarrollo de sus valores políticos; por personas, los padres. La influencia menor es la que corresponde a sacerdotes, profesores y políticos no conocidos. Dentro de las redes familiares, destaca la influencia siempre mayor de las personas de más edad (padres y abuelos) respecto de las que son más o menos de la misma generación. Recordamos que estos jóvenes se identifican más con las personas adultas que con las de generaciones más jóvenes. El bajo papel otorgado a amigos y novios(as) en esta socialización podemos explicarlo por el hecho de que estas personas han sido seleccionadas por las afinidades que tienen entre sí, lo que les hace participar de un previo clima de convergencia normativa que servirá para mantener y reforzar (pero menos modificar) las actitudes desarrolladas en el hogar. Es importante destacar el carácter marginal concedido a la escuela en la socialización política. No sólo por la neutralidad que se ha exigido en nuestra sociedad a la misma, sino también por la creciente incapacidad que muestra para 167 transmitir valores operativos en la esfera pública. Todo parece indicar que en muchos casos la escuela es una prolongación del hogar, pero con prevalencia de éste último, de modo que la aportación de la socialización académica en la construcción de una moral pública es irrelevante. Es más: una dificultad creciente que tiene la escuela es la de dotarse a sí misma de un aceptado (por padres y alumnos) sistema normativo. La hegemonía de lo privado en la socialización política se traduce en que la comunicación política de estos jóvenes discurra también en el mismo ámbito. Sus conversaciones sobre lo político se circunscriben a dos tipos de relaciones: con el padre y con amigos y compañeros de estudios; esto es, con el otro significativo y con los iguales. Entre este nivel privado y el político no se dan apenas conexiones. Los políticos, con excepción de aquéllos que son conocidos personalmente, no desempeñan ningún papel en la socialización política. Unos políticos que, además, son negativamente valorados. Es muy probable que la transferencia de la comunicación política al plano privado (que es percibido siempre como más valioso) no venga sino a incrementar la desconfianza hacia los políticos (y puede que acabe generalizándola también hacia la política). La imposibilidad o incapacidad de las instituciones públicas para que a ellas se incorporen las personas y los debates públicos es un déficit que puede acarrear importantes consecuencias negativas a medio plazo. De hecho, ya las está teniendo, no sólo en el descrédito de los políticos, sino también en la falta de motivación por interesarse realmente (es decir, en los foros donde tiene lugar) por la política. Y sobre todo, en la proliferación de actitudes de incivismo público que está más acá de la política y se situa en el ámbito de la vida cotidiana. El lema de nuestra sociedad parece que fuera “virtudes privadas y vicios públicos”. No son éstos, desde luego, signos de que exista una sociedad civil dotada de una articulación consistente y de un universo cultural coherente. Y aquí no es suficiente explicación recurrir a la “corrupción política” como fuente de todos los males. No lo es en primer lugar por el escaso papel de referente socializador que se otorga a los políticos. Pero tampoco lo es porque para estos estudiantes no hay ningún hecho político que haya contribuido a lograr su maduración política, ni siquiera la corrupción (que tan sólo 168 señala un 6 por 100 de ellos). Tal vez estamos ante un fenómeno mucho más arraigado y alejado de la política misma, y que tiene que ver con el equilibrio público/privado que se ha producido en las últimas décadas en nuestra sociedad. Un equilibrio en el que las supuestas o reales decepciones derivadas del sistema político han contribuído a su descrédito en beneficio de valores más individualistas y familiaristas. Y que tendría como producto marginal la devaluación de todo lo público. La percepción que de los políticos tienen los estudiantes (y probablemente el conjunto de la sociedad) corresponde a las imágenes que de ellos proyectan los medios de comunicación. No vamos a sostener aquí la cómoda tesis de la omnipotencia de los medios y la consiguiente atribución a los mismos de responsabilidades que no son suyas. Pero sí pertenece a su dominio un innegable hecho: la conversión de lo público en un espectáculo del que queda excluído el espectador. Como ya se sabe desde hace mucho tiempo, el uso de los medios reemplaza la participación activa por la información. Una información que en el terreno de lo público (y más aun en el de lo político) no ha contribuído a fomentar valores colectivos (al menos no positivos), dando lugar una ley de hierro de que todo vale (con tal de conseguir audiencia). De manera particular la televisión ha fomentado este clima social, un medio que es precisamente el que más usan nuestros estudiantes. No obstante, cuando de prensa escrita se trata, los estudiantes hacen un uso selectivo de la misma. Es decir, sus preferencias en la lectura de periódicos se encauzan en virtud de su ubicación ideológica. Para ello, claro está, es necesario que previamente tengan a su disposición una tipología de los medios escritos. Según sus propias evaluaciones, es ésta: El País es para ellos un periódico situado bastante a la izquierda, El Mundo es de centro derecha y el ABC muy en la derecha extrema. Consiguientemente, leen sobre todo El País (55 por 100), después El Mundo (27,8 por 100) y muy poco el ABC (8,5 por 100). Como la sintonía con la lectura de prensa de sus padres es alta, cabe deducir que también en este caso sus afinidades mediáticas están orientadas familiarmente. Aunque los periodistas no son un referente demasiado importante en la generación de valores políticos (incluso entre estos estudiantes de Periodismo sólo uno de cada cinco considera que lo son), no hemos de infravalorar dos dimensiones directamente in169 fluidas por los periodistas: la agenda temática que imponen y el tratamiento que dan a lo público. Son ellas las que acaban delimitando (si es que no determinando) el tipo de comunicación política que tiene lugar en los espacios privados. Dos han sido los efectos más destacables en la sociedad española de los últimos tiempos: uno más coyuntural, cual es mostrar la política bajo el casi exclusivo prisma de la corrupción. Esta tal vez sea una de las razones del rechazo hacia los políticos por estos aprendices de periodistas. La otra es la enorme volatilidad que todos los acontecimientos políticos presentan, razón por la cual los estudiantes, pero también sus padres, son incapaces de señalar algún hecho político como relevante para su maduración política. A la larga, puede que si el proceso de la comunicación política funciona de esta manera, las pretendidas campañas de moralización (o de partidismo desenfrenado) en que se han embarcado casi todos los medios tengan una escasa rentabilidad, electoralmente hablando. Pero si no tienen este efecto, puede que sí tengan el continuar inhibiendo la acción pública en muchos ciudadanos, persuadidos de que en ella sólo anidan conductas indeseables. Sea como fuere, lo que estamos poniendo de relieve es la insuficiencia de la socialización política en nuestra sociedad. No la proporcionan las instituciones públicas encargadas de ella: la escuela, la política misma. Quien la suministra, la familia, está muy alejada de lo público como para contribuir eficazmente a una inserción congruente en lo público, con lo que a la larga viene a producir el efecto contrario, la deslegitimación de este ámbito. Quedan los medios de comunicación, que crean la ficción de la participación por la información, pero lo que en realidad hacen es mantener al ciudadano en su aislamiento al proporcionar una representación de uso privado de lo público. Nada de extraño tiene que el ámbito público goce entre nosotros de tan baja estima, aun cuando como hemos señalado no exista entre nuestros estudiantes una predisposición negativa hacia aquél. Sin duda se hace necesario volver a redefinir de manera más equilibrada las relaciones privado-público, así como sacar a lo público de la unilateralidad mediática bajo la que se encuentra en la actualidad. 170 PARTE II L’INTEGRAZIONE SOCIALE TRA SCUOLA E LAVORO 171 172 CAPITOLO SESTO ETUDIANTS/ÉTUDIANTES EN FRANCE ET EN ITALIE: REPRÉSENTATIONS DU TRAVAIL ET ASPIRATIONS PROFESSIONNELLES 1. Tendances communes et spécificités des contextes nationaux En Italie comme en France, le prolongement des scolarités dans le second degré et dans l’enseignement supérieur apparaît comme un idéal et une nécessité au cours des trente dernières années. En effet, la formation d’une main d’oeuvre plus instruite doit favoriser le développement économique et garantir l’insertion professionnelle des jeunes, le travail demeurant un facteur décisif d’intégration sociale et politique (Schnapper 1997). Le souci de “justice” et de “progrès” s’exprime encore à travers des actions volontaristes qui visent à instaurer une plus grande égalité entre les femmes et les hommes du point de vue des orientations scolaires et professionnelles. De fait, les sociologues de l’éducation français et italiens ont mis l’accent sur l’augmentation générale du niveau d’instruction et sur la réduction des différences entre les diplômes détenus par l’un ou l’autre sexe (Baudelot et Establet 1992; Reyneri 1996; Dei 1998). Compte tenu de la multiplication des emplois tertiaires et de la restructuration du secteur industriel, les diplômes seraient devenus les “passeports” pour l’emploi dans un contexte où le chômage des jeunes n’a cessé d’augmenter. En France, il a progressé de 7% en 1975 à 26% en 1997 pour les actifs de moins de 25 ans, les non diplômés étant les plus exposés (MEN-DPD 1998). En Italie, un tiers des jeunes âgés de 20 à 24 ans sont au chômage en 1995 (25% en France dans la même tranche d’âge), mais le risque d’être privé d’emploi pendant longtemps frappe surtout les titulaires d’un diplôme de fin d’études Questo capitolo è stato scritto da Marlaine Cacouault-Bitaud. 173 secondaires (Eurostat 1997), phénomène moins affirmé dans le pays voisin (en France, sept bacheliers généraux sur dix possédent un emploi cinq ans après leur sortie du système éducatif, quatre bacheliers technologiques ou professionnels sur cinq). La différence entre les contextes nationaux est encore plus marquée si l’on s’intéresse aux jeunes qui ont suivi un cursus universitaire. En 1997, 18,6% d’entre eux sont toujours à la recherche d’un emploi un an après la sortie de l’Université en France (MEN-DPD 1998) mais cette proportion s’élève à 46% pour leurs homologues italiens (OCDE 1996). En conséquence, mettre l’accent uniquement sur les difficultés d’insertion des jeunes peu qualifiés dans les pays européens, équivaut à proposer une vision tronquée de la situation de l’emploi en Europe: un diplôme universitaire constitue une protection contre l’inactivité subie avant tout dans l’Europe du nord, mais l’Italie, à l’instar de l’Espagne et de la Grèce, a une tradition déjà longue de “chômage intellectuel” (Barbagli 1974). C’est donc à la fois des tendances communes et les spécificités des contextes nationaux qui ont retenu notre attention au départ d’une enquête menée auprès d’étudiantes et d’étudiants entre 1997 et 1998 dans trois pays européens. L’objectif était d’appréhender les représentations en matière d’activité professionnelle, d’une part, et d’analyser, d’autre part, les liens entre la situation expérimentée (la probabilité de trouver un emploi qui corresponde aux études est plus ou moins grande selon le pays concerné), les formes de sociabilité (dont le rapport à la famille) et les opinions politiques. L’interprétation des matériaux recueillis en France et en Italie sur les attentes des jeunes et les modalités d’adaptation aux contraintes du marché du travail, constitue l’objet central de cette contribution. Nous nous demandions si le fait d’avoir un emploi, quel qu’il soit, est valorisé dans un contexte de chômage. Autrement dit, les jeunes interrogés sont-ils prêts à occuper un emploi, à exercer une profession qui n’est pas en conformité avec les espoirs induits par le niveau d’études et la spécialité? Certaines activités sont-elles “acceptables”, malgré la faiblesse des rémunérations et du prestige social, en raison des valeurs qui y sont attachées? Enfin, les opinions des femmes et celles des hommes se distinguent-elles parfois de manière significative? Compte tenu de la détermination 174 des jeunes femmes à devenir et rester actives (Reyneri 1996, Maruani 2000), on peut faire l’hypothèse qu’elles se prononcent favorablement par rapport à des fonctions ou professions considérées comme une chasse gardée masculine. Avant d’apporter des éléments de réponse à ces questions, il convient de préciser la perspective adoptée dans le cadre d’une réflexion comparative. En effet, le but ici n’est pas d’opposer les deux nations pour mieux faire ressortir, par exemple, les mérites de la France dans le domaine de l’adéquation entre la formation et l’emploi des diplômés du supérieur. Auquel cas, il faudrait souligner que les jeunes italiens qui ont accompli seulement un premier cycle d’études secondaires sont moins souvent chômeurs que leurs homologues français (OCDE 1997, Recchi 1999). Comme l’a bien montré Franz Schulteis, “en faisant l’économie d’une prise en compte des différences contextuelles, qui seules donnent une signification sociale à (des) faits arbitrairement isolés, (la) comparaison n’est que purement idéologique” (Schulteis, 1990). Puisque le but n’est pas de distribuer des bons ou des mauvais points, c’est en partant de l’idée que la situation italienne pose crûment la question de la “garantie” liée -ou non- à la possession d’un diplôme d’études supérieures, que nous tenterons d’éclairer sous un autre jour le cas français, le pays se présentant, à première vue, comme celui où sont les mieux tenues les promesses du système éducatif. Cela nous conduira à redéfinir ou expliciter cette notion de garantie pour des catégories d’étudiant(e)s évoluant dans des contextes originaux. 2. La situation des diplômés en France et en Italie: des garanties, dans quelle mesure et à quelles conditions? 2.1. Des garanties relatives à court terme dans le contexte français La relation aux études et l’usage du diplôme sur le marché du travail sont des phénomènes plus complexes qu’on pourrait le penser en se fondant uniquement sur des données statistiques attestant d’une insertion professionnelle plutôt satisfaisante des diplômés français. Certes, le caractère protecteur du diplôme est avéré, mais les diplômés sortis de l’enseignement supérieur à l’issue d’un deuxième, voire d’un troisième cycle, n’atteignent pas nécessaire175 ment les positions professionnelles qui sont associées traditionnellement à ce niveau d’études. Des travaux récents ont mis l’accent sur la dualité qui caractérise le système français et qui tend à s’accentuer (Euriat et Thélot 1995), dualité présente dans notre échantillon composé d’étudiants des universités et des Instituts d’Etudes Politiques. Environ cinq ans après la fin des études, 78,1% des anciens élèves d’une Grande Ecole exercent une “profession supérieure”, 30,5% seulement des titulaires d’une licence ou d’une maîtrise (MEN-DPD 1999). Le caractère sélectif de la filière d’études détermine la confiance dans l’avenir ainsi que l’adéquation entre les aspirations de départ et la position obtenue à l’arrivée. En revanche, l’accès à l’emploi des jeunes moins sélectionnés (c’est le cas des inscrits en sciences humaines et sociales), s’effectue par des chemins plus lents et plus tortueux ou en passant des concours auxquels se présentent un nombre élevé de candidats. S’il est vrai que le recrutement d’enseignants, par exemple, est plus régulier en France qu’en Italie, les taux de réussite aux concours (calculés sur la base du rapport entre les présentés et les admis) sont faibles (MEN-DEP 1996; Cacouault 1999). Aussi, la situation des diplômés de lettres et sciences humaines a-t-elle tendance à se détériorer dans la deuxième moitié des années quatre-vingt-dix. Selon une étude du CEREQ, “ceux qui deviennent enseignants ont certes une insertion rapide, mais les autres accèdent souvent à un poste d’employé après une longue période de recherche d’emploi. Après un DEA ou un DESS, «l’accès à un poste de cadre dans le privé est ouvert, mais les premiers emplois sont souvent à durée déterminée». (Martinelli et Vernies 1999). Il faut donc savoir ce qu’on entend par “insertion professionnelle”: les diplômés, hommes et femmes, qui ne sont pas “chômeurs” au regard de la statistique, occupent-ils un emploi à durée indéterminée qui correspond à leur spécialité et à leur niveau d’études? Si ce n’est pas le cas, des efforts d’adaptation, voire des deuils, ont été nécessaires et la forme d’intégration souhaitée se trouve pour le moins différée... De fait, 14% des titulaires d’un diplôme de second cycle en lettres ou sciences humaines sont chômeurs en 1996, 37% occupent un emploi à durée limitée. Une enquête menée en 1992 montrait que 46% des étudiants de ces filières n’avaient pas de représentation précise au sujet de la profession qui pourrait être la leur (Galland et Oberti 1996). La situation est particulièrement difficile après un diplôme 176 en sociologie, 36,7% des licenciés travaillent dans le cadre d’un CDI et 26,2% d’un emploi précaire au début des années quatrevingt-dix, 22,7% sont au chômage plus de six mois après l’obtention du diplôme et 8,4% au bout de trois ans (Martinelli 1994). En résumé, le rendement de la formation universitaire en termes de position professionnelle et de rémunérations varie notablement selon la nature du diplôme, l’origine sociale et le sexe des personnes qui l’ont obtenu. Le fait de sortir d’une Grande Ecole ou d’une filière universitaire sélective et d’être un homme issu des classes favorisées, conduira plus sûrement à occuper un poste de cadre. A l’inverse, une étudiante nantie d’une licence ou d’une maîtrise de sciences sociales, va le plus souvent monnayer son diplôme dans une profession intermédiaire où les femmes représentent la majorité des salariés (INSEE 1995; Alonzo 2000). On est donc forcé de constater que les inégalités entre groupes sociaux continuent d’exercer un effet déterminant, quelle que soit la volonté de l’Etat et des institutions éducatives de réduire leur poids. Certes, les institutions bénéficient d’une autonomie relative et depuis 1984 en France “les possibilités de suivre des études supérieures ont été, en moyenne, multipliées par un peu plus de deux, elles l’ont été par 3,5 pour les enfants d’ouvriers, dont le handicap relatif tend à diminuer” (MEN-DPD 1998). Néanmoins, les capacités d’adaptation et de résignation des diplômés joueraient en même temps que le niveau de diplôme et la spécialité pour “faciliter” l’intégration dans un milieu professionnel. 2.2. Des perspectives à longs termes... et relatives dans le contexte italien En Italie, le chômage des diplômés atteint un niveau élevé puisqu’un tiers d’entre eux n’a pas trouvé d’emploi trois ans après la sortie de l’Université. Selon les chercheurs italiens, il est moins imputable à la longueur des études supérieures, comme le pensent parfois les voisins européens, qu’à la spécificité de l’économie italienne, fondée sur l’existence de petites entreprises dépourvues des fonctions de recherche, de marketing, de gestion des ressources humaines... qui sont la destination “naturelle” des diplômés dans les autres pays développés (Schizzerotto et Cobalti, 1998; Recchi 1999). L’Etat italien, en conduisant à l’instar de ces pays une politique d’extension de l’enseignement et d’élévation du ni177 veau général de la population (Dei 1998), se trouve confronté, en quelque sorte, à l’impossibilité de placer les “produits” de l’Université sur un marché dont la demande est insuffisante. De surcroît, le nombre des enseignants recrutés dans le primaire et le secondaire est trop limité pour offrir des débouchés importants aux étudiants de lettres et sciences humaines (Cavalli 1992). Pourtant, si l’on raisonne sur le long terme et si l’on tient compte, là encore, d’une multiplicité de facteurs, on peut avancer l’idée que le diplôme n’est pas sans procurer quelques garanties. Les jeunes femmes, nous allons le voir, sont concernées au premier chef. En effet, comme le montre Emilio Reyneri (1996), l’allongement des scolarités et l’élévation des niveaux d’instruction déterminent la présence de plus en plus affirmée des femmes sur le marché du travail et la poursuite de l’activité rémunérée chez les mères de famille. L’auteur cité restitue les différentes interprétations qui ont été données de ce phénomène en Italie. Selon la théorie du capital humain, les femmes diplômées cherchent à rentabiliser les investissements liés aux études; ce comportement implique une rupture avec le modèle de la femme au foyer et plus généralement avec les attitudes féminines traditionnelles. Une autre approche, plus sociologique, ne considère pas cette émancipation comme un effet secondaire découlant d’une logique économique. Au contraire, c’est le processus d’émancipation initié dans l’école (“les femmes ont trouvé (là) des valeurs nouvelles et de nouveaux modèles de référence”) qui rend insupportable “l’idée de passer de la dépendance vis à vis des parents à la dépendance vis à vis du mari” et qui pousse les diplômées à utiliser leur qualification dans une profession. C’est dans l’Italie méridionale qu’un niveau élevé d’instruction s’avère le plus protecteur, au sens où il légitime aux yeux de la famille le désir de travailler et permet d’accéder plus facilement à l’emploi. Même si les taux d’activité féminine y sont généralement plus bas que dans le centre et le nord du pays, les diplômées du supérieur se trouvent dans une situation meilleure que les jeunes femmes qui ont suivi une scolarité plus courte. Par ailleurs, l’accès plus fréquent au travail rémunéré, la continuité de la vie professionnelle et l’avantage procuré par la certification universitaire sont à mettre en relation avec les changements qui marquent l’offre de travail elle-même: la multiplication des postes offerts dans le secteur tertiaire à différents niveaux a profité à la main d’oeuvre féminine. Quand le recrutement 178 s’effectue par concours comme dans la magistrature par exemple, les femmes sont bien placées en raison de leurs performances scolaires et universitaires. Toutefois, il ne faut pas oublier que la période de transition entre la fin des études et la stabilisation dans une profession couvre souvent plusieurs années; les ressources familiales vont donc jouer un rôle important lorsqu’il s’agira d’effectuer une promotion et de résister au déclassement social. Comme le souligne Alessandro Cavalli, “le rôle de la famille est décisif pour soutenir (les) stratégies d’entrée retardée dans le monde du travail”. Il précise que la cohabitation prolongée entre parents et jeunes adultes est fréquente lorsque ces derniers sont étudiants, surtout dans les couches socio-culturelles les plus élevées (Cavalli et Galland 1993). En conséquence, l’origine sociale aurait une influence notable en Italie comme en France sur les représentations de l’avenir et les stratégies d’intégration dans le monde du travail, mais d’une façon pour ainsi dire décalée dans le temps. En France, elle joue un rôle par rapport aux orientations scolaires et universitaires dans un système “à deux vitesses” (Merle 2000), ce qui implique qu’une partie des élèves et des étudiants, issus en majorité des classes supérieures (mais pas seulement), est quasiment assurée d’accéder aux positions de cadres pendant que l’autre (de milieu plus modeste dans l’ensemble) devra accepter des positions moyennes, accessibles avec des diplômes secondaires dans une époque antérieure (Baudelot et Establet 2000). En Italie, l’opposition entre filières sélectives ou non est moins accentuée lorsque les jeunes commencent des études supérieures; toutefois, moins d’un tiers des étudiants inscrits en première année poursuivent jusqu’à l’obtention d’un titre universitaire (Jobert 1995), qui exige ou moins quatre années d’études. En France, 60% des étudiants entrant à l’Université dans une filière générale accèdent au deuxième cycle universitaire, s’ils possèdent au départ un bac général. 3. L’origine scolaire et universitaire des enquêtés en France et en Italie: des modes différents d’articulation entre le secondaire et le supérieur L’enquête a été menée auprès d’étudiantes et d’étudiants qui suivent des formations comparables dans le domaine des sciences sociales mais dont le degré de sélection est inégal étant donné les 179 pratiques existantes dans chaque pays (voir Annexe méthodologique). L’un des critères choisis pour constituer les échantillons était celui de l’âge. On s’adressait avant tout à des étudiants de premier cycle. Toutefois, les étudiants français sont plus jeunes, proportionnellement, que leurs homologues italiens quand ils commencent des études supérieures. En effet, le baccalauréat s’obtient le plus souvent à dix-huit ans (âge “normal”) dans l’hexagone, alors qu’on passe la maturità à 19 ans dans la péninsule. Un peu plus de la moitié des répondants en Italie sont âgés de 18 à 22 ans, l’autre moitié de 22 à 30 ans (l’âge moyen est 22 ans). Dans l’échantillon français presque 70% des étudiants ont entre 20 à 22 ans, une minorité est plus jeune (5%) et 14,7% sont plus âgés (11,4% ont 24 ou 25 ans, 3,3% entre 26 et 27 ans). Tableau 1. Age des étudiantes et des étudiants et % de femmes La présence d’une minorité d’étudiants “âgés” révèle et confirme tout à la fois le phénomène de “reprise d’études” qui caractérise depuis une vingtaine d’années la filière sciences sociales en France. La répartition selon le niveau de diplôme confirme l’existence de disparités entre les deux groupes d’étudiants. En France, presque la moitié d’entre eux possède un bac général, environ 20% un DEUG et 17,6% une licence. On trouve encore des titulaires d’un bac technique ou professionnel, très minoritaires (4,3%), ou d’un BTS/DUT (3,1%), diplômes qui permettent d’entrer à l’Université, parfois au niveau de la licence et à partir d’une procédure spéciale. Si l’on tient compte du fait que les étudiants les plus avancés sont aussi titulaires, pour la plupart, d’un bac général, cette qualification secondaire est bien la plus répandue. L’échantillon est représentatif sous cet angle-là puisque les bacheliers “technologiques” ou “professionnels” ne constituent en France au niveau national que 20% et 7% des inscrits dans les universités (hors IUT) (MEN-DPD 1999). En Italie, les répondants possèdent pour la moitié l’équivalent du bac général et pour l’autre moitié un diplôme technique. Il faut mettre 180 cette donnée en rapport avec les chiffres dont on dispose sur la répartition des élèves du second degré “supérieur” dans les différents lycées (licei) ou instituts techniques (istituti tecnici): en 1995, 27,8% seulement fréquentent un lycée scientifique ou classique, 42,6% un institut technique et 18,9% un institut professionnel (Dei 1998). Tout se passe comme si le caractère plus sélectif du lycée en Italie par rapport à la France était compensé par une ouverture plus large des filières générales de l’Université à celles et ceux qui ont suivi un cursus technique ou professionnel. Il s’agit en même temps d’une stratégie des jeunes qui, ne trouvant pas d’emploi au sortir du second degré, poursuivent les études alors que la formation suivie devait déboucher, en principe, sur la vie active. Dans les deux pays, la proportion des étudiantes est supérieure à celle des étudiants, le phénomène étant plus accentué en France (73 % de femmes), ce qui correspond à la féminisation importante des études de sciences humaines et sociales. Des données fournies par le Ministère de l’Education nationale permettent d’établir la représentativité de l’échantillon sur ce plan là: le taux de féminisation en sociologie et démographie au niveau national s’élève à 71,6% dans le premier cycle (68,5% dans le second); en sciences de l’éducation il atteint 76,9%. C’est en sciences politiques (dans les universités) qu’il est le plus bas, mais les filles constituent encore 56,3% des effectifs dans cette discipline. Les étudiantes, en résumé, sont plutôt sur-représentées dans l’échantillon, ce trait reflète néanmoins la situation qui prévaut dans les filières considérées. En Italie, les étudiantes représentent 60% des personnes interrogées alors que le taux de féminisation de la filière sciences politiques s’élève à 46,7% en 1997; en sociologie toutefois 63% des étudiantes sont des filles (ISTAT 2000). Il semble en outre qu’elles font preuve d’une assistance plus régulière aux cours que leurs homologues masculins, or le questionnaire a été distribué dans ce cadre-là. Elles ont encore plus souvent que les garçons un diplôme technique ou professionnel alors qu’en France les filles se dirigent davantage vers l’enseignement général (MEN 1999). Une partie des enquêtées italiennes (environ 10%) a fréquenté les magistrali destinées en principe à la formation des enseignants du primaire mais dont le diplôme permet également d’entrer à l’Université. En raison de la faiblesse du recrutement d’enseignants, cette porte de sortie est utilisée par les jeunes femmes. 181 Compte tenu de ce que nous avons rappelé sur les risques de chômage selon le niveau de diplôme en France et en Italie, les jeunes français seraient portés vers l’enseignement supérieur par la politique d’allongement des études, par la confiance induite dans la vertu protectrice du diplôme universitaire et par l’offre d’emplois de plus en plus qualifiés (en termes, tout au moins, d’exigences quant à la certification universitaire). Une partie des jeunes italiens, engagés au départ dans des études plus courtes, utiliserait la possibilité de s’inscrire à l’Université comme un moyen d’échapper au chômage qui frappe les diplômés du second degré. Dans cette hypothèse, toutefois, les difficultés se trouveraient repoussées, mais nullement résolues. L’objectif est-il, en dernière instance et pour la plupart des étudiants, de résister au déclassement social et intellectuel en jouant à la fois sur les diplômes et sur le temps, étant donné les intérêts, les espoirs et les ambitions véhiculés par la scolarité secondaire ou la famille d’origine? Les étudiantes seraient déterminées, de surcroît, par le souci de conquérir une autonomie et de rompre avec la condition de mère au foyer, la plus répandue chez les femmes des générations précédentes et encore fréquente à l’heure actuelle en Italie (Pugliese et Rebeggiani 1997; Maruani 2000). Nous postulons que les opinions concernant les professions et plus largement le travail rémunéré révèlent et déterminent tout à la fois des stratégies de résistance et d’adaptation à l’offre existant sur le marché du travail dans l’un et l’autre pays. Aussi allons nous évoquer dans les pages qui suivent les souhaits en matière d’emploi, les concessions qu’ils ou elles seraient prêts, ou non, à effectuer, la valeur accordée au travail lui-même comme possibilité d’intégration et d’action ainsi qu’à diverses professions distribuées sur une échelle de prestige et de rémunérations. 4. Le rapport au travail et à l’emploi: différences et proximités selon le contexte national, le sexe et le milieu d’origine L’importance de l’argent gagné est plutôt déniée par les étudiants (Tableau 2), ou bien parce qu’ils espèrent bénéficier de revenus élevés qui leur assurent un niveau de vie comparable à celui de la famille d’origine (la moitié des enquêtés français ont un père qui occupe une position supérieure, 20% de leurs homologues ita182 liens) (Tableau 3 A), ou bien parce qu’ils anticipent des revenus modestes ou moyens et sont portés à manifester une distance envers les gratifications matérielles. La tendance est la même en France et en Italie, on note toutefois que les garçons se montrent un peu plus «terre à terre» que les filles. D’une façon générale, les attentes exprimées vis à vis du travail portent davantage sur la nature même de l’activité que sur les bénéfices “secondaires” qu’elle est susceptible d’offrir. Cette attitude, rappelons-le, est souvent considérée comme une caractéristique des femmes (Chaponnière et alii 1993). Dans cette optique, le prestige social, la sécurité de l’emploi, les loisirs et l’indépendance par rapport aux parents semblent peu valorisés, alors que les possibilités offertes en termes d’initiative et de “réalisation de soi” d’une part, d’utilité dans un cadre collectif d’autre part, suscitent dans des proportions nettement plus élevées l’adhésion des répondants. Ces derniers étaient invités à réfléchir sur “le travail” en général, ils étaient donc libres de formuler des préférences, voire des idéaux... Des différences apparaissent, néanmoins, sur fond d’unanimité: les étudiants italiens, sans distinction de sexe (avec même une légère avance des filles), attachent plus d’importance que les jeunes français au prestige que procure tel ou tel travail. Est-ce l’indice d’une inquiétude plus vive en Italie par rapport à l’avenir professionnel et social? Compte tenu de la distribution selon l’origine socio-professionnelle et le capital scolaire des parents dans chaque pays (Tableaux 3 A et B et 4 A et B), les enquêtés italiens sont les plus nombreux à vivre dans une famille où la fréquentation de l’université est une pratique récente; la crainte de ne pas effectuer une promotion sociale serait donc plus affirmée, l’enjeu étant crucial pour les jeunes femmes en raison de leur position dominée. Fait notable, les étudiantes italiennes mettent plus souvent l’accent que les autres jeunes sur la sécurité de l’emploi: pour 21,7% d’entre elles, c’est ce qu’il y a de plus important dans le travail, opinion partagée par 13,9% seulement de leurs camarades garçons et moins de 10% des étudiants et étudiantes français. La peur d’être chômeuse étant plus forte chez les italiennes, elles privilégient la sécurité de l’emploi avant de songer à la nature des tâches à accomplir. Elles sont conscientes du danger qui les menace en cas de chômage, à savoir le retour à la maison et la condition de femme 183 Tableau 2. “Le plus important dans le travail, c’est... ” * Cet item n’a pas été proposé dans l’enquête italienne; on peut voir là l’indice d’une différence entre les deux pays du point de vue de la perception des activités à caractère social et du secteur public. La confiance dans les services collectifs serait moins grande en Italie (et les services moins développés qu’en France), le service public serait valorisé surtout en raison des emplois “sûrs” qu’il offre. Tableau 3 A. Origine sociale des enquêtés selon le sexe en France et en Italie : profession du père % dans la population, sources : Enquête Emploi 1993 pour la France, données ISTAT 1991 pour l’Italie NB. En France, la moitié des étudiants des Classes Préparatoires aux Grandes Ecoles et des étudiants en médecine ont un père cadre ou membre d’une profession libérale, 27,6% des étudiants de lettres et sciences humaines, 37% des étudiants en droit pendant l’année académique 1997/98. La présence d’étudiants des instituts de sciences politiques dans notre échantillon explique la sur-représentation des catégories supérieures chez les pères, fait moins accentué en Italie où les sciences politiques s’étudient à l’Université dont l’accès ne suppose pas une sélection préalable. Tableau 3 B. Origine sociale des enquêtés selon le sexe en France et en Italie : profession des mères actives 184 Tableau 4 A. Niveau d’études du père des étudiants et des étudiantes français et italiens Tableau 4 B. Niveau d’études de la mère des étudiantes et des étudiants en France et en Italie au foyer. Presque 80% des femmes de 25 à 49 ans travaillent en France contre 57,8% en Italie (Maruani 2000), 48% des mères des étudiantes interrogées dans la péninsule n’ont pas d’activité rémunérée contre 15% des mères des étudiantes françaises. Les réponses qui concernent l’indépendance vis à vis des parents confirment qu’il s’agit là d’un enjeu plus important pour les filles que pour les garçons en Italie, même si des jugements positifs sont formulés sur les relations avec la famille (Cacouault et Muxel 1999). De fait, entre 18 et 34 ans, elles sont moins nombreuses que les garçons à vivre dans la famille d’origine (49,8% contre 64,9% en 1995) (Diamanti 1999). En résumé, les étudiants français (ou une majorité d’entre eux) intérioriseraient l’idée de garantie liée au diplôme et la sécurité de l’emploi ne constituerait pas la préoccupation dominante... Il est cohérent de penser, également, que les jeunes dans les deux pays sont sensibles aux discours sur “l’obligation” de changer d’emploi dans le cours de la vie, de se montrer flexible et d’accepter, au moins dans un premier temps, des statuts précaires (Boltanski 1999). Les notions d’emploi et de sécurité seraient alors disjointes. Soulignons à ce propos que les étudiants français occupent ou ont occupé plus souvent un emploi temporaire que les jeunes italiens (Tableau 185 5). Ces derniers, toutefois, font eux aussi l’expérience des “petits boulots” et on note, là encore, que les filles sont demandeuses mais obtiennent plus difficilement que les garçons un emploi temporaire ou régulier. Tableau 5. Situation des étudiantes et des étudiants par rapport au travail Les étudiants recherchent bien le mouvement et la variété dans la vie professionnelle, mais sous une forme attractive: “la possibilité d’être créatif” dans le cadre d’une activité rémunérée séduit les femmes et les hommes, en France et en Italie. La “créativité” comme valeur s’est imposée dans les sociétés industrialisées, surtout dans les classes moyennes et supérieures, au cours de la période post-68. Ce n’est plus le maintien d’une tradition et la reproduction des conduites propres à un métier ou un corps qui se trouvent magnifiés, mais l’initiative personnelle, le changement et le risque. Conjointement, 20,9% des étudiantes françaises pour 13,6% de leurs homologues italiennes - rejoignant sur ce point les étudiants des deux pays - revendiquent l’autonomie dans le travail. On peut voir dans ces réponses le reflet de la progression des femmes dans les professions supérieures, exercées par 37,5% des mères des étudiantes françaises contre 6,8% de leurs homologues italiennes (Tableau 3 B). On retiendra aussi l’idée que des professions moyennes et féminisées comme celle d’enseignante du primaire, par exemple, ont une bonne image dans le contexte français en raison de la marge d’autonomie qu’elles procurent. Les études menées sur les enseignants en Italie mettent aussi l’accent sur ce caractère distinctif (Cavalli 1992). Enfin l’ “utilité sociale” du travail accompli, l’aspect désinteressé et altruiste de l’activité professionnelle, sont aussi importants que la créativité pour les étudiants français, les jeunes femmes se montrant encore plus désinteressées et dévouées que les jeunes gens, ce qui correspond à la représentation classique des aspirations et des qualités féminines. Il faut noter que la “qualité” de l’emploi et sa “dignité” représentent une com186 pensation dans le cas où le diplôme supérieur conduit à une position moyenne. Nous nous sommes demandé si la prise en compte de l’origine sociale n’entamait pas l’unanimité observée plus haut, à propos de la créativité dans le travail, notamment, et du caractère secondaire des rémunérations... L’effet déterminant du milieu d’origine est attesté en France par les réponses des étudiants dont le père est ouvrier: ils sont peu exigeants concernant l’autonomie ou la créativité dans le travail (9,1% d’entre eux y attachent de l’importance), mais la question des revenus les préoccupe (ont-ils peur de se retrouver avec des diplômes dévalués?); en Italie le souci majeur c’est la sécurité de l’emploi, la question des rémunérations est reléguée au second plan. Les enfants d’employés partagent ces préoccupations, mais ils se rapprochent des étudiants de milieu plus favorisé pour ce qui est de l’autonomie dans le travail, en France, et de la créativité, en Italie. On observe une différence entre les deux pays au sens où ces qualités intrinsèques du travail sont mises en valeur par les jeunes français des milieux favorisés et moyens pendant qu’elles sont l’objet d’un consensus dans la péninsule au-delà des différences de classes. En même temps, plus la pression de la nécessité est sensible dans la famille d’origine, quel que soit le contexte, plus on privilégie la sécurité, ce qui n’a pas lieu de surprendre. L’intérêt de ces réponses est de contribuer à étayer nos hypothèses sur les adaptations anticipées aux débouchés professionnels réalistes et aux professions qui, sans apporter de gratifications importantes en termes de statut, d’argent et de pouvoir, supposent une marge d’initiative et un investissement personnel. C’est chez les étudiantes et les étudiants français issus de milieu ouvrier, notons-le, que l’on trouve le taux de réponses le plus élevé en faveur de “l’utilité sociale” du travail. Etant donné l’inégale rentabilité des filières et de l’influence de l’origine sociale sur les choix d’études, les répondants ont-ils les mêmes attentes quelle que soit l’institution de rattachement? Cette question s’impose lorsqu’il s’agit des jeunes français; estelle pertinente dans le cas de leurs homologues italiens? En effet, la filière sciences politiques des universités italiennes, à la différence des IEP français, accueille une population hétérogène quant à l’origine sociale et scolaire. Par ailleurs, les répondants italiens inscrits dans une autre faculté (économie, droit, sciences de l’in187 génieur) sont, dans l’ensemble, plus sélectionnés que les précédents dans les disciplines scientifiques, mais ils viennent aussi de milieux divers où dominent les classes moyennes, comme c’est le cas pour l’ensemble des étudiants. De fait, on observe peu de divergences au sein de l’échantillon italien entre les opinions exprimées par les étudiants de sciences politiques et par ceux des autres facultés; les premiers mettent un peu plus l’accent sur l’autonomie dans le travail, les seconds sur l’argent gagné et le prestige social. En revanche, les élèves des Instituts d’Etudes Politiques se distinguent des autres étudiants interrogés en France, tout particulièrement sous l’angle du capital culturel détenu dans la famille: plus d’un tiers ont une mère qui appartient à la catégorie des cadres supérieurs et professions intellectuelles, ce qui vaut pour 20% seulement des autres étudiants. En outre, 43% des mères dans le premier groupe sont diplômées du supérieur pour 22,7% dans le second, presque 80% ont au moins le baccalauréat. Quant aux pères, ils comptent un nombre plus important de cadres quand leurs enfants sont inscrits dans un IEP et ils exercent plus souvent une profession intermédiaire lorsque leur fille ou leur fils fréquente l’Université. Par voie de conséquence, le capital scolaire et universitaire est inégalement réparti. Aussi les opinions formulées sur les avantages et les valeurs liés au travail sont-elles en harmonie avec les espoirs induits par les études suivies et les caractéristiques familiales: le prestige social, peu cité par les étudiants pris dans leur ensemble, revêt plus d’importance pour les élèves des IEP, filles ou garçons; ils sont également plus nombreux à valoriser la créativité dans le travail (32,6% contre 21% des étudiants des universités) et l’autonomie. En revanche, les jeunes inscrits dans les filières sciences humaines et sociales l’emportent quand il s’agit de l’utilité sociale et de la sécurité dans l’emploi. Ils se montrent aussi plus désireux, relativement s’entend, d’acquérir une indépendance par rapport à leur famille. Cette observation recoupe ce qui est dit généralement sur le soutien familial dont bénéficient les jeunes très sélectionnés scolairement (Galland et Oberti 1996). Les réponses qui portent sur les métiers ou professions jugés acceptables par les étudiantes et les étudiants, indépendamment de leurs souhaits et objectifs personnels, confirment les tendances observées précédemment: le métier d’artisan à son compte, qui symbolise l’autonomie, rallie 60% des répondants français ou ita188 liens, et la profession d’instituteur, définie par une certaine liberté d’action, des préoccupations intellectuelles et humanistes, obtient un score très élevé. Les étudiants des IEP ne la dédaignent pas, alors qu’elle signifierait pour eux un déclassement. En revanche, cette fonction apparaît comme l’un des débouchés possibles des études supérieures de sciences humaines et sociales, la licence étant exigée depuis 1991 pour devenir “professeur d’école”. Il n’y a guère de différence entre les réponses des filles et celles des garçons français quant à l’activité d’artisan (Tableau 6); les filles jugent l’enseignement élémentaire acceptable pour 84,4% d’entre elles et 75% des garçons partagent cet avis. Nous pouvons nous demander s’il s’agit, dans leur cas, d’une représentation qui orienterait l’action car le taux de féminisation dans le primaire n’a cessé d’augmenter au cours des dernières décennies et il s’élève à 78,3% en 1998 (MEN-DPD 1999). Les réponses des étudiants italiens par rapport à la possibilité d’enseigner dans l’école élémentaire sont proches de celles des enquêtés français, qu’il s’agisse du score élevé ou des différences entre les sexes. Tableau 6. Les positions de repli acceptables selon le pays et le sexe Une différence majeure retient pourtant l’attention à l’examen du Tableau 6: en Italie on se montre plus disposé qu’en France à faire des concessions en matière de statut, de prestige et de rémunérations. Sept métiers, professions ou emplois recueillent plus de 45% des suffrages auprès des jeunes italiens, quel que soit le sexe, bien qu’ils ne correspondent pas aux formations suivies; cela vaut pour trois activités seulement si l’on considère les réponses 189 des hommes et des femmes en France, pour quatre activités si l’on s’intéresse aux seules femmes. C’est le métier de secrétaire qui divise le plus les étudiants français (53% des étudiantes consentiraient à l’exercer, 25% des hommes) alors qu’il ne rebute pas la gent masculine en Italie, même si les filles sont plus nombreuses à émettre un avis favorable (73,2% pour 59,4% des hommes). Ces réponses tendent à valider l’hypothèse selon laquelle les étudiants italiens sont résignés à accepter des emplois qui ne correspondent pas à leur niveau de diplôme car ils sont conscients, dans leur ensemble, des difficultés d’insertion. Cette interprétation trouve une confirmation dans le fait que l’origine sociale a peu d’influence sur les opinions qui concernent les positions de repli, alors qu’elle joue davantage, nous le verrons, lorsqu’il s’agit des véritables aspirations professionnelles (Tableau 7). Dans le même ordre d’idée, la faculté de rattachement n’a pas d’effet discriminant. Voyons néanmoins dans le détail comment sont perçues les activités qui ont en commun avec celle d’artisan ou d’enseignant, soit d’être exercées de manière indépendante, soit de ménager un espace d’initiative tout en servant les intérêts collectifs. L’évocation du chauffeur de taxi, de l’infirmier (une infirmière le plus souvent) ou du policier ne suscitent pas une forte adhésion de la part des jeunes français, mais c’est la profession d’infirmier(e) qui repousse le moins: 38,8% des hommes et 42,3% des femmes consentiraient à l’exercer. Toutefois, le score obtenu par cette profession est d’autant plus faible chez les étudiantes que la mère occupe une position plus élevée (cadre supérieur et non membre d’une profession intermédiaire ou employée). La réussite de la mère stimulerait donc l’ambition des filles. Par ailleurs, moins d’un quart des étudiants et des étudiantes dans l’hexagone envisageraient d’entrer dans la police. Le terme utilisé dans le questionnaire s’applique généralement aux échelons subalternes, il a pu en ce sens-là influer sur les réponses; en même temps, il semble que la nature de l’occupation ait joué un rôle déterminant puisque la position d’employé(e), qui ne jouit pas d’un prestige élevé, est mieux acceptée: presque la moitié des étudiants et 66% des étudiantes ne rejettent pas cette possibilité (nous avons vu dans une première partie qu’une proportion non négligeable des diplômés du supérieur occupe en début de vie professionnelle un emploi classé dans cette catégorie). Les filles apparaissent comme plus préparées (ou résignées) à cette éventualité que les garçons (en France, 76% des 190 employés sont des femmes en 1994), ce qui les rapproche des étudiants italiens, garçons et filles, puisque 70,7% des premiers et 74,1% des secondes accepteraient d’être employés. Selon les chercheurs italiens, ces opinions tranchent sur les réactions de refus qui existaient dans les années soixante chez les diplômés des instituts techniques, refus fondé sur la critique de l’organisation bureaucratique et hiérarchisée des entreprises, et de la société, largement diffusée à l’ époque (Recchi 1999). Si les étudiants italiens ne sont pas plus attirés que les français par le métier de chauffeur de taxi, pour les autres professions l’ordre des priorités est inversé: devenir policier, pour les jeunes femmes surtout, est plus désirable que de travailler comme infirmière. Elles seraient attirées non seulement par la sécurité du fonctionnariat mais encore par le défi que représente leur entrée dans un secteur masculin. Dans tous les cas, elles affirment vigoureusement leur volonté de travailler pour un salaire. Un autre groupe d’activités concerne les transactions commerciales et la gestion des biens (gérant de magasin ou d’un syndicat de co-propriété, représentant de commerce). Les enquêtés français préfèrent le premier emploi, cette préférence étant plus affirmée chez les étudiantes: 54,1% d’entre elles consentiraient à gérer un magasin pour 49,4% des hommes. Ici l’institution de rattachement n’est pas discriminante. De fait, parmi les trois emplois cités, la gérance de magasin est celui dont l’image sociale est la plus positive en raison, là encore, de l’autonomie et des possibilités de promotion qu’il est susceptible d’offrir. Les réponses des jeunes italiens tendent à confirmer cette interprétation, plus de 80% d’entre eux, filles ou garçons, considèrent la gérance d’un magasin comme la position de repli la plus acceptable. Les différences quant à la structure de la population active dans les deux pays entrent en ligne de compte: la familiarité avec le commerce et la petite entreprise est plus répandue chez les étudiants italiens, les parents des jeunes français occupant essentiellement des emplois salariés. Les autres activités liées au secteur commercial apparaissent comme des pis-aller en France et ne recueillent que 20% d’avis favorables. Quant au métier de secrétaire, il reçoit surtout l’aval des jeunes femmes (53%), ce qui prouve la persistance des stéréotypes; seulement un quart des étudiants français imaginent qu’ils pourraient occuper un tel poste, ce qui n’est pas le cas en Italie où 60% des garçons seraient prêts à travailler comme secrétaire dans une 191 entreprise. Ils préfèrent décidément les emplois sûrs, quand bien même ils impliquent une part de tâches routinières et “féminines”; ils ne s’identifient guère à la figure du syndic de co-propriété bien qu’elle évoque la profession libérale. En résumé, les jeunes italiens ne se montrent pas très soucieux des différences de statut entre les activités proposées comme positions de repli éventuelles. Une analyse par cohortes révèle néanmoins que l’importance accordée au statut augmente avec l’âge comme si les enquêtés plus âgés étaient aussi plus sensibles à la discordance entre les aspirations nourries au fil des études et l’offre d’emploi, très restreinte pour les jeunes dans le cas de l’Italie (Recchi 1999). Plutôt que de s’adapter aux réalités du marché du travail en vieillissant, ils manifesteraient des exigences plus grandes par rapport au statut des activités et des positions professionnelles, ce qui augmenterait les risques de rester chômeur. Comme nous l’avons vu plus haut, les filles tendent à privilégier l’emploi “à tout prix”, les deux tiers des activités proposées étant créditées d’au moins 50% d’avis favorables. En France, où les diplômés sont dans une meilleure situation (à condition, nous l’avons rappelé, de ne pas se montrer trop exigeants), l’âge n’est pas sans effet non plus sur les représentations: 17% des étudiants les plus jeunes consentiraient à devenir policier, cette proportion s’élève à 24% chez les plus âgés (23 ans et plus). Compte tenu des traits qui différencient deux groupes d’étudiants au sein de l’échantillon français, nous avons comparé leurs réponses, selon qu’ils sont inscrits en IEP ou à l’Université. Les différences observées d’un pays à l’autre se confirment-elles lorsqu’on sépare ces populations? Un rapprochement s’opère-t-il entre les jeunes français et italiens inscrits dans la filière “sciences sociales”? Dans l’ensemble (et ce n’est pas une surprise) les étudiants des IEP se montrent moins disposés à accepter des positions qui bénéficient d’un statut peu élevé, leurs homologues des universités sont plus proches des jeunes italiens au sens où, par exemple, 66,6% d’entre eux accepteraient une position d’employé. En revanche l’appréciation est comparable lorsqu’il est question de l’artisan à son compte ou du gérant de magasin (54% d’opinions favorables en IEP, 52,2% à l’Université). Par ailleurs, la valorisation du service public et des métiers sociaux propre à la France s’exprime à travers les réponses des étudiants, quelle que soit l’institution fréquentée. 192 Nous allons voir maintenant quels sont les points de vue exprimés par rapport à l’éventualité d’exercer “à trente ans” des professions qui exigent des études longues, qui impliquent d’assumer des responsabilités importantes. Les professions ou les fonctions mentionnées dans le questionnaire appartiennent à trois champs distincts: le champ intellectuel et culturel (journaliste, chercheur, responsable d’une association de bénévoles), l’économie (cadre d’entreprise, conseiller fiscal, conseiller en marketing... ), le champ politique (responsable politique ou syndical, diplomate) (Tableau 7). En France, le choix des garçons se porte en tout premier lieu sur le journalisme (71%), sur la profession de chercheur (63%) et sur celle de responsable d’une association de bénévoles (60%). Il s’agit de professions très médiatisées qui cumulent, aux yeux des jeunes, plusieurs avantages: mouvement, diversité, prestige social, désintéressement (n’oublions pas que les humanitaires ont plus de succès que les politiques) (Galland 1993). Chez les filles ces professions viennent aussi en tête, mais l’ordre des priorités est inversé: être responsable d’une association de bénévoles est encore plus valorisé que d’être journaliste (77% et 65% des répondantes). Retrouve-t-on ici le penchant “féminin” au dévouement ou doiton interpréter ces opinions comme l’indice d’un changement qui se manifeste à l’échelle de la société tout entière, les femmes souhaitant prendre davantage de responsabilités? En 1995, en effet, le taux d’adhésion des hommes aux associations est supérieur à celui des femmes et ils sont plus souvent responsables que simples adhérents (INSEE 1995; Cacouault 1999). Les étudiantes auraient l’intention de saisir l’opportunité “d’être acteur, de prendre des initiatives et de pratiquer la démocratie” selon les termes utilisés dans une publication de l’INSEE. Les réponses des étudiants italiens sont comparables à celles de leurs homologues français lorsqu’ils se prononcent sur les métiers appartenant au champ culturel et intellectuel (Tableau 7), mais la distance entre les filles et les garçons est plus nette qu’en France lorsqu’il s’agit des associations (71% des femmes pour 56% des hommes souhaiteraient en assumer la responsabilité). Les jeunes français ont peut être une image plus positive de ce type de responsabilité dans la mesure où les “French Doctors”, par exemple, incarnent un type d’homme à la fois viril et attentif à la souffrance humaine... La différence la plus nette entre les deux groupes réside 193 dans le fait que la position de cadre d’entreprise est largement plébiscitée par les italiens (plus de 70% de réponses positives chez les garçons et les filles) alors qu’elle intéresse une minorité de jeunes français (la moitié des hommes s’il est question du secteur privé). Tableau 7. Les aspirations professionnelles des étudiants selon le sexe * Dans l’enquête française, les réponses ont été distinguées (responsable politique/syndical), et non dans l’enquête italienne. Par ailleurs, la profession de conseiller fiscal est peu envisagée dans le contexte français ou italien; bien entendu, les étudiants de sociologie ou de sciences de l’éducation ne se sentent aucune disposition et compétence pour cette activité, ceux de sciences politiques la rejettent manifestement. Deux professions, situées l’une dans le champ de l’économie, l’autre dans celui de la politique (mais le statut est celui de la haute fonction publique) recueillent les suffrages de la moitié des étudiants français: cadre d’entreprise du secteur privé (50%), diplomate (51%). A trente ans, les étudiantes se voient d’abord diplomate (46%), puis conseillère en marketing ou agent de publicité (42%), la position de cadre d’entreprise ne séduit qu’un tiers des jeunes femmes. Ces opinions recoupent des faits puisque la présence féminine est relativement élevée dans les professions de l’information et du spectacle et chez les cadres administratifs et commerciaux, le monde des ingénieurs et des cadres d’entreprise demeurant très masculin. La diplomatie est une terre à conquérir puisque les emplois “supérieurs” au Ministère des Affaires étrangères sont détenus essentiellement par des hommes; 21,9% des fonction194 naires de catégorie A dans ce ministère sont des femmes et 9,2% des Chefs de service déconcentrés dont font partie les ambassadeurs et les consuls (Colmou 1999). Les étudiantes chercheraient donc, grâce à leurs diplômes, à s’aventurer en territoire masculin. Il faut préciser toutefois que ces ambitions et ces aspirations sont surtout celles des jeunes inscrits dans les Instituts d’Etudes Politiques (65,7% se verraient diplomate contre 35,8% des étudiants des universités). Les points de vue sexués se manifestent encore à propos des responsabilités politiques et syndicales: les hommes sont deux fois plus nombreux que les femmes à s’investir, au moins en imagination, dans ces domaines, ce qui correspond à un état de choses, la participation des femmes aux instances de décision politique locales étant encore très faible (INSEE 1995). En Italie, les aspirations des étudiantes se distinguent peu de celles des étudiants, elles sont aussi attirées que les hommes par les positions de dirigeant d’entreprise ou de cadre dans les spécialités marketing ou publicité. Pour ce qui est des emplois public de niveau supérieur, elles se montrent encore plus intéressées que les hommes et rejoignent sous cet angle-là les étudiants français. En Italie, plus encore qu’en France, la responsabilité d’une association de bénévoles apparaît comme un choix féminin (même si 55% des étudiants italiens assumeraient cette tâche sans déplaisir). Enfin, les italiennes sont plus nombreuses que leurs homologues françaises à envisager des responsabilités politiques ou syndicales. Comment les projets évoluent-ils quand on invite les enquêtés à se confronter aux possibilités effectives d’exercer ces professions et responsabilités? Qu’il s’agisse de l’ échantillon français ou italien, le taux de réponses positives baisse pour la majorité des professions, mais certaines, qui avaient obtenu un score élevé, voient ce score augmenter dans le contexte français, phénomène qui ne se produit jamais dans le contexte italien. Ainsi, pour la plupart des étudiants et des étudiantes français, assumer la responsabilité d’une association de bénévoles est un objectif désirable et tout à fait réaliste (81% et 88% de réponses favorables). Devenir cadre dans une entreprise privée paraît accessible à 42% des hommes mais les femmes sont deux fois moins nombreuses à partager cette opinion. Les unes et les autres jugent encore plus hypothétique d’accéder à la direction d’une entreprise publique (18% et 19%), probablement parce que ces 195 dirigeants en France sont le plus souvent issus des grandes écoles scientifiques. En outre, le contexte politique joue sur l’attribution des postes. Devenir responsable politique est également perçu comme difficile (seulement 36% des étudiants et 27% des étudiantes répondent positivement). Les responsabilités syndicales semblent plus accessibles, 46% des hommes et 44% des femmes estiment qu’ils pourraient les assumer. On peut voir là une preuve de rejet de la politique, on peut penser aussi que les permanents syndicaux, “partenaires” obligés des dirigeants d’entreprises, s’apparentent à des professionnels ordinaires, voire à des fonctionnaires, plus que les responsables politiques. Pour les jeunes femmes, c’est la profession de conseillère en marketing ou d’agent de publicité ainsi que le métier de journaliste qui semblent les moins difficiles à atteindre, ce qui confirme l’ouverture de ces domaines aux femmes et leur attirance pour ce type d’activité. Elles évoquent pour 45% d’entre elles la profession de chercheuse, l’institution de rattachement n’introduisant pas de différence notable. Les hommes paraissent, dans l’ensemble, un peu plus confiants dans leur capacité à atteindre une position supérieure, dans l’entreprise notamment. En outre, une profession qui n’était pas créditée d’opinions favorables comme celle de conseiller fiscal retrouve quelque lustre (un quart des étudiants la considèrent comme accessible alors que 8% des femmes et 11% des hommes seulement la jugeaient désirables), pendant que la diplomatie, valorisée par la moitié des étudiants et des étudiantes reste du domaine du rêve. Les opinions demeurent stables par rapport à la situation de chef d’entreprise, considérée sans doute comme une alternative en cas de chômage (des cadres ont été incités ces dernières années à créer leur entreprise). Quant il s’agit des activités considérées comme réalistes par les étudiants italiens, trois professions viennent en tête: cadre d’une entreprise publique ou privée (la moitié des enquêtés, garçons ou filles, avec un léger avantage pour le secteur privé et du côté des hommes), chercheur, responsable d’une association de bénévoles (ou d’une organisation sans but lucratif). Les responsabilités dans le secteur public semblent plus accessibles aux jeunes italiens et en particulier aux jeunes femmes comparées à leurs homologues françaises, pendant que les positions de cadres du privé apparaissent comme plus faciles à atteindre aux étudiants français; dans 196 les deux cas la responsabilité d’une association de bénévole est citée, mais le score est beaucoup plus élevé dans le cas français. Par ailleurs le métier de journaliste paraît moins accessible aux jeunes italiens qu’à leurs homologues français (45% contre 64%), mais les femmes l’envisagent avec plus de confiance (56%), dépassant même sur ce point leurs homologues françaises (53%). En Italie, d’une façon générale, les filles pensent qu’elles sont aussi capables d’occuper tous les types d’emploi que les garçons et elles se montrent plus optimistes, dans l’ensemble, à propos des positions accessibles. Quelle est par ailleurs l’influence de l’origine sociale sur ces représentations? En France, la différence privé/public constitue une ligne de partage qui recoupe la différence de sexe, de classe et d’institution: les hommes, les étudiants des deux sexes dont le père a une profession indépendante et les inscrits en IEP montrent davantage d’affinités avec le secteur privé que les femmes, les enfants de salariés et les inscrits à l’Université. Quand il est question d’entreprise publique, les étudiants des IEP sont en position dominante, mais les jeunes dont le père exerce une profession intermédiaire, occupe une position d’employé ou d’ouvrier sont un peu mieux représentés. Les ambitions sont plus grandes chez les filles quand la mère appartient elle-même aux catégories socio-professionnelles supérieures. Le conseil en marketing apparaît comme une profession qui tente les filles, nous l’avons vu, et qui transcende les différences de classe. Néanmoins, les élèves des IEP sont plus confiants que les autres par rapport à ce débouché. Quant au journalisme, il séduit tout le monde, mais les enfants des milieux populaires se sentent plus éloignés de ce type de carrière que ceux des familles moyennes et favorisées. Dans la même perspective, les étudiants des IEP sont nettement plus portés à “choisir” cette voie que ceux des universités (74,1% contre 43,7%). La même observation vaut pour la diplomatie, les inscrits à l’Université, les jeunes de milieu moyen ou populaire sont minoritaires parmi les répondants qui se voient entrer dans la carrière. La profession de chercheur est beaucoup moins discriminante sous l’angle de la filière d’études, toutefois les étudiants et les étudiantes dont le père est indépendant ou cadre sont beaucoup plus nombreux que les enfants d’employés ou d’ouvrier à imaginer qu’ils pourraient l’exercer. Sur le versant 197 de l’action politique, nous trouvons plutôt des hommes, des fils et filles de cadres supérieurs, des étudiants inscrits en IEP. Dans un contexte où la politique s’est professionnalisée, ils se sentent plus légitimes que leurs homologues qui fréquentent l’Université et appartiennent aux couches plus modestes de la population. Au contraire, les jeunes d’origine ouvrière sont proportionnellement plus nombreux que ceux de milieu moyen ou supérieur à répondre positivement quand il s’agit de responsabilités syndicales, la culture du milieu d’origine jouant ici de manière positive. Cette observation est également valable pour les étudiants italiens qui, à la différence des jeunes français, sont d’autant plus portés à envisager une fonction de responsable politique que leur origine est plus modeste; la tendance est la même s’il s’agit de la responsabilité d’une association de bénévoles. La différence de classe se manifeste surtout à travers les réponses qui concernent la direction des entreprises privées. Les jeunes italiens dont le père est chef d’entreprise ou artisan/commerçant se montrent plus confiants que les autres dans la possibilité d’assumer ce type de responsabilité. Pour ce qui est des autres débouchés, les écarts en fonction de l’origine sociale sont peu importants. Enfin, une proportion notable des personnes interrogées en France, quel que soit le sexe, accepterait de faire “le même travail” que le père, s’il appartient aux strates supérieures: les enfants de cadres voient d’un bon oeil cette possibilité (56,8%), les enfants d’ouvriers sont beaucoup plus réticents (12,1%). Les emplois moyens et le travail indépendant serviraient de planche de salut, ce qui confirme les observations précédentes. Les tendances sont identiques en Italie, plus on monte dans l’échelle sociale, plus la profession du père est acceptable (58,3% des enfants de cadres et membres des professions libérales se prononcent positivement contre 11,9% des enfants d’ouvriers). Les professions qui sont un objet de désir et feraient l’objet d’un choix, apparaissent-elles comme accessibles en derriére instance? On retrouve ici les tendances observées précédemment, mais les scores obtenus par les différentes professions baissent, d’une façon générale, dans les deux pays. Fait exceptionnel, pour plus de 80% des jeunes français il semble tout à fait possible d’assumer la responsabilité d’une association de bénévoles; la moitié seulement des étudiants italiens partage cette opinion et 60% environ des étu198 diantes. Les filles ont, une fois encore, une attitude plus offensive que les garçons. Quand on évoque la position de chercheur ou celle de responsable syndical, la moitié des étudiants français répond qu’elles sont accessibles et 45% environ des étudiantes. Les suffrages recueillis en Italie par ces professions ou positions sont comparables, mais les étudiantes italiennes privilégient la recherche. Comme leurs homologues françaises et dans les mêmes proportions (un peu plus de la moitié des répondantes), elles pensent que le conseil en marketing, la publicité et le journalisme offrent des opportunités. Dans les deux pays, les positions de chef d’entreprise et de responsable politique ne recueillent qu’un tiers d’avis positifs, celle de diplomate est perçue comme aléatoire. La différence majeure entre les deux groupes d’enquêtés réside dans le fait que pour la moitié des étudiants italiens devenir cadre d’entreprise publique ou privée est envisageable; cette solution est jugée utopique en France s’il s’agit du secteur public et elle apparaît comme un choix “masculin” lorsqu’ il est question du secteur privé (42% des garçons pour 24% des filles). En résumé, le décalage entre les aspirations et les possibilités est plus net en Italie, mais les étudiants français se montrent conscients, eux aussi, des ajustements, voire des deuils, qu’ils seront contraints d’effectuer. Nous retrouvons au sein du groupe les lignes de partage déjà observées qui tiennent à l’institution de rattachement, à l’origine sociale et au sexe: les étudiants des IEP, les enfants de cadres ou d’indépendants, les hommes, se sentent plus légitimes pour diriger une entreprise privée. Le conseil en marketing transcende les différences de classes, néanmoins les élèves des IEP semblent encore plus confiants que les autres dans la possibilité d’exercer cette profession. Enfin les étudiantes, les jeunes issus des milieux populaires et les inscrits à l’Université, se sentent plus éloignés du journalisme que les étudiants, les élèves des IEP et les enfants des familles privilégiées. La profession de chercheur est moins discriminante parce que les enquêtés estiment, probablement, que les performances académiques jouent un rôle décisif dans le processus d’accès, le mérite individuel étant plus important que le capital social ou économique. 199 5. Conclusion Contrairement à ce qui a été dit parfois, l’activité professionnelle occupe une place centrale dans la vie que les jeunes souhaitent mener dans un futur plus ou moins proche. Celles et ceux que nous avons interrogés attachent peu d’importance aux loisirs (les hommes un peu plus que les femmes, ce qui est attesté par d’autres enquêtes) et les caractéristiques intrinsèques du travail sont davantage mises en avant, nous l’avons vu, que les bénéfices secondaires. L’emploi ou la profession ne représente pas, dans cette perspective, une occupation purement utilitaire et nécessaire, elle oriente l’existence et contribue fortement à lui donner un sens, elle est constitutive de l’identité individuelle. Ce sentiment et cette exigence sont exprimés encore plus nettement par les jeunes femmes que par leurs homologues masculins. Leur disponibilité à occuper divers types d’emplois se manifeste dans les deux pays et culmine en Italie où le «droit» au travail rémunéré apparaît comme une revendication très affirmée. En même temps, les attentes ont quelque chose de paradoxal compte tenu des conditions d’insertion difficiles en Italie et des ajustements nécessaires en France. Du point de vue des différences entre les pays, c’est en Italie que les étudiants se montrent les plus inquiets par rapport à l’avenir; ils font moins confiance aux diplômes que les étudiants français. Ces derniers toutefois, ou plutôt une partie d’entre eux, semblent prêts, ou résignés, à se contenter d’emplois précaires ou qui ne correspondent pas à leur niveau d’études dans une première phase de leur vie professionnelle. D’une façon générale, le secteur privé, les positions de dirigeants ou de cadres d’entreprises sont plus valorisés par les étudiants italiens pendant que les professions du secteur culturel et de la recherche ont davantage les faveurs des étudiants français. Ces divergences seraient liées à la composition de la population active en France ou en Italie et à l’origine sociale des enquêtés. Par ailleurs, nous avons pu vérifier que les différences de classe influent sur les représentations du travail et les aspirations professionnelles: certes, tous les jeunes souhaitent exercer une profession qui laisse une marge d’autonomie et d’initiative, mais les enfants des milieux modestes songent avant tout à la sécurité de l’emploi et ne considèrent pas la question des rémunérations comme tout à fait secondaire. Dans le même ordre d’idée, ils 200 réagissent devant la menace du «déclassement» (le diplôme n’assurant pas une promotion importante par rapport à la famille d’origine) en se préparant à occuper des emplois «utiles» qui relèvent souvent de la fonction publique ou d’un régime apparenté (c’est vrai surtout pour la France, les jeunes italiens privilégiant les emplois salariés des entreprises, fussent-ils des positions d’employés). La fonction publique apparaît comme une planche de salut dans les deux pays, en particulier pour les femmes qui se montrent favorables, en Italie, à entrer dans un secteur masculin comme la police. En revanche la condition d’ouvrier est unanimement rejetée, ce qui confirme le désir d’ascension sociale et l’attrait exercé par les emplois tertiaires. 201 202 CAPITOLO SETTIMO DISOCCUPAZIONE, ASPETTATIVE E VALORI: I COSTI CULTURALI DEI PROBLEMI DI INSERIMENTO LAVORATIVO DEI GIOVANI ISTRUITI 1. Aspettative lavorative, valori e disoccupazione giovanile In questo capitolo affronteremo il problema dell’adattamento culturale delle nuove generazioni alla diffusione della disoccupazione giovanile come condizione strutturale che ne definisce in modo peculiare il contesto sociale di riferimento nell’Europa mediterranea. Nella prima parte del capitolo saranno illustrati i dati generali che tracciano le coordinate storico-sociali del problema. In particolare, ci si soffermerà sul legame tra istruzione e occupazione giovanile e si discuteranno alcuni elementi teorici che sono talora evocati a spiegazione dell’eccezionalità della situazione sudeuropea (e specialmente italiana). Nella seconda parte del capitolo, si cercherà di analizzare il profilo delle aspettative occupazionali di un segmento di giovani – gli studenti universitari italiani – caratterizzato da una posizione sociale ambigua, preso com’è nella morsa tra le ambizioni legittimamente promosse da un’alta istruzione e le opportunità ridotte che gli riserva il mercato del lavoro nazionale. Come viene gestita culturalmente questa contraddizione? E, vista la crucialità delle aspettative occupazionali nel processo di socializzazione prelavorativa, che peso vi esercitano le aspettative dei genitori? Per rispondere a questi interrogativi si prenderanno in esame i dati di un sottocampione di studenti di cui sono stati intervistati, nell’ambito della ricerca, anche i rispettivi capifamiglia. Nella terza parte del capitolo, infine, si analizzerà l’impatto della percezione del rischio di disoccupazione sulla configurazione valoriale degli studenti, ricorrendo, con gli opportuni Questo capitolo è stato scritto da Ettore Recchi. 203 adattamenti, alle note categorie di analisi dei valori sviluppate da Ronald Inglehart. Nelle pagine conclusive di questo capitolo, che rappresenta una prima esplorazione mirata delle ripercussioni culturali della disoccupazione giovanile in un caso particolarmente sensibile, si svilupperanno alcune riflessioni sui costi extra-economici delle difficoltà di accesso al lavoro in società il cui livello di istruzione è tuttora crescente. Ancorché raramente contabilizzati, questi costi si traducono in potenziale di disgregazione e di arroccamento culturale su valori non facilmente compatibili con la riproduzione della cultura democratica e la sua possibile estensione in forme innovative (ad esempio, con l’integrazione sovranazionale e l’ampliamento dei diritti di cittadinanza). 2. La disoccupazione malgrado l’istruzione: un’eccezione italiana Nel dibattito sul problema, unanimemente indicato come la piaga sociale che più affligge l’Europa contemporanea, non è raro che la disoccupazione venga descritta come una patologia dalle radici e dalle conseguenze uniformi. Il peraltro stimolante Manifesto contro la disoccupazione nell’Unione Europea redatto da alcuni degli economisti più prestigiosi del pianeta (Modigliani et al. 1998), ad esempio, osserva quasi incidentalmente che, “in pratica, a restare disoccupati di solito sono i giovani poco qualificati e senza alcuna esperienza lavorativa alle spalle” (ibidem, 7). Ciò costituisce una semplificazione sorprendentemente sbrigativa delle differenze nazionali e subnazionali nella composizione sociale dei disoccupati europei, nonché del diverso impatto della mancanza di lavoro su diverse categorie di individui che la esperiscono in forme peculiari a seconda – tra le altre cose – del genere, dell’età, del grado di istruzione, del sistema di welfare in vigore (cfr. Therborn 1986; Schnapper 1994). Mettere a fuoco queste differenze è invece un imperativo primario nell’analisi della questione, perché il fatto che le vittime della disoccupazione non sono tutte eguali indica che non sono eguali le condizioni socioeconomiche a monte del fenomeno (Rodano 1998). A voler anche solo tenere conto delle differenze più significative, non si può prescindere dal rimarcare la frattura Nord-Sud nella caratterizzazione dei modelli di disoccupazione del continente. In 204 netto contrasto con il resto d’Europa, i paesi che si affacciano sul Mediterraneo sono accomunati da scarsa partecipazione delle donne al mercato del lavoro, da bassi tassi di occupazione complessiva e in particolare di occupazione femminile, e dal peso preponderante dei giovani in cerca di primo impiego (Mingione e Pugliese 1995, 124-126; Giannelli et alii 1996). Per cogliere appieno la specificità della situazione dell’Europa mediterranea (e dell’Italia in particolar modo), tuttavia, occorre completare questo quadro facendo menzione di un’altra caratteristica non sempre messa nel giusto rilievo (e in contrasto con la schematica descrizione contenuta nel passaggio citato del Manifesto degli economisti): la presenza di una quota di disoccupati provvisti delle massime credenziali d’istruzione che non ha eguali nel resto d’Europa e del mondo occidentale. Soffermiamoci, con l’ausilio di alcuni dati, su quest’ultimo punto. In Italia, a un anno dal conseguimento della laurea il 46% degli ex studenti universitari è privo di occupazione (Oecd 1996a, 247); a tre anni di distanza un terzo di loro risulta senza lavoro (Istat 1996, 15). Per le nuove generazioni – ma il fenomeno in realtà nuovo non è (Barbagli 1974) – la laurea si rivela essere tutt’altro che un antidoto alla disoccupazione giovanile. Anche se nel lungo periodo i titoli di studio più elevati risultano – come dappertutto – premianti contro il pericolo di rimanere disoccupati (Oecd 1996a, 233; Oecd 1997, 101) e quali strumenti di mobilità sociale (Reyneri 1996, 177-179; Müller e Shavit 1998, 24), negli anni immediatamente successivi all’uscita dall’università i giovani italiani devono scontrarsi con difficoltà di accesso al mercato del lavoro sconosciute ai loro coetanei dotati di analoghe credenziali negli altri paesi dell’area Ocse. Senza contare che, anche per chi riesce a trovare un lavoro, il titolo rende insolitamente poco in termini economici (Schizzerotto 1997, 356-360; Chiesi 1997, 66). Nel complesso, a uno sguardo comparativo, l’Italia risulta essere il paese occidentale in cui avere ottenuto un certificato di istruzione terziaria risulta in assoluto meno conveniente per il giovane neolaureato – sia come fonte di reddito che come vantaggio competitivo per evitare la disoccupazione rispetto ai coetanei poco istruiti (Reyneri 1997, 41-42; Baldacci et alii 1997, 132). Tra gli italiani compresi fra i 25 e i 29 anni, il tasso di disoccupazione dei laureati è assai più alto di quello dei diplomati e financo di quello di coloro che hanno cessato gli studi senza neppure un titolo di scuola me205 Tavola 1. La disoccupazione intellettuale dei giovani adulti (25-29 anni) in Europa % disoccupati laureati % disoccupati diplomati % disoccupati licenziati media Rischio relativo laureati / licenziati media Rischio relativo laureati / diplomati 28,4 16,3 Grecia 19,9 Spagna 32,5 Austria 4,6 2,9 5,4 0,84 1,61 Olanda 7,4 5,4 10,0 0,72 1,40 Portogallo 6,3 9,9 9,1 0,67 0,61 Belgio 8,7 11,1 18,5 0,42 0,76 Svezia 5,6 10,6 15,8 0,32 0,50 Francia 11,0 16,0 28,9 0,30 0,65 Danimarca 10,3 11,8 28,2 0,29 0,86 Germania 5,8 8,6 18,1 0,28 0,65 Finalndia 12,0 19,1 36,4 0,24 0,58 Irlanda 5,1 10,6 25,7 0,16 0,45 Regno Unito 4,3 10,7 24,2 0,14 0,37 Italia 2,04 15,9 2,10 15,1 11,9 1,84 1,40 28,3 33,4 0,96 1,22 Nota: il rischio è calcolato come odds ratio di disoccupazione dei laureati rispetto ai coetanei con titoli di studio inferiori nel 1994. Fonte: elaborazioni da Oecd (1996a, 238) dia superiore. Per la precisione, in questa fascia d’età la quota di rischio-disoccupazione dei laureati è più che doppia rispetto ai coetanei con al massimo il diploma di scuola media inferiore; persino in Grecia e in Spagna, i due casi nazionali il cui modello di disoccupazione è più simile a quello italiano, il rapporto fra queste due categorie estreme di giovani disoccupati non penalizza così tanto i giovani laureati; nella maggior parte degli altri paesi europei il quoziente scende sotto lo 0,5 (tav. 1). Se anche, seguendo il suggerimento di Reyneri (1996, 173), si procede ad un confronto non per età ma in base ad un’eguale distanza temporale dal momento di uscita dal sistema formativo (approssimativamente, cioè, nei cinque anni successivi all’abbandono della scuola), la penalizzazione dei laureati italiani vis-à-vis 206 i laureati degli altri paesi continua ad apparire marcata. Nel 1994, i disoccupati costituiscono il 28,4% dei laureati italiani tra i 25 e i 29 anni, una quota non di molto inferiore al 34,5% dei diplomati della scuola superiore che hanno tra i 20 e i 24 anni. Per contro, nella maggior parte dei paesi europei la percentuale di disoccupazione degli uni si aggira intorno alla metà della percentuale degli altri (Oecd 1996a, 238). Di fronte all’obiezione che il vantaggio dei laureati di alcuni paesi (in ispecie, nell’area anglosassone) possa essere dovuto alla minor durata del ciclo di istruzione terziaria che consente di anticipare l’ingresso nel mercato del lavoro, occorre osservare che vi sono molti altri paesi in cui la durata effettiva degli studi superiori non è significativamente più corta che in Italia senza che però il rischio relativo dei laureati raggiunga il livello italiano (Oecd 1996b, 45). Come se non bastasse, i dati più recenti dell’Ocse consentono di prendere in esame un indicatore più preciso del valore dei diversi titoli di studio quali garanzie a breve contro la disoccupaGrafico 1. I tassi di occupazione dei maschi laureati e diplomati dell’obbligo in Europa e negli USA ad un anno dal conseguimento del titolo % laureati % licenziati media inferiore Vantaggio relativo laureati 100 6,00 90 5,00 80 70 % 50 3,00 40 Odds ratio 4,00 60 2,00 30 20 1,00 10 0,00 Belgio USA Irlanda Olanda Danimarca Gran Bretagna Francia Spagna Austra Italia Portogallo Germania Grecia 0 Nota: Il vantaggio relativo dei laureati è calcolato come odds ratio di occupazione dei laureati rispetto ai giovani con titoli di studio inferiori nel 1996. Fonte: elaborazioni da Oecd (1998, 95) 207 zione: il tasso di occupati ad un anno dal termine dell’esperienza scolastica. In buona sostanza, i risultati convergono con l’analisi condotta sopra. Nel 1995 in Italia la percentuale di maschi occupati laureatisi nell’anno precedente risulta più bassa della percentuale di occupati diplomatisi contemporaneamente nella scuola media inferiore – una situazione piuttosto anomala in chiave comparativa (graf. 1)1 . Grafico 2. La disoccupazione intellettuale nei paesi dell’area Ocse: adulti (30-44 anni) a bassa ed alta istruzione senza lavoro % licenziati media o inferiore % laureati Rischio relativo laureati 25 0,70 0,60 20 15 0,40 % 0,30 10 Odds ratio 0,50 0,20 5 0,10 0,00 Turchia Italia Grecia Danimarca Canada Germania francia Svezia Australia Olanda Austria Spagna Nuova Zelanda Svizzera Irlanda Gran Bretagna Stati Uniti Norvegia Belgio Finlandia Portogallo Rep. Ceca Polonia 0 Nota: Il rischio relativo dei laureati corrisponde all’odds ratio di disoccupazione dei laureati rispetto ai coetanei con titoli di studio inferiori nel 1995. Fonte: elaborazioni da Oecd (1997, 101) I dati relativi alla popolazione femminile sono in qualche misura divergenti perché scontano le diverse propensioni nazionali all’inattività delle donne; il vantaggio relativo delle laureate italiane rispetto alle connazionali meno scolarizzate rappresenta comunque una magra consolazione, visto che le donne italiane – quale che sia il livello di istruzione – hanno il tasso di occupazione più basso in assoluto dei paesi dell’area Ocse. 1 208 Ma il risultato forse più eclatante, in quanto mette in discussione il valore delle credenziali d’istruzione quali antidoti contro la disoccupazione nel medio-lungo periodo, emerge dall’analisi dei tassi di disoccupazione tra gli individui di età compresa fra 30 e 44 anni. Ebbene: anche in età adulta in Italia la laurea protegge dal pericolo di rimanere disoccupati meno che in quasi tutti gli altri paesi del mondo industrializzato – solo in Grecia il rischio di disoccupazione dei laureati è maggiore (graf. 2). In sintesi: è vero che in Italia – come praticamente ovunque nel mondo – il titolo di studio costituisce la migliore forma di assicurazione contro la minaccia della disoccupazione. E poiché si ha “disoccupazione intellettuale in senso proprio se, a parità di ogni altra condizione, gli istruiti hanno maggiori probabilità di restare senza lavoro dei non istruiti” (Reyneri 1996, 172), non si può a rigore sostenere che questo tipo di disoccupazione affligga il nostro paese salvo, come si è visto, nel breve periodo immediatamente successivo al conseguimento della laurea (un dato forse non troppo allarmante, ancorché del tutto eccezionale in un’ottica di comparazione internazionale). Tuttavia, è anche vero che i problemi occupazionali non hanno natura discreta – come se al di sotto di una certa soglia, nel nostro caso quella della disoccupazione intellettuale sensu strictissimo, non esistessero. Benché non vi sia praticamente paese che non si collochi al di sopra di tale soglia, l’Italia è tra quelli che più vi si avvicinano2 . Dai dati comparativi emerge con chiarezza che il laureato italiano ricava dalle sue credenziali d’istruzione una tutela contro il rischio di disoccupazione inferiore a quella di chi ha conseguito un titolo di studio analogo in quasi tutti gli altri paesi industrializzati. Se non di disoccupazione intellettuale, si deve allora quantomeno parlare di un alto ‘rischio relativo’ di disoccupazione degli individui più istruiti. Alla luce di ciò, pare poco sostenibile un’interpretazione del deficit occupazionale con cui le giovani generazioni devono fare i conti nei termini di un deficit di scolarizzazione. Semmai, il ren2 Naturalmente, ad un livello maggiore di disaggregazione non è impossibile incontrare categorie specifiche di individui che soffrono di disoccupazione intellettuale in senso proprio; nel caso italiano, per esempio, i diplomati meridionali nei primi cinque anni che seguono l’uscita dalla scuola media superiore (Reyneri 1996, 178). 209 dimento comparativamente sfavorevole delle credenziali universitarie italiane – in un mercato del lavoro che si va europeizzando – dovrebbe suonare come un campanello d’allarme circa l’efficienza del rapporto tra formazione ed occupazione nel nostro paese. Ma la posta in gioco non è soltanto l’adeguatezza e il rendimento complessivo delle istituzioni educative. I livelli assoluti e relativi di disoccupazione dei laureati meritano di essere presi in considerazione anche per la loro ricaduta sulla cultura politica di giovani su cui questa minaccia incombe più che sui loro coetanei con il medesimo livello d’istruzione nel resto d’Europa. Come vedremo nel resto di questo capitolo, vi sono buone ragioni per paventare che il rischio della disoccupazione intellettuale cui sono esposti gli studenti universitari italiani possa avere ripercussioni significative sulla configurazione delle loro aspettative e dei loro ideali. 3. L’adattamento al rischio della disoccupazione: differenze generazionali ed intrafamiliari A fronte delle difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro appena illustrate, gli studenti universitari italiani reagiscono con estremo realismo, dicendosi disponibili – se necessario – a ricoprire ruoli occupazionali che non valorizzano i loro studi. Per quanto i dati non consentano una comparazione in senso stretto, in linea generale la sdrammatizzazione dell’eventualità di doversi adattare ad un lavoro di ripiego e la scarsa selettività delle aspettative di questi giovani li avvicina ai loro pari indagati nei primi anni Sessanta e Ottanta (cfr. Baglioni 1962, 182-183; D’Alessandro 1985, 86-88), mentre li discosta nettamente dai loro omologhi degli anni Settanta (Censis 1977; Isfol 1977; Frey 1980). Tre quarti dei nostri intervistati dichiarano che accetterebbero almeno uno dei lavori manuali proposti nel questionario come possibili primi impieghi (il tassista, l’infermiere o, più spesso, l’artigiano). Un ulteriore dieci per cento indica come propria soglia minima di accesso al mondo del lavoro l’opportunità di essere arruolato in polizia. Insomma, le nuove generazioni sembrano aver interiorizzato un decoupling tra livello di istruzione e status occupazionale (per lo meno in giovane età) che non era assolutamente concepibile fino a 210 non molti anni fa. La scuola, e l’università in particolare, vengono in buona sostanza spogliate del loro significato di istituzioni votate alla promozione sociale3 . Se si analizzano nel dettaglio le scelte occupazionali “di riserva” (tav. 2), si scopre che gli studenti universitari interpellati non ordinano le proprie preferenze secondo criteri omogenei di reddito, di prestigio o anche di autonomia – una dimensione che ricerche comparate hanno mostrato in passato essere particolarmente apprezzata dai giovani italiani (Blanchflower 1996). Una figura libero-professionale come l’amministratore di condominio, per esempio, gode di un credito molto basso, mentre la gestione di un esercizio commerciale è ritenuta essere l’occupazione più appetibile tra le opzioni di ripiego. Ancora: fare il segretario d’azienda (o, più spesso, la segretaria) viene preferito ad un’attività da agente di commercio. In generale il lavoro impiegatizio non è affatto disdegnato, soprattutto a fronte delle reazioni di rifiuto che ingenerava negli anni Settanta, probabilmente come espressione di quell’opposizione più generale alla dimensione gerarchica ed organizzativa della vita sociale che caratterizzava la cultura giovanile nell’epoca della contestazione. Ad un confronto per generazioni, inoltre, gli studenti si rivelano alquanto meno restii dei loro genitori a svolgere i lavori indicati nella lista delle occupazioni “di riserva”. Fanno eccezione le 3 Concettualmente si sono distinte le aspettative ideali (o aspirazioni) registrate sulla base delle occupazioni che gli intervistati “vorrebbero svolgere al termine degli studi”, le aspettative realistiche circa le occupazioni che gli intervistati ritengono “probabile svolgere al termine degli studi”, e le aspettative di riserva – così chiamate per analogia con il concetto di ‘salario di riserva’ – relative al livello occupazionale minimo che gli intervistati “accetterebbero se venisse [loro] offerto al termine degli studi”. Si assume perciò che gli attori sociali ordinino le aspettative circa il proprio status lavorativo futuro su un continuum di desiderabilità – da un grado minimo (le aspettative di riserva) a uno medio (le aspettative realistiche) a uno massimo (le aspettative ideali). Per individuare questi livelli si sono impiegate tre liste di dieci possibili posizioni occupazionali presentate in forma dicotomica (cfr. tav. 2). Gli intervistati potevano aggiungere a tali liste due ulteriori profili professionali soggettivamente rilevanti per la definizione delle loro aspettative (il lavoro di un genitore e/o di un parente). A partire da questi item, si sono quindi costruiti gli indici di aspettative di status descritti in appendice al capitolo. 211 Tavola 2. Le aspettative occupazionali degli studenti universitari e dei loro genitori Genitori Aspettative di riserva Infermiere Artigiano Studenti % Per le ragazze 35,6 + 2,7 51,6 – 0,1 % Ragazze 29,4 58,7 + 0,9 – 1,3 Associazione genitore-figlio Tau-b 0,18 0,21 Poliziotto 36,0 + 1,7 48,7 + 3,0 0,23 Tassista 20,3 – 1,8 27,4 – 4,1 0,15 Impiegato 75,4 + 3,2 72,4 + 1,7 0,23 Segretario 70,7 + 2,7 66,3 + 6,9 0,23 Insegnante elementare 60,2 + 8,0 67,0 + 4,5 0,23 Agente di commercio 48,6 – 2,7 50,8 – 3,3 0,18 Amministratore condominio 35,7 = 37,7 + 3,0 0,19 Gestore negozio 64,2 + 3,8 81,2 + 0,7 0,13 Aspettative realistiche (“È realistico che faccia...”) 212 Dirigente pubblico 59,0 – 2,6 50,7 – 1,3 0,24 Dirigente privato 66,5 – 7,4 55,8 – 4,6 0,17 Commercialista 36,1 + 1,4 23,5 – 0,1 0,39 Consulente marketing/pubblicità 54,2 + 2,1 48,6 + 2,8 0,33 Giornalista 58,4 + 3,2 48,1 + 3,4 0,46 Diplomatico 44,9 – 0,8 26,4 – 0,8 0,26 Ricercatore 52,3 + 2,7 53,7 + 5,8 0,31 Imprenditore 36,2 – 1,1 31,0 – 1,9 0,28 Funzionario politico/sindacale 34,6 + 0,2 37,0 + 1,0 0,40 Funzionario organiz. no-profit 56,1 Aspettative ideali (“Mi piacerebbe fare...”) + 3,1 53,4 + 9,9 0,28 Dirigente pubblico 78,2 – 1,2 72,8 – 1,6 0,23 Dirigente privato 85,8 – 1,3 78,4 – 2,5 0,13 Consulente marketing/pubblicità 71,0 = 72,8 + 7,1 0,26 Giornalista 77,8 + 3,0 67,7 + 4,0 0,34 Diplomatico 76,3 + 1,2 57,9 + 1,1 0,28 Ricercatore 73,8 + 1,4 69,5 + 3,0 0,20 Imprenditore 63,3 – 2,8 50,3 – 6,1 0,20 Funzionario politico/sindacale 41,4 – 0,2 42,7 – 3,4 0,25 Funzionario organiz. no-profit 67,0 + 2,7 62,6 + 8,0 0,25 professioni da “colletti bianchi” (impiegato e segretario) e il mestiere d’infermiera, specialmente apprezzati dai capifamiglia per le giovani (ma le studentesse sono in sintonia con i padri sulla possibilità di fare la segretaria al termine dell’università: l’opzione è accettabile per il 73% di loro). Per contro, mestieri come l’artigiano, il poliziotto, il maestro elementare e il negoziante risultano decisamente più palatabili agli occhi degli studenti che dei loro padri. Forse, tra le opzioni faute de mieux, queste hanno in comune una dimensione di ‘varietà’ dei contenuti lavorativi che costituisce una sorta di surrogato della ‘creatività’ – come è noto, la dimensione ritenuta più importante nel lavoro dai giovani con un livello di istruzione superiore (Chiesi 1997a, 83). Se aggreghiamo queste occupazioni per classi sociali, comunque, la resistenza dei genitori all’idea di vedere i loro figli universitari svolgere lavori manuali risulta palese: solo il 37,4% si dicono disposti ad ammettere questa possibilità (cioè, giusto la metà rispetto al campione dei figli). Nel complesso, i giovani di fine secolo mostrano di dare assai meno peso dei loro genitori alle differenze di classe e di status tra le occupazioni proposte come ipotetiche alternative per il loro futuro lavorativo. Poiché questa sensibilità alle condizioni di classe non varia – nel campione dei genitori – sulla base dell’età degli intervistati, si deve ritenere che non vi siano discrepanze di ordine generazionale. La differenza è allora forse ascrivibile ad un effetto ‘ciclo di vita’: l’attenzione alla collocazione di classe cresce coll’approssimarsi dell’età adulta. Questa ipotesi è corroborata da un’analisi multivariata del livello di prestigio occupazionale atteso dagli studenti: i più anziani tra loro sono coloro i cui punteggi relativi allo status occupazionale minimo che sarebbero disposti ad accettare per cominciare a lavorare dopo gli studi raggiungono i valori più alti. Forse la transizione all’età adulta implica anche un processo di sensibilizzazione ai dislivelli sociali, e quindi un avvicinamento alle aspirazioni nutrite dai padri circa i loro stessi destini nella struttura occupazionale4 . Il che colloca gli universitari italiani in una posizioIn alternativa si potrebbe pensare che vi sia un effetto di autoselezione fra gli intervistati di età più avanzata, per cui i giovani più ambiziosi sono coloro che resistono più a lungo alla tentazione di lasciare gli studi. Quest’ipotesi non è però verificabile con i dati a disposizione. 4 213 ne anomala rispetto, ad esempio, ai loro coetanei americani, per i quali le ricerche esistenti mostrano un processo di progressivo aggiustamento delle aspirazioni occupazionali in direzione di un sempre maggior realismo negli anni post-adolescenziali (Turner 1964; McClelland 1990; Jacobs et alii 1991). Al contrario, i nostri universitari accrescono le proprie mire all’avvicinarsi del momento di ingresso nella vita adulta. La conseguenza paradossale è che così facendo accrescono anche il rischio di restare disoccupati, viste le difficoltà che i giovani laureati italiani devono affrontare per l’accesso al primo lavoro. Fin qui si sono enfatizzate le divergenze tra come gli studenti universitari si immaginano il proprio ingresso nel mercato del lavoro e come lo immaginano i loro familiari adulti. Tuttavia, nel complesso, queste divergenze sono limitate alle aspettative di riserva. Il grafico 3 illustra la distribuzione delle differenze di punteggio sulle tre scale di aspettative di status dei figli al primo lavoro nelle coppie di genitori e figli. I valori positivi indicano che gli status score espressi dal capofamiglia sono maggiori di quelli espressi dal figlio, i valori negativi il contrario. Come si vede, il punto mediano (cioè la linea tratteggiata) è sempre pari a zero5 , a dimostrazione della tendenziale coincidenza di tali aspettative all’interno delle famiglie analizzate, mentre la divergenza tra genitori e figli (rilevabile sulla base dell’estensione complessiva della distribuzione delle tre variabili nonché dell’ampiezza dell’area centrale in cui rientrano il secondo e il terzo quartile) cresce allorché si passa dalle aspirazioni alle aspettative realistiche e quindi alle aspettative di riserva. In particolare, la “scatola” relativa alle aspettative di riserva è spostata nettamente verso l’alto, a riprova dell’inclinazione dei genitori a esprimere punteggi minimi tendenzialmente superiori a quelli indicati dai figli. Anche in termini di scelte occupazionali dettagliate, professione per professione, l’associazione tra le aspettative di riserva di genitori e figli è mediamente più Per quanto riguarda la scala dei punteggi relativi al prestigio occupazionale minimo ammissibile, la sua minore variabilità interna ha fatto sì che una perfetta coincidenza dello status indicato dal genitore e dal figlio (e quindi una differenza pari a zero) sia emersa nel 36% dei casi, mentre nel 41,4% dei casi il punteggio del genitore è più alto di quello del figlio e nel 22,6% è vero il contrario. 5 214 bassa che l’associazione delle aspettative realistiche ed ideali (tav. 2, ultima colonna). Il dato, forse, fa venire allo scoperto una lacuna del processo di socializzazione prelavorativa intrafamiliare. Bisogna al proposito considerare che tale processo, specialmente per dei ventenni, non è certamente unidirezionale, e si sviluppa in una chiave dialettica. Ora, le conversazioni tra padri, madri e figli sul futuro di questi ultimi – quando hanno luogo – spesso evitano il tema spinoso di come affrontare insuccessi od ostacoli gravi (ad esempio, l’eventualità, invero tutt’altro che improbabile, che non si profili alcuna offerta di lavoro all’orizzonte del giovane che sta portando a compimento un lungo e faticoso percorso di istruzione). E’ ovvio che un tema del genere è delicato e demoralizzante per entrambe le parti. E dunque c’è da pensare che gli studenti e i loro genitori sviluppino le proprie strategie di reazione a questa situazione in maniera del tutto autonoma, senza confrontarsi, con il rischio di elaborare visioni anche contrastanti – adattarsi alle condizioni del mercato del lavoro o attendere finché non arriva l’occasione giusta? – che potranno venire allo scoperto solo nella fase problematica dell’effettiva transizione scuola-lavoro. Grafico 3. Le differenze genitori-figli nei livelli di aspettative: distribuzione dei punteggi relativi allo status occupazionale di riserva, atteso e ambito Punteggio di status genitore - punteggio di status figlio 50 40 30 20 10 0 –10 –20 –30 –40 –50 Di riserva Atteso Status occupazionale Ambito 215 L’identità di vedute è invece molto forte se si considerano le dimensioni realistica ed ideale delle aspettative; nel complesso, i punteggi relativi agli status occupazionali attesi e ambiti dalle coppie di genitori e figli del nostro campione sono significativamente correlati (r=0,22 e r=0,25). In una chiave di analisi multivariata, emerge con chiarezza che i livelli di aspettative ed aspirazioni parentali sono in grado di render conto degli analoghi livelli espressi dai figli meglio di qualsiasi altra variabile connessa al background sociale e scolastico dei giovani (tav. 3). Analogamente, nessun altro fattore spiega il raggio delle aspettative occupazionali dello studente come la medesima variabile relativa al genitore (tav. 4). Nel campione analizzato, gli indici di prestigio occupazionale minimo ammissibile e realistico crescono allorché ci si sposta verTavola 3. Le differenze sociali nei livelli di prestigio occupazionale ‘minimo ammissibile’ (1), ‘atteso’ (2) e ‘ambito’ (3) espressi dagli studenti per l’ingresso nel mondo del lavoro (coefficienti beta di regressioni lineari) (1) (2) (3) Genere (donna = 1, uomo = 0) – 0,014 – 0,034 0,014 Anno di nascita – 0,018 0,035 – 0,013 0,019 0,061 – 0,021 Indice di successo scolastico 0,005 Indice di scolarizzazione dei genitori 0,061* 0,066 Esperienze di lavoro (sì = 1, no = 0) – 0,075 – 0,036 – 0,049 Facoltà (umanistica = 1, altro = 0) – 0,005 – 0,027 – 0,020 Area geografica (centro-nord = 1, sud = 0) – 0,045 – 0,023* –0,085* Luogo residenza (cap. provincia = 1, altro = 0) 0,004 0,025 0,029 Scuola secondaria (liceo = 1, altro = 0) 0,038 0,003 –0,032 Classe sociale familiare a = borghesia 0,077 0,068 0,035 – 0,048* = classe media impiegatizia 0,072 0,005 = piccola borghesia autonoma 0,044 – 0,031 Aspettative di status del capofamiglia b 0,159* 0,242** 0,017 0,200** * Parametro più che doppio dell’errore standard ** Parametro più che triplo dell’errore standard a Categoria di riferimento: classe operaia b In ciascuna regressione si è usato l’indice corrispondente alla variabile dipendente (cioè, rispettivamente, relativo allo status minimo ammissibile, atteso e ambito) N = 862; gradi di libertà = 13 (1) R2 = 0,042; (2) R2 = 0,089; (3) R2 = 0,082 216 so l’alto nella gerarchia della stratificazione sociale6 . D’altra parte, l’associazione fra la collocazione di classe degli studenti e i loro livelli di aspettative occupazionali non è statisticamente significativa (tav. 3). Quest’associazione è maggiore nel campione dei genitori, tra i quali le aspettative circa il futuro dei figli si fanno più contenute negli strati inferiori (con l’eccezione degli appartenenti alla piccola borghesia autonoma, che sentono in qualche modo di offrire ai figli con la trasmissione della propria attività un riparo dall’eventualità di doversi dedicare al lavoro operaio)7 . Il rapporto tra origini sociali e aspettative lavorative sembra allora essersi stemperato con le generazioni e, forse soprattutto, con il raggiungimento – comune a tutti i giovani intervistati – di un alto livello di istruzione. Sulla base dei dati raccolti, invece, sembrano esserci pochi dubbi sul fatto che gli studenti universitari di estrazione sociale superiore hanno le idee più chiare dei loro colleghi meno privilegiati su quale potrà essere il loro destino nella struttura occupazionale, in quanto la lista di mestieri di riserva, realistici e ideali che essi indicano è in media significativamente meno estesa (tav. 4). Questo risultato pare in contrasto con quanto ci si poteva attendere sulla base dell’ipotesi dello “stato di moratoria”, secondo cui i giovani borghesi tenderebbero a mantenere più sfuocata dei giovani meno privilegiati ogni scelta relativa all’assunzione di ruoli adulti (tra cui la scelta occupazionale). Questa conclusione è tanto più rilevante se si considera che nel campione il livello di istruzione degli intervistati rappresenPeraltro, i dati illustrati nella tavola 2 suggeriscono che l’appartenenza di classe esercita un effetto più nitido sui livelli delle aspettative anziché su quello delle aspirazioni, come sostenuto in uno studio pionieristico (Caro e Pihlblad 1965), confermando una volta di più l’opportunità di analizzare separatamente queste dimensioni. 7 In precedenti analisi, le aspettative di riserva dei genitori non erano apparse differenziate su base di classe. Un’ulteriore ispezione dei dati ha però dimostrato che i dati mancanti erano distribuiti in maniera tutt’altro che casuale tra i genitori: la renitenza ad indicare la fattibilità di mestieri inclusi nella lista corrispondente del questionario era assai più alta nelle classi superiori. Si è quindi ritenuto di dover interpretare questa renitenza come un rifiuto di tutti i profili occupazionali della lista, e di ricodificare i dati mancanti con i valori del profilo professionale dallo status più modesto indicato nella lista delle aspettative occupazionali realistiche, assunto come proxy del livello minimo ammissibile dai genitori per l’ingresso dei figli nel mondo del lavoro. 6 217 Tavola 4. Le differenze sociali nel raggio delle aspettative occupazionali degli studenti (coefficienti beta di regressioni lineari) Genere (donna=1, uomo=0) Anno di nascita Indice di successo scolastico Indice di scolarizzazione dei genitori Esperienze di lavoro (sì=1, no=0) Facoltà (umanistica=1, altra=0) Area geografica (centro-nord =1, sud=0) Luogo di residenza (capoluogo di provincia=1, centro minore=0) Scuola secondaria (liceo=1, altro=0) Raggio di aspettative occupazionali espresse dal capofamiglia Classe sociale familiare a = borghesia = classe media impiegatizia = piccola borghesia autonoma 0,046 0,049 -0,027 0,022 0,038 -0,064 0,054 0,003 0,030 0,318** -0,120** -0,071 -0,087* * Parametro più che doppio dell’errore standard - ** Parametro più che triplo dell’errore standard a Categoria di riferimento: classe operaia - N = 836; gradi di libertà = 13; R2 = 0,136 ta una costante. Se vi avessimo incluso anche coetanei non universitari, le differenze sarebbero state probabilmente più marcate visto che chi è meno scolarizzato tende ad esprimere preferenze occupazionali meno esigenti e circoscritte. Tanto più che una significativa associazione negativa tra classe sociale e raggio di aspettative occupazionali per i figli emerge anche nel campione dei genitori. A prescindere dall’età degli intervistati, dunque, gli orientamenti verso i futuri sbocchi professionali dei giovani risultano essere più flessibili e lassi nelle famiglie di estrazione operaia8 . Ulteriori analisi (non presentate in queste pagine) del raggio di ciascuna delle tre dimensioni delle aspettative (cioè il numero di profili professionali di riserva, attesi e ambiti indicati dagli intervistati) permettono di riscontrare che, sebbene il possesso di un medesimo titolo di studio (la maturità di scuola secondaria superiore) e la medesima condizione come studenti universitari possano livellare le prospettive dei giovani intervistati, a esprimere il numero medio più alto di occupazioni possibili sono in ogni caso gli studenti provenienti da famiglie di operai. La differenza con i giovani di diversa estrazione sociale risulta particolarmente alta e significativa per quanto riguarda il raggio delle aspettative ideali. 8 218 Resta da affrontare, prima di concludere, la questione delle differenze di genere su cui, ancora una volta, la distinzione tra le tre dimensioni delle aspettative impiegata in questo saggio aiuta a cogliere nuances interessanti. In termini di aspirazioni occupazionali, le giovani italiane che frequentano l’università sono diventate tanto ambiziose quanto i loro colleghi maschi, così come mostrano le ricerche americane al riguardo; le aspettative realistiche, d’altra parte, si collocano su un livello leggermente più basso. In realtà, significative differenze di genere emergono laddove si analizzano in parallelo le scelte di genitori e figli. In particolare, l’attribuzione di certe occupazioni di riserva (segretaria, maestra elementare) o giudicate realistiche (giornalista, ricercatrice, funzionaria del settore non-profit) al mondo femminile trova d’accordo i genitori e le giovani intervistate (tav. 2). L’inclinazione dei genitori a dare un’immagine segregata per genere di certi profili professionali viene replicata praticamente senza eccezioni nella generazione delle figlie. Ciò significa che il mutamento di lungo periodo in direzione di una riduzione delle percezioni sociali di una divisione del mondo del lavoro per linee di genere non è portato avanti in modo significativo dalla generazione dei giovani di questi ultimi anni. Ma c’è di più. Per le giovani studentesse universitarie del nostro campione, i genitori prefigurano un futuro in posizioni occupazionali prevalentemente di classe media impiegatizia. Da una parte, tendono a negare la possibilità di una discesa nel lavoro manuale (resta sullo sfondo l’opzione di riserva classica: il lavoro casalingo), dall’altra escludono l’ascesa verso posti più prestigiosi. E così la quota di capifamiglia che affermano che le loro figlie non dovranno accettare altro che non sia una professione borghese è inferiore alla proporzione di coloro che pensano la stessa cosa per i figli maschi (il 19,5% contro il 28,7%). I giovani, dal canto loro, assecondano questa impostazione familiare, nel senso che la convergenza tra le aspettative occupazionali, professione per professione, delle ragazze e dei loro genitori è generalmente maggiore che fra i coetanei maschi. Insomma, le famiglie degli studenti sembrano riuscire a controllare meglio, o comunque a far sviluppare in un clima di maggiore conformità, le aspettative lavorative delle giovani donne che non quelle dei giovani uomini che manifestano la possibilità di esplorare un più vasto e variegato orizzonte di scelte. 219 In questo senso, come espressione di una minore libertà di autodeterminazione vis-à-vis la famiglia d’origine, sembra persistere sottilmente una certa misura di discriminazione delle donne nell’accesso al lavoro. 4. La difficile adesione alla cultura politica postmoderna Anche qualora non si voglia drammatizzare la disoccupazione che – come si è visto in apertura di questo capitolo – minaccia i giovani laureati italiani, in quanto “fenomeno transitorio, che riguarda solo i ‘figli’ nella fase di ingresso del mercato del lavoro”, si deve rilevare che con la sua diffusione “risulta però incrinato quel sentimento di sicurezza che ha sempre accompagnato la condizione di vita delle classi medie e superiori” (Reyneri 1996, 171). E’ presumibile che quest’insicurezza montante, lungi dal circoscriversi al novero di coloro che finiscono per essere effettivamente vittime della disoccupazione, si insinui anche tra quei giovani che, malgrado i privilegi di estrazione sociale e d’istruzione, sono e si sentono comunque potenzialmente vulnerabili. A generare apprensione può essere, in particolare, la prospettiva di venirsi a trovare in una situazione di incongruenza di status che deriva dal possesso di alte credenziali d’istruzione cui non corrisponde un’adeguata collocazione nella gerarchia del prestigio occupazionale9 . Ancor prima della sua effettiva realizzazione, questa minaccia può stimolare un arroccamento a tutela delle proprie “legittime” aspettative così come sancite dal tradizionale nesso tra istruzione e collocazione so- 9 Invero, nella misura in cui la disoccupazione dei laureati è in buona sostanza “disoccupazione da attesa” del posto giusto (come da più parti si sottolinea), il tentativo di evitare situazioni di squilibrio di status ne costituisce il principale meccanismo generativo. Ma via via che la condizione di disoccupato si prolunga nei mesi (quando non negli anni), il suo carattere sospensivo – come di un limbo che affranca da una valutazione sociale in termini di status – viene progressivamente meno. Col tempo, l’incongruenza di status del laureato disoccupato – o sottoccupato, o male occupato – affiora inevitabilmente. 220 ciale. In altre parole il laureato in pectore percepisce il rischio di una svalutazione della propria istruzione – un bene su cui ha investito risorse personali e familiari per buona parte della propria vita – e quindi dello status tributato in un passato non lontano ai giovani in possesso della laurea nonché tuttora ai coetanei di paesi vicini (che spesso conosce per esperienza diretta). Una reazione tipica – riesumando con un po’ di libertà un modello teorico di ascendenza mertoniana – è il “ritiro” dai valori in auge per trovare rifugio in una condizione quasi-anomica o entro il recinto di valori tradizionali (Merton 1968, 207-209; Hagen 1962, 185 ss.). Secondo numerosi autori, nei casi limite in cui il clima di insicurezza prodotto da un diniego di prerogative di status attese si generalizza, e contemporaneamente trovano spazio élites pronte alla mobilitazione anti-sistema ed ideologie anti-egualitarie che enfatizzano i costi della mobilità discendente, si creano “le condizioni per l’accettazione di soluzioni totalitarie” (Germani 1971, 134; cfr. anche Pizzorno 1971, 116; Mannheim 1940, 130; Kornhauser 1959, 183-193). Va sottolineato che in simili situazioni estreme l’avanzata di valori reazionari risulta stimolata più dalla paura di restare senza lavoro e scivolare verso il basso nella scala sociale che non dall’esperienza della disoccupazione e del declassamento vero e proprio. Come mostra, ad esempio, una meticolosa ricostruzione del rapporto tra depressione economica e mutamento culturale nella Germania del primo dopoguerra, “nel momento culminante della disoccupazione, cioè nell’aprile 1932, soltanto l’otto per cento della cittadinanza era disoccupato, ma […] lo spettro della disoccupazione [era] in primo piano nella mente dei borghesi[;] sebbene soltanto la classe operaia soffrisse fisicamente, nei tre anni di crisi, il ceto medio […] ne risentiva in modo più decisivo, per il terrore di una catastrofe definitiva che lo riducesse allo stesso destino dei ‘senzatetto’” (Allen 1968, 144-145). Anche in situazioni non altrettanto tragiche (soprattutto per il maggior benessere collettivo, per la marginalità di élites politiche patentemente antidemocratiche, e per la minor enfasi posta dalla cultura dominante sulle differenze di status nelle relazioni sociali), si può però ipotizzare che il timore della disoccupazione stimoli una dinamica di chiusura dell’orizzonte dei valori politici, in 221 linea con una prospettiva di difesa di vested interest individuali o propri del gruppo primario d’appartenenza. In un quadro teorico più generale, questa ricerca di sicurezza personale può essere interpretata come la matrice originaria dei sistemi valoriali “moderni” che si frappone allo sviluppo di una visione del mondo in chiave “postmoderna” (Inglehart 1997a). Visti gli effetti virtuosi che quest’ultima Weltanschauung pare esercitare sul consolidamento della democrazia, l’identificazione dei fattori che ne ostacolano la diffusione rappresenta un problema che non può essere sottovalutato da chi ha a cuore le condizioni di riproduzione delle società democratiche. Nelle pagine che seguono esamineremo empiricamente, sulla base di dati relativi al campione degli studenti universitari italiani, il rapporto tra l’apprensione prodotta dalla disoccupazione e alcune dimensioni fondamentali della cultura politica postmoderna. Se è vera l’ipotesi per cui l’allarme per il rischio disoccupazione frena la diffusione di tale cultura, ci si deve attendere che chi segnala una più forte attenzione a tale rischio sia specialmente incline a: – preoccuparsi più della tutela degli interessi economici e della difesa da minacce esterne che non della qualità della vita democratica e della diffusione di strumenti di libertà, espressione e partecipazione (come indicato dalla collocazione su posizioni materialiste nella “classica” scala di Inglehart), – cercare di massimizzare il proprio tornaconto economico piuttosto che accettare princìpi generali di responsabilità civica (come l’obbligo di pagare le tasse), – prendere le distanze da politiche favorevoli alla promozione delle differenze etniche e da forme di identificazione territoriale cosmopolite, – disinteressarsi di beni collettivi indivisibili (come la protezione dell’ambiente naturale), – mostrare una bassa partecipazione ad attività associative, che costituiscono un sacrificio di risorse individuali ripagato in genere soltanto da gratificazioni espressive. 222 D’ora in poi, queste dimensioni valoriali10 saranno impiegate come altrettanti indicatori della cultura politica postmoderna, con l’obiettivo di controllare se, e in che modo, la cognizione di particolari difficoltà nel mercato del lavoro delle giovani generazioni più istruite vada di pari passo con la presa di distanza da tale cultura. E dunque: quanto è temuta la disoccupazione dai giovani che studiano nelle università italiane della fine del secolo ventesimo? E poi: il timore di non trovare lavoro costituisce una remora allo sviluppo di una cultura politica postmoderna? Il primo interrogativo è cruciale per verificare se la svalutazione dell’istruzione universitaria quale risorsa per l’ingresso nel mondo del lavoro ingenera, come previsto, un senso di intensa e diffusa insicurezza circa il problema lavoro. Il secondo interrogativo, invece, invita a controllare l’ipotesi per cui l’allarme disoccupazione costituisce la premessa di una fuga dalla cultura politica postmoderna. La notevole sensibilità degli studenti intervistati alla questione lavoro è fuor di dubbio: la disoccupazione rappresenta, alla pari con la crisi dei valori, il problema che più li allarma nella lista di grandi tematiche proposta (tav. 5). Data la formulazione della domanda Tavola 5. Il problema più grave del futuro per gli studenti universitari italiani % La disoccupazione 28,4 La crisi dei valori 28,4 L’inquinamento 18,0 La fame nel Terzo Mondo 15,5 I fondamenti religiosi 6,2 Altro 3,3 Totale 100,0 N = 1320 10 Come si noterà, le prime quattro dimensioni attengono ad atteggiamenti mentre l’ultima si basa su dati relativi a comportamenti concreti rilevati tramite una scala di frequenza di partecipazione. Tuttavia, sembra di poter ragionevolmente assumere che prendere parte alla vita di associazioni è in genere espressione di una concezione della partecipazione come valore. 223 (“Se pensa al futuro del mondo, quale dei seguenti problemi La preoccupa di più in assoluto?”), questa preoccupazione viene espressa in termini oggettivi, senza un riferimento esplicito alla percezione del proprio destino personale, ma è difficile pensare che, in un panorama ostico qual è quello che si presenta ai neolaureati italiani, la consapevolezza dell’emergenza occupazionale venga posta nel massimo rilievo senza un coinvolgimento personale – in forma cioè soltanto di preoccupazione per il lavoro che non c’è per gli altri. Questa interpretazione è confortata dal fatto che a temere particolarmente la disoccupazione sono gli studenti che appartengono a categorie statisticamente più esposte a provarla sulla propria pelle – come risulta dalla tavola 6, che presenta l’impatto di un’ampia serie di fattori sulla probabilità di indicare la disoccupazione come il problema più grave degli anni a venire11 . Come era logico aspettarsi, vivere nel Mezzogiorno, dove la disoccupazione colpisce le giovani generazioni (e non solo) con una virulenza sconosciuta nel resto del paese, sensibilizza gli studenti universitari alla questione in misura maggiore. E’ del pari logico che chi è figlio di imprenditore, di professionista, di dirigente o comunque di un genitore che svolge una professione in condizione autonoma, ed è quindi in grado di offrire un lavoro quantomeno al proprio fianco, soffra meno il rischio di non trovare un impiego, e quindi manifesti meno timore per la disoccupazione di chi invece proviene da una famiglia di operai o, seppur meno, di impiegati. Degli altri fattori familiari che a priori si poteva supporre che potessero influenzare la propensione a temere la disoccupazione, due risultano empiricamente significativi (o quasi). Da un lato, avere uno o entrambi i genitori occupati nel pubblico impiego, che ovviamente non facilita né una prospettiva di affiancamento nell’esercizio dell’attività né, di solito, il ricorso alle reti sociali professionali per essere assunti da terzi. D’altro lato, è prossimo ai limiti di significatività il fatto di avere molti fratelli, che forse indica la fiducia più o meno consapevole nella possibilità di trovare un’occupa11 Più precisamente, la variabile dipendente della regressione logistica presentata nella tavola 6 è una variabile dummy derivata dalle risposte alla domanda illustrata poc’anzi, le cui due modalità sono “il problema della disoccupazione” e “tutti gli altri problemi”. D’ora in poi, è a questa variabile che si farà riferimento come indicatore di timore della disoccupazione. 224 zione tramite il loro aiuto (se costoro sono già inseriti nel mondo del lavoro), e quindi è inteso come una sorta di antidoto contro il rischio-disoccupazione – come già emerso in altre indagini (Rees e Gray 1982, 462-463). Tavola 6. Le condizioni di sviluppo del timore della disoccupazione tra gli studenti universitari (regressione logistica binomiale) B E.S. DPa Contesto socio-geografico Area geografica di residenza = sud 0,16 0,12 –0,08 0,14 –0,02 – 0,43 0,23 – 0,11 0,48** Comune di residenza > 50mila ab. Stuazione familiare Classe sociale = borghesia b – 0,18 0,20 – 0,04 – 0,48* 0,22 – 0,12 Capofamiglia pensionato 0,09 0,19 0,02 Genitore/i nel pubblico impiego 0,35* 0,17 0,09 Madre casalinga 0,18 0,15 0,05 = media impiegatizia b = piccola borghesia autonoma b 0,03 – 0,01 Istruzione paterna (in anni di scolarizzazione – 0,03 Istruzione materna (in anni di scolarizzazione 0,02 0,03 0,00 Stato civile genitori = coniugati 0,08 0,22 0,20 – 0,14 0,08 – 0,04 – 0,72** 0,15 – 0,18 0,02 0,03 0,01 – 0,14 0,14 – 0,04 Numero fratelli Caratteristiche personali Genere = maschile Anno di nascita Scuola superiore = liceo classico o scientifico Facoltà universitaria = scienze politiche/sociologia Successo scolastico c 0,23 0,16* – 0,02* 0,01 0,06 – 0,01 Informazione tramite tv c 0,13** 0,07 0,03* Informazione tramite quotidiani c 0,02 0,04 0,00 – 1,85 2,46 Costante DP è un coefficiente standardizzato che indica il cambiamento nelle probabilità che la variabile dipendente assuma valore 1 (cioè, che la disoccupazione venga indicata come massimo problema del futuro) rispetto alla probabilità media campionaria (P=0,284) al variare di una unità in ciascuna variabile indipendente (per un’illustrazione dettagliata cfr. Kaufman 1996, 98-99). b Categoria di riferimento: classe operaia. c Per una descrizione dell’indice cfr. appendice . * Coefficiente B almeno doppio dell’errore standard. ** Coefficiente B almeno triplo dell’errore standard. N = 1189. chi2 = 78,2. Gradi di libertà: 19. a 225 Una volta controllate tutte le altre variabili inserite nel modello, tuttavia, nessun fattore esercita un effetto sul timore della disoccupazione forte quanto l’appartenenza di genere. L’eccezionale livello di inattività e disoccupazione che caratterizza il mercato del lavoro femminile in Italia, forse, motiva particolarmente le giovani a fare degli studi universitari un trampolino di lancio nel mondo del lavoro e, più in generale, a cancellare una volta per tutte le differenze tra uomini e donne nelle possibilità di inserimento professionale; ciò può renderle decisamente più sensibili dei ragazzi alla gravità della situazione occupazionale che rischia di pregiudicare il raggiungimento di questo obiettivo. Giustificata è anche la preoccupazione significativamente maggiore di chi ha un background scolastico più debole e incerto alle spalle, che rappresenta solitamente un segnale premonitore di difficoltà nel curriculum universitario nonché nel rendimento futuro delle credenziali d’istruzione sul mercato del lavoro. Così come appaiono fondati i più alti timori (ancorché non significativi al livello minimo consueto) degli studenti di scienze politiche e sociologia – dato che a costoro, se si esclude ovviamente il cospicuo numero degli iscritti a queste facoltà già occupati (quasi il 30%), è richiesto più tempo della media per entrare nel mondo delle professioni una volta laureati (Istat 1996, 17). Non può parimenti stupire che, disaggregando i risultati per singole facoltà, il rischio disoccupazione abbia una presa alquanto minore tra gli aspiranti ingegneri (solo il 15,2% lo indica come problema prioritario), per i quali vi è notoriamente una più alta domanda da parte delle imprese. Di non facile interpretazione è, infine, l’impatto dei mass media. Soprattutto perché non è univoco: una maggior esposizione ai programmi televisivi con contenuti politico-informativi accresce il timore per la disoccupazione, mentre una più assidua lettura dei giornali non produce effetti rilevanti. Forse, la televisione esercita un maggior potere ansiogeno nella misura in cui trasmette messaggi più semplici e immediati della parola scritta che stimolano meccanismi di associazione tra la situazione congiunturale e le prospettive personali. Complessivamente, i dati confermano quanto era ragionevole attendersi: il timore della disoccupazione cresce quanto più gli intervistati sono portatori di fattori di rischio oggettivi. Resta da chiedersi se a tale percezione, a sua volta, si lega un insieme di 226 valori politici in linea con l’ipotesi – caratterizzato, cioè, dalla difesa di interessi materiali, da localismo, da scarsa solidarietà civica, da ridotta sensibilità ambientale e da bassa partecipazione associativa (per le definizioni operative di questi valori, cfr. l’appendice del capitolo). La risposta è positiva, anche se occorre fare alcune precisazioni. Una volta controllati tutti gli altri fattori che in linea di principio si ritiene possano influenzare le variabili dipendenti, il timore per la disoccupazione risulta essere un ostacolo altamente significativo all’adozione di posizioni postmaterialiste, cosmopolite e ambientaliste, significativo come freno del senso di responsabilità civica in campo fiscale, ma privo di effetti sul livello di partecipazione associativa 12 . D’altra parte, nessuna delle variabili indipendenti considerate è in grado di predire in misura apprezzabile tutte e cinque gli orientamenti valoriali con cui si è operativizzata la cultura politica postmoderna. Ciò segnala, probabilmente, che tali orientamenti afferiscono a dimensioni di fondo distinte, come dimostra la matrice delle correlazioni tra loro. In generale, postmaterialismo e cosmopolitismo tendono a cogliere aspetti presenti anche negli indicatori di civismo e partecipazione, mentre l’indice di ecologismo pare identificare priorità molto specifiche, con solo una correlazione significativa – e in qualche modo sorprendente perché di segno negativo – con il livello di partecipazione associativa. Questa divaricazione interna all’insieme degli indicatori di cultura politica prescelti è confermata da un’analisi fattoriale dei cinque indici, i cui due fattori principali estratti (che “spiegano” il 50,6% della varianza) possono essere interpretati in chiave rispettivamente di ‘autenticità solidaristica’ (forte attenzione agli obiettivi postmaterialisti, all’identità cosmopolita e alla partecipazione collettiva) e ‘ambientalismo passivo’ (dominato dal tema della qualità dell’ambiente senza però una mobilitazione diretta 12 Inoltre, come risulta da un’ulteriore analisi, il timore della disoccupazione esercita un effetto empiricamente considerevole sulla tendenza ad avere una concezione strumentale anziché espressiva del lavoro. Il risultato è tutt’altro che sorprendente – la paura di un declassamento occupazionale sollecita anzitutto la tutela del reddito e della stabilità dell’impiego. Merita cionondimeno attenzione in quanto l’enfasi sui contenuti espressivi dell’attività professionale costituisce secondo Inglehart (1997a, 44) un aspetto cruciale dei valori postmoderni in ambito economico. 227 nella vita di gruppi o associazioni). Ciascuno di questi fattori sembra ruotare attorno a uno dei due pilastri della cultura politica postmoderna così come definita da Inglehart: il primo riproduce una concezione wertrational e universalistica dell’azione sociale, il secondo riflette un’accentuata preoccupazione individualistica per la qualità della vita. Coeteris paribus, il timore per la disoccupazione agisce da indubbio deterrente per lo sviluppo di entrambe queste dimensioni latenti della cultura politica degli studenti universitari italiani (tav. 7). E’ in particolare nettamente d’ostacolo all’adozione di una prospettiva valoriale incentrata sulla sensibilità ambientale che, evidentemente, richiede in via prioritaria consolidate sicurezze sul piano dei bisogni primari – tra cui pare legittimo ancor oggi inserire il lavoro. Questa stessa chiave di lettura sembra utile a comprendere perché i giovani del centro e del nord, di estrazione sociale superiore, i maschi e gli studenti di facoltà scientifiche e/o professionalizzanti – cioè, categorie che oggettivamente godono di migliori ripari contro il rischio di prolungata esclusione dal mercato del lavoro – sono nel complesso più inclini ad adottare i valori che soggiacciono a questo fattore. Simili risultati, insomma, possono essere tranquillamente interpretati sulla base dell’“ipotesi della scarsità” di Inglehart. Per contro, tale linea interpretativa non è sufficiente a spiegare perché questa stessa dimensione fattoriale ha maggior presa tra i giovani meno informati e meno interessati alle cose della politica. Questi ultimi dati corroborano l’attribuzione di una componente di passività al fattore in questione: nel campione esaminato, la componente ambientalista della cultura postmoderna sembra sposarsi con un fenomeno che la sociologia classica associava alla società moderna come società di massa – cioè, l’atomizzazione apatica degli individui. La dimensione partecipativa pesa invece sul primo fattore estratto (cioè l’‘autenticità solidaristica’), cui sono positivamente associati il livello di informazione e di interesse per le cose della politica, nonché soprattutto essere di sinistra. Si tratta di variabili che definiscono distinzioni “classiche” nel rapporto degli attori sociali con la politica – specialmente l’auto-collocazione sull’asse sinistra-destra. Nel caso degli studenti universitari italiani del nostro campione, quindi, l’evidenza è in contrasto con le analisi che mettono in luce l’ortogonalità della dimensione sini228 Tavola 7. L’effetto di fattori sociali e culturali sull’‘autenticità solidaristica’ (1) e l’‘ambientalismo passivo’ (2) (coefficienti beta di regressioni multiple lineari) (1) Area geografica di residenza = Sud Comune di residenza > 50mila ab. Classe sociale della famiglia = borghesia a = media impiegatizia a = piccola borghesia autonoma a Istruzione paterna (in anni di scolarizzazione) Istruzione materna (in anni di scolarizzazione) Genere = maschile Anno di nascita Scuola superiore = liceo classico o scientifico Facoltà universitaria = scienze politiche/sociologia Successo scolastico b Informazione tramite tv b Informazione tramite quotidiani b Interesse per la politica b Collocazione asse sinistra-destra (estrema sinistra = 1, estrema destra = 10) Estraneità alla dimensione sinistra-destra = non sa, non risponde Timore della disoccupazione (2) 0,02 -0,12** (0,87) (-4,27) -0,03 0,03 (-1,01) (1,16) 0,06 0,07 (1,34) (1,67) 0,02 0,02 (0,60) (0,68) -0,01 -0,00 (-0,18) (-0,13) -0,03 -0,04 (-0,69) (-0,88) -0,00 0,05 (-0,01) (1,51) -0,03 0,16** (-0,91) (5,78) 0,00 -0,06* (0,03) (-2,09) 0,01 0,01 (0,31) (0,41) 0,05 -0,06* (1,74) (-1,95) 0,02 0,02 (0,86) (0,83) 0,01 -0,06* (0,19) (-2,01) 0,08** -0,04 (2,74) (-1,52) 0,17** -0,13** (5,96) (-4,24) -0,02 -0,39** (-0,87) (-14,93) -0,04 0,01 (-1,54) (0,20) -0,19** -0,30** (-7,42) (-11,14) Categoria di riferimento: classe operaia. b Per una descrizione dell’indice cfr. appendice. * Coefficiente B almeno doppio dell’errore standard. ** Coefficiente B almeno triplo dell’errore standard. N = 1178. Fra parentesi: valori di t. Gradi di libertà: 18. r2 adattato = 0,25 (modello 1); 0,21 (modello 2). a 229 stra-destra tradizionale e la dimensione modernità-postmodernità nella cultura politica delle società occidentali contemporanee (ad esempio, Knutsen 1989; Inglehart 1997a, 237-252). In conclusione, per entrambi i nuclei portanti dei valori politici postmoderni emersi in questa analisi sotto forma di fattori latenti risulta difficile separare continuità e discontinuità rispetto ad orientamenti tipici della modernità. Va però comunque sottolineato che, nell’ampia schiera di variabili indipendenti considerate, l’unica che mostra un’associazione significativa e uniforme (cioè, dello stesso segno) con ambedue le dimensioni dalla cultura politica postmoderna è il timore per la disoccupazione, a conferma dell’ipotesi avanzata in apertura del capitolo. 5. I costi incalcolati della disoccupazione giovanile Sotto il profilo socioeconomico, la disoccupazione rappresenta anzitutto un amplificatore di disuguaglianza che non è neppure funzionale ad un accrescimento del livello assoluto di benessere di una società, visto che per definizione consiste in un impiego subottimale della risorsa produttiva ‘lavoro’. In secondo luogo, la disoccupazione innesca processi di deterioramento progressivo del capitale umano – cioè, degli skills dei lavoratori. In terzo luogo, alimenta forti resistenze all’innovazione tecnologica in quanto quest’ultima, nel breve periodo, può determinare un ulteriore aggravamento del numero dei disoccupati. Se poi si ritiene che la popolazione maggiormente istruita dia un contributo più significativo alla crescita economica e influenzi in modo particolarmente rilevante le dinamiche del progresso tecnico, tutti questi costi sono tanto più alti quanto più elevato è il livello di formazione dei disoccupati. Piuttosto noti sono anche i costi psicologico-sociali dell’esperienza della disoccupazione che, al di là delle speculazioni filosofiche sulla necessità esistenziale del lavoro per l’uomo, sono stati messi in luce già nelle affascinanti ricerche pionieristiche del periodo della Grande Depressione (Jahoda et alii 1933; Bakke 1933; Zawadski e Lazarsfeld 1935). Quasi quarant’anni più tardi, la principale conclusione di quegli studi è stata così riassunta dal più prestigioso dei ricercatori di allora: “una disoccupazione prolun230 gata determina una condizione di apatia [tale che le sue] vittime non sfruttano più neppure le scarse possibilità loro rimaste” (Lazarsfeld 1971, 43). Le analisi successive non hanno fatto che confermare e qualificare – ad esempio, sulla base dei tempi di permanenza nella condizione di disoccupato – il nesso tra disoccupazione e indebolimento del senso di autodirezione (per bilanci di tali studi, cfr. Depolo e Sarchielli 1987, spec. 71-86; Crepet 1990; Sarchielli et alii 1991; Pugliese 1993, 136-146; Sarchielli 1995). Ma, come è emerso in queste pagine, un alto livello di disoccupazione ha anche altri costi, in genere non contabilizzati, che derivano dalla preoccupazione che semina nei contesti sociali che ne percepiscono il pericolo. Ancor prima di far sentire i suoi effetti direttamente, dunque, la disoccupazione deprime le prospettive soggettive dei giovani e diffonde un alone di inquietudine sfavorevole allo sviluppo di una cultura politica postmoderna. I risultati empirici presentati mostrano che gli studenti universitari italiani si sentono minacciati dal rischio di non trovare un lavoro – e implicitamente da conseguenti processi di mobilità discendente – pur senza essersi dovuti scontrare personalmente con il problema; e che alla percezione di tale minaccia tende a legarsi una definizione delle priorità politiche di segno materialista, localista e individualista. Questo collegamento tra rappresentazione della realtà e valori politici merita ulteriori esplorazioni in profondità. Fin da ora, tuttavia, è inevitabile vedere nella diffusione di siffatti orientamenti tra gli studenti – una categoria che, ricordiamolo, nella storia d’Europa ha sempre animato l’avanguardia del mutamento culturale “progressivo” (cfr. Bettin 1997) – una spia dell’offuscamento di una cultura politica capace di agevolare l’integrazione sociale tramite la condivisione di ideali partecipativi, libertari, cosmopoliti e universalistici. Appendice: descrizione degli indici Livello minimo ammissibile di prestigio occupazionale all’ingresso nel mondo del lavoro: corrisponde al punteggio di prestigio occupazionale più basso tra le professioni di riserva indicate dal rispondente (o, se nessuna, al punteggio più basso tra le professioni nella batteria relativa alle aspettative realistiche). I punteggi 231 derivano dalla scala di prestigio occupazionale messa a punto da de Lillo e Schizzerotto (1985). Livello di prestigio occupazionale atteso all’ingresso nel mondo del lavoro: consiste nel punteggio medio dei profili lavorativi indicati nella batteria delle aspettative realistiche. I punteggi derivano dalla scala di de Lillo e Schizzerotto (1985). Livello di prestigio occupazionale ambito all’ingresso nel mondo del lavoro: consiste nel punteggio medio dei profili lavorativi indicati nella batteria delle aspettative ideali. I punteggi derivano sempre dalla scala di de Lillo e Schizzerotto (1985). Raggio delle aspettative occupazionali: corrisponde alla proporzione di occupazioni indicate come accettabili, realistiche o ideali nelle tre batterie di domande. Postmaterialismo: indice ricavato dalla batteria ormai classica descritta in Inglehart (1997a, 355) consistente in tre domande relative a possibili opzioni politiche materialiste o postmaterialiste in cui il rispondente deve indicare una prima e una seconda priorità (salvo la sostituzione dell’item “combattere la crescita dei prezzi”, spogliato di senso dalla bassa inflazione degli anni Novanta, con l’item “combattere la disoccupazione”, ed eliminando l’opzione “cercare di abbellire le nostre città e campagne”, semanticamente ed empiricamente aliena alla scala: cfr. Davis 1996, 324325). Alle prime scelte postmaterialiste è stato attribuito valore +2, alle seconde scelte +1. Alle prime scelte materialiste è stato assegnato valore –2, alle seconde scelte –1. Rispetto alle diverse procedure di codifica proposte da Inglehart (1983, 97; 1997a, 389), quella adottata sembra avere il vantaggio di cogliere in maniera più fine, e quindi di distribuire in un range più ampio, le diverse possibilità di risposta. Cosmopolitismo: indice che tiene conto di quattro indicatori, e cioè il senso di appartenenza al mondo (scala Likert), la scelta del mondo come centro di identificazione territoriale primario (rispetto al comune, alla regione, all’Italia e all’Europa), e il grado di disaccordo con il fatto che “Lo Stato tuteli l’identità nazionale” e “Lo Stato blocchi l’immigrazione extra-comunitaria”. I valori di questi quattro indicatori sono stati sottoposti ad analisi fattoriale; i relativi factor score coefficient (rispettivamente, 0,48, 0,49, 0,23 e 0,30) sono stati impiegati per ponderare gli indicatori stessi nella costruzione dell’indice. 232 Ecologismo: indice che si fonda sui seguenti indicatori: l’accordo con l’affermazione: “Per vivere in un ambiente meno inquinato, sarei disposto a ridurre il mio tenore di vita”, il disaccordo con l’affermazione: “Per eliminare la disoccupazione, potrei tollerare un po’ di inquinamento” (entrambi gli item sono scale Likert) e il grado di fiducia nelle associazioni ambientaliste (punteggio da 0 a 10). Tramite analisi fattoriale, i tre indicatori standardizzati sono stati ponderati con i relativi factor score coefficient (rispettivamente, 0,43, 0,54 e 0,55) e quindi sommati. Civismo: indice pari al punteggio (da 0 a 10) su un termometro che aveva come polarità rispettivamente le seguenti affermazioni: “Il cittadino deve pagare le tasse in proporzione a quanto riceve dallo Stato” e “Il cittadino deve pagare tutte le tasse che lo Stato gli richiede”. Partecipazione associativa: indice che corrisponde al livello di partecipazione (misurata su una scala a quattro posizioni) ad attività di partiti, sindacati, associazioni religiose, studentesche, ecologiste, del volontariato e centri sociali. Successo scolastico: indice pari al voto di diploma superiore (in sessantesimi), dimezzato nel caso che l’intervistato si sia trasferito da una facoltà ad altra negli anni di università. Informazione tramite tv: indice pari alla frequenza media (su una scala a cinque posizioni) di ascolto di telegiornali nazionali, telegiornali locali, dibattiti politici e talk-show. Informazione tramite quotidiani: indice pari alla frequenza di lettura di giornali (su una scala a cinque posizioni). Interesse per la politica: indice pari al livello di interesse complessivo (su una scala a quattro posizioni) per le notizie di politica internazionale, politica nazionale, politica locale ed economia e finanza. 233 234 CAPITOLO OTTAVO LA TRASFORMAZIONE DELLO STATUS DI STUDENTE E LE NUOVE FORME DELL’IMPEGNO POLITICO 1. L’esperienza universitaria e l’identità politica Uno dei punti fermi dei recenti studi sulla realtà giovanile è l’assunzione della giovinezza non più come un processo, vale a dire come una fase del ciclo di vita rivolta ad un risultato ben preciso consistente nel passaggio alla vita adulta, bensì come una condizione, un momento della vita sempre meno proiettato verso un esito prevedibile e sempre più fine a sé stesso. A partire da questo dato fermo esistono, tuttavia, numerose e diversificate prospettive interpretative sui suoi significati sociali e sulle caratteristiche principali della condizione giovanile. Alcune analisi si concentrano su specifici tratti del mondo giovanile, mentre altre prendono in considerazione aspetti ben precisi del mutamento sociale contemporaneo e ne leggono gli effetti sulle giovani generazioni. Una prima e assai diffusa ipotesi collega la condizione giovanile contemporanea ai processi di ristrutturazione socio-economica che oggi hanno investito il mondo occidentale e tende a interpretarla in termini di marginalità: marginalità rispetto ai processi centrali che governano il sistema economico ed istituzionale. I giovani costituirebbero, innanzitutto, un gruppo sociale sempre più lontano, escluso e non garantito dai nuovi modelli di solidarietà pubblica che stanno nascendo dalla ristrutturazione profonda dei sistemi di Welfare State. Inoltre, proprio in virtù di questa debole integrazione, il mondo giovanile sarebbe diventato una facile preda dei processi di flessibilizzazione-sfruttamento della nuova economia governata dal mercato globale, anzi ne rappresenterebbe il riferiQuesto capitolo è stato scritto da Enrico Caniglia. 235 mento prioritario in termini di mano d’opera flessibile. Le ragioni e le caratteristiche principali della condizione giovanile consisterebbe quindi nella marginalità sociale ed economica. Una seconda interpretazione coglie in primo luogo le destrutturazioni temporali di cui appare investita la vita dei giovani: stato di moratoria, allungamento della giovinezza e rinvio dell’ingresso nel mondo degli adulti (Cavalli e Galland 1996). Le origini di questo processo si ritrovano ancora una volta nelle odierne dinamiche socioeconomiche. In questa prospettiva la condizione giovanile contemporanea non fa altro che riflettere, anche se più indirettamente rispetto all’ipotesi precedente, la crisi economica e le trasformazioni delle istituzioni socio-economiche: crisi del mondo del lavoro e inevitabili difficoltà di inserimento occupazione, che si traducono puntualmente in enormi difficoltà o addirittura in una vera e propria rinuncia ad un ingresso nel mondo degli adulti. Una terza ipotesi sottolinea anch’essa il dato della moratoria, ormai stabilmente acquisito sia nella letteratura teorica sia nella ricerca, quale tratto fondativo della condizione giovanile contemporanea, ma si sposta da una prospettiva esplicativa di tipo socioeconomico ad una di tipo culturale. L’attuale moratoria giovanile, sintomo di uno stato di malessere presente nelle giovani generazioni, sarebbe infatti il risultato di fattori culturali prima che economici. In particolare, l’incapacità o l’assenza di una volontà ad assumere ruoli adulti dipenderebbe da una sorta di carenza personale relativamente al patrimonio valoriale che è necessario per affrontare la vita sociale adulta. La condizione giovanile odierna viene ricondotta ad una caratteristica specifica della società odierna: la sua neutralità rispetto alle scelte etiche, o se si vuole la sua anomia e a-moralità (Donati e Colozzi 1997, 27). Prima ancora delle difficoltà di inserimento lavorativo la moratoria giovanile dipenderebbe dal fatto che in ampi settori della società odierna «non è più chiaro che cosa significhi diventare adulti dal punto di vista culturale, cioè simbolico, al di là degli aspetti biologici» (Donati e Colozzi 1997, 297). L’incapacità della società odierna, e segnatamente delle sue principali agenzie di socializzazione come la famiglia e la scuola, a indicare precisi valori e punti certi per la crescita personale e sociale dei giovani fa si che questi ultimi siano privi della possibilità di fare scelte e di incanalarsi verso l’assunzione di ruoli adulti. 236 Un’ultima prospettiva interpretativa riconnette anch’essa l’esistenza di una condizione giovanile e le sue caratteristiche principali ai principali processi di trasformazione socio-culturali che si ritiene stiano attraversando le società contemporanee. Si tratta di processi tipici della modernità e che fanno sentire la loro forza innanzitutto nel mondo giovanile. Sono processi sintetizzabili in termini di una crescente crisi dei sistemi di integrazione sociale incalzati dalla differenziazione sociale, la pluralizzazione del contesti di vita, e culturale, diversificazione dei sistemi di valore. Come nell’interpretazione precedente, si chiamano in causa gli aspetti specifici della nostra modernità o se si vuole della postmodernità, ma a differenza dell’interpretazione precedente si sostiene che il contesto sociale contemporaneo non sia neutro rispetto ai valori quanto piuttosto ricco di valori contrastanti e di cerchie sociali differenziate ma intersecantesi tra di loro. I giovani appaiono come i principali soggetti che attraversano le varie cerchie sociale che oggi rendono altamente differenziato il panorama delle società occidentali, con il risultato di rompere del tutto con le vecchie identificazioni sociali (di classe, territoriale, etc.), di dare più spazio alla propria individualità, e spesso con la conseguenza di non riuscire del tutto a comporre le proprie scelte e il proprio sistema di valori in forma unitaria (Berger 1994). Quest’ultima prospettiva si distingue dalle tre precedenti per la sostanziale valenza positiva che si attribuisce alla odierna condizione giovanile. Si enfatizza, infatti, la maggiore libertà di autodeterminazione, e anche la maggiore consapevolezza sociale e personale che nasce dal continuo confronto con una realtà sempre cangiante e valorialmente differenziata e con la propria stessa soggettività, anch’essa attraversata da pluralizzazione culturale (Garelli 1984; Ricolfi e Sciolla 1980; 1989). Da questa breve rassegna di ipotesi sociologiche sulla condizione giovanile si può notare come nella interpretazione della condizione giovanile siano chiamati in causa gli elementi principali che costituiscono il processo di mutamento della società odierna: la globalizzazione e la ristrutturazione postfordista dell’economia di mercato, la crisi dei sistemi valoriali gerarchici e dei processi di socializzazione integrativi, la pluralizzazione e differenziazione delle sfere sociali. In questo variegato patrimonio interpretativo sociologico manca però una sistematica riflessione sui rapporti tra le trasformazioni del sapere e il mondo giovanile. Il sapere nella 237 società odierna sta vivendo un profondo processo di ristrutturazione che ne mette in discussione e ne ridefinisce i contenuti, le dimensioni costitutive e istituzionali, le forme della sua legittimazione e le sue stesse finalità. La ristrutturazione del sapere incide inevitabilmente sulle performance e sulle caratteristiche di base dei processi di formazione e di trasmissione della cultura, sia istituzionali sia informali, e dunque non può non riguardare i giovani che sono i principali destinatari di questi processi formativi e di trasmissione. Si tratta, come molti studiosi hanno fatto notare, di processo legato a doppio filo con la pluralizzazione culturale evidenziata dall’ultima ipotesi interpretativa sui giovani ricordata poc’anzi, e con la quale condivide la fine delle grandi narrazioni, come le chiama Lyotard, e delle appartenenze collettive costruite attorno ad esse. In breve, l’ipotesi è che la moderna condizione giovanile appare collocarsi all’interno del crocevia tra il processo di ristrutturazione del sapere e della sua trasmissione e il processo di pluralizzazione e di individualizzazione delle società contemporanee. Proveremo a valutare gli effetti di questi fenomeni sul mondo giovanile guardando in primo luogo ai processi di formazione degli orientamenti politici e quindi privilegiando questa prospettiva per indagare come vanno riscrivendosi i rapporti tra mondo giovanile e mondo della politica alla luce della ridefinizione del sapere e dell’affermarsi di una società pluralista e individualista. 2. L’università come luogo di socializzazione politica Il processo che è generalmente evocato per descrivere i rapporti tra università e politica è naturalmente quello della socializzazione politica. L’università è principalmente un’istituzione volta alla socializzazione delle giovani generazioni. Le tradizionali prospettive sociologiche interpretavano i processi di formazione scolastica e universitaria unicamente in chiave di riproduzione sociale. Le agenzie scolastiche offrivano una socializzazione intesa come integrazione ai valori dominanti e come strumento principe per la riproduzione del sistema sociale e delle sue diseguaglianze (Bourdieu e Passeron 1972; Dei e Rossi 1978). Si trattava di una reinterpretazione in termini critici, marxisteggiante, della teoria 238 parsonsiana della socializzazione: l’università e scuola rappresentavano le agenzie che garantivano la diffusione e la trasmissione dei valori centrali delle società occidentali (competitività, accento sui meriti, specialismo, subordinazione all’autorità, accettazione delle diseguaglianze, successo personale) di generazione in generazione. La continuità culturale fornita dalle istituzioni formative assicurava, quindi, la continuità della struttura sociale. All’interno di quest’ottica il passaggio dall’università di élite all’università di massa rappresentava quindi una trasformazione assai poco significativa. Anche se si ammetteva che l’avvento dell’università di massa avesse posto la parola fine ad un sistema di istruzione inteso come un privilegio limitato a ristrette cerchie sociali e in cui il sapere costituiva principalmente un elemento di distinzione di ceto, nello stesso tempo si raccoglievano prove dell’incapacità del nuovo sistema d’istruzione di rompere la struttura classista della società. Si sottolineava, infatti, la discriminazione latente verso chi proveniva dalla base della piramide sociale e l’esistenza di un processo di interiorizzazione di valori propri della classe dominante per chi, nato in una famiglia operaia, riusciva ad accedervi. Anche in altre ricerche l’assunzione di una prospettiva connessa alla socializzazione in chiave funzionalista non faceva altro che evidenziare come i processi di socializzazione producessero unicamente soggetti volti a integrarsi nel sistema dominante. Uno dei principali limiti di questo tipo di studi sociologici sulla socializzazione politica consisteva nel fare implicitamente riferimento ad un soggetto ideale corrispondente al cittadino dei sistemi democratico-parlamentari, che accettava quasi acriticamente i valori e le regole del gioco politico democratico esistente. Mancava, in altre parole, l’attenzione verso gli aspetti conflittuali e dissonanti dei processi di socializzazione politica che possono condurre verso lo sviluppo di una coscienza critica (Oppo 1980, 21). In questo modello di socializzazione si ha in mente, cioè, una socializzazione intesa come un processo «esplicito» e «congruente» (Parisi e Cartocci 1997) i cui contenuti sono i valori della classe dominante oppure la cultura politica tipica della liberaldemocrazia. L’esperienza storica della socializzazione universitaria corrisponde però solo in parte a questo modello, in quanto, per lunghe fasi, la politicizzazione degli studenti ha avuto, al contrario, un carattere anti239 istituzionale e conflittuale. L’adozione di prospettive teoricamente più aperte rispetto al funzionalismo non è riuscita a risolvere del tutto il problema. Lo studio svolto da Keniston sugli attivisti dei movimenti studenteschi americani (Keniston 1972), nonché le ricerche sociologiche italiane sui partecipanti al movimento del ’68 (cfr. Martinotti, Maggioni e Mingione 1968; Statera 1973) sottolineavano che la conflittualità tra padri e figli in realtà non derivava da una contrapposizione di valori differenti quanto piuttosto dal fatto che i figli rimproveravano ai padri di aver tradito i valori che dichiaravano di professare. In altre parole, i valori a cui si richiamavano le due generazioni erano gli stessi. Quello che era in ballo, la ragione del contendere, era piuttosto la coerenza riconosciuta ai rispettivi comportamenti generazionali. A partire dalla fine degli anni Settanta le ricerche sociologiche tendono sempre più a rimettere in discussione la rappresentazione tradizionale della socializzazione universitaria (cfr. Ricolfi e Sciolla 1980). In primo luogo viene contestata l’idea dell’università come agenzia unitaria e strettamente legata ai valori sociali dominanti. L’ipotesi è che per aver un’idea più precisa del particolare processo socializzante svolto dall’università occorre immaginarla in termini di un’arena in cui agiscono una varietà di attori, spesso complementari ma più spesso invece in contraddizione e in aperta competizione tra loro. Accanto alle discipline impartite e al ruolo alla stessa figura dell’insegnante, un ruolo sempre più significativo viene riconosciuto all’associazionismo studentesco istituzionale e soprattutto ai gruppi associativi non istituzionalizzati e ai movimenti studenteschi che periodicamente emergono nel contesto universitario. Questi ultimi introducono fattori di socializzazione di tipo orizzontale, non più inquadrabili in termini di semplice trasmissione verticale di valori sociali consolidati e in grado di produrre innovazione e diversificazione negli orientamenti valoriali. L’osservazione della varietà degli attori potenzialmente coinvolti suggerisce che sia più corretto sostenere che la socializzazione politica universitaria costituisca un processo «diffuso» e «incongruente», il cui esito non è necessariamente il cittadino modello delle dottrine liberaldemocratiche. L’università comincia a configurarsi come un ambiente complesso che contiene occasioni socializzanti decisamente diverse sotto molteplici aspetti: il contenuto trasmesso (valori dominanti o atteggiamenti critici), l’orien240 tamento del rapporto tra socializzante e socializzato (se verticale o orizzontale), la formalità o informalità del contesto, il coinvolgimento attivo o passivo del socializzato. La molteplicità degli attori e delle forme della socializzazione politica universitaria è sinonimo di un’ampia pluralità di contenuti e di risultati finali, piuttosto che di esiti univoci e preprogrammati. Nella visione tradizionale, dunque l’università costituiva essenzialmente un meccanismo di socializzazione funzionalisticamente inteso, vale a dire un processo di trasmissione verticale e unilaterale che dava luogo all’integrazione dell’individuo nel tutto sociale. A questo modello si può contrapporre un diverso modello dell’università come agenzia di socializzazione dove il contesto universitario diventa un “luogo di socializzazione” (Donolo in Keniston 1972), intendendo con questa espressione il trasformarsi della socializzazione universitaria in un processo di tipo orizzontale e con esiti di tipo pluralistico e diversificati, non riducibili cioè né ad una adesione ai valori della società adulta, né ad una loro opposizione. Riassumendo, rispetto al primo approccio, più tradizionale, del ruolo della socializzazione politica universitaria definiremo l’università nei termini del modello dell’università come agenzia di socializzazione politica. Secondo questo modello l’università si limita a riflettere le dinamiche che riguardano il sistema politico e la società nel suo complesso, senza contribuire in alcun modo a influire su di essi, ma limitandosi a riprodurne le caratteristiche di fondo. L’università è, da un lato, un ambiente sociale come tanti altri su cui si esercita l’influenza del mondo politico, che riproduce al suo interno le organizzazioni politiche e le modalità di azione politica che prevalgono in un dato momento nel sistema politico, dall’altro lato una istituzione che si limita a trasmettere i valori e le rappresentazioni della politica che sono dominanti in una data società. La mobilitazione studentesca che si verifica in determinati momenti viene cioè interpretata come la diretta conseguenza della mobilitazione o dei conflitti che avvengono in altri ambiti sociali - ad. es. il rapporto tra padri e figli. Nel secondo approccio, più recente, la socializzazione universitaria assume una configurazione differente e che chiameremo dell’università come luogo di innovazione politica. L’ambiente universitario e i suoi protagonisti, principalmente gli studenti, sono 241 considerati una fonte autonoma e rilevante di rappresentazioni della politica, di modalità di organizzazione e di azione politica che si diffondono e si riproducono attraverso rapporti di socializzazione orizzontali. In questo modo si fa giustizia dell’importanza assunta dagli studenti universitari nei processi di trasformazione sociale e politica, senza limitarsi ad attribuire loro il semplice ruolo di veicoli privilegiati, ma riconoscendo loro anche un ruolo attivo nell’elaborazione di nuove forme e di nuovi principi ideali per l’azione politica. Diverse interpretazioni della stagione dei movimenti degli anni Sessanta e Settanta riconoscono la valenza creativa che è scaturita dalle università e dall’azione degli studenti e di cui hanno beneficiato le società occidentali, ricavandone stimoli e indicazioni utili per il proprio cambiamento (Touraine 1969). In sintesi, nella letteratura sociologica troviamo due diversi modelli dell’ambiente universitario: 1) un luogo nel quale si riproducono sistematicamente i contenuti, i conflitti e gli attori prevalenti nel sistema politico extrauniversitario; 2) un ambito privilegiato per la produzione dei fattori di trasformazione della società e del sistema politico. Nel primo modello la socializzazione universitaria è sostanzialmente ritenuta un processo statico, e il cui esito è una politicizzazione in sintonia con i contenuti prevalenti nel sistema sociale di riferimento. Nel secondo modello si evidenziano le capacità creative della socializzazione politica universitaria, la quale diventa un importante processo di innovazione e di cambiamento politico. In ciascuno dei tre modelli gli studenti politicizzati possono essere visti, rispettivamente, come: a) l’esito di processi precedenti o comunque esterni all’università nei quali quest’ultima non ha alcuna influenza; b) i protagonisti di processi innovativi nel campo politico e sociale, grazie all’influenza di un contesto di socializzazione altamente efficace e creativo offerto dall’università. A ben vedere, i due modelli non vanno necessariamente concepiti come delle alternative nette. Si può sostenere che ciascuno si limiti a descrivere una fase particolare delle vicende storiche della politica nell’università e tra gli studenti. In altre parole, piuttosto che considerarle come opzioni interpretative generali, esse vanno viste come ugualmente valide ma applicabili in differenti fasi storiche. La nostra ipotesi è che la socializzazione universitaria abbia agito, in periodi diversi, come riflesso della politica esterna e come luogo di produzione dell’innovazione politica. Il passag242 gio dal primo modello al secondo, collocabile intorno alla fine degli anni Settanta, va ricondotto a due processi principali: le trasformazioni della finalità del sapere, e le tendenze alla differenziazione e alla pluralizzazione presenti nella società moderna. 3. Modelli e finalità del sapere La trasformazione del sapere nel mondo contemporaneo può essere riassunta nel processo che va dai dal modello dell’università di èlite a quello della moderna multiversity. Il filosofo francese Jean-Francois Lyotard è stato il primo studioso a ricostruire con grande chiarezza e sistematicità questa trasformazione del sapere moderno. Secondo Lyotard, la valenza politica e morale dell’università di élite tradizionale derivava da due grandi metanarrazioni che, offrendo una sintesi delle finalità a cui era rivolta la conoscenza, definivano e legittimavano il sapere e il contenuto dei processi di formazione. La prima grande metanarrazione, propria del modello humboldtiano tedesco, è rappresentata da quella che Lyotard definisce la realizzazione dell’idea del sapere, ovvero dalla concezione del sapere come contemporaneo svolgimento delle due tendenze a «cercare la scienza in se stessa» e a ricondurla ad un ideale in grado di governare «la pratica etica e sociale» (Lyotard 1981, 62). La funzione dell’università è in questa prospettiva quella di unificare tutto il sapere in una sintesi unitaria «della ricerca scientifica delle vere cause e del perseguimento dei giusti fini della vita morale e politica», un processo affidato innanzi tutto alla filosofia, considerata come il vertice ideale della conoscenza universitaria. La seconda grande metanarrazione si riassume nell’emancipazione dell’umanità, valore unificante tipico del mondo accademico francese. Il sapere si legittimava in forza del contributo che poteva fornire alla liberazione dei popoli, favorendo la loro elevazione morale e aprendo la via al “progresso”. Da queste grandi narrazioni legittimanti si producevano un sapere e un’università che, da una parte, privilegiavano le discipline umanistiche rispetto a quelle scientifiche e tecniche, e dall’altra, davano spazio alla politica, intesa nel doppio senso di favorire il formare degli ideali in ogni studente, e di contribuire alla preparazione dei quadri dirigenti necessari ai ruoli statali. 243 In questo quadro valoriale di fondo la politica finiva per avere una rilevanza nelle aspettative formative degli studenti, anche se spesso si concretizzava nella socializzazione alle rappresentazioni e ai valori politici dominanti e alla sperimentazione in piccolo, dentro la “politica universitaria”, di azioni e situazioni tipiche della “politica adulta”. Dentro questo modello di università la sensibilità politica e la pratica politica degli studenti erano solertemente contrastate ogni qualvolta assumevano i connotati della contrapposizione e della protesta, ma non potevano essere escluse in quanto risultavano, come abbiamo visto, intimamente legate alla natura stessa dell’istituzione universitaria e alle sue finalità. Nel secondo modello, la multiversity, il mondo universitario cambia totalmente finalità e forme di legittimazione. Il sapere non trova più il proprio fine nella sua realizzazione “ideale”, né si giustifica in base alla sua capacità di produrre l’emancipazione dell’umanità. L’università e la produzione del sapere sono inquadrati all’interno di una visione sistemica-funzionalista della società. La produzione del sapere e le istituzioni preposte vanno a costituire un sottosistema autonomo e differenziato, e in quanto tale appaiono sempre più finalizzati a soddisfare le esigenze della performatività del sistema sociale generale in cui sono inseriti (Lyotard 1981), e in particolare le sue esigenze economiche e produttive. Se nel primo modello lo scopo dell’università era la produzione di un’élite che definisse i contenuti del “progresso” e guidasse il paese verso questo scopo, ora, al contrario, il sapere trova i suoi scopi ultimi nelle esigenze della produzione e dell’applicazione tecnologica. L’università diventa un’istituzione a cui è assegnato il compito di produrre innovazione, la nuova dimensione necessaria ad una moderna economia industriale e di mercato al fine di sostenere lo sviluppo economico, al punto che la domanda che muove la conoscenza non è più «è vero?», ma «si vende?», oppure «a che cosa serve?», «è efficace?». L’espressione multiversity sottolinea, appunto, la natura diversificata e incoerente assunta dall’istituzione universitaria, costituita non più da una sola comunità (universitas) resa omogenea da un’unica visione generale del sapere, ma da più comunità caratterizzate da valori differenti, in quanto ciò che conta adesso è produrre un sapere differenziato funzionalmente al fine di soddisfare le esigenze del processo economico e della società moderna. L’università si trasforma, quindi, in un modello com244 plessivamente contraddistinto da: 1) crescente burocratizzazione; 2) prevalenza delle discipline scientifiche su quelle umanistiche; 3) tendenza a trasformarsi in una moderna azienda tesa al profitto. In questo nuovo contesto, da una parte, l’acquisizione del sapere si scinde dalla formazione e dallo sviluppo della personalità, dalla formazione intesa come Bildung, per diventare puro expertise, che acquista validità nella misura in cui trova valorizzazione nel sistema produttivo o nelle esigenze di riproduzione del sistema sociale nel suo complesso, detto in altri termini, il sapere si riduce ai giochi linguistici denotativi della scienza perdendo gli altri giochi di natura prescrittiva, valutativa etc.; dall’altra parte, la popolazione studentesca assume i connotati della massa: scompaiono le esplicite restrizioni di classe al suo accesso poiché quello che conta non è più assicurare la riproduzione della classe dirigente quanto invece garantire la produzione di un numero sempre più elevato di specialisti da immettere nel mercato. La dimensione di massa e il considerevole ingresso di giovani provenienti dagli strati sociali medio-bassi rompono la natura gerarchica dei rapporti universitari e le rigide distinzioni tradizionali tra gli studenti. L’apertura generalizzata favorisce l’ingresso di giovani che non conoscono e non accettano il patrimonio tradizionale di cui era costituita l’identità dello studente, provocando la crisi del vecchio associazionismo e di tutti i suoi riti e simboli di classe e di gerarchia. Detto in altri termini, l’eterogeneità sociale e culturale degli studenti nata dall’università di massa, provoca la crisi della cultura universitaria tradizionale e di tutte le sue forme di appartenenza. Per quanto riguarda la politica, la perdita della funzione di formazione e di selezione dell’élite e lo spostamento dell’attenzione verso la produzione di una massa di esperti, determina l’affievolirsi della sua importanza nelle finalità dell’università. La produzione di esperti in questioni e aree tecnico-scientifiche, ad alta specializzazione, non risulta facilmente congruente con un taglio generalista-umanistico e con una formazione più attenta alla crescita civile dello studente che invece sono richieste da un processo di maturazione politica. Un’università che tende a presentarsi come luogo di formazione professionale finisce per offrire sempre meno in termini di socializzazione politica, spingendo gli studenti a cercare altrove, all’esterno delle mura universitarie oppure nei rap245 porti orizzontali tra i pari, i loro momenti e luoghi di crescita politica. Si frantuma così la socializzazione integrativa e unitaria creata dall’organizzazione universitaria e si aprono le porte per una pluralizzazione dei contenuti culturali e valoriali nell’orizzonte formativo del mondo giovanile. 4. Società pluralista, identità studentesca e differenziazione giovanile nel contesto italiano Nel mondo giovanile degli anni Cinquanta e Sessanta va segnalata l’importanza assunta dall’identificazione “forte” con la comunità studentesca, una caratteristica che può essere considerata come un esito connesso alla centralità della socializzazione verticale delle istituzioni universitarie. Si può cioè ipotizzare che la socializzazione universitaria procedeva alla formazione dei giovani in forme integrative e riproduttive similmente alla famiglia e alla comunità locale. Tale “identità di studente” stimolava la produzione di identificazione collettiva che, da un lato, produceva riproduzione sociale, ma dall’altro lato, offriva una base sociale unitaria alla mobilitazione politica giovanile. Negli anni a ridosso del 1968, l’ambiente universitario diventa un autentico serbatoio di nuove forme di azione politica, di ideologie, di attori politici, di temi e di rappresentazioni della politica e del processo politico. Gli spazi conquistati dentro le università dagli studenti e le occasioni di discussione, di lotta e impegno In questa fase l’università comincia ad assumere, un ruolo autonomo e creativo profilandosi per la prima volta secondo l’ipotesi dell’università come luogo di socializzazione politica. Ai tradizionali processi di socializzazione verticale si affiancano i processi di socializzazione orizzontale che, tuttavia, continuano a ruotare intorno, contrapponendosi o richiamando alla loro coerenza, ai contenuti valoriali centrali della società. Dagli anni Settanta in poi si assiste invece alla perdita di centralità e di interesse verso il patrimonio di valori e di rappresentazioni ufficiale, anche come riferimento polemico. Questo processo si spiega con il declino della forza unificante dell’esperienza universitaria. Nei giovani degli anni Settanta si riduce l’identificazione con l’esperienza universitaria, e l’identità “forte” di 246 studente cede il passo a una di tipo “debole”. Il processo può essere così schematizzato. Innanzitutto, il rafforzamento della multiversity tende a svuotare la funzione di socializzazione e di formazione politica dell’università. Il sapere si trasforma in conoscenza di tipo scientifico-denotativa perdendo tutte le altre dimensioni che lo compongono (Lyotard 1981). In questo modo, però, riducendo la portata integratrice dell’istituzione universitaria si aprono spazi per meccanismi alternativi di socializzazione, esterni al mondo universitario oppure più legati ai rapporti tra i pari ed ad altri forme di interazione informale (Ricolfi e Sciolla 1980). È questa la trasformazione che, a sua volta, apre le porte per una autentica metamorfosi della condizione giovanile. Sotto l’azione di processi di socializzazione diversificati essa comincia a perdere i suoi connotati accomunanti le giovani generazioni, per dissolversi in un universo frammentato di esperienze e dimensioni (Garelli 1984). Rispetto a questo fenomeno è sbagliato sostenere che l’università perda la sua rilevanza in termini di socializzazione. È invece più corretto sostenere che essa perde la sua capacità di produrre una socializzazione ad esiti scontati e standardizzati, come era previsto nel modello funzionalista, in quanto entrano in crisi i suoi meccanismi socializzanti verticali, più integrativi, e si aprono spazi per dei meccanismi socializzanti orizzontali, più pluralistici. In questo modo entra nell’università e nel mondo studentesco un processo che investe l’intera società moderna: la pluralizzazione dei contesti sociali. La crisi dei momenti formativi monolitici e la conseguente diversificazione dei momenti formativi specialmente di tipo orizzontale non sono che il riflesso di quella pluralizzazione della vita sociale che Berger definisce quale caratteristica della società moderna. Attraverso questi processi i giovani vengono a contatto con quella che viene definita la «contaminazione cognitiva»: il contatto con stili di vita, valori e credenze e con il loro continuo mescolarsi. «La ragione rivela la possibilità che i propri modi tradizionali di concepire il mondo possano non essere i soli accettabili – che gli altri possano avere loro punti di vista. La concezione del mondo che finora è stata data per scontata si schiude, in modo appena percettibile all’inizio, ad un barlume di dubbio. ... Rimangono poche certezze, le convinzioni divengono mere opinioni, e ci si abitua a prendere in esame tutti i diversi modi di vedere le cose» 247 (Berger 1994, 43). Completamente ristrutturatesi le tradizionali agenzie di socializzazione verticale e monocentrice, come l’università, la formazione dei giovani diventa un processo a “struttura policentrica” (Ricolfi e Sciolla 1980) proprio di una organizzazione sociale altamente diversificata. In sintesi, la crisi della centralità universitaria e della sua socializzazione integratrice è da intendersi come l’esito di una sorta di ridimensionamento dei processi di socializzazione politica e degli ambiti di azione e maturazione politica dentro l’università provocata dall’affermazione della multiversity che trasforma gli “studenti” in “utenti”, ma anche come il risultato di un più vasto cambiamento dei processi di socializzazione che da integratori sociali si trasformano in produttori di soggettivizzazione e di pluralizzazione della condizione giovanile. Questo processo presenta una natura ambivalente. Da un lato, apre spazi all’individualità, ma, dall’altro lato, rende impossibile elaborare forme di identificazioni comuni tra i giovani, indebolendo ovviamente anche la tradizionale centralità dell’identità studentesca che aveva costituito, come abbiamo visto, la base della mobilitazione politica degli anni Sessanta. Il giovane cessa di essere ancorato ad un centro stabile definito dall’ambiente universitario con i suoi meccanismi verticali di socializzazione e con le sue identificazioni forti per diventa il pendolare tra “mondi”, sociali e culturali, differenti e spesso difficilmente integrabili. L’ondata di mobilitazione universitaria del 1977, ad esempio, diede ancora una volta luogo ad un movimento studentesco, ma questo, tuttavia, assunse caratteristiche assai diverse rispetto a quello del ’68. Due sono gli elementi che sottolineano la specificità di questa svolta. Primo, i protagonisti della protesta e del movimento si definiscono soprattutto «giovani» e non «studenti» (Lodi e Grazioli 1984a, 68; Beccalli 1977), quasi a segnalare, con lo stesso linguaggio, la crisi dell’identificazione universitaria e dell’identità di studente: ora non è più la condizione studentesca a fornire il collante dell’identificazione collettiva e lo stimolo alla mobilitazione, ma la più vasta condizione giovanile. Secondo, la mobilitazione giovanile avviene innanzitutto sul piano culturale e sociale prima che politico. I protagonisti sono soprattutto studenti lavoratori inseriti in dinamiche sociali molto frastagliate ed esterne all’università, giovani che condividono una situazione di precarietà 248 sociale e che rivolgono i propri sforzi verso l’affermazione di stili di vita individuali ora e subito, e non verso la creazione di una società utopistica. La mobilitazione ha come scopo la difesa e la realizzazione di microcontesti sociali e quotidiani alternativi a quelli dominanti, e incentrati su stili di vita soggettivamente costruiti. Viene a mancare così sia l’obiettivo di confrontarsi con il sistema politico ed economico dominante al fine di sovvertirlo, sia una comune tensione all’unitarietà di riferimento (Garelli 1984), che erano, come abbiamo ricordato prima, i tratti tipici dei giovani tra gli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta. In questo inedito contesto sociale, l’università si riduce ad essere solo un luogo, tra i tanti, di questa nuova lotta e nuova forma di politica. L’università può essere allora intesa come il luogo dove esplode la “contraddizione giovanile” soprattutto di fronte ad una condizione sociale e ad un nuovo orientamento culturale che fa coincidere la politica con le questioni legate alle esperienze di vita immediate del giovane. L’identità e la condizione di studente perdono la loro valenza uniformante delle giovani generazioni, risucchiate dalla frammentazione della nuova condizione giovanile. Ben presto l’organizzazione e l’azione del nuovo movimento giovanile lasceranno le sedi universitarie e i suoi momenti unitari, e si svolgeranno nei nascenti nuovi movimenti sociali. 5. Gli anni Novanta Negli anni Ottanta, questi processi si rafforzano ulteriormente. L’università italiana ha compiuto la sua trasformazione in università di esperti o professionale, dove i momenti di socializzazione politica appaiono minimi. Un’università tendente sempre più esclusivamente alla formazione professionale e sempre meno a essere luogo di discussione e di azione politica, per specializzarsi in termini funzionali rispetto al mercato del lavoro e determinando il prevalere di un’identità “debole”, nel senso di non più unificante del mondo giovanile, di studente. Questo non vuol dire, tuttavia, che i giovani durante tutto questo decennio abbiano disertato in massa la politica, rinchiudendosi nel privato e nel disimpegno egoistico. Al contrario, le ricerche condotte negli anni Ottanta hanno dimostrato che esisteva una com249 ponente giovanile fortemente attiva in forme di impegno alternative a quelle tradizionali (come l’associazionismo, i nuovi movimenti sociali etc.) e su altri temi (ecologia, pace, qualità della vita), anche se questo impegno e le loro finalità spesso non erano riconosciuti dagli stessi giovani come politici (Ricolfi e Sciolla 1989). Il punto è che l’università, che aveva costituito il polo principale della socializzazione e della mobilitazione politica giovanile nei decenni passati, ha cessato di essere un riferimento centrale e integrativo per le nuove forme di socializzazione politica giovanile. Lungo tutti gli anni Ottanta la politica dei giovani universitari appare prodursi e organizzarsi sempre più altrove e lontano dagli atenei, nei cosiddetti nuovi movimenti sociali (ecologisti, pacifisti, civici etc.), in cui i legami politici tra i giovani vengono radicalmente riscritti e spesso in forme sempre più diversificate. Gli anni Novanta hanno visto il sistema universitario italiano procedere in maniera sempre più decisa verso forme sempre più complesse di multiversity. Dalle riforme dei primi anni Novanta, fino alla recente bozza Martinotti, del 1997, le trasformazioni dell’università italiana vanno nella direzione di incrementare la costruzione e la diffusione di un sapere finalizzato alle esigenze del mercato del lavoro, della produzione economica e della società complessa. Le riforme puntano infatti ad aggiornare la conoscenza universitaria e l’efficacia del sistema universitario in generale, tenendo conto delle esigenze della ricerca di un lavoro da parte dei giovani e dell’esigenza delle imprese e delle nuove realtà pubbliche di raccogliere quel sapere necessario per l’innovazione produttiva e per la gestione delle nuove problematiche che emergono con la complessità sociale. Ma tutto ciò non fa altro che lasciare insoddisfatte le domande di formazione della persona dal punto di vista politico e sociale che provengono dal mondo giovanile, ed infatti, il mondo studentesco si è schierato rapidamente contro questa trasformazione. Le occupazioni universitarie del 1990, il cosiddetto Movimento della Pantera, hanno rappresentato il ritorno dell’università a luogo di aggregazione sociale e politica dopo la lunga parentesi degli anni Ottanta. Ad essa hanno fatto seguito altri momenti di agitazione durante l’attuale decennio. L’azione degli studenti era animata dal desiderio di riconquistare spazi vitali di presenza dentro l’ambiente universitario e di bloccare la riformulazione del sapere e del250 l’istituzione universitaria portata avanti dal modello della multiversity, accusato di mercificare il sapere e di annullare ogni occasione di formazione personale in termini sociali e politici. Le occupazioni e le agitazioni degli anni Novanta 1 , alla luce delle loro finalità e dei loro documenti programmatici, sembrano segnare il ritorno ad una centralità dell’esperienza universitaria e dell’identità studentesca. In realtà, la situazione appare piuttosto ambigua. Da una parte, la polemica verso le proposte di riforma governative e la domanda di una riforma universitaria alternativa, hanno manifestato le potenzialità di aggregazione e di socializzazione politica che continuano a essere presenti nel contesto universitario. Dall’altro, il rapido eclissarsi di queste iniziative e l’incapacità di dare luogo a sbocchi più produttivi testimoniano però proprio la crisi dell’esperienza universitaria tradizionale, in altre parole di quella centralità che l’ambiente universitario e l’identità di studente possedevano negli anni Sessanta. Secondo Segatti (1991) i limiti della politica studentesca degli anni Novanta si spiegano col fatto che essa ricalca la forma dei movimenti sociali degli anni Ottanta. Le agitazioni universitarie degli anni Novanta hanno avuto come protagonisti giovani provenienti, in varia misura, dal mondo dell’associazionismo e dei nuovi movimenti sociali, giovani che avevano alle spalle esperienze significative di partecipazione e mobilitazione, nei quali però la politica appariva lontana e non indispensabile, o se si vuole, si formulava in termini completamente nuovi e assai lontani dal contesto istituzionale e partitico, politico in senso stretto. L’unico momento di confronto con il contesto politico avveniva con attivazione di campagne puntuali di mobilitazione collettiva (i movimenti), intese come il tramite necessario per collegare la “politica diffusa nel sociale” con la “politica istituzionale” (Melucci 1984). I giovani dispersi nel mondo associativo rappresentavano una sorta di rete latente in grado di attivarsi in forma di movimento nel momento in cui occorreva confrontarsi con una politica pubblica non gradita. Cessata la fase di mobilitazione, si ritornava alla latenza, cioè all’associazionismo diffuso e alle microrelazioni quotidiane prive di momenti di visibi- Per una sintesi dei contenuti della protesta universitaria del 1990, si veda Taviani e Vedovati (1991). 1 251 lità pubblica, in cui si vivono giorno per giorno i valori e i principi in cui si crede (Lodi e Grazioli 1984b; Melucci 1987). Le agitazioni studentesche degli anni Novanta non sono altro che l’applicazione di questo modello ad una esperienza particolare della vita dei giovani, l’università appunto. I giovani hanno cioè portato i modelli di azione politica da loro sperimentati nel loro impegno sociale, dentro la politica universitaria, con il risultato però che appena si è esaurita la fase di mobilitazione collettiva, si è assistito all’immediato rientro dei giovani nel sociale diffuso, nei loro tipici «modi di presenza pubblica più circoscritti e intensi» (Segatti 1991, 238). Questo fatto dimostra che, nonostante tutto, il centro dell’aggregazione giovanile rimane tendenzialmente esterno al contesto universitario. Non si riesce a dare continuità alla politica universitaria perché l’identità studentesca e l’identificazione con l’università restano comunque deboli, del tutto incapaci di produrre quelle identità collettive che sarebbero invece necessarie per radicare la riflessione politica e l’azione politica studentesca nel tempo. Se nei decenni passati la protesta universitaria costituiva una tappa di maturazione e di creazione politica che era poi seguita dal proiettarsi nell’impegno politico esterno alle “mura” universitarie, adesso le esperienze di lotta universitaria sono seguite dal ritorno ai luoghi sociali (associazionismo, movimenti sociali, centri sociali, etc.) da cui si proviene, senza che l’impegno politico universitario sia riuscito a creare qualcosa di nuovo, in termini di soggetti politici, culturali, di rappresentazioni della politica, di contenuti ideologici, ecc.. L’individualizzazione della condizione giovanile contemporanea elimina ogni ricerca di un riferimento sociale unitario, come appunto l’esperienza universitaria, e inevitabilmente impedisce la formazione di identità collettive e la possibilità di forti coinvolgimenti (Garelli 1994), rendendo possibile solo forme circoscritte di partecipazione, oppure la mobilitazione periodica e di breve durata su singoli grandi temi, gli unici in grado di essere in sintonia con il carattere differenziato della condizione giovanile 2 . 2 Nelle parole degli stessi protagonisti: «dal movimento del ’90 non sono usciti fuori né una nuova cultura dei giovani né un nuovo modello di vissuto. Se così è stato non è colpa degli studenti del movimento. Il punto è che sta cambiando – con il dispiegarsi della nuova modernizzazione capitalistica – il modo di essere della condizione giovanile» (Taviani e Vedovati 1991, 249). 252 6. Le prospettive future La politica dei giovani durante gli anni Sessanta e Settanta è vissuta grazie all’università che anzi è stata il luogo privilegiato di formazione e di sperimentazione di questa dimensione. La politicizzazione tradizionale degli studenti non era soltanto la conseguenza diretta di carenze strutturali e di atteggiamenti di incertezza nelle aspettative di status futuro, quanto piuttosto l’esito di una forte identificazione con l’università, di una visione della formazione universitaria che comprende anche la propria crescita personale e civile, e di spazi di socializzazione politica che erano presenti nelle università ex elitarie ma non ancora completamente trasformata in multiversity. La centralità dell’università era inoltre favorita dalla omogeneità della condizione giovanile tradizionale che favoriva la tendenza a cercare punti di riferimento e progetti futuri in grado di accomunare tutti i giovani. Si tratta di condizioni che oggi appaiono del tutto ridimensionate dallo sviluppo della nuova università specialistica e professionale, e dall’affermarsi di una nuova condizione giovanile, differenziata e soggettivamente costruita. Tuttavia, ciò non esclude che nel prossimo futuro non si possa profilare una nuova centralità politica dell’università. Le forme diversificate che stanno assumendo la condizione giovanile e la politica giovanile suggeriscono di indagare in una prospettiva diversa la dimensione politica dell’università. La diversificazione dei percorsi formativi introdotta dall’ultima riforma sembra prendere atto della eterogeneità di aspettative e di identità studentesche presenti nel panorama universitario. Si prevedono, infatti, percorsi diversi per lo studente full time, per gli studenti part time (studenti-lavoratori, lavoratori-studenti, e studenti non frequentanti). In un certo senso, la bozza di riforma ha elaborato un modello di università in grado di riflettere, e probabilmente favorire ulteriormente, l’attuale pluralizzazione e soggettivizzazione della condizione giovanile. Piuttosto che proporre un modello unico di formazione, avendo in mente una condizione giovanile fissa e omogenea, si è proceduto con il prevedere una ampia libertà formativa, in grado di tenere conto dalla individualizzazione della condizione giovanile contemporanea. È possibile, allora, che questa nuova università sia meglio in grado di dialogare con le nuove forme di politica e di aggregazione politica diffu253 sa, permettendo così il riattivarsi al suo interno di momenti di socializzazione politica, attinenti alle tematiche che sono al centro dell’impegno politico dei giovani contemporanei (l’ambiente, il volontariato sociale, i rapporti multietnici, ecc.). È chiaro che la diversificazione dei percorsi formativi e dei contenuti del sapere, come la pluralizzazione delle identità studentesche, sono innanzi tutto finalizzate a massimizzare la capacità dell’università di piazzare i propri “prodotti” nel mercato del lavoro, come è chiaro che la diversificazione delle esperienza universitaria può portare verso la frantumazione della solidarietà studentesca, già comunque in atto, e al declino dell’università come luogo di socialità. Eppure i risvolti politici di questi cambiamenti non appaiono così scontati, e soprattutto non è detto che siano minimi. L’attuale trasformazione del sapere, se da un lato sembra chiudere gli spazi alla formazione civica e all’esperienza politica dentro l’università, sotto la pressione del mercato del lavoro e della domanda di sapere specialistico, dall’altro lato, sembra però anche aprire delle occasioni per un’inedita forma di libertà riflessiva e creativa, dove l’impegno politico, variamente declinato, potrebbe trovare spazio. Anche se è vero che lo studente universitario odierno «non è più un giovane prodotto delle élite liberali investito più o meno da vicino del grande compito del progresso sociale inteso come emancipazione» (Lyotard 1981, 89), tipico della politica tradizionale e dell’università tradizionale, è tuttavia possibile rintracciare un suo ruolo politico dentro le nuove dinamiche della politica moderna, lontano dalle grandi narrazioni ideologiche, grazie allo stimolo del confronto con le problematiche della nuova società tecnologica e globale. La categoria di studente ha sicuramente esaurito la sua capacità di suscitare interesse politico in forza delle caratteristiche legate alla sua condizione, ormai avviatasi a trasformarsi in una pluralità di condizioni, ma il nuovo ambiente universitario potrebbe, tuttavia, svolgere un ruolo propulsivo in forza delle convinzioni che è in grado di diffondere (Lodi e Grazioli 1984b). Sarà compito della ricerca futura ricostruire il rapporto tra i nuovi profili della politica e la nuova fisionomia del sapere e dell’identità studentesca. 254 PARTE III IL MUTAMENTO DEI VALORI 255 256 CAPITOLO NONO I VALORI POLITICI DEI GIOVANI E LA MORATORIA PSICOSOCIALE 1. Precarietà e incertezza nel mondo giovanile La condizione giovanile nella società contemporanea è ormai un campo di analisi sociologica specializzato e consolidato sia dal punto di vista della ricerca sia in termini di teorie e analisi interpretative1 . Anche in Italia, è ormai cospicuo il numero di indagini e di riflessioni più o meno empiricamente orientate sui caratteri, la portata e le conseguenze delle trasformazioni manifestatesi tra i giovani per aspetti e ambiti assai vari. Dalla famiglia al lavoro, dalla religione alla scuola, dal tempo libero e dai consumi alla vita affettiva e di relazione: sono solo i principali settori e momenti della vita sociale in rapporto ai quali i giovani degli ultimi decenni sono stati osservati, interpellati, analizzati e confrontati con le generazioni precedenti. Alcune delle prospettive interpretative si sono affermate come punti di riferimento così obbligati che è quasi giocoforza misurarsi con esse quando si affronta sotto qualsiasi punto di vista il tema “gioventù” nelle scienze sociali. Non è mia intenzione procedere qui ad una loro riesposizione sia pure sommaria e tanto meno a una discussione critica puntuale dei principali contributi, peraltro ben conosciuti e già ampiamente commentati2 . Mi Questo capitolo è stato scritto da Giorgio Marsiglia, una prima versione è in G. Bettin (1999b), t. II, 823-841. 1 Si vedano al riguardo i contributi recenti di Galland (1991) e di Cavalli (1994b). 2 Per l’Italia, mi limito a ricordare almeno i contributi più recenti di Ricolfi e Sciolla (1989), Garelli (1984 e 1994), Donati e Colozzi (1997), nonché la serie di ricerche dell’IARD (Cavalli e De Lillo 1988; 1993; Buzzi, Cavalli e De Lillo 1997). 257 limiterò invece a richiamare quelle che ritengo non tanto più convincenti in linea generale quanto soprattutto utili per affrontare il tema che mi sono proposto: delineare sul piano teorico-interpretativo un’analisi del rapporto tra i mutamenti ormai evidenti e accertati nel modo di pensare e di vivere delle giovani generazioni degli ultimi due decenni – con i relativi mutamenti valoriali che essi esprimono – e il loro modo così diverso e, quanto meno, problematico di intendere la politica e di rapportarsi ad essa. Il cambiamento degli orientamenti e delle scelte politiche è visto solo come la manifestazione più immediata di questo mutato rapporto. E’ evidente che, soprattutto per quanto concerne la politica, la grande diversità rispetto ai giovani di generazioni precedenti 3 non riguarda solo atteggiamenti, comportamenti e scelte ma anche finalità e senso. Ciò comporta necessariamente di indirizzare il nostro discorso a toccare, oltre il tema dei valori politici in senso stretto, quello degli orientamenti generali di valore che possono avere implicazioni o conseguenze per la sfera della politica. Sembra opportuno in via preliminare distinguere tra due ordini di questioni rilevanti in proposito. Da una parte, metterei gli aspetti della problematica che hanno a che fare con la struttura socioeconomica delle società occidentali contemporanee (che sono sostanzialmente società capitalistiche post-industriali); dall’altra, gli elementi che attengono piuttosto al sistema socioculturale proprio delle società liberaldemocratiche della modernità avanzata4 . Per quanto riguarda il primo ordine di questioni, le molte ricerche condotte e la maggior parte delle analisi correnti hanno posto in risalto un insieme di effetti delle strutture e dei processi socioeconomici sulla condizione giovanile che possono essere riassunti sotto i due termini della precarietà e della incertezza. Mi pare ormai chiaro che nella nostra società, alla precarietà non solo delle prospettive e delle opportunità occupazionali, ma anche delle aspirazioni e del3 Sui concetti di generazione e generazione politica e i problemi inerenti la loro la loro utilizzazione rinvio al saggio di Gianfranco Bettin in questo stesso volume. Si veda inoltre Cavalli (1994a), nonché la discussione contenuta in Craig e Bennet (1997). 4 La distinzione è utilizzata qui a fini analitici, per evidenziare una diversa priorità di attenzione e di accentuazione; ma è ovvio che l’intreccio tra i due momenti è nella realtà, e direi particolarmente per i giovani, molto forte e intricato. 258 le stesse scelte effettive di molta parte dei giovani fa riscontro l’incertezza sia come problema di definizione della struttura dei ruoli sociali e delle modalità (riguardo alle fasi e ai ritmi) della loro assunzione sia come carattere intrinseco della condizione di giovane così come è oggi socialmente definita. Anche se nella situazione italiana (ma non solo in questa) i fattori che spiegano questi due aspetti caratterizzanti la condizione sociale dei giovani sono forse più evidenti5 , essi si ritrovano in tutte le società europee. Ovunque in Europa, infatti, la prima causa di precarietà per i giovani è certamente la disoccupazione o l’instabilità lavorativa, dal momento che l’inserimento lavorativo stabile significa assumere forse il primo e certo il più rilevante dei ruoli sociali precisamente definiti inerenti allo status di adulto. Ma l’incertezza che ne risulta, e che non si riferisce solo all’identità in senso personale ma anche all’identità in senso sociale, appare ormai anch’essa come un carattere distintivo della gioventù·tanto evidente da essere quasi diventato una nozione di senso comune. Per cogliere allora il pieno significato sociologico di questi sviluppi conviene partire da un riferimento teorico che sembra imprescindibile in questa sede: la “moratoria psicosociale” di Erik Erikson. Come è noto, questa espressione di uso ormai consolidato6 è proposta da Erikson nel contesto di una penetrante riflessione su quel periodo intermedio, più o meno prolungato, tra infanzia e età adulta che le società moderne prevedono e istituzionalizzano per chi si trova nella fase dell’adolescenza, e che risulta sempre più caratterizzato da una combinazione altamente problematica di prolungata immaturità e indotta precocità, tanto psicologica quanto sociale. La nozione riassuntiva di “moratoria psicosociale” così come la intende Erikson (1974) si presta bene al nostro discorso perché si riferisce ad una interpretazione teorica che cerca di mettere insieme aspetti diversi di un processo multidimensionale complessivo di sviluppo psicosociale. Infatti, da una parte, la moratoVi sono delle evidenti variazioni nelle modalità di assunzione di ruoli adulti e si può parlare di differenti modelli di prolungamento della giovinezza nei diversi paesi europei (cfr. Cavalli e Galland 1996); tuttavia, ritengo che si riscontrino in essi degli elementi simili anche se diversamente configurati. 6 Si vedano, tra gli altri, Cristofori (1990), Cavalli e De Lillo (1993), Cavalli (1996), Buzzi, Cavalli e De Lillo (1997). 5 259 ria è secondo Erikson una situazione di sospensione o attesa che si richiama a quella postulata dalla latenza nella teoria freudiana dello sviluppo psicosessuale; laddove la teoria della libido non sa offrire una spiegazione adeguata al fenomeno dell’adolescenza prolungata, e ai problemi che comporta, può intervenire la teoria psicosociale con l’idea, appunto, di una moratoria analoga alla latenza, ma a base sociale e non sessuale. D’altra parte, tale formulazione è collocata da Erikson entro lo schema a otto fasi del corso di vita7 , nel quale l’adolescenza è vista come fase cruciale perché, sviluppandosi sulle acquisizioni e le soluzioni attualizzate nelle quattro fasi infantili precedenti, conduce al passaggio alle tre fasi dell’età adulta segnandone epigeneticamente gli esiti. Ciò che già Erikson notava, e che ci sembra importante riprendere qui, è che questo periodo di sospensione e attesa, che è anche indugio e incertezza, è una situazione socialmente riconosciuta di libera sperimentazione e permissività selettiva che si sta progressivamente diffondendo e istituzionalizzando nelle nostre società. In effetti, avverte Erikson, ogni società e ogni cultura istituzionalizza una certa moratoria per almeno una parte dei suoi giovani; e generalmente essa coincide con apprendistati ed esperienze attinenti ai valori di tale società. Ma la crisi tipica della fase eriksoniana dell’adolescenza, che è appunto una crisi di identità personale (dove l’alternativa da affrontare è quella fra identità e confusione), si produce nelle società contemporanee8 in condizioni particolarmente problematiche per molteplici motivi. In primo luogo, la complessità dei referenti sociali che la gioventù ha di fronte, e che rende ardua la costruzione stabile dell’identità (Sciolla 1982). In secondo luogo, la stessa contradditorietà insita nelle condizioni psicologiche e sociali nelle quali i giovani si vengono a trovare e che è radicata nella struttura economico-sociale e di ruoli di cui abbiamo ricordato gli elementi di precarietà e incertezza. Infine, quella trasformazione profonda ma non completamente compiuta dei valori sociali che è stata definita “rivoluzione silenziosa”9 , e della quale le giovani generazioni degli ultimi decenni sono protagoniste. Proposto per la prima volta in Erikson (1966). Ma bisogna ricordare che l’autore si riferisce alla gioventù americana dagli anni Cinquanta e Sessanta. 9 Il riferimento è ovviamente a Inglehart (1983 e 1993). 7 8 260 Dalla messe di ricerche effettuate appare peraltro evidente che all’origine della precarietà e dell’incertezza ci sono tanto ragioni socioeconomiche quanto ragioni sociopsicologiche e che entrambe non sono riconducibili solo alla struttura sociale e alle sue dinamiche ma anche a dinamiche squisitamente culturali, in un intreccio per il cui dipanamento esplicativo è importante discutere nuovi risultati di ricerca e sviluppare ulteriormente ipotesi e interpretazioni. Si può anzitutto osservare che oggi lo stato di “moratoria psico-sociale prolungata” risulta una condizione culturale generale della giovinezza come fase socialmente prevista e definita, in buona misura al di là delle diversità strutturali, come quelle dovute al genere o alla condizione socio-professionale e culturale o a variabili territoriali, che pure si fanno sentire. Ad esempio, sappiamo che l’allungamento della fase giovanile comporta un differimento delle scelte che conducono alla vita adulta: terminare gli studi, iniziare a lavorare, lasciare la casa dei genitori, sposarsi e avere dei figli10 . Ciascuna di queste scelte è comunque legata a tutte le altre. Così, l’assunzione sempre più ritardata di ruoli familiari autonomi è a sua volta dovuta, verosimilmente, sia alla prolungata scolarizzazione della popolazione giovanile sia alla difficile situazione del mercato del lavoro per i giovani, che sono a loro volta in rapporto e rimandano al rinvio dell’indipendenza economica e abitativa nonché, per chiudere il cerchio, al ritardo del momento del matrimonio e dell’assunzione di responsabilità familiari. La stessa riluttanza che si riscontra, almeno nei giovani dei Paesi dell’area mediterranea, a raggiungere al più presto una vera autonomia abitativa non sembra dovuta solo a difficoltà strutturali o a carenze di opportunità ma anche al peso combinato di elementi psicologici e culturali che strutturano una sorta di sindrome familista, che non può non avere rilievo per la trasmissione dei valori sociali e politici. Si pone qui l’interrogativo se sia possibile, oltre che opportuno, trovare dei punti comuni intorno ai quali organizzare, sulla base delle conclusioni suggerite dalla ricerca sui giovani, una riflessione che aiuti a capire meglio le trasformazioni in corso. E’ evidente che ogni generalizzazione comporta il rischio di semplificare e di tra10 Riprendo queste definizioni da Cavalli (1996). 261 scurare specificità significative. Tuttavia si può tentare di individuare almeno le osservazioni ricorrenti nelle analisi sui giovani circa la portata e la direzione di tali trasformazioni. Mi limiterò qui a indicarne alcune che mi sembrano più rilevanti per capire i mutamenti nei valori e nei comportamenti politici dei giovani. Anzitutto, la fase giovanile dei nostri tempi risulta contrassegnata da ambiguità profonde come quella prodotta dalla sfasatura tra soglie simboliche e soglie reali dell’ingresso nella vita adulta. Come è stato osservato, «l’allungamento del periodo di transizione verso l’età adulta risulta dalla congiunzione di fattori che si collocano ai due estremi della catena che delimitano il periodo della giovinezza. Da una parte, la fissazione del calendario delle soglie di ingresso nella vita adulta è fortemente condizionata dalla congiuntura socio-economica attuale, soprattutto del mercato del lavoro. Ma dall’altra parte, le soglie d’età che definiscono l’autonomia e la responsabilità del cittadino, così come sono istituzionalizzate e codificate dalla società, sono via via più precoci» (Muxel 1996). Possiamo dunque dire che il crescente spazio di attesa e sperimentazione, all’insegna della reversibilità delle scelte e dell’apprendistato come prova di sé piuttosto che come introduzione e socializzazione ai ruoli adulti, ha conseguenze non lievi sia per il momento in cui i ruoli adulti saranno effettivamente assunti, sia per l’identità personale e sociale connessa. In secondo luogo, il modo di concepire la vita e di agire socialmente dei giovani è contraddistinto oggi dalla esigenza di realizzazione nel presente e dal venir meno della possibilità o della disposizione a proiettare tale realizzazione nel futuro11 . Ne consegue che per molti giovani la società è ridotta a un complesso di infrastrutture e a una riserva di beni a cui è scontato attingere in modo utilitaristico e pragmatico, piuttosto che costituire una fonte normativa di strutturazione del futuro (Tomasi 1998). La complessità creata dall’intreccio o dalla sovrapposizione dei fattori risulta evidente nella condizione di studente, che riguarda ormai un numero crescente di giovani in “moratoria prolungata” delle società europee. La condizione di studente, per quanto la Un aspetto che Loredana Sciolla già rilevava nei primi anni ottanta a proposito della tendenza dei giovani d’oggi a “fermare il tempo” (Sciolla 1981). 11 262 si possa prolungare, è pur sempre transitoria, e il ruolo sociale di studente, benché sia oggigiorno ampiamente riconosciuto e istituzionalizzato in queste società come ruolo tipicamente giovanile connesso alla moratoria, più che alla preparazione diretta al ruolo adulto, risulta al contempo non privo di aspetti di incertezza di cui i giovani sono ormai ben consapevoli. Anzitutto i giovani sanno che non possono più contare su un rapporto diretto e organico tra studio e lavoro né su una corrispondenza automatica tra titolo di studio e posto di lavoro. E’ sempre più diffusa la situazione soggettiva e oggettiva insieme dello studente che sta alle scuole medie superiori e poi all’università “in attesa” del lavoro (che arrivi l’età di ingresso inevitabile nel lavoro stabile e che si presentino le occasioni di lavoro), non “per prepararsi” al lavoro. Di conseguenza viene a impoverirsi, cioè a perdere di rilievo sul piano oggettivo e di senso sul piano soggettivo, uno degli aspetti peculiari del ruolo di studente, che è quello di apprendere per incrementare il proprio patrimonio cognitivo e culturale anche per poterlo trasformare, una volta pienamente inserito nei diversi ruoli della società adulta, in un capitale sociale che serva a sostenere e sviluppare la cultura civica e politica delle società democratiche12 . Si possono a questo proposito avanzare un paio di ipotesi sommarie. La prima è che in una situazione di moratoria il ruolo di studente risulti sostanzialmente generico, soprattutto sempre meno essenziale per la definizione dell’identità personale degli individui in viaggio verso l’età adulta, mentre è al contempo inscritto ormai stabilmente nella struttura dei ruoli previsti dalla nostra società per i giovani ed è occasione rilevante ai fini della formazione dell’identità sociale. La seconda è che tutti i ruoli sociali previsti per i giovani, e non solo quello di studente, in questa situazione di precarietà e di incertezza risultano oggi, allo stesso tempo, ben definiti in rapporto alle caratteristiche e alle esigenze della struttura sociale, ma secondari per la definizione di una loro identità sociale stabile e coerente, mentre occupano al contempo uno spazio crescente (ma ambiguo quanto al peso sociale e al senso soggettivo) nell’esperienza quotidiana dei giovani. L’espressione è qui usata nel senso di Coleman (1988) ripreso poi da Putnam (1993). 12 263 Cercherò di spiegarmi con due esempi. Si pensi al ruolo di consumatore, così estesamente esercitato dai giovani con varietà di stili anche rilevanti: dal punto di vista della struttura sociale i giovani sono in maggioranza considerati forti consumatori e sono trattati come soggetti autonomi, ma non sono produttori di reddito, e non godono ancora degli status e dei ruoli sociali connessi a questa condizione. Eppure attraverso i consumi i giovani cercano spesso di esprimere la loro identità specifica. Oppure si consideri, come è opportuno in questa sede, il ruolo di cittadino che partecipa alla vita politica e di elettore che è chiamato a fare scelte di voto. Non è azzardato sostenere, sulla scia delle molte analisi ormai disponibili, che i giovani non sentono e non vivono i ruoli civici e politici consolidati e, almeno in teoria, essenziali per la vita democratica, come ruoli fondamentali e prioritari per la loro identità sociale. In realtà, in questi come in altri casi (si potrebbero fare altri esempi, come quelli relativi ai ruoli lavorativi prefigurati o già esercitati, o alla vita religiosa, o ai rapporti familiari) la moratoria sociale prolungata, in una situazione di precarietà e di incertezza, così come di reversibilità e indecisione, comporta che il contenuto reale dei ruoli previsti per gli agenti sociali delle giovani generazioni rimandi necessariamente alle crisi e ai problemi delle istituzioni sociali cui essi si riferiscono e alle dinamiche e dalle contraddizioni della struttura sociale complessiva di cui tali istituzioni fanno parte. A mio avviso, è da queste condizioni di crisi e dalle relative contraddizioni che deriva in buona parte il carattere secondario e instabile dei ruoli disponibili per le giovani generazioni. 2. Tra valori postmaterialisti e liberalismo culturale Per arrivare ad affrontare in modo opportuno il tema del rapporto dei giovani con la politica dobbiamo a questo punto prendere in considerazione anche le problematiche che si collocano sull’altro piano che ho distinto, quello eminentemente culturale. Va ricordato in proposito che le società liberaldemocratiche contemporanee presentano dei complessi di valori e dei tratti culturali in genere che sono saldamente appannaggio delle generazioni giovanili odierne, anche se le loro manifestazioni si sono avute dapprima attraverso gruppi 264 minoritari ma assai attivi di giovani delle generazioni precedenti, con i movimenti giovanili degli anni Sessanta e Settanta. Il nucleo centrale del complesso di valori delle società della tarda modernità13 è riconducibile a due componenti messe in rilievo da due differenti teorie: quella ben nota del postmaterialismo, che fa riferimento alle gerarchie dei criteri di rilevanza che i valori esprimono (Inglehart 1976; 1990) e quella più recente del liberalismo culturale, che fa invece riferimento all’orientamento etico sottostante le scelte di valore (Schweisguth 1995). In entrambi i significati l’indicazione che viene dalle ricerche è sostanzialmente univoca nel rilevare che tale complesso di valori è in effetti più diffuso tra le giovani generazioni, anche se appare sempre più o meno intrecciato con valori strumentali e di interesse individuale e di gruppo. Risulta inoltre che tale complesso di valori è in chiara relazione con fattori di status sociale, in quanto più diffuso tra i ceti medisuperiori e, in particolare, con il livello culturale elevato. In che senso si può allora parlare di una nuova cultura giovanile che su tali basi valoriali definisca diversamente il senso delle varie esperienze sociali e politiche e i ruoli sociali e politici che i giovani si trovano svolgere? A mio avviso si può parlare di cultura giovanile (e non più solo di subcultura) nella misura in cui i suoi tratti valoriali di fondo, pur essendo più chiaramente diffusi tra i giovani per effetto dei processi di socializzazione e di successione generazionale, sono condivisi, in generale e di fatto, anche dalla parte più attiva delle generazioni adulte. In effetti è questa in linea di massima la tendenza che prevale nelle nostre società. Queste mantengono e riproducono tuttavia al loro interno diversità istituzionalizzate di vario tipo, dalla molteplicità delle strutture di diseguaglianza alla pluralità di condizioni costituite, che attraversano e ridefiniscono sociologicamente anche le nuove generazioni e i loro modi di vita. Da questo punto di vista, le società liberaldemocratiche dei nostri tempi producono e legittimano una cultura giovanile ambivalente, che ha al contempo rapporti positivi e negativi con la struttura sociale vigente, della quale conferma e rinforza le dinamiche e le contraddizioni mentre elabora atteggiamenti e comportamenti di potenziale messa in discussione se non rottura delle sue basi. A mio parere l’espressione è preferibile a quella generica di società postmoderna. 13 265 Questa duplicità ambivalente si riscontra in almeno due delle caratteristiche peculiari della condizione socioculturale dei giovani di oggi. La prima è costituita dalla prospettiva sempre più reale di trovarsi a elaborare una doppia forma di identità in senso socioculturale. Una prima forma è quella orientata dai fattori strutturali e oggettivi prima ricordati, compresi quelli economici a cui Inglehart dà tanta importanza, che sono comunque alquanto costrittivi se non vincolanti per tutto quanto è legato all’ambito delle istituzioni sociali (o, se si vuole, all’ambito del sistema e della sua logica); ed è l’identità sociale tipica. Rispetto a questa si sta sviluppando autonomamente e assume sempre più rilievo, soprattutto tra le nuove generazioni, una seconda forma di identità che, nella fase di moratoria psicosociale allungata, è specificamente indotta dagli aspetti più libertari e espressivi della nuova sindrome culturale postmaterialista e neoliberale (e si sviluppa in modo precipuo nell’ambito del “mondo della vita”); ed è l’identità personale a base culturale. Si può discutere se si tratta propriamente di una doppia identità in senso proprio (Botta 1993) o invece, come ritengo, di due modalità di costruzione dell’identità, che coesistono nella condizione giovanile ma hanno sempre più difficoltà a integrarsi. Esse sono comunque difficili da gestire per i giovani proprio per la carica di precarietà e incertezza (soprattutto in rapporto all’identità sociale), ma anche di ambiguità e indeterminatezza (soprattutto in rapporto all’identità culturale), che entrambe contengono. La mia opinione è che ciò non può essere senza conseguenze per l’identificazione e l’affiliazione politica, in un momento in cui le formulazioni ideologiche totalizzanti sono tramontate (anche se non sono tramontate le ideologie) e alcune delle istituzioni politiche tipiche della democrazia sono scosse, se non compromesse, da una crisi profonda, fonte a sua volta di incertezza e ambiguità nell’ideologia democratica. D’altro canto, nel senso più propriamente sociologico la moratoria prolungata, che ha basi sociali innegabili benché richiami l’attenzione soprattutto sui suoi risvolti culturali e psicologici, comporta e consente, prevedendole e legittimandole, quelle esplorazioni, quelle prove, quei ripensamenti che stanno dietro al rapporto imprevedibile dei giovani con la politica, al di là di una apparenza di distacco se non di rifiuto che impressiona e appare nuova solo se confrontata con la breve fasi di alta mobilitazione partecipativa del ‘68 e 266 degli anni seguenti14 . Anche la maggiore instabilità delle scelte elettorali (e la stessa libertà di non scelta da molti giovani praticata) è l’effetto di quei mutamenti culturali che nelle nostre società hanno ridotto il peso e il senso delle affiliazioni ideologiche e religiose e delle appartenenze di classe e di gruppo. 3. I giovani e la politica Non è dunque agevole interpretare sociologicamente secondo i modi e con i concetti abituali aspetti non univoci del rapporto dei giovani con la politica15 : l’alternarsi di slanci partecipativi del singolo momento o sul singolo problema e di fasi di disinteresse e passività; il convivere di forme di partecipazione sociale (a movimenti “umanitari”, ecologici, di volontariato ecc.) e di aspetti di apparente apatia o distacco rispetto ai temi ideologici tradizionalmente mobilitanti; la disponibilità all’azione collettiva di movimento accompagnata dalla presa di distanza da parti politiche o da partiti presi di tipo politico-ideologico; la stessa partecipazione elettorale così instabile quantitativamente, pur nella generale tendenza all’astensionismo o alla scelta contingente, e qualitativamente, con spostamenti da un lato all’altro dell’arco politico spesso disinvoltamente e ingenuamente (secondo i nostri parametri valutativi centrati sulla coerenza) messi in atto e giustificati. L’ipotesi che mi sento di avanzare in conclusione è questa. Se è vero che gli orientamenti politici comunque si formano e si consolidano in virtù di una combinazione di differenti influenze, tra le quali quelle familiari e della condizione socioculturale, non sono da sottovalutare, nel caso dei giovani contemporanei, i canali e le nuove o differenti occasioni e modalità di contatto con la politica, di informazione e orientamento politico, di sperimentazione dei ruoli politici e dei valori democratici stessi che l’esperienza della vita sociale apre loro. Senza perdere dunque di vista i fattori e gli 14 E’ vero che la partecipazione di quegli anni ha riguardato direttamente solo una quota molto ristretta dei giovani (Bettin 1997); ma essa ha avuto un “effetto alone” di assai più ampia portata che ha prodotto conseguenze, e impressioni, perduranti per almeno un altro decennio. 15 Si veda almeno Muxel (1995). 267 agenti di socializzazione politica tradizionalmente studiati, e riferibili alle forme di organizzazione sociale (tramite la famiglia, la scuola, le organizzazioni religiose, le associazioni e lo stesso sistema politico)16 è indispensabile dare il rilievo che compete loro non solo ai vincoli ma anche agli stimoli riferibili al sistema culturale (attraverso i mass media e i gruppi di pari in particolare) e all’ambito della vita quotidiana. Vediamone alcuni. Molte ricerche ad esempio hanno rilevato una crescente partecipazione dei giovani ad associazioni assistenziali e a iniziative di volontariato in genere, spesso slegate da un preciso orientamento politico-ideologico. Anche le mobilitazioni di tipo ecologista, pacifista o intorno a tematiche umanitarie settoriali (pena di morte, tortura, esperimenti nucleari), non essendo più egemonizzate da particolari gruppi politici come in passato, assumono un significato diverso. Lo stesso modo di considerare e di vivere istituzioni importanti come la famiglia e la scuola, alle quali viene data importanza più sul piano relazionale e dell’esperienza che sul piano formativo istituzionale, si riflette sul modo non convenzionale di vivere la sfera politica e di formarsi un’identità politica definita. C’è poi da tenere in conto che, accanto a forme innegabili di trasmissione verticale e unidirezionale degli orientamenti di valore dalle generazioni adulte a quelle giovanili, acquistano importanza decisiva i momenti di trasmissione orizzontale e comunicativa tra pari e sodali, favoriti anche dalle esperienze di partecipazione. Si produce così tra i giovani una rielaborazione di orientamenti di valore spesso segnata da approssimazioni e ripensamenti, che può passare proprio attraverso quell’alternarsi di brevi periodi di intenso slancio partecipativo e di più lunghi periodi di ripiegamento privatistico prima ricordato. Ciò che è considerato abitualmente segno di apatia politica può essere inteso allora come diverso modo di sentire, pensare e vivere la politica e l’impegno politico: un modo non totalizzante né interamente coinvolgente, bensì episodico, parziale, individualizzato e elettivo. La moratoria sociopolitica dei giovani appare in definitiva oggi come una fase di apprendimento assai poco strutturata socialmen- Per una recente analisi del ruolo svolto dalla scuola italiana nella socializzazione politica cfr. Cartocci e Parisi (1997), spec. le conclusioni. 16 268 te e tuttavia inevitabilmente contrassegnata dalla cultura politica, dalla condizione delle istituzioni politiche e dalle vicende del sistema politico nel suo insieme. In questo momento di crisi della politica nei suoi diversi aspetti (ideologie mobilitanti, istituzioni e organizzazioni, canali partecipativi) essa ne risulta ovviamente condizionata, e a sua volta condiziona taluni aspetti di tale crisi che, è bene ripeterlo, se non coinvolge soltanto i giovani, si ripercuote particolarmente sulla loro socializzazione politica e civica. 4. Alcuni risultati della ricerca sui giovani italiani La ricerca sugli orientamenti politici dei giovani italiani e il loro rapporto con la politica registra da alcuni anni (dopo il «rifiuto» degli anni Ottanta) una tendenza alla crescita dell’interesse per la politica e della disponibilità ad affrontare il discorso politico, a cui si associa però la diminuzione drastica della effettiva partecipazione politica e della disponibilità all’impegno pubblico (Cavalli e de Lillo 1992 e 1996; Zurla 1995). Va peraltro tenuto presente che dalle ricerche suddette e da altre analoghe (Donati e Colozzi 1997) sembra di poter rilevare una certa inadeguatezza degli indicatori tradizionalmente usati nelle survey sui giovani, in particolare rispetto agli aspetti di apparente incoerenza tra autocollocazione politica e scelte di voto o orientamenti relativi alle scelte politiche. Con questa avvertenza ben presente è dunque interessante vedere se un tipo di giovani come quelli che sono oggetto della presente ricerca, particolarmente definiti in termini di età e di condizione occupazionale ufficiale, sviluppa in maniera analoga il suo rapporto con la politica, e quanto tale rapporto, così come i valori politici di fondo che esprime e l’atteggiamento verso la politica democratica che ne deriva, sia influenzato in qualche misura da questa divaricazione tra interesse e partecipazione. Risalta subito che anche i giovani della nostra ricerca, specialmente gli studenti, sono abbastanza interessati alla politica; per lo meno si tengono informati e si dichiarano aperti e esposti alla discussione politica. L’indice di interesse per la politica che misura la combinazione tra informazione e disponibilità alla discussione fa infatti registrare un 64% di studenti e un 48% di disoccupati, 269 che si collocano a livelli alti o medio-alti. (tav. 1).17 Il punteggio dell’indice, inoltre, è fortemente correlato alla collocazione politica e alle scelte di voto degli intervistati. Tavola 1. Distribuzione dell’indice di interesse per la politica per studenti e disoccupati (%) Studenti Disoccupati Basso interesse per la politica 35,2 51,5 Medio interesse per la politica 38,0 28,5 Alto interesse per la politica 26,7 19,9 Questi si collocano infatti prevalentemente sul lato sinistro dell’asse politico sinistra-destra, e non si registra alcuna differenza tra studenti e disoccupati; in entrambe le categorie, poi, quelli che non sanno o non vogliono collocarsi in questa dimensione costituiscono una quota assolutamente minoritaria (tav. 2). La tradizionale contrapposizione sembra dunque continuare ad avere senso e a costituire una forma di identificazione politicoculturale efficace, nonostante i segnali contrari comincino a non mancare anche nel nostro paese. Tavola 2. Autocollocazione sull’asse sinistra - destra di studenti e disoccupati (%) Sinistra Studenti Disoccupati 30,0 29,9 Centro-sinistra 23,1 23,1 Centro 11,3 13,6 Centro-destra 13,1 9,8 Destra 11,3 8,9 Non saprei 11,3 13,8 L’indice di interesse per la politica è stato costruito mettendo insieme le risposte alle domande sull’informazione politica, sulla disponibilità alla discussione di temi politici nella sfera delle relazioni private (famiglia, amici, colleghi) e sulla possibilità (realizzata o dichiarata) di una partecipazione politica effettiva. Esso intende quindi tenere conto contemporaneamente di più dimensioni disposizionali non sempre coerenti, e diversamente combinabili. 17 270 Le scelte di voto dei giovani del nostro campione risultano peraltro anch’esse sbilanciate a sinistra, come si può vedere dalla Tav. 3. Tavola 3. Voto alle elezioni politiche del 1996 (%) di studenti e disoccupati Studenti Disoccupati Sinistra (Pds, Rc, Verdi) 54,3 50,3 Destra (An, Fi, Ccd/Cdu, Msi) 23,3 29,3 Altro (Ppi, lista Dini, lista Pannella, Lega nord…) 11,6 15,7 4,8 10,7 Mi sono astenuto Mentre non emergono forti differenze al riguardo tra studenti e disoccupati, vale la pena di sottolineare che la percentuale di astenuti risulta significativa, benché non eccessiva (10,7%), solo tra questi ultimi, mentre tra gli studenti è molto al di sotto del dato nazionale. L’orientamento di sinistra è dunque prevalente tra gli intervistati, e questo dato, che sembra contrastare con quanto riscontrato da altre ricerche nazionali e dai dati elettorali, si può spiegare con la composizione dei due campioni, che non volevano essere rappresentativi. Ma vale comunque la pena di ragionare sulle caratteristiche e la coerenza, a livello di atteggiamenti e di orientamenti di valore, che contraddistinguono questo gruppo maggioritario di intervistati. Ritorneremo sul punto più avanti. Per ora limitiamoci a rilevare che sia gli studenti che i disoccupati che si collocano decisamente a sinistra hanno chiaramente un’alta incidenza (il 68% e il 74% rispettivamente) tra coloro che risultano avere un alto interesse per la politica e sono comunque prevalenti (con il 56% e il 54% rispettivamente) anche tra coloro che si collocano a un livello medio su tale indice. Sembra dunque che per questi giovani la differenza tra destra e sinistra abbia ancora un senso e risulti un utile parametro per la definizione della propria identità politica. Il rilievo di tale dato è confermato anche dal fatto che la maggioranza degli intervistati, e piuttosto indipendentemente dalla collocazione politica, ritiene abbastanza utile o molto utile la distinzione tra sinistra e destra per capire le differenze non solo tra i leader politici e tra i partiti politici di oggi, ma anche tra gli italiani. Ed è significativo che tra i 271 più convinti di ciò si trovino proprio gli studenti e i disoccupati che si collocano alle due estremità dell’asse di orientamento politico. Che coloro che si collocano alle due estremità abbiano poi orientamenti di scelta conseguenti su alcune alternative di valore politico-ideologico (libertà-uguaglianza e iniziativa individualesolidarietà) non può più sorprendere. Dalla tav. 4 si rileva anche un altro dato interessante: tra la distribuzione delle collocazioni tra le due alternative e quella dell’autocollocazione politica sembra esservi una forte coerenza che fa pensare alla permanenza di un complesso di orientamenti di valore ancora piuttosto attivo nella sfera politica. Tavola 4 Asse sinistra-destra per medie di affermazioni da 1 a 10 per studenti e disoccupati Collocazione sull’asse sinistra-destra Libertà vs uguaglianza Studenti Disoccupati Iniziativa personale vs solidarietà Studenti Disoccupati Medie 5,57 5,34 6,78 6,53 Sinistra 6,51 6,08 7,73 7,53 Centro-sinistra 5,96 5,99 6,98 6,61 Centro 5,31 4,23 6,51 5,59 Centro-destra 4,30 4,51 5,55 5,87 Destra 4,32 3,82 5,63 4,67 Non saprei 5,29 5,30 6,68 6,80 Quanto sia ancora influente la collocazione politica sembra confermato anche da altri dati. Viene ribadita la distanza o il disinteresse dei giovani per le forme di partecipazione. Pur tuttavia, se si distinguono e si misurano i vari tipi possibili di partecipazione (istituzionale, movimentista convenzionale e movimentista non convenzionale), la prima forma si conferma la meno scelta, mentre la partecipazione movimentista convenzionale (scioperare, fare dimostrazioni pacifiche) ottiene il punteggio medio più alto sia tra gli studenti che tra i disoccupati. E ancora una volta, gli intervistati di entrambe le categorie che si collocano su posizioni di sinistra o centro sinistra non solo fanno registrare un punteggio decisamente più alto di tutti gli altri in questo indice, ma prevalgono 272 anche nell’altro indice di partecipazione movimentista, quella non convenzionale (che si esprime nella disponibilità ad occupare edifici e nell’adesione a dimostrazioni violente), pur nella relativa presa di distanza da essa di tutte le categorie di intervistati (meno degli altri gli studenti di estrema sinistra, e meno gli studenti in generale rispetto ai disoccupati (tav. 5). C’è in sostanza tra i nostri giovani un nucleo di studenti e disoccupati che è disponibile e, talvolta, ha direttamente fatto esperienza di forme di partecipazione che sembrano risultare più attraenti e meno predeterminate della partecipazione istituzionale. Tavola 5. Disponibilità alla partecipazione movimentista (convenzionale e non convenzionale) secondo l’asse sinistra – destra per studenti e disoccupati (medie) Movimentista convenzionale (0 – 4) Movimentista non convenzionale (0 – 6) Studenti (medie) Disoccupati (medie) Studenti (medie) Disoccupati (medie) Sinistra 3,31 3,17 2,18 1,75 Centro-sinistra 3,05 2,81 1,52 1,16 Centro 2,68 2,12 1,32 0,64 Centro-destra 2,47 2,13 1,24 0,70 Destra 2,37 1,76 1,24 0,69 Non saprei 2,56 2,36 1,41 1,14 Che cosa si intuisce dietro questa persistenza tra una parte non irrilevante dei nostri giovani di una categoria politica sulla cui significatività ci sono ormai da tempo dubbi e ripensamenti (Giddens 1997)? E’ stata spesso sottolineata la tendenza alla omologazione di taluni ambiti dell’universo giovanile europeo (Tomasi 1998). Tuttavia vale la pena di accertare se gli orientamenti di valore che stanno alla base delle rappresentazioni della politica sono effettivamente mutati nel senso di una «modernizzazione» e «internazionalizzazione» evidente e non ambigua. Anche per questo aspetto i nostri dati rivelano alcune peculiarità non secondarie, come già risulta dal grafico 1. Quello che si può rilevare dal grafico è un risultato che in realtà non è del tutto inatteso: la percentuale di intervistati che 273 risultano decisamente postmaterialisti secondo la nota definizione di Inglehart (1983 e 1993) è piuttosto ridotta. Già da varie parti si era fatto rilevare come le ricerche fatte non solo in Italia ma in vari Paesi europei avessero messo in evidenza piuttosto la prevalenza di un mix variabile di valori materialisti e postmaterialisti (AA. VV. 1995; van Deth 1995). Come si può vedere anche dalla tavola 6 , tra i nostri intervistati, non solo i postmaterialisti «puri» sono una minoranza, ma nel caso dei disoccupati sono i materialisti «puri» a prevalere decisamente (37,8%). Grafico 1. Distribuzione dell’indice di postmaterialismo di studenti e disoccupati 45 40 35 30 25 20 15 10 5 0 Basso distacco dalla politica Medio-basso distacco Studenti Medio-alto distacco Alto distacco dalla politica Disoccupati Di fatto, due disoccupati su tre e tre studenti su cinque risultano avere un orientamento in cui prevalgono i valori materialisti. La già citata presunta modernizzazione valoriale dei giovani riscontrabile a livello europeo (Tomasi 1998) si riscontra caso mai lungo un’altra dimensione valoriale: quella del cosiddetto «liberalismo culturale» che si caratterizza in termini di individualismo, tolleranza e apertura (Schweisguth 1995), come risulta ancora dalla 274 Tavola 6. Distribuzione dell’indice di postmaterialismo e di liberalismo culturale di studenti e disoccupati (%) Studenti Disoccupati Postmaterialismo Materialista 28,5 37,8 Quasi-materialista 29,7 27,1 Quasi-postmaterialista 24,3 21,2 Postmaterialista 17,4 13,9 Liberalismo culturale Basso 21,3 10,9 Medio 47,3 47,2 Alto 31,5 41,9 tav.618 . I disoccupati che oltre ad avere una distribuzione di genere più equilibrata, hanno un età media più alta, e comprendono un 12, 2% di laureati, sono addirittura su livelli più alti degli studenti. Tra questi ultimi, infatti, oltre un quinto fa registrare un liberalismo culturale decisamente basso, e tra questo gruppo sono prevalenti le donne. Tra i due indici, e quindi tra i due set di valori, sembra esistere tuttavia una certa relazione soprattutto per i disoccupati. Infatti oltre il 61% dei disoccupati e il 38,8% degli studenti decisamente postmaterialisti manifestano anche un livello decisamente alto di Tavola 7. Appartenenza religiosa per indice di liberalismo culturale per studenti e disoccupati (%) Liberalismo culturale Si riconosce nella religione istituzionale Non si riconosce nella religione istituzionale Studenti Disoccupati Studenti Basso liberalismo culturale 26,7 14,4 7,0 3,3 Medio liberalismo culturale 51,3 54,8 35,8 31,0 Alto liberalismo culturale 22,4 30,8 54,5 65,8 Totale 73,6 68,3 26,4 31,7 Disoccupati Il liberalismo culturale è stato misurato con un indice che combinava il grado di accordo con tre item su decisioni di carattere etico-politico. 18 275 liberalismo culturale. Si tratta evidentemente di una piccola minoranza, forse identificabile come «avanguardia» se si dà credito all’idea di un trend modernizzante a livello di valori. Certo è che questa minoranza dai nostri dati sembra caratterizzata anche come costituita soprattutto da intervistati di sinistra, in maggioranza disoccupati, più maschi che femmine, di alto livello socioculturale e che non si riconoscono nella religione istituzionale (tav. 7) Tavola 8. Voto alle elezioni politiche del 1996 secondo l’indice di postmaterialismo e l’indice di distacco dalla politica. Voto 1996 Postmaterialismo Materialista Sinistra (Pds,Rc,Verdi) Destra(An,Fi Ccd,Cdu,Msi) Altro Astenuto Totale 43,9 43,9 22,1 18,5 28,2 Sinistra (Pds,Rc,Verdi) Destra(An,Fi Ccd,Cdu,Msi) Altro Astenuto Totale 47,0 30,8 15,1 7,0 36,2 Basso Sinistra (Pds,Rc,Verdi) Destra (An,Fi, Ccd,Cdu,Msi) Altro Astenuto Totale 64,0 21,8 10,3 3,9 29,9 Sinistra (Pds,Rc,Verdi) Destra (An,Fi, Ccd,Cdu,Msi) Altro Astenuto Totale 61,8 16,6 14,1 7,5 38,9 276 Quasi Quasi postma- Postmaterialimaterialista terialista sta Studenti 62,9 21,7 11,5 3,8 25,1 Disoccupati 45,4 50,5 24,8 16,2 15,6 19,8 14,2 13,5 27,6 21,7 Distacco dalla politica Medio-basso Medio-alto Studenti 55,9 46,8 28,3 36,7 12,1 12,0 3,7 4,4 38,1 13,2 Disoccupati 52,3 43,3 27,7 25,0 15,4 17,5 4,6 14,2 12,7 23,5 53,6 30,4 12,0 3,9 29,2 Totale 59,8 15,6 14,6 10,1 17,5 54,3 29,3 11,6 4,8 100,0 67,6 12,2 12,2 8,1 14,5 50,3 23,3 15,7 10,7 100,0 Alto Totale 41,6 37,6 12,4 7,4 18,9 54,3 29,3 11,6 4,8 100,0 37,0 29,9 17,3 15,7 24,9 50,3 23,3 15,7 10,7 100,0 Riprendiamo ora in esame le scelte di voto. A un sommario esame questa interpretazione risulta integrata da altri dati: tale minoranza, come la maggior parte degli intervistati che hanno votato a sinistra, si colloca prevalentemente a livelli alti di postmaterialismo ed ha un alto grado di coinvolgimento nella politica (tav. 8). Inoltre questo gruppo ha un alto grado di liberalismo culturale e non è incline in generale a atteggiamenti svalutativi (tavv. 9 e 10). Tavola 9. Voto alle elezioni politiche del 1996 secondo l’indice di liberalismo culturale (%) Voto 1996 Liberalismo Basso Medio Alto Totale Stud. Dis. Stud. Dis. Stud. Dis. Stud. Dis. Sinistra(Pds,Rc,Verdi) 42,2 38,5 57,0 46,4 57,6 57,0 54,2 50,2 Destra (An,Fi,Ccd,Cdu,Msi) 39,3 30,8 31,1 30,1 20,6 14,3 29,3 Altro 14,3 23,1 7,5 16,7 15,9 13,0 11,6 15,8 4,1 7,7 4,4 6,7 5,9 15,7 4,8 10,7 20,3 10,1 47,4 46,5 32,3 Astenuto Totale 23,3 43,4 100,0 100,0 Tavola 10. Voto alle elezioni politiche del 1996 secondo l’indice di rifiuto della politica (%) Voto 1996 Rifiuto della politica Basso Medio Stud. Dis. Stud. Dis. Stud. Dis. 54,1 74,1 54,2 50,3 29,6 23,0 22,7 14,8 29,3 23,3 19,3 10,5 14,2 6,6 9,3 11,6 15,8 15,4 3,8 8,8 1,9 1,9 4,8 10,7 39,5 28,7 27,4 40,8 38,2 56,2 Destra (An,Fi,Ccd,Cdu,Msi) 34,5 27,0 Altro 17,0 7,8 33,1 50,3 Totale Dis. Stud. Totale 68,0 Sinistra(Pds,Rc,Verdi) Astenuto Alto 21,0 100,0 100,0 Per interpretare adeguatamente i dati va tenuto presente che anche dalla nostra ricerca, così come da quasi tutte le altre ricerche italiane sui giovani, risulta assai basso il grado di fiducia nelle istituzioni (tav. 11). Tra le istituzioni che riscuotono meno fiducia troviamo per entrambe le categorie di intervistati, con qualche differenza di posi277 Tavola 11. Fiducia nelle istituzioni per studenti e disoccupati (medie) Grado di fiducia nelle istituzioni (da 1 a 10) Studenti (medie) Fiducia nella televisione Fiducia nei partiti Fiducia nel sindaco Fiducia nel governo Fiducia nel parlamento Fiducia nella chiesa cattolica Fiducia nel sindacato Fiducia nei giornali Fiducia nei magistratura Fiducia nella polizia Fiducia nell’U.E. Fiducia nelle associazioni ambientaliste Fiducia nelle associazioni. di volontariato 4,38 4,47 4,81 4,94 5,12 5,14 5,20 5,39 5,58 5,95 6,20 6,45 7,69 Fiducia nelle istituzioni Fiducia nei partiti Fiducia nella tv Fiducia nel governo Fiducia nel parlamento Fiducia nella chiesa cattolica Fiducia nel sindaco Fiducia nel sindacato Fiducia nella magistratura Fiducia nei giornali Fiducia nella polizia Fiducia nell’U.E. Fiducia nelle ass. ambientaliste Fiducia nelle ass. di volontariato Disoccupati (medie) 4,23 4,52 4,64 4,67 4,75 4,83 5,05 5,18 5,27 5,43 5,88 6,17 7,32 zione più che di intensità, le istituzioni politiche tradizionali: partiti, governo, sindaco, parlamento. Le istituzioni di controllo sociale, come magistratura e polizia, sono anche nella nostra classifica in posizione relativamente elevata (e non è una novità), ma il grado di fiducia più elevato lo riscuotono per entrambe le categorie di intervistati, nell’ordine, le associazioni di volontariato e quelle ecologiste: vale a dire, proprio quelle legate a forme di partecipazione movimentista che abbiamo visto essere le predilette, e che implicano forse anche una certa presenza di quei tratti valoriali postmaterialisti che nell’indice apposito risultano poi commisti a tratti di significato opposto. E’ difficile dire senza ulteriori e più estese analisi se si tratta di un segno incoraggiante per il consolidamento della nuova cultura politica democratica delle società postmoderne (Inglehart 1998). Certo è che l’indice che misura la sottovalutazione delle politica (del suo significato e della importanza che ha per gli individui)19 non fa registrare una forte presenza di disposizioni negative 19 L’indice di distacco dalla politica è stato costruito combinando le risposte ai tre item che affermavano vari tipi di presa di distanza o svalutazione dalla politica come ambito di esperienza. 278 tra gli studenti (due su tre hanno valori bassi) ed anche tra i disoccupati uno su due non è propenso alla svalutazione (grafico 2). Grafico 2. Distribuzione dell’indice di distacco dalla politica per studenti e disoccupati (%) 40 35 30 25 20 15 10 Discoccupati Postmaterialista Studenti Quasi postmaterialista Materialista 0 Quasi materialista 5 Può confortare la tesi di Inglehart il fatto che tra i postmaterialisti «puri» siano molto pochi (12% circa) coloro che dimostrano distacco o svalutazione della politica, anche se considerando anche coloro che si collocano solo ai livelli medio-alti di entrambi gli indici il conforto appare moderato. Infatti l’effetto confortante sembra derivare solo dagli studenti (solo il 25% dei postmaterialisti o quasi ha un alto distacco dalla politica, e un altro 25% un distacco medio-alto) dato che tra i disoccupati postmaterialisti o quasi il distacco elevato dalla politica risulta del 36,3% e il distacco medio-alto addirittura sale al 46,7%). E’ opportuno chiedersi a questo punto se e quanto questi orientamenti valoriali si riflettono sulla rappresentazione della politica e sugli atteggiamenti verso la politica e le istituzioni dei nostri intervistati. C’è comunque ragione di avere qualche preoccupazione per gli esiti della «moratoria politica» della gioventù (Muxel 1996), la quale viene per altro ben evidenziata proprio dagli orientamenti talvolta incoerenti che fanno riscontrare le risposte 279 relative a scelte o prese di posizione su temi politici o decisioni di tipo politico proposte con una certa abbondanza dal nostro questionario. A tale proposito ci limitiamo a due aspetti significativi per valutare il grado di maturazione di una cultura politica “nuova” fra i giovani. Innanzitutto risalta il basso grado di quello che è stato definito l’indice di civismo fiscale20 , sulla base delle risposte ad un item che pone il problema della responsabilità fiscale del cittadino italiano. I nostri giovani intervistati hanno evidenziato entrambi, studenti e disoccupati, un risultato alquanto inaspettato. Infatti come possiamo vedere dalla Tavola 12, la tendenza di scelta è fortemente rivolta sull’alternativa “pagare le tasse in proporzione a quanto ricevuto dallo stato” , che non è certo espressione di una matura e consolidata cultura civica. Tavola 12. Indice di civismo fiscale (1= tasse in proporzione, 10= tutte le tasse) secondo l’indice di Inglehart e l’indice di attitudine alla politica per studenti e disoccupati (medie) Civismo fiscale Studenti (medie) Disoccupati (medie) Materialista 3,25 3,22 Quasi-materialista 3,12 2,97 Quasi-postmaterialista 3,81 3,56 Postmaterialista 3,68 3,64 Totale 3,37 3,29 Basso interesse per la politica 2,75 2,91 Medio interesse per la politica 3,47 3,22 Alto interesse per la politica 4,01 4,33 Totale 3,37 3,29 Il dato non è molto influenzato dall’essere o meno materialisti o postmaterialisti (come ben evidenzia la Tavola le differenze tra i due estremi non sono poi così significative), quanto piuttosto dal livello di interesse per la politica. In quest’ultimo caso infatti gli studenti e i disoccupati che si collocano nella posizione di elevato interesse per la politica (che abbiamo visto sono circa un quarto 20 280 Si veda il cap. VIII. degli studenti e un quinto dei disoccupati) sono anche quelli che risultano tendere ad un maggiore spostamento verso l’altra affermazione della domanda, “ il cittadino deve pagare le tasse che lo stato gli richiede”. A questo basso grado di civismo fiscale fa riscontro un atteggiamento di relativa “non apertura” culturale assai rivelatore il giudizio sulla necessità di aumentare la presenza femminile nella sfera politica italiana. L’atteggiamento in questo caso non è influenzato dai diversi indici considerati nel corso di questa trattazione, quanto invece dal genere. Osservando la tavola 13 appare immediatamente evidente una netta differenza tra le posizioni dei ragazzi e quelle delle ragazze. Tre quarti di queste ultime, in entrambi i campioni, sono infatti totalmente d’accordo ad una maggiore presenza femminile nella classe politica che ci rappresenta. Per quanto riguarda i ragazzi intervistati, non colpisce tanto il loro essere in disaccordo con tale affermazione (che comunque registra percentuali non indifferenti specialmente per il campione dei disoccupati, 19,2%), quanto la loro incertezza (33,9 degli studenti e il 32,2% dei disoccupati). Una posizione che risulta però abbastanza consistente anche per la popolazione delle ragazze; circa un quinto di esse non riesce infatti a decidere su tale interrogativo. Tavola 13. Più donne nella classe politica secondo il genere per studenti e disoccupati (%) In disaccordo Maschio Femmina Incerto D’accordo Studenti Disoccupati Studenti Disoccupati Studenti Disoccupati 10,9 19,2 33,9 4,7 3,9 20,6 32,2 55,2 48,6 21,8 74,7 74,3 Per concludere una prima interpretazione dei dati sulle opinioni degli intervistati su taluni aspetti della presenza del settore pubblico, tema al centro del dibattito politico italiano. Come abbiamo avuto modo di vedere nel corso delle pagine precedenti per i nostri intervistati la differenza tra essere di destra ed essere di sinistra sembra avere ancora un senso, tanto da risultare un ottimo parametro per la definizione della propria identità politica. Ad una prima analisi sembrerebbe dunque presente tra questi giovani un revival dell’ideologia; in realtà, come confermano altre ricerche 281 nazionali (IARD, 1997), si tratta di un riflesso del disorientamento che pervade la crescita e l’esperienza di questi giovani nel mondo degli adulti. Appaiono allora comprensibili, alla luce di tale premessa, alcuni dei risultati riportati nella Tavola (14). Tavola 14. Opinioni di studenti e disoccupati su alcune attività di rilevanza politico-sociale dello Stato(%) In Abbast. disaccordo disaccordo Incerto Abbast. D’accordo d’accordo Studenti Privatizzazione sanità 31,0 22,1 21,5 17,6 7,8 Possesso reti TV 10,8 14,4 20,3 41,5 12,9 Tutela dell’identità nazionale Blocco dell’immigrazione 1,4 1,9 9,9 35,9 51,0 10,8 20,3 26,0 25,4 17,5 Disoccupati Privatizzazione sanità Possesso reti TV Tutela dell’identità nazionale Blocco dell’immigrazione 25,6 23,4 22,4 19,1 9,5 9,3 18,5 24,5 34,0 13,7 3,1 7,8 17,3 37,7 34,2 14,1 19,5 21,2 23,3 21,9 Essa infatti mette ben in evidenza come circa l’86% degli studenti e il 70% dei disoccupati siano d’accordo con una ‘tradizionale’ visione dello stato come “tutore”. Questo dato che può sembrare il segno della confusione e dell’incertezza che interessa questa coorte di età circa la nozione di Stato, è reso però preoccupante dal fatto che circa la metà degli studenti e dei disoccupati è comunque favorevole a che lo Stato si impegni ad attuare un blocco nei confronti dell’immigrazione straniera. Quindi una concezione dello stato che protegge verso l’esterno, ma anche verso l’interno. Come si vede dalla tavola, la maggioranza degli studenti si dichiara a favore di uno stato che non solo tuteli l’identità nazionale e allo stesso tempo faccia sentire la sua presenza nell’informazione televisiva ma anche, e ambiguamente, sia uno stato ‘sociale’ che si fa carico della sanità. 282 CAPITOLO DECIMO IDENTITÀ DI CONFINE: DESTRA E SINISTRA NELLA CULTURA GIOVANILE 1. Destra e sinistra: elementi per un dibattito teorico La distinzione destra/sinistra costituisce una convenzione comunicativa utile per descrivere in forma sintetica la diversità e la conflittualità di opinioni, valori e atteggiamenti che caratterizza una società politica democratica. La rilevanza della distinzione destra/sinistra nel dibattito politico e il suo affermarsi come parte integrante del senso comune politico sono essenzialmente il risultato di un complesso processo di costruzione sociale. Leader politici, studiosi, giornalisti ma anche semplici cittadini fanno costante riferimento alla distinzione destra/sinistra per esprimere le proprie opinioni e appartenenze politiche e in questo modo concorrono alla continua definizione dei contenuti della distinzione e contribuiscono a renderla la principale metafora dell’universo politico democratico. La sociologia politica, da parte sua, ha da molto tempo acquisito i termini di destra e di sinistra all’interno del proprio bagaglio concettuale e li ha adattati alle sue esigenze conoscitive in primo luogo operativizzandoli come due poli di un continuum ideale in grado di fornire una rappresentazione in termini spaziali della cultura politica di un dato sistema sociale. Nonostante i suoi pregi applicativi nell’analisi delle opinioni e delle identificazioni politiche, l’approccio sociologico non è però mai riuscito ad andare oltre una definizione monodimensionale dei due concetti. Nel loro sforzo di semplificazione dell’universo politico, gli studiosi tendono Questo capitolo è stato scritto da Enrico Caniglia. 283 infatti ad attribuire un solo significato alla dicotomia. Ma l’individuazione di un unico criterio distintivo tra destra e sinistra, quasi una sorta di scoperta dell’essenza dei due termini, finisce per fare dimenticare inevitabilmente la natura essenzialmente linguistica e convenzionale della distinzione, e soprattutto la sua estrema elasticità semantica. Destra e sinistra sono termini polisemici e, inoltre, del tutto privi di quello che si definisce un «ancoraggio semantico» (Sartori 1982; Gauchet 1991). Per questa ragione risultano piuttosto refrattari ad assumere un contenuto chiaro e definito una volta per tutte. Destra e sinistra sono più correttamente da intendersi come «immagini spaziali» che significano tutto e niente o, meglio, «contenitori vuoti, aperti a tutti i travasi» (Sartori 1982, 255-256). Destra e sinistra sono dunque essenzialmente delle etichette convenzionali, ma ciononostante indispensabili per dare espressione al conflitto e alla divergenza di opinioni, vale a dire ai due elementi costitutivi della politica democratica (Gauchet 1991). I criteri posti alla base della distinzione destra/sinistra, i suoi contenuti e le forze politiche che la incarnano, possono e anzi sono continuamente cambiati nel corso della storia. Quello che resta costante è invece l’esigenza di avere un linguaggio che dia forma alla conflittualità politica democratica, comprendendo, nella sua concezione minima, una contrapposizione tra almeno due forze o due orientamenti in grado di ricoprire i ruoli di maggioranza e minoranza rispetto ad un tema centrale. In breve, destra e sinistra vanno più correttamente intesi come “contenitori” piuttosto che identificati con ben precisi “contenuti”. I due termini sono certamente categorie semantiche universali, i cui contenuti però variano a seconda del contesto sociale e del momento storico. Per questa ragione la ricerca sociologica non deve limitare il suo apporto all’individuazione di come si distribuiscono quantitativamente le autocollocazione lungo l’asse destra/ sinistra, lasciando impliciti i contenuti ideologici, ma deve spostare la sua attenzione ai significati rappresentati dalla distinzione e soprattutto ricostruirne il divenire sotto l’azione del mutamento sociale. Il problema della variabilità dei contenuti appare oggi sottolineato dall’analisi della cultura politica contemporanea che ha da tempo messo bene in evidenza come i significati convenzional284 mente associati ai due termini di destra e sinistra non siano in grado di individuare una reale linea di demarcazione. In primo luogo, l’interpretazione che distingue la destra e la sinistra in termini di contrapposizione tra progresso e conservazione, una delle ipotesi più comunemente impiegate nell’analisi sociologica, si è sbriciolata di fronte alla constatazione dello scambio di caratteristiche “progressiste” e “conservatrici” tra i due poli ideologici. L’«attraversamento reciproco» (Tarchi 1995), vale a dire l’interscambio di contenuti tra destra e sinistra, è ormai un processo costantemente in atto e che giunge a riformulare radicalmente le identità politiche moderne nei confronti delle loro rispettive tradizioni. Viste dalla prospettiva della dimensione progresso/ conservazione, destra e sinistra sembrano infatti aver invertito i loro significati (Giddens 1994). La sinistra, ad esempio, un tempo sinonimo di progresso, appare oggi aver del tutto rinunciato alla sua vocazione per il radicalismo, ed è approdata alla difesa dello status quo sancito dal Welfare State. La destra, dal canto suo, ha invece abbandonato la tipica propensione alla conservazione, sostituendola con un’aspirazione al cambiamento ed una preferenza per il radicalismo. Ma la crisi dei tradizionali contenuti attribuiti ai termini destra e sinistra appare in tutta la sua evidenza nel momento in cui si passa a considerare il significato più comunemente associato alla distinzione, vale a dire la contrapposizione relativa ai valori economici. Destra e sinistra sono state tradizionalmente usate per descrivere l’universo politico delle democrazie mediterranee in termini di polarizzazione tra le classi sociali, o se si vuole, tra le ideologie socialiste e ideologie liberali. Dal punto di vista ideologico la distinzione destra/sinistra individuava il cleavage connesso con il liberalismo economico. Essere di sinistra stava ad indicare una scelta di valore contraria al liberalismo economico e favorevole invece all’intervento statale e alla vasta gamma delle ideologie socialiste, mentre essere di destra risulta indicativo della scelta di campo in favore del liberalismo economico (mercato, concorrenza, meno tasse, deregulation). Dal punto di vista sociologico la distinzione individuava una chiara contrapposizione tra classe operaia e classe borghese. L’identità politica appariva profondamente connessa con l’identità di classe, nel senso che essere operaio significava assumere un’appartenenza di sinistra, mentre 285 l’essere borghese si legava con l’appartenenza alla destra 1 . Questa ricostruzione del contenuto della distinzione destra/ sinistra sta smarrendo sempre di più ogni attinenza con i processi sociali. Le più recenti ricerche sociologiche rivelano che è in atto un profondo processo di ridefinizione dei significati della distinzione destra/sinistra, un processo che si manifesta anche nei paesi europei mediterranei come la Francia, l’Italia e la Spagna, nazioni con culture politiche considerate piuttosto statiche riguardo ai contenuti e alle forme delle rappresentazioni dell’universo politico. In primo luogo, emerge un chiaro processo di convergenza ideologica tra la destra e la sinistra: il ruolo dello Stato appare sempre più accettato da chi si colloca a destra, mentre chi si sente di sinistra mostra una sostanziale apertura verso il liberalismo economico (Boy e Mayer 1997). Il progressivo avvicinamento ideologico tra i due poli va letto come una chiara perdita di salienza del cleavage relativo ai valori economici. In secondo luogo, si evidenzia come si stiano radicalmente modificando le stesse basi sociali della sinistra e della destra. I segmenti sociali che si identificano con la sinistra sono sempre più costituiti da ceti medi istruiti, a cui fa da contraltare il netto spostamento a destra dei ceti popolari. La sinistra, dunque, appare erigersi sempre più a portavoce dei ceti medi e delle sue specifiche esigenze (New Left), mentre la destra tende a farsi promotrice delle rivendicazioni pro classi popolari, a svantaggio del suo tradizionale ruolo di rappresentante degli interessi dei ceti privilegiati (New Right). Nella cultura politica contemporanea si assiste, in altre parole, ad un autentico rimescolamento di carte tra la destra e la sinistra rispetto ai contenuti e ai referenti sociali della distinzione, le cui radici vanno individuate nel recente processo di trasformazio- Nella teoria politica questo senso della distinzione viene indicato in termini di contrapposizione tra eguaglianza e diseguaglianza. La sinistra individua un atteggiamento di valorizzazione dell’eguaglianza, mentre la destra di valorizzazione della diseguaglianza. La contrapposizione tra eguaglianza e diseguaglianza viene quindi a riassumere tutte le altre caratteristiche che possono essere rintracciate nei contenuti della distinzione destra/sinistra (come autodirezione/eterodirezione, classi superiori/classi inferiori, emancipazione/tradizione ecc.) (Bobbio 1994). 1 286 ne sociale che sta inevitabilmente riformulando i temi del conflitto politico, nonché le basi sociali delle identità politiche. La concezione della distinzione destra/sinistra in termini di cleavage economico si basava, infatti, su una visione di tipo tradizionale della politica in cui la controversia fondamentale verteva sulla giustizia sociale e sui conflitti distributivi, vale a dire due questioni che sono state radicalmente trasformate dall’esperienza del Welfare State a partire dagli anni Settanta. La destra e la sinistra, se intese come due opposti atteggiamenti di fondo verso il valore dell’eguaglianza sociale, difficilmente riescono a rendere efficacemente conto degli orientamenti e dei comportamenti politici dei gruppi sociali che la differenziazione sociale e il dilatarsi dei ceti medi ha oggi prodotto. Inoltre, le disuguaglianze sociali che si riscontrano nelle società contemporanee sono legate alle posizioni occupate rispetto ai meccanismi redistributivi della spesa pubblica piuttosto che al controllo dei mezzi di produzione e dei mezzi finanziari (De Mucci 1999). In questa situazione non deve affatto stupire che risultino scissi i nessi tradizionali che legavano le identità politiche, espresse in termini di destra e sinistra, con il conflitto ideologico su basi economiche e con l’appartenenza di classe. La contrapposizione destra/sinistra appare dunque destinata a riformularsi rispetto ai suoi contenuti e ai suoi significati sociali. Molti risultati empirici suggeriscono che la dicotomia fondamentale delle democrazie europee si avvia ad esprimere un conflitto che non riguarda più il liberalismo economico nè il vecchio antagonismo di classe, bensì una contrapposizione tra sistemi di valori differenti e relativi al problema dell’universalismo culturale. Il nuovo cleavage ideologico assume le forme del conflitto tra un orientamento valoriale incentrato sull’ «universalisme humaniste» (Grunberg e Schweisguth 1997), caratterizzato dalla volontà di riconoscere una fondamentale dignità a tutte le diverse identità sociali e culturali, e un orientamento antiuniversalista volto invece a disconoscere legittimità alle identità minoritarie. Il primo atteggiamento (che va a rinnovare i riferimenti dell’identità di sinistra) si fa promotore della tolleranza, della libertà individuale, del multiculturalismo, mentre il secondo (che va invece a formare l’identità di destra) propugna la xenofobia, l’autoritarismo e il nazionalismo. E’ possibile descrivere questo nuovo cleavage anche in termini di conflitto tra un orientamento valoriale volto a riconoscere 287 uguale dignità a tutti gli individui indipendentemente dalla loro appartenenza sociale, etnica e culturale (universalismo), e un ben diverso orientamento valoriale incentrato sullo schema ingroup/ outgroup, in cui si sostiene che il valore dell’individuo dipende dal gruppo sociale di appartenenza e che ogni persona deve essere giudicata in funzione della sua appartenenza ad una categoria collettiva (antiuniversalismo). Le recenti tendenze empiriche hanno ricevuto una significativa formulazione teorica da parte di Alessandro Pizzorno. Per il sociologo italiano la contrapposizione ideologica tra destra e sinistra non si incarna più nel classico criterio eguaglianza vs diseguaglianza sociale, ma in un nuovo criterio in base al quale gli orientamenti politici fondamentali della società contemporanea possono essere riassunti in orientamenti “inclusivi” ed orientamenti “esclusivi” (Pizzorno 1995). I primi, gli orientamenti “inclusivi”, sono volti ad allargare la sfera del riconoscimento alle più diverse identità sociali e a garantire l’accesso ai diritti sociali, economici, culturali e politici al maggiore numero di soggetti. Gli orientamenti “esclusivi” sono, invece, orientamenti tendenti a restringere l’accesso alle risorse sociali e a disconoscere legittimità alle identità minoritarie. La sinistra si fa portatrice di istanze di tipo “inclusivo” ed “universalista” (voto agli immigrati, parità di diritti religiosi, riconoscimento delle diverse identità sociali, femminismo, rispetto per le diverse preferenze sessuali, cosmopolitismo ecc.), mentre la destra di istanza di tipo “esclusivo” ed “antiuniversalista” (chiusura delle frontiere, trattamento privilegiato per le religioni riconosciute, disconoscimento delle identità omosessuali, nazionalismo ecc.). L’inclusione/esclusione, quale nuova dimensione costitutiva della distinzione destra/sinistra, riesce rendere conto di certe situazioni paradossali e inspiegabili rispetto al tradizionale cleavage destra/sinistra, come appunto la recente preferenza per candidati e partiti dell’estrema destra da parte dei ceti operai, soprattutto in Francia. Questo comportamento, anomalo rispetto al criterio eguaglianza/diseguaglianza, risulta comprensibile se si considera l’attuale atteggiamento ostile dei ceti operai francesi rispetto ai diritti e alle politiche di integrazione verso gli immigrati, in altre parole, un chiaro atteggiamento di “esclusione” (Pizzorno 1995), che riflette la crescita di valori antiuniversalistici presso i ceti 288 popolari francesi2 . Alla luce di tutto ciò appare alquanto riduttivo continuare ad interpretare il cleavage destra/sinistra nel suo senso tradizionale di contrapposizione tra liberalismo e statalismo. I significati e i contenuti della distinzione destra/sinistra sono oggi in profonda trasformazione, anche se attualmente si assiste principalmente ad una crescita della complessità delle dimensioni a cui fa riferimento la dicotomia classica, piuttosto che ad un cambiamento lineare nei contenuti. Da questo punto di vista il mondo giovanile costituisce un osservatorio privilegiato per l’analisi del cambiamento e nella pluralizzazione dei criteri posti alla base della distinzione. La trasformazione dei contenuti della distinzione destra/sinistra si manifesta infatti con maggiore evidenza nei segmenti più giovani della società. L’evoluzione dei temi e delle questioni politicamente cruciali in una società è un processo che si sviluppa seguendo innanzitutto le logiche dall’avvicendamento generazionale, uno dei più potenti “motori” delle dinamiche di trasformazione sociale (Bettin 1999). Inoltre, studiare i contenuti e l’importanza della distinzione destra/sinistra nei giovani offre una sicura prospettiva d’analisi originale, in grado di illuminare aspetti spesso trascurati del rapporto tra giovani e politica e di elaborare ipotesi produttive. La valenza che assume la distinzione destra/sinistra fornisce, infine, utili indicazioni circa l’importanza che continua ad avere nella politica giovanile la dimensione ideologica e i giudizi di valore, ridimensionando così un diffuso luogo comune che ipotizza una crescente deideologizzazione delle giovani generazioni e ad una trasformazione dell’azione politica in termini di azione puramente tecnica e razionale (Tarchi 1994). I dati illustrati qui di seguito riguardano una prima ricognizione dei risultati di una ricerca condotta in un campione di giovaLa ridefinizione dei significati della distinzione destra/sinistra profila quindi un cambiamento dell’oggetto del conflitto politico delle società moderne, la cui posta in gioco consiste più sulla distribuzione delle risorse economiche e dei diritti tra le identità sociali certe (ad es. operai vs. borghesia), ma piuttosto sul riconoscimento stesso delle identità che possono partecipare alla tale distribuzione. In altre parole i conflitti politici smettono di essere essenzialmente conflitti “distributivi” per trasformarsi in conflitti “identitari” o per il “riconoscimento” (Taylor 1992). 2 289 ni (studenti e disoccupati) francesi, italiani e spagnoli. L’analisi metterà in evidenza, in primo luogo, i dati relativi la distribuzione dei giovani lungo l’asse destra/sinistra e l’importanza che viene riconosciuta alla distinzione come categoria politica nei tre paesi. Inoltre, verrà anche ricostruito il profilo sociale che risulta connesso alla distinzione e in particolare la condizione di disoccupazione, l’appartenenza sociale e il livello di istruzione. In secondo luogo, si analizzeranno, limitatamente agli studenti italiani, i contenuti che la distinzione destra/sinistra assume nei giovani. Infine, si individuerà la valenza politica della distinzione, la coerenza tra identità politica e atteggiamenti, nonché le novità che si profilano nell’orizzonte politico-culturale delle giovani generazioni e che emergono attraverso un’analisi dell’autocollocazione rispetto a certi problemi cruciali. 2. La collocazione politica dei giovani in Francia, Italia e Spagna L’analisi è stata condotta, in primo luogo, sottoponendo ad un campione di giovani dei tre paesi la classica richiesta di autocollocarsi lungo un continuum spaziale in dieci posizioni. I dati relativi alla sola autocollocazione sono stati poi arricchiti attraverso un’analisi riservata ai significati attribuiti ai termini di destra e sinistra e all’intensità degli atteggiamenti relativi a questioni significative rispetto al cambiamento delle dimensioni della distinzione destra/ sinistra. In questo modo si è tenuto conto degli aspetti propriamente qualitativi dell’autocollocazione, utili per avanzare ipotesi più appropriate relativamente al tema di come si strutturino in termini di destra e sinistra le identità politiche giovanili. I dati dei tre paesi (cfr. tav. 1) mostrano innanzitutto come la grandissima maggioranza dei giovani si collochi senza difficoltà lungo il continuum destra/sinistra. Ciò conferma che la rappresentazione dell’universo politico in termini di dicotomia destra/sinistra è tutt’altro che in crisi e continua a possedere una sua evidente rilevanza nei giovani europei. Riguardo alla distribuzione dei giovani lungo l’asse destra/sinistra emergono, tuttavia, alcune significative particolarità nazionali. In primo luogo, nei giovani francesi e italiani prevale nettamente la collocazione a sinistra. In secondo luogo, in questi due paesi il centro non costituisce un polo 290 di identificazione molto significativo (la percentuale dei giovani che si colloca al centro è attorno al 15%). Una situazione ben diversa si registra invece in Spagna, dove i giovani mostrano un più chiaro atteggiamento centrista. Un dato comune a giovani dei tre i paesi è invece rappresentato dal minore rilievo assunto dall’autocollocazione a destra. Tavola 1. Collocazione lungo il continuum destra/sinistra (%). In Francia, i giovani senza lavoro tendono a collocarsi più a destra degli studenti, mentre in Italia sono invece gli studenti a mostrare una percentuale di autocollocazione a destra più consistente rispetto ai giovani senza lavoro. Per quanto riguarda la Spagna non si notano nel complesso differenze consistenti tra giovani disoccupati e studenti, tranne il fatto che nei disoccupati i poli estremi del continuum ideologico acquistano maggiore rilievo rispetto agli studenti, quasi che la condizione di disoccupazione favorisca un radicalizzarsi delle identità politiche. Riguardo all’importanza della distinzione destra/sinistra come categoria interpretativa per comprendere le contrapposizioni tra i partiti e le personalità politiche, ma anche in generale le divisioni presenti nella stessa società, emerge chiaramente che i giovani francesi e italiani ne riconoscono la pertinenza, in particolare per le divisioni tra i partiti politici (cfr. tav.2). Tale importanza cala rispetto ai leader e soprattutto rispetto alle differenze politiche tra i cittadini. I giovani, in altre parole, attribuiscono alla distinzione destra/sinistra un valore interpretativo soprattutto nei confronti della politica istituzionale. Per contro, la distinzione appare scarsamente illuminante riguardo a quanto succede nella società civile. An291 che su questo punto si segnalano significative differenze nazionali. A differenza dei giovani francesi e italiani, i giovani senza lavoro spagnoli tendono a non attribuire grande importanza alla distinzione destra/sinistra, soprattutto per interpretare le divisioni partitiche e i leader politici. Tavola 2. La pertinenza della distinzione destra/sinistra: “molto” + “abbastanza” (%)3 Dai dati esposti si può evincere che, dal punto di vista dell’importanza e dell’autocollocazione lungo l’asse destra/sinistra, i giovani francesi e italiani mostrano un profilo sostanzialmente simile, mentre i giovani spagnoli evidenziano caratteristiche differenti. Le due “nazioni cugine” sono contraddistinte da un contesto politico giovanile in cui si rintracciano tutti gli elementi tipici di una caratterizzazione delle forme dell’identità politica in termini di destra e sinistra: la prevalenza dell’appartenenza a sinistra, il poco spazio assegnato al centro come luogo di identificazione politica e il riconoscimento di una significativa pertinenza nell’interpretare le divisioni partitiche e la cultura politica del proprio paese. In Spagna, al contrario, emerge una situazione del tutto differente. Risulta piuttosto scarso il rilievo attribuito alla destra e alla sinistra come categorie significative del conflitto politico e tale atteggiamento è rafforzato dalla prevalente collocazione al centro. E’ probabile che in questa differenza si rifletta inevitabilmente il diverso percorso storico che ha caratterizzato questi tre paesi. La distinzione destra/ sinistra è un prodotto tipico della storia francese, ma che ha anche trovato un terreno estremamente favorevole nel contesto politico 3 292 Per la Spagna mancano i dati relativi agli studenti. italiano. La capacità di radicamento della distinzione nel contesto spagnolo è invece sempre stata assai meno significativa. L’importanza storica della distinzione destra/sinistra nel sistema politico francese e italiano risulta dunque confermata anche dai dati sul mondo giovanile. Ma quali sono gli elementi che, dal punto di vista sociologico, influenzano in questi due paesi l’autocollocazione sull’asse destra/sinistra, la percezione dell’importanza della distinzione e la stessa capacità di autocollocarsi? Per rispondere a queste domande abbiamo preso in considerazione tre diversi fattori: la condizione di disoccupazione, il livello di istruzione e l’estrazione sociale. Riguardo alla collocazione nell’asse destra/sinistra la condizione di disoccupati appare rilevante, anche se non in maniera particolarmente marcata. Innanzitutto, si registra nei due paesi una leggera tendenza alla delegittimazione della distinzione presso i giovani senza lavoro: questi ultimi riconoscono una minore importanza alla distinzione destra/sinistra rispetto agli studenti. Tale differenza di orientamenti tra studenti e giovani disoccupati francesi e italiani acquista maggiore rilevanza se passiamo a considerare la percentuale di chi non sa collocarsi nel continuum destra/ sinistra. I giovani disoccupati francesi “incerti” sono un quarto dell’intero campione (25%), contro solo un 15% di studenti. In Italia esiste una differenza dello stesso segno anche assai meno marcata: i giovani senza lavoro che non riescono a collocarsi sono il 15% (a cui va aggiunto un 6% di non risposte) contro un 11% di studenti (con solo un 4% di non risposte). Considerando complessivamente i dati relativi all’importanza riconosciuta alla distinzione destra/sinistra come categoria interpretativa della politica contemporanea e la percentuale relativa a coloro che non sanno collocarsi, sembra proprio che il mancato inserimento nel mondo del lavoro rappresenti una variabile determinante rispetto alla formazione dell’identità politica giovanile. Ad un’analisi più attenta risulta, tuttavia, che la provenienza sociale e soprattutto il livello di istruzione costituiscono variabili assai più importanti. In primo luogo, i giovani di estrazione sociale più bassa mostrano maggiore incertezza nel collocarsi lungo il continuum destra/sinistra. L’incapacità di collocarsi politicamente da parte dei giovani aumenta, infatti, via via che si scende lungo la scala socia293 le. Se tra i giovani italiani di estrazione popolare (indipendentemente se disoccupati o studenti) la percentuale degli incerti è del 17%, tale percentuale scende drasticamente al 9%, una percentuale ben al di sotto della media dell’intero campione, presso chi proviene dai ceti più elevati. Una situazione analoga si registra presso i giovani francesi: sono il 25% i giovani di estrazione popolare che non sanno collocarsi, contro un 12% di quelli di estrazione sociale elevata. Per quanto riguarda l’identità politica, la percentuale dei giovani che dichiarano di appartenere alla sinistra resta, invece, costante al variare dell’estrazione sociale. Presso i giovani italiani, sia tra chi proviene dai ceti popolari, sia tra chi proviene dai ceti privilegiati, la percentuale di chi si colloca all’estrema sinistra è sempre maggioritaria e attorno al 29%4 . Anche per quanto riguarda i giovani francesi l’estrazione sociale non influenza più di tanto la collocazione lungo l’asse destra/sinistra. Si deve concludere che non esiste un vero e proprio effetto dell’appartenenza di classe nei confronti della collocazione politica dei giovani. L’appartenenza di classe è assai significativa rispetto alla capacità di assumere un’identità politica, ma non riveste alcun ruolo significativo, o quanto meno un ruolo assai più ridotto rispetto al passato, nella scelta dell’identità politica. Sembra dunque appannarsi la classica sovrapposizione tra distinzione destra/sinistra e contrapposizione classe borghese/classe operaia. Più significativo è, invece, l’impatto del livello di istruzione. Se spacchiamo il campione francese e il campione italiano dei giovani disoccupati relativamente al livello di istruzione, si nota chiaramente come i disoccupati più istruiti, laureati o diplomati, possiedono grosso modo le medesime tendenze degli studenti. Si riscontrano, cioè, percentuali abbastanza simili a quelle degli studenti rispetto alla capacità di collocarsi e alla preferenza per la sinistra. Una differenza significativa rispetto agli studenti si regiVa notato, tuttavia, che presso il campione degli studenti italiani al crescere dell’estrazione sociale aumenta la percentuale di chi si colloca a destra: si passa dal 6% presso i giovani di estrazione sociale più bassa, al 12% presso quelli di estrazione elevata. Si tratta, comunque, di percentuali piuttosto scarse, tali da non consentire di ipotizzare un maggiore schieramento a destra da parte di chi proviene dai ceti più elevati. 4 294 stra invece nei giovani disoccupati poco istruiti, nei quali la percentuale di chi non sa collocarsi sale oltre il 56% tra i francesi, oltre il doppio del disoccupati nel loro complesso, mentre in Italia arriva al 25%, vale a dire oltre dieci punti in più rispetto alla media complessiva dei disoccupati. In altre parole, l’incertezza o l’incompetenza a scegliere tra destra e sinistra dipende da un basso livello di istruzione più che dalla condizione di disoccupazione. Si tratta di un risultato che non sorprende, visto che il codice destra/ sinistra richiede elevate capacità cognitive e risulta così un tratto specifico dei soggetti con un elevato livello di istruzione. La disoccupazione, nonostante le sue potenziali caratteristiche di destrutturazione sociale e di appannamento del rapporto tra giovani e politica, influisce in realtà solo marginalmente, o quanto meno in seconda istanza, sulla capacità di definire la propria identità politica. Ciò che conta è piuttosto il livello di istruzione del soggetto. Il livello di istruzione corregge anche l’effetto dell’estrazione sociale sulla capacità di collocarsi, nel senso che gli studenti provenienti dagli strati popolari mostrano una maggiore capacità di collocarsi nel continuum rispetto ai giovani della medesima estrazione ma in possesso di un livello di istruzione più basso. In breve, sono i soggetti più istruiti, indipendentemente se studenti o disoccupati, se di estrazione sociale elevata oppure bassa, a mostrare meno incertezze nel collocarsi a destra o a sinistra. I dati raccolti mostrano, inoltre, che la capacità di collocarsi sull’asse destra/sinistra appare significativamente in correlazione con il coinvolgimento e l’interesse verso la politica (grafico 1). Precisamente, la propensione5 alla politica ha le sue punte più alte nei soggetti con identità politiche forti (la sinistra e la destra estrema), mentre cala al centro e soprattutto tra chi non sa collocarsi lungo l’asse destra/sinistra. In breve, la capacità di collocarsi si accompagna ad un considerevole interesse e coinvolgimento politico. Ciò dimostra che il possedere una rappresentazione della politica in termini di destra/sinistra si lega ad una cultura politica di alto L’attitudine alla politica è stata misurata attraverso un indice costruito mettendo insieme le risposte alle domande relative all’iscrizione ai partiti, alla partecipazione ai movimenti, all’interesse verso l’informazione politica e al grado di coinvolgimento in una discussione politica nelle reti sociali. 5 295 profilo. Al contrario, chi è incerto o si dichiara incompetente sul problema di scegliere tra destra e sinistra evidenzia, invece, alti livelli di disinteresse e di assenza di coinvolgimento politico. L’analisi qui svolta ribadisce quindi il significativo ruolo ricoperto della rappresentazione destra/sinistra nella cultura politica giovanile e confermano l’ipotesi che la capacità di collocarsi nel continuum possiede significative valenze politiche. Il non collocarsi nell’asse destra/sinistra non segnala affatto il rifiuto della distinzione destra/sinistra e il desiderio di disporre di un’altra forma di rappresentazione della politica ritenuta più congrua, piuttosto tale incapacità denuncia una chiara condizione di apatia politica. L’incertezza nello scegliere tra destra e sinistra è la conseguenza della assenza di una qualsiasi relazione verso la politica e dipende ben poco dal fatto che la distinzione destra/sinistra sia diventata anacronistica e priva di significato nella politica contemporanea. Grafico 1. Collocazione sull’asse destra/sinistra e attitudine politica in Francia e in Italia (studenti e disoccupati) Gli istogrammi si riferiscono alla percentuale dei giovani che hanno un punteggio elevato sull’indice di attitudine alla politica. 296 3. La valenza politica della distinzione destra/sinistra nei giovani francesi e italiani Un’ulteriore questione da affrontare riguarda l’esistenza o meno di un certo livello di coerenza tra identità politiche espresse in termini di destra e sinistra e le opinioni e i valori professati concretamente. A proposito del rapporto tra i giovani e la distinzione destra/sinistra si è spesso denunciata la scarsa coerenza nei giovani, quasi che le identità politiche di destra e di sinistra costituiscano un riferimento ben poco consapevole e del tutto slegato dalle loro reali posizioni politiche. Alcune recenti ricerche (Santambrogio 1999) ipotizzano che i giovani tendano ad assumere scelte e opinioni politiche in forma sempre più contingente, mentre, nello stesso tempo, diventa difficile individuare un nesso tra le opzioni politiche e la destra e la sinistra assunte come «sintesi di atteggiamenti», come «serie di prese di posizione su una serie di questioni controverse» (Sartori 1982). E’ impossibile, si sostiene, individuare nei giovani una linea coerente e costante nel tempo di prese di posizione rispetto ad una serie di problemi e in grado di fornire la base per un’identità definibile in termini unitari come di “destra” o di “sinistra”. Altri studiosi hanno invece evidenziato l’emergere di una profonda riformulazione dei significati di sinistra e di destra nel mondo giovanile. Tale riformulazione mira ad allargare le politiche e i valori della sinistra oltre le questioni socio-economiche e a riscrivere il suo atteggiamento verso il mercato e le politiche liberiste (New Left), mentre la destra si riformula come cultura ostile alle strategie di inclusione sociale e animata da valori antiuniversalistici (New Right). In questo contesto di trasformazione, si sostiene, non ha molto senso cercare la coerenza dei comportamenti e degli atteggiamenti politici dei giovani con le immagini tradizionali di destra e sinistra, ormai avviate a scomparire. Piuttosto ciò che conta è cogliere fino a che punto il cambiamento culturale sta prendendo corpo nelle giovani generazioni. Per fare chiarezza su questa questione abbiamo analizzato cinque items relativi a temi attualmente all’ordine del giorno del dibattito politico. In particolare, sono stati scelti tre items che hanno un certo rilievo come elementi di una cultura politica basata sul ruolo dello Stato e l’offerta di servizi pubblici, e che appaiono in 297 grado di cogliere la tradizionale dimensione economica del cleavage destra/sinistra; e due items significativi rispetto all’emergere di una nuova dimensione della contrapposizione destra/sinistra incentrata sul conflitto tra valori universalistici e valori antiuniversalistici. I primi tre items chiedevano al giovane di esprimere il suo grado di accordo rispetto alla privatizzazione della sanità, della scuola e delle reti televisive. Si tratta di temi attualmente al centro di un intenso dibattito pubblico. Il secondo, in particolare, è ovviamente assai sentito da parte degli studenti. I temi offrono la possibilità di misurare la capacità di discriminazione tra destra e sinistra ancora ricoperto dall’atteggiamento verso il ruolo dello Stato e lo spazio da riservare al libero mercato. Per quanto riguarda l’Italia, sul tema della privatizzazione della sanità i giovani che si collocano nell’estrema sinistra si dichiarano prevalentemente contrari6 (sono “piuttosto” e “molto in disaccordo” ben il 73%, contro solo un 12% che si dichiara “abbastanza “ e “molto d’accordo”). Nella sinistra moderata l’andamento dei dati è simile anche se c’è minore radicalismo nelle opinioni. Al contrario, nella destra estrema si tende ad essere “d’accordo” con la prospettiva di privatizzazione (53%). Si registra dunque situazione speculare alla sinistra, anche se già nella destra moderata l’atteggiamento di accordo su questo item mostra un’intensità minore (44%). Relativamente agli altri due items (privatizzazione dell’educazione e possesso dello Stato di reti televisive) non si rintraccia, invece, una netta contrapposizione tra l’identità di destra e quella di sinistra. I due items riescono bene a caratterizzare l’identità di sinistra, in quanto la sinistra estrema e quella moderata tendono in netta prevalenza a concentrarsi su un solo atteggiamento, e precisamente sono sostanzialmente favorevoli al possesso statale di reti televisive (rispettivamente il 63% dei giovani di sinistra si dichiarano “molto” e “abbastanza d’accordo”). Invece, coloro che si collocano nella destra estrema e in quella moderata si dividono esattamente a metà tra favorevoli e contrari. Se è vero, infatti, che il loro livello di disaccordo è molto più elevato rispetto a chi si schiera a sinistra (e precisamente, il 37% per la destra moderata, e 6 298 I dati di seguito esposti si riferiscono agli studenti. il 42% per la destra estrema), è anche vero che un buon 41% dei giovani che si collocano nella destra moderata, più un’analoga percentuale in quella estrema, si dichiara “abbastanza” e “molto d’accordo”. La stessa situazione si riscontra rispetto alla privatizzazione dell’educazione. Ancora una volta, la sinistra si concentra su un atteggiamento (si dichiarano “piuttosto” e “del tutto in disaccordo” ben il 88% dei giovani di estrema sinistra e l’81% dei giovani della sinistra moderata), mentre la destra estrema e moderata si divide in due gruppi pressochè eguali di favorevoli e contrari, con una significativa percentuale di incerti (26%). Questi risultati non devono essere letti nel senso che nel mondo giovanile italiano la sinistra manifesta una fisionomia abbastanza organica e compatta mentre la destra appare un’identità piuttosto debole, in quanto raccoglie dentro di sé orientamenti diversi e spesso contrapposti. Piuttosto, si deve concludere che le questioni relative al ruolo dello Stato e del mercato, e soprattutto gli ultimi due items, sono più utili a individuare l’identità di sinistra che quella di destra; servono cioè ha chiarire le preoccupazioni e gli orientamenti che caratterizzano la sinistra, mentre dicono poco sui contenuti dell’identità di destra, su che cosa significhi, in termini di orientamenti e di credenze, essere di destra. Si può inoltre sostenere che anche in Italia si stia assistendo ad una significativa convergenza tra destra e sinistra rispetto al tema dell’interventismo statale e alle altre questioni relative alla tradizionale dimensione economica del cleavage destra/sinistra, come mostra la tendenziale convergenza tra le ali moderata di destra e sinistra. I due items relativi all’emergere di valori antiuniversalistici mostrano una situazione più complessa. La questione dell’immigrazione fa emergere chiaramente e per la prima volta una fisionomia più compatta della cultura di destra e soprattutto relativamente a chi si colloca nell’estrema destra. I giovani di destra estrema si dichiarano “abbastanza” e “del tutto d’accordo” con il blocco dell’immigrazione per il 79%; mentre tra chi si colloca nella destra moderata la percentuale è del 60%. Ma neppure in questo caso si coglie un’autentica linea di demarcazione tra giovani di destra e giovani di sinistra, in quanto i giovani di sinistra non sono schierati per il disaccordo in maniera altrettanto massiccia. La sinistra, moderata ed estrema, solo per metà si dichiara contro il blocco dell’immigrazione (i giovani di sinistra estrema “del tutto in di299 saccordo” e “abbastanza in disaccordo” sono complessivamente il 51%), con una significativa percentuale di incerti, che nella sinistra moderata arriva al 30%. Anche la questione relativa alla difesa dell’identità nazionale conferma la presenza di una destra compatta, ma nello stesso tempo evidenzia la completa assenza di contrapposizione tra destra e sinistra. Infatti, se è vero che ben il 92% dei giovani di destra estrema sono “abbastanza accordo” e “molto d’accordo”, questo stesso atteggiamento si rintraccia nell’82% dei giovani di sinistra estrema. Analoghe percentuali, oltre l’80%, si riscontrano anche tra chi si colloca al centro, nella sinistra e nella destra moderata. Questi dati suggeriscono che ci troviamo di fronte ad una vera e propria valence issue (Stokes e Di Iulio 1993): la difesa dell’identità nazionale non provoca nessuna netta divisione ideologica, non introduce affatto un tema politico che spacca in due parti il mondo giovanile, ma costituisce piuttosto un principio sul cui valore tutti sono d’accordo. In sintesi, quello che emerge da questa analisi è che appare difficile rintracciare una chiara contrapposizione di vedute tra destra/ sinistra nei giovani italiani. Le identità giovanili si esprimono in termini di destra e di sinistra, ma la destra e la sinistra appaiono costruite attorno a questioni diverse: la sinistra attorno all’intervento statale, mentre la destra attorno alle questioni dell’immigrazione e dell’identità nazionale. Destra e sinistra non costituiscono due orientamenti sistematicamente contrapposti su una serie di questioni cruciali, ma indicano soprattutto una diversa sensibilità per certi temi piuttosto che per altri. Da questo punto di vista, il confronto con i dati francesi aiuta a cogliere quanto dipende dalle specificità nazionali e quanto invece è legato all’attuale processo di riformulazione dei criteri che stanno alla base della distinzione destra/sinistra e delle principali questioni politiche nei due paesi. Rispetto agli items prima considerati, gli studenti francesi, similmente a quelli italiani, fanno registrare l’assenza di una sistematica contrapposizione tra l’essere di destra e l’essere di sinistra per quanto riguarda le questioni relative al ruolo dello Stato e ai compiti del mercato. Gli studenti francesi che si collocano a sinistra, estrema e moderata, sono in larghissima prevalenza schierati contro la privatizzazione della sanità e della scuola, ma lo stesso atteggiamento si registra almeno nella 300 metà dei giovani collocati a destra. I giovani di destra si dividono esattamente a metà tra favorevoli e contrari, a testimonianza di una marcata eterogeneità interna, almeno rispetto a questi temi. Inoltre, a differenza di quanto succede nei giovani italiani, nei giovani francesi non ci sono differenze significative tra destra e sinistra rispetto alla questione relativa al possesso da parte dello Stato di reti televisive. Sia i giovani di destra sia quelli di sinistra sono in prevalenza contrari, un dato che segnala una significativa convergenza su un opzione liberista da parte della sinistra e della destra 7 . Negli items relativi al blocco degli immigrati e alla tutela dell’identità nazionale si registra invece una significativa divergenza rispetto alla situazione italiana. Le due questioni dividono chiaramente i giovani di destra da quelli di sinistra. Il 76% degli studenti francesi collocati a sinistra si dichiara in disaccordo con il blocco dell’immigrazione. Al contrario, oltre il 90% dei giovani di destra sono schierati a favore. Inoltre, la quantità di incerti sull’atteggiamento da assumere su questo item, molto alta nel caso italiano, è nei giovani francesi piuttosto bassa. Ciò dimostra l’importanza di assumere una decisione su tale problema, fattore che è direttamente legato alla forte valenza politica della questione “immigrati” in Francia. I due opposti punti di vista rispetto alla questione “immigrazione” riflettono l’esistenza di un chiaro conflitto ideologico tra valori universalistici e valori antiuniversalistici, il quale divide in due poli contrapposti i giovani in base all’identità politica a cui si sentono di appartenere, individuando così effettivamente un criterio distintivo tra destra e sinistra. Lo stesso accade per la questione relativa alla difesa dell’identità nazionale. Se nei giovani italiani la difesa dell’identità nazionale costituiva una valence issue, nei giovani francesi assume invece le tipiche caratteristiche di una position issue che demarca l’appartenenza alla destra e alla sinistra. Ben il 95% dei giovani di destra sono schierati a favore della difesa dell’identità nazionale, a cui si E’ anche possibile, tuttavia, che in Francia la convergenza tra destra e sinistra si spieghi con il fatto che il pluralismo nel sistema dei media non appare una questione prioritaria nell’agenda politica e nel dibattito pubblico, o almeno non ha la stessa salienza che ricopre nel contesto italiano, dove il più importante imprenditore televisivo nazionale ha recentemente assunto un ruolo politico di primissimo piano nello schieramento di destra. 7 301 contrappone un buon 63% di giovani di sinistra che si dichiara contrario (cfr. tavola 3). Tavola 3. “Lo Stato deve tutelare l’identità nazionale”. Confronto tra Italia e Francia (in %) La differenza che la questione dell’identità nazionale assume in Francia e in Italia dipende direttamente dal fatto che nei giovani francesi la difesa dell’identità nazionale è diventata una questione letta chiaramente in termini di inclusione/esclusione, mentre non è così in Italia. Il tema dell’immigrazione è assurto al centro del dibattito politico attraverso l’attività di propaganda del Front National, mentre è con il dibattito avviato da uno dei principali protagonisti della cosiddetta Nuova Destra francese, Alain de Benoist, che anche la difesa dell’identità francese è diventata una questione politica fondamentale8 . Il dibattito scaturito dall’originale impostazione di de Benoist ha avuto fondamentalmente due effetti. In primo luogo, ha favorito il formarsi di una nuova area poli- 8 Il contributo di de Benoist sul tema dell’identità nazionale è da considerare senz’altro distinto e ben poco coincidente con la retorica marcatamente razzista di Le Pen. A differenza di quest’ultimo, de Benoist non si concentra sulla questione “immigrati”, anzi per lo studioso francese l’immigrazione dal Terzo Mondo non costituisce affatto un problema per la Francia (Adler 1997). De Benoist rivolge la sua attenzione sulla crescente incertezza dei contenuti definitori dell’identità francese, la cui crisi è dovuta non tanto all’immigrazione magrebina quanto all’americanizzazione della cultura francese ed europea in generale (de Benoist 1986). 302 tica, la “Nuova Destra”, che ha proposto una rilettura della contrapposizione destra/sinistra in termini del tutto nuovi e, precisamente, tra un orientamento volto a privilegiare la difesa delle diverse identità nazionali e la loro sopravvivenza storica (la destra) e un orientamento favorevole all’universalismo culturale di origine giacobina (la sinistra) (Adler 1997; de Benoist 1986). In secondo luogo, il valore della difesa delle differenze nazionali proposto da de Benoist ha innescato un processo di riformulazione della tematica razzista del Front National. Il suo leader, Jean Marie Le Pen, ha recentemente abbandonato la sua tradizionale enfasi sulle gerarchie razziali (razzismo classico) per rifondare la prospettiva anti-immigrazione attraverso il riferimento all’irriducibilità delle differenze culturali. Per definire questo mutamento culturale del Front National si è introdotta l’espressione di «neo-razzismo differenzialista» (Taguieff 1991), un nuovo modello di ideologia razzista in cui il rifiuto dello straniero non si fonda più sulla distinzione tra razze superiori e razze inferiori per basarsi sulla rivendicazione del diritto all’omogeneità culturale. Ciò che viene condannato è l’idea della convivenza e della mescolanza tra identità etniche e culturali distinte, in altre parole il rifiuto del multiculturalismo come progetto valido per la società francese. La recente evoluzione del dibattito ideologico francese ha comportato l’attribuzione di una chiara valenza di destra all’atteggiamento di difesa dell’identità nazionale. Non deve stupire allora che i giovani francesi che si dichiarano di sinistra tendano a rigettare la difesa dell’identità nazionale in quanto vi scorgono chiari significati e riferimenti di destra (“esclusivi”, per dirla con Pizzorno, o antiuniversalistici), che invece non vengono percepiti dai giovani di sinistra italiani in quanto tali riferimenti sono del tutto assenti dal loro dibattito politico nazionale. Questi dati sono da leggere insieme a quanto viene registrato dalle recenti ricerche sul cambiamento dei valori che accompagna il ricambio generazionale in Francia. In particolare, uno dei dati più sorprendenti del mutamento culturale nel mondo giovanile francese è l’espandersi di valori e atteggiamenti antiuniversalistici che ha costretto gli studiosi francesi a ripensare l’ipotesi classica della crescente diffusione dei principi liberali (Grunberg e Schweisguth 1997). Il liberalismo culturale, che è sembrato per lungo tempo costituire il motivo dominante delle giovani generazioni francesi, 303 di fatto perde significativamente terreno sulle questioni dell’immigrazione e del rapporto con le altre culture. Xenofobia, rifiuto dell’“altro”, atteggiamenti autoritari, occupano sempre maggior spazio nel sistema valoriale di importanti segmenti della gioventù francesi. E’ proprio questo antiuniversalismo di fondo che contraddistingue l’identità della destra estrema e che spiega il crescente voto giovanile a Le Pen (Boy e Mayer 1997). Ma per contrasto, tutto ciò rende più consapevoli le altre parti del mondo giovanile circa il valore dell’universalismo e del liberalismo culturale, e in questo modo viene favorito l’aggiornamento del patrimonio valoriale della sinistra. Le categorie politiche si aggiornano sui nuovi temi e problemi che agitano le società moderne e le identità politiche si arricchiscono di conseguenza. Si profila, quindi, l’emergere di un cleavage ideologico autonomo rispetto alla dimensione tradizionale di destra/sinistra incentrata sull’opposizione tra liberismo e statalismo. Il nuovo cleavage riscrive la distinzione destra/sinistra in termini di contrapposizione tra sistemi di valori differenti (antiuniversalismo e universalismo) e appare in grado di riflettere la centralità politica che oggi assume in Francia la questione della società multiculturale. 4. Identità politiche e identità sociali nella cultura politica italiana L’importanza della rappresentazione destra/sinistra nella politica moderna è dimostrata dalle recenti vicende italiane quando, a partire dalla metà degli anni Novanta si è assistito ad una crescita dell’interesse verso la dicotomia destra/sinistra in occasione dell’apertura di una profonda fase di ridefinizione degli attori politico-partitici. La rinascita di interesse è stata interpretata come l’esito inevitabile del processo di crisi delle ideologie storiche e della conseguente riformulazione dei profili politico-programmatici dei principali partiti (Barbano 1997). Come è noto, tale processo ha assunto in Italia forme estreme, giungendo a modificare radicalmente l’intero sistema partitico nazionale. Non ha caso si è parlato di “terremoto politico” per descrivere la transizione avvenuta intorno al 1994, a cui è poi seguita una lunga fase di lenta e incerta ricomposizione. La scomparsa di importanti attori partitici (la Democrazia Cristiana, il Partito Socialista ecc.), la totale ride304 finizione di altri (il Partito Comunista che diventa PDS e poi DS) e la nascita di formazioni politiche completamente nuove (Forza Italia, i Verdi e la Lega Nord) non poteva non produrre nella società italiana un’intensa richiesta di nuovi e validi riferimenti utili per orizzontarsi nel nuovo quadro politico che veniva a delinearsi. A tutto ciò va aggiunto anche la fine del sistema elettorale proporzionale e il varo di un sistema tendenzialmente maggioritario che ha introdotto per la prima volta la logica della competizione tra due poli. Ma la ritrovata importanza della distinzione destra/sinistra nella cultura italiana degli anni Novanta si lega anche a ancor più profondi processi sociali, iscritti nelle specifiche dinamiche che hanno caratterizzato il recente mutamento politico italiano. Il contesto italiano è sempre stato considerato, ad esempio rispetto alla Francia, poco in linea con una rappresentazione delle opinioni politiche e della cultura politica in termini di destra e sinistra. Dal punto di vista storico-sociale questa particolarità italiana è fondamentalmente riconducibile a due ragioni: l’esistenza di una destra e di una sinistra di tipo “estremo” e ai limiti della legittimità democratica (una sinistra comunista e una destra filofascista) e per questa ragione non perfettamente coincidenti con il modello di destra e di sinistra funzionali ad un regime democratico9 ; e la presenza di un forte legame tra identità sociali e identità politiche. Per lungo tempo, la cultura politica italiana è stata contrassegnata dalla presenza di un radicamento partitico di tipo subculturale. Tale radicamento ha contribuito ad assicurare la riproduzione del consenso politico nel susseguirsi delle generazioni, ma al prezzo di rendere la politica assai poco differenziata dalla sfera sociale. L’assenza di una chiara dinamica destra/sinistra era la conseguenza 9 Storicamente, la destra estrema e la sinistra estrema hanno sempre avuto come loro tratto fondamentale la volontà di puntare al superamento della divisione politica e di ricostruire la perduta unità del corpo sociale. In questo senso non rappresentano i poli idonei per incarnare la logica della democrazia. Al contrario, la destra e la sinistra democratiche si caratterizzano per l’accettazione del conflitto e il riconoscimento della legittimità della contraddizione. Il prezzo della trasformazione dei due poli da antidemocratici a democratici consiste nella perdita della forza delle passioni politiche. Ma quello che hanno perso in termini di «intensità mobilitatrice», la destra e la sinistra lo hanno guadagnato in termini di «funzionalità alla democrazia» (Gauchet 1991). Questa riflessione si adatta perfettamente alla descrizione del cambiamento politico avvenuto in Italia negli anni Novanta. 305 più immediata della difficoltà che incontrava l’affermarsi di una sfera autonoma della politica rispetto alle appartenenze sociali. Ciò era dimostrato dalla presenza, maggioritaria in molte parti del paese, di uno specifico partito subculturale di matrice confessionale, la Democrazia Cristiana, la cui identità, fondamentalmente sociale prima che politica, produceva un terzo polo di identificazione, il “centro”, e impediva la possibilità di una rappresentazione della politica italiana in termini di distinzione-competizione tra destra e sinistra. Gli anni Novanta segnano un passo importante verso il superamento di questa situazione. Si rompono i vecchi legami sociali e si dissolvono le vecchie identificazioni subculturali, con la conseguente crisi del “centro” cattolico che si ripartisce, arrendendosi ad una logica chiaramente politica, tra la destra e la sinistra. Soggetti nuovi come il partito dei Verdi, o anche la stessa Lega, che mostra ancora la presenza di una certa continuità tra identità sociali e identità politiche, sono costretti a scegliere se collocarsi a destra oppure a sinistra. Infine, nascono una sinistra e una destra tendenzialmente funzionali al gioco democratico, come prova il fatto che si sperimenta per la prima volta in Italia la logica dell’alternanza al Governo. In virtù del delinearsi per la prima volta di una sfera politica autonoma dalla sfera sociale, e anche in virtù della completa assimilazione della logica democratica da parte di tutti i partiti, negli anni Novanta si verifica in Italia, anziché la perdita di significato e di importanza, la prima autentica applicazione della dicotomia destra/sinistra come linguaggio specifico degli orientamenti e dei comportamenti politici. Questa ricostruzione macrosociologica delle dinamiche propriamente partitiche rispecchia quanto è avvenuto a livello microsociologico e specialmente nelle generazioni che hanno cominciato a confrontarsi con il problema della formazione della propria identità politica proprio negli anni in cui si è assistito a questa trasformazione, vale a dire i giovani. I riferimenti politici fondamentali dei giovani non possono non essere stati significativamente toccati da questa svolta della politica italiana. In un’ottica tradizionale ci si aspettava che la crisi delle ideologie storiche e delle identificazioni politiche totalizzanti e a forte intensità mobilitatrice ridimensionasse in qualche modo l’importanza della distinzione destra/sinistra nei giovani. Al contrario, anche se è vero che le 306 giovani generazioni appaiono disincantate verso le ideologie storiche e le appartenenze tradizionali, proprio in virtù di questi processi la distinzione destra/sinistra ha rafforzato la sua importanza e si è trasformata nel principale patrimonio simbolico a disposizione dei giovani per rapportarsi alla politica democratica. 5. Significati e dimensioni della distinzione destra/sinistra nei giovani italiani Per quanto riguarda i significati attribuiti dai giovani alla distinzione destra/sinistra si segnala il carattere polisemico e la pluralità di criteri e dimensioni (tavola 4). Esattamente, sono emerse quattro diverse rappresentazioni della distinzione destra/sinistra diffuse nei mondo giovanile italiano. E’ assai significativo che le risposte dei singoli intervistati tendono ad offrire una concezione di destra e una concezione di sinistra speculari tra loro, vale a dire definite in base allo stesso criterio di distinzione (cfr. tavola 5). Tavola 4. I contenuti attribuiti alla destra e alla sinistra riassunti in quattro dimensioni fondamentali 307 Tavola 5. Le dimensioni della distinzione destra/sinistra (percentuali calcolate sul totale del campione) La prima dimensione, che si rintraccia in una porzione considerevole di giovani (31,4%), offre una rappresentazione della distinzione destra/sinistra in termini economico-sociali e del conflitto ideologico lungo la contrapposizione eguaglianza/diseguaglianza. In questa prima rappresentazione la destra e la sinistra simbolizzano due opposte strategie di politica economica, due interessi sociali antitetici e due classi sociali contrapposte. E’ anche possibile individuare nelle diverse risposte una componente valoriale e una componente relativa alle opzioni politiche in cui si articolano le rappresentazioni sociali della destra e della sinistra. La sinistra si presenta sul piano dei valori con i tratti dell’“egualitarismo”, della “difesa dei ceti poveri”, e dell’“eliminazione dei privilegi”; mentre sul piano delle opzioni politiche si caratterizza per “Stato sociale”, “interventismo”, “assistenzialismo”, “spesa sociale”, “pensioni”, “sindacalismo”, “statalismo”. La sinistra risulta poi connessa dal punto di vista sociale con la “classe operaia”. Come si vede si tratta di una definizione di sinistra che ricalca decisamente l’immagine tradizionale della sinistra comunista, socialista e socialdemocratica, in quanto viene legata alle questioni del Welfare State e della rappresentanza degli operai o dei ceti deboli in generale. La destra appare invece denotata, a livello valoriale, come “liberalismo”, “libertà individuale”, “self made man”, “elitismo”; mentre sul piano delle opzioni politiche viene descritta con espressioni come “privatizzazione”, “liberismo”, “mercato”, “meno stato”, “più spazio all’iniziativa individuale”, “tassazione meno onerosa”. Dal punto di vista della classe, si fa spesso men308 zione alla “difesa dei ceti privilegiati” e alla “difesa degli interessi imprenditoriali”. In altre parole si tratta della destra “liberista”, quale tradizionale contropartita della sinistra “sociale”. Nella seconda dimensione individuata la sinistra cessa di essere il fronte politico rivolto unicamente a realizzare l’eguaglianza delle condizioni sociali per diventare invece l’alfiere del “pacifismo”, della “multietnicità”, della “difesa delle minoranze”, dello “spazio alle donne”. In questo stesso gruppo di risposte la destra viene descritta in termini di “patriottismo”, “nazionalismo”, “ordine”, “limitazioni all’accesso degli extracomunitari”, “chiusura delle frontiere”, “razzismo” e “xenofobia”, “minore tolleranza verso le minoranze”. Gli elementi richiamati in questo gruppo di definizioni della sinistra sottintendono chiaramente un’opzione favorevole verso un sistema di valori di tipo universalista. Al contrario, gli elementi usati per descrivere la destra appaiono invece aver in comune valori antiuniversalistici. In tal modo, tale dimensione della distinzione destra/sinistra può essere facilmente ricondotta alla contrapposizione tra valori universalistici e valori antiuniversalistici e al criterio inclusione/esclusione cui abbiamo già fatto cenno. Tale dimensione è indicata dal 12,5% delle risposte e si affianca al criterio eguaglianza/diseguaglianza in un altro 5,1% di giovani. Il terzo criterio tematizza destra e sinistra lungo la distinzione tra individualismo e solidarietà. Alla destra viene attribuita una valenza individualista: “individualismo”, “egoismo”, “maggiore attenzione e valorizzazione dell’iniziativa personale”, ma anche “libertà di affermare la propria differenza”, mentre la sinistra si identifica più con il momento collettivo: l’“azione collettiva”, lo “stare insieme”, la “solidarietà”, ma anche la “massificazione” e “l’appiattimento dell’individualità”. Il quarto modo che viene evidenziato dai dati sovrappone la distinzione tra sinistra e destra a quella tra progresso e conservazione. Si tratta, tuttavia, di una dimensione assai poco significativa (5,1%). Inoltre, nel complesso non sempre le risposte collocano la sinistra nell’area del mutamento e la destra in quella della conservazione. Spesso è la sinistra a essere identificata con la “stasi”, oppure è “rivoluzionaria (una volta)”, mentre la destra rappresenta l’“evoluzione” e il “cambiamento”, confermando così la tendenza ad invertire il rapporto tra destra/sinistra e conservazione/ 309 progresso evidenziata dalle più recenti ricerche sociologiche. Le risposte relative ai contenuti di destra e sinistra acquistano maggiore chiarezza analitica se rapportati alla collocazione degli intervistati. A questo proposito vanno sottolineati due aspetti. In primo luogo va tenuto conto che una parte delle risposte si riferiscono all’aspetto denotativo della distinzione destra/sinistra, nel senso che l’intervistato si ferma all’aspetto strettamente cognitivo del problema, limitandosi ad indicare quali elementi e contenuti a suo avviso caratterizzino e distinguano i due poli politici. In molte altre risposte si segnala, invece, l’esistenza di una connotazione, di un giudizio positivo o negativo piuttosto che un uso neutro dei termini impiegati per definire la destra e la sinistra. Le connotazioni, positive o negative, presenti in queste definizioni dipendono dall’identificazione dei giovani nella destra oppure nella sinistra. Ad esempio, la sinistra diventa “tolleranza”, “apertura mentale”, “valori sociali alternativi”, presso i giovani di sinistra, e “lassismo”, “troppa tolleranza”, “abbattimento della morale”, “disordine” presso i giovani di estrema destra. I tratti con cui si descrivono le identità politiche rimangono cioè comuni sia ai giovani di destra che a quelli di sinistra, ciò che cambia è invece il giudizio che viene conferito a quei tratti. In secondo luogo, anche le rappresentazioni di destra e di sinistra nel loro complesso tendono a differenziarsi in base alla collocazione sul continuum destra e sinistra. Dai dati illustrati nelle tavole 5 e 6 si può vedere come risulti prevalente presso tutti i giovani la rappresentazione della distinzione destra/sinistra basata sulla contrapposizione tra una “sinistra sociale” e una “destra liberista”. Tuttavia, ciò non avviene in maniera uniforme ma si riscontrano significative differenze. La “sinistra universalista”, la sinistra definita a partire dai valori di tipo universalista e contrassegnata dalle questioni della New Politics (ecologia, pacifismo, tolleranza, accettazione del pluralismo etnico etc.) è più presente tra i giovani che si collocano all’estrema sinistra e meno tra quelli che si collocano nella sinistra moderata, a cui si aggiunge il fatto che questi giovani tendono a descrivere la destra soprattutto in termini di valori antiuniversalistici (nazionalismo, xenofobia etc.). I giovani che si collocano nella sinistra estrema, inoltre, insistono meno sugli aspetti della sinistra sociale, sulla solidarietà e sulla dimensione collettiva, e si aprono di più sul valore dell’autonomia per310 sonale, in genere un elemento riconosciuto alla destra. In altre parole, tra i giovani della sinistra estrema tende a farsi largo un’immagine della sinistra assai rinnovata rispetto ai tratti tipici della tradizione ideologica socialista e comunista, mentre la sinistra moderata mostra una sostanziale continuità con il passato sia rispetto ai temi sia rispetto ai valori. Per quanto riguarda l’altro polo ideologico, la destra rappresentata in termini di valori come “ordine”, “nazione”, “autorità”, quella che abbiamo definita la “destra antiuniversalista”, risulta più diffusa tra coloro che si collocano all’estrema destra piuttosto che nella destra moderata. Inoltre, nella destra estrema appare significativa la percentuale di coloro che tendono a rappresentare la sinistra attraverso semplici attributi negativi e non attraverso specifici contenuti. Tavola 6. Elementi caratterizzanti la destra rispetto alla collocazione nel continuum destra/sinistra (%) Totale Tavola 7. Elementi caratterizzanti la sinistra rispetto alla collocazione nel continuum destra/sinistra (%) 311 Va anche notato che i soggetti che negano esplicitamente l’esistenza di differenze tra destra e sinistra sono quelli che si collocano al centro, quasi a rivendicare polemicamente l’autonomia del centro come polo politico alternativo. Si tratta comunque di una minoranza, in quanto i cosiddetti “centristi” riescono in genere a definire la destra e la sinistra, indicando soprattutto i significati più tradizionali (la dimensione sinistra sociale vs destra libertaria). Gli indecisi spiccano invece, e c’era da aspettarselo, come il gruppo che maggiormente non è in grado di indicare i contenuti dei termini destra e sinistra. Questo dato ribadisce l’ipotesi che l’indecisione nel collocarsi si lega all’assenza di informazione politica piuttosto che al rifiuto della rappresentazione dell’universo politico in termini di contrapposizione destra/sinistra. Tirando le somme, nelle ali estreme è più presente, rispetto ad altri luoghi del continuum, la seconda dimensione della distinzione destra/sinistra sopra individuata (valori universalistici vs valori antiuniversalistici). Ciò sta ad indicare che la contrapposizione ideologico-valoriale tra la tolleranza e il multiculturalismo, da una parte, e il nazionalismo e la “lotta contro l’immigrazione”, dall’altra, tende a dare luogo ad identità politiche più nette e quindi più lontane tra loro. Inoltre, la presenza di definizioni esclusivamente negative dell’identità avversaria nelle ali estreme del continuum fa si che queste ultime costituiscano il luogo in cui lo scontro tra le diverse identità politiche si fa più duro e giunge a decretare il disconoscimento della legittimità dell’identità rivale. Al contrario, la contrapposizione tra politiche dell’eguaglianza e politiche liberiste tende verso un conflitto politico più moderato e con identità meno lontane tra di loro. Nel complesso, va evidenziato come nei giovani italiani il criterio tradizionale dell’eguaglianza/diseguaglianza continui ad essere quello che dà prevalentemente contenuto alla distinzione destra/sinistra, palesando così la considerevole continuità storica della cultura politica italiana. La scomparsa delle contrapposizioni ideologiche e dei partiti che in passato hanno dato luogo a intense mobilitazioni e a forti identificazioni, come appunto l’ideologia e il Partito Comunista, non si è affatto tradotta in un declino dei valori e delle questioni che essi hanno posto al centro della cultura politica italiana. In altre parole, la rappresentazione in termini economici del cleavage destra/sinistra sembra essere ancora 312 viva nella società italiana, nonostante si siano recentemente modificati, in forma anche radicale, i profili programmatici e le identità degli attori partitici che l’hanno storicamente incarnata. Inoltre, i nostri dati sembrano indicare che il “conflitto distributivo”, rappresentato dalla distinzione destra/sinistra basata sulla dimensione economica, appare più funzionale alla politica democratica e al suo procedere attraverso negoziazioni e compromessi, mentre il conflitto relativo al sistema di valori e al riconoscimento delle identità minoritarie, rappresentato dalla distinzione destra e sinistra basata sul criterio inclusione/esclusione, appare di gran lunga più intenso. Il conflitto tra sistemi di valori stenta ancora ad emergere nel contesto italiano, ma ciononostante già si preannuncia come un’importante prova per la capacità regolatrice della cultura democratica. Attraverso un sotto-campione si sono anche sondati gli elementi di continuità e di differenze tra le generazioni politiche italiane dal punto di vista della rappresentazione destra/sinistra. A questo proposito, in primo luogo va segnalata la grande importanza del centro come luogo di identificazione politica nella generazione dei genitori rispetto a quella dei figli (tavola 8): i genitori che si collocano al “centro” sono ben il 22% contro solo il 9% dei figli. Nella generazione dei genitori il “centro” costituisce un polo fondamentale dell’identificazione politica e in quanto tale rende impossibile l’esplicitarsi di un’autentica dialettica tra destra e sinistra. Nei figli questa situazione appare invece superata: lo spettro delle identità politiche vede ormai come marginale il posizionarsi al centro, realizzando così la completa esplicitazione della dialettica destra/sinistra. A testimonianza della diversa salienza e significato che ha il centro nella generazione dei genitori rispetto a quella dei figli, va notato come il collocarsi al centro nella generazione non coincida affatto con un atteggiamento di disinteresse verso la politica, come è invece nel caso dei figli. I livelli di interesse e coinvolgimento politico dei genitori che si collocano al centro non sono affatto bassi come nel caso dei figli che si collocano nella stessa posizione. Ma quale è la radice di questa rappresentazione a tre poli della politica italiana nella generazione dei genitori? Come ipotizzato precedentemente, è l’assenza di una differenziazione tra la sfera sociale e la sfera politica tipica della formazione politica degli adulti 313 Tavola 8. Collocazione dell’asse destra/sinistra: confronto tra figli e genitori (%) a produrre questa situazione. Se si va a guardare la collocazione nel continuum destra/sinistra rispetto all’identità religiosa si vede come nei genitori i due fenomeni siano fortemente correlati (cfr. tavola 9): i genitori che si dichiarano cattolici praticanti si collocano in prevalenza al centro (37%) e, in generale, il centro è costituito in larga prevalenza da cattolici e in particolare da cattolici che si definiscono praticanti. Nei genitori l’appartenenza religiosa produce l’appartenenza politica e per questa ragione si concentrano al centro, concepito e rivendicato come identità politica distinta dalla sinistra, a cultura laico-comunista, e dalla destra, a cultura laico-nazionalista. Nei figli, al contrario, l’appartenenza religiosa non determina più quella politica, e difatti i cattolici praticanti risultato distribuiti lungo tutti i segmenti del continuum destra/sinistra. Anzi, solo il 14% dei giovani cattolici praticanti si collocano al centro, contro un 20% che opta per l’estrema sinistra e un 26% che sceglie la sinistra moderata. La forza del centro come identità politica nella generazione dei genitori va dunque interpretata come conseguenza della scarsa autonomia della sfera politica rispetto alla sfera sociale tipica della cultura politica italiana fino a poco tempo fa. Essere cattolico significa nei genitori assumere una posizione politica particolare ed equidistante dalla destra e dalla sinistra: il centro. Nei figli invece questo processo appare ormai in declino: l’essere cattolico non è più un fattore predittivo della collocazione e dell’identità politica dell’individuo, ma anzi l’identità politica appare del tutto sganciata dall’appartenenza religiosa. 314 Tavola 9. Collocazione destra/sinistra e pratica religiosa: distinzione tra genitori e figli (%) Il peso dell’appartenenza di classe sulla collocazione politica sia dei genitori che dei figli appare, invece, un dato più problematico. Come abbiamo già accennato, dai dati analizzati risulta che l’identità politica dei giovani tende nel complesso a essere sganciata dall’appartenenza di classe, tuttavia, esistono segnali di un certo radicamento dell’identità di destra e dell’identità di sinistra in precisi gruppi sociali. L’appartenenza alla sinistra decresce passando dai giovani che provengono da famiglie delle classi popolari (meno ricche e istruite) ai giovani che provengono da famiglie della classe superiore (più ricche e istruite); mentre l’appartenenza alla destra ha un andamento contrario – cresce passando dalle classi popolari alle classi superiori. Si tratta, come abbiamo già rilevato, di tendenze che non esprimono affatto una vera e propria polarizzazione tra le classi sociali tale che i giovani che provengono dalle classi popolari sono schierati in maniera compatta a sinistra, mentre quelli che appartengono alle classi medio alte si collocano a destra, dato che anche nelle classi medie e alte la percentuale dei giovani che si identificano con la sinistra è quasi il doppio di quella dei giovani che dichiarano di appartenere alla destra. 315 L’identità politica delle giovani generazioni non va intesa come qualcosa che si definisce a partire dall’identità sociale. Passando da una classe sociale ad un’altra tende a cambiare il tipo di rappresentazione che viene attribuita alla destra e alla sinistra. La rappresentazione sociale di destra e sinistra presente nelle diverse classi mostra un andamento tale che, passando dai giovani delle classi popolari ai giovani delle classi alte, le rappresentazioni della destra “liberista” e della sinistra “sociale” decrescono. La rappresentazione della sinistra “sociale” costituisce, tuttavia, nel complesso un contenuto culturale socialmente diffuso e trasversale rispetto alle classi sociali piuttosto che un modello tipico delle classi più basse e legato alla loro specifica identità politica. Infatti, se è vero che il 51% dei giovani che provengono da famiglie di classi popolari indica una rappresentazione “sociale” della sinistra, questa percentuale è comunque maggioritaria e superiore al 40% nei giovani che provengono da famiglie di classi elevate. La concezione della sinistra come difesa dei deboli, come giustizia sociale dipende più da una socializzazione politica tradizionale, dalle rappresentazioni sociali dominanti nella cultura italiana piuttosto che dalla proiezione dei propri interessi di classe. Combinando i dati relativi alla collocazione nel continuum e quelli relativi alle rappresentazioni di destra e sinistra si può concludere che i giovani che provengono dai ceti popolari e dai ceti medi impiegatizi hanno un’identità politica più omogenea (la sinistra, estrema principalmente e, in secondo luogo, moderata) e una rappresentazione prevalente in cui i contenuti della sinistra sono sintetizzabili nella sinistra “sociale” e quelli della destra nella concezione della destra “liberista”. Al contrario, nei ceti più elevati vi è un nucleo più consistente di giovani che si identificano con la destra (soprattutto estrema) e, in termini di rappresentazione, una presenza più rilevante della contrapposizione tra destra “autoritaria” (che passa dal 15% dei giovani nei ceti popolari, al 26% dei giovani dei ceti alti) e sinistra “libertaria” sia nei giovani di destra che in quelli di sinistra (la percentuale di coloro che indicano la sinistra “libertaria” sale dal 12% al 21% passando dai giovani dei ceti popolari ai giovani dei ceti alti). Un andamento opposto si registra per le rappresentazioni della destra in termini liberista (che passa dal 40% nei giovani dei ceti operai al 30% dei giovani dei ceti alti). In altri termini, mentre nei giovani che provengono da 316 ceti operai e ceti medi in genere, la destra e la sinistra assumono esclusivamente le forme e i contenuti tradizionali del conflitto politico (la contrapposizione tra sinistra “sociale” e destra “liberista”), nelle classi superiori sono più manifesti i processi che stanno cambiando la cultura politica giovanile tant’è che si incontra una destra prevalentemente nelle forme della New Right e una sinistra costruita attorno alla New Politics – in altre parole quei nuovi temi e nuovi valori che secondo certe analisi empiriche sono il portato tipico delle generazioni più recenti (Inglehart 1990). Rispetto al rapporto tra l’appartenenza di classe e l’identità politica la generazione dei genitori mostra tendenze simmetriche a quella dei figli, quasi ad evidenziare una forte continuità intergenerazionale che invece è mancata rispetto al problema della valorizzazione del centro e al ruolo politico dell’identità religiosa. Nei genitori, la professione svolta influenza, almeno tendenzialmente, la loro identità politica e nello stesso senso riscontrato nella generazione dei figli. Evidentemente esiste un “effetto di periodo” che fa sì che sia nei genitori sia nei figli i ceti operai e impiegatizi, in particolare gli insegnanti, costituiscano il serbatoio di consensi tipico della sinistra, mentre la destra trova percentuali più significative di sostenitori presso gli artigiani e i commercianti ma anche presso gli imprenditori e i liberi professionisti. La generazione dei genitori mostra, tuttavia, una consistente sfasatura rispetto al modo di definire la destra e la sinistra. La rappresentazione della distinzione destra/sinistra che prevale nei genitori vede, infatti, la contrapposizione tra la sinistra “sociale” e la destra “autoritaria”. Vengono così impiegati e confusi due criteri di distinzione tra destra e sinistra rispetto a quanto si riscontra nei giovani. La spiegazione di questo fenomeno può essere ricondotta ancora una volta alla peculiarità della recente storia italiana. E’ ampiamente noto che l’antifascismo costituisce un elemento centrale della cultura politica italiana del secondo dopo guerra. Lo spazio ideologico dell’Italia repubblicana, e con esso anche la distinzione destra/sinistra, si strutturava fin dalla sua nascita principalmente attorno alla questione del fascismo (Chiarini 2000). La sinistra costruiva la sua identità attraverso un riferimento polemico all’esperienza storica del fascismo, mentre la destra ne prendeva in mano la difficile eredità. Per questa ragione presso i membri delle generazioni cresciute tra gli anni Cinquanta e Settanta la destra 317 viene definita principalmente attraverso elementi tratti dall’esperienza fascista (autoritarismo, disciplina, nazionalismo, ordine ecc.) e solo in seconda istanza attraverso elementi tipici della cultura della destra liberale e liberista (mercato, privatizzazioni, iniziativa individuale, ecc.), la cui presenza nella cultura politica italiana costituisce un fenomeno piuttosto recente. Il cosiddetto “sdoganamento” della destra avvenuto negli ultimi anni, che ha portato alla progressiva scomparsa del pregiudizio verso i partiti che si collocano storicamente in quell’area politica, è coinciso infatti con un rinnovamento profondo dei valori di fondo della destra, almeno in una parte delle sue componenti. La destra italiana, intesa come area culturale, ha di fatto allargato i suoi significati aprendosi alle ideologie liberiste sotto l’azione delle esperienze dei New rightst dei paesi anglosassoni, abbandonando così, almeno in alcune sue parti, i suoi tratti tradizionalmente legati alle esperienze autoritarie. Ma questa trasformazione della rappresentazione della destra si riflette principalmente nella cultura politica delle giovani generazioni, nel senso che si tratta di un processo che procede essenzialmente attraverso il ricambio generazionale. E’ il mondo giovanile a segnare questa riformulazione dei contenuti e dei riferimenti costitutivi dell’identità della destra, mentre le generazioni più anziane restano ancora legate alle vecchie concezioni. Nei genitori anche la sinistra è soprattutto impiegata come sinonimo di socialismo e di comunismo (la sinistra “sociale” degli operai, dei sindacati, della collettivizzazione). La Nuova Sinistra dei movimenti è infatti quasi esclusivamente patrimonio delle giovani generazioni, segno che l’ingresso della New Politics e dei nuovi cleavages avviene in Italia attraverso un lento processo di avvicendamento generazionale. 7. Identità strutturate e identità deboli nella cultura politica giovanile francese e italiana La Francia e l’Italia hanno sempre manifestato numerose convergenze culturali e politiche. L’articolazione dello spazio politico in termini di destra/sinistra appare uno dei tratti più significativi di somiglianza tra i due paesi. Le giovani generazioni riproducono in maniera eloquente questa storica somiglianza di fondo, ma con al318 cune importanti segni di distacco. E’ comune ai due paesi latini l’elevata capacità dei giovani di collocarsi lungo l’asse destra/sinistra, a cui va aggiunta l’importanza che viene riconosciuta alla distinzione come criterio utile per comprendere le differenze che attraversano i partiti e i leader politici. Destra e sinistra costituiscono, in altre parole, la base fondamentale del senso comune politico. Inoltre è piuttosto simile, come abbiamo mostrato, il profilo sociologico dei giovani di sinistra e dei giovani di destra. Se si passa, invece, ai significati che contraddistinguono la distinzione, la situazione dei due paesi appare differenziarsi in maniera netta, e sono soprattutto le giovani generazioni a marcare con forza questa diversità. Sia in Francia che in Italia la distinzione destra e sinistra riemerge nel Secondo Dopoguerra assumendo come principale punto di riferimento l’antifascismo. La sinistra è essenzialmente il movimento di opposizione e resistenza al fascismo, mentre la destra si assume al contrario la gestione della sua difficile eredità storica. Negli anni Settanta e Ottanta, e contemporaneamente nei due paesi, la distinzione cambia ulteriormente pelle per riconfigurarsi in termine di cleavage economico in cui destra e sinistra servono a indicare la contrapposizione tra liberismo e statalismo. Dalla metà degli anni Novanta in poi, in Francia si apre una ulteriore fase di ridefinizione dei contenuti della dicotomia politica fondamentale. Il liberalismo economico smette di costituire una dimensione importante della distinzione destra/sinistra, come evidenzia la considerevole convergenza sul ruolo dello Stato da parte di chi si colloca a destra, mentre acquista rilevanza la contrapposizione, del tutto indipendente rispetto al cleavage tradizionale, tra valori antiuniversalistici e valori universalistici. In particolare, il nuovo significato della distinzione oppone la destra estrema e la sinistra estrema, mentre le componenti moderate tendono ad essere più in sintonia con il significato tradizionale della distinzione. I nostri dati appaiono in sintonia con questa tendenza. Nel mondo giovanile francese destra e sinistra individuano profili politico-culturali ben definiti e distinti che non coincidono più con la classica contrapposizione relativa ai valori economici, rispetto alla quale esiste una crescente convergenza, ma si traducono in atteggiamenti speculari rispetto a certi temi centrali del dibattito politico attuale quali la questioni dell’identità nazionale e dell’immi319 grazione. Destra e sinistra diventano allora elementi significativi per individuare i valori che contraddistinguono i giovani francesi e in particolare i valori pro o contro l’universalismo. Un tratto evidente del mondo giovanile, come la preponderanza del voto agli esponenti riconosciuti dell’estrema destra, viene interpretato come conseguenza della diffusione dell’antiuniversalismo nel sistema dei valori di consistenti segmenti del mondo giovanile (Mayer 1999). La maggiore presenza nel contesto francese dell’autocollocazione a destra da parte di giovani disoccupati e soprattutto di giovani con un basso livello di istruzione offre, inoltre, utili elementi di riflessioni su quali possono essere le radici sociali del sistema di valore antiuniversalistico. Il disagio giovanile, che si manifesta nella mancata integrazione scolastica e nelle difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro, rappresenta sicuramente una delle condizioni che favoriscono la formazione di un’identità giovanile di destra contraddistinta da valori antiuniversalistici. Il difficile inserimento sociale degli strati giovanili di estrazione popolare, in altre parole, è responsabile del carattere problematico che assume il rapporto con l’ “alterità” rappresentata da chi è etnicamente diverso e dalle altre identità minoritarie. In particolare, la marginalità sociale spinge i giovani a preferire l’adozione di una opzione ideologica incentrata sull’esclusione sociale vista come una prospettiva “rassicurante” rispetto alle intense dinamiche dell’odierno cambiamento sociale. Dato che questo disagio è in primo luogo tipico dei giovani di estrazione popolare, non si può non sottolineare che in Francia la collocazione di classe continua a strutturare l’identità politica, ma con due significative differenze rispetto al passato. In primo luogo, la collocazione di classe non agisce in via immediata sull’identità politica quanto piuttosto indirettamente, favorendo un sistema di valori antiuniversalistico il quale poi orienta gli atteggiamenti politici. In secondo luogo, la collocazione nella classe operaia non rafforza affatto l’identità di sinistra, piuttosto favorisce l’emergere di una nuova destra, una destra distinta da quella tradizionale perché non più schierata contro lo Stato sociale, ma contro l’immigrazione, le politiche di inclusione sociale verso le identità extranazionali e i valori dell’universalismo umanitario. L’antiuniversalismo va letto, da un punto di vista strettamente sociologico, come un disagio sociale che si estende pericolosa320 mente in larghi strati del mondo giovanile. Tuttavia, non bisogna trascurare che esso dimostra anche come il mondo giovanile francese sia attento a tematizzare le nuove questioni. La ridefinzione della distinzione destra/sinistra attorno al conflitto valoriale rappresenta, infatti, un modo per portare a galla questioni importanti per la convivenza civile, come il problema del multiculturalismo, che altrimenti resterebbero eluse. Si può discutere su quale sia la soluzione migliore per il problema del pluralismo culturale, se ha ragione la destra che propugna l’importanza di difendere l’omogeneità culturale e di conseguenza sostiene una strategia di “esclusione” o la sinistra che opta invece per un atteggiamento universale e pluralista e propende per l’“inclusione”, ma ciò che è importante per un sistema democratico è lo sviluppo di una discussione pubblica su questi temi. Del resto, l’emergere del problema della società multiculturale ha offerto alla sinistra la possibilità di aprirsi rispetto al problema della rivendicazione dei diritti culturali e del riconoscimento delle minoranze, due temi del tutto ignorati se non avversati dallo spirito laico tipico della tradizione socialista e repubblicana francese (Touraine 1999). Una tradizione ideologica ha avuto cioè l’opportunità di riscrivere i propri contenuti e i propri valori di riferimento. In Francia, attraverso il ricambio generazionale la contrapposizione politica tra destra e sinistra si avvia a passare soprattutto lungo la linea che divide sistemi di valore universalistici e sistemi di valore antiuniversalistici o, se si vuole, lungo l’alternativa tra inclusione ed esclusione, sganciandosi progressivamente dai suoi significati più tradizionali. La distinzione si ridefinisce e per questo resta viva e vitale, e con essa la capacità di stimolare il pluralismo ideologico fondamentale per un sistema democratico. Il mondo giovanile italiano appare invece fondamentalmente legato al passato. I dati raccolti suggeriscono che una vasta porzione di giovani si mantiene fedele alle rappresentazioni di destra e di sinistra che hanno ereditato dalla cultura politica delle generazioni precedenti. A dispetto delle intense trasformazioni della società e della politica registrate delle recenti ricerche sociologiche, la cultura politica giovanile italiana resta ancora legata ad una rappresentazione della distinzione destra/sinistra modellata nei suoi significati tradizionali. E’ questa la tendenza di fondo lungo la quale si muove la cultura politica giovanile italiana, anche se, come 321 abbiamo visto, alcuni elementi di novità non mancano, specialmente se rapportiamo le giovani generazioni con le generazioni dei genitori. I giovani italiani si sono ampiamente sganciati dai significati di destra e sinistra formatisi nell’immediato secondo dopo guerra che invece caratterizzano ancora le generazioni precedenti. Tuttavia, questo rinnovamento appare lento, e soprattutto assai poco significativo per quanto riguarda l’apertura alle dimensione della distinzione relative alle questioni legate alla società multiculturale e al conflitto valoriale che ne consegue. La destra italiana appare ampiamente riscritta rispetto all’esperienza fascista, e in questo senso i giovani segnano finalmente una definitiva chiusura dei lontani traumi politici postbellici, ma la cultura della destra rinnovata è assai poco rappresentativa dei nuovi approcci che attraversano questa stessa area politica nel resto dell’Europa. La sinistra, dal canto suo, si mostra piuttosto in continuità con il passato, presentando solo in certe sue componenti una significativa apertura verso le tematiche della New Politics. In breve, soprattutto se rapportate ai giovani francesi le giovani generazioni italiane appaiono senza ombra di dubbio in stretta continuità con le linee di fondo su cui si è mossa finora la cultura politica italiana. Tale continuità non sta, tuttavia, ad indicare che le rappresentazioni classiche di destra e sinistra sono nei giovani soltanto delle «immagini congelate del passato». Nei giovani italiani esiste, come abbiamo visto, una certa coerenza tra i contenuti attribuiti alla sinistra e gli atteggiamenti rispetto al ruolo dello Stato e del mercato. La New Left, intesa come una riformulazione della sinistra all’insegna dell’apertura verso il liberalismo economico (ridimensionamento del ruolo dello Stato e dell’apertura verso il mercato) (Clark e Inglehart 1998), è ancora una presenza assai poco significativa nei giovani, anche se la convergenza tra i due poli intorno ai temi economici non manca, in special modo la destra appare meno vincolata al liberismo oltranzista. Quello che difetta presso i giovani italiani non è tanto la coerenza quanto invece la capacità di aggiornare con nuovi criteri e nuovi contenuti le proprie identità politiche10 . Tutto ciò provoca, 10 Si può naturalmente spiegare tale ritardo della cultura politica giovanile ricordando la tradizionale scarsa attenzione del mondo politico italiano e del dibattito pubblico nazionale relativamente alle nuove questioni. A differenza che in Fran- 322 come abbiamo visto, l’assenza di una chiara dialettica tra le identità politiche espresse in termini di sinistra e di destra. I giovani italiani non hanno incertezze nel collocarsi lungo l’asse destra/ sinistra, sanno dare una definizione dei due termini della distinzione, mostrano una certa coerenza tra identità politica dichiarata e atteggiamenti politici, ma ciononostante non appaiono protagonisti di una vera e propria dialettica politica, come avviene invece per i giovani francesi. In una società che cambia a ritmi sempre più incalzanti, in cui i problemi politici si ridefiniscono continuamente, spesso in forme particolarmente radicali, appare di vitale importanza possedere un linguaggio politico in grado di saper cogliere i nuovi temi e offrire elementi utili per aggiornare i personali punti di vista politici. Se le categorie politiche restano sempre le stesse risulta difficile afferrare i nuovi problemi e innovare il sistema dei valori politici fondamentali. Sotto quest’aspetto, il tradizionalismo dei contenuti di destra e di sinistra non costituisce certamente un segnale positivo per la cultura politica giovanile italiana e l’elevato livello di incerti sulle questioni che implicano riferimenti al dilemma inclusione/esclusione ne è la prova più evidente. Si corre, dunque, il rischio che crescano generazioni prive di un’identità politica modellata sulle questioni che costituiranno i prossimi temi politici della società italiana. cia, la destra italiana si è sempre mostrata piuttosto riluttante a politicizzare e ad assumere come propri cavalli di battaglia il tema dell’immigrazione extracomunitaria e con esso tutte le altre questioni legate al riconoscimento e l’inclusione (cfr. Chiarini 2000). Neanche la sinistra ufficiale, d’altra parte, si è particolarmente distinta per l’impegno sulle questioni del “riconoscimento” e delle nuove forme della convivenza nella società multiculturale. La nascita di un acceso dibattito pubblico si è avuto soltanto recentemente e in occasione della regolamentazione dei permessi di ingresso per gli immigrati. Tuttavia, le parti politiche si sono divise su questioni tecnico-giuridiche e sulla valutazione dei benefici/costi economici legati della presenza degli immigrati, ma non si sono mai confrontate in maniera esplicita sulle dimensioni culturali e politiche della questione. 323 324 CAPITOLO UNDICESIMO STUDENTI E DISOCCUPATI TRA POSTMATERIALISMO E INDIVIDUALISMO 1. Il cambiamento dei valori tra i giovani europei Nel dibattito scientifico che è in corso da almeno da due decenni a proposito della trasformazione dei valori e degli orientamenti di base nei paesi a modernità avanzata si sono venute sviluppando due posizioni. La prima, formulata e ribadita in più riprese da Ronald Inglehart (Inglehart 1983, 1990, 1996), sottolinea il cambiamento delle priorità valoriali dalla sicurezza fisica e dal benessere economico (valori materialisti) all’autorealizzazione e alla qualità della vita (valori postmaterialisti), e vede negli esponenti delle nuove generazioni i portatori di questo spostamento, in virtù della cosiddetta ipotesi della socializzazione1. Riformulando questa ipotesi in termini per noi pertinenti e alla luce del dibattito sviluppatosi intorno ad essa, poiché i valori di un individuo si formano a partire dalla socializzazione di base, e riflettono le condizioni socio-culturali in cui questo processo si sviluppa, i valori postmaterialisti saranno sempre più diffusi e prioritari nelle nuove generazioni. Più recentemente questo autore ha sostenuto, sulla base di ulteriori ricerche comparative sviluppate a livello mondiale (Inglehart 1998) che “lo spostamento dai valori materialisti a quelli postmaterialisti è solo un aspetto del più ampio spostamento dai valori moderni ai Questo capitolo è stato scritto da Giorgio Marsiglia. L’elaborazione dei dati e la cura dei grafici sono di Romina Conti. 1 La ricerca di Inglehart era guidata, almeno nella prima fase, anche dall’ipotesi della scarsità, in base alla quale si attribuisce un valore soggettivo maggiore alle cose che sono relativamente scarse. Tralasciamo per brevità di ricordare le molte obiezioni che sono state avanzate al riguardo perché sono poco rilevanti ai fini del discorso che svilupperemo qui. 325 valori postmoderni che sta avendo luogo in maniera omogenea nelle società industriali avanzate” (Inglehart 1999, 254) e che, sembra di capire, è destinato a espandersi anche in conseguenza del processo di globalizzazione sia economica che culturale. La seconda posizione, sviluppatasi in parte in reazione alle interpretazioni di Inglehart, e a partire da altre ricerche condotte in Europa (Van Deth e Scarbrough 1995), ritiene che il processo di cambiamento dei valori sia essenzialmente da ricondurre all’ambito culturale, e che riguardi soprattutto la progressiva diffusione, non solo tra i giovani, di posizioni etiche e orientamenti morali come la tolleranza, la secolarizzazione delle norme, la permissività dei costumi (specialmente in materia sessuale): valori esprimenti quell’individualismo e quella libertà di scelta che costituirebbero una sorta di sindrome valoriale definita liberalismo culturale. Soprattutto negli scritti di Etienne Schweisguth, più che le condizioni economiche è stata la messa in causa crescente delle diverse autorità religiose e morali a dare agli europei quell’esperienza di margini di libertà sempre più ampi nelle scelte e nelle preferenze che ha portato alla liberalizzazione degli orientamenti e dei comportamenti e all’ascesa dei valori individualisti in Europa (Schweisguth 1995). Anche secondo questa interpretazione, all’origine dello sviluppo dei nuovi valori individualistici (che sono altra cosa dai valori del liberalismo capitalistico classico), c’è il processo di rinnovamento delle generazioni: ma più che in termini di socializzazione, l’apertura maggiore a questi valori di ciascuna giovane generazione rispetto alla precedente è da ricondurre in buona parte, almeno nei paesi dell’Europa occidentale, alla crescita del livello di istruzione che farebbe più facilmente conoscere e accettare la portata universalistica dei nuovi valori. Nella nostra ricerca si è previsto di fare spazio a entrambe queste interpretazioni, nell’ipotesi che lo sviluppo di valori postmaterialisti vada comunque commisurato, come ha recentemente riconosciuto anche Inglehart (Inglehart 1999, 254), all’entità del passaggio dai valori tradizionali ai valori moderni e della modernità avanzata, ai quali si riferisce in ultima analisi l’interpretazione in termini di liberalismo culturale. Da un lato, abbiamo dunque ipotizzato che il grado di postmaterialismo e di liberalismo culturale anche tra i giovani sia differentemente riscontrabile, e non solo da paese a paese ma anche all’interno delle popolazioni 326 da noi intervistate. Dall’altro, abbiamo cercato di mettere in luce modelli latenti e tipologie empiriche che avvicinino o differenzino studenti e giovani disoccupati in Italia, Francia e Spagna. 2. Alcuni risultati significativi Il confronto che presenteremo qui sinteticamente non ha potuto purtroppo essere condotto nel modo più sistematico, a causa di alcune differenze negli strumenti di rilevazione utilizzati in ciascun paese. Tuttavia è possibile sviluppare un semplice confronto nella lettura di una serie di dati riferiti in qualche modo alla dimensione valoriale. La maggiore uniformità tra i questionari utilizzati in Francia e in Italia ci consente un approfondimento della analisi dei dati di questi due Paesi secondo alcune tecniche di analisi multifattoriale. Anzitutto, è sembrato opportuno approfondire le relazioni che potevano sussistere tra alcune variabili attraverso l’analisi delle componenti principali, al fine di cogliere sinteticamente le correlazioni tra un numero relativamente elevato di variabili rilevate in funzione di un numero più ridotto di variabili latenti. Le dimensioni individuate dalle prime due componenti emerse2 (vedere tav.1) sono facilmente interpretabili: troviamo infatti, a parte alcune differenze, una disposizione molto simile, in ciascun sotto-campione analizzato, dei vari item considerati. Tavola 1. Percentuale della varianza predetta dalle singole componenti. La dimensione rilevata dalla prima componente, rappresentata dall’asse orizzontale, delinea chiaramente due posizioni contrapposte: da una parte abbiamo infatti la disponibilità ad approvare scelte 2 Le prime due componenti evidenziano una varianza predetta di circa il 40% per ciascun sotto-campione considerato. Per esigenze di sintesi non si riproducono i plot relativi. 327 quali la privatizzazione della sanità e dell’istruzione3 e il blocco dell’immigrazione; dall’altra, abbiamo atteggiamenti basati sulla convinzione della negatività della libera concorrenza e sulla preferenza della solidarietà e dell’uguaglianza per il raggiungimento del benessere sociale. Possiamo per comodità di sintesi definire questa dimensione nei termini della contrapposizione Mercato / Società. Per quanto riguarda la seconda componente, sull’asse verticale troviamo collocate in alto le variabili che esprimono la tolleranza nei confronti di alcune pratiche come l’eutanasia, la manipolazione genetica e la legalizzazione delle droghe leggere, mentre in basso è situata la posizione di divieto assoluto nei confronti dell’esercizio della prostituzione. Possiamo denominare la dimensione rilevata da questa seconda componente nei termini della contrapposizione Proibizionismo / Permissivismo. L’osservazione dei grafici ci consente anche di rilevare una notevole somiglianza nella disposizione degli item nei diversi sottocampioni. Per il nostro discorso sui valori, sono solo da sottolineare poche ma significative diversità tra il campione italiano e quello francese. Per il campione degli studenti francesi la prima dimensione evidenzia una particolarità, poiché in prossimità del polo Mercato troviamo anche un item che abbiamo attribuito alla seconda componente: quello sulla manipolazione genetica. Questo fa pensare come nella società francese questo tipo di pratica possa essere stata svincolata dal piano etico per essere piuttosto ricondotta in un ambito prettamente economico 4 . Anche per i disoccupati francesi c’è da rilevare una differenza rispetto al campione italiano: stavolta vicino alla posizione Mercato si situa l’item relativo al divieto della prostituzione, attribuito in teoria alla seconda dimensione5 . Anche 3 I dati sulla privatizzazione dell’istruzione non sono disponibili per i disoccupati italiani. 4 Per tale motivo in sede di costruzione degli indici derivanti dalle due componenti questa variabile è stata inserita nel calcolo della prima dimensione. E’ necessario evidenziare, per una migliore lettura delle tavole che seguiranno, che a differenza del plot, dove gli item collocati sulla posizione Società hanno segno positivo, nell’indice queste stesse variabili assumono un segno negativo. 5 Va riconosciuto che, data la posizione di alcuni dei singoli item nei diversi sottocampioni, sarebbe stata possibile anche la definizione di una diversa dimensione rispetto a quelle individuate; ma la necessità di confrontare i risultati dei vari sotto-campioni ci ha indotto a seguire il modello interpretativo appena presentato. 328 in questo caso, è possibile pensare che per i giovani il riferimento a una dimensione morale di questo item sia molto meno presente in Francia che in Italia. L’analisi multivariata ci consente anche di vedere quanto l’autocollocazione sull’asse politico sinistra/destra può avere influenza sulle dimensioni emerse dall’analisi delle componenti. In effetti, come possiamo vedere dalla tavola 2 , in tutti i sottocampioni indagati emerge una chiara associazione tra chi si colloca a sinistra dell’asse e gli atteggiamenti che caratterizzano il polo Società. Al contrario, chi simpatizza con il centro-destra o la destra è decisamente più a propenso a atteggiamenti che si collocano sul polo che abbiamo definito Mercato. Anche per quanto riguarda la seconda dimensione è interessante notare come si ripresenti in tutti i sottocampioni una sorta di dualismo tra le opposte posizioni politiche: chi ha scelto di collocarsi a sinistra (o nel centro-sinistra) sembra essere maggiormente caratterizzato da una sorta di permissivismo culturale, e quindi più incline a tollerare la prostituzione, la pratica dell’eutanasia, la manipolazione genetica e ad approvare la legalizzazione delle droghe leggere. Gli individui che si rappresentano come appartenenti ad un’area di centro o di destra evidenziano invece atteggiamenti di tipo proibizionista (tav. 3). Tavola 2. Medie dell’indice derivato dalla prima componente in relazione all’asse di autocollocazione sinistra – destra Ciò consente di concludere che sia in Italia che in Francia c’è complessivamente una coerenza tra gli orientamenti valoriali rilevati e le posizioni politico-ideologiche dichiarate dagli intervistati, con le poche differenze appena indicate, che riguardano soprattutto gli atteggiamenti collocabili sulla seconda dimensione, quella etico-morale. 329 Tavola 3. Medie dell’indice derivato dalla seconda componente in relazione all’asse di autocollocazione sinistra – destra. Mediante una ulteriore tecnica di analisi multivariata, l’analisi delle corrispondenze multiple, ci possiamo invece interrogare sulle modalità più specificamente assunte da queste differenze in termini di tipi di complessi di valore associati concretamente a singole modalità categoriali di un insieme di variabili. Ne risultano interessanti relazioni tra le risposte degli intervistati a una serie di domande, che si organizzano secondo disposizioni raffigurate nei grafici che ora commenteremo. L’analisi statistica delle corrispondenze ha messo in evidenza in tutti i sottocampioni la presenza di due dimensioni differenti, ciascuna caratterizzata da una relazione piuttosto forte6 tra le modalità di risposta a diversi insiemi di variabili collegate a due orientamenti tipici del liberalismo culturale: l’accettazione dell’eutanasia e la liberalizzazione delle droghe leggere. Una dimensione si riferisce prevalentemente all’origine socioculturale degli intervistati (professione e titolo di studio del padre), mentre l’altra fa piuttosto riferimento a variabili ideologico-culturali (religiosità e collocazione sull’asse sinistra-destra). L’incrocio ortogonale delle due dimensioni fa risaltare i diversi modi di combinarsi, nei singoli sottocampioni, di una dimensione che possiamo chiamare di tradizionalismo/innovazione con una dimensione di proibizionismo/permissivismo, che aiutano a interpretare i diversi orientamenti valoriali che abbiamo commentato in precedenza. La differenza che emerge in modo più evidente è il diverso peso della appartenenza religiosa in Italia e in Francia. In Italia, 6 La varianza predetta complessivamente dalle due dimensioni supera il 50% per tutti i sottocampioni. 330 essa è presente nelle combinazioni di tradizionalismo e di proibizionismo tanto fra gli studenti (Fig. 1) quanto fra i disoccupati (Fig. 2). In particolare, per entrambi è associata alla collocazione al centro dell’asse politico-ideologico e al rifiuto dell’eutanasia e della liberalizzazione delle droghe leggere; dichiararsi cattolico ma non praticante è associato piuttosto a posizioni di centro-sinistra e comporta una collocazione quasi a metà tra tradizione e innovazione e tra permissivismo e proibizionismo (con maggiore attrazione per il proibizionismo). Figura 1. Il liberalismo culturale degli studenti italiani Legenda: Professione del padre: Pp1 bassa; Pp2 media dip.; Pp3 alta dip.; Pp4 medi indip.; Pp5 alta indip.; Pp6 disoccupato o pensionato. Titolo di studio del padre: Sp1 primario; Sp2 medio inf; Sp3 medio sup.; Sp4 superiore. Religione: R1 cattolico praticante; R2 cattolico non praticante; R3 praticante altra religione; R4 ateo o agnostico; R5 religione personale. Collocazione sull’asse Sx-Dx: s sinistra; csx centro-sinistra; c centro; cdx centro destra; dx destra. Senso di appartenenza alla famiglia: F1 poco; F2 molto. Eutanasia: E1 disaccordo; E2 accordo. Liberalizzazione droghe leggere: D1 disaccordo; D2 accordo. 331 Figura 2. Il liberalismo culturale dei giovani disoccupati italiani LegendaProfessione del padre: Pp1 bassa; Pp2 media dip.; Pp3 alta dip.; Pp4 medi indip.; Pp5 alta indip.; Pp6 disoccupato o pensionato. Titolo di studio del padre: Sp1 primario; Sp2 medio inf; Sp3 medio sup.; Sp4 superiore. Religione: R1 cattolico praticante; R2 cattolico non praticante; R3 praticante altra religione; R4 ateo o agnostico; R5 religione personale. Iscritto all’università: Mai iscritto mai; Ha smesso smesso; Tuttora iscritto iscritto Collocazione sull’asse Sx-Dx: s sinistra; csx centro-sinistra; c centro; cdx centro destra; dx destra. Senso di appartenenza alla famiglia: F1 poco; F2 molto. Eutanasia: E1 disaccordo; E2 accordo. Liberalizzazione droghe leggere: D1 disaccordo; D2 accordo In Francia (Figg. 3 e 4), mentre non ci sono sostanzialmente differenze per i cattolici praticanti, salvo un più forte tradizionalismo dei disoccupati svincolato però da associazioni forti con le altre variabili proprie del tradizionalismo, si riscontra una differenza per gli studenti che si dichiarano cattolici non praticanti, che troviamo collocati verso il permissivismo e contemporaneamente legati alla tradizione. Un’altra differenza, dipendente dalle specificità degli schieramenti politici nei due paesi, riguarda il tipo di associazione tra le modalità della collocazione politica. Mentre in Italia la colloca332 zione a sinistra spinge verso il permissivismo oltre che verso l’innovazione, ed è associata comunque, benché con intensità moderata, a orientamenti tipici del liberalismo culturale (specialmente in tema di liberalizzazione delle droghe leggere), in Francia è associata decisamente a orientamenti permissivisti e innovativi (con l’accettazione dell’eutanasia e della liberalizzazione delle droghe leggere) solo tra i disoccupati; per gli studenti dichiararsi di sinistra non comporta un deciso orientamento permissivista, né una automatica adesione ai valori del liberalismo culturale. È invece la collocazione verso il centro sinistra che in Francia sembra spingere decisamente gli studenti francesi verso il permissivismo e l’adesione al liberalismo culturale (soprattutto in merito all’eutanasia), laddove per gli studenti italiani essa è associata prevalentemente ancora a tradizionalismo e proibizionismo. Figura 3. Il liberalismo culturale degli studenti francesi LegendaProfessione del padre: Pp1 bassa; Pp2 media dip.; Pp3 alta dip.; Pp4 medi indip.; Pp5 alta indip.; Pp6 disoccupato o pensionato. Titolo di studio del padre: Sp1 primario; Sp2 medio inf; Sp3 medio sup.; Sp4 superiore. Religione: R1 cattolico praticante; R2 cattolico non praticante; R3 praticante altra religione; R4 ateo o agnostico; R5 religione personale. Collocazione sull’asse Sx-Dx: s sinistra; csx centro-sinistra; c centro; cdx centro destra; dx destra. Senso di appartenenza alla famiglia: F1 poco; F2 molto. Eutanasia: E1 disaccordo; E2 accordo. Liberalizzazione droghe leggere: D1 disaccordo; D2 accordo. 333 Infine, la nostra analisi ci consente di valutare quanto possa aver pesato e pesare il contatto con l’università negli orientamenti dei disoccupati. Risulta abbastanza chiaro dai plot che un certo peso dovrebbe averlo avuto, visto che chi non è mai stato iscritto all’università si colloca in entrambi i paesi nel quadrante del tradizionalismo ma anche del permissivismo; tale collocazione è associata all’origine socio-culturale modesta, con un paio di specificità francesi: l’appartenenza a altre religioni e la posizione politica equidistante (indifferente?) tra sinistra e destra. Figura 4. Il liberalismo culturale dei giovani disoccupati francesi LegendaProfessione del padre: Pp1 bassa; Pp2 media dip.; Pp3 alta dip.; Pp4 medi indip.; Pp5 alta indip.; Pp6 disoccupato o pensionato. Titolo di studio del padre: Sp1 primario; Sp2 medio inf; Sp3 medio sup.; Sp4 superiore. Religione: R1 cattolico praticante; R2 cattolico non praticante; R3 praticante altra religione; R4 ateo o agnostico; R5 religione personale. Collocazione sull’asse Sx-Dx: s sinistra; csx centro-sinistra; c centro; cdx centro destra; dx destra. Senso di appartenenza alla famiglia: F1 poco; F2 molto. Eutanasia: E1 disaccordo; E2 accordo. Liberalizzazione droghe leggere: D1 disaccordo; D2 accordo. Iscritto all’università: iscritto è statto è tuttora iscritto; non iscritto: mai stato iscritto. 334 3. Quattro configurazioni valoriali tipiche Complessivamente, si può concludere che, se i valori individualistici del liberalismo culturale sono più accettati nell’insieme in Francia che in Italia, ciò può dipendere dal peso maggiore che in Italia continua ad avere il cattolicesimo - quindi dal minor grado di secolarizzazione degli orientamenti etico-valoriali e dei costumi. Un qualche ruolo sembra comunque giocarlo anche, all’interno di questa interpretazione spostata sul polo del liberalismo culturale, l’ipotesi della socializzazione di Inglehart, nella riformulazione che abbiamo avanzato sopra. Vediamo infatti che dalla parte della tradizione ritroviamo gli studenti di origine socio-culturale modesta, ovvero provenienti da ambienti ancora non coinvolti completamente dalla modernità (almeno in termini di orientamenti di valore presumibilmente trasmessi durante la socializzazione primaria); ma sono solo gli studenti cattolici praticanti non di sinistra, molto probabilmente perché caratterizzati da una socializzazione primaria ancora tradizionalista e da orientamenti non secolarizzati, ad essere insieme tradizionalisti e proibizionisti, indipendentemente dall’origine sociale. In Francia, dove il processo di secolarizzazione è più avanzato, il priobizionismo è invece associato al tradizionalismo solo per i cattolici che sono anche di centro destra e ceto medio dipendente. La figure derivate dall’analisi delle corrispondenze ci permettono anche di intravedere delle tipologie differenziate di giovani, tanto fra gli studenti che fra i disoccupati. Proviamo a tracciarne i contorni, con tutte le cautele del caso, proponendole come ipotesi da verificare ulteriormente. Per quanto riguarda il quadro relativo alle risposte degli studenti italiani, dobbiamo notare una diagonale costituita dall’origine socio-culturale che va dal tradizionalismo al permissivismo secondo la linea della stratificazione sociale; e un’altra diagonale, meno rettilinea, che riflette l’orientamento ideologico (religioso e politico), che va dal proibizionismo all’innovazione. I quadranti evidenziano così quattro combinazioni: 1) il tradizionalismo permissivista, associato a bassa estrazione sociale e culturale. Potremmo chiamarla l’area dei culturalmente subalterni. 2) Il tradizionalismo proibizionista, associato all’essere cat335 tolici praticanti, di destra o centro destra (ma anche, più debolmente, di centro sinistra, del piccolo ceto medio e legati alla famiglia). Quest’area può essere definita degli ortodossi. 3) Il non tradizionalismo proibizionista, associato a un’alta estrazione sociale e culturale. Si tratta di un’area più difficile da definire, essendo caratterizzata solo in termini di stratificazione sociale. Potremmo comunque definirla l’area degli innovatori non permissivisti, non subalterna socialmente e culturalmente ma ancora in parte resistente di fronte ai valori postmoderni. 4) Il non tradizionalismo permissivista, associato alla collocazione a sinistra e al non collegamento con la famiglia e alla distanza dalla religione cattolica. Si tratta di un’area, numericamente minoritaria, in cui si collocano gli studenti che combinano gli orientamenti fortemente secolarizzati del liberalismo culturale e dell’individualismo post-moderno con forme di vita innovative, forse alternative. Possiamo allora definirli gli alternativi. Per quanto riguarda i disoccupati, si riscontrano sensibili differenze solo in due quadranti. E cioè: nel quadrante dei non tradizionalisti proibizionisti si nota la presenza di chi è stato o è ancora iscritto all’università: come se il passaggio per l’università aiutasse questi disoccupati innovatori a liberarsi dal tradizionalismo, ma senza comportare automaticamente lo sviluppo di valori del liberalismo culturale. Invece chi non è mai stato iscritto all’università si colloca nel quadrante dei tradizionalisti permissivisti, che abbiamo definito dei culturalmente subalterni. Per i giovani francesi della nostra ricerca i quadranti assumono un significato in parte diverso. 1) Il tradizionalismo permissivista tra gli studenti risulta associato all’alta estrazione socioculturale e alla posizione di cattolico non praticante equidistante dai due poli politici. In questo caso non si tratta più di individui subalterni culturalmente ma di integrati non subalterni. 2) Il tradizionalismo proibizionista è, come in Italia, associato all’essere cattolici praticanti; ma qui sono l’essere di centro destra e di origine sociale medio-alta dipendente a fare la specificità di un tipo di studenti che possiamo continuare a chiamare ortodossi. 3) Il non tradizionalismo proibizionista è definito anche in Francia dall’estrazione socio-culturale, ma in questo quadrante si ritrovano le posizioni socio-culturali più basse insieme ai figli di 336 lavoratori autonomi, e anche gli studenti di sinistra e quelli che dichiarano di avere una religione personale. Da questo insieme si può solo dedurre che sono in gioco sia fattori legati alla socializzazione che fattori ideologico-culturali; più difficile ci sembra poter arrivare a una definizione tipologica convincente. 4) Il non tradizionalismo permissivista, infine, è anche qui associato al distacco dalla religione e dalla famiglia ma anche a posizioni di centro sinistra, e non di sinistra. Possiamo allora pensare non tanto a degli alternativi, ma a dei veri e propri postmoderni. Anche per i disoccupati francesi le cose cambiano, e più sensibilmente che in Italia. Nel quadrante 1), quello dei tradizionalisti permissivisti, ritroviamo i giovani di bassa estrazione sociale e culturale, mai iscritti all’università, e in più i non cattolici (probabilmente musulmani); possiamo pertanto ritornare a parlare di culturalmente subalterni. Mentre per i tradizionalisti proibizionisti non ci sono grosse differenze con gli studenti, queste riemergono nel quadrante dei non tradizionalisti proibizionisti, dove troviamo chi è stato o è iscritto all’università, con in più un orientamento di centro-sinistra che in Italia manca. Il quadrante dei non tradizionalisti permissivisti ripresenta anche maggiori analogie con la situazione dei disoccupati italiani, e possiamo quindi tornare a parlare di alternativi. Risulta in definitiva abbastanza evidente che la condizione di disoccupato uniforma qualitativamente, se non dal punto di vista della distribuzione quantitativa, i giovani italiani e francesi, più di quanto non li differenzi la specificità culturale che è invece importante per gli studenti. 337 338 CAPITOLO DODICESIMO LE RAPPRESENTAZIONI DELLA DEMOCRAZIA NELLE NUOVE GENERAZIONI 1. Una “nuova” categoria per lo studio sociologico delle trasformazioni della democrazia Questo capitolo ha principalmente lo scopo di descrivere le rappresentazioni che un segmento di giovani italiani, costituito da studenti universitari e da giovani disoccupati, ha oggi della democrazia. Prima di entrare in media re sembra opportuna una considerazione introduttiva che valuti la capacità euristica del “concetto” di rappresentazione sociale ai nostri fini specifici. Serge Moscovici ha chiarito come sia poco opportuno usare il termine “concetto” quando si parla di rappresentazione sociale. Secondo Moscovici la nostra èra è «l’èra delle rappresentazioni sociali nel senso più pieno del termine» perché nel mondo delle rappresentazioni non sussiste un nesso imprescindibile tra concetto ed immagine (Moscovici 1984; 1989, 33). Anzi, il mondo delle rappresentazioni riflette bene la pluralità di immagini che ci riconducono in maniera problematica e qualche volta decisamente artificiosa ad uno stesso concetto. Studiare le rappresentazioni sociali significa analizzare il processo tramite il quale immagini e concetti interagiscono in una prospettiva dinamica. In sintesi Moscovici propone una definizione che attualizza l’impostazione durkheimiana sul tema: « ...se, in senso classico, le rappresentazioni collettive sono un termine esplicativo, e si riferiscono ad una classe generale di idee e di credenze (scienza, mito, religione, ecc.), per noi esse sono fenomeni che necessitano di essere descritti, e di essere spiegati. Esse sono fenomeni specifici correlati ad un modo particolare di comprendere e comunicare – un modo che crea sia la realtà, Questo capitolo è stato scritto da Gianfranco Bettin Lattes. 339 sia il senso comune» (Moscovici 1984; 1989, 40-41).Il peculiare intreccio di conoscenza e di interazione che costituisce la rappresentazione sociale viene indagato alla luce delle dinamiche di trasformazione che caratterizzano i processi sociali contemporanei. Un primo elemento che merita di essere sottolineato è il carattere processuale che connota la categoria della rappresentazione sociale. L’altro elemento, strettamente collegato, è che la rappresentazione sociale mette in opera una logica nella quale si compenetrano le dimensioni individuali e quelle collettive della conoscenza e dell’azione. La distinzione di matrice funzionalista tra attore politico e sistema politico conserva ancor oggi un’indubbia utilità euristica; tuttavia le trasformazioni che investono la politica, delle quali non ultima, la crescente influenza dei mezzi di comunicazione di massa, richiedono strumenti conoscitivi che permettano di analizzare le forme di definizione dello spazio politico e le modalità di azione al suo interno, anche in direzioni alternative a quelle consuete ed aventi come punto di riferimento le logiche ispirate alla dicotomia che oppone interessi-ideologie. Emerge così una tematica teorico-terminologica di grande significato sulla quale non ci si può attardare troppo in queste pagine. La tematica ha, quantomeno, due aspetti interdipendenti. Da un lato ci si imbatte in una pluralità di concetti-termini: rappresentazioni sociali (e individuali), atteggiamenti, immagini, senso comune, stereotipo, tra cui sussistono distinzioni, sovrapposizioni ed interdipendenze. Dall’altro lato si affronta un problema empirico complesso che appare costituito: a) dalla difficoltà di stabilire le modalità di rilevazione delle dinamiche formative delle rappresentazioni sociali e ancor più forse, b) dalla difficoltà di stabilire secondo quali modalità si instauri una relazione fondamentale tra la rappresentazione sociale ed il comportamento reale degli individui e dei gruppi sociali. In questo caso comunque abbiamo anche da affrontare un tema specifico: le rappresentazioni della democrazia così come si configurano nell’universo giovanile e possiamo, per ora, solo limitarci ad un lavoro di definizione-classificazione che potrà costituire la base per un’analisi successiva, meglio orientata teoricamente. La democrazia è un dato culturalmente sedimentato, che in molti sistemi politici europei è stato interiorizzato da almeno tre genera340 zioni di cittadini, dando così prova di una sua rilevante capacità di riproducibilità nel tempo. Il processo di riproduzione culturale della democrazia, tuttavia, non è lineare. La dinamica riproduttiva del pensiero e della prassi democratica è erratica nel tempo e nello spazio politico della società europea, con alcune significative (gravi) interruzioni. Questo aspetto storico-politico di relativa instabilità è connaturato anche all’insieme di valori che formano il nucleo essenziale della cultura politica democratica. Ciò nel senso che si tratta di un tipo di cultura politica aperto alle istanze sociali, permeato dal principio di un’ampia rappresentanza degli interessi e, più in generale, sensibile alle pressioni al mutamento che attraversano la struttura sociale complessiva. Gli aspetti testé citati, ed altri taciuti, ma tutti caratterizzanti, in un senso lato, la cultura politica democratica contemporanea si riflettono sulla sua rappresentazione sociale. La trattazione, ormai classica, che Moscovici ha offerto sul fenomeno della rappresentazione sociale ci permette forse di avanzare qualche considerazione adeguatamente argomentata sulla rappresentazione sociale della democrazia. La rappresentazione sociale è una realtà sui generis, che si riferisce ad un oggetto collettivo, condivisa socialmente e rafforzata dalla tradizione; Moscovici propone una distinzione importante tra rappresentazione originaria e rappresentazione contemporanea. «In altre parole, c’è un continuo bisogno di ri-costituire il “senso comune” o la forma di comprensione che crea il substrato di immagini e significati senza i quali nessuna collettività può operare. Allo stesso modo, oggi le nostre collettività non potrebbero funzionare se non si fossero formate quelle rappresentazioni sociali basate sull’insieme di teorie, ideologie che esse trasformano in realtà condivise, concernenti l’interazione fra persone e che quindi costituiscono una categoria separata di fenomeni. La caratteristica specifica di queste rappresentazioni è che esse trasmutano le idee in esperienze collettive e le interazioni in comportamento…» (Moscovici 1984; 1989, 40). La rappresentazione sociale della democrazia concerne un oggetto interiorizzato nel corso del processo di socializzazione, sia primaria sia secondaria, ai fini di un orientamento dell’attore in una zona specifica della sfera pubblica del comportamento. Questo tipo di rappresentazione ha un carattere plastico nel senso che muta nel tempo ed incorpora aspetti innovativi, mantenendo tuttavia stabile 341 un suo nucleo fondamentale. Anche la rappresentazione sociale della democrazia, alla pari di altri tipi di rappresentazione, ha una sua natura prescrittiva, connessa alla sua storicità ed alla sua tradizione cioè ad un dato normativo radicato socialmente. La rappresentazione della democrazia è una risorsa di cui le giovani generazioni dispongono come strumento di orientamento lungo il percorso di formazione della loro identità civica. La riflessione sociologica dimostra, tuttavia, che nei confronti di questa risorsa le differenti generazioni si pongono non sempre in maniera analoga perché diverso è il grado di motivazione rispetto ai valori che formano il contenuto della rappresentazione stessa. Più precisamente alcuni attori sociali sono stati i protagonisti di un processo di definizione dei contenuti della rappresentazione; altri attori hanno partecipato e vissuto una fase di revisione e di adattamento della rappresentazione originaria alle nuove esigenze del sistema politico; altri attori ancora hanno ereditato la rappresentazione della democrazia e ne hanno accettato del tutto passivamente i contenuti. Si pone così il problema della riproducibilità della rappresentazione sociale della democrazia ed insieme ad esso quello della sua capacità di presa motivazionale sulle giovani generazioni che sono titolari del ruolo di neocittadini in una società che fa delle trasformazioni della sua struttura e del suo patrimonio valoriale, forse, il suo principale strumento di sopravvivenza. Le scienze sociali hanno fornito e continuano a fornire un canovaccio logico ed un’elaborazione critica sulla democrazia che influenza naturalmente la sua rappresentazione sociale. La ricerca empirica può allora formulare nella serie degli interrogativi di sua pertinenza anche quello che riguarda il ruolo e l’influenza avuta dai sociologi, dai politologi e dai filosofi della politica nella costruzione della rappresentazione sociale della democrazia. Naturalmente la piattaforma sociale che alimenta la rappresentazione sociale della democrazia ha un impianto assai vasto. La rappresentazione sociale della democrazia si definisce nell’interazione sociale, nell’ambito di processi di comunicazione e nella continua azione di confronto tra individui e tra gruppi che mirano all’attuazione dei rispettivi interessi. La base sociale della rappresentazione della democrazia è un dato di riferimento che va interpretato dalla ricerca. Le teorie della democrazia che la sociologia europea va producendo da un lato rappresentano il riflesso analitico di come 342 la società sta elaborando e vivendo la rappresentazione della democrazia, dall’altro lato agiscono esse stesse, o direttamente oppure grazie ad una loro “volgarizzazione” operata dai mezzi di comunicazione di massa o da agenti istituzionali specifici come l’università, come fattori di produzione della parte più attuale (di tendenza, e dunque problematica) della rappresentazione sociale della democrazia. La ricerca però ha un fine imprescindibile, ove voglia adempiere alla sua più autentica vocazione, quello di esaminare empiricamente le modalità di configurazione assunte dalla rappresentazione della democrazia in quella che, come si è detto, Moscovici ha definito l’èra delle rappresentazioni sociali. La nostra èra è anche l’èra della globalizzazione, della formazione di entità politiche sovranazionali, dell’invadenza straripante del mercato rispetto agli altri ambiti istituzionali e dunque appare, per molti aspetti, anche come un’èra di sfida per la democrazia. Lo studio intergenerazionale delle rappresentazioni sociali occupa un posto significativo in un’agenda di ricerca forse troppo impegnativa. Moscovici descrive con un acume straordinario questa affascinante prospettiva di lavoro per gli scienziati sociali del nuovo secolo. La rappresentazione della democrazia non è direttamente connessa al nostro modo di pensare come cittadini; all’opposto è il nostro modo di pensare come cittadini che dipende dal fatto che noi disponiamo o meno di una data rappresentazione della democrazia. Le rappresentazioni della democrazia alla pari di qualsivoglia tipo di rappresentazioni «ci sono imposte, trasmesse, e sono il prodotto di un’intera sequenza di elaborazioni e cambiamenti che occorrono nel corso del tempo, e costituiscono il risultato ottenuto nel corso di parecchie generazioni» (Moscovici 1984; 1989, 30). 2. La rappresentazione sociale della democrazia tra unità e pluralità La rappresentazione sociale della democrazia condiziona il modo di pensare la politica sia degli specialisti sia dell’uomo della strada. In altre parole la rappresentazione della democrazia ha un suo potenziale di controllo della realtà che ne qualifica la reale validità. Tale capacità di controllo si propone secondo un parame343 tro di continuità con il passato, ma anche con significative valenze di apertura alla complessità ed alla dinamicità del presente. La ricostruzione empirica di una (o di più d’una) rappresentazione sociale della democrazia ci sarà utile per entrare in sintonia interpretativa con la pluralità di significati che inevitabilmente assume oggi il “concetto” di democrazia, nel mondo dei giovani ma non solo in esso, come avremo modo di vedere. Non è possibile qui sviluppare una riflessione sistematica sul perché si assista ad un processo di pluralizzazione di significati, processo che dovrebbe comunque avere una sua funzionalità sia con riferimento al singolo aspetto simbolico (“il concetto di democrazia e le sue rappresentazioni sociali”), il quale in questo modo mantiene un suo spazio culturale, sia con riferimento al quadro societario più ampio ed alla sua dinamicità, che reclama un’adeguata duttilità anche nei concetti e nelle rappresentazioni. Il primo problema che ci si pone e che verrà esaminato alla luce dei dati della nostra ricerca è quello di capire che cosa sta dietro il concetto di democrazia, quali immagini i cittadini realizzano nel proprio bagaglio orientativo alla sfera pubblica quando pensano alla democrazia sia nei termini generali ed astratti sia da un punto di vista della pratica sociale. La classificazione dei diversi modi di intendere lo stesso “concetto” di democrazia presso le nuove generazioni assume un particolare valore, poi, al fine di verificare le chances di riproduzione della cultura politica democratica in una società che produce delle dinamiche di trasformazione per i valori politici e dunque anche per la democrazia. Ma non solo: può essere significativo verificare quante e quali sono le concezioni di democrazia, confrontarle con quelle che rappresentano il prodotto storico-culturale specifico del contesto nazionale nel quale si compie la ricerca e vedere quale consistenza hanno in termini di radicamento sociale e di reale influenza sui comportamenti pubblici. Il secondo problema che si evidenzia in questo frangente è che la pluralità tipica e pervasiva nel mondo delle rappresentazioni sociali acquista una valenza peculiare ove si considerino le specificità sociologiche della popolazione e dell’attore indagato, vale a dire una popolazione di studenti universitari e di giovani disoccupati la quale si pone rispetto al mondo dei valori politici e rispetto in particolare alla rappresentazione della democrazia con 344 una serie di caratteri di cui si deve tenere conto prioritariamente sul piano interpretativo, ad esempio nel senso che i giovani potrebbero connotare in maniera forte il carattere dinamico, pluralistico ed instabile della loro rappresentazione della democrazia. L’ipotesi da formulare è che un attore, la cui identità civica è ancora in formazione, organizza secondo il metodo delle priorità le sue rappresentazioni sociali ed attribuisce alla cultura politica una collocazione particolare rispetto ad altri elementi simbolici che entrano nel mondo delle sue rappresentazioni sociali, oltreché definirla in termini di provvisorietà. La ricerca sociologica sulla condizione giovanile rende sempre più evidente la difficoltà di considerare i giovani in modo omogeneo, come se si trattasse di un’unica realtà collettiva. In questo senso le rappresentazioni sociali prodotte dai giovani saranno inevitabilmente differenziate e plurali, anche in relazione ad un macro-oggetto di riferimento quale è appunto la democrazia. Va comunque evidenziato che l’analisi si concentra su un tipo particolare di giovane: lo studente universitario che è stato privilegiato perché rappresenta potenzialmente un segmento importante della popolazione dei neocittadini del dopo 2000, ma non solo. Si presume, infatti, che questo stesso giovane possa far parte dello strato dirigente del prossimo futuro e che quindi riflettere sui suoi orientamenti rispetto alla cultura politica democratica possa consentire qualche utile elemento previsivo sui prossimi mutamenti della dimensione simbolica della politica. L’altro aspetto problematico di ordine generale emerge quando si considera la relazione tra l’elaborazione delle rappresentazioni sociali e la collocazione specifica ed ovvia dei giovani nel ciclo di vita. Si tratta infatti di individui ancora in formazione, anche dal punto di vista politico, per i quali non si può ancora parlare di una piena integrazione, nemmeno cognitiva, nella società degli adulti. In questa chiave sembra di poter ipotizzare che l’elaborazione di forme simboliche condivise possa essere condizionata in modo particolare da specifiche esperienze di relazione sociale, come quelle dei contesti familiari e amicali, nelle quali i giovani sono maggiormente coinvolti. In altri termini l’elaborazione e la condivisione delle rappresentazioni sociali della democrazia potrebbe trarre il suo materiale costitutivo forse più dalle relazioni della vita privata che da una interiorizzazione delle definizioni pubbliche di spazio politico. In questa prospettiva il capi345 tolo si conclude con qualche osservazione riguardante le relazioni intergenerazionali presentate come una chiave di lettura, tra le molte possibili, sui processi formativi delle rappresentazioni sociali della democrazia e sulla loro riproducibilità nel tempo. 3. Sei rappresentazioni della democrazia La sezione italiana della ricerca era finalizzata principalmente ad analizzare sia i processi di socializzazione politica nelle loro diverse componenti, sia le dinamiche di trasformazione dei sistemi di valore presenti nel mondo giovanile così come si va configurando oggi nell’Europa del Sud. Era però prevista anche una parte rivolta all’analisi della cultura politica e, in particolare, una domanda aperta “Che cosa è per lei la democrazia?” intendeva sondare quale fosse il patrimonio di valori e di “fenomeni” che entrano a far parte della rappresentazione della democrazia del giovane. Lo scopo della ricerca era quello di andare oltre le tradizionali indagini sulla cultura politica che esplorano, sostanzialmente in chiave tassonomica, il grado di fiducia/accettazione verso le istituzioni e verso le regole del gioco dei sistemi liberaldemocratici rilevabile presso una determinata popolazione, puntando invece ad analizzare gli elementi cognitivi, nell’ipotesi che tramite la ricostruzione delle rappresentazioni sociali della democrazia sia possibile ricavare elementi utili per comprendere in maniera più significativa l’attuale, problematico rapporto tra i giovani e la politica. L’elaborazione dei dati ha consentito di individuare sei dimensioni che si rintracciano nella quasi totalità delle risposte dei giovani e che costituiscono, in un certo senso, i “mattoni” con cui vengono costruite le rappresentazioni sociali della democrazia. L’espressione di queste definizioni si propone o in una forma articolata, sfumata, poliedrica oppure in maniera netta, monotematica e marcatamente unilaterale. Diciamo anzi subito che il 71,5% delle definizioni date è ad una dimensione mentre il 28,5% è a più dimensioni. Sembra di potere affermare che la palese inclinazione ad una definizione monotematica non è l’esito automatico del modo di porgere il quesito ma corrisponde ad un effettivo carattere unilineare della rappresentazione che gli intervistati manifestano, in una quota consistente, a proposito della democrazia. Questo dato 346 implica che il soggetto ha rielaborato in maniera seria il tema, lo ha investito di catessi e vuole porgerne una definizione che è mirata a delinearne il nucleo centrale e a metterne in ombra aspetti complementari e periferici. Anche se si è ritenuto di non approfondire qui, in una maniera adeguata, la distinzione tra rappresentazioni monodimensionali e rappresentazioni pluridimensionali va osservato che la distinzione potrebbe assumere un significato interessante perché traccia un solco importante nelle diverse modalità del vissuto dei valori democratici nei giovani. Tavola 1.Le rappresentazioni della democrazia degli studenti (%) Rappresentazione democrazia Studenti Solo procedurale Solo partecipativa 14,4 9,4 Solo egualitaria Solo liberale-libertaria-espressiva 7,5 28,9 Solo solidaristica 3,1 Solo utopico-critica 8,2 Totale rappresentazioni ad una dimensione Rappresentazioni a più dimensioni Totale 71,5 28,5 100,0 La prima rappresentazione della democrazia, in ordine di importanza, insiste sulla connessione tra democrazia e libertà, detto meglio sulla libertà di espressione in generale, e dunque non solo politica, che viene tutelata e realizzata dalla democrazia, mettendo in sordina sia gli aspetti procedurali sia i valori della partecipazione politica e dell’eguaglianza sociale che trovano spazio in altri tipi di rappresentazione. E’ questa la definizione della democrazia intesa come “sistema delle libertà”. Per questo gruppo di giovani che appare comparativamente quello di maggiore consistenza (28,9%), la democrazia diventa quindi soprattutto un’occasione di libertà esistenziale e di autodefinizione del proprio stile di vita. Democrazia significa, ad esempio: “tutto ciò che non è coercizione”; “certamente non muovermi in un caleidoscopio di gabbie e di catene invisibili”; “sentirsi liberi di manifestare i propri modi di pensare, di vivere, di essere”; “la possibilità di esprimersi liberamente”; “libertà di 347 essere sé stessi”; “è avere libertà di lavorare, di esprimersi, di studiare, essere liberi”; “la possibilità per tutti di avere libertà di tutti i tipi”; “un modo di vivere”. L’attenzione si concentra sull’autodeterminazione della propria vita quotidiana, l’impegno è nella costruzione della propria identità personale, senza che si manifesti alcun coinvolgimento nella sfera politica istituzionale. Si tratta naturalmente di una rappresentazione della democrazia che appare in perfetta sintonia con il processo di spinta all’individualizzazione che caratterizza oggi l’esperienza della società. La seconda rappresentazione ha come suo nucleo centrale l’assetto politico-istituzionale della democrazia e viene denominata rappresentazione “procedurale”. La democrazia viene rappresentata essenzialmente come l’insieme delle procedure che assicurano il normale svolgimento della vita politica. Si tratta di una definizione della democrazia che la presenta come un metodo naturale di risoluzione pacifica dei conflitti, incentrato sulle regole della rappresentanza ed organizzato nelle sue note articolazioni istituzionali e procedurali (parlamento, governo, elezioni). Democrazia “ è un sistema politico in cui il potere di prendere decisioni viene dato tramite libere elezioni in cui il popolo esprime le sue preferenze con un voto libero”; “un metodo attraverso il quale si può ottenere il potere tramite elezioni”; “ un processo di rappresentanza politica in cui gli interessi di tutti devono venire espressi”. In queste risposte (14,4%) la rappresentazione della democrazia appare decisamente slegata dai valori sociali e civili, si riduce infatti a “un sistema per arrivare a prendere decisioni”. Emerge chiaramente anche un’immagine della politica come attività che viene delegata ad un gruppo professionale, mentre la partecipazione del singolo si confina al momento del voto. In altre parole, per una parte non piccola della popolazione studentesca si evidenzia un’immagine della democrazia come un contenitore vuoto, anche se funzionale per la convivenza. Non si può non notare come questa immagine “fredda” della democrazia rifletta certe tendenze più generali, tipiche della cultura politica moderna volte a circoscrivere la democrazia alle regole collaudate della convivenza pacifica, nonché a delegare i problemi della vita pubblica ad una sfera istituzionale autonoma, configurata ad hoc e concepita come un insieme di procedure neutre rispetto ai valori. Tuttavia va ribadito il possibile e parziale condizionamento che queste risposte trova348 no nella peculiarità della formazione dello studente che frequenta le aule delle facoltà di scienze politiche. Il terzo caso è quello che identifica la rappresentazione della democrazia con l’esperienza di una partecipazione diretta ai processi politici. La rappresentazione coglie l’elemento di appartenenza e di impegno responsabile del singolo nella sfera pubblica, un aspetto che la democrazia dovrebbe realizzare fin dai suoi progetti originari. Quando si parla di “democrazia come partecipazione” si propone una definizione di democrazia che si sovrappone essenzialmente con l’immagine di un coinvolgimento personale (e di tutti) nei processi politici e che implica, almeno nelle risposte, il 9,4% degli studenti. Democrazia allora coincide con “la possibilità per tutti indistintamente di prendere parte alle decisioni del Paese”; “dare più partecipazione alla gente nelle decisioni di governo”; “significa governo del popolo: non c’è distinzione tra governanti e governati; essi sono la stessa cosa”. In questa rappresentazione, che è speculare alla precedente, si rintraccia la tradizione di intenso impegno politico di base che era propria della cultura politica della sinistra italiana per lo meno fino agli anni Ottanta. In questo caso la rappresentazione si associa, in forma esplicita o latente che sia, ad un’inclinazione all’azione militante. La quarta rappresentazione è quella dell’eguaglianza, ossia della democrazia intesa come un sistema volto alla realizzazione delle condizioni di eguaglianza e di parità di trattamento. Questa rappresentazione, dichiarata dal 7,5% dei giovani, si riferisce più ad una visione “sociale” che ad una visione “liberale” della democrazia, identificando quest’ultima con lo Stato sociale o comunque con una società giusta che si preoccupa di offrire condizioni diffuse di pari opportunità. Ecco alcuni frammenti di rappresentazione: un governo in cui “vi deve essere giustizia sociale, uguaglianza, solidarietà e lavoro”, “uguaglianza non formale ma sostanziale”, “ampio Stato sociale”, “diritto al lavoro” “democrazia significa avere tutti un lavoro; avere assistenza sanitaria gratuita; avere il diritto allo studio gratuito; debellare le povertà e l’emarginazione; essere più vicini alle reali esigenze del popolo”. La quinta rappresentazione allarga ulteriormente il campo di valori e di significati che vengono compresi nel fenomeno democrazia. Vi troviamo riferimenti alla democrazia come abolizione di ogni discriminazione (ad esempio: “tolleranza e rispetto per tutte 349 le differenze”). La democrazia viene identificata con un valore superiore o con un interesse condiviso per la comunità; la democrazia diventa la ricerca del bene comune in diretta continuità con una concezione cara alla tradizione politica europea. La democrazia diventa soprattutto sinonimo di solidarietà. In queste risposte la democrazia è “altruismo, educazione civile”, “la possibilità reale di crescere e migliorare in un sistema che pone le sue basi sul confronto e la ricerca del benessere di tutta la comunità umana”; “il poter sperare in un futuro, nel benessere generale, che porta le persone a dialogare di più o ad essere più solidali, ad esprimere le proprie idee insieme agli altri. Perché questo significa confronto e crescita pacifica”. Ma si parla anche di “rispetto dell’ambiente “ e di “tolleranza”. Rispetto a queste risposte possiamo parlare di una concezione aperta della democrazia oppure, in un senso ancora più ampio, di una concezione valoriale della democrazia, in cui il fenomeno democratico viene ricondotto all’universo dei valori tipici di una concezione solidaristica della democrazia. Questo tipo di rappresentazione emerge come dimensione univoca infatti solo nel 3,1% delle risposte. Un discorso a sé merita l’ultimo gruppo di risposte, che includono due orientamenti di segno assai diverso: le risposte che parlano della democrazia come sistema irrealizzabile – la democrazia come utopia – e che confluiscono nel sottotipo più numeroso (circa il 7%), e quelle che contengono riferimenti polemici e chiaramente antidemocratici (un po’ meno del 3%). I due tipi di risposte sono accomunati dal fatto che gli intervistati prendono le distanze dalla democrazia e ne danno una rappresentazione in termini non positivi. A questo proposito vanno subito fatte due osservazioni. Le risposte del primo tipo non evidenziano un rigetto della democrazia in sé, come progetto sociale e politico, quanto invece una critica severa rispetto alle modalità effettive della sua realizzazione in Italia. Democrazia “è un concetto abbastanza astratto che rende i singoli individui dei cittadini responsabili in grado di esprimere le proprie idee. Purtroppo ciò non accade, la democrazia in Italia oggi non esiste in modo completo”; “è un’utopia perché in realtà il famigerato governo del popolo non c’è mai stato, almeno da quanto posso osservare io nell’Italia che mi circonda”. Va notato che queste risposte in termini assoluti non sono affatto poche. Ciò dimostra ancora una volta come sia diffuso un certo grado di 350 sfiducia verso le manifestazioni istituzionali della democrazia. Si tratta di sfiducia nella sua realizzabilità ma non certo di un rigetto radicale degli ideali democratici. Le risposte del secondo tipo, le risposte più esplicitamente antidemocratiche in cui si mette in discussione la positività del gioco democratico e l’importanza della libertà, sono invece relativamente poche tra i giovani e riecheggiano il più delle volte una visione ispirata dall’ideologia marxista. La democrazia altro non è che “la maschera di un regime capitalistico in mano esclusivamente alla grande borghesia”; “in teoria è un sistema politico, in pratica un mezzo di sfruttamento e di prevaricazione”. 4. Le rappresentazioni della democrazia negli studenti e nei disoccupati L’elaborazione delle risposte alla nostra domanda sul significato che i giovani danno al termine democrazia è stata piuttosto complessa in relazione alla pluralità degli aspetti evocati nelle definizioni. In particolare è sembrato opportuno misurare, con riferimento alla totalità delle risposte, quante volte veniva adottata ciascuna delle dimensioni fondamentali utilizzate per la rappresentazione della democrazia. Nel complesso, la dimensione relativa alla libertà personale appare quella maggiormente presente nelle risposte dei giovani, in misura superiore per gli studenti (46,3%) ma comunque assai consistente anche tra i giovani disoccupati (35%), seguita da quella relativa all’eguaglianza (rispettivamente il 20 ed il 23,9%). Le dimensioni più politiche, quella procedurale e quella partecipativa, seguono con un notevole distacco. In particolare, negli studenti la dimensione partecipativa viene subito dopo quella procedurale, evidenziando così un diminuito interesse per l’impegno politico personale che la democrazia consente ma del quale, comunque, oltre una certa soglia non può fare a meno (cfr. la tav. 2). Per quanto riguarda, ancora, il confronto tra studenti e disoccupati va notato come gli studenti appaiono meglio in grado di cogliere gli aspetti procedurali, di garanzia della libertà d’espressione e di partecipazione della democrazia. Un dato questo che sicuramente si collega anche ad un’esperienza formativa vissuta nelle aule e sui libri tipicamente usati nelle facoltà di scienze 351 Tavola 2. Le dimensioni nelle rappresentazioni della democrazia: studenti e disoccupati (%)* Dimensione Studenti Dicoccupati Procedurale 18,6 11,1 Partecipativa 15,3 14,8 Egualitaria 20,0 23,9 Libertaria 46,3 7,8 35,0 6,1 Solidaristica N. studenti = 1352; N. discccupati = 594 *le risposte sono state codificate in modo da individuare tutte le dimensioni eventualmente presenti in ciascuna. Di conseguenza ad una risposta possono corrispondere una o più dimensioni. politiche. I giovani disoccupati sembrano, invece, assai più inclini ad elaborare delle rappresentazioni ove hanno maggiore spazio gli aspetti legati all’eguaglianza, mentre mostrano un numero superiore di concezioni utopiche e/o di condanna della democrazia rispetto agli studenti. Viene così a delinearsi una significativa demarcazione tra le rappresentazioni degli studenti e dei disoccupati rispetto ai significati ultimi da attribuire al senso della cultura politica democratica. Negli studenti sembra avere messo radici una visione liberale e procedurale tipica della tradizione liberaldemocratica e pluralista; nei disoccupati prevale, invece, una visione egualitaria e sociale con una leggera tendenza alla delegittimazione e alla critica verso la democrazia così come si percepisce realizzata oggi nel sistema politico italiano. I disoccupati appaiono poco interessati a definire la democrazia in termini astratti e di prospettiva senza abbandonare il loro giustificato pessimismo per l’andamento della politica e dell’economia italiana. Nei giovani disoccupati l’immagine della democrazia si carica, quindi, di esigenze frustrate di benessere personale, di mancata sicurezza lavorativa e sociale, che si manifestano non solo in termini di enfasi sull’eguaglianza sociale e sulle pari opportunità, ma anche in termini di sfiducia nelle istituzioni democratiche. Non si può non leggere in questi dati l’impatto negativo della condizione di disoccupazione sulla formazione di un’identità politica, ancora incerta. Sembra inoltre di notevole interesse anche analizzare comparativamente le combinazioni delle diverse dimensioni nelle rispo352 ste degli studenti e dei disoccupati (cfr.tav.3). In questa tabella le risposte sono state raggruppate in quattro classi individuate sulla base di criteri di aggregazione che apparivano fortemente significativi degli orientamenti dominanti nella rappresentazione della democrazia. Tavola 3. Le rappresentazioni della democrazia: studenti e disoccupati (%). Rappresentazione democrazia Studenti Disoccupati Politica procedurale e partecipativa Sociale culturale: libertà, eguaglianza, solidarietà 23,5 56,6 25,8 53,6 Mista: politica e sociale-culturale 12,2 9,6 8,2 100,0 10,2 100,0 Utopico-critica Totale Le risposte che contengono esclusivamente riferimenti alla dimensione sociale e culturale della democrazia appaiono nettamente maggioritarie e sono addirittura il doppio di quelle che contengono esclusivamente riferimenti politici in senso formale ed istituzionale. Poche sono, invece, le risposte miste vale a dire quelle in cui la rappresentazione della democrazia viene costruita facendo riferimento sia alla dimensione politica sia a quella sociale e culturale. In breve: la comparazione delle rappresentazioni della democrazia di questi due tipi di giovani è di sicuro interesse perché si tratta di giovani che hanno esperienze di vita assai diversificate. Gli studenti fanno principale riferimento ad un’istituzione formativa che offre, quantomeno potenzialmente, delle prospettive di crescita dell’identità e di affermazione sociale; i disoccupati, invece, hanno già fatto e fanno tutt’ora un’esperienza che problematizza la loro relazione con il mercato del lavoro e che dunque sottolinea soprattutto un’effettiva difficoltà di affermazione sociale. E’ significativo osservare che la distribuzione delle rappresentazioni nelle due colonne della tavola 3 non svela divergenze veramente consistenti, come dire che il mondo dei giovani produce delle proprie, distinte, rappresentazioni della democrazia definite per l’appunto soprattutto dalla condizione giovanile più che dall’esperienza istituzionale esterna a questo mondo. Naturalmente ciò non esclude la differenziazione nelle rappresentazioni espres353 se dai giovani. Anzi, come si è osservato sopra, la ricerca ci dimostra che il mondo giovanile appare caratterizzato da un insieme diversificato di rappresentazioni della democrazia, con un’ovvia convergenza dei giovani su alcune di queste rappresentazioni piuttosto che su altre. E’ veramente impossibile ricondurre il tutto ad una rappresentazione generale, e appare più giusto parlare di pluralità di rappresentazioni della democrazia, spesso con alcuni punti di contatto, ma talvolta anche in diretta contrapposizione tra di loro. Il campionario dei fenomeni e di significati che vengono usati dai giovani per “costruire” le loro rappresentazioni della democrazia è molto variegato. La peculiare esposizione delle giovani generazioni ai processi di differenziazione sociale e la pluralizzazione delle identità sociali che attraversa l’universo giovanile contemporaneo si riflette direttamente sulla produzione delle loro rappresentazioni della democrazia con conseguenze tutte da valutare sul consenso e sulla legittimazione prossima ventura dell’ordinamento democratico italiano ed europeo. 5. Le basi sociali delle rappresentazioni della democrazia Dopo queste prime considerazioni è opportuno fare un ulteriore passo in avanti nell’analisi e riflettere su quale sia la piattaforma sociale sulla quale si costruiscono le rappresentazioni della democrazia nei giovani. Appare interessante, da un lato, ricostruire i contesti da cui vengono “apprese” le diverse rappresentazioni della democrazia ed ipotizzare come queste risultino connesse con la sfera dei comportamenti politici. Innanzitutto, le differenze di genere sembrano costituire un discrimen assai incisivo: sono gli uomini ad elaborare delle rappresentazioni più politiche della democrazia e a caratterizzarsi per un maggiore atteggiamento di sfiducia sulle possibilità concrete di realizzazione della democrazia rispetto alle donne, mentre le rappresentazioni che configurano la democrazia in termini sociali-culturali e quelle miste prevalgono nelle donne, sia pure in maniera tenue. Un secondo aspetto riguarda il rapporto tra le rappresentazioni della democrazia e le forme dell’agire sociale e pubblico. A questo proposito si nota come alle due rappresentazioni fondamentali corrispondano modi diversi di considerare e di realizzare il pro354 Tavola 4. Le rappresentazioni della democrazia: studenti, per genere (%) Rappresentazione democrazia Uomini Donne Totale Politica procedurale e partecipativa Sociale culturale: libertà, eguaglianza, solidarietà 27,6 51,3 24,5 55,6 25,8 53,9 Mista: politica e sociale-culturale Utopico-critica 10,6 10,4 13,3 6,6 12,2 8,2 100,0 100,0 100,0 Totale prio impegno personale. I soggetti che evidenziano nella loro rappresentazione gli aspetti politici della democrazia, e in primo luogo quelli procedurali, tendono a dichiarare un maggiore coinvolgimento nelle forme politiche tradizionali, vale a dire le organizzazioni di partito. Al contrario, i soggetti che rappresentano la politica in termini più sociali e culturali tendono a preferire le forme partecipative aperte, come l’associazionismo, oppure le forme nuove di azione politica. I titolari di una rappresentazione della democrazia che mette insieme sia la dimensione politica sia la dimensione sociale-culturale optano, in maniera relativamente indifferenziata, per le due forme di agire politico. Una visione più politica della democrazia e un maggiore impegno nei partiti non pregiudica affatto un coinvolgimento nel volontariato, anzi questo rimane una sfera vitale dei propri interessi che si affianca stabilmente alla politica, anche per gli ormai rari militanti nei partiti. Il volontariato costituirebbe, in altre parole, un trait d’union delle giovani generazioni al di là del tipo di rappresentazione cognitiva della politica e del tipo di impegno politico personale. Allo stato della ricerca appare arduo interpretare il senso di questa relazione tra rappresentazione politica della democrazia e coinvolgimento partitico, da una parte, e rappresentazione sociale-culturale e coinvolgimento nel volontariato e nelle nuove forme di azione politica. Il dato dichiarato, pur nella sua relativa consistenza (svolge regolarmente attività di volontariato solo il 12,5% degli studenti) sembra confermare che è in atto all’interno dell’universo giovanile una revisione del significato attribuito all’impegno politico con un’evidente inclinazione al rifiuto della delega. La mappatura delle rappresentazioni della democrazia degli studenti acquista un’ulteriore messa a fuoco sulla base delle risposte classificate in ordine all’item indicato nella tavola 6. Più preci355 Tavola 5. Le rappresentazioni della democrazia e la partecipazione alle attività di volontariato(%) Rappresentazione democrazia “Svolge attività di volontariato?” Non mi Non Partecipo Partecipo interessa partecipo saltuaria- regolarmente mente Politica procedurale e partecipativa 9,5 62,2 17,0 11,3 Totale 100,0 Sociale culturale: libertà, eguaglianza, solidarietà 5,8 63,6 17,3 13,2 100,0 Mista: politica e sociale-culturale 4,5 65,9 18,2 11,4 100,0 Utopico-critica 8,9 56,7 21,1 13,3 100,0 Totale 6,9 63,0 17,6 12,5 100,0 samente la tavola 6 mostra come i giovani titolari di una rappresentazione “politica” stricto sensu della democrazia manifestino un considerevole distacco rispetto all’ipotesi di delegare la politica ai professionisti della politica. L’atteggiamento opposto prevale nei giovani che adottano una rappresentazione della democrazia che si è definita “sociale-culturale”, vale a dire una rappresentazione costruita con riferimento non a valori, processi ed istituzioni tradizionalmente e direttamente politici ma piuttosto con riferimento ad obiettivi come la libertà personale, la tutela della privacy, l’eguaglianza delle opportunità di vita. Più precisamente: i giovani caratterizzati da rappresentazioni “politiche” della democrazia non sono in sintonia con la prospettiva di delega per il 46%, mentre i giovani con rappresentazioni “ sociali e culturali” esprimono il loro disaccordo (totale e parziale) per una quota inferiore del 38,6%. Di contro, solo il 34,9% dei giovani con rappresentazioni “politiche” si dichiara d’accordo (“abbastanza” + “del tutto”) mentre effettuano una analoga dichiarazione ben il 41,4% dei giovani con rappresentazioni “sociali e culturali” della democrazia. In altri termini, il tipo di rappresentazione della democrazia influenza di conseguenza il modo di relazionarsi del giovane con la politica. Chi aderisce ad una rappresentazione sociale e culturale della democrazia accetta che siano soprattutto i politici di professione a fare politica perché quel che conta per lui è attuare la democrazia nella sfera del sociale e del privato; mentre c’è disinteresse, svalutazione e distacco nei confronti della attività politica 356 intesa in modo tradizionale. Chi è dotato di una rappresentazione “utopico-critica” della democrazia da un lato occupa la più ampia zona di incertezza rispetto all’item proposto(22,1%), dall’altro lato esprime i due valori apicali sia per il disaccordo integrale (16,8%) sia per l’accordo integrale (13,7%). Questo andamento erratico ed estremo conferma la composizione eterogenea di questo gruppo che appare frustrato rispetto alle aspettative che un giovane può nutrire rispetto alla democrazia. Sembra di potere dire che questo tipo di giovane, ipercritico nei confronti della democrazia così come viene realizzata, sarebbe disposto a partecipare direttamente se mutassero le condizioni di fondo che presiedono al funzionamento del sistema democratico. Non è un caso che reclami più di altri un intervento in politica di politici che non siano politici di professione e che dunque auspichi l’adozione di nuove forme di azione politica ed offra anche una sua disponibilità ad un impegno diretto. Nello stesso tempo per chi appartiene a questo gruppo la delusione diventa incertezza e dunque si trasforma in apatia politica radicata oppure peggio in una presa di distanza senza possibilità di ripensamenti : se la politica con la “p” minuscola, falsamente democratica, è la sola forma di politica che si può realizzare allora è meglio lasciarla ai politici di professione e che muoia Sansone con tutti i Filistei! Tavola 6. Rappresentazioni della democrazia e grado di accordo con l’affermazione: “E’ bene lasciare la politica ai politici di professione” (studenti in %). “Elaborazione” Rappresentazione democrazia Politica procedurale e partecipativa Del tutto Piuttosto Incerto Abbastanza Del tutto Totale accordo accordo in disacc. in disacc. 11,1 34,9 19,2 29,0 5,9 100,0 Sociale culturale: libertà, eguaglianza, solidarietà 9,2 29,4 20,0 32,3 9,1 100,0 Mista: politica e socialeculturale Utopico-critica 13,1 35,9 17,9 26,9 6,2 100,0 16,8 26,3 22,1 21,1 13,7 100,0 Totale 10,8 31,3 19,7 29,9 8,3 100,0 357 La tavola 7 è un tentativo di esplorare indirettamente gli orientamenti dei giovani verso l’impegno politico istituzionalizzato, prospettato nella forma dell’iscrizione virtuale ad un partito. A parte la constatazione che il 7,9% dei rispondenti ha già fatto l’esperienza di iscriversi ad un partito, una quota quindi di una certa consistenza ove si consideri la congiuntura di aperta ostilità che i giovani manifestano oggi per i partiti1, merita di evidenziare che ben il 55,2% degli studenti dichiara che potrebbe iscriversi ad un partito. Il dato suona non poco paradossale e va valutato secondo la consueta prospettiva per cui ad ogni rappresentazione della democrazia corrisponde un dato orientamento rispetto alla sfera pubblica. In breve: i giovani titolari di una rappresentazione mista (politica in senso tradizionale e sociale-culturale) sono quelli che manifestano un’inclinazione di livello apicale per una possibile iscrizione ad un partito. In generale, tuttavia, anche le rappresentazioni della democrazia di altro tipo non inibiscono questa disponibilità eccezion fatta per i giovani che della democrazia hanno una rappresentazione di carattere utopico-critico. Quest’ultima è una zona dell’universo giovanile che, come si è detto più volte, risulta essere largamente minoritaria. In attesa di ulteriori approfondimenti empirici, da attuare anche grazie a domande che consentano una verifica incrociata tra indicatori differenti di partecipazione civica, sembra di potere leggere questi dati nei termini di un’aspirazione diffusa tra i giovani ad un rinnovamento del sistema politico tramite l’azione dei partiti. Altre ricerche sul rapporto tra giovani e sistema politico italiano svelano la sfiducia diffusa dei giovani verso i partiti ed il rischio di delegittimazione che accomuna queste istituzioni con i politici di professione2. I nostri dati non sono in controtendenza ma vanno piuttosto letti nel senso che i giovani non disdegnano, in linea di massima, di partecipare al rinnovamento della vita politica anche entrando nei partiti perché evidentemente ritengono che la vita della democrazia è tuttora ancorata al funzionamento di questi particolari canali istituziona1 Per un quadro approfondito sul tema si rinvia al saggio-ricerca di P.Turi (1999). 2 Cfr. Buzzi, Cavalli, de Lillo (1997, spec. pp. 133-4): il 46% dei giovani italiani dichiara di non aver nessuna fiducia nei politici e solo il 13,3% dà “molta” e “abbastanza” fiducia ai partiti. 358 Tavola 7. Le rappresentazioni della democrazia e l’iscrizione virtuale ad un partito(%) Rappresentazione democrazia “Sarebbe disposto ad iscriversi ad un partito?” Non farei Potrei fare Ho fatto Totale Politica procedurale e partecipativa 35,2 54 10,7 100,0 Sociale culturale: libertà, eguaglianza, solidarietà 38,3 55,7 6,0 100,0 Mista: politica e sociale-culturale 31,7 60,7 7,6 100,0 Utopico-critica 40,8 46,9 12,2 100,0 Totale 36,9 55,2 7,9 100,0 li. La disponibilità dei giovani si lega comunque almeno ad una condizione: che queste istituzioni vengano rifondate e si aprano a quelle concezioni della democrazia che già ora stanno attraversando, rinnovandola, la cultura politica in Italia e in Europa. Anche l’incrocio tra gli orientamenti di voto dichiarati e le dimensioni che animano le rappresentazioni della democrazia fa riscontrare alcuni elementi interessanti. Va tuttavia notato che il nostro campione di giovani risulta marcatamente caratterizzato a sinistra e con una propensione di voto assai pronunciata per i Democratici di Sinistra (32,7%), seguita da AN(17,5%) e Rifondazione comunista (17,1%). Dai nostri dati emerge che la dimensione partecipativa, quella egualitaria ma anche quella “critica e di sfiducia” sono maggioritarie tra chi vota per un partito di estrema sinistra come Rifondazione comunista, mentre chi vota per un partito della sinistra moderata come l’ex-PDS caratterizza la sua rappresentazione della democrazia verso le dimensioni libertarie e solidaristiche-comunitarie. Gli elettori di Forza Italia spiccano per le dimensioni libertarie e procedurali e, infine, quelli di AN si dividono tra una visione “critica e sfiduciata” della democrazia e la dimensione procedurale. Questo stesso orientamento si rintraccia nella collocazione sull’asse destra-sinistra. La democrazia sociale e partecipativa costituisce il patrimonio distintivo della sinistra estrema, la democrazia libertaria appare tipica della sinistra moderata, del centro e del centro destra. La democrazia procedurale è invece propria del 359 centro e del centro destra. Quella “aperta” o se si preferisce solidaristica è di pertinenza della sinistra moderata, mentre le risposte che esprimono critica e sfiducia si concentrano specialmente nell’area dell’estrema destra e dell’estrema sinistra. L’appartenenza all’estrema sinistra (e specialmente a Rifondazione) appare quindi il tramite attraverso cui si diffondono e si alimentano le rappresentazioni della democrazia caratterizzate da significati di partecipazione e di istanze di eguaglianza; questa zona politicizzata eredita la visione tipica della sinistra tradizionale italiana, quella socialista e comunista. La sinistra moderata e in particolare il PDS hanno invece, in un certo senso, voltato pagina e acquisito elementi tipici della tradizione libertaria della nuova sinistra e del pensiero liberale (privilegiamento degli individui e delle loro aspirazioni). La destra estrema continua a manifestare ancora chiari elementi di natura antidemocratica3 . 6. Padri e figli: le rappresentazioni della democrazia nelle generazioni La comparazione fra le risposte alla domanda “che cos’è per lei la democrazia?” date dagli studenti e quelle date dai loro padri introduce nell’analisi la dimensione generazionale, cioè una variabile utile, tra l’altro, per conferire una maggiore specificità agli orientamenti espressi dai giovani d’oggi. Abbiamo due generazioni, quella dei figli nata nella seconda metà degli anni Settanta, che ha vissuto la fase formativa dell’adolescenza a cavallo fra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, e quella dei padri nata fra la seconda metà degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta, vale a dire una delle prime generazioni italiane che ha usufruito dell’allargamento del sistema educativo e che ha promosso e partecipato al cambiamento politico, sociale e culturale avviato nella seconda metà degli anni Sessanta. La continuità e i cambiamenti intergenerazionali che possiamo osservare nelle rappresentazioni della deAd esiti analoghi sembrano approdare le raffinate ricerche su destra e sinistra nel caso italiano condotte da A. Santambrogio (1998 e 1999). Sul tema si vedano gli approfondimenti empirici elaborati da E. Caniglia in questo stesso Rapporto. 3 360 mocrazia e nei valori che le strutturano – trattandosi di due generazioni in senso proprio, l’una discendente dall’altra – si possono ricondurre per certo, anche se in maniera non esclusiva, ai processi di socializzazione politica familiare. Le concezioni della democrazia espresse dai padri e dai figli, la cui corrispondenza familiare è stata accertata preventivamente e mantenuta in sede di elaborazione dei dati4 , mostrano significative concordanze ma anche delle divergenze, alcune delle quali inattese. Per entrambi il significato valoriale più frequentemente associato alla rappresentazione della democrazia è “libertà”. Tra i padri l’idea liberale-libertaria-espressiva di democrazia è ancora più diffusa che tra i figli (il 63,6% contro il 52,1%). Tutti gli altri significati di democrazia sono indicati esplicitamente da un numero più ridotto di risposte. Un padre su cinque dà alla democrazia una valenza solidaristica: la democrazia è “vivere insieme agli altri”, contemperando gli interessi e perseguendo fini comuni. Le parole più spesso associate a questa definizione sono “solidarietà”, “pace”, “convivenza civile”, “onestà”, “ordine”, “tutela dei più deboli”, ma anche “casa” e “lavoro”. Questo significato perde, invece, nettamente di importanza per i giovani: solo l’8,2% lo evoca. La dimensione ugualitaria– che sottolinea gli aspetti della giustizia sociale e della parità di opportunità, di diritti e di doveri – ha un’evoluzione di segno opposto alla precedente: è sentita dal 17,8% dei padri e dal 25,3% dei figli. Crescono tra i giovani, rispetto ai genitori, le rappresentazioni politiche della democrazia: quella procedurale passa dal 15,6% fra i padri al 22,5% tra i figli e quella partecipativa dal 10% al 15,8%. La concezione utopico-critica è, infine, più avvertita tra i figli (11,1%) che tra i padri (7%) (cfr. tav. 8). Una constatazione di un certo interesse riguarda una diversa propensione alla multidimensionalità nella rappresentazione della democrazia nel passaggio dai padri ai figli. Per i padri la democrazia ha un contenuto predominante di “libertà”, sia che venga richiamata come unico significato sia che si accompagni ad altri valori; il punto è che nelle loro risposte le altre dimensioni sono evocate con Va notato che il confronto genitori-figli si realizza per un sottocampione di 748 studenti, vale a dire per una popolazione che è poco di più del 50% dell’intero campione. Ne consegue che tutti valori misurati a proposito del confronto genitorifigli non si possono confrontare con quelli pertinenti l’intero campione. 4 361 Tavola 8. Le dimensioni nelle rappresentazioni della democrazia. Il confronto genitori-figli (%*) Dimensione Padri Figli Procedurale Partecipativa 15,6 10,0 22,5 15,8 Egualitaria Liberale-libertaria-espressiva 17,8 63,6 25,3 52,1 Solidaristica 20,9 8,2 7,0 0,9 11,1 0,9 Utopico-critica Altro-non sa *le risposte sono state codificate in modo da individuare tutte le dimensioni eventualmente presenti in ciascuna. Di conseguenza ad una risposta possono corrispondere una o più dimensioni. una frequenza molto più ridotta. Tra i figli si osserva un tendenziale bilanciamento fra il peso della concezione della democrazia come “libertà” e le altre: la libertà rimane il contenuto prevalente ma il crescere dell’incidenza delle altre dimensioni (salvo quella solidaristica) sembra indicare una marcata tendenza alla pluralizzazione dei significati. Si osserva un passaggio da una maggiore omogeneità e concordanza sul significato di democrazia nella generazione dei padri ad una differenziazione culturale e valoriale più accentuata nella generazione dei figli. L’indebolimento dell’univocità si intreccia con una diminuita condivisione dei significati della democrazia. Questa tendenza si apprezza in modo più preciso se si considera la distribuzione delle concezioni univoche di democrazia, vale a dire quelle che si richiamano esplicitamente ad un’unica dimensione. La quota di coloro che hanno una concezione pluridimensionale della democrazia è consistente sia tra i padri che tra i figli (intorno al 30%) e non varia nel passaggio tra le generazioni. Se, però, si sposta l’attenzione sull’incidenza delle risposte di coloro che hanno scelto una sola dimensione, si evidenzia la maggiore concentrazione di quelle dei padri su di un’unica dimensione – quella della libertà –, mentre quelle dei figli mostrano una crescente dispersione sul ventaglio della tipologia (tav. 9). E’ comunque significativo constatare, più in generale, che la propensione ad elaborare una rappresentazione monodimensionale della democrazia è veramente forte e quasi omogenea sia tra i padri sia tra i figli. Questo dato sembra 362 attenuare l’incidenza della variabile preparazione scolastica, tipica degli studenti della facoltà di scienze politiche che sarebbero maggiormente portati all’elaborazione di definizioni su un tema che è un po’ il loro pane quotidiano. Il dato in altre parole sembra avvalorare l’ipotesi che il tema comporti un certo coinvolgimento, al di là Tavola 9. Mono e pluridimensionalità nelle rappresentazioni generazionali della democrazia (%) Rappresentazione democrazia Padri Figli 9,9 4,1 15,6 6,8 4,1 39,7 7,4 27,8 Solo solidaristica 6,7 2,9 Solo utopico-critica Solo altro-non sa 4,9 0,9 8,4 0,9 Totale rappresentazione ad una dimensione 70,3 69,8 Rappresentazioni a più dimensioni 29,7 30,2 100,0 100,0 Solo procedurale Solo partecipativa Solo egualitaria Solo liberale-libertaria-espressiva Totale dell’appartenenza generazionale, e reclami quindi idee chiare ed opportune distinzioni. Un risultato atteso è la presenza più rilevante tra i figli della concezione utopico-critica di democrazia: tra le concezioni univoche di democrazia la quota di giovani che aderiscono a questa concezione è doppia di quella dei padri. Va da sé che la propensione al radicalismo si spiega anche in relazione all’effetto dell’età ed è un atteggiamento caratteristico della condizione giovanile che sembra rimanere costante attraverso il tempo, anche se il rapporto tra i giovani e la politica nell’Italia di quest’ultimo mezzo secolo è cambiato non poco e non certo in maniera lineare e prevedibile. Meno scontato, invece, è il fatto che le concezioni politiche della democrazia siano più diffuse tra i figli che non tra i padri. Per quanto riguarda la concezione partecipativa, evidentemente, gioca anche qui, almeno in parte, un effetto dell’età. Ma anche la concezione procedurale, che denota un’adesione fredda alla democra363 zia, è fatta propria più dai figli che dai padri. Una delle ragioni risiede probabilmente nel grado di informazione e nella competenza politica dei figli, legate al livello di istruzione (nel campione i giovani sono tutti studenti universitari, quindi mediamente più istruiti dei loro padri, che hanno titoli di studio eterogenei). Ma l’aspetto più rilevante e per certi versi più sorprendente, alla luce delle ipotesi teoriche correnti sulla contrapposizione e sulla transizione fra sistemi di valori nelle società occidentali e, in particolare, tra le generazioni, riguarda le concezioni “non politiche” – o meglio che esprimono un’accezione della politica in un senso che si è etichettato sopra come solidaristica. Dal confronto tra la generazione più giovane e quella precedente ci si attenderebbe nella prima una maggiore diffusione della concezione liberalelibertaria-espressiva della democrazia ed una minore diffusione della concezioni egualitaria e solidaristica. Dalla nostra ricerca sembra risultare in conformità con le previsioni solo la diminuzione fra i giovani della rappresentazione della democrazia di tipo comunitario e solidaristico; ma anche, contrariamente ad esse, una maggiore propensione da parte dei padri verso la rappresentazione della democrazia come libertà e una loro adesione più limitata alla concezione della democrazia come eguaglianza. Anche questo risultato sollecita una più attenta riflessione. E’ vero che al valore di libertà – come è implicito anche nella nostra tipologia – possono essere attribuiti molti significati, alcuni dei quali ricadono nella categoria dei valori post-materialisti ed altri in quella dei valori materialisti. Il discrimen fra la concezione della democrazia come libertà nei padri e nei figli potrebbe, cioè, essere determinato dal diverso significato dato al valore-libertà da parte di due generazioni che sono nate e cresciute in contesti sociali e politici assai diversi. Le risposte non sempre ci permettono di capire meglio le connotazioni del termine perché contengono un’indicazione secca senza troppe aggettivazioni o precisazioni. Nella migliore delle ipotesi viene richiamata la “libertà di idee o di opinione” senza specificare altro. Tuttavia le risposte che sono più argomentate indicano chiaramente la presenza di significati maggiormente espressivi del termine libertà, che rimandano all’attivazione di “strategie esistenziali”. Questo genere di risposte, però, non è affatto una prerogativa dei figli, ma è frequente anche tra i padri. Il confronto di alcune definizioni di democrazia date 364 dagli uni e dagli altri è illuminante5 . I valori del sé, dell’interiorità, dell’intimità, dell’espressività sono elementi costitutivi della rappresentazione della democrazia come libertà per entrambe le generazioni. Ribadendo il concetto, i genitori non appaiono più “materialisti” dei figli. Una differenza cruciale si ravvisa, però, nelle rispettive preferenze per le concezioni della democrazia che chiamano in causa due distinti complessi di valori, più vicini nel caso della democrazia egualitaria alle politiche di emancipazione. Questa associazione fra le rappresentazioni della democrazia e le costellazioni valoriali semplifica in parte la complessità delle due concezioni della democrazia, che spesso è difficile distinguere nettamente perché si sovrappongono fra di loro. Ci sembra comunque di poter dire che le concezioni dei figli sono più assimilabili all’“emancipatory politics”. La democrazia è intesa dai giovani come ambito di riduzione e di superamento degli squilibri sociali e dei rapporti di dominio. I padri sono, invece, più sensibili alle valenze della democrazia, che includono i bisogni di sicurezza sociale ed economica e di ordine, ma anche la relazione con gli “altri” e la sfera del bene comune. In questo senso si può parlare di un incisivo cambiamento intergenerazionale e di una tendenziale sostituzione di valori che, però, attengono alla sfera sociale, della vita collettiva, dei rapporti con gli altri e delle relazioni di potere – e non alla sfera della soggettività e dell’intimità. Dato che stiamo comparando le rappresentazioni della democrazia dei padri con quelle dei figli un aspetto rilevante da considerare è sicuramente quello della riproduzione dei valori politici nel corso della transizione da una generazione alla successiva. In che misura i figli conservano le rappresentazioni della democrazia Parlano i figli: “È la libertà di essere ed esprimersi”; “ È avere libertà di lavorare, esprimersi, studiare ed essere liberi”; “Dovrebbe permettere l’espressione della libertà di ciascun individuo e valorizzare la persona nella sua specificità”. Parlano i padri: “Poter lavorare quanto voglio; poter passeggiare dove e quando desidero; poter esprimere le proprie idee”; “E’ una forma di rispetto per se stesso e per gli altri. E’ la libertà’ di esprimersi e di farsi valere. E’ la capacità dell’individuo di poter progredire nella società”; “E’ il rispetto da parte di chiunque delle nostre più intime aspirazioni personali”; “Libertà di esprimere le proprie capacità nel bene e nel progresso di tutta la comunità”; “La democrazia è la possibilità che ciascun individuo ha di esprimersi e realizzarsi senza calpestare i diritti altrui”. 5 365 dei loro padri? Oppure prendono da quelle una distanza più o meno radicale? Il nostro campione mostra un forte livello di riproducibilità delle credenze nella democrazia. I padri che concepiscono la democrazia come “complesso procedurale” hanno la quota più alta, rispetto agli altri padri, di figli “proceduralisti”; lo stesso vale per le altre concezioni della democrazia, con l’unica rilevante eccezione dei padri con una concezione solidaristica della democrazia. In quest’ultimo caso la percentuale di figli che propendono per una visione solidaristica della democrazia non è significativamente diversa dalle altre. Quindi, la trasmissione meno riuscita di valori democratici è quella che considera la democrazia come convivenza, socialità e solidarietà. All’opposto, la trasmissione sicuramente più efficace riguarda la concezione utopico-critica della democrazia: i genitori utopisti hanno il triplo della probabilità di avere un figlio che aderisce alla concezione della democrazia come utopia degli altri genitori (tav.10). Tavola 10. Le dimensioni nelle rappresentazioni della democrazia dei figli, secondo le concezioni dei loro padri (%)* Figli Padri Dimensione Procedu- Parteci- Eguali- Liberale Solidari- Utopico Altro rale pativa taria libertaria stica critica non so espressiva Procedurale 29,9 22,2 18,8 45,3 6,0 13,7 Partecipativa 20,0 24,0 26,7 48,0 9,3 8,0 0,9 - Egualitaria 21,1 10,5 37,6 52,6 10,5 8,3 2,3 Liberale- libertariaespressiva 21,2 14,5 23,3 56,3 8,0 10,1 0,8 Solidaristica 19,2 14,1 23,7 57,1 9,0 12,2 1,3 Utopico-critica 21,2 15,4 30,8 34,6 9,6 28,8 1,9 Totale 22,5 15,8 25,3 52,1 8,2 11,1 0,9 *le risposte sono state codificate in modo da individuare tutte le dimensioni eventualmente presenti in ciascuna. Di conseguenza ad una risposta possono corrispondere una o più dimensioni. 7. La democrazia come stereotipo? Dopo aver esposto per sommi capi alcuni risultati di questa ricerca, occorre mettere a fuoco le possibili chiavi di lettura sui processi che caratterizzano la cultura politica giovanile esplicita366 mente suggerite dai dati empirici. Si assiste ad un allargamento nei significati e negli ambiti qualificanti la rappresentazione della democrazia, che travalica quelli strettamente politici per arrivare a ricomprendere elementi sociali, culturali e individuali. Questa chiave di lettura è nella stessa linea delle interpretazioni di Giddens sulla life politics. La democrazia nella sua accezione più strettamente istituzionale e politica sta ormai sullo sfondo come elemento, in un certo senso, naturale e dato. Questa interpretazione è rafforzata anche da un’altra considerazione. I riferimenti alla sfera della politica e per traslato, non di rado, alle implementazioni del modello democratico assumono la forma di stereotipi (conoscenza con basso grado di consapevolezza). Anche nel caso delle risposte in cui si evidenzia la non corrispondenza della realtà del sistema politico italiano all’ideale democratico, la forma delle critiche viene espressa in modo stereotipato e non problematizzato da parte dei giovani secondo una prospettiva analitica. E’ possibile che questo stato di cose possa essere letto come l’esito di un’eccessiva chiusura e specializzazione del sottosistema politico, sempre più distante dalla società civile, sempre più pressato dalle esigenze funzionali della società complessa permeata dalle dinamiche di mercato ed inserita in un processo di globalizzazione che depotenzia la dimensione politica della vita collettiva. Ma, alla luce della prospettiva teorica delle rappresentazioni sociali, questo fenomeno può anche dipendere da altre cause. Esso può essere visto come l’esito imprevisto, ma forse inevitabile, dell’eccessivo ed incontrastato successo della cultura politica democratico-liberale che ha provocato una sorta di “oggettivazione” delle procedure democratiche. Le procedure e le istituzioni democratiche, infatti, si sono trasformate in un ambiente “naturale”, un elemento che soprattutto i giovani danno per scontato e che spesso sfugge alla consapevolezza individuale ed allora, in quanto tale, assunto come stereotipo. Il pericolo di questa situazione sta nel fatto che gli stereotipi, come ricorda Santambrogio (1999), possono essere conosciuti ma non per questo condivisi. Esiste il rischio che quello che ad un primo sguardo sembra essere una definitiva vittoria della democrazia e della cultura democratica nasconda, invece, al suo interno l’assenza di una convinta presa di posizione sul problema della democrazia. Se in passato i pericoli per la democrazia nascevano 367 da ideologie antidemocratiche, alimentate da organizzazioni totalitarie e dall’esistenza di forti disparità sociali, oggi sembra insinuarsi un pericolo nuovo e forse ancora più subdolo perché non facilmente visibile. Esso consiste nella mancanza di un processo di crescita e maturazione di una consapevolezza personale sul problema della democrazia politica, con il risultato che se a parole i giovani sanno definire e caratterizzare la democrazia, non è detto però che questa competenza cognitiva si traduca in atti e in comportamenti ad essa congruenti. L’assenteismo elettorale, il disinteresse per le vicende pubbliche e per i destini collettivi sono diffusi in larghe porzioni delle giovani generazioni. L’attuale successo della democrazia procedurale e delle sue formule politiche può allora nascondere un pericoloso vuoto di cultura politica ed un radicamento troppo debole dello spirito civico. Ulteriori ricerche, condotte con interviste in profondità su segmenti eterogenei dell’universo giovanile, dovranno cercare di indagare con maggiore attenzione i significati dei termini usati dai giovani per definire la democrazia ed esplorare ad una distanza ravvicinata la dimensione delle loro motivazioni politiche e del loro effettivo grado di interesse civico. Purtroppo non si riesce del tutto a sfuggire al presentimento che si viva una stagione dominata dai tempi che Hannah Arendt chiamava “i tempi oscuri” vale a dire quelli in cui « il mondo diventa così incerto che le persone non chiedono più alla politica se non di prestare la dovuta attenzione ai loro interessi vitali ed alla loro libertà privata». 368 PARTE IV LA RIPRODUZIONE DELLA CULTURA POLITICA 369 370 CAPITOLO TREDICESIMO LA FAMILIA COMO AGENTE DE TRANSMISIÓN DE VALORES E IDEOLOGÍA EN ESPAÑA El fenómeno de la socialización implica mútiples agentes. Tradicionalmente, en la transmisión de valores e ideología, la familia ha desarrollado un papel destacado. En este trabajo se evalúa dicho papel para el caso español a través del análisis de datos de unidades familiares – padres, madres e hijos – recogidos mediante encuestas. Se comprueba la eficacia del agente socializador de la familia en la transmisión de tres elementos de la cultura política: la ubicación ideológica de los hijos, la transmisión de los valores relacionados con el estado, y la transmisión de valores relacionados con lo personal y afectivo. Se revela el papel destacado de la figura materna en dicha transmisión y la coincidencia en el mayor peso de esta influencia materna tanto en la ideología como en los valores afectivos de los hijos. Esta investigación se basa en la explotación de los datos de dos encuestas llevadas a cabo en España dentro del proyecto The Integration of Young People into Working Life and the Future of Democratic Culture in Southern Europe. Se trata de dos encuestas simultáneas realizadas a padres e hijos (datos ligados) sobre las temáticas de socialización política y democracia, mercado de trabajo e integración laboral (véase apéndice metodológico). La familia ha sido considerada uno de los principales agentes de socialización política. Junto con otras instituciones también señaladas como agentes (escuela, iglesia, medios de comunicación, grupo de iguales) en el interior de la familia se transmiten creencias, valores, sentimientos hacia los “objetos políticos” de unas ge- Questo capitolo è stato scritto da Antonio Alaminos e Clemente Penalva. 371 neraciones a otras. Estas instituciones en su papel de agentes, de actores envueltos en un proceso, explican y llenan de significado el concepto de cultura política, en el sentido de actuar como medios de transmisión de las pautas más o menos estables de comportamiento y creencias políticas que forman parte del sustrato de una sociedad y de sus expresiones manifiestas en la adopción de un sistema político. En una concepción más amplia de “cultura” y de “socialización” la familia sirve de eje de transmisión de ideas, valores y creencias en otros aspectos relacionados con los subsistemas económico, de las relaciones sociales, cultural y normativo; y, por tanto, la familia enseña gran parte del todo que se ha de aprender para vivir y adaptarse en sociedad. Ahora bien, la familia compite con otros “agentes” en la definición de una cultura política y, desde una perspectiva histórica, se ha llegado al diagnóstico en las últimas décadas que en esta competencia su papel había decrecido en comparación con el rol jugado por los partidos políticos, los sindicatos, los medios de comunicación o el grupo de iguales. Este último es esencial en la vida cotidiana de los jóvenes, colectivo en el cual se centra este estudio. Ya, desde los precursores del concepto de “cultura política”, Almond y Verba, se decía que en la familia se generan parte de las “orientaciones personales interiorizadas” hacia los “objetos y fines de estas orientaciones” en el contexto político; y estas orientaciones marcan las predisposiciones y reacciones de los individuos también ante los cambios políticos. Son varias las investigaciones que han abordado el estudio y la medida del rol socializador político de la familia intentando evaluar la importancia del “factor” familia en el proceso de socialización política (Hyman 1959; Jennings y Niemi 1981; Greenstein 1965; Percheron 1993). Esta investigación se propone estimar, en un primer acercamiento, en qué medida las actitudes políticas y la ideología de los progenitores influyen en las de los hijos, haciendo referencia al diferente peso de esta influencia según el género de los padres. Para ello, consideramos la transmisión de la ideología, la transmisión de actitudes hacia el objeto Estado y la transmisión de valores relacionados con lo afectivo. En primer lugar, para la evaluación de la trasmisión de ideología en términos amplios se ha empleado la escala de autoubicacion ideológica, con un solo indicador. Esta escala es empleada con frecuencia en los estudios de opinión política en España desde 372 finales de los años 70, y sustituye con eficacia escalas multiindicadoras para captar la variabilidad en el eje izquierda-derecha. En segundo lugar, para el estudio de los valores y actitudes se han empleado dos variables latentes, con dos indicadores en cada variable latente. El uso de estas variables viene dado por el hecho evidente, revelado en la literatura de investigación, de que los valores y actitudes son constructos psicosociales que difícilmente pueden ser directamente capturados en su variabilidad mediante variables manifiestas empleadas de manera aislada. 1. Transmisión de ideología En el estudio de la posible transmisión ideológica desde los padres a los hijos, hemos considerado interesante controlar las posibles relaciones introduciendo la variable género del hijo. Especialmente en la medida en que el género de los jóvenes introduce diferencias importantes en el posicionamiento ideológico. El modelo propuesto es un modelo saturado de tipo confirmatorio para testar las hipótesis de trasmisión ideológica desde los padres. El ajuste sobre los datos nos ofrece el siguiente modelo estructural. Y = –0,16X2 + 0,17X2 + 0,44X3 (–3,360) (3,181) (8,147) R2 = 0,334 donde Y = autoubicación ideológica de los hijos en escala 1 a 10 X1 = género del hijo X2 = autoubicación ideológica del padre en escala de 1 a 10 X3 = autoubicación ideológica de la madre en escala de 1 a 10 Podemos apreciar cómo en las pruebas t para cada coeficiente los coeficientes son significativamente distintos de cero, así como una varianza total explicada de la autoubicación de los hijos de un 33,4%. No obstante, la influencia de los progenitores sobre la ideología de los hijos es claramente distinta para los padres y las madres. De este modo, si consideramos la solución estandarizada, se observa cómo la ideología de la madre explica mejor la ideología de los hijos que la de los padres; controlando, además, por el género del hijo. 373 Así, el género muestra un coeficiente de –0,16 expresando que, como cambio medio, los hijos tienden a ser más de izquierdas que las hijas. Por otro lado, el coeficiente estimado para la ideología de los padres es de 0,17, siendo del 0,44 para la ideología de las madres. Estas conclusiones son consistentes con las obtenidas a partir de diferentes fuentes de datos (Alaminos 1994 y 1999), donde se comprueba que entre los jóvenes existe una mayor probabilidad de ubicación ideológica a la izquierda por parte de los hombres, así como que la trasmisión por parte de las madres de posiciones ideológicas es mejor que la de los padres. En consonancia con ello, en la elaboración del primer modelo se observa que sobre la ideología de los hijos influyen las variables ideología del padre e ideología de la madre. Gráfico 1. Transmisión de la ideología Del modelo cabe destacar, por último, la correlación entre las ideologías de los padres y de las madres, expresando una afinidad predecible en la pareja. En ese sentido, los coeficientes t muestran relaciones no significativas evidentes entre la ideología del padre y el género del hijo (0,33); y entre la ideología de la madre y el género del hijo (-1,43). Sin embargo, la correlación sí es significativa entre las ideología de los padres y de las madres. De acuerdo con ello, la ideología de la pareja correlaciona positivamente, y 374 expresa, por lo tanto, una tendencia a la sintonía ideológica entre los padres. 2. Transmisión de valores entre generaciones El estudio de la transmisión de valores y actitudes entre generaciones es uno de los objetivos de mayor interés en sociología. Para destacar la noción de transmisión, la pregunta empleada en el cuestionario para el análisis pone un énfasis especial en este aspecto: ¿Qué cualidades considera que son importantes en la educación de los niños? (valore cada una de ellas según una puntuación donde 1 es poco importante y 10 muy importante). Las cualidades para evaluar consideran los siguientes valores: la espontaneidad, el respeto a las instituciones, el amor al propio país y el afecto. Una de las virtudes de la pregunta es definir al hijo como un agente más dentro del proceso futuro de transmisión de valores. Es evidente que el planteamiento desde los hijos hacia el futuro es bastante difuso, en la medida en que el joven es susceptible de cambios y modificaciones que pueden intervenir durante el trascurso de su ciclo vital. No obstante, a efectos de consistencia interna del modelo, el planteamiento de la redacción de la pregunta es el adecuado en la evaluación de la transmisión de aquello que se considera importante entre generaciones. El análisis realizado considera dos pares distintos de indicadores, correspondientes con constructos cualitativamente diferentes. Por una parte, consideramos que los valores referidos a la “espontaneidad” y al “afecto” contienen elementos personales importantes. En cierto modo, estos dos indicadores expresarían componentes que se refieren en mayor grado al individuo, a su desarrollo personal, y, en menor grado, a componentes institucionales o de organización política. Se trataría, pues, de la transmisión de formas de ser y de formas de relacionarse con el mundo social. Definimos, asimismo, una segunda variable latente correspondiente con los indicadores “amor a la patria” y “respeto a las instituciones”. Este constructo identificaría valores de orden sociopolítico e institucional. Expresaría la relación con un orden exterior, y el reconocimiento de las identidades que dan cuerpo a la forma estatal de la sociedad: instituciones, poder político... Esta 375 variable latente apunta, por tanto, hacia el reconocimiento y la identificación con valores externos y superiores. Si bien el contenido de los constructos está bien identificado, surgen los problemas habituales para nombrarlos de forma única y no equívoca. Con el único deseo de nombrar los constructos anteriormente definidos, denominaremos “VLP” al factor o variable latente que considera los aspectos de desarrollo personal del individuo; y “VLE” a la variable latente que identifica al conglomerado de valores que definen el reconocimiento y aceptación de órdenes políticos y sociales superiores al individuo. La manera de operar en el empleo de estas variables latentes ha sido como se expone a continuación. Se ha procedido, en un primer momento, a la tarea consistente en la medición de las variables latentes (en las dos dimensiones mencionadas, la “afectiva” y la estatal), tanto para los padres como para los hijos. Posteriormente, se han especificado dos modelos estructurales con estas variables latentes, evaluando el modo en que los valores y actitudes de los padres explican las de los hijos; y considerando que esta relación se puede atribuir a los efectos de la socialización en la familia. Así, el proceso llevado a cabo considera el ajuste de las variables latentes sobre los indicadores que las definen, tanto para padres como para hijos; y una vez evaluada la significación de las mediciones efectuadas, se han desarrollado los modelos estructurales entre dichas variables latentes, expresando la trasmisión de valores entre generaciones. Otro aspecto colateral importante tenido en cuenta en los modelos es la relación entre ambos progenitores, donde la posible sintonía ideológica entre ellos puede expresar indirectamente la consistencia ideológica de valores y actitudes de la unidad familiar. Transmisión de valores de Estado. Los modelos de medición referidos a las variables latentes relativas a los valores de Estado (VLE) muestran una carga importante de las variables indicadoras, expresando, por tanto, una medición adecuada de la variable latente que los genera. De este modo1 , para los padres 1 En el texto se han reducido las notaciones simbólicas al mínimo imprescindible. En ese sentido se ha obviado el desarrollo de la notación sustituyéndola por su expresión conceptual con la finalidad de facilitar la comprensión del texto. 376 la variable latente “VLE” muestra una carga de 0,75 en la variable indicadora “respeto a las instituciones” y de 0,79 sobre la variable indicadora “amor a la patria”. Ambas cargas son altas y significativas. Una situación parecida encontramos en el caso de las madres donde las cargas sobre la variable latente corresponden 0,63 en la variable indicadora “respeto a las instituciones” y a 0,90 sobre la variable indicadora “amor a la patria”. De algún modo, el concepto “amor” dentro de la expresión puede haber contribuido a incrementar el peso de dicha variable indicadora. Como tendremos ocasión de ver más adelante, los elementos afectivos son especialmente importantes en el caso de las madres. Para los hijos, las cargas sobre la variable latente “VLE” son importantes: 0,80 en la variable indicadora “respeto a las instituciones” y de 0,73 sobre la variable indicadora “amor a la patria”. En el modelo de medición se recoge, asimismo, la correlación entre los errores de las variables indicadoras “respeto a las instituciones” expresada para los padres y “amor al país” para las madres, indicando una correlacion negativa de –0,17. La correlación entre los errores es claramente interpretable en la medida que se están considerando parejas afines (matrimonio entre padres y madres), con lo cual se parte de que existen otros elementos propios de la relación de pareja que intervienen en las valoraciones, además de los valores latentes. En este primer análisis de medición, podemos apreciar la presencia de la misma variable latente tanto en el caso de los padres como de los hijos. Ésta es una primera conclusión importante, en la medida que el constructo de valores que se define para la subpoblación de los padres se repite para la siguiente generación – la de los hijos. Una vez determinada la presencia de los mismos aglomerados de valores referidos al “Estado” en las dos generaciones, el siguiente paso consiste en la evaluación de la relación entre ellos. Para ello la hipótesis nula vendría definida por la no relación entre las diferentes variables latentes. De no poder ser rechazada dicha hipótesis, implicaría que la trasmisión de los valores considerados se efectuaría completamente por agentes distintos a la familia (escuela, amigos, medios de comunicación, etc). Si evaluamos la relación entre las variables latentes de los padres sobre la de los hijos obtenemos la siguiente estructura con variables latentes: 377 h1 = 0,249 x1 + 0,254 x2 (2,624) (2,803) R2 = 0,188 RMSEA = 0,0122 p = 0,389 donde h1 indica la variable latente “VLE” para los hijos x1 indica la variable latente “VLE” para los padres x2 indica la variable latente “VLE” para las madres Podemos apreciar cómo los diferentes parámetros estimados son significativamente distintos de cero, con t de 2,6 y 2,8 (estimando 0,249 para los padres y 0,254 para las madres). Las pruebas de ajuste muestran un RMSEA muy bajo, de 0,0122, así como una probabilidad muy superior a 0,05 (p 0,389). En conjunto se concluye un buen ajuste del modelo sobre los datos, indicando que podemos rechazar la hipótesis nula que afirmaba la no relación entre los valores de los padres y los de los hijos. Los valores adoptados por los padres en relación al Estado (variables latentes VLE) explican en conjunto un 18,8% de los valores adoptados por los hijos (medidos asimismo mediante variable latente). El modelo puede apreciarse en conjunto en el gráfico 2. Gráfico 2. Transmisión de valores de Estado Como conclusión para este modelo, podemos afirmar la presencia compartida de “variables latentes” referidas a los valores “estatales”, tanto en los padres como en las madres e hijos. Por otro lado, estos valores son transmitidos con una cierta eficacia a los hijos, donde el 18,8% de la variabilidad de dichos valores en los hijos es explicada exclusivamente desde el grupo social for378 mado por la familia. Entendemos, ciertamente, que la potencia socializadora de la familia contiene una gran variabilidad interna según clases sociales, niveles educativos o ideología de los padres (Alaminos 1999). En ese sentido, el modelo anterior expresaría, obviamente, la trasmisión de valores suavizada, al estar ajustada de forma general y no segmentada. Transmisión de valores afectivos. La medicion de los valores personales y afectivos mediante las variables indicadoras “espontaneidad” y “afecto” muestra una consistencia interna menor que los referidos a la autoridad y el Estado. En cierto modo, la medición de valores “sociales normativos” mediante dos indicadores muestra una mayor eficacia que su equivalente en términos personales. Para el caso de los padres la variable latente “VLP” muestra una carga de 0,52 sobre el indicador “afecto” y de 0,75 sobre la variable indicadora “espontaneidad”. Si consideramos a las madres, la carga es de 0,48 sobre el indicador “afecto” y de 0,50 en “espontaneidad”. Los hijos presentan cargas de 0,53 en la variable indicadora “afecto” y de 0,70 sobre la variable indicadora “espontaneidad”. Nuevamente, la variable latente aparece tanto para los padres como para las madres e hijos, con unas cargas equivalentes en ambas generaciones. Al igual que sucediese con la variable latente “VLE”, existe correlación entre los errores de la variable indicadora “afecto” tanto para padres como para madres. Esta correlación es positiva (0,27). Indica, por lo tanto, una asociación dentro de la pareja en la valoración del “afecto” y que no es reductible la variable latente que estamos midiendo. Nuevamente, la correlación en el error es claramente atribuible a la presencia, no considerada en el modelo de medición, de otras variables que pueden ser relevantes en esta asociación dentro de la pareja. Por ejemplo, el amor, el odio o la rutina que pueda existir entre ellos. Este fenómeno es evidente y es así como se explica la correlación entre los errores de las variables indicadoras entre los padres y madres. Si bien los modelos de medición muestran la presencia de la variable latente, su relación estructural no es equivalente a la apreciada anteriormente. En el caso de la transmisión de valores personales y afectivos, el progenitor que desempeña el rol de agente parece ser la madre, en contraste con el padre en el cual se observa un coeficiente muy bajo. 379 h1 = 0,075 x1 + 0,452 x2 (0,554) (2,095) R2 = 0,243 RMSEA = 0,0634 p = 0,0506 donde h2 indica la variable latente “VLP” para los hijos x3 indica la variable latente “VLP” para los padres x4 indica la variable latente “VLP” para las madres Podemos apreciar cómo el parámetro estimado para los padres (0,075) en la trasmisión de valores personales de tipo afectivo/espontaneidad no es significativamente diferente de cero (t de 0,55). Por el contrario, la mayor potencia explicativa corresponde a los valores personales de las madres, con un coeficiente estimado de 0,452, que sí es significativamente distinto de cero. En conjunto, los valores de las madres en la variable latente “VLP” explicarían un 24% de la variabilidad de los hijos. Un porcentaje bastante elevado, en la medida que la trasmisión socializadora de dichos valores parece efectuada exclusivamente por las madres. Si bien los resultados son consistentes con estudios anteriores efectuados (Alaminos 1999), las conclusiones deben de tomarse en sentido indicativo y pendientes de estrategias complementarias de medición de las dimensiones afectivas. En términos de ajuste del modelo, éste muestra una RMSA de 0,06 y una probabilidad de 0,05, indicando un buen ajuste del mismo sobre los datos. Gráfico 3. Transmisión de valores afectivos 380 El gráfico anterior (3) nos muestra el modelo estructural completo con variables latentes, donde podemos apreciar a partir de la línea punteada cómo el parámetro estimado para los padres en su relación con el de los hijos no es significativamente distinto de cero. En comparación con los modelos ajustados anteriormente (ideología y valores de Estado), es en la transmisión de valores afectivos donde se percibe un mayor grado de influencia de las actitudes maternas sobre los hijos, y que sólo comparable con la transmisión de ideología. 3. Las fuentes de lo cognitivo y emotivo de la ideología Al integrar, desde un punto de vista teórico, los tres modelos expuestos se puede vislumbrar una interrelación entre los tres tipos de influencia de los padres sobre los valores de los hijos. El concepto de ideología política ha sido tradicionalmente definido como un conjunto más o menos coherente de creencias, ideas, y representaciones mentales acerca del orden social y político y del lugar que en el mismo ocupa el ciudadano. Al mismo tiempo que se admite su importante trascendencia sociopolítica por ser la base de opiniones, gustos y prejuicios que estimulan la acción política, se reconoce que sus formulaciones y planteamientos a nivel individual son en muchas ocasiones vagas y ambiguas. Una manera de hacer más concreto el concepto, y más válida la medición a nivel de contenido, es acudir a las fuentes valorativas de los mismos. Pues bien, las fuentes de valor aquí utilizadas “valores de Estado” y “valores personales afectivos” son, respectivamente, próximos a los componentes cognitivos y emotivos de las ideologías. Pero si, además, se introduce el efecto de transmisión intergeneracional, el concepto queda colmado pues se han añadido los factores que explican su carácter estructural y cultural. La tarea de “descomponer” en las fuentes de valor la transmisión de la ideología pone al descubierto el diferente papel de los progenitores en la socialización política, al menos para el momento actual en la sociedad española. Si bien los valores del padre tienen influencia en la transmisión de ideología hacia los hijos, su rol es 381 más limitado que el de la madre. Por otro lado, el padre solamente se sitúa al mismo nivel que el otro progenitor en la transmisión de los “valores de Estado”, variable latente que explica en menor medida la variación de los mismos valores en los hijos (un 18%). Se observa, pues, una coincidencia en los dos factores utilizados que más influyen sobre las valoraciones de los hijos, y ésta coincidencia consiste en el hecho de que es la madre quien más interviene en los factores de transmisión familiar con mayor capacidad explicativa (la ideología y los “valores afectivos”). Así, en cuanto a las fuentes valorativas concretas del concepto vago de ideología, la madre se ocupa de transmitir fundamentalmente la vertiente “emotiva” de la misma; mientras que el padre comparte su influencia con la madre en la vertiente “cognitiva” de la ideología. Lo cognitivo ha sido operacionalizado a partir del “respeto a las instituciones” y del “amor al país”; cosas más distantes, formales, más racionales y que se relacionan con el poder, el sistema político y el carácter territorial y organizativo de las relaciones sociales (Estado); mientras que lo “emotivo” viene determinado por la “espontaneidad” y el “afecto”, elementos más relacionados con lo informal, la naturalidad y la autoridad en la política, lo pasional del sentimiento y las emociones, así como la voluntad, la autoconfianza y el carácter afectivo de las relaciones humanas (comunidad). 4. La familia y las pautas estructurales de la cultura política Estos modelos aquí expresados muestran la influencia de los progenitores en los valores de los hijos a partir del análisis de las relaciones entre unos indicadores provenientes de unos ítems de una pregunta de cuestionario. El hecho de que en esta pregunta se interrogue tanto a padres como a hijos sobre las cualidades que se han de transmitir a los niños otorga un valor añadido al análisis, en el sentido de que señala también las predisposiciones socializadoras de los hijos en su futuro rol de padres. Así, al detectar el grado de coincidencia entre las orientaciones educadoras de los padres y las de los hijos se nos permite obtener información en dos direcciones: por un lado, un indicador de permanencia en las pautas socializadoras de una sociedad y, por otro, signos que apuntan de manera prospectiva hacia una tercera generación. 382 Atendiendo a los resultados del estudio, este fenómeno de estabilidad se puede observar viendo el carácter positivo de las cargas de todos los coeficientes que relacionan la transmisión de valores e ideología entre padres e hijos. Se trata pues de un indicador de la inexistencia de conflicto intergeneracional, en el sentido de que las actitudes de los hijos no muestran una propensión reactiva frente a las actitudes de sus progenitores. Las fuentes de “valor” de la ideología que se han mostrado en este estudio – con un peso mayor del agente socializador de la madre – tienen que ver con el “esquema de interpretación” del que habla Bettin (1997) en cuanto a la complementación de las dos hipótesis de trabajo sobre la relación entre cultura y cambio político entre generaciones (estabilidad, por un lado, y cambio producido por las nuevas experiencias, por otro). Así, la permanencia intergeneracional indica que sobre una misma situación estructural, un mismo clima durante la juventud se establece un esquema de interpretación que se va adaptando en las siguientes fases dentro del ciclo vital. Por ello, las fuentes de valor “de Estado” y “afectivas” introducidas en este trabajo podrían ser los puntos de apoyo de este esquema de interpretación en sus vertientes cognitiva y emotiva, respectivamente. Otros aspectos a destacar apuntan hacia futuras investigaciones. Siguiendo una perspectiva predictiva, si también tenemos en cuenta el hecho que este estudio ha detectado la importancia de la figura materna en la transmisión de valores, la investigación, la sociología política y en particular los estudios sobre cultura política habrían de profundizar en las actitudes políticas de la mujer, su ideología y su comportamiento político. En el mismo sentido, como orientación de futuras investigaciones, se ha de hacer notar que en este estudio se ha utilizado la unidad familiar “tradicional” en el sentido de ser biparental. No obstante, a la luz de los resultados de la investigación, podrían desarrollarse hipótesis significativas en relación a las unidades monoparentales, especialmente las formadas por madre e hijo. 383 384 CAPITOLO QUATTORDICESIMO L’IDENTITÀ SECONDARIA: LA SOCIALIZZAZIONE POLITICA GIOVANILE TRA FAMIGLIA E GRUPPO DEI PARI 1. Mutamento sociale, modelli di socializzazione e trasformazione delle identità giovanili: alcune considerazioni teoriche introduttive Le trasformazioni che hanno caratterizzato i processi di riproduzione della cultura politica in questo ultimo decennio sono andate collegandosi in misura crescente con le dinamiche di mutamento che hanno investito la soggettività giovanile e le forme di identità a questa connesse. Questi cambiamenti hanno comportato – com’è naturale – una rivisitazione critica dei paradigmi interpretativi impiegati tradizionalmente dall’analisi sociologica. Una prima chiave di lettura dei processi di mutamento delle condizioni sociali dell’identità giovanile è quella – ormai classica – di matrice funzionalista. Nelle elaborazioni teoriche del processo di modernizzazione sociale e culturale sviluppate negli anni Sessanta dalla sociologia statunitense, il processo di riproduzione sociale veniva interpretato, dal punto di vista degli attori, come una dinamica di socializzazione ai ruoli e ai valori definiti e condivisi in una determinata fase dell’assetto culturale e istituzionale di una società. La condizione giovanile veniva quindi concettualizzata come una fase di transizione il cui carattere specifico era quello della formazione ai ruoli adulti e dell’interiorizzazione dei valori socialmente condivisi. Il percorso della socializzazione si dipanava secondo una traiettoria in buona misura istituzionalizzata lungo la quale si prevedeva il superamento di diverse soglie intermedie prima di poter parlare di una uscita sociologicamente compiuta dalla condizione di giovane. La rappresentazione olistica della soQuesto capitolo è stato scritto da Marco Bontempi. 385 cietà insita nella prospettiva sistemica del funzionalismo negava dunque alla giovinezza i tratti di una condizione connotata da una specificità culturale e identitaria. Saranno le analisi prodotte sull’onda della contestazione giovanile ad evidenziare la necessità di nuove concettualizzazioni del mutamento sociale nelle quali potessero essere ricomprese anche le forme di partecipazione attiva e di conflitto proprie delle giovani generazioni. Tra le molteplici interpretazioni possibili del mutamento sociale un modello teorico di matrice classica che ha però dimostrato negli ultimi anni una notevole capacità esplicativa nell’analisi della modernità e dei processi ad essa interni è quello del mutamento come differenziazione policentrica delle sfere di azione sociale e delle identità culturali. Si tratta di una prospettiva già sistematicamente sviluppata da Simmel (1982), secondo la quale nell’incremento della differenziazione delle cerchie sociali risiede la dinamica di individualizzazione della personalità e delle forme delle identità sociali. Le spinte al comportamento conformista perdono di vigore e le identità collettive un tempo forti tendono ad affievolirsi a vantaggio di una riarticolazione della personalità individuale che diviene così il luogo dell’intersecazione e del conflitto delle diverse forme di identità sociale. L’integrazione sociale non avviene più, secondo questa impostazione, attraverso la convergenza di un centro valoriale condiviso da tutti i membri della collettività, ma per mezzo del reciproco riconoscimento di una sfera di autonomia individuale nel declinare i valori di riferimento per l’azione. In un’analisi efficace delle tendenze fondamentali che definiscono il mutamento culturale in Italia, Sciolla (1990, 38-42) ha messo in luce quanto, a partire dagli anni Settanta, i processi di trasformazione rivelino, in maniera sempre più evidente, la pervasività del modello della differenziazione come interrelazione rispetto alla precedente articolazione della riproduzione culturale in termini di compartimentazione subculturale e territoriale. Quando si consideri dal punto di vista del mutamento valoriale, il processo di differenziazione sembra dispiegarsi in tre direzioni fondamentali: la prima è quella della specificazione e frammentazione dei sistemi di valore e delle sfere della vita sociale; la seconda concerne i processi di destrutturazione dei codici e delle pratiche sociali (come, ad esempio, quelle relative alla definizione del carattere specifico della condizione giovanile) e, infine, la ter386 za direzione fondamentale è quella della deistituzionalizzazione (ancorché parziale) delle relazioni sociali e della divisione dei ruoli (si pensi, ad esempio, alla famiglia). Queste distinte trasformazioni convergono nel delineare un processo di mutamento valoriale e culturale nel quale ciò che in passato poteva costituire un sistema unico di valori, caratterizzato da una struttura gerarchicamente ordinata e nitidamente definita, si è andato ridelineando come una molteplicità di sottosistemi in ciascuno dei quali si fa sempre più forte la spinta a sviluppare logiche intrinseche e a richiedere codici e orientamenti dell’agire sociale sempre più specifici e indipendenti dagli altri. Il carattere di nitidità attribuito a sistemi di valori sostanzialmente integrati con i quali si era soliti caratterizzare il profilo della società moderna in netta opposizione a quello più opaco della società tradizionale, si è progressivamente eclissato, lasciando spazio ad orientamenti di valore caratterizzati in senso plurale, segmentato e polimorfo (Ester, Halman, De Moor 1993). Allo stesso modo, anche l’antitesi radicale tra gli elementi sociali e culturali costitutivi della società moderna e i codici e gli orientamenti della società tradizionale ha perso di efficacia, riplasmandosi in una sorta di patchwork di orientamenti e di valori tanto tradizionali che moderni (Bontempi 1999a). L’incremento del processo di differenziazione e di specificazione delle diverse sfere di azione sociale e dei differenti ambiti funzionali delinea una situazione nella quale la progressiva individualizzazione dei contesti di azione, non trovando ricomposizione in sistemi di significato universalmente condivisi, di fatto viene esperita sempre più come “crisi dei valori”, ovvero come un processo di frammentazione dell’esperienza sociale e delle diverse forme di significato attribuite all’azione nei differenti contesti. Di fronte a questi mutamenti, ma anche alle spinte omogeneizzanti che vengono dai processi di globalizzazione (Vandeberghe 1999), le forme della socialità si declinano sviluppando logiche della differenza e del particolare, così che, dal punto di vista dei soggetti, sono le dimensioni dell’esperienza e delle emozioni a collocarsi al centro dell’orizzonte di significato. In questa linea, la prevalenza delle relazioni interpersonali su quelle esterne ai gruppi primari – rilevata ormai da un ampio ventaglio di ricerche – può essere interpretata come diretta conseguenza del processo di individualizzazione, in quanto spinta percepita dagli individui a sviluppare 387 criteri normativi e valori propri. Allo stesso tempo individualizzazione significa la centralità nella composizione del proprio sistema di valori e di azione, del criterio dello sviluppo personale e della ricerca di elementi di gratificazione individuale. In altri termini i valori hanno cessato di essere orientati da istanze istituzionali o istituzionalmente definite, come la religione o i grandi sistemi ideologico-politici, e si fondano sempre più su principi di elezione individuale. Ciò contribuisce a sua volta alla formazione di una mentalità incentrata sull’io, che non si identifica e non si impegna radicalmente con nessun sistema di valori. Se dal punto di vista individuale si opta per un orientamento o un valore, dal punto di vista più generale diviene normale pensare che altri individui possano eleggere altri orientamenti. Questo produce una trasformazione tipica della condizione postmoderna, lo sviluppo di atteggiamenti di tolleranza nei confronti di condotte che nel passato recente non godevano di legittimazione sociale, anche se in molti casi sarebbe fuorviante pensare che ciò comporti sempre un incremento delle pratiche e degli orientamenti valoriali ora legittimati. In questo senso si potrebbe parlare di una sorta di razionalizzazione dei valori e della tendenziale loro rielaborazione come diritti. Per un verso il valore perde la sua pretesa universalistica di verità fondamentale; per l’altro verso la sua rielaborazione come diritto ne rende possibile la legittimazione sociale senza comportare per questo un necessario riconoscimento della sua validità da parte di chi è disposto a legittimarlo, ma non a farlo valere nell’orientamento del proprio agire. Viene così delineandosi un atteggiamento generale nei confronti dei sistemi di valore caratterizzato da due elementi fondamentali: l’esigenza di autonomia individuale e l’affermazione del criterio della tolleranza normativa nei confronti dei diversi orientamenti e comportamenti. Le nuove generazioni sono particolarmente investite da questi processi di trasformazione, soprattutto per quanto riguarda i cambiamenti relativi alle forme della socializzazione sviluppate nell’ambito delle relazioni intergenerazionali interne al nucleo familiare, caratterizzate per un verso dalla loro deistituzionalizzazione, e per l’altro da una significativa riduzione del livello di conflittualità e di differenza tra le generazioni dei figli e quelle dei genitori (Muxel 1996a). A partire dalla metà degli anni Ottanta, infatti, è andata sviluppandosi una crescente solidarietà consensuale tra 388 genitori e figli. Il consenso familiare ha raggiunto quote particolarmente elevate, sebbene le identità politiche in senso stretto costituiscano ancora un elemento di divisione e di differenziazione intergenerazionale, ma non siano più un fattore di conflitto perché rientrano nello spazio di autonomia individuale che i genitori riconoscono ai figli (Bontempi 1999b). Ma ciò che favorisce la rivalutazione delle relazioni familiari anche da parte dei giovani è la possibilità di esperire nel contesto familiare quei legami di solidarietà e di affetto che costituiscono una delle dimensioni più importanti nell’orizzonte della loro esperienza sociale. In questo contesto di differenziazione e fluidificazione dei sistemi di valore e dei modelli di identità culturali anche i processi di socializzazione vengono investiti da profonde trasformazioni. Nel paradigma di società di matrice funzionalista, cui abbiamo prima fatto riferimento, il modello della socializzazione si struttura sostanzialmente come processo di integrazione tra motivazioni psicologiche, aspettative reciproche e norme, valori e simboli culturali. In tal modo la socializzazione, anche politica, è intesa come trasmissione diretta in senso intergenerazionale di un patrimonio di valori e di conoscenze, che viene a sua volta interiorizzato. In questo contesto, com’è evidente, la famiglia svolge un ruolo particolarmente significativo proprio in quanto agenzia di socializzazione e di riproduzione delle identità sociali fondamentali. Assai diverso è il modello di socializzazione che invece emerge anche da una semplice osservazione delle società altamente differenziate. Il carattere policentrico dei sistemi di valore rende, infatti, possibile quella sorta di ‘nomadismo delle identità’ che la letteratura di ispirazione fenomenologica ha da tempo messo in luce (Berger, Berger, Kellner 1973) e che sembra entrare in rotta di collisione con le forme tradizionali della socializzazione. In questa linea, se, per un verso, diviene sempre più necessario riconcettualizzare la socializzazione in una chiave adeguata alla complessità delle conseguenze della differenziazione, per l’altro verso è per lo meno altrettanto problematico delineare un modello alternativo a partire da una prospettiva teorica unitaria. Si tratta dunque di affrontare la questione orientandosi, come è stato sostenuto verso «l’integrazione di più approcci: fenomenologico, interazionista, costruttivista, cognitivista, sistemico (...) l’intento è quello di far emergere la dimensione comunicativa, relazionale nella co389 struzione della conoscenza: si tratta di una dimensione costitutiva dei processi stessi» (Besozzi 1990, 103). In questa prospettiva un aspetto centrale della socializzazione è costituito dal processo di mediazione cognitivo-comunicativa che si sviluppa nei contesti di relazione e attraverso il quale l’individuo entra in rapporto con le differenti sfere di azione sociale. Si tratta di una mediazione prevalentemente cognitiva che offre elementi di competenza comunicativa all’individuo, senza necessariamente veicolare, come avveniva nel modello funzionalista della socializzazione, delle identificazioni nette. In questo senso il processo di socializzazione viene reinterpretato come dinamica delle relazioni sociali che ha come fine lo sviluppo, nell’individuo, dei criteri di specificità e di differenziazione delle diverse sfere di azione sociale. Una conseguenza importante di questa trasformazione emerge in modo evidente nelle ricerche più recenti dedicate al rapporto dei giovani con la politica. In particolare sembra delinearsi una tendenziale ridefinizione della collocazione della socializzazione politica nel quadro più generale dei processi di socializzazione primaria e secondaria. Il modello di matrice funzionalista ha definito la socializzazione politica come un processo radicato nella socializzazione primaria, legando lo sviluppo di conoscenze politiche e di lealtà ai diversi livelli dell’evoluzione delle capacità cognitive del bambino prima e dell’adolescente e del giovane poi. È in questa linea che la letteratura classica ha delineato le tre fasi di apprendimento politico che conducono alla formazione di un’identità politica stabile: l’orientamento verso la comunità, la cui formazione si svolge nell’infanzia, l’orientamento verso il regime, tipico dell’adolescenza, e la formazione di atteggiamenti nei confronti degli attori politici e delle loro decisioni come fase conclusiva dell’identità politica la cui maturazione si salda con il compimento, nella giovinezza, dell’identità personale dell’individuo. La socializzazione politica si concluderebbe dunque proprio nella giovinezza, costituendo in un certo qual modo il completamento dell’identità personale e una prima articolazione in chiave pubblica degli orientamenti e delle lealtà che implicano l’individuo. La compattezza teorica di questo modello e la sua efficacia euristica erano però fondate su due presupposti che il mutamento della condizione giovanile in questo scorcio di secolo sembra avere messo in discussione. Da un lato l’idea che la giovinezza fosse 390 un processo, nel senso di «un complesso di pratiche tese verso un esito prevedibile» (Cavalli 1980, 524) ovvero finalizzata all’inserimento nei ruoli adulti; dall’altro lato l’idea che l’identità sociale e politica una volta plasmate fossero permanenti e fondamentalmente stabili. Ora, l’accelerazione dei processi di mutamento e differenziazione sociale che nell’ultimo ventennio hanno investito le società occidentali sembra favorire in misura crescente la ridefinizione dell’identità in termini di composizione provvisoria, inconclusa e reversibile. La differenziazione sociale sembra infatti agire nella direzione della moltiplicazione e relativizzazione dei riferimenti istituzionali e delle prospettive di azione, delineando così le condizioni di un «io plurale» corrispondente ad un mondo sociale plurale (Beck 1992; Berger 1994; Lash 1996) nel quale le condizioni della determinazione dell’identità acquistano i tratti della scelta. Le nuove generazioni sono investite da questi mutamenti in misura più rilevante delle altre (Bettin 1997) e in questa prospettiva la giovinezza stessa, da processo di transizione verso i ruoli adulti e un’identità sociale stabile, mostra ormai in modo evidente i caratteri della condizione cioè della «situazione di attesa di fronte ad un esito imprevedibile» (Cavalli 1980, 524). L’esperienza giovanile di questa fine secolo si connota dunque per questi due elementi di fondo: la pluralizzazione delle identità e la trasformazione della giovinezza da processo a condizione. Una delle conseguenze più rilevanti di questo mutamento è, com’è noto, il processo di allungamento della giovinezza (Galland e Cavalli 1996), che nel caso italiano acquista prevalentemente la forma della permanenza all’interno della famiglia di origine. Il fenomeno dell’allungamento della giovinezza presenta infatti manifestazioni notevolmente differenti nei diversi contesti europei. In particolare il caso italiano costituisce, unitamente al caso spagnolo, il modello mediterraneo che è connotato, nella configurazione dei processi di allungamento della giovinezza, da una marcata centralità della famiglia. Mentre nel modello europeo centrosettentrionale, l’allungamento della giovinezza ha prodotto lo sviluppo e la diffusione di forme relazionali e abitative prima poco praticate o del tutto assenti (tra le quali le più diffuse sono lo stile di vita del single, le coabitazioni con altri giovani e la convivenza con il partner); nel modello mediterraneo, e in particolar modo nel caso italiano, l’uscita dalla famiglia continua a coincidere con il 391 matrimonio, a sua volta sempre più ritardato, ciò fa sì che in Italia l’allungamento della giovinezza significhi soprattutto un allungamento della permanenza dei giovani all’interno della famiglia di origine1 (Rossi 1997, 50-52; De Lillo 1997, 341-345). L’analisi di questi mutamenti dal punto di vista della socializzazione politica ha evidenziato importanti trasformazioni. Le ricerche svolte a partire dalla metà degli anni Ottanta hanno messo in luce, infatti, come «certi orientamenti politici si strutturino non nell’infanzia o nell’adolescenza, ma nella vita adulta, e come alcune dimensioni degli orientamenti e degli atteggiamenti politici, ritenute particolarmente stabili e durature, si modifichino proprio in seguito a quei fattori sociali e politici, quali la mobilità sociale e territoriale, le esperienze di autorità e subordinazione nel mondo del lavoro, gli stessi avvenimenti politici quotidiani, che la tradizione di ricerca sulla socializzazione politica tende a sottovalutare» (Oppo 1990, 1061). Il processo di allungamento della giovinezza, inoltre, incrementa significativamente questo scivolamento della socializzazione politica verso le forme e i contesti tipici della socializzazione secondaria. Ciò richiede di studiare la socializzazione politica ponendo maggiore attenzione alle discontinuità del processo, ai mutamenti degli orientamenti e alla loro relazione con le forme plurali dell’identità moderna, alle condizioni sociali che fanno sì che alcune dimensioni di un orientamento acquistino stabilità ed altre si rivelino invece più reversibili e mutevoli. Sembra così delinearsi un progressivo avvicinamento delle dinamiche proprie della socializzazione politica ai processi di mutamento osservabili nella sfera della cultura politica. In altri termini sembra di poter dire che la dimensione orizzontale della socializzazione acquista una progressiva rilevanza rispetto alla concezione della socializzazione politica come trasmissione verticale intergenerazionale di valori e orientamenti (Morcellini 1994). Allo stesso tempo questo spostamento non sembra delineare, come pure è stato sostenuto, una radicale «fine della trasmissione imperativa» con il conseguente dissolvimento delle asimmetrie generazionali, in 1 In Italia il 66% dei ragazzi e il 40% delle ragazze tra i 25 e i 29 anni vive con i genitori, a fronte del circa 25% dei ragazzi e 11% delle ragazze di Francia o Germania (Irp-Cnr 1999). 392 realtà ineliminabili, quanto piuttosto delinea una situazione nella quale la trasmissione familiare – per definizione verticale – viene ad essere sempre più connotata dai tratti della relazione discorsiva in base alla quale «gli orientamenti e i contenuti ‘proposti’ dai genitori sono sempre più spesso discorsivamente accolti o rifiutati dai figli, parzialmente corretti o ricomposti con altri orientamenti e contenuti appresi fuori dalla famiglia» (Ciucci 1998, 40). 2. Gli anni Novanta: «fine della trasmissione»? Nel dibattito sociologico italiano degli anni Novanta l’attenzione al tema della socializzazione politica si manifesta con un andamento oscillatorio, che risente probabilmente delle diverse fasi dell’intensa trasformazione cui è stato sottoposto il sistema politico e con esso la tradizionale articolazione della cultura politica italiana. Se infatti la fine degli anni Ottanta – con il crollo dei regimi comunisti nell’est europeo – costituisce uno spartiacque di grande rilievo per la storia della cultura politica occidentale, è solo a partire dall’inizio degli anni Novanta, e in particolare dal 1992, che il sistema politico italiano e con esso la struttura delle forme della sua legittimazione entrano in crisi, sotto l’impatto di una serie di inchieste giudiziarie per corruzione che investono i vertici di buona parte del sistema politico. Il deficit di legittimità conseguente al declino delle ideologie tradizionali si andava così a sommare con le conseguenze politiche delle inchieste giudiziarie, producendo una marcata accelerazione della crisi già in atto nel sistema politico e della sua progressiva disarticolazione. In questa fase di rapidi mutamenti era estremamente difficile svolgere ricerche sui processi di trasmissione delle identità e di socializzazione politica, sia per la difficoltà dell’identificazione degli spazi sociali e delle agenzie, che per la rapida obsolescenza dei dati raccolti. Probabilmente è proprio in questo periodo e per le difficoltà sopra accennate che le ricerche sul rapporto dei giovani con la politica si orientano sempre più verso l’indagine della cultura e delle rappresentazioni politiche dei giovani (Cristofori 1990; Altieri 1991; Cavalli e De Lillo 1993), lasciando in ombra il versante più specificamente orientato allo studio dei processi di elaborazione e trasmissione delle identità politiche. 393 Nell’arco di tempo a cavallo tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta la ricerca sulla relazione dei giovani con la politica è andata collegandosi in misura progressivamente crescente con lo sviluppo della letteratura teorica dedicata alle trasformazioni dell’identità e della soggettività giovanile nella società postmoderna. Dal punto di vista della socializzazione politica rivestono una particolare importanza alcune ricerche che hanno indagato empiricamente questo tema, evidenziando una relazione problematica tra i mutamenti della concezione giovanile della politica, i contesti relazionali e le forme della socializzazione politica (Sciolla e Ricolfi 1989; Cristofori 1990; Ciucci 1996 e 1999). Tra gli aspetti che meritano di essere segnalati uno dei più gravidi di conseguenze per la socializzazione politica è costituito dal processo di ‘metabolizzazione’ della politica nel contesto della vita quotidiana. Alle forme conflittuali di demarcazione delle identità e delle concezioni della politica che avevano caratterizzato il decennio successivo al 1968, vengono sviluppandosi dinamiche di riavvicinamento tra il mondo giovanile e quello adulto. Ciò però non sembra comportare la ripresa di una capacità di socializzazione interna alla famiglia e alle relazioni familiari. Alcune ricerche svolte nel passaggio dagli anni Ottanta agli anni Novanta mettono in luce, ad esempio, una situazione in apparenza paradossale nella quale da un lato si configura una marcata debolezza della famiglia nella trasmissione ai figli di valori e orientamenti di vita, e dall’altro lato una netta ripresa dell’importanza attribuita dai giovani alla famiglia nella gerarchia dei valori (Cristofori 1990, 135 e sgg.). Siamo di fronte ad una famiglia-nido, che recupera sul piano affettivo e che, su quello funzionale, mantiene un ruolo economico, orientato però al sostegno materiale degli spazi di autonomia che caratterizzano le relazioni familiari e che hanno fatto parlare di «generazioni estranee» sotto lo stesso tetto (Piccone Stella 1997). Anche la sfera della politica viene investita da queste trasformazioni, soprattutto nella ridefinizione della partecipazione politica. Viene infatti progressivamente consolidandosi una partecipazione associativa «multipla, fluida e non totalizzante, che, pur fornendo al giovane quella dimensione solidaristica di importanza fondamentale per la formazione della sua identità, non comporta forti livelli di identificazione e attaccamento affettivo» (Sciolla 1993, 77). 394 È importante considerare le descritte trasformazioni della partecipazione politica anche alla luce della marcata accelerazione del processo di istituzionalizzazione del mondo giovanile che questo ultimo quindicennio ha fatto segnare in Italia. La giovinezza è andata progressivamente acquisendo i tratti di uno status socialmente riconosciuto e connotato da una marcata autonomia rispetto ai vincoli che definiscono ancora i ruoli adulti. Parallelamente a questo processo si è andata stemperando la definizione dell’identità giovanile: da marcatamente antagonista al mondo adulto, e in particolare alla famiglia, è andata progressivamente differenziandosi al suo interno e fino ad articolarsi quasi in vere e proprie ‘giovinezze’ socialmente differenziate. Allo stesso modo i processi di socializzazione politica hanno progressivamente ridotto la capacità di riprodurre forme di identità nitidamente definite a favore di una socializzazione discorsiva nella quale gli orientamenti e i valori politici dei genitori veicolati nella socializzazione familiare vengono rielaborati dai figli sulla base delle esperienze e dei contesti di interazione extrafamiliari. Dalle ricerche svolte in questi ultimi anni emerge, però, che in questo contesto di deistituzionalizzazione dei ruoli tradizionali la famiglia mantiene ancora un ruolo significativo nella trasmissione di orientamenti per l’elaborazione dell’identità politica, anche se in interazione con l’esperienza associativa (Sciolla e Ricolfi 1989, 131-155). Nella dinamica della trasmissione dell’identità politica all’interno dei processi di socializzazione politica familiare un aspetto importante è costituito dalla capacità dei figli di saper differenziare i propri orientamenti da quelli del padre e della madre. La ricerca di Sciolla e Ricolfi (1989) ha messo in luce una capacità dei giovani che partecipano ad associazioni di carattere politico e/o sociale di differenziare le proprie posizioni politiche da quelle dei genitori maggiore del 50% di quella dei giovani non attivi in associazioni. La stessa cosa accade per la tendenza ad avere amici con opinioni politiche diverse: i giovani che partecipano ad associazioni mostrano nella differenziazione delle opinioni politiche una propensione superiore del 30% rispetto ai non attivi in associazioni. In particolare, nella composizione delle probabilità di differenziazione delle proprie opinioni politiche da quelle dei genitori, quattro fattori emergono come dotati di particolare intensità: avere tra i venti e i ventiquattro anni, partecipare ed aver partecipato 395 attivamente ad associazioni, essere studenti e vivere in una famiglia caratterizzata da un elevato tasso di occupazione dei membri. La relazione tra socializzazione politica familiare e esperienza associativa definisce una sinergia che ha come effetto complessivo quello di favorire una identità politica giovanile più autonoma dai contesti di relazione primaria e maggiormente consapevole di questa specificità. In questo senso si può ipotizzare che l’esperienza associativa non agisca indistintamente come fattore di incremento dell’identità politica, ma contribuisca ad una sua maggiore definizione, soprattutto quando si trova ad interagire con una socializzazione politica familiare che ha permesso all’individuo una prima, generica strutturazione cognitiva della sfera della politica (Sciolla e Ricolfi 1989, 30-33). L’importanza dei contesti di relazione primaria nella trasmissione di orientamenti politici viene confermata anche da un’altra ricerca che concentra l’attenzione sulla complessa relazione tra la costruzione degli orientamenti politici e i processi di articolazione della soggettività giovanile (Ciucci 1996 e 1999). In linea con i risultati di altri lavori recenti, questa ricerca evidenzia il carattere paradossale della centralità della famiglia in un contesto comunicativo intergenerazionale alquanto frammentato. In particolare, il 75% dei giovani intervistati ha una percezione positiva del rapporto familiare, ma quando si chiede di indicare un aspetto realmente problematico delle relazioni con i genitori tre giovani su quattro indicano la differenza degli orientamenti culturali e valoriali. Questa distanza tra gli orientamenti è chiaramente manifestata nel carattere selettivo della comunicazione familiare, che per un’ampia maggioranza di giovani (tra il 50% e l’80% a seconda delle condizioni) è concentrata soprattutto nelle dimensioni strumentali. In altri termini le differenze generazionali sugli orientamenti non vengono elaborate e dunque non diventano terreno di confronto. Nelle rappresentazioni giovanili la famiglia da un lato si configura come un ambito relazionale investito di forti significati emotivi, manifestati dal quasi totale consenso intorno al ruolo primario della famiglia, allo stesso tempo la famiglia evidenzia sempre più il carattere di luogo non-conflittuale, pur in presenza di orientamenti anche molto diversi. Il potenziale di conflitto della diversità viene dunque disinnescato dall’ampia diffusione di logiche di negoziazione che confinano la comunicazione familiare ai temi stru396 mentali degli impegni relativi alla scuola e al lavoro, presente e futuro, tralasciando forme di comunicazione più profonda (Ciucci 1996, 70-72). Tuttavia, al di fuori dei temi strumentali della scuola e del lavoro è proprio la politica l’argomento che trova maggiore spazio nelle conversazioni con i genitori, circa il 60% dei giovani, infatti, parla di politica con i genitori, riservando al padre un ruolo di maggior rilievo come interlocutore. Nell’analisi della dinamica del processo di socializzazione politica, Ciucci evidenzia una relazione significativa tra la definizione degli orientamenti politici e aspetti centrali nella costruzione della soggettività quali l’attitudine riflessiva, definita come la disposizione a cercare i significati di eventi personali e socio-storici rilevanti, e il grado di soddisfazione delle relazioni familiari e amicali. In questa prospettiva i dati sembrano in effetti confermare la relazione ipotizzata, mettendo in luce una relazione significativa tra l’autocollocazione sui poli più radicali, e dunque più nitidamente definiti, della scala destrasinistra e la formulazione di giudizi più critici sui contesti di relazione ai quali appartiene l’intervistato. In altri termini, si può dire che difficoltà reali e attenzione critica ai contesti relazionali sembrano agire come fattori di radicalizzazione delle identità politiche. I dati costituiscono, infine, una conferma indiretta dell’influenza della pratica associativa sulla definizione delle identità politiche; infatti l’attitudine riflessiva risulta la variabile che più di altre si associa alla costruzione dell’identità politica e alla partecipazione in organizzazioni e movimenti politici e sociali (Ciucci 1999). 3. La mediazione delle relazioni primarie nella elaborazione delle identità politiche Che la permanenza all’interno della famiglia esprima la trasformazione dei processi di elaborazione delle identità e costituisca un indicatore del mutato atteggiamento dei giovani verso la sfera pubblica e istituzionale che si trova al di fuori della famiglia è ben indicato da un elemento peculiare: anche una buona parte dei giovani occupati non esce dalla famiglia di origine pur avendo raggiunto l’indipendenza economica. Nel 1995 il 54% dei giovani occupati tra i 25 e i 29 anni viveva ancora con i genitori, mentre questo fenomeno riguardava nello stesso anno soltanto il 26% dei 397 giovani tedeschi e il 18% dei francesi. Inoltre, secondo una ricerca svolta nel 1998 dall’Istituto di Ricerche sulla Popolazione il 40% dei giovani tra 20 e 34 anni che vive con i genitori è occupato a tempo pieno con un contratto regolare, mentre un altro 8% svolge lavori occasionali. L’ingresso nel mercato del lavoro rappresenta dunque sempre meno un incentivo all’uscita dalla famiglia di origine, allo stesso tempo questo prolungamento della permanenza in famiglia può costituire una duplice risorsa per i giovani: da un lato consente loro la ricerca non solo di un lavoro stabile, ma anche di uno stipendio che garantisca il proprio standard di vita2 ; dall’altro lato, in un mercato del lavoro molto più flessibile che in passato, la permanenza in famiglia consente di poter accettare lavori a bassa qualifica senza gli inconvenienti del conseguente abbassamento di status. Se si considera, poi, che da altre indagini risulta che è il segmento tra i 25 e i 29 anni ad attribuire la maggiore importanza alla famiglia (De Lillo 1997, 347) sembra che vi siano le condizioni per sostenere l’ipotesi che un tale fenomeno segnali lo sviluppo di una trasformazione profonda nelle relazioni familiari e nelle definizioni identitarie dei giovani. I dati della ricerca sembrano confermare questo profilo, illuminando inoltre alcune dimensioni normalmente poco considerate che meritano invece adeguata attenzione. La prima dimensione significativa che sembra emergere dai dati è costituita dalla relazione tra i livelli di integrazione dei contesti relazionali primari e le condizioni di definizione delle identità sociali dei giovani. In questo senso una prima ipotesi che verrà discussa nell’analisi dei dati relativi ai contesti di relazioni primarie sostiene che si possa delineare una connessione tra lo sviluppo di relazioni familiari integrate, cioè efficaci nel veicolare in vari modi elementi di motivazione e di stimolo per la maturazione personale dei membri, e l’elaborazione di identità, anche politiche, maggiormente definite all’interno del contesto di relazione. Strettamente connesso a questa dimensione si colloca un secondo aspetto dell’ipotesi, che concerne più da vicino la relazione con la sfera della politica. Questo secondo aspetto ipotizza 2 Non a caso il 58% dei giovani che vivono con uno o entrambi i genitori definisce “sufficiente” la cifra di circa 2 milioni al mese per poter lasciare la casa dei genitori (Irp-Cnr 1999) 398 che il processo di differenziazione interno ai contesti di relazione integrati sulla scorta del quale si definiscono in modo più netto le identità dei rispettivi membri, agisca anche come fattore di differenziazione della sfera della politica dalla sfera delle relazioni primarie. In questo senso l’integrazione delle relazioni primarie non produrrebbe una chiusura verso l’interno, ma al contrario potrebbe costituire una condizione significativa del riconoscimento in sede cognitiva e di partecipazione – da parte dei giovani studiati – della specificità della sfera politica rispetto ai contesti di relazione familiari e amicali. Sulla scorta di queste ipotesi possiamo ora procedere all’analisi dei dati. Grafico 1. Contesti di appartenenza sociale (totale di abbastanza + molto) 100% 90% 80% 70% 60% 50% 40% 30% 20% 10% 0% Famiglia Amici Generazione Stud./Disoc. Occidentale Cristiano Studenti Italiano Classe Disoccupati Per prima cosa l’identità più rilevante è di gran lunga quella familiare: quando sono interrogati rispetto al proprio sentimento di appartenenza alla famiglia oltre i due terzi dei giovani dichiarano di sentirsi molto legati e un altro quarto si dice abbastanza legato, inoltre il 52% degli studenti indica la famiglia come il centro di appartenenza più importante in assoluto. Complessivamente merita sottolineare che la famiglia costituisce il principale riferimento identificante e di appartenenza per oltre il 90% dei giovani 399 di entrambi i gruppi considerati (cfr. grafico 1). Da questo punto di vista non vi sono differenze significative tra la condizione di studente e quella di disoccupato, differenze che però non mancano di delinearsi quando si approfondisce l’analisi sulle forme di questa centralità familiare. Una prima differenza emerge relativamente alla diagnosi sulla rilevanza della famiglia per lo sviluppo personale. Quasi la metà degli studenti (49%) ritiene fondamentale il ruolo giocato dalla famiglia nel proprio sviluppo personale assegnando, in una scala da 1 a 10, i punteggi 9 e 10, la proporzione sale a quasi i due terzi se si comprendono anche coloro che hanno assegnato il punteggio 8. Sensibilmente differente è la valutazione compiuta dal campione dei giovani disoccupati, i quali fanno registrare valori più elevati degli studenti nella scala da 1 a 7, ovvero in tutti i punteggi che esprimono bassa o media rilevanza della famiglia, tra questi ben il 20% assegna alla famiglia un punteggio che oscilla tra 1 e 4 , mentre soltanto un gruppo costituito dai due quinti dà un punteggio di 9-10. La centralità della famiglia sembra quindi delinearsi lungo due distinte direttrici di identificazione: da un lato la famiglia dello studente che viene percepita e rappresentata dal giovane studente come centrale nello sviluppo della sua personalità e dei suoi interessi; dall’altro lato la famiglia del giovane disoccupato che viene sì percepita come un centro identificante primario, ma allo stesso tempo non per quel che il giovane pensa di aver ricevuto in relazione alla sua crescita personale. Probabilmente nel caso dei disoccupati è più rilevante il sostegno economico e sociale come condizione dell’autonomia di azione e di sviluppo di relazioni sociali esterne alla famiglia che la trasmissione di fattori di motivazione e di miglioramento di sé, come invece accade nel caso della famiglia dello studente. Questa divaricazione – ancora da verificare compiutamente con gli altri dati relativi a questo aspetto – non deve però essere intesa come semplice indicatore di una differenza di classe che identifichi gli studenti con il ceto superiore in relazione alla quale l’importanza della famiglia per gli studenti è spiegabile in termini di trasmissione del capitale culturale, mentre per i disoccupati l’appartenenza ad un ceto inferiore avrebbe reso meno diffuso questo tipo di trasmissione. I dati indicano che effettivamente una differenziazione di classe agisce come fattore significativo nella determinazione dell’importanza della famiglia o meno, ma non in senso lineare. Sono infatti 400 gli studenti provenienti da famiglie operaie e di ceto medio ad essere i maggiormente legati alla propria famiglia e, con essi, i disoccupati provenienti dal ceto medio, mentre i figli dei liberi professionisti e dei dirigenti pubblici e privati occupano in entrambi i gruppi il livello di minor coinvolgimento nella famiglia. Siamo forse qui di fronte ad una commistione di elementi peculiari del modello italiano di allungamento della giovinezza con altri non solo italiani: infatti se per un verso lo stato di moratoria sfugge in Italia ad una determinazione classista che individuerebbe nei giovani borghesi il ceto maggiormente investito (Galland 1996, 1-9), e ciò viene confermato anche dai dati della ricerca, per l’altro verso sembra di poter dire che lo stato di moratoria dei giovani borghesi si caratterizza per un ruolo meno rilevante della famiglia nella trasmissione di forme identitarie rispetto a quanto accade per i giovani dei ceti medio-inferiori. Probabilmente in quest’ultimo tipo di famiglie agisce più che una trasmissione di capitale culturale in senso stretto, difficile da immaginare, una motivazione acquisitiva la cui condivisione viene vissuta dai giovani anche come forma di identificazione con la propria famiglia e la sua storia. In questo processo gioca un ruolo anche la percezione dell’investiGrafico 2. La struttura delle influenze per la formazione degli orientamenti politici nell’adolescenza (valori medi) Padre 40 30 Politico non con. pers. 20 Madre 10 0 Insegnante Fratello/sorella Amico Studenti Disoccu 401 mento-identificazione che la famiglia effettua sul figlio sostenendolo negli studi, processo che evidentemente non coinvolge i giovani disoccupati. La centralità della famiglia sembra ricevere ulteriore conferma quando si passa ad esaminare quali figure hanno svolto un ruolo importante nella formazione di un’identità politica. In questo senso la distinzione di status tra studenti e disoccupati si dimostra rilevante. Se si prende in considerazione la struttura delle influenze esercitate sulla formazione dell’interesse per la politica nella delicata fase dell’adolescenza emergono, come si può vedere dal grafico 2 – alcuni elementi significativi. In particolare, i giovani disoccupati evidenziano una marcata concentrazione sulla figura paterna come elemento di mediazione dell’interesse e della conoscenza della politica, la madre sembra invece rivestire un ruolo secondario, leggermente più importante degli altri possibili referenti considerati, sia all’interno delle reti primarie che nella sfera pubblica. La struttura delle influenze negli studenti manifesta invece una forma meno monotematica e più articolata, già nell’adolescenza, in relazione ad una pluralità di fonti e di mediatori dell’interesse e della conoscenza della politica. Il grafico mostra un profilo che in generale è meno contratto di quello dei disoccupati, estendendosi anche nella sfera pubblica e denunciando una rilevanza maggiore di quella dichiarata dai disoccupati, sia in merito all’influenza ricevuta da un politico non conosciuto personalmente che all’influenza di un insegnante. Com’è evidente la famiglia svolge un ruolo primario anche per gli studenti, ma è forse il caso di sottolineare che – eccettuato il caso del padre – tutti gli altri ruoli esercitano un’influenza che per gli studenti è, di poco o di molto, comunque maggiore che per i disoccupati. In linea con questa apertura sono anche i dati relativi alle fonti di influenza che si ritengono più importanti per la formazione dei propri orientamenti politici oggi. In questo secondo caso vengono indicati da entrambi i gruppi le medesime tre figure, padre, amico e politico non conosciuto direttamente, ma con un ordine esattamente inverso. Gli studenti indicano come più importante per la loro identità politica la figura del politico e dimostrano così una maggiore specificità cognitiva che consente loro di inquadrare le dinamiche della lotta politica differenziando la sfera politica dai contesti di azione 402 Grafico 3. La struttura delle influenze per la formazione degli orientamenti politici oggi (valori medi). Padre 40 30 Politico non con. pers. Madre 20 10 0 Insegnante Fratello/sorella Amico Studenti Disoccup privata. I disoccupati collocano invece la figura del politico al terzo posto assegnando agli amici il più importante ruolo di identificazione politica. In questo secondo caso l’interesse per la politica viene mediato in misura rilevante da una struttura di relazioni che è propria della vita privata. Emergono dunque elementi di una distinzione che sembra essere coerente con la struttura dichiarata per l’adolescenza. I disoccupati mediano l’attenzione per la politica con il riferimento maggiore a relazioni primarie, gli studenti, conservano una struttura più aperta e plurale. Trova così conferma anche nel presente la maggiore rigidità della struttura delle influenze sull’identità politica dei disoccupati rispetto alla struttura propria degli studenti. La centralità della famiglia per la definizione delle identità politiche giovanili sembra emergere anche dal dato secondo il quale è proprio questo lo spazio relazionale dove i giovani parlano più spesso di politica. In questo senso le differenze tra studenti e disoccupati sono di intensità ma non di gerarchia: entrambi i gruppi 403 indicano gli amici dopo la famiglia. Ancora una volta emerge una maggiore efficacia della famiglia degli studenti nella definizione di interesse per i temi politici. Oltre uno studente su tre (37%) parla spesso di politica con i genitori, mentre questo accade per poco più di un disoccupato su quattro (27%). Questo dato è da mettere in relazione con la già considerata maggiore propensione degli studenti a percepire come importante l’appartenenza familiare per il proprio sviluppo personale e a sentire in maniera più netta l’identità familiare. Ciò non significa, tuttavia, che vi sia sovrapposizione tra i valori politici dei genitori e quelli dei figli. La conversazione, infatti, non è necessariamente priva di elementi conflittuali, anche se la maggiore integrazione familiare degli studenti può far pensare ad una maggiore vicinanza ai genitori anche in termini di opzioni politiche. Ma dai dati emerge anche un ulteriore aspetto che merita di essere considerato. Anche se sono proprio i familiari e gli amici gli interlocutori privilegiati con i quali discutere di politica la politica non costituisce in misura significativa un fattore di integrazione né delle cerchie familiari né, come vedremo tra poco, del gruppo dei pari. Da questo punto di vista la politica sembra essere una dimensione attraverso la quale non si produce integrazione, ma che acquista rilevanza e circola essenzialmente all’interno di contesti di relazione già integrati da altri fattori. È indicativo di ciò il dato in base al quale più della metà degli studenti intervistati (55,9%) dichiara di parlare di politica con i propri colleghi universitari mai o di rado, mentre il 78,9% parla di politica spesso o ogni tanto con i propri familiari. 4. Gruppo dei pari e interesse per la politica Abbiamo visto come nella definizione dei contesti e delle figure significative per la definizione delle identità sociali e politiche accanto alla famiglia un ruolo di grande importanza sia rivestito dal network dei pari. Le ricerche sulla condizione giovanile negli anni Novanta hanno messo in luce la crescente importanza che hanno assunto i rapporti amicali nell’esperienza sociale delle giovani generazioni (Cavalli e De Lillo 1993; Donati e Colozzi 1997). Si tratta di un fenomeno che, a differenza delle relazioni 404 familiari, tende a svilupparsi secondo forme che sono solo relativamente riconducibili a modelli peculiari delle diverse macroaree culturali in cui si suddivide normalmente lo spazio sociale europeo (Requena Santos 1994, 1-9). È ipotizzabile che la crescita di rilevanza dell’esperienza amicale sia un fenomeno che per essere adeguatamente compreso richieda di essere inserito nel più ampio contesto delle trasformazioni delle relazioni sociali nella società complessa della tarda modernità (Mongardini 1999). In questo senso la crescita dell’importanza dell’amicizia per le giovani generazioni segnala l’estensione dei processi individualizzazione e di differenziazione delle relazioni sociali dei quali un esito sembra essere appunto la rivalutazione delle relazioni “personalizzate e personalizzanti” (Prandini 1997, 65) per la costruzione delle identità sociali. I dati della ricerca sembrano confermare, relativamente alla cultura politica, queste linee di inquadramento del fenomeno. La rilevanza dell’istruzione universitaria nella propensione a scegliere temi politici nelle conversazioni sembra essere confermata anche se si estrapola dall’universo dei disoccupati il segmento di coloro (36% del campione) che sono laureati o che comunque sono iscritti all’Università e lo si confronta con il segmento formato tanto da coloro che, pur avendo un titolo di studio superiore non si sono mai iscritti all’Università, quanto da coloro che hanno un titolo di studio inferiore. I dati confermano l’ipotesi e accentuano ulteriormente la divaricazione tra i due gruppi considerati rispetto a quanto già abbiamo visto nel confronto più generico tra studenti e disoccupati. Sono i disoccupati con un’istruzione universitaria coloro che discutono di più di politica con i genitori e con gli amici: quasi i quattro quinti (78%) parla almeno ‘ogni tanto’ di politica con i genitori, ma il 29% lo fa ‘spesso’. Al contrario, soltanto il 54% dei disoccupati con un titolo di studio medio-basso dice di parlare almeno ‘ogni tanto’ di politica con i genitori, mentre ‘spesso’ accade solo per il 13%. Un’altra conferma dell’importanza degli studi universitari per la selezione di temi politici nelle conversazioni emerge dai dati relativi alle discussioni politiche con gli amici: tra i disoccupati con formazione universitaria uno su tre (34%) parla ‘spesso’ di politica con gli amici, mentre ciò avviene nell’altro sottogruppo di disoccupati per solo uno su cinque (20%). La rilevanza dei temi politici nelle conversazioni con genitori e con 405 amici mostra una maggiore integrazione dei contesti relazionali degli studenti. Quasi i quattro quinti degli studenti (79%) dichiara di discutere ‘ogni tanto’ o ‘spesso’ di politica con i genitori, a fronte di una quota di disoccupati pari al 66%. Considerando soltanto il segmento che dichiara di parlare ‘spesso’ di politica con i genitori la differenza di 10 punti tra i due gruppi segnala una maggiore diffusione di questo comportamento tra gli studenti. Allo stesso modo, la frequenza con la quale i temi politici entrano nelle conversazioni tra amici sembra riprodurre lo schema appena tratteggiato. Sono gli studenti che, con una differenza del 75% a fronte di un 62%, discutono di più di politica. Se però si passa a valutare il grado di omogeneità etico-sociale, ma anche economica, rilevabile all’interno delle reti amicali bisogna considerare che le dimensioni di loisir e di autoespressività che caratterizzano le relazioni di amicizia tra i giovani, in quanto elemento di depotenziamento della conflittualità, agiscono come un fattore di omogeneizzazione nella selezione degli amici. Da questo punto di vista i dati relativi ai network amicali restituiscono un’immagine di bassa differenziazione nelle posizioni etiche (il 75% degli studenti e il 78% dei disoccupati dichiarano di avere posizioni etiche abbastanza-molto simili a quelle degli amici), come anche nelle esperienze di vita (il 70% sia degli studenti che dei disoccupati dichiara di condividere con i propri amici simili esperienze di vita) e nelle possibilità economiche (81% degli studenti e 79% dei disoccupati). Diverso è il caso delle posizioni politiche. Il campione si spacca in modo quasi equo: solo il 52% degli studenti e il 56% dei disoccupati dichiarano di condividere le posizioni politiche dei propri amici. Probabilmente, però, non siamo di fronte ad una manifestazione di particolare pluralismo, quanto piuttosto ad una riprova indiretta della non significatività delle posizioni politiche come criterio di selezione e di conferma delle relazioni amicali. Poiché la politica occupa le posizioni di minor interesse per una grande parte dei giovani, le differenze politiche probabilmente non sono assunte come un elemento di conflittualità nei network dei pari in quanto non costituiscono una dimensione importante nell’identità di membro del gruppo. La somiglianza delle posizioni culturali ed economiche che emerge dai dati come elemento particolarmente evidente – eccettuato il caso della politica – delle relazioni amicali tanto degli studenti che dei disoccu406 pati viene indirettamente confermata anche dall’analisi dell’influenza del tipo di formazione universitaria o meno nel campione dei giovani disoccupati. In questo caso la formazione universitaria sembra agire come fattore di selezione per le relazioni amicali: infatti i disoccupati che hanno questo tipo di formazione evidenziano livelli più elevati di affinità con i propri amici rispetto ai disoccupati con un livello inferiore di scolarizzazione, soprattutto per quanto concerne le posizioni etiche e le posizioni politiche: tra i primi e i secondi si registra uno scarto di 15 punti percentuali rispetto alle posizioni etiche e del 7% rispetto alle posizioni politiche. Siamo probabilmente di fronte a quello che è stato definito il principio dell’interdipendenza delle dimensioni strutturali (Requena Santos 1994, 98), in base al quale nella costruzione delle relazioni di amicizia l’affinità di qualche caratteristica strutturale comporta la somiglianza in altre: nel nostro caso insieme al livello di scolarizzazione troviamo le possibilità economiche e le posizioni eticopolitiche. La sfera delle relazioni amicali tra pari si definisce dunque come una sfera fortemente differenziata rispetto agli altri contesti di relazione, primari e secondari, governata da regole di rilevanza – che definiscono ciò che è ammissibile e ciò che non lo è – fondamentalmente interne alla relazione e prodotte da questa. In questo senso si comprende la tendenziale, ma evidente, omogeneità sociale e culturale che caratterizza i network dei giovani studiati. L’ipotesi dell’autonomia di questa sfera di relazioni sociali sembra essere confermata anche dalla sostanziale irrilevanza di questo tipo di relazioni nel favorire la partecipazione associativa dei giovani. In nessuna delle forme associative considerate dalla ricerca emerge un ruolo significativo delle relazioni amicali nell’incrementare la pratica associativa. L’unico caso che – sia pure in misura lieve – sembra distaccarsi da questa tendenza è quello degli studenti impegnati in associazioni di volontariato. Almeno per un terzo dei membri di questo gruppo (che pur rappresentando soltanto il 30% del campione forma il segmento più ampio di tutta la pratica associativa) si evidenzia una relazione tra la partecipazione a forme di volontariato e l’importanza assegnata ad un amico nella definizione della propria identità politica. In linea generale, però, non sembra esistere un nesso rilevante tra l’appartenenza a contesti di relazione anche fortemente integrati e la propensione all’associazionismo: né i network amicali, né le relazioni familiari 407 esercitano una influenza importante sulla decisione di entrare a far parte di un’associazione o di un partito. Probabilmente la decisione di impegnarsi – anche saltuariamente – in associazioni è solo in misura marginale il frutto di percorsi di socializzazione e di definizione dell’identità, ma è molto più condizionata da fattori contingenti, anche perché, appunto, riguarda soltanto una porzione minoritaria delle giovani generazioni. 5. I due esiti della socializzazione politica familiare I dati della ricerca sembrano andare nella direzione di una conferma dell’ipotesi formulata relativamente alla relazione tra la struttura delle influenze nella mediazione della sfera politica e lo sviluppo di forme di interesse per la politica e di partecipazione politica. La rappresentazione della sfera politica risulta in connessione con la sfera delle relazioni primarie, principalmente familiari, in misura molto più significativa di quanto non accada con le relazioni amicali. In questa prospettiva sembra di poter dire che – in una prima approssimazione – la centralità della famiglia non è necessariamente dipendenza dalla famiglia e ridotto interesse per il mondo extrafamiliare. I giovani disoccupati, che all’analisi dei dati risultano meno sensibili alle identità politiche e ai temi politici, provengono allo stesso tempo da una famiglia all’interno della quale la comunicazione relativa alla politica risulta essere fortemente dipendente dalla struttura delle relazioni primarie. Ciò non significa che la famiglia dei disoccupati non svolga un ruolo importante – non si deve dimenticare infatti che la sopra descritta centralità della famiglia nel modello italiano di allungamento della giovinezza è tale sia per gli studenti che per i disoccupati – ma la forma dell’appartenenza sembra delineare un nesso tra il contesto relazionale e comunicativo intrafamiliare meno ricco e una opacità nella determinazione di opinioni e identità politiche comparativamente maggiore degli studenti. Il risultato che emerge da questa prima valutazione è, allora, quello di un minore interesse per la sfera politica da parte dei giovani disoccupati e una conseguente declinazione dell’attenzione per la politica attraverso la mediazione svolta dalle relazioni primarie: si tende cioè ad essere interessati alla politica più perché orientati dal contesto relazionale famiglia-amici che per motivazione pro408 pria. In altri termini, per quanto all’interno di un contesto globalmente caratterizzato da un basso interesse per la politica, relativamente ai disoccupati come agli studenti, se consideriamo le modalità di relazione tra le forme relazionali familiari e la differenziazione (intesa qui in senso cognitivo e identitario) della sfera della politica dal contesto delle relazioni primarie, i dati evidenziano un minor grado di differenziazione nella cultura politica dei disoccupati dal contesto familiare-amicale, rispetto ad una maggiore autonomia che la politica risulta avere per gli studenti. La relazione tra struttura delle influenze e interesse per la politica emerge in modo significativo – sebbene con un segno diverso – anche per gli studenti universitari. La maggiore integrazione familiare si lega con una più adeguata propensione alla politica e ai suoi temi. In particolare, gli studenti sembrano maggiormente influenzati dal contesto familiare – e anche maggiormente consapevoli di ciò – che è però vissuto in forme comunicative più aperte sull’esterno e meno autoreferenziali. In questo senso alla famiglia si riconosce un ruolo importante nella determinazione delle identità politiche, ma sembra di poter dire non nel senso di una mera riproduzione intragenerazionale dei sistemi di valore e delle opzioni politiche, al contrario, gli studenti hanno fin dall’adolescenza una pluralità di riferimenti e di figure significative che dimostrano una maggiore apertura sulla realtà politica e l’esistenza di un interesse più consapevole. Si può ipotizzare, allora, che una maggiore integrazione familiare non agisca necessariamente in termini di chiusura, ma che, per lo meno comparativamente con quanto accade con i disoccupati, sia proprio la maggiore integrazione familiare a fornire agli studenti una più attrezzata rappresentazione della realtà politica e in tal modo a fornire anche le condizioni di più articolate identificazioni, anche nei termini di una maggiore differenziazione dalle posizioni politiche dei propri genitori. Assai diverso è invece il discorso in merito alla rilevanza delle reti amicali nella determinazione di dimensioni dell’identità politica. Abbiamo visto che il rapporto tra tipi di relazioni amicali e status non costituisce un elemento di particolare rilievo per lo sviluppo dei processi di socializzazione politica. In un certo senso si potrebbe perfino sostenere che se la politica entra nelle conversazioni tra amici la sua tematizzazione in questi contesti è probabilmente 409 più funzionale ad una presa di distanza che allo sviluppo di un interesse. Infine, una particolare sottolineatura appare necessaria: tra i fattori emersi nell’analisi come più significativi il titolo di studio costituisce un importante elemento di conferma. Indipendentemente dallo status di studente o di disoccupato, sono coloro che hanno una formazione di livello universitario a mostrare una maggiore stabilità nelle motivazioni di interesse e nelle forme di partecipazione politica, così come evidenziano una maggiore disponibilità a discutere di temi politici in famiglia e con gli amici. 410 CAPITOLO QUINDICESIMO FIGURE E RETI DI INFLUENZA POLITICA: UN CONFRONTO TRA LE GENERAZIONI 1. La trasmissione dei valori e il cambiamento politico fra le generazioni L’approccio teorico che affronta il tema del cambiamento politico in chiave generazionale pone in primo piano il ruolo delle ‘generazioni politiche’ in quanto portatrici di sistemi di valori e di credenze, di rappresentazioni sociali e di norme nella sfera politica, differenziati tra loro e tendenzialmente alternativi (Mannheim 1974; Bettin Lattes 1999). In quest’ottica, la cultura e i comportamenti politici che connotano una società in un dato momento storico vengono ricollegati, da un lato, alle relazioni fra le generazioni politiche compresenti e, dall’altro, all’avvicendamento intergenerazionale. Per la comprensione delle dinamiche di mutamento acquistano, pertanto, un rilievo specifico sia le forme dell’interazione fra le generazioni nelle diverse fasi dei loro rispettivi corsi di vita sia i processi di formazione delle singole generazioni politiche. Se il cambiamento politico è riportato all’azione di una nuova generazione politica, che introduce un elemento di rottura nella riproduzione della cultura politica, la continuità è assicurata dalla trasmissione intergenerazionale dei valori e delle norme politiche. Dal ‘successo’ della socializzazione come riproduzione dei valori e dei ruoli dipende, infatti, la possibilità di emergere di una nuova generazione, nel senso che quanto più è riuscita la trasmissione dei valori, tanto più deboli sono le condizioni della nascita di una generazione politica differenziata rispetto alle precedenti. Questo capitolo è stato scritto da Paola Tronu. 411 Lo scambio e l’influenza reciproca fra le generazioni non si esauriscono nella fase della socializzazione politica delle generazioni più giovani; lasciando da parte, in questa sede, la questione dei rapporti fra le diverse generazioni definite dalla condizione dell’appartenenza a distinte coorti di nascita, è importante sottolineare come la relazione fra le generazioni di genitori e le generazioni di figli nelle società europee si sia modificata nel tempo, assumendo caratteri nuovi a partire dagli anni ottanta. La linea interpretativa corrente sul cambiamento delle relazioni familiari e della condizione giovanile pone l’accento sulla crisi della famiglia come agenzia di socializzazione ai ruoli e ai valori e come luogo di comunicazione e di interazione fra le generazioni ed enfatizza il ruolo delle relazioni fra pari nella fase di costruzione dell’identità personale, anche nei tratti caratteristici della sfera politica. A ciò si aggiunge il fatto che uno dei presupposti della teoria classica della socializzazione è che il compito di ‘comunicazione delle differenze’ attribuito ai genitori può essere svolto adeguatamente solo in una società in cui le ‘differenze di valore’ hanno un contenuto pregnante; la tendenza alla relativizzazione dei valori nelle società contemporanee mette, dunque, a rischio la trasmissione culturale. La rottura della linea di trasmissione intergenerazionale, in un contesto societario contraddistinto dall’affievolirsi della dimensione valoriale, dovrebbe, dunque, esitare da un lato nella precarizzazione della riproduzione dei valori e dall’altro nella costituzione di identità politiche giovanili fortemente differenziate rispetto a quelle degli adulti. Questa schema interpretativo pare talora assunto senza riscontri opportunamente approfonditi. Vi sono, infatti, segnali sui rapporti fra le generazioni e sui comportamenti familiari che sembrano andare nella direzione opposta a quella della frattura intergenerazionale. I cambiamenti nella socializzazione politica familiare sono di natura più complessa. La trasmissione familiare dei valori, degli orientamenti e dei comportamenti politici si è globalmente modificata, ma, per certi aspetti almeno, la trasmissione appare non diminuita ma anzi rafforzata, pur nel cambiamento delle modalità. Il cambiamento dei ruoli e delle relazioni familiari, nella direzione della perdita del carattere asimmetrico dei rapporti di genere e di generazione riduce il conflitto nel contesto familiare, mentre si rafforza la tendenza all’individualizzazione ed all’autonomia dei mem412 bri (Donati e Colozzi 1997). Questa evoluzione si traduce in nuovi equilibri fra le generazioni fondati solo sulla tolleranza, sulla coesistenza e sulla composizione di valori oppure reca con sé nuove forme di condivisione di credenze e di atteggiamenti? Un altro elemento che completa il quadro delle condizioni in cui avvengono attualmente i processi di socializzazione politica è rappresentato dall’indebolimento delle altre tradizionali agenzie di socializzazione – come la scuola e le organizzazioni politiche, a fronte di un prolungamento della durata della convivenza dei giovani nelle famiglie di origine, che induce un rafforzamento dei sentimenti di soddisfazione dei giovani nei confronti della famiglia ed una sottolineatura, nella percezione dei giovani, proprio delle dimensioni della trasmissione e dello scambio intergenerazionale (Landuzzi 1997). L’identificazione delle coorti giovanili degli anni novanta come ‘generazioni politiche’, con caratteri e identità differenziate e innovatrici rispetto alle precedenti generazioni, va, dunque, verificata analizzando le trasformazioni intervenute nelle forme di socializzazione politica e nelle relazioni tra le generazioni all’interno della famiglia. In questo capitolo verranno esaminati i canali e le modalità di socializzazione politica che hanno caratterizzato l’esperienza delle giovani generazioni italiane negli anni novanta. Ponendo a confronto le condizioni e le dinamiche di formazione della personalità politica dei giovani ventenni alla fine dell’ultimo decennio con quelle che hanno accompagnato la socializzazione politica dei loro genitori, appartenenti alle generazioni che hanno vissuto il periodo dell’adolescenza e della giovinezza durante gli anni sessanta e settanta, si cercherà di cogliere il passaggio generazionale in quanto cambiamento dei processi di costruzione dell’identità politica. Attraverso l’analisi delle fonti di influenza politica – ovvero delle agenzie e dei soggetti cui gli individui attribuiscono la capacità di intervenire nella formazione dei loro orientamenti politici –, del grado di influenza dei diversi soggetti e dell’integrazione fra le diverse fonti, si cercherà di far emergere i diversi modelli di socializzazione cui sono state sottoposte le generazioni considerate. Fra le ipotesi che si vogliono verificare vi è quella della perdurante centralità del canale familiare nelle dinamiche di costruzione dell’identità politica; in particolare si vuol capire se le preferenze politiche siano un terreno di maggiore o di 413 minore differenziazione dei giovani nel contesto familiare che non in quello della cerchia amicale. Un interrogativo che rimane aperto riguarda, infine, i contenuti della trasmissione: le preferenze politiche, le scelte e i comportamenti si trasmettono lungo la linea generazionale più dei valori generali o è vero il contrario? Il tema della formazione delle identità politiche nel contesto familiare può essere declinato non solo con riferimento alla condizione giovanile, ma anche spostando l’attenzione sulle dinamiche di ridefinizione delle identità dei soggetti adulti. Sia il nuovo clima delle relazioni familiari, in cui la dimensione autoritaria cede il passo a quella paritaria e gli scambi divengono da asimmetrici tendenzialmente simmetrici, sia i cambiamenti che interessano i modi di costruzione dell’identità personale nelle società contemporanee portano in evidenza i processi di influenza politica in cui i figli sono elementi attivi e i genitori elementi ricettori. 2. Il ruolo della famiglia nel processo di sviluppo della personalità I cambiamenti delle relazioni familiari nella direzione del riconoscimento degli spazi di autonomia dei singoli membri e della ‘democratizzazione’ dell’istituzione (Giddens 1990) hanno fatto perdere alla famiglia il carattere di sede di contrapposizione e di conflitto. In particolare ciò ha comportato la messa in discussione dei ruoli genitoriali, soprattutto della paternità, e la specificità dei modelli educativi di genere per i figli. Come vedremo, però, l’effetto non è la neutralità o l’indifferenza fra le generazioni: i processi di trasmissione dei valori e dei comportamenti politici sembrano, anzi, rafforzati. Il grado di soddisfazione per le relazioni familiari, che è pre-condizione del successo della trasmissione intergenerazionale, si è elevato nel passaggio tra le generazioni e il processo di socializzazione ai ruoli e alle identità politiche all’interno della famiglia riflette questi cambiamenti. La trasformazione dei rapporti familiari nella direzione dell’attenuazione dei conflitti e dell’apertura all’individualizzazione si rispecchia nella rappresentazione della famiglia come spazio di crescita e di maturazione della personalità da parte dei soggetti. Questo tipo di rappresentazione, accompagnata ad una valutazione positiva del ruolo svolto dalla famiglia, è in crescita presso le 414 giovani generazioni degli anni novanta. Nella percezione delle giovani generazioni, la famiglia da vincolo ed ostacolo al dispiegamento della personalità dei figli si è andata sempre più configurando come risorsa e sostegno, come spazio di relazione ed espressione. Nelle ricerche sulla condizione giovanile in Italia durante l’ultimo decennio, la famiglia è stata costantemente indicata al primo posto nella scala dei valori dei giovani, registrando un consenso addirittura crescente dall’inizio alla fine del periodo (Buzzi, Cavalli, de Lillo 1997). Dai dati della nostra indagine, il confronto intergenerazionale – fra due generazioni, rispettivamente di genitori e di figli – consente di apprezzare con più chiarezza l’atteggiamento dei giovani verso la famiglia1. I giovani attribuiscono un significato positivo alla sfera familiare in misura maggiore rispetto ai loro genitori, che assumono atteggiamenti più critici verso l’esperienza nella famiglia di origine (grafico 1). Padri e madri – in particolare le seconde, che durante la loro giovinezza si sono confrontate con modelli educativi fortemente discriminanti fra i generi – esprimono più spesso un giudizio negativo nei confronti del contesto familiare di origine: quasi un terzo delle madri e un sesto dei padri valutano negativamente il contesto familiare di origine. I loro figli, sia maschi sia femmine, appaiono assai più soddisfatti. In particolare le figlie esprimono ancora livelli di insoddisfazione leggermente più elevati dei loro coetanei maschi. Anche dal punto di vista dei sistemi di valori relativi alla formazione della personalità dei figli ed ai rapporti con i genitori si osserva, negli anni novanta, una forte sintonia fra gli orientamenti dei figli e quelli dei genitori, che si esprime nel riconoscimento di un modello di riferimento comune ad entrambi imperniato sullo sviluppo libero dell’individualità e della sfera di autonomia dei figli nel contesto familiare. La fiducia in sé stessi è la qualità ritenuta più rilevante sia dagli uni sia dagli altri; i figli privilegiano, poi, 1 Questo capitolo utilizza, oltre ai dati relativi al campione formato dagli studenti universitari italiani, le informazioni relative al sottocampione di studenti, di cui sono stati intervistati anche i genitori (cfr. Appendice Metodologica). La ‘generazione’ dei genitori abbraccia un numero elevato di coorti di nascita; tuttavia l’84% dei genitori è nella fascia di età centrale della vita adulta fra i 40 e i 60 anni. 415 Grafico 1. Figli e genitori secondo il grado di accordo con l’affermazione “Nella mia esperienza, la famiglia ha favorito lo sviluppo personale” (scala da 1 a 10). Percentuali cumulate grado di accordo con l’affermazione sul ruolo della famiglia l’indipendenza e pongono in fondo alle loro scelte l’ubbidienza ai genitori, mentre i genitori sottolineano insieme alla fiducia in sé stessi anche l’autodisciplina e danno minore importanza all’indipendenza ma anche all’ubbidienza ai genitori (grafico 2). In sostanza sembra che il processo di ‘democratizzazione della vita familiare’ si fondi non solo e non tanto sull’autonomizzazione e sulla distanza fra le generazioni di per sé quanto sull’adesione da parte di genitori e figli al valore della libertà di espressione individuale. In quale relazione sono la percezione dei rapporti familiari e i modelli educativi assunti rispettivamente dai giovani e dai loro genitori? I figli si dichiarano tanto più soddisfatti del contesto familiare quanto maggiore è l’importanza che essi attribuiscono al valore dell’ubbidienza ai genitori e quanto più i genitori, a loro volta, manifestano apprezzamento per l’indipendenza come valore educativo. Ci si aspetterebbe una relazione di segno negativo fra la preferenza dei genitori per il valore tradizionale dell’ubbidienza – che potrebbe innescare dinamiche di contrapposizione con le esigenze e gli orientamenti valoriali individualizzanti dei figli – e la valutazione da parte di questi ultimi del ruolo svolto 416 Grafico 2. Voto medio (su scala da 1 a 10) alle qualità più importanti per la formazione della personalità dei figli nell’opinione dei figli e dei genitori cia u fid i e ns ssi ste Genitori a nz ind ipe e nd n nta o sp à eit na pli au to ci dis Figli ai za ori n e i it bid gen ub dalla famiglia per il loro sviluppo personale; quello che emerge è, invece, l’indipendenza fra l’apprezzamento dell’importanza della famiglia da parte dei figli e l’atteggiamento educativo più tradizionalista dei genitori. Si conferma, dunque, un quadro di bassa conflittualità familiare, in cui i modelli di valore di genitori e figli sono differenziati ma non contrapposti. E’ indicativo di questo stato dei rapporti familiari il fatto che i valori tradizionali non costituiscano un elemento di tensione per le relazioni familiari ma sembrino giocare piuttosto un ruolo rilevante nel rafforzamento delle relazioni familiari nella misura in cui sono interiorizzati dai figli. 3. Gli agenti della socializzazione politica La maggiore adesione delle giovani generazioni ad una visione positiva del ruolo della famiglia si accompagna al rafforzamento dell’influenza familiare nella formazione degli orientamenti politici. Il clima familiare indotto dalla democratizzazione delle relazioni intergenerazionali non porta alla riduzione della comu417 nicazione fra genitori e figli e all’indebolimento dell’influenza politica dei primi sui secondi, bensì al rafforzamento del ruolo dei genitori – e dei parenti in genere – nella trasmissione dei valori e dei ruoli politici. Il 58% dei figli individuano la figura più influente per la loro formazione politica nel corso dell’adolescenza all’interno della parentela. L’importanza di una figura familiare nella costruzione dell’identità politica è riconosciuta da una quota sempre consistente ma spiccatamente più ridotta di genitori (46%) (tav. 1). Nelle nuove generazioni risulta accentuata complessivamente l’influenza della cerchia privata estesa agli amici ed ai fidanzati; è stazionaria l’influenza di figure istituzionali autorevoli – eccetto il caso dell’insegnante per le ragazze. Di contro è crollata nettamente l’influenza di figure di riferimento proprie della sfera politica: un genitore su quattro indica come persona più influente per la costruzione della propria identità politica nella fase dell’adolescenza un politico, mentre questo accade solo per un giovane su dieci. Si può parlare di una ri-privatizzazione del processo di socializzazione politica, legata all’indebolirsi della credenza nell’autorevolezza e nella credibilità – in sostanza, della fiducia – nei confronti delle figure politiche. Ad entrare in crisi, nella fase più recente di evoluzione della cultura politica italiana, è stato il circuito di socializzazione interno alla sfera politica, sviluppatosi sotto l’effetto della tendenza alla differenziazione e all’autonomizzazione di questa sfera, mentre le altre agenzie, che svolgono funzioni di socializzazione anche relativamente alle credenze, ai valori, alle competenze ed ai comportamenti politici, hanno piuttosto rafforzato il loro ruolo. Questo rafforzamento del ruolo della famiglia in particolare nei processi di socializzazione politica è spiegabile solo facendo riferimento proprio alla trasformazione delle relazioni familiari – di cui sono spia gli atteggiamenti più favorevoli verso la famiglia di origine osservati fra i giovani rispetto ai loro genitori – che ha indotto il cambiamento delle dinamiche e delle modalità di trasmissione. Un altro punto di rilievo nel passaggio intergenerazionale è la riduzione – tra i figli – del numero di coloro che non riconoscono nessuna figura decisiva per la loro formazione politica. Il 13,3% dei genitori afferma di non aver avuto durante l’adolescenza nessuna figura di riferimento politico; questa quota di persone che si dichiarano ‘refrattarie’ all’influenza di altri soggetti scende al 9,9% 418 fra i figli. Anche se non è possibile disporre di dati sul grado di interesse e di partecipazione politica dei genitori durante la loro adolescenza, se si considera il periodo storico – fra gli anni sessanta e gli anni settanta – in cui la maggior parte di loro ha maturato la propria identità politica, si può ipotizzare che il cambiamento fra le generazioni sia legato all’esperienza di formazione politica dei genitori in un contesto di mobilitazione politica e di fervore collettivo, che ha consentito e incoraggiato il rifiuto del ruolo di influenza svolto dai canali tradizionalmente legittimati a trasmettere valori, rappresentazioni e atteggiamenti politici, contrapponendo al modello di formazione politica etero-diretta un modello basato sulla crescita autonoma della personalità politica. Tavola 1. Genitori e figli per tipo di influenza politica cui sono stati esposti durante l’adolescenza Se rivolgiamo l’attenzione ai singoli soggetti che esercitano un’influenza politica all’interno della famiglia sui membri più giovani presenti nel nucleo familiare come figli – distinguendo tali soggetti in base alla relazione di parentela che essi hanno con i giovani 419 –, possiamo cogliere alcune importanti peculiarità dei modelli di trasmissione intrafamiliare dei valori e degli orientamenti politici propri delle due generazioni. Nei processi di socializzazione politica familiare cui sono stati soggetti i genitori nei decenni sessanta e settanta e i loro figli negli anni novanta la figura centrale rimane quella del padre. La quota di giovani che considerano il padre la figura politicamente più significativa di ogni altra – interna o esterna alla famiglia – non risulta affatto scomparsa o indebolita quanto, piuttosto, rafforzata – in particolare per i figli maschi. Tuttavia a questa accresciuta predominanza della figura paterna fa da elemento di riequilibrio, nell’ambito delle dinamiche di socializzazione politica familiare, la maggiore incisività del ruolo materno nella trasmissione dei valori e degli orientamenti politici. Un importante elemento di novità è rappresentato dal fatto che acquista un maggior peso nella socializzazione politica la madre, che quasi nessuno della attuale generazione di padri richiama come figura predominante, e che viene, invece, indicata come persona più influente non solo da una quota di figlie – il 9,2% – che è più elevata ma non di molto rispetto a quella delle madri che si ritengono influenzate politicamente soprattutto dalle proprie madri, ma anche da una parte dei figli maschi – il 6,5%. Se si valuta, dunque, il peso relativo della figura paterna nella trasmissione familiare dei valori e delle norme politiche, questo risulta diminuito per effetto della crescita parallela e più consistente dell’influenza esercitata soprattutto dalla madre. Non si riscontra, peraltro, il rovesciamento dei ruoli fra i genitori, che è stato osservato in precedenti ricerche con riferimento alla trasmissione dei valori e dei comportamenti partecipativi: il fulcro della socializzazione politica familiare rimane comunque il padre. La tradizionale divisione di ruoli fra i genitori, in base alla quale il compito della trasmissione intergenerazionale nella sfera politica spettava principalmente al padre, è soltanto intaccata ma non sovvertita. Nel passaggio fra le due generazioni sono diminuite alcune delle differenze di genere presenti nei modelli di socializzazione politica, ma altre sono rimaste invariate e altre ancora si sono accentuate. Poiché il ruolo delle figure parentali – e in particolare della madre – nella costruzione dell’identità politica si è rafforzato soprattutto per i maschi, si può dire che per questo aspetto si è attenuata la specificità dei processi di socializzazione politica per uomini e donne (tav. 2). Per quanto riguarda l’influenza di perso420 naggi politici, è rimasta, invece, inalterata – seppure in forte calo sia fra gli uomini che fra le donne (le quote di coloro che si ritengono massimamente influenzati durante l’adolescenza da questo tipo di agenti socializzatori sono praticamente dimezzate) – la diversa propensione di genere a fare riferimento a personaggi politici come figure politicamente formative e influenti. Nelle due generazioni considerate il rapporto fra uomini e donne soggetti a questo particolare tipo di influenza è rimasto praticamente invariato: fra coloro che ritengono di essere stati influenzati soprattutto da personaggi politici troviamo due uomini per ogni donna. Per un altro verso, infine, la differenza di genere nei processi di formazione dell’identità politica si è, invece, rafforzata: le donne delle giovani generazioni sono molto più sensibili dei loro coetanei all’influsso di figure portatrici di autorità nelle istituzioni non politiche, come l’insegnante e il sacerdote. Tavola 2. Figli, figlie, padri e madri per il tipo prevalente di influenza politica cui sono stati esposti durante l’adolescenza 421 Si possono avanzare diverse spiegazioni dei cambiamenti generazionali osservati. La riduzione dei conflitti familiari agevola lo svolgimento delle funzioni di socializzazione politica. La crisi della politica e il calo dell’impegno politico fra i giovani possono aver prodotto questo rafforzamento della famiglia e in generale delle sfere non politiche come ambiti di definizione delle identità e degli orientamenti politici. In controtendenza con le interpretazioni che sottolineano la minore estensione dell’influenza familiare nella formazione degli orientamenti politici, la sfera delle preferenze e dell’identità politica risulta essere un elemento che avvicina le generazioni. Il grado di differenziazione dei valori e degli atteggiamenti dei giovani rispetto alle generazioni adulte, secondo la percezione che ne hanno gli studenti, è molto più basso nella sfera politica che non in quella etica (tav. 3) o in altri ambiti quali il rapporto con l’autorità, lo stile di consumo e il gusto estetico. Si può, cioè, affermare che la politica oggi divide le famiglie meno dell’etica. L’affinità intragenerazionale si esprime con più forza nelle sfera etica, l’affinità intergenerazionale in quella politica. Tavola 3. Percezione del grado di vicinanza alle preferenze politiche e alle posizioni etiche della generazione di adulti e degli amici (%) Si possono avanzare diverse ipotesi esplicative, che sarebbe interessante verificare; una prima spiegazione collega la maggiore vicinanza dei giovani alla generazione dei genitori dal punto di vista delle preferenze politiche alla caduta dei luoghi della partecipazione e dell’impegno politico, che costituiscono altrettante situazioni di differenziazione dei valori e dei comportamenti dei giovani rispetto alla famiglia di origine (Sciolla e Ricolfi 1989). Una seconda linea di lettura si focalizza, invece, proprio sul condizionamento esercitato dalla struttura delle relazioni familiari sui contenuti della trasmissione: in un contesto di bassa conflittualità intergenerazionale prevalgono delle forme di influenza e di scambio di tipo affettivo e cognitivo che favoriscono la trasmissione dai genitori ai figli nella sfera politica piuttosto che in altre sfere. 422 4. Le reti di influenza Per definire il modello di socializzazione politica occorre considerare il numero di figure che intervengono nel processo, l’intensità dell’influenza che esse esercitano e l’integrazione fra le diverse fonti. In tal modo è possibile valutare il carattere pluralistico o accentrato del processo di formazione degli orientamenti politici e il grado di autonomia nella costruzione dell’identità politica da parte degli individui. Un profondo cambiamento nei processi di socializzazione politica nel passaggio fra le generazioni si manifesta per quanto riguarda il numero di persone che hanno esercitato un’influenza consistente nella fase di maturazione politica delle due generazioni poste a confronto. Fra i giovani degli anni novanta il processo di socializzazione politica è caratterizzato dalla compresenza di un numero più elevato di figure politicamente significative rispetto alle coorti precedenti. L’esperienza formativa vissuta dai genitori è, invece, contrassegnata dalla presenza di una figura centrale che condiziona e, si può dire, ‘monopolizza’ il processo di socializzazione. Come si è già osservato, fra i genitori vi è una quota un po’ più alta di persone che affermano di non aver avuto nessuna figura di riferimento dal punto di vista politico durante l’adolescenza (14,6% contro l’11,6% dei giovani). Ma il fatto più interessante è che un genitore su tre individua una sola influenza decisiva per la propria crescita politica, mentre solo un figlio su cinque è in grado di affermare lo stesso (grafico 3). Quasi la metà dei figli – una quota doppia rispetto ai genitori – ha avuto due o tre figure significative per la formazione politica. Molto più diffusa tra i figli è anche l’esperienza di quattro o più figure influenti durante l’adolescenza (27%); una tale situazione, in cui una pluralità di figure di riferimento concorre a orientare l’adesione ai valori ed ai ruoli politici, è stata notevolmente più rara fra i genitori (15,8%). La socializzazione dei figli assume quindi il carattere di un processo aperto e pluralistico, dal punto di vista del numero delle fonti. Il modello di socializzazione politica si qualifica per il modo in cui si associano o si escludono reciprocamente le molteplici influenze. Se consideriamo le correlazioni fra l’influenza politica esercitata dai diversi soggetti, l’esperienza dei figli si distacca da quella dei genitori per la minore integrazione tra i canali di 423 Grafico 3. Figli e genitori secondo il numero di figure ritenute molto o abbastanza influenti nella formazione degli orientamenti politici (%) numero di figure influenti socializzazione. Tuttavia per entrambe le generazioni non c’è contrapposizione fra gli agenti di socializzazione: l’influenza della famiglia e delle relazioni interpersonali nella sfera sociale e nella sfera politica si sommano e interagiscono. Nelle nuove generazioni il cambiamento consiste nella autonomizzazione dell’influenza delle diverse sfere. I vari tipi e le varie fonti di influenza tendono, cioè, a diventare indipendenti fra loro senza, però, arrivare a confliggere. La socializzazione politica familiare della generazione dei figli si distingue da quella dei loro genitori per il fatto che si è rafforzata l’associazione fra l’influenza esercitata rispettivamente dal padre e dalla madre (tav. 4). La crescita della correlazione fra le influenze dei genitori, che era già elevata per la generazione adulta, è da mettere in relazione con la diffusione di un modello di genitorialità in cui alla complementarità e alterità dei ruoli si sostituisce la parità, anche nella sfera della socializzazione politica, in cui vigeva il principio della predominanza paterna. La parità dei ruoli genitoriali sembra produrre non l’indipendenza fra gli interventi del padre e della madre nella formazione dell’identità 424 politica dei figli, bensì una maggiore concordanza fra di essi. Questa, però, è l’unica associazione fra i canali di influenza interni alla famiglia che si rafforza nel passaggio generazionale. Infatti, nell’esperienza di socializzazione politica dei padri e delle madri, ad un elevato grado di influenza politica di un genitore corrispondeva un grado elevato di influenza anche da parte di altri parenti. La socializzazione politica familiare si sviluppava con riferimento all’esistenza di un’identità politica della famiglia nel suo complesso più che dei singoli individui. Il processo di trasmissione si imperniava sul ruolo predominante del padre, all’interno però di un contesto familiare orientato in modo omogeneo dal punto di vista del grado di interesse e di impegno politico. Le storie di vita familiari, raccolte alla fine degli anni ’60, rispecchiavano queste realtà familiari politicamente coese, nelle quali la socializzazione politica dei giovani era altamente strutturata e l’intervento dei diversi soggetti aveva effetti cumulativi e concordi (AA.VV. 1967). Nell’esperienza familiare dei figli, invece, questa compresenza di una molteplicità di influenze concordi non si verifica più con la stessa frequenza; le relazioni fra l’influenza dei singoli membri si allentano. Sia per i padri che per i figli l’effetto della cerchia familiare non è significativamente associato a quello della cerchia sociale più ampia, comprendente sia gli amici che le figure istituzionali, né a quello delle figure politiche. Per quanto riguarda le relazioni fra gli ambiti extra-familiari di socializzazione politica i modelli propri delle due generazioni differiscono sensibilmente. Per i padri la formazione politica si è sviluppata attraverso una integrazione fra l’influsso degli amici e quello delle figure politiche, sia conosciute personalmente che indirettamente per il tramite dei canali di comunicazione, molto più stretta che non per i figli. Per questi ultimi, invece, l’esposizione alla socializzazione politica da parte di figure esterne alla famiglia è caratterizzata dall’aumento dell’associazione fra l’influenza esercitata dal gruppo dei pari (amici e fidanzati) e quella che proviene da figure istituzionali – quali l’insegnante e il sacerdote. Si perde invece il collegamento fra l’influenza dei soggetti della cerchia amicale e dell’ambito istituzionale da una parte e quella dei personaggi politici, dall’altra per effetto sia della tendenza alla frammentazione delle reti di relazioni sia della minore partecipazione politica dei giovani. 425 Tavola 4. Matrice di correlazione tra le fonti di influenza per i figli e per i genitori durante il periodo dell’adolescenza Le generazioni adulte, che hanno attraversato la fase della maturazione politica nel periodo compreso fra gli anni sessanta e gli anni settanta, hanno avuto a che fare con un modello di socializzazione politica più fortemente integrato, nel quale l’influenza delle diverse fonti – sia nello stesso ambito che in ambiti distinti – tendeva a sommarsi, almeno per quanto riguarda il grado di intensità, mentre non possiamo sapere se vi era coerenza nei contenuti trasmessi dalle varie fonti. Le giovani generazioni degli anni novanta hanno, invece, sperimentato un modello di socializzazione politica nel quale il numero di fonti compresenti è aumentato ma l’associazione fra l’intensità delle diverse influenze si è, invece, indebolita. 426 5. Le caratteristiche dei modelli di influenza politica Per distinguere i modelli di influenza politica si è cercato di fare emergere le dimensioni fondamentali sottese al riconoscimento da parte dei giovani e degli adulti dell’influenza esercitata durante la loro adolescenza dalle singole figure. Si sono sottoposte, pertanto, le risposte sul grado di influenza esercitato dalle diverse fonti ad un’analisi fattoriale, con il metodo delle componenti principali2 . Tavola 5. Matrice dei pesi fattoriali. Analisi delle componenti principali delle risposte dei figli e dei genitori sulle figure che hanno influenzato i loro orientamenti politici durante l’adolescenza 2 La procedura seguita ha comportato l’assegnazione dei seguenti codici numerici alle diverse categorie di risposta alla domanda “Riflettendo ancora sugli anni della Sua adolescenza, può rintracciare le figure più importanti per la formazione dei suoi orientamenti politici?”: 1 a “per niente importante”, 2 a “poco importante”, 3 a “abbastanza importante”, 4 a “molto importante”. IL trattamento delle variabili ordinali comporta dei particolari problemi metodologici, ma si è scelto di forzare la natura delle risposte, trattandole come variabili cardinali, per sfruttare la possibilità di rintracciare le dimensioni latenti attraverso l’esame sintetico delle relazioni fra le variabili (Corbetta 2000). 427 La prima componente rappresenta un indice sintetico dell’influenza politica, correlato positivamente con tutte le fonti di influenza. La seconda componente contrappone le fonti di influenza politica all’interno della rete parentale a quelle della cerchia sociale, sia amici che insegnanti (tav. 5 e grafico 4). La terza componente è caratterizzata ad un estremo dalle fonti ‘specializzate’, cioè da quelle fonti proprie della sfera politica, e dall’altro dalle fonti di socializzazione a carattere generale, che espletano delle funzioni di trasmissione anche nella sfera politica (grafico 5). La quarta componente, infine, contrappone l’influenza politica del sacerdote all’influenza esercitata da altri membri della cerchia sociale, amicale e istituzionale, del soggetto. Oltre all’indice generale di influenza, possiamo distinguere tre dimensioni che, diversamente combinate, caratterizzano diversi modelli di socializzazione: la dimensione del particolarismo/universalismo della rete di influenze, la dimensione della specializzazione delle fonti di influenza e la dimensione della secolarizzazione delle fonti. Fattore 2. Particolarismo vs. universalismo Grafico 4. Rappresentazione grafica dei punti relativi alle singole fonti di influenza sul piano formato dagli assi corrispondenti al 1° ed al 2° fattore Fattore 1. Indice di influenza politica 428 Fonte generica Fonte specializzata Grafico 5. Rappresentazione grafica dei punti relativi alle singole fonti di influenza sul piano formato dagli assi corrispondenti al 2 ° ed al 3° fattore. Particolarismo Universalismo Utilizzando le dimensioni del particolarismo/universalismo e della specializzazione delle fonti, è possibile costruire una tipologia delle fonti di influenza politica secondo il seguente schema: Fonti particolaristiche-specializzate Fonti universalistiche-specializzate Fonti particolaristiche-generiche Fonti universalistiche-generiche Le fonti particolaristiche-generiche sono rappresentate da quelle figure parentali, come la madre e i fratelli, che hanno un’importanza cruciale nel processo di socializzazione ma svolgono un ruolo secondario rispetto a quello paterno nella trasmissione politica familiare; le fonti universalistiche-generiche – che comprendono i membri del gruppo dei pari e le figure istituzionali, quali l’insegnante e il sacerdote – sono, come le prime, fonti cruciali nel processo complessivo di socializzazione che assolvono anche a funzioni di socializzazione politica, ma sono caratterizzate dallo spostamento verso la dimensione universalistica. Le fonti universali429 stiche-specializzate – i politici – sono, come le precedenti fonti, esterne alla cerchia primaria ma se ne differenziano in quanto sono fonti proprie della sfera politica, le cui funzioni di socializzazione si esauriscono in questo specifico ambito. Nel gruppo delle fonti particolaristiche-specializzate troviamo le figure – il padre, il nonno – che nell’ambito della socializzazione familiare dei ruoli e dei valori assolvono come ruolo specifico quello della trasmissione dei valori e dei comportamenti politici. La trasformazione dei modelli di socializzazione politica nella transizione generazionale è caratterizzata – in termini di tendenza – dal doppio passaggio dalle fonti universalistiche-specializzate alle fonti universalistiche-generiche e dalle fonti particolaristiche-specializzate alle fonti particolaristiche-generiche. Il processo di socializzazione delle generazioni degli anni sessanta e settanta è stato contrassegnato da una maggiore incidenza delle fonti specializzate, sia particolaristiche che generiche, mentre per le nuove generazioni giovanili degli anni novanta hanno assunto una importanza crescente le fonti non specializzate. 6. Socializzazione, esperienza e partecipazione politica Sulla base dei modelli di socializzazione così individuati, si apre un’ulteriore linea di analisi sulle conseguenze indotte dai diversi modi di recezione dell’influenza politica – relativamente sia all’intensità dell’influenza subita sia alla combinazione di diverse fonti di influenza. Si tratta di indagare sulla relazione esistente fra l’esperienza di un processo di socializzazione caratterizzato da un grado più o meno elevato di influenza politica, o dall’influenza di una o più fonti, o, ancora, da fonti di un tipo piuttosto che di un altro, e lo sviluppo di interesse per la politica, il livello di impegno e di partecipazione politica, l’adesione a certi tipi di schemi valoriali e ad atteggiamenti di fiducia verso le istituzioni. Un ambito specifico di analisi è costituito dalla comparazione dei modelli di formazione degli orientamenti politici dei giovani a seconda che essi partecipino o no all’attività di un partito. Si è cercato di verificare l’ipotesi, con riferimento alle giovani generazioni degli anni novanta, che la famiglia e le cerchie sociali allargate svolgano durante l’adolescenza un ruolo formativo più ridot430 to e che le figure politiche siano invece più incisive fra i giovani politicamente impegnati. Questa ipotesi è confermata solo in parte dai nostri dati. Il ruolo della famiglia rimane stabile, ma cambia notevolmente l’incidenza dei diversi membri della rete parentale. Il ruolo delle figure predominanti nella socializzazione – il padre e la madre – è più ridotto fra i giovani che partecipano mentre risulta notevolmente rafforzato l’intervento degli altri parenti (tav. 6). A differenziare i processi di costruzione dell’identità politica dei giovani politicamente attivi rispetto ai non attivi è, come ci si attendeva, la più forte incidenza delle figure politiche durante l’adolescenza. Anche la predominanza della cerchia sociale intesa come gruppo dei pari predispone alla partecipazione politica, mentre hanno un effetto sfavorevole sia la maggiore influenza delle figure istituzionali sia la mancanza di influenze. Tavola 6. Giovani per fonte predominante di influenza politica nell’adolescenza e partecipazione politica La minore partecipazione, almeno nelle sue forme tradizionali, espressa dalle giovani generazioni rispetto a quelle dei genitori può essere spiegata anche dal cambiamento dei modelli di socializzazione, nella misura in cui soggetti diversi veicolano contenuti diversi della trasmissione. L’aumentata influenza politica da parte dei genitori e delle figure istituzionali e la diminuzione del ruolo delle figure politiche nella fase della socializzazione politica delle nuove generazioni si riflettono nella minore propensione alla 431 partecipazione politica nelle organizzazioni partitiche, solo la crescita dell’influenza della cerchia amicale costituisce – in controtendenza – un fattore di stimolo per la partecipazione. 7. Filiere di influenza politica a tre generazioni Il modo consueto di affrontare la questione della trasmissione dei valori politici all’interno della famiglia privilegia la relazione diretta a due generazioni, fra genitore – figlio. Minore attenzione è stata dedicata ai processi di trasmissione a tre generazioni. Nella misura in cui i dati della ricerca lo consentivano si sono esaminati i processi di trasmissione intrafamiliare a più generazioni. Attraverso un modello di regressione si è cercato di stimare se e in che misura l’influenza esercitata dal padre sul figlio dipenda dall’influenza esercitata a suo tempo dal nonno sul padre. In effetti si è constatato che la capacità del padre di essere riconosciuto dal figlio come figura politicamente incisiva per la maturazione dei suoi orientamenti è legata alla presenza di un nonno a sua volta genitore influente (tav.7). Altri fattori rilevanti sono costituiti dal livello elevato di partecipazione politica del padre e soprattutto dalla sua disponibilità a discutere di politica in famiglia. L’influenza politica del padre è maggiore quando più la sua collocazione sull’asse politico è a sinistra. Non sono invece rilevanti le caratteristiche strutturali relative al livello di istruzione e alla classe sociale di appartenenza sia del padre che del nonno. Per analizzare l’influenza della madre sui figli, pur disponendo di un numero ridotto di casi relativi agli studenti di cui sono state intervistate le madri, la relazione fra influenza della madre sui figli e influenza del genitore – e in particolare della madre – sulla madre appare chiara. C’è dunque una filiera femminile distinta dalla filiera maschile esclusivamente paterna che influisce sui figli di entrambi i sessi. Nel caso in cui la madre costituisce una figura influente, la collocazione socioprofessionale – a differenza di quanto si è visto per il padre – è determinante, mentre la collocazione politica a destra della madre – come per il padre – blocca la trasmissione. 432 Tavola 7. Grado di influenza politica sulla formazione degli orientamenti politici durante l’adolescenza riconosciuta al proprio padre da parte dei figli secondo il grado di influenza politica che i padri attribuiscono al proprio padre 8. L’influenza fra figli e genitori: dall’unidirezionalità alla reciprocità Il cambiamento dei rapporti parentali ha dei riflessi sulla formazione degli orientamenti e della cultura politica non solo dei figli ma anche dei genitori. Ci si attende, cioè, che la riduzione dell’asimmetria nelle relazioni fra le generazioni, il miglioramento della comunicazione ed il riconoscimento di una sfera di autonomia, tipica della condizione del ‘giovane adulto’, modifichino le dinamiche di influenza politica intergenerazionale. All’unidirezionalità della trasmissione di valori e di comportamenti dai genitori ai figli – che caratterizza il processo tradizionale di socializzazione politica – si sostituisce la reciprocità di influenza fra genitori e figli. Non disponiamo di dati sulle generazioni precedenti che ci consentano di capire quanto sia nuovo il modello interattivo di influenza. Possiamo però misurarne la diffusione attuale nelle famiglie, osservare le peculiarità dei rapporti fra padri, madri, figli e figlie e stimare quali sono le condizioni che favoriscono o che frenano la disponibilità dei genitori ad essere influenzati dai figli. La capacità dei figli di esercitare un ruolo determinante nella formazione degli orientamenti politici dei genitori si esprime in modo differenziato in relazione ai ruoli di genere. Solo il 5% dei padri indicano nei figli o nelle figlie le persone che hanno esercitato la maggiore influenza sulla loro identità politica attuale; una quota tripla di madri (16%), invece, considera il figlio o la figlia come la principale figura di riferimento. Una madre su tre e un 433 padre su cinque ritengono che i propri figli li abbiano molto o abbastanza influenzati. Tuttavia l’ipotesi che l’influenza dei figli sui genitori si collochi all’interno di un modello di influenza reciproca trova un chiaro riscontro solo nel caso del rapporto tra padre e figlio maschio3 . Non c’è, invece, una correlazione significativa fra il grado di influenza della figlia sul padre e il grado di influenza del padre sulla figlia. La trasmissione unidirezionale dei valori e dei comportamenti reciproci si è convertita in un processo interattivo di influenza solo per la linea maschile: padre e figlio si considerano reciprocamente influenti per la costruzione di atteggiamenti e scelte politiche. L’influenza della figlia sul padre, invece, non appare associata ad un’influenza di pari intensità da parte del padre sulla figlia; probabilmente questo tipo più raro di influenza si manifesta in casi particolari in cui il padre ha un’identità politica non particolarmente strutturata, che inibisce l’instaurarsi di un rapporto di interazione e di scambio di influenza con la figlia. La disponibilità dei genitori ad accogliere l’influenza dei figli si collega ad un atteggiamento di apertura nei confronti di influenze di varia origine. Per i padri questa apertura si accompagna all’esercizio di un ruolo attivo come figure a loro volta influenti, mentre nel caso delle madri l’influenza da parte del figlio non trova un corrispettivo nell’influenza espressa dalla figura materna. Nel rapporto fra madri e figli l’influenza politica dei figli non rientra in una dinamica di scambio paritario di influenza ma riveste un carattere asimmetrico a favore dei figli, determinato dalla debole identità politica delle madri. L’influenza dei figli sui genitori tende a crescere quanto più è elevata l’età – e quindi il grado di maturità e di autonomia politica – del figlio e quanto più è bassa l’età del genitore. Le generazioni di genitori più giovani appaiono più aperte e disponibili a riconoscere Ai fini di questa analisi e della successiva costruzione di un modello di regressione multipla sono stati considerati esclusivamente gli studenti figli unici; solo per questi casi si può dire con certezza che il figlio che ha influenzato il genitore è lo studente intervistato ed è, di conseguenza, corretto mettere in relazione le caratteristiche rilevate per il figlio con quelle del genitore. Tuttavia anche l’analisi estesa a tutti i genitori influenzati dai figli, indipendentemente dal numero dei figli, non si discosta dalle risultanze dell’analisi del campione più ristretto. 3 434 un ruolo attivo ai figli nella formazione dei loro orientamenti politici; anche la differenza di età più ridotta fra genitori e figli può favorire il crearsi di rapporti più paritari, nell’ambito dei quali i genitori riconoscono ai figli la possibilità di influenzarli politicamente. La probabilità che un genitore sia influenzato dal figlio diminuisce al crescere del suo livello di istruzione. Si può comprendere la ragione di questo legame fra istruzione e suscettibilità del genitore ad essere influenzato dal figlio, se si pensa che un titolo di studio più elevato induce il possesso di maggiori competenze politiche e una propensione più accentuata all’interesse e all’informazione politica, che a loro volta portano alla formazione di una coscienza politica più strutturata e, perciò, meno disponibile a recepire influenze esterne. Per spiegare il costituirsi di una relazione parentale in cui il genitore riconosce al figlio un ruolo significativo di orientamento politico occorre guardare sia alle caratteristiche del genitore sia a quelle del figlio. Per identificare i fattori determinanti si è costruito un modello di regressione multipla che stima gli effetti di alcune variabili sul grado di influenza politica esercitata dal figlio nei confronti del genitore. Sono stati, innanzitutto, presi in considerazione alcuni caratteri sociobiografici basilari, quali l’età e il sesso del figlio (non si è tenuto conto del titolo di studio, poiché i giovani del campione sono tutti nella condizione di studente universitario), l’età, il sesso e il titolo di studio del genitore. Il modello si riferisce esclusivamente ai genitori coniugati o conviventi more uxorio; sono stati esclusi i casi di studenti con genitori divorziati, perché questo tipo di situazione familiare comporta un diverso sistema di relazioni e di interazioni fra genitori e figli, per quanto riguarda, ad esempio, il rapporto fra padri e figli non conviventi sotto lo stesso tetto. Sono state inserite nel modello delle variabili attinenti al grado di interesse politico del genitore ed all’ambito sociale in cui questo interesse – che comporta interazione e comunicazione con altri – si esprime; gli indicatori di interesse utilizzati sono rispettivamente la frequenza con cui il genitore discute di politica in famiglia o con amici. Altre variabili ipotizzate come influenti sulla relazione figlio – genitore riguardano la sfera del comportamento politico – colta attraverso il grado di partecipazione ad attività di partito – e il posizionamento sull’asse politico sinistra-destra; questi 435 aspetti sono stati inclusi nel modello sia come caratteristiche individuali proprie del genitore e del figlio sia in interazione fra loro. L’interazione fra il grado di partecipazione del genitore e quello del figlio e fra la collocazione sull’asse politico del genitore e quella del figlio costituiscono degli indici di affinità politica fra genitore e figlio. Questi indici sono stati utilizzati come variabili indipendenti; tuttavia, in realtà, la loro relazione con l’influenza dei figli sui genitori non è così univoca: è, infatti, ragionevole supporre che la somiglianza di comportamenti e di scelte politiche incoraggi l’esercizio dell’influenza dei figli sui genitori, ma è anche probabile che questo genere di influenza abbia fra le sue conseguenze quella di produrre un avvicinamento fra i tratti politici dei genitori e dei figli. In realtà, dunque, la relazione fra il legame di influenza fra figlio e genitore e l’affinità politica fra i due può essere interpretata più correttamente come una relazione di tipo circolare con effetti di feed-back, per cui influenza e affinità si rafforzano o si indeboliscono a vicenda. Tenendo conto di ciò, si possono leggere correttamente i risultati del modello. Infine sono stati presi in esame gli aspetti relativi al sistema di influenze cui è soggetto il genitore e al grado di influenza da parte del genitore sul figlio. Per il primo punto si è costruito un indice di disponibilità del genitore ad essere influenzato politicamente da altri soggetti. Questo indice considera complessivamente il grado di influenzabilità dichiarata del genitore rispetto a tutte le altre fonti di influenza, esclusi i figli. Un ultimo elemento importante per l’analisi delle determinanti dell’incidenza del figlio nella formazione degli orientamenti politici del genitore è rappresentato dal carattere interattivo dell’influenza fra genitore e figlio: l’ipotesi è che vi sia un nesso fra il ruolo svolto dal genitore nella socializzazione politica del figlio e la capacità di quest’ultimo di svolgere una funzione di condizionamento degli atteggiamenti e delle opinioni del padre. E’ stato, perciò, tenuto sotto controllo il grado di influenza del genitore sul figlio – così come è riconosciuto da quest’ultimo – durante l’adolescenza e durante la giovinezza. Il modello costruito appare soddisfacente in quanto spiega una quota consistente di varianza (R2=0,60) e consente di individuare alcuni fattori che incidono in modo significativo sul fenomeno dell’influenza politica nella direzione che va dal figlio al genitore. Grazie al modello, che considera congiuntamente tutti i fattori, è 436 possibile rilevare che le caratteristiche socio-biografiche di per sé non risultano significative come cause delle differenze nel grado di influenza esercitato dal figlio, anche se il segno della relazione con il fenomeno da spiegare rimane quello osservato in precedenza nell’analisi descrittiva. Rimane rilevante solo l’età del figlio: quanto più è elevata l’età del figlio tanto più il genitore propende a riconoscergli un ruolo incisivo nella formazione dei suoi orientamenti politici (tav.8). L’influenza politica da parte del figlio sul padre appare, invece, legata in modo significativo alle variabili proprie della sfera politica. In base allo schema adottato per analizzare il processo di influenza, abbiamo distinto le variabili costitutive dell’identità politica del genitore, quelle che definiscono l’identità politica del figlio e quelle infine relative all’interazione fra i due soggetti. Dal lato del genitore, l’apertura all’influenza politica da parte del figlio è condizionata dalla disponibilità ovvero dalla plasmabilità della identità politica del genitore per effetto di influenze di tipo e di origine molteplici, e dal suo grado di interesse e di integrazione politica e dalla cerchia sociale in cui questo interesse si esplica. Dal lato del figlio, si evidenziano come rilevanti il livello di partecipazione e di differenziazione politica; dal lato, infine, dei rapporti fra genitore e figlio è determinante l’omogeneità del comportamento partecipativo e la presenza di un flusso di influenza dal genitore verso il figlio durante il periodo adolescenziale della socializzazione politica. I genitori più disponibili a recepire l’influenza del figlio sono quelli che più degli altri subiscono l’impatto condizionante di figure politicamente rilevanti di vario genere, sia intra che extrafamiliari. Vi è quindi una componente – l’apertura all’influenza politica da qualsiasi fonte provenga – che costituisce, a parità di tutti gli altri fattori, fra cui il sesso, l’età o il titolo di studio, una sorta di pre-condizione alla ricettività nei confronti di un ruolo attivo nel figlio nell’orientare politicamente il genitore. L’influenza del figlio sul genitore, inoltre, è tanto più sentita quanto più ristretto alla cerchia primaria familiare è l’ambito di discussione di argomenti politici. Se, cioè, il genitore manifesta il proprio interesse per la politica, discutendone nella cerchia di amici, la sua dipendenza dal figlio si attenua. Analogamente, maggiore è il coinvolgimento del genitore nella partecipazione politica, che de437 nota elevata integrazione politica ed elevata differenziazione dell’identità politica, minore è l’impatto esercitato su di lui dalle opinioni e dai comportamenti politici del figlio. Se, a parità delle altre condizioni, è piuttosto il figlio a svolgere attività politica di partito, le probabilità che il genitore sia influenzato aumentano. La strutturazione dell’identità politica per effetto della partecipazione agisce come fattore predisponente all’esercizio di un’influenza politica per il soggetto che è fonte di influenza e come fattore deterrente per il soggetto che è destinatario di tale influenza. Tavola 8. Regressione sul grado di influenza politica del figlio sul genitore Indipendentemente dal grado di partecipazione politica sia del genitore che del figlio, l’uniformità del livello di partecipazione fra i due è un’altra condizione che incide positivamente sul flusso di influenza dal figlio al genitore. In questo caso si creano un codice comune e un effetto di condivisione di esperienza che stabiliscono un clima di parità, in cui il genitore accetta con più facilità lo scambio e l’influenza del figlio. Si configurano, dunque, due sistemi di influenza del figlio nei confronti del genitore, l’uno fon438 dato sulla predominanza del figlio e sulla debolezza della competenza e della identità politica del genitore, l’altro sull’affinità e sull’interazione. La presenza di questi due distinti sistemi di influenza fra le generazioni, che prevedono un ruolo attivo da parte del figlio, potrebbe spiegare come mai il manifestarsi di un’influenza politica del figlio sia indipendente dall’esercizio di influenza da parte del genitore sul figlio durante il periodo della giovinezza. Nel sistema di influenza fra le generazioni basato sulla predominanza del figlio, l’influsso di questi sul genitore è inversamente proporzionale all’influsso esercitato dal genitore sul figlio; nel modello interattivo i due flussi di influenza sono invece positivamente associati e al crescere dell’influenza del figlio sul genitore corrisponde il crescere del flusso di influenza nella direzione opposta. La possibilità che un giovane influenzi il genitore cresce, comunque, in relazione al riconoscimento da parte del figlio di essere stato influenzato politicamente dal genitore durante l’adolescenza. Vi è, dunque, una successione temporale nel rapporto di influenza interattiva: il genitore che ha rivestito un ruolo riconosciuto dal figlio come attivo durante la socializzazione politica adolescenziale riceve degli input alla formazione di opinioni e atteggiamenti politici da parte del figlio, che ha maturato la propria identità politica, in parte probabilmente grazie all’area comune di interesse ed alle dinamiche di comunicazione attivate a suo tempo dal genitore. Infine, un po’ sorprendentemente, non risulta significativo l’effetto delle variabili indipendenti che si riferiscono alla posizione sull’asse politico e alla distanza relativa fra genitore e figlio. Il segno della relazione suggerisce che all’aumentare della distanza fra le generazioni nell’autocollocazione sull’asse sinistra-destra la possibilità che il figlio esplichi una funzione di orientamento politico nei confronti del genitore diminuisce; anche lo spostamento verso la destra della posizione sull’asse politico sia del figlio che del genitore presenta un segno negativo rispetto al grado di influenza del figlio. Tuttavia l’indicazione più solida, che scaturisce dal modello, è quella dell’indifferenza del posizionamento politico rispetto al manifestarsi di un flusso di influenza politica da parte del figlio sul genitore – a parità di grado di interesse politico del genitore, di condizioni di partecipazione per entrambi e di successo della socializzazione politica del figlio durante l’ado439 lescenza. Le condizioni determinanti la costruzione di una relazione generazionale, in cui il figlio rappresenti una figura di riferimento per il genitore, sono costituite dai livelli di strutturazione delle rispettive identità politiche, dalla consonanza di atteggiamenti e comportamenti partecipativi e dal processo di interazione e di comunicazione, così come si è sviluppato a partire dalla fase di formazione politica del figlio da parte del genitore. L’analisi del processo di influenza da parte dei figli sui genitori completa il quadro dello scambio e dell’interazione politica nel contesto familiare, evidenziando una delle modalità di comunicazione politica fra le generazioni che meglio rispecchia il cambiamento in atto nelle relazioni generazionali all’interno delle strutture familiari. 440 PARTE V LA PARTECIPAZIONE POLITICA GIOVANILE IN TEMPI DI DISOCCUPAZIONE 441 442 CAPITOLO SEDICESIMO LA PARTICIPATION POLITIQUE DES JEUNES: HORS JEU OU DANS LE JEU DÉMOCRATIQUE? 1. Participation politique et “malaise démocratique” Depuis une quinzaine d’années, partout en Europe, le rapport des citoyens au monde politique est présenté comme problématique. Distanciation, dénonciation et protestation en seraient les attributs essentiels. Progression de l’abstention, diffusion des comportements protestataires, perte de confiance envers les gouvernants, crise de la représentation politique et affirmation des partis hors-système, enfin présence dans nombre de pays européens d’une extrême-droite xénophobe, sont autant de signes de ce que certains ont appelé un “malaise démocratique” ou d’autres, plus pessimistes, un véritable “déficit démocratique” (Perrineau 1997; Topf 1995). Les constats en la matière ne sont généralement pas optimistes, mais ils peuvent néanmoins déboucher sur des diagnostics différents. On peut invoquer un blocage du système représentatif des démocraties occidentales et inviter à la nécessaire mutation des systèmes politiques eux-mêmes. On peut aussi prédire le retrait et l’apathie politique des citoyens, et donc à terme la disparition de ce qui fait l’essence même du système démocratique, avec tous les risques que suppose une telle évolution. On peut enfin, parier sur une complète mutation du lien politique, s’effectuant plutôt dans un sens positif, et révélant une recomposition des façons d’agir sur la politique et de s’y impliquer, entraînant non pas un affaiblissement de la culture démocratique, mais au contraire son approfondissement, par des voies moins institutionnalisées et plus individualisées (Inglehart 1990; Duchesne 1997). Ainsi d’autres façons d’occuper le terrain de l’expression démocratique peuventQuesto capitolo è stato scritto da Anne Muxel. 443 elles émerger, par l’action collective et par un déplacement des acteurs sociaux et politiques tout autant que des enjeux à arbitrer du terrain partisan au terrain associatif. Mais quelle que soit l’interprétation que l’on retienne, la généralisation de cette évolution en Europe conduit à interroger, par delà les conséquences politiques de cette situation, les critères d’évaluation de la participation politique et leurs présupposés implicites. Comment évaluer les différents registres ou répertoires d’actions, de représentations ou d’intentions, du lien des citoyens à la politique? Par rapport à quel modèle ou à quelle représentation idéale d’un sujet pensant et agissant en politique mesure-t-on les modalités, les contenus et les effets de la participation politique? Les indicateurs avec lesquels sont généralement appréciés les attributs de celle-ci ne peuvent se départir d’une acception normative de ce que serait un “devoir être en politique”. La mesure la plus habituelle se fait à partir d’une panoplie de qualités ou d’actions signant les attendus d’une intégration politique réussie: s’intéresser à la politique, être inscrit sur les listes électorales, voter, se montrer déterminé dans ses choix, se classer entre la gauche et la droite, se repérer dans le dédale des lignes de clivage politiques ou des enjeux électoraux, s’informer, se mobiliser dans des actions collectives, s’engager dans des organisations partisanes ou associatives, développer une attitude confiante et favorable à l’égard des institutions et des hommes politiques. Le portrait ainsi dressé est exigeant. Evaluer l’individu à l’aune d’un modèle de comportement d’une densité idéale risque d’estomper la teneur même de la participation politique, en quelque sorte de la désincarner. Cette panoplie d’un devoir être en politique est plutôt l’exception que la règle. La majorité des citoyens ne réunit pas l’ensemble de ces critères. La norme de comportement politique à laquelle est rapportée cette mesure de la participation politique ne caractérise qu’une étroite minorité d’acteurs sociaux, informés, engagés, mobilisés, capables d’opiner et de choisir sur une grande variété de sujets et d’enjeux politiques. Si tel est le cas, l’analyse tend à ignorer la réalité majoritaire des comportements, en ce qu’ils sont très imparfaits au regard de cette norme. Elle empêche de comprendre la diversité des formes de lien au politique, mais aussi les mécanismes de désinvestissement du lien, les déliaisons – engagements à éclipse, adhésions flottantes, voire plus radicalement, 444 les expressions du désintérêt, les manifestations d’une ignorance plus ou moins complète de l’espace des choix politiques. Autant d’attributs appréciés généralement négativement, mais au travers desquels se constitue néanmoins un rapport au politique, pouvant déboucher sur d’autres formes d’engagement et de participation. Les indicateurs habituellement utilisés dans les enquêtes ne permettent pas de cerner la nature de l’indifférence, de la démission ou de la contestation. Il faudrait en mettre au point d’autres, car c’est aussi au travers de ces attitudes ou de ces comportements, définis par manque, par défaut, ou en creux, que peut se construire du lien au politique et que peuvent se profiler de nouveaux modes d’expression ou de participation (Sniderman et alii 1993). Un récent travail m’a permis de mettre en évidence, au travers d’une analyse détaillée du comportement abstentionniste, qu’il existe plusieurs façons de se mettre hors-jeu du politique, ou a contrario d’être dans le jeu politique1 . En effet, on peut être à la fois en retrait de la décision électorale en ne participant pas à une élection tout en étant par ailleurs intéressé, informé, et même en se sentant proche d’un parti ou d’un mouvement politique, donc en étant dans le jeu politique. Les jeunes souvent plus abstentionnistes que leurs aînés sont d’ailleurs nombreux à se retrouver dans ce cas de figure: absents de la scène électorale ils peuvent être mais néanmoins concernés, impliqués. A contrario, on peut voter, sans que cet acte de participation manifeste pour autant un engagement politique personnel, tout en restant indifférent ou distant à l’égard des partis, tout en ne disposant que de peu d’informations pour se repérer dans l’espace politique, en bref tout en étant d’une certaine façon hors du jeu politique. Etre dans le jeu politique ou hors du jeu ne sont pas des états exclusifs ou antinomiques du rapport des citoyens à la politique. Il existe différentes façons d’être dans le jeu et différentes façons d’être hors jeu. Toutes se composent selon les registres d’attitudes et de comportements à l’égard de la politique que l’on cherche à appréhender. La perception du monde politique, la participation électorale, ou Il s’agit d’un travail réalisé en collaboration avec Jérôme Jaffré, “S’abstenir: hors du jeu ou dans le jeu politique?”, à paraître dans l’ouvrage collectif dirigé par Pascal Perrineau, Pierre Bréchon et Annie Laurent, Les cultures politiques des Français, Presses de Science Po, Paris, 2000. 1 445 encore l’action et la mobilisation collectives sont autant de registres à partir desquels les individus peuvent développer des attitudes et des comportements spécifiques, déclinant des modes d’implication différents, mêlant des formes d’investissement et de désengagement, de confiance et de défiance, d’activisme et de passivité. Les jeunes rencontrent la politique à partir d’une diversité d’expériences et de transactions qui favorise, sans doute encore plus que chez leurs aînés, cette ambivalence intrinsèque, cette alternance entre des phases d’intégration et d’investissement politique et des phases de retrait, de mise dans le jeu et de mise hors jeu. Les années de jeunesse définissent un espace de transition entre la socialisation primaire, caractérisée par une situation de dépendance propre au statut d’enfant, et les phases ultérieures façonnant la socialisation secondaire de l’individu, conduisant à l’affirmation d’une autonomie, tant en termes de statut que de légitimité des choix. C’est donc un temps de passage, qui opérationnalise un changement d’état, résultant d’une totalisation complexe des déterminismes comme des initiatives multiples orientant l’action des individus et façonnant leurs systèmes de valeurs et d’opinions. Cette période circonscrit un “moratoire politique” se caractérisant par un mouvement permanent de construction et de redéfinition du lien à la politique (Muxel 1991; 1992). L’évaluation de la participation politique dans le temps de la jeunesse fait apparaître, encore plus qu’à d’autres âges de la vie, la diversité des facettes et des registres d’interprétation et d’implication qui définissent le rapport des citoyens à la politique. La possibilité de mener une comparaison des attitudes et des comportements des jeunes de trois pays européens, la France, l’Italie et l’Espagne, enrichit encore la problématique et l’analyse, puisqu’elle permet d’introduire la spécificité culturelle et politique de chacun des pays, et plus largement le rôle du contexte historique et social sur les modes de participation politique des citoyens. Disposant pour chacun des pays d’un échantillon dichotomisé de jeunes étudiants et de jeunes chômeurs, l’analyse permet d’explorer les liens entre les positionnements sociaux et les positionnements politiques au sein de la jeunesse et de mettre au jour des différences significatives, non seulement selon les pays, mais aussi selon les situations d’insertion sociale des jeunes. 446 2. L’intérêt et la place de la politique dans la vie quotidienne Les discussions politiques n’occupent qu’une faible place dans les échanges familiaux, la politique est ce dont on parle le moins tandis que les discussions relatives aux études ou à l’argent sont les plus fréquentes entre les enfants et leurs parents (Galland 1997). On assiste depuis quelques années à une dédramatisation et à une banalisation des échanges politiques au sein des familles. La médiatisation de la politique, et la présence d’une information quotidienne dans les foyers relayée par la télévision ont pu contribuer à cet état de fait. Par ailleurs les enjeux politiques et les lignes de clivages idéologiques se sont quelque peu brouillés. La politique ne focalise plus d’enjeux suffisamment décisifs pour devenir un enjeu familial à proprement parler. Aujourd’hui les générations divergeraient-elles moins sur le plan des valeurs que sur celui des goûts culturels et des pratiques de consommation? En tous cas le fossé ne serait plus idéologique. Une preuve en est donnée, en France en tous cas, par la perte de spécificité du vote des jeunes aujourd’hui. A peu de choses près, lorsqu’ils votent ils votent de la même façon que l’ensemble de la population, et donc que leurs aînés. La place de la politique n’est donc pas première, ni dans la vie des familles, ni dans les échanges entre parents et enfants, ni non plus dans le sentiment d’appartenance générationnelle. Mais il n’en reste pas moins vrai que lorsque l’on parle de politique, celle-ci reste un interlocuteur privilégié: 34% des jeunes italiens et 36% des jeunes français reconnaissent discuter souvent de politique avec leurs parents, tandis qu’ils ne sont que respectivement 25% et 30% à le faire avec leurs amis. Toutefois la place qui lui est accordée varie selon les milieux sociaux et les conditions d’insertion sociale de l’individu: étudiants et chômeurs n’accordent pas à la famille la même importance. Les premiers reconnaissent avoir des discussions politiques fréquentes d’abord au sein de leur famille (37% des étudiants italiens et 44% des étudiants français), leurs amis ne venant qu’en second rang (respectivement 27% et 33%). Parmi les chômeurs, les écarts sont nettement moins marqués et, dans le cas des français, l’ordre de la hiérarchie peut même s’inverser pour donner l’avantage aux amis. Si les chômeurs italiens donnent toujours la préférence à la famille (27% contre 22% les 447 Tableau 1. Discuter de politique avec sa famille et ses amis selon le positionnement gauche/droite (%) Tableau 2. Discuter de politique avec sa famille et ses amis selon le sexe (%) 448 amis), les chômeurs français font passer les amis à la première place (24% contre 19%) (tableaux 1 et 2). Ainsi la famille est-elle choisie de façon un peu plus exclusive par les étudiants, tandis que l’espace des échanges apparaît un peu plus diffus dans le cas des chômeurs. Ces derniers ont des échanges sur la politique nettement moins fréquents que les étudiants, et ce quels que soient leurs interlocuteurs: 34% des chômeurs italiens et 40% des chômeurs français reconnaissent ne discuter que rarement ou jamais de politique avec leur famille (contre 21% des étudiants italiens et 17% des étudiants français) ainsi qu’avec le cercle de leurs amis (37% des chômeurs italiens déclarent ne discuter que rarement ou jamais avec leurs amis et 33% des chômeurs français (contre seulement 25% des étudiants italiens et 23% des étudiants français). Mais de tous ce sont les jeunes chômeurs espagnols qui semblent accorder la moins de place à la discussion politique avec leurs amis: 61% d’entre eux déclarent n’en avoir aucune ou qu’en de rares occasions. L’origine sociale, l’environnement moins instruit des jeunes chômeurs ainsi que leur faible niveau d’études expliquent les écarts constatés. En effet, la fréquence des discussions politiques est d’autant plus grande que le milieu social et culturel dans lequel le jeune évolue est favorisé. Plus le jeune a un niveau d’études élevé, plus ses discussions seront fréquentes. Qu’il s’agisse de la famille ou des amis, lorsque l’on a un père sans diplôme ou ouvrier, parler de politique est une activité beaucoup moins répandue que lorsque l’on a un père disposant d’un diplôme de l’enseignement supérieur ou appartenant à la catégorie des cadres ou des professions intellectuelles supérieures. Des différences de nature cognitive et sociale traversent le processus de la socialisation politique familiale et expliquent les écarts observés entre jeunes étudiants et jeunes chômeurs. Parmi ces derniers la prise de parole politique apparaît peu favorisée dans le cadre familial, et le réseau des amis est un peu plus sollicité. Néanmoins, le réseau d’échanges apparaît toujours plus important chez les étudiants. Un certain nombre d’observations faites sur la jeunesse ont montré l’importance et la diversité de la sociabilité étudiante comparée à celle des jeunes actifs qui disposeraient d’un réseau relationnel non seulement moins étendu mais aussi moins présent dans 449 la vie quotidienne (Degenne e Lemel 1999). L’espace des échanges politiques, certes plus restreint comparé à toutes les autres formes d’échange, obéirait donc aux même lois. Mais si le milieu social reste déterminant, d’autres formes de différenciation mettent au jour des contrastes significatifs dans le statut accordé à la politique dans les discussions. De toute évidence la sociabilité étudiante n’accorde pas la même importance à la politique selon qu’il s’agit des filles ou des garçons. Les filles semblent privilégier davantage les discussions politiques en famille, et ce de façon un peu plus marquée en Italie qu’en France, tandis que les garçons, lorsqu’ils sont étudiants, ont des discussions nettement plus fréquentes que les filles avec leurs amis (côté italien 32% des étudiants contre seulement 23% des étudiantes, et côté français la différence est encore plus marquée, 47% contre 28%). L’appartenance idéologique et politique a un rôle non négligeable et crée des différences significatives, en Italie comme en France, entre les étudiants et les chômeurs. Si la discussion politique en famille se fait aussi fréquente parmi les jeunes étudiants de gauche et de droite, en revanche parmi les jeunes se déclarant ni de gauche ni de droite, la parole politique s’efface, et ce d’autant plus lorsqu’il s’agit de jeunes chômeurs. Mais les jeunes de gauche, surtout en France, qu’ils soient étudiants ou chômeurs, sont de loin les plus nombreux à discuter de politique avec leurs amis. L’usage des outils d’information, media audio-visuels ou écrits, est un autre révélateur de l’implication politique des individus. Relevant certes de comportements relativement passifs, ils jouent un rôle important dans la constitution du rapport à la politique des individus. Ils organisent une participation certes passive au jeu politique mais néanmoins réelle. Et bien que des différences significatives apparaissent entre les trois pays, mais aussi entre les positionnements sociaux et idéologiques des jeunes, nous retiendrons que la quête d’information politique est une constante relativement développée au sein de la jeunesse. Elle peut être considérée comme une sorte de degré zéro de la participation politique. La télévision est au premier rang de ces sources d’information, mais selon les pays l’usage qu’en font les jeunes ayant participé à cette enquête est assez contrasté (tableau 3). En Espagne et en Italie, elle apparaît omniprésente, en France, bien qu’un peu plus en retrait, elle constitue aussi un pôle de référence important. 51% des 450 jeunes espagnols reconnaissent qu’elle est leur principal outil d’information politique (74% déclarent par ailleurs en faire un usage quotidien), les journaux ne recueillant que 26% des choix, et la radio seulement 10% des choix. Les jeunes italiens s’avèrent être de grands consommateurs du journal télévisé quotidien, et plus encore les étudiants que les chômeurs (respectivement 73% et 63% déclarent le regarder tous les jours). En France, les chômeurs sont plus nombreux que les étudiants, mais les uns comme les autres se montrent nettement moins accrochés (respectivement 29% et 36% déclarent le regarder chaque jour). Toutefois, cet usage quotidien du journal télévisé ne garantit pas un intérêt réel pour la politique. En effet, il s’inscrit dans un mode de vie, dans des nouvelles pratiques de consommation culturelle parmi lesquelles la télévision occupe une place centrale. Car quels que soient les pays concernés, les émissions ayant un caractère politique n’ont guère de succès: un Tableau 3. L’information politique et les usages de la télévision et de la presse écrite (%) jeune sur deux déclare n’assister que rarement ou jamais à un débat politique ou de société. Néanmoins, le journal télévisé propose, en tant que relais d’information, la possibilité d’un lien, d’une ouverture vers la politique. Et de toute évidence, il la met en scène. La presse écrite occupe une place non négligeable. Le tiers des étudiants italiens comme des étudiants français reconnaissent lire les nouvelles politiques nationales dans un journal quotidien (respectivement 32% et 36%). Les nouvelles internationales concernent davantage les étudiants français que les étudiants italiens (37% des premiers contre 17% des seconds déclarent les lire tous les jours). Les jeunes chômeurs ont une pratique de la lecture du journal nette451 ment plus en retrait: 39% des jeunes chômeurs italiens et 38% des jeunes chômeurs français ne lisent que jamais ou rarement les nouvelles nationales, et près d’un jeune chômeur sur deux (49% parmi les italiens et 47% parmi les français) les nouvelles internationales. La politique locale est quant à elle complètement marginalisée. La proximité d’enjeux politiques concrets n’est donc pas déterminante dans l’intérêt que les jeunes peuvent porter à la politique. Le niveau d’études n’a pas les mêmes effets selon les pays. En Italie et en Espagne où l’audience du journal télévisé parmi les jeunes paraît prépondérante, il n’entraîne aucune incidence particulière. En revanche, en France, il s’avère déterminant. Excepté pour le journal télévisé dont l’audience est d’autant plus forte que le niveau de formation est faible, pour toutes les autres sources d’informations, il agit en sens inverse et renforce d’autant plus une démarche d’information politique qu’il est élevé. Si 67% des jeunes sans diplôme ou de niveau BEP-CAP déclarent ne regarder que rarement ou jamais un débat politique ou de société à la télévision, parmi les jeunes ayant une licence ou une maîtrise ils ne sont plus dans ce même cas que 49%. De même si 40% des premiers reconnaissent ne pas s’intéresser à l’actualité politique nationale, ils ne sont plus que 24% à partager un même désintérêt parmi les seconds. Il faut enfin noter l’influence décisive des positionnements idéologiques sur les dispositions des jeunes à l’égard de l’information politique. Si les variations observées entre les jeunes de gauche et les jeunes de droite sont faibles et sont vraisemblablement liées aux effets du contexte socioculturel auquel les uns et les autres se rattachent, en revanche les jeunes se déclarant ni de gauche ni de droite restent beaucoup plus fréquemment en retrait de toute source d’information politique, quelle qu’elle soit, et ce d’autant plus lorsqu’à cette absence de choix s’ajoute un statut social fragile. En Italie, qui a pourtant le palmarès de l’audience télévisuelle, si 64% des jeunes chômeurs de droite et 66% des jeunes chômeurs de gauche déclarent regarder le journal télévisé tous les jours, les chômeurs ne se classant ni à gauche ni à droite sont moins nombreux dans ce cas, 57%. En France, ce sont les jeunes de gauche, les étudiants comme les chômeurs, qui se montrent les plus en retrait de l’information télévisée, toutefois chez les uns comme chez les autres, les indécis sont plus en retrait que les jeunes de droite. 452 Mais c’est surtout la presse écrite qui connaît de leur part la désaffection la plus importante, et ce aussi bien chez les étudiants que chez les chômeurs. En Italie, si 81% des étudiants de gauche et 76% des étudiants de droite déclarent lire régulièrement les nouvelles concernant la politique nationale dans un quotidien, les étudiants indécis ne sont plus que 69% dans le même cas. Parmi les étudiants français, les écarts sont encore un peu plus marqués. Au sein de la population des chômeurs, les différences de pratiques sont encore plus manifestes: 68% des chômeurs italiens de gauche et 63% des chômeurs italiens de droite lisent régulièrement les nouvelles politiques nationales dans un quotidien, les chômeurs italiens ne se classant ni à gauche ni à droite ne sont plus dans le même cas que 48%. Les chômeurs français indécis, sont de loin les plus en retrait (39%). Bien que les étudiants français se montrent globalement plus intéressés par les nouvelles internationales, une même différenciation opère lorsque les jeunes ne se classent ni à gauche ni à droite. Et là encore, les écarts restent toujours plus accusés parmi les jeunes chômeurs, et ce sont les jeunes chômeurs français indécis qui sont les moins concernés (24% contre 40% des jeunes chômeurs italiens dans le même cas déclarent lire régulièrement les nouvelles internationales dans les journaux). Une preuve supplémentaire d’une plus grande différenciation sociale, culturelle et politique, au sein de la jeunesse française qu’au sein de la jeunesse italienne. La capacité de se positionner dans le champ politique, et d’y choisir un camp, renforce donc les chances d’implication personnelle et de sollicitation des sources d’informations. Seul le journal télévisé échappe à cette différenciation, mais nous l’avons précisé, il dépasse très largement le seul domaine de l’actualité politique et s’inscrit dans l’univers plus large des habitudes et des pratiques culturelles de consommation de masse. 3. L’évaluation du système représentatif Les résultats de l’enquête permettent d’appréhender la perception qu’ont les jeunes du monde politique à partir d’une double dimension: l’une s’apparente à un jugement d’ordre moral, “la politique est une chose sale”, l’autre est plus instrumentale et per453 Tableau 4. La perception du monde politique (%) met de saisir le rapport du jeune à la politique à la fois en termes de proximité personnelle et selon la marge de délégation qui est conférée au pouvoir politique (tableau 4). Sur la première dimension, le jugement des jeunes est moins négatif que ce que l’on aurait pu penser: plus des trois quarts des jeunes français et espagnols ne sont pas d’accord avec l’idée que “la politique est une chose sale” (respectivement 78%), et la quasi totalité de l’échantillon italien (88%). Ces chiffres témoignent d’un certain respect envers l’institution politique elle-même et viennent contredire en partie l’idée d’une disqualification de la politique par la jeunesse. Si le discrédit et la perte de confiance ont bien cours, et si la distance critique fixe leur ligne de conduite, la politique n’est pas pour autant assimilée à quelque chose de sale ou d’a-moral. Un potentiel de confiance existe donc bel et bien, surtout de la part des jeunes italiens. Sur la seconde dimension, les avis sont un peu plus partagés mais confirme aussi l’idée que les jeunes des trois pays n’entendent pas désinvestir le champ politique: 21% des jeunes français et seulement 13% des jeunes italiens sont d’accord avec la proposition “qu’il vaut mieux s’occuper de ses problèmes personnels faute d’avoir de l’influence sur les décisions politiques”. Dans l’un et l’autre pays les jeunes chômeurs font preuve d’un retrait plus marqué que les étudiants, mais cet écart est particulièrement signi454 ficatif en France: plus d’un jeune chômeur français sur deux pense n’avoir aucune influence sur les décisions politiques (59% contre seulement 12% des étudiants). En Italie et en Espagne les jeunes chômeurs sont moins défaitistes (respectivement 20% et 33%). Le repli individualiste n’est donc pas de mise. Bien qu’à des degrés divers la majorité des jeunes est concernée par la politique. La jeunesse est en attente de politique. En revanche, s’ils ne doutent pas de l’influence qu’ils peuvent exercer au travers de leur participation politique, ils sont plus nombreux à considérer qu’il faut déléguer l’exercice du pouvoir politique à des hommes compétents ou engagés dont c’est le métier (32% des jeunes français – et tout particulièrement les jeunes chômeurs: 58% – 38% des jeunes italiens et 42% des jeunes espagnols). Mais quoi qu’il en soit ils sont toujours majoritaires à penser la politique comme accessible, à refuser d’en déléguer le pouvoir qu’elle confère, et donc en bout de course à envisager qu’ils peuvent occuper la scène politique. La plupart des jeunes ne sont donc pas prêts à s’éloigner durablement de la scène politique. Ils se sentent, sinon impliqués, en tous cas concernés, interpellés par elle. Par ailleurs, sur le plan moral, elle n’est pas déniée. Ces chiffres ne correspondent pas aux thèses souvent proposés pour caractériser le rapport des jeunes à la politique avançant l’idée de leur repli frileux et apathique. Mais si cette perception paraît globalement moins négative que prévue, elle connaît de fortes variations selon les catégories de jeunes, selon leur situation d’insertion sociale et culturelle et selon leur niveau d’études. Les liens entre les conditions d’inscription sociale et culturelle et les conditions d’interprétation du champ politique sont particulièrement confirmés. Cela se vérifie tout particulièrement dans le cas français. Les jeunes chômeurs y sont quatre fois plus nombreux que les étudiants à penser que “la politique est une chose sale” (43% contre 11%) et qu’il vaut mieux s’occuper de ses problèmes personnels faute d’avoir de l’influence sur les décisions politiques (41% contre 12%), et trois fois plus nombreux aussi à vouloir laisser la politique aux hommes dont c’est le métier (58% contre 19%). Le niveau de diplôme s’avère être tout particulièrement discriminant. La perception de la politique est d’autant plus négative que celuici est faible. Parmi les jeunes sans diplôme ou disposant du CAP/ 455 BEP, plus de la moitié pensent que “la politique est une chose sale” (58% contre 17% de ceux qui ont un bac général et 12% une licence ou une maîtrise) ou encore qu’il vaut mieux s’occuper de ses problèmes personnels (55% contre 13% de ceux qui ont un bac général et 12% une licence ou une maîtrise), et près des trois quarts sont dans une disposition de délégation maximum en souhaitant laisser la politique aux hommes dont c’est le métier (72% contre respectivement 23% de ceux qui ont un bac général ou un niveau de licence et maîtrise). En Italie et en Espagne, le niveau d’études des jeunes chômeurs interrogés dans le cadre de l’enquête est dans l’ensemble plus élevé que dans le cas français, et si l’on observe des écarts similaires liés au diplôme, ils sont néanmoins plus atténués. L’origine sociale, mesurée à partir du positionnement socioprofessionnel de la famille, introduit une même logique de différenciation, mais qui a une incidence différente selon les conditions d’insertion sociale du jeune lui-même. On observe dans certains cas un effet de renforcement entre une origine sociale populaire et des conditions d’insertion sociale difficiles entraînées par le chômage. Dans d’autres cas, le fait d’être étudiant, et donc l’effet du niveau de formation, vient compenser une origine sociale peu favorisée. Ainsi les jeunes chômeurs issus des milieux populaires, dont le père appartient à la catégorie des employés ou des ouvriers, sont-ils toujours plus nombreux que les autres à exprimer leur distance vis-à-vis du champ politique. C’est en France que les clivages sont les plus exacerbés: 55% des jeunes chômeurs issus d’un milieu populaire considèrent la politique comme une chose sale, parmi les chômeurs issus de la bourgeoisie ils ne sont plus dans ce cas que 28% et parmi les étudiants d’origine populaire seulement 8%. Même effet en ce qui concerne le jugement que l’on peut avoir sur l’influence personnelle sur les décisions politiques: 58% des jeunes chômeurs issus d’un milieu populaire pensent ne pas avoir d’influence, parmi les chômeurs issus de la bourgeoisie ils ne sont plus dans ce cas que 22%, et parmi les étudiants issus des milieux populaires, seulement 12% (tableau 5). Les écarts dans les modes de perception de la politique sont donc très importants et confirment les liens entre la compétence sociale et la compétence politique. Mais ces résultats montrent que ces liens sont complexes et peuvent obéir à des logiques différen456 Tableau 5. La perception du monde politique selon le milieu social (%) tes, de renforcement ou de compensation. Mais il n’en reste pas moins vrai que plus la compétence sociale est faible, plus les signes de distance et de délégation à l’égard du champ politique sont marqués. L’origine sociale des étudiants ne crée pas de différenciation significative, et ce sont d’autres critères, notamment les critères idéologiques, qui peuvent expliquer les différences observées. Si les effets de cette compétence tant objective que subjective paraissent déterminants dans les façons d’appréhender le politique, le contexte idéologique joue lui aussi un rôle non négligeable. Une appartenance au camp de la gauche ou au camp de la droite oriente de façon différenciée les appréciations que les jeunes peuvent porter à l’égard de la politique. Mais surtout, c’est lorsque les jeunes ne se reconnaissent pas dans le clivage gauchedroite que les attitudes envers la politique sont à la fois les plus réservées et les plus hostiles. Une affiliation à la gauche inscrit les jeunes dans un rapport de proximité et d’implication, tandis qu’une affiliation à droite développe davantage un rapport de délégation. Les jeunes étudiants de gauche, en France, en Italie comme en Espagne, sont nettement plus nombreux que les autres, et quasi unanimes (93% respectivement des italiens et des français), à envisager qu’ils ont une influence sur les décisions politiques, ils 457 refusent assez catégoriquement l’idée que “la politique est une chose sale” (94% des étudiants italiens, 93% des étudiants français, et 87% des étudiants espagnols); par ailleurs ils sont les moins nombreux, et tout particulièrement en France, à partager l’idée que la politique doit être déléguée aux hommes dont c’est le métier (35% en Italie, 34% en Espagne, et 15% en France). C’est sans doute en Tableau 6. La perception du monde selon le positionnement gauche/droite (%) leur sein que la politique est créditée de la plus grande légitimité et du même coup d’une crédibilité plus affirmée (tableau 6). Dans les trois pays, on retrouve une même implication politique, bien que moins accentuée, parmi les jeunes chômeurs de gauche, qui se différencient ainsi des jeunes chômeurs de droite et plus encore jeunes chômeurs indécis. Parmi les jeunes de droite, les modes de perception de la politique s’inscrivent dans une autre logique. Une image négative s’y rencontre plus fréquemment, et d’une façon plus accentuée au sein de la population des chômeurs. La France, là encore, se distingue par des réactions particulièrement négatives: une large majorité des chômeurs de droite pense 458 que “la politique est une chose sale” (59% contre 26% des chômeurs de gauche et 14% des étudiants de droite), et affirme une plus grande volonté de distance et surtout de délégation vis-à-vis du pouvoir politique. En effet, plus de la moitié des jeunes chômeurs français de droite sur dix (52% contre 20% des chômeurs de gauche) préfère s’occuper de problèmes personnels plutôt que de politique, et ils sont quasi unanimes à penser qu’il vaut mieux la déléguer aux hommes dont c’est le métier (83% contre 39% des chômeurs de gauche et 30% des étudiants de droite). En Italie et en Espagne, les écarts sont moins marqués, mais ils opèrent dans le même sens. Une affiliation à la droite s’accompagne donc non seulement d’un retrait plus manifeste mais aussi d’une autre idée de la compétence. Les jeunes de droite reconnaissent la politique comme un champ de compétence spécifique, et donc ne les concernant pas directement, tandis que les jeunes de gauche se pensent davantage comme des acteurs à part entière du jeu politique, pouvant, et même devant y intervenir. On le voit, du point de vue de la participation politique, ce sont deux conceptions qui révèlent des rapports au politique très différenciés. Les jeunes ne se reconnaissant ni dans la gauche ni dans la droite s’inscrivent dans une logique de désinvestissement du champ politique. Quels que soient les pays et leurs conditions d’insertion sociale, ils sont toujours plus nombreux à penser que la politique est une “chose sale”, et comme les jeunes de droite ils s’excluent plus volontiers de toute implication politique. Mais cet éloignement tient sans doute davantage à leur difficulté à se repérer dans l’espace politique ainsi qu’à leur absence de choix et se différencie de la tradition de délégation et de la conception plus institutionnelle de la politique comme un métier, l’une et l’autre plus marquées dans les milieux de droite. 4. La confiance dans les institutions La perception des jeunes a l’égard des différentes institutions de la société éclaire la façon dont il s’y orientent et dont ils appréhendent les différents pôles de pouvoir ou de décision de celle-ci. Les niveaux de confiance qui leur sont respectivement accordés permet de situer la place et l’importance qu’ils accordent au champ 459 de la politique, mais aussi d’évaluer relativement aux autres la légitimité et la crédibilité que celui-ci suscite. Invités à donner une note de confiance entre 1 et 10 à treize institutions de types différents, les réponses des jeunes, qui sont autant de jugements, permettent d’établir une sorte de palmarès en fonction de leur confiance et a contrario de leur méfiance. De toute évidence, et bien qu’avec des intensités inégales selon les pays, les institutions référées à la politique suscitent toujours plus de méfiance que les autres. Mais qu’elles que soient les institutions, les niveaux de confiance varient selon les pays. Les italiens se distingue par un taux de confiance toujours plus élevé que dans les autres pays, et sauf pour les media, cette confiance est toujours majoritaire. A l’opposé, les jeunes français sont de loin les plus réticents et les plus méfiants. Excepté les associations humanitaires, leur confiance est toujours plus négative que positive. Le niveau de confiance des jeunes espagnols s’établit généralement dans un positionnement intermédiaire. De grandes différences apparaissent entre étudiants et chômeurs, les premiers se montrant toujours plus confiants que les seconds. Et ce sont tout particulièrement les jeunes chômeurs français qui se révèlent les plus méfiants à l’égard de l’ensemble des institutions, une confirmation supplémentaire de la plus grande réserve qu’ils manifestent à l’égard de la politique. Nous avons construit trois indicateurs synthétiques de confiance envers un certain nombre d’institutions: un indice de confiance dans les institutions politiques, un indice de confiance dans les associations, et un indice de confiance envers les media (tableau 7)2 . Dans les trois pays, ce sont les associations qui motivent la plus grande confiance, a fortiori lorsqu’elles portent leurs actions dans le domaine humanitaire. Les italiens, qu’ils soient étudiants ou chôCes trois indicateurs ont été construits en agrégeant les notes de confiance données aux institutions correspondant à une même catégorie d’analyse. L’indicateur de confiance dans les institutions politiques agrège les notes de confiance dans le gouvernement, le parlement, les syndicats, le maire de la ville, les partis politiques. L’indicateur de confiance dans les associations, agrège les notes accordées aux associations humanitaires et aux associations écologistes. Enfin l’indicateur de confiance dans les media agrège les notes accordées à la télévision et aux journaux. 2 460 Tableau 7. Confiance dans les institutions politiques, dans les associations et dans le médias selon le positionnement gauche/droite (confiance élevée: notes 7 à 10) (%) meurs, sont de loin les plus enthousiastes: les trois quart d’entre eux (75%) leur accordent les notes de confiance les plus élevées (entre 7 et 10). Les français sont nettement plus réservés puisqu’ils ne sont plus qu’une petite moitié à accorder au champ associatif un même score de confiance (46%), les chômeurs se distinguant par un net retrait (36% de bonnes notes seulement). Ne disposant des données que pour les jeunes chômeurs espagnols, il faut noter que si le niveau de leur confiance n’est pas aussi élevé que celui des italiens, il reste néanmoins beaucoup plus optimiste que celui des français dans la même situation (62% contre respectivement 71% et 36%). Cette confiance envers les associations est toujours plus marquée parmi les jeunes se situant à gauche, un résultat qui invite à nuancer le caractère a-politique qui est généralement conféré à ce mode de participation politique. Le mouvement associatif participe d’une culture politique ancrée plus favorablement à gauche. 461 Toutefois il faut souligner que les associations écologistes sont nettement moins plébiscitées que les associations humanitaires et suscitent des opinions peu différenciées entre les étudiants et les chômeurs, sans doute parce qu’elles sont à mi-chemin entre le monde associatif et l’univers des partis politiques vis-à-vis duquel les réticences sont plutôt de mise . En effet, les institutions politiques – gouvernement, parlement, syndicats, partis politiques, maire – n’entraînent à l’évidence pas la même adhésion que les associations. Bien que nettement plus positive de la part des jeunes italiens (56% de notes élevées), les jeunes français et les jeunes espagnols se caractérisent par une certaine défiance envers elles (respectivement 32% et 34% seulement de notes élevées). On ne note là encore aucune différence entre les étudiants et les chômeurs italiens et espagnols, en revanche les chômeurs français sont de très loin les plus méfiants de tous (seulement 21% de notes de confiance élevées). Si les instances représentatives les plus légitimées, comme le Parlement ou le Gouvernement ne sont pas les plus condamnées, en revanche les organisations politiques elles-mêmes telles que les partis politiques et leurs élus, notamment le maire de la ville, font, dans les trois pays, généralement l’objet d’une plus forte méfiance. En Italie et en France, les jeunes de gauche manifestent toujours plus de confiance envers les institutions politiques que les jeunes de droite, les indécis se situant souvent dans une position intermédiaire. Mais en Espagne, cette confiance se situe plutôt du côté de la droite. Si les jeunes sont nombreux à regarder la télévision, en revanche ils n’en sont pas moins critiques à son égard; ils montrent davantage de confiance envers la presse écrite, mais restent dans l’ensemble circonspects. La confiance accordée aux media est dans les trois pays relativement défaillante. Les espagnols sont en la matière les plus tolérants avec 30% de notes élevées, mais les italiens et surtout les français sont nettement plus en retrait (respectivement 24% et 17% seulement de notes élevées). On ne note que peu de différences entre les étudiants et les chômeurs en Italie comme en Espagne, en revanche, les jeunes chômeurs français se distinguent une fois de plus par un niveau de méfiance particulièrement important (14% seulement de notes élevées). 462 Les autres institutions font l’objet de niveaux de confiance qui varient selon les pays. Les ressortissants italiens sont de loin les plus confiants à l’égard de l’Union européenne: alors que les étudiants et les chômeurs italiens ne sont respectivement que 15% et 19% à la doter de notes comprises entre 1 et 4, les étudiants et les chômeurs français sont respectivement 38% et 58% dans le même cas, et les chômeurs espagnols, 36% (tableau 8). Les italiens sont aussi les plus confiants envers l’Eglise catholique, et encore aujourd’hui les plus pratiquants. En Italie, 35% des étudiants et 40% des chômeurs manifestent de la méfiance à son égard, mais en Espagne, c’est plus de la moitié des étudiants et des chômeurs qui se retrouve dans ce même cas, respectivement 50% et 56%. La France obtient le palmarès de ce qui apparaît comme une véritable crise de confiance: 62% des étudiants et 66% des chômeurs français reconnaissent leur défiance à l’égard de l’Eglise catholique, un indice supplémentaire de la perte d’influence de la religion catholique en France. En effet, dans l’échantillon, seuls 7% de jeunes se déclarent catholiques pratiquants (contre 27% des italiens et 25% des étudiants espagnols), 29% catholiques non pratiquants (contre 44% des italiens et 41% des étudiants espagnols), tandis que 38% affirment être sans religion (contre seulement 10% des italiens et 11% des étudiants espagnols). La police fait l’objet d’une appréciation mitigée, équivalente à celle des institutions politiques représentatives, mais enregistre nettement moins de méfiance que les partis politiques. C’est en Italie, là encore qu’elle a la moins mauvaise image. C’est en France qu’elle suscite la plus grande méfiance, et notamment auprès des jeunes chômeurs. En Espagne, elle enregistre un niveau de confiance intermédiaire, mais dans l’ensemble plutôt favorable. Pour finir, l’université enregistre plutôt des scores favorables, et une large majorité d’étudiants témoignent plutôt de leur confiance envers elle. Toutefois, des différences significatives apparaissent selon les pays. Les italiens sont les plus satisfaits, viennent ensuite les français, mais ce sont les espagnols qui manifestent le niveau de confiance le plus ténu. 463 464 Tableau 8. Confiance faible dans les institutiones (notes de 1 à 4) (%) 5. La pertinence du clivage gauche-droite En France, le clivage gauche-droite connaît une crise profonde: si une large majorité de français accepte toujours de se classer entre la gauche et la droite, ils sont aussi de plus en plus nombreux à mettre en doute sa pertinence et son efficacité pour structurer l’espace politique et lui donner sens (Perrineau 1998). Dans l’enquête, une large majorité des jeunes interrogés dans les trois pays se classe sur une échelle gauche-droite en dix points, et parmi eux, le choix du camp de la gauche est nettement prévalant. La gauche et la droite restent donc repères pertinents pour organiser leurs choix politiques. Ce résultat corrobore ce qui a pu être vérifié dans d’autres enquêtes (Muxel e Jaffré 1997; Dupoirier e Chiche 1997). Par delà son rôle toujours efficace et structurant dans la constitution du repérage politique, l’échelle gauche-droite reste un prédicteur significatif et cohérent du point de vue du système de valeurs des individus. Malgré cet effet toujours structurant, le clivage gauche-droite est mis en doute par une partie non négligeable de l’échantillon. Trois jeunes sur dix en France et en Espagne ne se positionnent pas en fonction de ce mode de reconnaissance, soit parce qu’ils se classent sur les positions centrales de l’échelle (positions 5 et 6), ce qui est une façon de ne pas exprimer un choix (respectivement 12% et 30%), soit parce qu’ils refusent explicitement de se classer entre la gauche et la droite et d’utiliser l’échelle (respectivement 19% et 4%). Les jeunes italiens sont un peu moins nombreux à rejoindre le camp des indécis (24%) (tableau 9). Par delà leurs positionnements personnels, cette pertinence semble néanmoins toujours de mise pour comprendre les clivages traversant la classe politique et, dans une moindre mesure, pour différencier les citoyens dans chacun des trois pays: 62% des jeunes français et 56% des jeunes italiens jugent le clivage gauchedroite important pour comprendre les différences entre les hommes politiques, et a fortiori celles qui existent entre les partis politiques (respectivement 73% et 58%) (tableau 10). La signification du clivage gauche-droite semble mieux résister en France qu’en Italie. Bien qu’en France, les réponses des chômeurs fassent apparaître une critique plus manifeste quant à la pertinence du clivage gauche-droite par rapport à celles des étu465 Tableau 9. Classements sur une échelle gauche/droite en dix positions (%) Tableau 10. Le divage gauche-droite jugé peu utile ou pas du tout utile piur comprender les différences entre les hommes politiques, entre les partis politiques et entre le citoyens (%) diants, ces chiffres invitent à nuancer les constats souvent trop rapides d’un effacement de la structure idéologique gauche-droite, tant au niveau des individus que des organisations. Celui-ci continue de permettre à décoder le monde politique, et plus avantageusement en France qu’en Italie, et a fortiori qu’en Espagne (mais nous ne disposons que des réponses des jeunes chômeurs). Il est intéressant de noter que les individus, hommes politiques ou citoyens 466 ordinaires, échapperaient davantage à cette grille de classification. Celle-ci est un mode de repérage d’autant plus utile qu’il s’agit d’organisations ou de structures politiques comme les partis, les hommes politiques s’inscrivant dans un mode de repérage un peu plus brouillé, sans doute lié aux effets de personnalisation qui affectent de plus en plus l’appréciation des candidats. Néanmoins cet effet structurant semble s’estomper lorsqu’il doit expliquer les différences entre les citoyens. On ne dénombre plus qu’un jeune sur deux en moyenne pour penser que c’est un clivage pertinent au niveau des citoyens: 47% des jeunes français et 49% des jeunes italiens. L’orientation idéologique paraît là encore décisive. Plus les jeunes sont déterminés dans leurs choix, que ceux-ci soient de gauche ou de droite, plus la pertinence du clivage est affirmée. Une fois de plus, les jeunes ne se reconnaissant dans aucun des deux camps se montrent nettement plus en retrait. Toutefois, même parmi ces indécis, qui plus est chômeurs et donc généralement plus réticents à la pertinence du clivage gauche-droite, celui-ci n’est pas complètement déconsidéré: dans les trois pays, environ un tiers des jeunes dans ce cas le jugent utile pour comprendre les différences entre les partis politiques (36% des chômeurs italiens, 39% des chômeurs français, et 32% des chômeurs espagnols), et même une partie non négligeable d’entre eux, bien que refusant ce classement pour eux-mêmes, le jugent utile pour différencier les citoyens (38% des chômeurs italiens et encore 20% des chômeurs français). Nous terminerons cette analyse des modes de perception du monde politique en évoquant les représentations que les jeunes interrogés ont du rôle des femmes en politique. Une question d’actualité en France puisque cette année a été l’objet de débats et de polémiques importants concernant la parité hommes-femmes en politique, et qu’une loi vient d’être votée au parlement entérinant le respect de cette parité au niveau des listes présentées par les partis politiques lors des prochaines élections. Une très large majorité des jeunes français (86%) et des jeunes espagnols (88%) sont d’ailleurs d’accord avec le fait que les femmes devraient avoir davantage de place en politique; en France, 91% des étudiants et 76% des chômeurs, et en Espagne, 91% des étudiants et 82% des chômeurs (tableau 11). Les filles en sont quasi unanimement convaincues: 94% des étudiantes et 89% des chômeuses françaises, 96% des étudiantes et 83% des chômeuses 467 espagnoles . Les garçons restent un peu plus mitigés (81% des étudiants et seulement 68% des chômeurs français, 79% des étudiants et 74% des chômeurs espagnols), mais ils souhaitent de toute évidence une plus grande présence des femmes en politique. Et si les jeunes de gauche, surtout lorsqu’ils sont étudiants acquiescent dans une plus large proportion encore que les jeunes de droite ou ni de gauche ni de droite (96% contre respectivement 83% et 86%en France, et 93% contre respectivement 86% et 88% en Espagne), il faut bien admettre que cette question fait actuellement l’objet d’un consensus en France comme en Espagne. Le monde politique est donc invité à changer fondamentalement puisque les femmes exerçant une responsabilité politique représentent, encore aujourd’hui, surtout en France une minorité (Sineau 1997). Dans ce contexte, la position des jeunes italiens tranche singulièrement. Alors que les français et les espagnols sont quasi-unanimes (respectivement 86% et 88%), ils ne sont plus que 67% à estimer nécessaire d’augmenter le nombre des femmes dans la vie politique. On retrouve une même différenciation entre les jeunes de gauche, dans l’ensemble plus favorables, et les jeunes de droite toujours plus en retrait. Les garçons italiens apparaissent de loin comme les plus hostiles à cet élargissement (seulement 55% des étudiants y sont favorables et 49% des chômeurs), mais même les filles italiennes, et c’est plus surprenant, sont nettement moins nombreuses que dans les deux autres pays à défendre cette nécessité (75% des étudiantes comme des chômeuses). Tableau 11. Augmenter le nombre de femmes dans la vie politique [accord] (%) 468 6. La participation électorale Depuis une dizaine d’années le taux d’abstention des européens aux élections ne cesse d’augmenter. En France, même l’élection présidentielle, de loin la plus mobilisatrice, connaît une baisse de participation significative. En 1974, seuls 15,1% des électeurs s’étaient tenus à l’écart de l’élection, en 1995, ils sont 20,6%. L’abstentionnisme intermittent est un comportement de plus en plus répandu, ce qui, au fil du temps, crée un déficit croissant de votants (Chiche e Dupoirier 1998). En vingt ans, s’agissant des élections législatives, l’abstention a quasiment doublé: 16,7% en 1978, 31,5% en 1997. Les jeunes participent à cette lente érosion de l’acte électoral, et d’une certaine façon l’amplifient. Lors des dernières élections législatives de 1997, plus de quatre jeunes sur dix (41%) sont restés en dehors de la décision électorale. Dans l’enquête, l’abstention des jeunes dans les trois pays fait vraisemblablement l’objet d’une sous déclaration, mais si les jeunes italiens et les jeunes français se retirent de la décision électorale dans une proportion similaire, en revanche, les jeunes espagnols, et tout particulièrement les jeunes chômeurs espagnols, apparaissent comme nettement plus abstentionnistes. Pourtant, interrogés sur l’importance qu’ils accordent au droit de vote, les jeunes français se montrent très attachés à son principe. Par delà le fait qu’ils le considèrent comme un droit, il représente aussi un seuil symbolique de reconnaissance d’une légitimité au même titre que les adultes, d’autant plus investi de sens que les autres seuils d’entrée dans la vie sociale adulte apparaissent plus lointains et plus difficiles à franchir. Pourtant il n’y a pas toujours coïncidence entre les attributs symboliques d’un seuil et leur transformation en des actes concrets. Les jeunes sont nombreux à ne pas s’inscrire sur les listes électorales dès l’âge de dixhuit ans. Si l’on dénombre 9% de non inscrits parmi l’ensemble des Français, chez les jeunes, la non-inscription est plus marquée et le passage à l’acte ne se fait que progressivement. Un quart des jeunes ne s’inscrit pas avant l’âge de vingt ans; à vingt-cinq ans, cette proportion se restreint (14%), mais reste très largement supérieure à celle que l’on observe dans l’ensemble de la population. Cette non inscription varie en fonction d’un certain nombre de paramètres sociologiques. On compte davantage de non inscrits 469 parmi les jeunes urbains, peu diplômés et dont les conditions d’insertion sociale sont fragiles (Muxel 1996). Dans l’enquête les mêmes écarts se vérifient: 37% des jeunes chômeurs ne sont pas inscrits tandis que parmi les étudiants ils ne sont plus que 18% dans ce cas. Le niveau d’études est de loin le plus discriminant. Lorsque les jeunes sont sans diplôme ou détenteurs d’un CAP ou d’un BEP, plus de la moitié d’entre eux ne sont pas inscrits (57%). L’inscription électorale est donc fortement assujettie aux conditions de l’inscription sociale des individus. La reconstitution des trajets de participation électorale des jeunes français à partir des deux derniers scrutins, l’élection présidentielle de 1995 et les élections législatives de 1997, permet une analyse fine du rapport des jeunes au vote. Celle-ci confirme le poids des indicateurs sociologiques sur le comportement électoral (Boy, Mayer 1997), et révèle la nature des liens entre la participation électorale et l’orientation idéologique des individus (tableau 12). Tableau 12. Types de trajet électoral des jeunes français (1995-1997) 470 Deux modes de retrait du jeu électoral, assez différenciés, peuvent être repérés. Ils ne présentent pas les mêmes caractéristiques et ne concernent pas non plus les mêmes jeunes. Le premier est la non inscription sur les listes électorales. Nous l’avons vu, les chômeurs, ainsi que les jeunes sans diplôme ou peu diplômés, sont plus nombreux que les autres à rester dans cette mise hors-jeu de l’élection. Les jeunes sans orientation idéologique définie ainsi que ceux qui ont un faible niveau de confiance dans les institutions politiques manifestent le même type de comportement. Le second mode de retrait est l’abstention. A l’inverse, il concerne davantage les étudiants et les plus diplômés, et est pratiqué autant par les jeunes de gauche que par les jeunes de droite. Si l’abstentionnisme constant, c’est-à-dire le fait de s’abstenir de voter les deux fois, en 1995 et en 1997, est nettement minoritaire, en revanche la pratique de l’abstentionnisme intermittent, le fait de voter une fois sur les deux, semble plus répandue. Près du tiers des étudiants (30%), et davantage les filles que les garçons, mais aussi les plus diplômés que les autres, ont adopté ce type de participation électorale. Il y a donc plusieurs façons d’être hors du jeu électoral qui révèlent des modes de désinvestissement politique plus ou moins prononcés. Quoi qu’il en soit, six jeunes sur dix dans notre échantillon se mettent d’une façon ou d’une autre en retrait de l’élection, ce qui est une proportion non négligeable et significative quant à la nature du nature du lien actuel des jeunes à la politique. Celuici ne passe pas forcément par l’arbitrage électoral et d’autres formes d’expression politique peuvent être sollicitées. Restent les participationnistes constants, un peu moins de quatre jeunes sur dix (39%) ont voté aux deux élections. Ils sont nettement plus diplômés que les autres, sont plus fréquemment des garçons que des filles, et se situent aussi beaucoup plus à droite. Le sens du devoir, y compris du devoir civique, ainsi que l’inculcation d’un certain nombre de valeurs traditionnelles et conformistes dans les milieux de droite renforcent la propension à voter. En revanche, on le verra la gauche occupe davantage le terrain de la mobilisation collective. La période récente se caractérise en France par une moindre stabilité des choix électoraux, mais surtout par une indécision et par une incertitude qui pèse de plus en plus sur les enjeux propres 471 à chaque élection. Si l’électorat dans son ensemble paraît plus incertain, les jeunes accusent encore davantage le trait de l’indécision. Lors de l’élection présidentielle de 1995, 40% des électeurs reconnaissaient avoir fait leur choix pendant la campagne électorale ou les quelques jours précédant l’élection, la proportion des 18-25 ans dans ce même cas atteignaient 54%. Lors de l’élection présidentielle de 1988, les jeunes n’étaient que 23% à se dire aussi incertains! Dans l’enquête, 44% des jeunes français déclarent avoir choisi leur candidat lors des élections législatives de 1997 pendant la campagne ou au dernier moment. Les filles sont dans ce cas plus nombreuses que les garçons, et l’on ne note pas d’effet particulièrement lié à un défaut de compétence sociale. Au contraire, ce sont les jeunes les plus diplômés qui restent les plus incertains jusqu’au dernier moment, comme s’ils se réservaient en bout de course le droit d’évaluer, voire de changer leur choix. Serait-ce parmi eux que se trouveraient ces fameux électeurs “stratèges”, cultivés, s’intéressant à la politique, de plus en plus réceptifs au vote sur enjeux, et de fait risquant d’être plus volatiles dans leurs choix? Les jeunes de gauche apparaissent un peu plus fragiles dans leurs choix que les jeunes de droite, qui sont de loin les plus nombreux à s’être déterminés longtemps avant l’élection. Mais les plus hésitants sont surtout les moins intégrés politiquement: 65% des jeunes qui ne sont ni de gauche ni de droite (dont on a vérifié par ailleurs que lorsqu’ils votent ils choisissent un candidat de droite) et 47% de ceux qui ont un niveau de confiance faible dans les institutions politiques ont attendu les derniers moments pour se décider. Si les jeunes adoptent donc des comportements électoraux différenciés, qu’en est-il de leurs choix? Commençons par le cas français. Nous l’avons vu précédemment, l’échantillon interrogé est nettement plus marqué à gauche qu’à droite, et cette orientation se retrouve dans les votes exprimés. En effet, lors des élections législatives de 1997, 68% des jeunes ont voté pour un parti de gauche tandis que 32% ont voté pour un parti de droite (tableau 13). Les votes de gauche sont encore plus marqués parmi les étudiants (70% contre 62% des chômeurs) tandis que les votes de droite semblent relativement plus significatifs parmi les chômeurs (38% contre 30% des étudiants). Les 472 scores de la droite sont d’autant plus élevés que le niveau de diplôme est faible. Un résultat qui confirme l’évolution récente du comportement électoral des français, révélant une droite se renforçant dans les milieux populaires tandis que le soutien à la gauche socialiste se développe davantage dans les milieux socialement et surtout culturellement privilégiés. Tableau 13. Choix lors du 1er tour de élections législatives de 1997 parmi les votants français (%) Cette évolution se trouve encore confirmée par le fait que, dans notre échantillon, le vote des indécis, c’est-à-dire de ceux qui refusent de se classer sur une échelle gauche-droite, est plus orienté à droite qu’à gauche. En effet, les deux tiers d’entre eux (66%) optent pour la droite, et un tiers seulement pour la gauche (34%). L’apolitisme apparent des indécis se concrétisent donc d’abord par le retrait de toute participation électorale (51% ne s’inscrivent pas sur les listes électorales), mais lorsqu’ils votent, ils donnent alors leurs voix en plus grand nombre à la droite. 473 La comparaison selon le type de parti politique choisi est intéressante parce qu’elle introduit encore une dimension supplémentaire pour appréhender le rapport des jeunes au vote, et d’une façon plus large au champ politique. La façon dont ils vont instrumentaliser l’échiquier partisan est là encore révélatrice de leur perception comme de leur implication. En effet, les jeunes donnent-ils leur voix aux partis de gouvernement ou aux partis périphériques de manière équivalente? Et si non, que signifie cette différenciation? Un tiers des jeunes ont voté pour un parti périphérique (34%), c’est-à-dire pour un parti hors-système, ne participant ni directement ni traditionnellement à la formation du gouvernement. A gauche, il s’agit des mouvements d’extrême-gauche, du PCF, ou encore du mouvement des écologistes. A droite, essentiellement du FN, mais aussi de quelques groupes d’indépendants. Depuis 1997, le gouvernement de la gauche plurielle a fait entrer des écologistes et des communistes à des postes ministériels. Mais c’est une nouveauté, et la distinction entre les petits partis, qui n’ont pas de réel poids gouvernemental et institutionnel, et les partis classiques de gouvernement, ayant une large obédience tels que le PS, pour la gauche, et le RPR et l’UDF pour la droite, reste pertinente pour différencier des choix qui n’ont ni le même sens politique, ni la même portée électorale. Les partis périphériques sont souvent le moyen d’exprimer des choix sinon plus protestataires, en tous cas plus contestataires. Ainsi sont-ils choisis plus souvent par les jeunes se réclamant d’une obédience de gauche que par ceux se situant à droite (39% contre 19%). Mais ce sont ceux qui refusent de se situer à l’intérieur du clivage gauche-droite, donc ceux qui ont un ancrage idéologique moindre, qui utilisent plus facilement ce type d’expression politique, revendiqué d’une certaine façon comme plus marginal et échappant au mode de repérage partisan classique, ainsi qu’aux enjeux propres à celui-ci. Un signe supplémentaire aux raisons de ce comportement: plus le niveau de confiance envers les institutions politiques est faible plus les chances de voter pour un parti périphérique sont grandes (44% contre 26% lorsque le niveau de confiance est élevé). Par ailleurs, ces choix partisans à la périphérie du système sont aussi plus fréquents parmi les peu diplômés: 40% de ceux qui n’ont aucun diplôme ou qui n’ont qu’un CAP ou un BEP, 48% de ceux qui ont un bac profes474 sionnel, contre 33% des jeunes ayant une licence ou maîtrise à l’université. Il est très difficile de mener une comparaison des votes entre les trois pays, car le système partisan et l’offre électorale circonscrivent un contexte politique spécifique à chaque pays. J’ai néanmoins tenté de regrouper les partis et mouvements politiques présents dans les derniers scrutins de chacun des trois pays (élections législatives de 1997 en France, élections générales de mars 1996 en Espagne, et élections nationales de 1996 en Italie). J’ai ainsi différencié les partis d’extrême gauche et communistes, les autres partis de gauche, les partis de droite, les partis d’extrême droite, enfin les partis ou mouvements écologistes. Le regroupement est certes drastique et pose un certain nombre de problèmes, mais il permet de constater quelques différences significatives des choix électoraux des jeunes dans les trois pays (tableau 14). Si les votes de gauche apparaissent toujours majoritaires, selon les pays ils connaissent néanmoins des écarts significatifs. Les jeunes français sont les plus nombreux à voter à gauche, mais ni pour l’extrême gauche ni pour la gauche communiste. Celles-ci apparaissent nettement plus attractives pour les jeunes italiens et pour les jeunes espagnols (respectivement 17% et 21% contre 12% des jeunes français). Il faut souligner leur attrait tout particulier pour les jeunes étudiants espagnols; près du quart d’entre eux déclarent avoir voté pour cette mouvance (23%). La droite classique est fortement présente au sein de la population espagnole étudiante (33% soit un tiers des étudiants espagnols ont voté en sa faveur), mais aussi parmi les jeunes chômeurs français (30%). Elle fait nettement moins recette auprès des jeunes italiens (16%) qui en revanche favorisent dans une large proportion les partis d’extrême droite (17%), et tout particulièrement les étudiants (une situation inverse de celle du cas français). On notera que la mouvance écologiste n’apparaît pas décisive. La façon dont se sont concrètement décidés les choix au moment de voter permet de préciser encore, par delà le vote, le rapport des jeunes à la politique. Qu’est-ce qui au bout du compte va le plus compter dans leurs choix? Les idées du candidat, le parti auquel il appartient ou encore sa personnalité (tableau 15 )? Là encore des différences significatives apparaissent entre les trois pays. Faute de données nous ne mènerons la comparaison 475 476 Tableau 14. Votes aux dernières élections (%) Tableau 15. Ce qui a le plus compté pour choisir le candidat (%) qu’au sein de la population étudiante. Partout les idées sont privilégiées mais ce sont les étudiants français qui y sont de loin les plus attachés: les deux tiers d’entre eux répondent que ce sont les idées qui emportent leur décision (65% contre 38% des étudiants italiens et 37% des espagnols). Ces derniers accordent davantage d’importance que les français aux programmes des partis politiques (respectivement 39% et 33% contre seulement 27% des français). Ces chiffres sont révélateurs du fait que la politique n’est ni désinvestie d’enjeux, ni non plus d’une certaine façon d’idéologie. La personnalisation de la politique, bien qu’un peu plus présente dans les réponses des jeunes espagnols et des jeunes italiens, ne semble concerner qu’une minorité (19% des italiens, 14% des espagnols et seulement 8% des français). L’image des partis politique eux-mêmes, pourtant décriés et tenus à distance, nous l’avons vu précédemment, semble plus efficiente que les atouts liés à la personnalité de tel ou tel candidat. Là encore des différences significatives apparaissent selon l’orientation idéologique des individus. Les idées sont toujours privilégiés parmi les jeunes se situant à gauche, mais aussi en France au sein des indécis, ce qui mérite d’être souligné et qui révèle peut être le niveau de leur attente de politique. Les jeunes de droite se montrent dans l’ensemble plus attentifs aux programmes des partis politiques. La personnalité du candidat concerne davantage les italiens, et tout particulièrement les italiens se déclarant de droite ou indécis. 7. Engagements et mobilisations collectives: l’attrait du mouvement associatif L’espace politique est de plus en plus appréhendé au travers d’une demande de réhabilitation d’actions concrètes et d’engagement, sans doute plus que de moralisation. Les jeunes européens se retrouvent dans une même quête de démocratie directe, développant un même besoin d’élargissement et de diversification du répertoire d’actions politiques, et notamment la mobilisation collective. Ils privilégient l’initiative autonome et souvent spontanée des individus ou des groupes, entretenant une certaine distance à l’égard des structures d’interventions traditionnelles que sont les 477 partis politiques ou les syndicats. On observe dans tous les pays européens un élargissement de l’action politique, les formes d’expression protestataire y bénéficiant d’une légitimité de plus en plus grande (Topf 1995). Les dispositions actuelles des jeunes interrogés dans les trois pays vis-à-vis de la politique et de leur implication potentielle s’inscrivent dans cette évolution d’ensemble de la participation politique des citoyens. Certes avec des nuances. Ainsi les jeunes italiens apparaissent plus confiants vis-à-vis de leurs institutions politiques que leurs voisins, notamment envers les partis politiques, – ce qui mérite d’être souligné –, et très nettement plus favorables à l’Union européenne; de leur côté les jeunes français se montrent plus favorables à la gauche tandis que les jeunes espagnols, bien que les plus éloignés de l’extrême droite se montrent plus enclins à voter pour la droite. Mais quelles que soient ces différences liées aux contextes historiques et politiques spécifiques à chacun des trois pays, l’attitude des jeunes interrogés ne révèle pas un abandon de la scène politique. La comparaison des indices de confiance respectivement attribués aux partis politiques et aux associations humanitaires est intéressante, car elle révèle l’élargissement du champ politique à d’autres formes de participation et d’engagement. Cet élargissement n’est en rien un signe de dépolitisation mais au contraire la traduction d’une évolution plus générale des demandes et des investissements des citoyens en matière de politique. En France, ces dernières années, ce que l’on appelle aujourd’hui “le mouvement social”, s’imposant comme une force émanant de la société civile elle-même, représente une forme d’expression et de revendication politiques relativement affranchie de la tutelle des organisations politiques et syndicales traditionnelles (Barnes et Kaase 1979, Mayer et Boy 1997, Inglehart 1977, 1990). Le surcroît de confiance accordé par les jeunes aux associations humanitaires, et en contrepartie la méfiance ressentie envers les partis politiques, s’inscrit dans cette évolution. Ainsi les jeunes mettent-ils leur confiance d’abord hors du champ de la politique politicienne, dans des structures ou des organisations dont les mots d’ordre ne sont pas dictés par des logiques partisanes ni même par des logiques de compromis ou d’alliances. Ce qu’ils recherchent est non seulement une efficacité 478 concrète, mais aussi une indépendance d’action et de jugement (Muxel 1996). C’est pourquoi les associations ont gain de cause à leurs yeux par rapport aux partis politiques. On l’a vu précédemment, de toutes les institutions ce sont elles qui enregistrent les meilleurs scores de confiance. A contrario ce sont les partis politiques et les syndicats qui suscitent le plus de méfiance. Bien que l’Italie se singularise un peu de ce point de vue, la relative homogénéité des attitudes négatives envers les partis politiques, et dans une moindre mesure envers les syndicats, est en elle-même révélatrice de cette crise de la représentation politique, et plus profondément de la crise du lien partisan. Si un tiers des jeunes interrogés dans l’ensemble des trois pays déclarent faire partie d’une association (33%), ils ne sont plus que 15% à reconnaître leur adhésion à un parti politique ou à un syndicat. Les jeunes italiens semblent un peu plus ouverts que les autres à ce dernier type d’engagement, mais ils favorisent eux aussi plus largement l’engagement associatif: 13% d’entre eux déclarent participer plus ou moins régulièrement à l’activité d’un parti politique (ils ne sont plus que 8% dans le même cas parmi les français et 8% parmi les espagnols). Les syndicats sont complètement marginalisés: 62% des jeunes déclarent ne pas en faire partie et 34% ne pas s’y intéresser. La petite minorité qui y adhère est équivalente dans les trois pays: 5% des jeunes italiens, 5% des français et 4% des espagnols. Les étudiants italiens et français sont plus nombreux à exprimer leur sympathie et leur engagement dans une association: 42% des étudiants italiens, 42% des étudiants français (contre respectivement 28% et 14% des chômeurs dans chacun des deux pays). En Espagne, la situation s’inverse: les jeunes chômeurs y sont plus nombreux (38%) que les étudiants (23%) à déclarer une telle activité (tableau 16). Les différences entre une orientation plutôt à gauche ou plutôt à droite, ni même une absence de choix entre la gauche et la droite, n’apparaissent pas vraiment décisive pour l’engagement associatif (cela alors que l’on avait pourtant constaté qu’en termes de confiance, la gauche marquait toujours un a-priori plus favorable). En revanche, l’engagement partisan ou syndical apparaît nettement plus lié aux choix idéologiques. S’il s’effectue dans une proportion semblable entre la gauche et la droite (respectivement 18% et 17%), les indécis témoignent d’un retrait nettement plus marqué 479 480 Tableau 16. Partecipation dans le cadre partisan, syndical ou associatif (%) (7%). Par ailleurs, c’est parmi les jeunes français de gauche que la confiance envers les syndicats est la plus marquée (55% de notes positives). Ce résultat révèle la persistance en France de l’ancrage identitaire de la gauche dans une culture de luttes sociales et de défense des salariés, issue de la conquête du mouvement ouvrier. L’implication partisane et institutionnelle des jeunes italiens un peu plus forte que dans les autres pays se retrouve aussi dans la plus grande activité qu’ils manifestent dans le cadre des campagnes électorales: 11% d’entre eux déclarent avoir participé à une campagne électorale, ils ne sont plus que 6% en France et 4% en Espagne dans ce cas. Les jeunes espagnols sont ceux qui se tiennent le plus à l’écart de toute possibilité d’engagement dans un parti politique: 59% d’entre eux déclarent qu’ils ne s’inscriraient à un parti politique en aucun cas, les français sont dans le même cas dans 49% des cas, et les italiens ne sont plus que 42% à témoigner d’un même rejet. Le champ associatif représente un attrait et suscite davantage de confiance. Pour autant le passage à l’acte que représente une réelle activité militante n’est jamais facile et reste inégal: les étudiants italiens et français sont toujours plus motivés que les jeunes chômeurs dans ces deux pays; en revanche, la situation s’inverse en Espagne et les étudiants espagnols sont nettement plus en retrait de ce type d’engagement. Si les jeunes italiens se distinguent là encore par une participation plus active dans le cadre d’une association de défense de l’environnement, les jeunes dans leur ensemble témoignent d’une disposition de principe certes plutôt favorable, – ils sont peu nombreux à déclarer qu’ils ne s’y intéressent pas du tout –, mais ils ne la concrétisent pas fréquemment dans un engagement réel. Par ailleurs, on le sait, lorsque cet engagement se fait, il reste le plus souvent sporadique, assujetti à des changements, risquant par là même d’aboutir à des renoncements. Les garçons se montrent un peu plus présents que les filles dans le champ politique stricto sensu. Si 46% des garçons déclarent qu’ils ne s’inscriraient en aucun cas à un parti politique, les filles sont encore plus nombreuses dans ce refus de tout engagement partisan (52%). En revanche, elles se montrent beaucoup plus ouvertes envers le champ associatif: 38% d’entre elles déclarent y avoir une activité régulière contre 26% des garçons. 481 8. Le potentiel protestataire des jeunes Les modes d’action collective organisés sur le modèle de la grève ou de la manifestation pacifique sont plébiscités. Seuls 8% des jeunes des trois pays confondus déclarent qu’ils ne participeraient en aucun cas à une grève et 5% à une manifestation pacifique. Ce type de mobilisation suscite donc un fort potentiel de participation possible: si on lit les résultats en sens inverse, ils indiquent que 92% de jeunes ont participé ou pourraient participer à une grève et 95% à une manifestation. Le potentiel de participation est ici maximal et montre bien que les jeunes sont loin d’être en retrait de tout activisme politique (tableau 17). Les filles se montrent encore plus disponibles que les garçons pour ce type de mobilisation. Si elles participent à des manifestations pacifiques dans une même proportion que les garçons, elles sont plus nombreuses à avoir fait l’expérience de la grève (48% contre 42% des garçons). Ces chiffres sont révélateurs de la présence des jeunes sur la scène politique des trois pays. Un jeune étudiant sur deux, en France comme en Italie, a déjà participé à une manifestation (respectivement 52% et 48%), et en Espagne cette proportion grimpe à 60%. Les chômeurs ne sont pas en reste, et là encore les jeunes chômeurs espagnols se distinguent par une pratique plus fréquente de la manifestation. Les jeunes européens font donc régulièrement l’expérience politique de l’occupation de la rue. La grève est un mode de protestation beaucoup plus répandu en Italie et en Espagne qu’en France. Les jeune espagnols sont plus grévistes que les autres, et là encore tout particulièrement les étudiants: 65% d’entre eux déclarent avoir fait grève (contre 49% des étudiants italiens et seulement 33% des étudiants français, de loin les plus en retrait). Faut-il rapprocher ces résultats du plus grand mécontentement des jeunes espagnols exprimés à l’égard de l’Université, ayant pu générer des actions de protestation en plus grand nombre qu’en France ou qu’en Italie? Les étudiants italiens comme les étudiants espagnols sont plus nombreux que les étudiants français à déclarer avoir occupé une école ou une université (respectivement 46% et 45% contre seulement 37% des étudiants français). Les formes de protestation non conventionnelle, pouvant avoir un caractère plus violent ou interdit, entraînent davantage de réti482 Tableau 17. Partecipation à des actions collectives (%) 483 cences, mais elles restent néanmoins attractives. Un indice de protestation a pu être calculé en fonction du degré d’approbation et de participation potentielle aux trois actions politiques que sont une manifestation violente, l’occupation illicite d’un appartement et l’occupation illicite d’une école. Près du quart de l’ensemble de l’échantillon accepterait de participer à ces trois types d’action de protestation violents ou illicites (23%). Des différences significatives apparaissent là encore entre les trois pays. Les français sont potentiellement les plus protestataires tandis que les jeunes italiens sont ceux qui se tiennent le plus écart de toute forme plus radicale de revendication, ce qui doit être rapproché de leur plus grand attachement au respect des institutions politiques et partisanes. Plus de quatre jeunes étudiants français sur dix approuvent ces trois modes d’action et pourraient y participer (42%), les étudiants espagnols ne sont plus que trois sur dix dans le même cas (30%), et les italiens plus que deux (20%). Les chômeurs sont dans leur ensemble moins protestataires que les étudiants (tableau 18). Tableau 18. Indices de protestation non conventionelle (manifestation violente et occuper une école ou un appartement (% en ligne) Là encore les filles ne sont pas en reste. Des actions non légales, telles qu’occuper un appartement ou une école ne leur font pas peur: si le premier type d’action partagent davantage leur avis (28% d’entre elles déclarent qu’elles seraient prêtes à le faire contre 35% des garçons), elles ont en revanche moins de réticence que les garçons envers le fait d’occuper une école (42% déclarent qu’elles pour484 raient participer à ce type d’action contre seulement 34% des garçons). Si la légalité n’est pas ce qui fixe pour elles les bornes de leur mobilisation collective, en revanche elles sont très nettement en retrait de toute action violente. Leur refus dans ce domaine est quasiment unanime: 90% d’entre elles déclarent ne vouloir en aucun cas participer à ce type d’action (contre 69% des garçons). L’orientation idéologique permet de caractériser les types d’action politique. Si la participation politique menée dans un cadre institutionnel, tel que les partis politiques et les syndicats, réclame un positionnement politique quel qu’il soit, à gauche ou à droite, mais un positionnement (les jeunes indécis, ne se déclarant ni de gauche ni de droite, ne sont que 7% à avoir un indice élevé de participation sur cette dimension), les autres formes d’expression sont orientées de façon nettement différenciée selon les allégeances idéologiques. Le potentiel protestataire, se manifestant de façon plus ou moins radicale, plus ou moins violente, se situe très clairement du côté de la gauche. Il reste profondément ancré dans la culture politique de la gauche, et dans une tradition d’action collective léguée par le mouvement ouvrier. 43% des jeunes se situant à gauche ont participé à une grève ou à une manifestation (contre 18% des jeunes de droite et 22% des indécis) et plus du tiers ont un indice de protestation élevé (33% contre 7% des jeunes de droite et 17% des jeunes indécis). Lorsqu’il y a absence de positionnement politique, l’intervention et la participation dans le champ politique ont donc davantage de chances de se produire au travers de mobilisations collectives ou encore d’expressions non conventionnelles, voire violentes, qu’au travers de formes partisanes ou syndicales. Ce potentiel protestataire doit d’ailleurs être référé au plus grand retrait qu’ils manifestent à l’égard de la participation électorale, pouvant les conduire à d’autres formes d’intervention politique. Enfin, le rapport de confiance envers les institutions politiques joue un rôle décisif (tableau 19). Plus le niveau de confiance est positif plus l’indice de participation institutionnelle est élevé. Cela se vérifie tout particulièrement dans le cas des jeunes italiens. Ce sont eux qui témoignent du niveau de confiance le plus élevé envers les institutions et eux aussi qui ont la disponibilité la plus grande pour s’engager dans une activité partisane ou électorale. Le fait d’avoir confiance favorise également certaines for485 mes de mobilisation collective, telles que les manifestations pacifiques ou la pratique de la grève. En revanche, c’est parmi les jeunes dont le niveau de confiance est faible que le potentiel de protestation violente ou illicite est le plus élevé (27% contre 19% parmi ceux qui ont un niveau de confiance élevé). La légitimité et la crédibilité accordée au système politique et à ses institutions conditionne donc non seulement le rapport au politique des citoyens, leurs représentations, mais aussi leurs modes d’expression et d’intervention sur la scène publique. Tableau 19. Modes de partecipation politique selon l’orietation gauchedroite et selon le degré de confiance dans les institutions politiques (%) 9. Des repères pour l’action: des événements, des enjeux, des causes à défendre Comment les jeunes perçoivent-ils les enjeux de société et plus directement les événements politiques auxquels ils sont confrontés? Si le contexte familial et les conditions de leur inscription sociale définissent les contours de leur intégration politique, la façon dont ils vont décrypter l’environnement politique, à l’échelle nationale ou supranationale, va aussi peser sur les conditions de leur participation politique. La hiérarchie des problèmes à résoudre, la façon dont leurs sensibilités ou leurs positionnements idéologiques vont se polariser selon le contexte politique, leurs mouvements de révolte ou d’adhésion face à certains enjeux ou à certaines situations, vont contribuer à préciser les attributs de leur personnalité politique. Nous disposons dans l’enquête de deux questions permettant de cerner des modes de hiérarchisation de ces enjeux. Par delà les 486 attitudes que ces derniers suscitent, différentes formes de décryptage du politique peuvent être identifiées. Au travers des réactions des jeunes, différents univers de représentations, d’interprétations et d’entendement du monde social et politique environnant sont donnés à voir. La première question propose aux jeunes une liste déterminée d’événements et leur demande de dire celui qui les a le plus marqué politiquement. Il s’agit cette fois de mettre au jour les marqueurs d’une identité moins individuelle que collective ou générationnelle, et moins référée au passé qu’au présent. La seconde question permet de hiérarchiser différents enjeux politiques en fonction d’une projection dans l’avenir, les jeunes devant préciser à partir d’une liste préalablement définie, le problème qui les préoccupe le plus pour l’avenir de l’humanité. L’individu est interpellé dans ce cas moins à partir de son expérience personnelle qu’en fonction de l’évaluation qu’il fait de ce problème pour l’ensemble de la collectivité. Ainsi ces deux questions nous permettent-elles d’articuler différentes temporalités, le passé, le présent et l’avenir, et de saisir la perception des enjeux et des événements politiques à partir de logiques à la fois individuelles et collectives. Si l’on retient l’interprétation de Mannheim pour définir une génération, comme “l’être-ensemble spécifique des individus réunis dans l’unité de génération” et “par le fait qu’elle participe en parallèle à la même période du devenir collectif” (Mannheim 1928, 41 et 52), la classification donnée par les jeunes des événements politiques qui les ont le plus marqué politiquement fournit quelques indications sur cet “être-ensemble”, et sur ses chances de se nouer, de se concrétiser. Car comme le précise encore Karl Mannheim, la perception de celui-ci ne débouche pas nécessairement sur la production d’un “groupe concret” d’appartenance et de reconnaissance. Telle qu’elle apparaît au travers des réponses, l’identité politique générationnelle, si tant est qu’il puisse en exister une et qu’elle puisse être appréhendée au travers de cette question, appréciée à l’aune des événements marquants, apparaît en effet très éclatée, non seulement entre les jeunes à l’intérieur de chacun des pays, mais aussi entre les trois pays (tableau 20). Si l’événement le plus cité par les jeunes français est la chute du mur de Berlin (26% contre 20% des jeunes italiens et seule487 488 Tableau 20. Type d’évènements qui ont le plus manqué politiquement (% en ligne) ment 9% des espagnols), c’est la guerre de Bosnie qui retient le plus l’attention des jeunes italiens et des jeunes espagnols (respectivement 25% des réponses contre seulement 13% des jeunes français). Mais dans l’un et l’autre cas, il est intéressant de le noter, il s’agit d’événements ayant eu lieu hors du territoire national de chacun des trois pays concernés, désignant l’histoire politique européenne récente. En dehors de ce fait historique majeur, les autres événements apparaissent en ordre relativement dispersés et sont évoqués de façon différenciée non seulement par les jeunes des trois pays, mais aussi par les étudiants et par les chômeurs. En France, les étudiants premiers sont plus sensibles au contexte international, et outre le fait qu’ils évoquent davantage la chute du mur de Berlin, ils retiennent aussi plus fréquemment la construction de l’Europe, bien que l’enjeu de celle-ci reste dans l’ensemble peu investi, c’est à souligner, et la guerre en Bosnie. Les chômeurs français sont davantage marqués par des événements se référant à la mobilisation collective, comme l’intervention des forces de l’ordre pour déloger les sans papiers de l’église St. Bernard. Ils se montrent aussi plus attentifs aux dérapages de la vie politique elle-même et à la mise en accusation des hommes politiques pour corruption, et ce d’autant plus que le niveau d’études est faible. Leur rapport à la politique semble se construire dans une logique plus contestataire, mais aussi plus solidaire avec les plus démunis, et ce d’autant plus lorsqu’ils sont de gauche. Pour près du quart des jeunes chômeurs de gauche (24%) l’intervention des forces de l’ordre contre les sans papier est l’événement qui les a le plus marqué politiquement. Si la question des sans papier et des réfugiés politiques retient l’attention d’une proportion non négligeable de français, en revanche elle devient marginale pour les italiens et inexistante pour les jeunes espagnols. Les discussions et les projets de loi sur l’immigration ont fait l’objet de clivages et d’affrontements sur la scène politique française dans la période récente, et peuvent expliquer cette focalisation des jeunes français sur ce point. On notera que la corruption politique soucie davantage les jeunes italiens et les jeunes espagnols (respectivement 20% et 23% contre seulement 11% des français). C’est une question qui fait davantage problème pour les jeunes de droite que pour les jeunes de gauche. Enfin, même si les espagnols se montrent plus concernés par la construction européenne, 489 et tout particulièrement par les jeunes espagnols de droite, il faut convenir que l’enjeu de celle-ci reste dans l’ensemble peu investi. Les orientations politiques des jeunes jouent un rôle non négligeable dans le choix des événements. A gauche l’attention portée aux questions humanitaires ou à la solidarité envers les plus démunis est plus marquée, tandis qu’à droite c’est la corruption politique ou la construction européenne qui focalisent davantage les réponses de jeunes. Ceux qui ne se classent ni à gauche ni à droite retiennent plus fréquemment la guerre du golf comme événement fondateur. La seconde question permet d’envisager la façon dont le contexte politique est perçu quant à ses enjeux futurs, et du même coup d’apprécier, comme en négatif ou en creux, les attentes des jeunes en matière de politique. Là encore les réponses apparaissent assez diversifiées selon les pays et selon les situations des jeunes. En France, c’est de loin le chômage qui constitue leur préoccupation la plus importante. Pour près du tiers d’entre eux (31%), il est le problème le plus important pour le futur de l’humanité, et cette proportion grimpe à 44% parmi les chômeurs, et à 63% lorsque les jeunes n’ont pas de diplôme ou seulement un niveau d’études peu élevé (tableau 21). Ces derniers ne font qu’exprimer une crainte bien réelle puisque ce sont les jeunes les moins qualifiés qui sont les plus durement touchés par le chômage en France aujourd’hui. L’enjeu du chômage, on le voit, bien que pour tous premier, n’a pas la même urgence, et donc pas la même implication politique, selon les situations d’insertion sociale des jeunes eux-mêmes. Les italiens mettent eux aussi le chômage en tête de leurs préoccupations (28%), juste avant la crise des valeurs (27%) qui occupe chez eux, et tout particulièrement au sein de la population étudiante et dans le cas d’une orientation idéologique à droite, une place nettement plus préoccupante que chez les jeunes des deux autres pays. Les chômeurs espagnols affirment leur singularité en se tournant vers le reste de la planète. Plus d’un jeune chômeur sur deux (53%) cite la faim dans le monde comme le sujet de préoccupation le plus important (contre seulement 19% des chômeurs français et 16% des chômeurs italiens). Mais quel que soit le pays, cette préoccupation est toujours plus manifeste parmi les jeunes de gauche, dont on a vu la sensibilité plus marquée envers l’injustice sociale, les inégalités et l’humanitaire. 490 Tableau 21. Le problème le plus important pour le futur de l’humanité (% en ligne) 491 L’intégrisme religieux ne fait l’objet d’une réelle inquiétude que de la part des jeunes français (16% contre seulement 6% des italiens et 9% des chômeurs). Enfin, on remarquera le peu d’intérêt accordé par les jeunes français aux problèmes liés à l’environnement et à la pollution. C’est en effet, le problème qui apparaît en dernier dans l’ordre de leurs préoccupations pour le futur de l’humanité, avec seulement 8% de réponses. En revanche, les italiens semblent davantage concernés par ce problème (19%). Au terme de cette évaluation de la perception des enjeux politiques, nous pouvons dégager les deux enseignements suivants: — La différenciation apparaît moins nette en Italie, sans doute liée au niveau de formation plus important des chômeurs italiens, mais des différences de perception existent entre les étudiants et les chômeurs français et espagnols, qui révèlent bien sinon une continuité, en tous cas une cohérence, entre les formes du lien social et les formes du lien politique. Les étudiants, plus assurés quant à leur avenir, et disposant d’un capital social et culturel plus favorisé, se montrent plus ouverts sur les enjeux à la fois institutionnels et internationaux. Les chômeurs, en plus grande situation de fragilité sociale, sont plus sensibles aux conditions même de l’insertion sociale des individus, qu’il s’agisse du chômage ou de la situation des sans papier, dans le cadre même de la société française, mais aussi de la faim dans le monde en ce qui concerne les jeunes chômeurs espagnols. Les écarts enregistrés quant aux jugements qu’ils portent sur leur situation personnelle sont de ce point de vue révélateurs. Les jeunes chômeurs sont toujours plus nombreux à penser que leur situation future sera meilleure que leur situation actuelle; ce sont les jeunes chômeurs espagnols qui sont les plus optimistes (70% contre 66% des chômeurs français et 64% des chômeurs italiens). Mais l’Espagne se distingue aussi par une autre caractéristique: ce sont les étudiants espagnols qui sont les plus inquiets quant à leur avenir, les plus pessimistes (11% d’entre eux pensent que leur situation va se dégrader, les étudiants italiens sont 7% et les étudiants français 6% à penser de même) (tableau 22). — L’orientation idéologique établit aussi des lignes de clivage dans la perception du contexte politique. Quels que soient les pays, les jeunes de gauche restent toujours plus concernés par les luttes sociales ou politiques à mener et à l’humanitaire, et s’inscrivent davantage dans une logique de dénonciation, tandis que les 492 jeunes de droite se caractérisent par une attention plus marquée envers la politique institutionnelle, qu’il s’agisse de la construction européenne ou de l’attention portée aux affaires de corruption des hommes politiques, ainsi que par un attachement plus marqué envers les valeurs traditionnelles de la société. Excepté pour l’Europe, leur ouverture au monde est nettement moins marquée. Tableau 22. Optimisme ou pessímisme par rapport à sa situation personelle future 493 494 CAPITOLO DICIASSETTESIMO LA SOCIALIZACIÓN DE LOS JÓVENES Y SU DISPOSICIÓN A LA ACCIÓN POLÍTICA 1. Presupuestos teóricos y metodológicos En este trabajo la disposición a la acción aparece como resultante de un conjunto de elementos. Entre ellos destacamos aquí la ideología política, así como la percepción que los individuos tienen sobre la “fluidez” en la movilidad socioeconómica en base a la noción de logro, expresado éste como “estatus sociolaboral” alcanzable. Un tercer elemento determinante de la disposición a la acción política es de índole transversal generacional en el sentido de la acción que se lleva a cabo mediante la socialización política (transmisión de valores y actitudes políticas) en el ámbito de la familia. En el análisis que aquí presentamos se conjugan los efectos de la variables individuales, integrándolos más adelante en un sistema superior definido por la unidad familiar. Los datos analizados provienen de las dos encuestas simultáneas realizadas a padres e hijos (datos ligados) sobre las temáticas de socialización política y democracia, mercado de trabajo e integración laboral (vease apéndice metodológico). La percepción subjetiva de las metas individuales alcanzables en una sociedad implica una concepción más o menos elaborada acerca de la misma sociedad. Desde el punto de vista cognitivo, las trayectorias e itinerarios vitales del individuo son proyectados por éste sobre un mapa, un esquema del sistema social donde se situan los obstáculos y las posibles vías de acceso hacia las metas personales. Las perspectivas individuales de futuro relacionadas con la profesión son indicadores del estatus social alcanzable y Questo capitolo è stato scritto da Antonio Alaminos e Clemente Penalva. 495 una medición indirecta de la distancia entre la posición actual y la previsible futura. También muestra de manera implícita la idea en cuanto a movilidad social que se tiene de la red de relaciones sociales. Una concepción de red social fluida implica que los sujetos perciben factible la circulación de unas posiciones a otras tanto en sentido horizontal (división del trabajo desde el punto de vista funcional y de la especialización) como vertical (en las relaciones jerárquicas y de conocimiento). Por el contrario, si se concibe la red de relaciones sociales como densa esta circulación se ve más complicada y las expectativas de logro y progresión en estatus son más reducidas, teniendo como visión extrema el percibir la sociedad como estamental. Esta dicotomía fluido-denso o dinámicoestático impregna toda la teoría social moderna desde los inicios y acompaña a las definiciones de sociedad de clases, sociedad industrial, urbanización que han desarrollado desde los sociólogos clásicos hasta Parsons (tradición/modernidad) para explicar los procesos de transformación que han acontecido en las sociedades occidentales. Pero para el trabajo que nos ocupa no es tan importante este esquema teórico realizado desde la ciencia social, como el funcionamiento de este esquema en las interpretaciones, conductas y actitudes de los jóvenes y sus progenitores sobre el mundo social. Tanto para unos como para otros el punto de partida es la situación de estatus de los padres, y las metas son definidas en términos de incremento de ese estatus. El diagnóstico, por tanto, de las condiciones en las que se lleva a cabo este recorrido puede llevar a la integración, a la frustración, a la rebelión, el retraimiento o la innovación. Los mecanismos a través de los cuales se lleva a cabo el comportamiento y su traducción en la predisposición a la acción política ya han sido abordados por diversos autores en el sentido de producto del contraste entre fines socialmente establecidos y los medios disponibles para alcanzarlos (Merton 1964); o producto de la frustración como efecto del desajuste entre lo potencial y lo efectivo (Gurr 1970). Junto con el contraste entre lo deseable y lo posible real, la ideología juega un papel muy importante en la predisposición del individuo hacia la acción política. El concepto de ideología política ha sido tradicionalmente definido como un conjunto más o menos coherente de creencias, ideas, y representaciones mentales acerca 496 del orden social y político y del lugar que en el mismo ocupa el ciudadano. Esta definición situa a la ideología como elemento esencial de la cultura política. Como indicábamos anteriormente existe un conjunto de agentes que actuan sobre el individuo en el proceso de adquisición de una determinada cultura política y de una ideología, la familia es uno de ellos. En otro lugar se ha probado el peso del agente de socialización de la familia en la formación de la ideología así como la descomposición de ésta en sus componentes afectivos y cognitivos (Alaminos e Penalva 2000). La trascendencia sociopolítica de la ideología radica no sólo por ser la base de opiniones, gustos y prejuicios hacia objetos políticos sino porque también estimulan y justifican la acción política. Como veremos más adelante la ideología es uno de los factores que explican la acción política tanto para los progenitores como para los hijos. Algunos trabajos desarrollados por la sociología política también introducen el componente de las aspiraciones socioeconómicas como complemento de la ideología en la explicación de la acción política. Así la definición de metas tanto en su vertiente positiva (metas realizables) como en su vertiente negativa (metas frustradas) se relaciona con elaboraciones teóricas que explican la acción colectiva en relación a las expectativas frustradas de gratificaciones y recursos – modelos de privación relativa de Gurr (1970) y de J invertida de Davis (1969), respectivamente –, o que introducen la ideología como instrumento que favorece la elevación de la necesidad de éxito – el concepto de clima ideológico de McClelland (1961) y Lipset (1967). Otro trabajo que vincula las actividades de protesta política con variables educativas, clase social y valores (materialista/ postmaterialistas) es el de Inglehart (1990). 2. Definición de conceptos y variables Son cuatro los conceptos que se operacionalizan en este trabajo: disposición a la acción política, expectativas de logro, limitaciones del logro e ideología. Todos surgen de diferentes trasformaciones en los datos procedentes de la encuesta realizada sobre los jóvenes y sus progenitores en España. 497 Se emplean dos variables para probar la importancia de las expectativas y la definición de metas en el terreno socioloboral, en el sentido de ser indicador de las aspiraciones de estatus de los individuos en relación con su imagen de la red de relaciones sociales. Estas dos variables, expectativas de logro (metas realizables) y limitaciones del logro (metas frustradas), se obtienen a partir de la combinación de 24 variables surgidas tras solicitar al entrevistado que se posicione (en cuanto a las posibilidades de ejercer una lista de 12 profesiones) en la doble dicotomía realista/no realista y le gustaría/no le gustaría. Estas 12 profesiones de la lista son las siguientes: Dirigente ente público, Dirigente empresa privada, Asesor Fiscal, Marketing, Periodista, Funcionario, Diplomático, Investigador, Profesor, Empresario, Político, Dirigente de ONG. La variable expectativas de logro (metas realizables) procede de un saldo entre el número de profesiones que el entrevistado ve posible que se puedan ejercer por parte del hijo (sí es posible – desde una perspectiva realista – que las ejerza) menos la suma de profesiones que no ve posible que se puedan ejercer (no es posible – desde un punto de vista realista – que las ejerza). Contiene pues incorporado un elemento objetivo ya que evalúan las condiciones del contexto social, en el sentido que saldo positivo indica que el entrevistado observa la capacidad de lograr objetivos relacionados con la profesión y, en segundo lugar, que concibe una sociedad abierta, donde las condiciones para la movilidad social (inserción laboral, promoción) son buenas. Por el contrario, un saldo negativo indica menos confianza, desde el punto de vista personal, y una concepción menos optimista de la realidad social y de las condiciones y medios disponibles para el logro. El hecho de que la variable apunte en dos direcciones (confianza y representaciones de la movilidad social) se debe a que los ítems situados en la pregunta contienen profesiones de status medio-alto. La variable limitaciones del logro (metas frustadas) es el resultado de la suma de las profesiones deseadas (en la pregunta la respuesta me gustaría) que coinciden con la percepción de que no se pueden ejercer (en la pregunta, la respuesta no es realista). Esta variable apunta hacia la frustración por el hecho de indicar el volumen de deseos que se perciben como no realizables. Su carga subjetiva es mayor al vincularse al deseo personal de fijación de metas. Si la variable expectativas de logro se refiere al poder ser 498 (estatus), poder hacer (capacidad); las metas frustradas se refieren al no poder ser y el no poder hacer del sujeto que responde1 . Cuanto mayor es el volumen de profesiones que el entrevistado ve no posibles desde el punto de vista objetivo (realista) que al mismo tiempo son deseadas (me gustaría), un mayor nivel de limitación encontraremos en torno a las metas y un mayor pesimismo aparecerá en torno a las expectativas del sistema social. Por el contrario, si disminuye el número de profesiones no deseadas, el ajuste entre deseo y metas realizables será mayor y el nivel de frustración será más bajo. El hecho de que estas variables se basen en los elementos de definición de estatus de la profesión teniendo como referencia el ascenso en la escala social, el logro y la recuperación del capital humano invertido nos permite introducirlas como indicadores del ajuste entre el nivel de aspiración y el nivel de oportunidades de los que habla Bourdieu en La distinción (Bourdieu 1988). Por otro lado, el hecho de que cada una de las variables se aplique a los sujetos de diferentes generaciones (metas realizables para progenitores, metas frustradas para los hijos) viene dado por el diferente momento del ciclo vital. Mientras la primera es una evaluación indirecta desde la experiencia del adulto que se proyecta sobre las potencialidades del hijo, la segunda es una evaluación directa, más acorde con las expectativas que el entrevistado tiene sobre su futuro. Mientras la primera es una evaluación subjetiva sobre las potencialidades del hijo en relación con el estatus, y la movilidad funcional y jerárquica, la segunda es una valoración subjetiva sobre sí mismo de las limitaciones a la movilidad. La variable disposición a la acción política proviene de la suma de acciones que el entrevistado declara haber realizado (o estar dispuesto a realizar) con fines revindicativos (sociopolíticos y laborales). La pregunta del cuestionario de la cual procede esta variable incluye el siguiente repertorio de actividades: afiliarme a un partido político; contribuir a una campaña electoral; hacer una huelga; manifestarme pacíficamente; manifestarme violentamente; ocupar una casa; ocupar mi lugar de trabajo; portar sím- La variable optimismo oscila entre los valores -12 y +12, mientras que el rango teórico de la variable frustración oscila entre 0 y 12. 1 499 bolos; firmar en apoyo de propuestas políticas; y expresar solidaridad participando en actos testimoniales. Como se puede observar, esta variable ofrece una definición más amplia de participación política que va más allá de la mera respuesta en una convocatoria electoral. En diferentes formas en relación al cierre, al número y al tipo de ítems (Milbrath 1965; Duverger 1974 lo cita en forma de escalograma de Guttman), esta pregunta se viene usando desde hace varias décadas para medir el grado de participación política. Cuanto más alta sea la puntuación en esta variable mayor será la inclinación del sujeto a participar activamente en la transformación del sistema social. En lo relativo a la variable ideología se ha empleado la escala de autoubicación ideológica, con un solo indicador. Esta escala es empleada con frecuencia en los estudios de opinión política en España desde finales de los años 70, y sustituye con eficacia escalas multiindicadoras para captar la variabilidad en el eje izquierda-derecha. 3. Análisis y resultados A partir de los datos de las encuestas se va observar en qué medida se relacionan estos cuatro conceptos2 . En un primer momento se va a comprobar cómo se relacionan ideología y expectativas de futuro con la acción política independientemente de la transmisión intergeneracional, y más adelante se introducirá este aspecto para comprobar las influencias del entorno familiar en la formación de las actitudes políticas: cómo influye sobre los hijos la ideología de los padres y su disposición a la acción política, así como el grado de ajuste entre las actitudes políticas de los cónyuges. La disposición a la acción política en los jóvenes. Si consideramos aisladamente a los jóvenes, es decir, sin tener en cuenta su posición estructural en el grupo familiar – su rol de hijo – y atendiendo a una fase en su ciclo vital, podemos apreciar cómo el fac- El análisis se ha efectuado mediante el empleo del LISREL (modelado de ecuaciones estructurales) 2 500 tor ideológico tiene un peso muy importante en contraste con el factor de expectativas socioeconómicas. De todas formas, como se observa en la solución estandardizada de la fórmula de regresión, se comprueba la consistencia de la triada acción política/ideología/expectativas en torno a la movilidad social (limitaciones al logro). DAH= -0,23 IDEOH + 0,21 LIMITH (0,06) (0,06) -3,5 3,5 R2= 0,10 donde, DAH es la disposición a la acción política del hijo; IDEOH es la ideología del hijo; LIMITH es la percepción de limitación de logro del hijo Esto significa que la acción política viene explicada por el factor ideológico y el de expectativas de futuro. Cuanto más de izquierdas son los jóvenes (el signo negativo así lo indica) y cuanto más limitaciones perciben en torno a la movilidad social mayor predisposición a la acción muestran. Como se observará más adelante en el análisis de los factores socializantes presentes en el interior de la familia se confirma para los 90 la todavía presente relación entre ideología progresista y actitud política transformadora. La influencia de las metas frustradas en la acción política puede ser interpretada como una postura de reacción ante un sistema social denso en cuanto a la movilidad social. Una vez presentados los resultados individuales para el colectivo de los jóvenes, el siguiente paso es integrar a los diferentes individuos dentro de la estructura familiar, tanto en términos generacionales como de roles de género. En el gráfico se expresan la transmisión del comportamiento político según el peso de las diferentes variables en la acción política. Los siguientes epígrafes desarrollan las relaciones encontradas en torno a la transmisión haciendo referencia a las soluciones estandardizadas del modelo. 501 IDEOH = 0,34 IDEOM + 0,32 IDEOP (0,06) (0,06) 5,27 4,95 R2= 0,35 DAH = -0.19 IDEOH + 0.13DAP + 0.20 LIMITH R2= 0,10 (0,06) (0,06) (0,06) -2,99 1,97 3,20 DAP = 0,37 DAM - 0,30 IDEOP + 0,14 EXPECTP (0,05) (0,05) (0,01) 6,53 -5,38 2,58 DAM = -0.28 IDEOM + 0.15 EXPECTM (0,06) (0,01) -4,0 2,44 R2= 0,30 R2= 0,09 donde, DAH es la disposición a la acción política del hijo; DAP es la disposición a la acción política del padre; DAM es la disposición a la acción política de la madre; IDEOH es la ideología del hijo; IDEOP es la ideología del padre; IDEOM es la ideología de la madre; LIMITH es la percepción de limitaciones del logro del hijo; 502 EXPECTM es la expectativa de logro de la madre; EXPECTP es la expectativa de logro del padre. 4. Expectativas de futuro e ideología en la predisposición a la acción política A partir del análisis de los datos, se observa cómo existe una relación positiva entre la definición de metas posibles (padres), como en la definición de metas frustadas (hijos) con la predisposición a la acción política. Se detecta tanto para los padres, si el futuro se observa como un amplio abanico de posibilidades desde el punto de vista de la capacidad personal de los hijos y desde la percepción de que es posible alcanzar metas; como para los hijos, si las expectativas de futuro se perciben como un conjunto de deseos frustrados. El posibilismo de los padres y la percepción de limitaciones de los hijos inducen a la acción política en el sentido de contribuir a cambiar la sociedad. Al posibilismo (metas posibles) se le puede asociar el componente transformador siguiendo más o menos un modelo ideal (adaptar la sociedad a las metas personales), a la percepción de limitaciones (metas frustradas) se le asocia el componente privativo (reproche y denuncia de las carencias de un sistema que no permite recuperar el capital humano invertido). Se puede ver también que el componente privativo (limitaciones del logro) de los jóvenes tiene más fuerza que las expectativas de logro de los progenitores tal y como muestran los coeficientes: 0,20 para los hijos, frente al 0,15 y 0,14 de la madre y el padre, respectivamente. Considerando aisladamente las dos variables netamente políticas, la relación entre ideología y disposición a la acción política es negativa; lo cual quiere decir que cuanto más a la izquierda se autoubica el joven, mayor es la probabilidad de que participe o haya participado en mayor número de actividades de acción política. Se ha de recordar que la escala de autoposicionamiento ideológico reserva las puntuaciones más bajas a la izquierda, de ahí esa relación negativa. Esto indica, pues, una mayor predisposición a la movilización política por parte de los jóvenes de izquierda, algo ya detectado en otros estudios también para el resto de gru503 pos de edad. Se confirma, pues, para los años 90 la tradicional asociación entre el progresismo y las actitudes revindicativas. La relación se ve más fuerte en los pregenitores: en las madres cada cambio en una unidad en la ideología es un cambio de -0,28 en la disposición a la acción política, y un -0,30 en los padres. En los hijos es menor aunque también conserva suficiente fuerza (-0,19). No obstante, no existe relación significativa entre ideología y expectativas de logro. La ideología, por tanto, no incide en las expectativas de orden profesional y de estatus, aunque sí coincida con éstas en la explicación de la acción política. A pesar de ello, podemos concluir que la triada expectativas de futuro, ideología y disposición a la acción política es consistente para tanto para cada uno de los padres como para los hijos. 5. Transmisión de ideología y actitudes políticas entre generaciones En este apartado, a través del análisis de los datos, recuperamos el asunto con el que hemos iniciado este trabajo: el papel de la familia en la socialización política. Por un lado, igual que hemos realizado con los jóvenes, se observarán las fuentes de la acción política de los propios padres (ideólogícas y de expectativas, en este caso las que se proyectan sobre los hijos); y por otro, se observará el grado de influencia de los diferentes progenitores (atendiendo al género de los mismos) sobre las expectativas, ideología y disposición a la acción política de los hijos. El componente de estatus de las expectativas sociolaborales de los hijos adquiere mayor significado cuando son consideradas por los padres, en la medida en que el ascenso social de los descendientes comprende una evaluación de la realidad de los progenitores. En las expectativas de movilidad social que los padres imaginan sobre los hijos quedan implicados numerosos aspectos relacionados de la estructura social: las experiencias vitales (políticas, laborales y económicas) pasadas, la consideración de la posición social alcanzada como punto de partida de las aspiraciones de estatus y la influencia que a través de la socialización y de la inversión en capital humano se ejerce sobre los hijos. Es lógico que una vez superadas diferentes fases del ciclo vital (formación, integración laboral, autonomía, matrimonio, descendencia) se desplace el punto de re504 ferencia de las actitudes, valores y acciones desde las realizaciones personales hacia las realizaciones potenciales de los hijos. Se observa que cuanto mayores son las puntuaciones en cuanto a las expectativas de logro de los hijos, mayor disposición a la acción política, tal y como hemos visto que ocurre en los hijos. Esto se da únicamente en los padres, por lo tanto, se observa una afinidad en cuanto a las fuentes de movilización política (las perspectivas de incremento de estatus) entre los hijos y sus progenitores masculinos. En lo relativo a la ideología, los datos indican, al igual que en los hijos, que conforme más de izquierdas son los padres mayor es la predisposición a la acción política. Esto se da tanto en el padre como en la madre, lo que añadido a la relación positiva entre ambas ideologías da como resultado que la disposición a la acción política es mayor cuando existe sintonía ideológica entre ambos progenitores. La familia – ya se ha visto en otros análisis (Alaminos e Penalva 2000) – conserva el papel de agente de socialización política, como fuente de transmisión de la ideología entre generaciones queda manifiesto en este análisis. En los datos se observa una importante sintonía en el posicionamiento ideológico de ambos progenitores y los hijos con unos coeficientes de correlación del 0,34 en el caso de las madres, y del 0,32 en el caso de los padres. Como en el anterior estudio citado, se muestra en este trabajo un indicador de la inexistencia de conflicto intergeneracional – algo más común hace algunas décadas –, en el sentido de que las actitudes de los hijos no muestran una propensión reactiva frente a las actitudes de sus progenitores. Si añadimos estos resultados al modelo global de transmisión intergeneracional de actitudes políticas se observa como fuente indirecta de la disposición a la acción de los jóvenes el efecto socializador de la familia a través de la ideología política. En este apartado es donde mayores diferencias se observan en cuanto al papel desempeñado por los diferentes progenitores. Los jóvenes reciben influencia de los padres en cuanto a las acciones políticas que se puede interpretar como identificación a partir de las experiencias vividas en el entorno familiar. La influencia de la madre, no obstante, actúa de una manera indirecta sobre los hijos al incidir sobre la disposición a la acción política del padre. Como se observa en el análisis existe una fuerte correlación entre ambas disposiciones a la acción política, la del padre y la de la madre. Esto se puede interpretar como que la madre desempeña un 505 rol central en las actitudes políticas de los miembros de la familia ya que su disposición a la acción regula en el sentido positivo de potenciación, y en el negativo de contención, las acciones políticas del padre. Continuando con el modelo desde la perpectiva de la transmisión, la disposición a la acción política de los hijos bebe de tres fuentes: una directa a través de la imitación de las acciones políticas de la figura paterna; y otras dos indirectas, una primera a través de la ideología de ambos progenitores y una segunda a través de la influencia que la disposición a la acción política que la madre ejerce a través del padre. Los resultados de los análisis efectuados son consistentes con estudios previos en los cuales se comprueba la existencia de transmisión entre generaciones de valores y actitudes políticas. La familia, por tanto, sigue teniendo un papel importante como agente de socialización política en la cultura política. En el caso de la disposición a la acción política se ha observado la diferente incidencia de los diferentes roles de los progenitores en su creación. Mientras el rol de padre ejerce una influencia directa a través de su propia acción política, el rol de la madre presenta un efecto indirecto a través de la influencia que ejerce sobre el padre. En el caso de la ideología la relación es directa por parte de ambos progenitores. Se ha observado a través de los datos de este estudio que el papel de agente de socialización de la familia, en el sentido de ser base de creencias, hábitos, concepciones del mundo y de la sociedad y que se entiende como cultura de grupo, actúa sobre las cuestiones políticas (acción política) e ideológicas pero no hace lo mismo sobre las cuestiones socioeconómicas medidas a través del componente de estatus de la profesión3. No existen relaciones estadísticamente significativas entre las expectativas de logro de los padres y las expectativas de logro de los hijos cuando fueron operativizadas de la misma forma. Los estudios realizados hasta el momento por los mismos autores para el caso español consolidan la hipótesis de las limitaciones de la socialización en el entorno familiar para los valores y actitudes económicas (relación entre las expectativas de los progenitores sobre los hijos y las acciones de los mismos para inducir conductas dirigidas hacia objetivos – la instrucción general o particular sobre determinadas habilidades – y el componente personal del hijo que adapta, asimila o rechaza estas indicaciones) En ese sentido la eficacia es mucho mayor en la transmisión de valores cívicos y políticos. 3 506 CAPITOLO DICIOTTESIMO ¿REAL O VIRTUAL?: LA OTRA PARTICIPACIÓN POLÍTICA JUVENIL 1. Los nuevos escenarios de la política Una gran parte de los análisis que sobre la participación política juvenil se vienen realizando tienen poco en cuenta las transformaciones producidas en nuestros sistemas democráticos. Con una perspectiva un tanto estática, se sigue enfocando esta participación como exclusivamente ligada a la militancia en partidos y a los rituales electorales. Como si esta fuera la única forma de hacerlo, o como si la política siguiera circunscribiéndose hoy al único juego de partidos y elecciones. Por el contrario, la política ha cambiado en no pocos aspectos, y la participación en ella se hace hoy de manera mucho más diversificada que algunos lustros atrás. Es cierto que nuestras tres sociedades de referencia han tenido una historia reciente muy diferente, que hace en ocasiones difícil el análisis comparativo, pero en las tres han tenido lugar cambios importantes y en gran medida homologables. La diferencia más relevante es, sin duda, la que se refiere a la duración en cada una de ellas de la democracia: es el pasado más distante el que puede permitir comprender el mayor o menor arraigo de hábitos y valores democráticos. En tal sentido, la sociedad española, con una corta experiencia democrática, es la que ofrece una tradición apenas consolidada, lo que hace mas cuestionable establecer diferencias entre el presente juvenil y el pasado de los adultos. En sentido contrario, Francia e Italia han conocido períodos prolongados de estabilidad democrática, lo que posibilita, al menos, dos cosas. La primera, situar a los jóvenes de hoy en las tendencias que han preQuesto capitolo è stato scritto da Félix Ortega. 507 dominado en sus respectivas sociedades durante al menos medio siglo. La segunda, invocar un sentido de la política (de fuerte militancia ideologizada) que actualmente parece difuminarse. Pero a partir de estas diferencias, es posible establecer un marco de referencia bastante común para los tres países, y que no es otro que el de la década de los noventa del siglo XX. Una etapa, precisamente, en la que los jóvenes de hoy hay ido adquiriendo su conciencia política. Brevemente me referiré a los rasgos más generales del período, y que pueden ser válidos para las tres sociedades. En primer lugar, estamos ante una década política, la de los ’90, caracterizada por lo que Anne Muxel (1996b) ha denominado la “experiencia de la crisis”. Crisis del mitterandismo en Francia, de la 1ª República (disolución de partidos como la DC y el PSI, fin del pentapartito, etc.) en Italia, del socialismo en España. Las convulsiones que afectaron a estos gobiernos se convirtieron en la tónica dominante de sus respectivos países, y generaron un determinado clima de opinión pública no ciertamente muy favorable para la política. En segundo lugar, aun cuando el eje izquierda-derecha sigue conservando un cierto sentido, la política gubernamental deja de percibirse a través del mismo. O al menos no existe unas fronteras tan claramente delimitadas entre ese eje y los partidos políticos que convencionalmente se situaban a un lado o al otro. En tercer lugar, frente a la clásica concepción de la política como ámbito público, emerge con gran pujanza a todo lo largo de los años noventa la creencia de que lo público es una esfera bastante más amplia, en la que integran instituciones y acciones que no dimanan sólo ni preferentemente de la política. Es la época del protagonismo de la denominada “sociedad civil”. Pero una sociedad civil que bajo su pretendido enfrentamiento con la política lo que viene a hacer es desarrollar la política por otros medios. Primero, porque gran parte de su presencia depende de la financiación del Gobierno. Segundo, porque esta sociedad civil organizada es en no pocas ocasiones un grupo de presión que en definitiva busca en la política la realización de sus objetivos, pero sin asumir la responsabilidad ni los costos que de tal acción política se derivan. Mas en este nuevo escenario público, un protagonismo destacado corresponde a los mass-media. De hecho, no hay más ámbito público que el por ellos definido. Y en esta posición privilegiada 508 en lo público, los mass-media son competidores de la política. En la medida que se atribuyen la representación de la sociedad (por lo general reducida a la opinión pública), los medios disputan a la política su legitimidad para actuar en nombre de su sociedad (Ortega y Humanes 2000, cap. 3). La acción combinada de las organizaciones de la sociedad civil y los mass-media produce efectos contradictorios sobre la vida política y sus representaciones. De un lado, la desacreditación de la misma. A la política se la suele presentar por su lado más negativo: las corrupciones, tema dominante en la información política, y el alejamiento de los problemas inmediatos de los ciudadanos (para cuya resolución la sociedad civil se dota de sus propias organizaciones). De otro, en la medida en que estos nuevos agentes de lo público no prescinden de la política, sino todo lo contrario, contribuyen a reforzar la atención sobre los asuntos políticos. Despolitización/politización: he ahí el dilema de nuestro tiempo. Despolitización ya que la política es vista como un ámbito ineficaz y con una capacidad representativa debilitada. Pero politización porque organizaciones ciudadanas y mass-medios inducen a pensar que es posible una diferente forma de práctica política. El resultado suele ser que aunque el ciudadano tenga una opinión poco positiva de los políticos, sin embargo considera que la política (¿quizá la nueva, la que tiene lugar fuera de la estricta esfera política?) continua siendo importante. Es este entramado de instituciones y relaciones que engloban a la vieja política y a las nuevas formas de participación el que hoy debemos considerar como el genuino de sociedades avanzadas como las nuestras. Un entramado que debemos denominar “esfera pública”, y en la que intervienen actores muy diversos. Pero no debemos olvidar tampoco que estos diversos actores, aun proviniendo de ámbitos muy diferentes al de la política entendida en un sentido restringido, tienen un protagonismo y unos objetivos que son propiamente políticos. Esta crisis de la política tradicional, que es al mismo tiempo un florecimiento de una gran variedad de acciones políticas (no siempre reconocidas como tales por sus actores) empieza a encontrar sitio en algunos analistas políticos. Con perspectivas diversas podemos encontrar pruebas de ellos en obras como las Allum (1997), Minc (1995) o Vallespín (2000). Una tesis común a todas ellas es que el sistema democrá509 tico se ha transformado, la política tradicional se ha debilitado y que han aparecido nuevas formas de implicarse en la vida pública. De manera que si por un lado (el de la política institucional) cabe hablar de “déficit democrático”, por el otro quizá convenga sostener que vivimos un momento de “borrachera democrática”. Tal vez, nunca como ahora en la reciente historia de la democracia haya habido tanta y tan variada oferta para intervenir en el espacio público. Ni tampoco se hayan dado juntas, como en este momento, una crisis tan aguda de lo político y una proliferación de las prácticas políticas más allá del ámbito del que fueron exclusivas durante largo tiempo. Es en este contexto en el que nuestros jóvenes han accedido por vez primera a la vida política, tomando conciencia de la misma y teniendo la posibilidad real de participar en la misma. Pero si queremos comprender las peculiaridades de este acceso, es insuficiente el análisis de las vías convencionales de la vida política: los partidos y las elecciones. Y aunque estas modalidades siguen siendo centrales en la práctica democrática, no dan cuenta del mundo polifacético que al joven se le brinda. El circuito de la política se ha vuelto mucho más complejo, y al tiempo se ha desinstitucionalizado. Es más, parece como si aquello que se rechaza de la política, se hubiera convertido en comportamiento característico de otros ámbitos. 2. Los marcos cognitivos de los jóvenes La incorporación del joven a la política es antes resultado de procesos cognitivos que de prácticas concretas. En el largo proceso de socialización a que se encuentra sometido en nuestras sociedades, el joven toma conciencia de la política a través de los diveros mecanismos que están configurando en él un determinado tipo de personalidad y de ciudadano. No es objetivo de este capítulo dar cuenta de cómo se produce esta maduración personal en el campo político, sino el de poner de relieve qué tipos de acontecimientos son relevantes para él, y cómo tiene acceso a los mismos. Es por lo demás lógico suponer que esta impronta política tendrá influencia tanto en los valores políticos desarrollados por el joven, cuanto en sus futuros comportamientos en este ámbito. 510 La información que reflejan las diversas Tablas 1 nos indica, en primer lugar, una gran dispersión en las respuestas, en los tres países. En efecto, y aunque en menor medida en Francia, los jóvenes parecen otorgar relevancia personal a acontecimientos muy variados, de manera que para el conjunto de ellos no puede decirse que existe un hecho político relevante. De ser así, estaríamos ante un numeroso grupo social al que difícilmente podemos caracterizar como una “generación” en el sentido político de la expresión (Bettin 1999, 143 ss.). O si quiere, en relación con nuestros actuales jóvenes podríamos hablar de generación política sólo con la condición de entender por tal la ausencia de una matriz cognitiva común. Y ello debido a que sus experiencias culturales en este ámbito aparecen claramente fragmentadas y sin referentes claros y compartidos. Dentro de este mosaico de eventos dispares, es posible, en segundo lugar, señalar algunas líneas comunes y otras diferenciales al comparar los tres países. Así, todos estos jóvenes comparten una misma forma de aproximación a la política: destacan como hechos relevantes para ellos aquellos cuyo conocimiento parece provenir fundamentalmente de la información transmitida por los medios de comunicación. Es probable, empero, que no siempre el joven haya tenido noticia de tales acontecimientos usando personalmente los medios de comunicación. Dada la enorme influencia que dicen tener de sus progenitores en este terreno, es probable que sean éstos quienes les hayan hecho accesible, en un segundo momento, la información mediática a la que ellos se sometieron con anterioridad. En cualquiera de los casos, comprobamos que el marco de referencia político viene establecido por las agendas informativas. Y ello lleva a que predominen acontecimientos alejados del contexto social próximo al joven. Y que, en consecuencia, ciertos sucesos , comunes a las agendas informativas del sistema de la comunicación internacional, se conviertan en el principal horizonte de referencia compartido por nuestros jóvenes. Mas las diferencias entres países conviene no soslayarlas. Así, los jóvenes estudiantes franceses prestan más atención a los acontecimientos internacionales (la caída del muro de Berlín), mientras que si estos jóvenes son desempleados la percepción se centra más en temas nacionales (corrupción, inmigrantes). En el caso italiano, los jóvenes estudiantes destacan menos los asuntos inter511 Tabla 1a. ¿Qué acontecimientos te han influido más como ciudadano? (España, %) Acontecimientos (*) La caída del muro de Berlín La guerra del Golfo Parados 8,0 12,0 La corrupción de los políticos 20,9 La guerra civil en Bosnia 22,1 El cambio del gobierno 8,3 La construcción de Europa 13,8 Ninguno 11,2 Otros 3,6 (*) Preguntas con respuesta cerrada. Tabla 1b. ¿Qué acontecimientos te han influido más políticamente? (España, %) Acontecimientos (*) Votar 14,0 La corrupción del PSOE 14,9 La corrupción política en general 7,4 El 23 de febrero (golpe de Estado) 5,1 La dictadura 4,2 Estudiar historia 4,2 Estudiar en la universidad 4,0 Los atentados de ETA 3,5 El gobierno de derechas 3,5 Total 100,0 N (Total) (1200) (*) Preguntas susceptibles de respuesta abierta. 512 Estudiantes Tabla 1c. Tipos de acontecimientos que te han influido más políticamente (Francia, %) Acontecimientos Estudiantes Parados La caída del muro de Berlín 31 14 La guerra del Golfo 15 15 La guerra civil en Bosnia 13 10 La corrupción de los políticos 7 20 La construcción de Europa 12 8 Los sin papeles de St. Bernard 12 28 Otros 7 4 3 1 (609) (299) Sin respuesta Total (N) Tabla 1d. Hechos y personas políticamente importantes para la formación de tu conciencia política (Italia, %). Hechos La familia(parientes y otros) La escuela (encontrar un profesor, estudiar historia o filosofía, la democracia en la escuela) Los trabajos de la escuela Los amigos El primer voto y otros acontecimientos electorales Acontecimientos políticos nacionales Acontecimientos políticos internacionales Los momentos de participación (manifestaciones, congresos,ocupaciones) Encuentros con partidos o personajes políticos Los momentos de asociación Ninguno, no me acuerdo, todavía no me considero políticamente maduro Los medios de comunicación (periódicos, televisión) Total (N) Parados 4,6 Estudiantes 6,1 5,9 5,0 1,1 1,1 13,9 11,8 10,3 5,1 1,8 4,4 16,7 9,5 2,4 2,0 0,9 3,0 1,6 0,7 51 0,4 (594) 37,8 2,8 (1352) 513 nacionales y más los nacionales, y a la inversa sucede con los desempleados. Los españoles se parecen más a los italianos que a los franceses, aun cuando el perfil internacional de los desocupados y el nacional de los estudiantes es bastante más claro en los primeros que en los segundos. Es siempre arriesgado, con la sola información disponible, explicar estas tendencias. A título de hipótesis cabría pensar que la sociedad francesa, con una más larga y consolidada tradición democrática, hace que el estudiante sea más cosmopolita, atento a la dinámica de las relaciones internacionales, así como mejor informado. Y que a su vez, el desempleado otorgue una mayor relevancia a aquellos problemas de su entorno próximo. Pero no hemos de olvidar tampoco la influencia de los medios de comunicación, tradicionalmente más cosmopolitas que los de los otros dos países. En el caso italiano, es bastante probable que el estudiante, más usuario de los medios de comunicación que el desempleado, haya configurado su marco de referencia político a partir de una información política mayoritariamente volcada sobre los temas nacionales. Y que el desempleado manifieste una mayor preocupación por los asuntos internacionales en la medida que los vincule a problemas ligados a la presencia de inmigrantes. Ahora bien, es necesario subrayar que son precisamente estos desocupados quienes en mayor media no señalan acontecimientos políticos significativos, así como no se consideran todavía políticamente maduros. Lo que desde el punto de vista de las generaciones haría de estos desocupados un grupo políticamente indefinido, y tal vez más proclive a incorporarse a acciones políticas de naturaleza más marginal. La respuesta de los jóvenes españoles ofrece perfiles singulares: la corrupción política es el acontecimiento político más relevante, sobre todo para los estudiantes. Sin entrar ahora en otro tipo de análisis, hemos de señalar que la corrupción política ha sido, durante casi toda la década de los noventa, el criterio dominante en la información política de este país. Ello conduce a que cuanta mayor ha sido la exposición a los medios de comunicación, más probabilidades se tienen de convertir a la política en un territorio caracterizado por la corrupción. Tal parece ser el caso de los estudiantes. Quienes, a su vez, otorgan al hecho de votar por primera vez una cierta relevancia personal. Es verosímil que este significado provenga del ambiente familiar, de unos padres (de clase media 514 instruida) que han transmitido a sus hijos la importancia de esta posibilidad democrática frente a la negación de la misma durante la dictadura. Una mayor politización de los padres (socializados en el franquismo) de los estudiantes podría explicar estas diferencias con los desocupados. Y es probable que estos últimos, carentes de un contexto familiar como el de los estudiantes, se hayan dejado influir más por aquellos acontecimientos internacionales espectaculares reflejados por la televisión. Sea como fuere, cabe pensar que las tradiciones políticas de cada país, los contextos de socialización familiar y las peculiaridades del sistema de la información contribuyen decisivamente en el establecimiento de unos u otros marcos de referencia política. Y que por lo mismo la identidad política personal sigue vinculada a procesos concretos y localistas. Pero es imposible minusvalorar los elementos comunes a los jóvenes de los tres países, y que no son otros que aquellos que han conocido (directa o indirectamente) gracias a los medios de información. De manera que nos hallamos en presencia de unas cohortes juveniles con un grado información política elevado, posiblemente mayor que en cualquier otra época. A ellos se debe, de una parte, el acceso a acontecimientos tan lejanos de la percepción del joven como la caída del muro de Berlín, la guerra del Golfo o la guerra de Bosnia. Pero no menos se debe a ellos el tratamiento y la evaluación de las noticias referidas a ámbitos sociales más próximos. Más en concreto, a la conversión de la corrupción política en la línea informativa dominante, y a la inevitable comparación que establecen entre una política así valorada y el resto de instituciones sociales. Lo que hace a estos jóvenes no sólo más informados políticamente, sino más críticos de la política. Mas ello nos lleva, inevitablemente, a plantearnos el papel de la información política en relación con las orientaciones y comportamientos juveniles en el campo de la política. 3. Un mapa social mediáticamente organizado Que los jóvenes son usuarios privilegiados de los medios de comunicación es algo que confirman la práctica totalidad de las investigaciones empíricas. Han nacido en una sociedad en la tales medios formaban ya parte de su entorno, y a los que la familia 515 concede un destacado protagonismo en la fijación de los marcos de referencia cultural y social. Pero este trato asiduo con los medios no es sólo para el joven un dato de experiencia, sino que tiene indudables consecuencias para su inserción en la sociedad y muy especialmente en la política. De entrada, conviene percatarse que los medios de comunicación tienen ventajas frente a otras instancias socializadoras. En efecto, aquellos, aun funcionando en el escenario público, son percibidos como parte integrante del ámbito privado. En una sociedad que sobrevalora la vida privada, es indudable que una parte de esta percepción positiva ha de proyectarse sobre los medios de comunicación. Pero hay más. Al tratarse de instrumentos cuya utilización tiene lugar en el tiempo libre, también el prestigio de éste se traslada a los medios. E igualmente, dado que el este tiempo libre es visto como el “reino de la libertad” (frente al “reino de la necesidad” del estudio o del trabajo), es previsible que el joven usuario de medios de comunicación se encuentre ante ellos menos prejuiciado y más favorablemente dispuesto a tener en cuenta sus mensajes. De otras encuestas a jóvenes podemos inferir el creciente prestigio que entre ellos tiene el tiempo libre (vide, por ejemplo, para el caso español J. Elzo 1999). En segundo lugar, que en ese tiempo ocupa un lugar destacado el uso de los medios de comunicación. Lo cual no quiere decir, en tercer lugar, que en ellos se busque preferentemente información política. La televisión, que es el medio más usado, no son ciertamente sus contenidos políticos los que se prefieren. Como ponen de relieve los datos referidos a los jóvenes franceses (Tabla 2b), los programas de naturaleza política son poco seguidos por los jóvenes. Incluso los telediarios son escasamente vistos por los jóvenes. Mas, y no es paradoja, los jóvenes tienen su principal fuente de información política en los medios (como refleja la Tabla 2a referida a jóvenes desempleados españoles). Todo estos elementos unidos nos permiten formular algunas hipótesis: – Aunque los jóvenes disponen de mucha información, la obtienen de manera no sistemática; no siguen regularmente la información ofrecida por los medios. – Esta información pasa, indudablemente, por los filtros familiares, donde se comenta y valora; el signo de esta valoración se integra en el acervo de conocimiento del joven. 516 Tabla 2a. ¿Cuál es tu principal fuente de información política? (España, %) Fuente Parados Los periódicos 25,6 La radio 10,2 La televisión 50,9 Las revistas de información 0,3 Mis amigos 8,1 Mi madre 0,6 Mi padre 4,4 Total 100 N (Total) (359) Tabla 2b. Uso de los medios de comunicación (Francia, %) Estudiantes Parados sociedad en la televisión 44 61 Casi nunca o nunca leo el periódico 37 433 Me interesa poco o nada la política nacional 22 34 Me interesa poco o nada la política internacional 26 94 Me interesa poco o nada la política local 65 93 Veo todos los días el telediario 29 61 Leo todos los días un periódico 13 18 (609) (299) Casi nunca o nunca veo un debate político o de Total (N) – Una información no sistemática es probable que tienda a subrayar especialmente hechos espectaculares o que se presentan como tales: es la espectacularización de la política, a que el joven parece estar bastante habituado.. – Una información no sistemática y espectacular es igualmente probable que haga menos comprensible y explicable la política, reducida a noticias llamativas y a valoraciones drásticas. – Es no menos probable que de esta información tienda a ocupar el primer plano de la atención aquella que se personaliza. – En este juego de personalizaciones es pensable que el crédi517 to que se otorga a la información tenga directa relación con el crédito que se otorga a los periodistas que la transmiten. – Por último, dado que el joven no suele tener (o tiene poca) experiencia directa del orden institucional, puede acabar por asimilar el mismo esquema de valoraciones acerca del mismo que el que le ofrece la información mediática. De todo ello hemos de inferir, como lo hace Muxel (1996b), que los periodistas actuales disponen de un poder como nunca antes tuvieron, ya que han venido a ocupar el lugar que antes correspondió a los políticos. Y es por lo mismo razonable pensar que sus orientaciones ideológicas de estos profesionales (aunque no sean siempre explícitas) tenderán a colonizar el mundo de la vida política juvenil. Al menos para el caso español hemos puesto re relieve (Ortega y Humanes 2000, 217 ss.) que los periodistas tienen un destacado papel en la socialización política de los jóvenes a través de la configuración de un mapa político dicotómico. De un lado, la política institucional, corrupta e ineficaz; del otro, una sociedad civil pujante, solidaria y altruista, en la que residirían los valores las acciones más deseables. Pues bien, este mapa podemos encontrarlo en las valoraciones que los jóvenes de nuestros países efectúan sobre sus respectivos tejidos institucionales (Tablas 3). De nuevo encontramos más similitudes que discrepancias en virtud de la sociedad a la que pertenecen los jóvenes. Lo que comparten todos ellos es una visión de la realidad institucional extraordinariamente clara, en la que existe una estricta línea divisoria entre dos ámbitos: de un lado, la política que representan los partidos es la que goza de la más baja estima. A ellos les reservaban los jóvenes su el menor grado de confianza y crédito. Al otro lado, por el contrario, se sitúan las ONG, ese polifacético mundo de las asociaciones y organizaciones no gubernamentales. Un esquema dual tan rotundo como éste, común además a jóvenes de sociedades con estructuras diferentes, nos ha de poner en la pista de que los modos convencionales de participar en la política han dejado de tener relevancia para nuestros jóvenes. Y a que sus expectativas se dirigen a formas de organización que, al menos de entrada, tienen un significado político más débil y por lo mismo se encuentran alejadas , al menos idealmente, del Estado. Estas valoraciones, sin duda, han de tener su proyección en los comportamientos políticos: mayor alejamiento 518 Tabla 3a. Confianza en las instituciones (España, medias) ¿Cuánta confianza tienes en...? (1-10) Estudiantes Media ¿El gobierno actual? ¿El parlamento? ¿Los jueces? ¿Los sindicatos? ¿los partidos políticos? ¿La policía? ¿La iglesia católica? ¿Las ONG? ¿La monarquía? ¿La televisión? ¿Los periódicos? ¿La radio? ¿El alcalde de tu ciudad? ¿Los empresarios? ¿La universidad? ¿El ejército? ¿Los bancos? 4,0 34,7 95,0 74,5 43,8 05,2 94,0 86,4 85,7 84,5 15,8 46,1 53,90 4,20 5,3 64,26 4,07 Desviación estándard 2,40 2,0 92,1 22,1 41,8 42,18 2,65 2,03 2,83 1,92 1,81 1,85 2,30 2,08 2,07 2,58 2,29 Parados Media 3,97 4,34 4,55 4,53 3,56 5,22 3,67 6,76 5,27 4,24 5,36 5,64 4,33 3,82 5,28 3,79 3,58 Desviación estándard 2,51 2,36 2,39 2,40 2,01 2,49 2,51 2,49 2,91 2,45 2,33 2,32 2,54 2,08 2,56 2,82 2,56 TABLA 3B. Confianza en las instituciones (Francia, %) Índice de confianza muy alto Índice de confianza muy bajo (puntos 7-10) (puntos 1-4) Las ONG 51 15 Las asociaciones ecologistas 23 32 La iglesia católica 13 58 El gobiernot 16 43 La policía 17 44 La televisión 6 56 La Unión Europea 19 42 Los periódicos 28 20 El alcalde de tu ciudad 13 52 El parlamento 14 44 Los partidos políticos 3 71 Los sindicatos 10 28 La universidad 28 29 519 Tabla 3c. Índice de confianza alta en las organizaciones políticas (puntos de confianza 5-10, Francia, %) Los partidos políticos Estudiantes Parados 29 24 Las ONG 87 79 Los sindicatos 45 42 Total (N) (609) (299) Tabla 3d. Confianza de estudiantes y parados en las instituciones (Italia, medias) Confianza en Estudiantes (media) Confianza en Parados (media) La televisión Los partidos políticos El alcalde de tu ciudad El gobierno El parlamento La iglesia católica Los sindicatos Los periódicos Los jueces La policía La Unión Europea Las asociaciones ecologistas Las ONG 4,38 4,47 4,81 4,94 5,12 5,14 5,20 5,39 5,58 5,95 6,20 6,45 7,69 Los partidos políticos La televisión El gobierno El parlamento La iglesia católica El alcalde de tu ciudad Los sindicatos Los jueces Los periódicos La policía La Unión Europea Las asociaciones ecologistas Las ONG 4,23 4,52 4,64 4,67 4,75 4,83 5,05 5,18 5,27 5,43 5,88 6,17 7,32 de los partidos (sobre todo en la militancia, pero también en las elecciones), y predisposición a tomar parte en las actividades de las asociaciones situadas fuera de la esfera gubernamental. El caso de los medios de comunicación suscita también bastantes analogías entre los tres países: en general conceden un alto nivel de confianza a la prensa escrita, aunque en Italia este crédito es algo más bajo. Por el contrario, cuando se trata de la televisión, la confianza depositada en ella es muy baja, prácticamente se convierte en la institución con un menor crédito entre los jóvenes. Es 520 interesante analizar esta ambivalencia en las valoraciones sobre los medios de comunicación. Quizá estemos en presencia de factores muy diversos que operan en las representaciones mentales del joven. Los periódicos, como medios escritos, pueden ser asociados a la tradición cultural que formalmente goza de un prestigio más alta, la de la escritura y los saberes depositados en ella. De ahí que también se otorgue un crédito alto a otra institución que se sitúa igualmente en la tradición letrada, la Universidad (como reflejan las tablas 3a y 3b), pese a la crisis que padece. Pero puede que estos juicios se deban no tanto a la experiencia directa del joven, sino a respuestas políticamente correctas. Ya que como se aprecia en el uso que hacen de los medios de comunicación, no es precisamente la prensa escrita a la que otorgan sus preferencias. ¿A qué cabe atribuir que estos jóvenes, asiduos consumidores de televisión, concedan a la misma tan poca confianza?. Es probable que el joven haya asumido un prejuicio dominante acerca de la miseria de la televisión. Pero bien podría ser que en ella tan sólo perciba una modalidad de espectáculo, caracterizada por sus débiles conexiones con la realidad y en la que los criterios dominantes no son ni el rigor ni la precisión. De ser esto último, tendríamos que pensar que nuestros jóvenes son más perspicaces y críticos de cuanto suele concederles el juicio adulto, el sentido común y algunos científicos sociales. Pero también podría suceder que estos jóvenes, aun aceptando las distinciones efectuadas por la cultura dominante (según la cual los periódicos son “serios” y la televisión es “banal”), prefirieran dejar de lado lo “serio” por entender que el espectáculo televisivo, aunque sin cualidades, les resulta mucho más atractivo. Una institución que llama la atención por su alta valoración positiva entre los jóvenes es la policía. Ella encarna de manera abierta valores conservadores y materialistas, en una sociedad que es –si hemos de creer a Inglehart– postmaterialista, con lo que cuanto se vincula directamente con el orden social tendría que tener reservado un bajo rango en las valoraciones juveniles. No parece ser así, sobre todo en Italia y en España. En ambas sociedades goza de un crédito juvenil notable. No es fácil, con la información disponible, dar una explicación satisfactoria de este fenómeno. Volvemos por tanto a situarnos en el terreno de las hipótesis. Y la principal que sugerimos es que la sociedad francesa ha gozado de un largo perío521 do de estabilidad democrática y de un alto grado de cohesión social como para anteponer la libertad al orden (coactivo de la policía). Es decir, que por disponer de un orden más autorregulado ha podido ver a la policía como un instrumento represor, con lo que el juicio de los jóvenes sería un poco menos positivo. Por el contrario, en Italia y España, con sistemas democráticos menos estables, aun cuando los jóvenes podrían asociar a la policía con los períodos de gobiernos autoritarios, quizá recelen más de una libertad exclusivamente autorregulada. Lo que podría llevarles a la convicción de que la policía es necesaria, aunque reprima, para asegurar un cierto nivel de libertad y de orden social. Con diferencias pequeñas y matices que requieren de ulteriores investigaciones, podemos afirmar que hacia las instituciones y poderes tradicionales (gobierno, partidos, alcaldes, sindicatos, iglesia católica, parlamento, sindicatos) los jóvenes de los tres países han desarrollado un esquema de evaluación escasamente positivo. En contrapartida, son estos nuevos poderes y formas de organización social los que para ellos adquieren mayor relevancia. Y que s no son otros que aquellos referidos a movimientos sociales como las organizaciones no gubernamentales, y los medios de comunicación. Dos curiosas formas de participación social, a las que me voy a referir más adelante. Pero antes de hacerlo, conviene siquiera mínimamente analizar un poco más el sentido de este mapa de representaciones y convicciones sociales. ¿Podemos pensar, a la vista del mismo, que el joven actual se desentiende de la política tal y como está organizada en la democracia?. ¿Que su actitud es de desafección, crítica y hasta de deslegitimación de ella?. ¿Y que en la democracia no vería sino un sistema corrupto en el que la participación carece de todo interés?. Tal vez haya un poco de todo esto. Pero también es legítimo pensar que el joven de nuestra época, al haber nacido en sociedades donde la democracia no se discute y es más bien un orden incondicionado, que asegura un funcionamiento razonable de la sociedad, entiende que la misma es una condición que le permite despreocuparse de la política para dedicarse a otros aspectos de la vida. Es decir, que el mundo de la política en nuestras sociedades, pese a su conflictos y luchas partidistas, parece mostrársele al joven como una realidad que funciona por sí misma, sin requerir esfuerzo o contribución de su parte. La política 522 funciona así como un reino de la certidumbre: no ideológica, sino consumista; esto es, que desde ella le seguirá llegando una oferta de bienes y servicios de carácter público a los que tendrá derecho sin ningún tipo de contrapartida. La política vendría a ser para este joven un ámbito que le suministra certezas como consumidor público, pero que difícilmente le proporcionará cosas excitantes o aventuras. Es indudable que esta mentalidad, de darse, tiene sus riesgos. El principal de todos es que la política sea vista sólo por el lado de los derechos del ciudadano, y no por el de los responsabilidades. Un buen ejemplo de ello se detecta en la “conciencia fiscal” del joven, que espera obtenerlo todo (y gratis) del Estado, pero a cambio puede justificar el fraude fiscal. Pero este mundo de una política dada por supuesto y que, aunque no se esté dispuesto a intervenir en ella, se espera siga funcionando eficazmente, es uno de los resultados derivados de la comunicación mediática. A ella hemos de atribuir un clima de opinión que identifica la política con sus peores representantes. Y a la que demanda cada vez más eficacia y prestación de servicios. Al lado, esta comunicación ha ido construyendo otro ámbito con un perfil más valioso, al que se ha dotado de un ambiguo estatuto: encontrarse a caballo entre la vida privada y la vida pública. Se trata del proceloso mundo de las ONG. Mostradas por su lado privado, estas asociaciones se dotan de las prerrogativas y atractivos que el joven de hoy otorga a este ámbito. Ya sabemos que no hay para este joven un mundo mas valioso que el directamente vinculado al círculo de sus relaciones primarias. Pues bien, las asociaciones no gubernamentales son presentadas por los medios como grupos que forman parte de tal círculo primario. Además, sin dejar de pertenecer al mismo, se puede, a través de las asociaciones, influir en lo público pero de un modo diferente a como lo hace la política; pero sobre todo, se puede hacer sin asemejarse a los denostados políticos. En fin, estas asociaciones posibilitan un tipo de participación social que se adapta mejor que la política al estilo de vida juvenil: más flexible, sin compromisos estables, volcadas casi siempre a problemas alejados de la experiencia inmediata y por ello rodeadas de un cierto espíritu de aventura, sin necesidad de habilidades o saberes específicos... Mientras que la política es sistemáticamente diseccionada por los medios como un entramado de intereses, las ONG se erigen en el reino del altruismo y la 523 solidaridad. Nada sorprendente ha de resultar entonces que el joven de hoy perciba tan favorablemente el mundo de las asociaciones. Veamos ahora cómo se relaciona con él. 4. La “otra” participación El mapa cognitivo que acabamos de ver manifiesta los perfiles típicos de los nuevos movimientos sociales. En efecto, en sociedades con un alto nivel de escolarización, los valores y normas son bastante más que una mera “superestructura”. Como señalan los teóricos de tales movimientos (McAdam, McCarthy, Zald 1996, IV), las ideas tienen ahora un valor estratégico, y las mismas se convierten en factores de movilización esenciales. Pero las representaciones e interpretaciones culturales que dan origen a la movilización se difunden y rehacen a través de los medios de comunicación. Este entrecruzamiento de marcos cognitivos y movilización es posible, en primer lugar, porque los respectivos ámbitos (ONG y medios de masas) gozan de un prestigio similar, tal y como hemos expuesto. En segundo lugar, porque no pocas de las oportunidades de movilización se asocian, en sociedades desarrolladas, al tipo de información política difundida a través de los medios. En fin, porque al igual que esta información es discontinua y fragmentaria, así suele serlo también la participación en los nuevos movimientos sociales. El primer resultado derivado de este marco de cultura política tiene que ver con un sustantivo incremento de las oportunidades de participación política. Esto es, aparte de la participación en la política convencional (por medio de partidos y sindicatos), el joven de nuestras sociedades es reclamado para que lo haga en multitud de nuevos frentes, todos ellos autoetiquetados de solidarios y altruistas; todos ellos presentados como emanación genuina y espontánea de la sociedad; todos ellos altamente valorados. Estos rasgos positivos se construyen, además, en abierta confrontación con la política convencional. Y aunque es verdad que explícitamente no suele presentarse como incompatible con ella, la participación en los nuevos movimientos y asociaciones emerge en el cuadro cognitivo que al joven le muestran los medios de comunicación como una forma diferente de hacer política, cuando no como 524 una superación de la política. O si se prefiere: una acción que expresa las mejores virtudes de la sociedad y que sortea las corruptelas de la clase política. Y dado que nuestros jóvenes manifiestan hacia la política una clara ambigüedad: de un lado están interesados en la misma; de otro no lo están tal y como se presenta en el actual juego de partidos y clase política, son los nuevos movimientos sociales quienes les permiten materializar sus intereses sin tener por ello que asemejarse a la clase política. Una participación, en definitiva, mucho más abierta, plural y desinteresada que la que puede proporcionarles el viejo juego de la política estatal. Esta dinámica cultural y política tiene su segundo efecto en los comportamientos de los jóvenes respecto a estos movimientos. Unos efectos bien diversos según consideremos sus actitudes y predisposiciones hacia la participación (lo que podríamos denominar participación conjetural o incluso virtual) o el compromiso real y efectivo con alguno de estos movimientos (participación real). Lo que encontramos es que, al menos en Francia y España (tablas 4a, 4b y 4c), existe más la disponibilidad mental a la participación que al compromiso que supone la integración efectiva en alguna organización. Si nos fijamos en el caso español, del que nuestra investigación tiene información más matizada, comprobamos lo siguiente. De entrada, las ONG, el voluntariado y las asociaciones humanitarias son las formas de participación que más les interesan (en bastante mayor medida a los estudiantes que a los desempleados). Este interés decrece extraordinariamente cuando se trata de asociaciones de naturaleza religiosa. Hasta aquí, por tanto, hallamos que el mapa cognitivo de la participación, mediáticamente construido, ha generado disposiciones mentales y estereotipos mentales positivos hacia los movimientos asociativos que se presentan como típicamente sociales (y no políticos). Y siempre y cuando los mismos no supongan irrupciones particularmente radicales y graves del orden social, tal y como se comprueba en el caso italiano, en el que disponibilidad a la participación es sobre todo en movimientos convencionales (de naturaleza pacífica) que en aquellos otros antisistema y que requieren el empleo de la violencia. Algo bien diferente sucede con el compromiso real, esto es, con la participación activa en los diversos movimientos sociales. Para proseguir con los datos españoles, hallamos que la tasa de 525 TABLA 4A. ¿En qué medida participas en las actividades de una organización religiosa? (España, %) Estudiantes Parados No me interesa para nada 41,0 52,9 No participo 35,8 27,6 Participo algunas veces 13,2 12,1 Participo habitualmentet Total Total (N) 9,9 7,5 100 100 (1200) (359) Tabla 4b. ¿En qué medida participas en las actividades de una ONG? (España, %) Estudiantes Parados 6,5 19,0 No participo 69,1 57,3 A veces participo 19,5 15,0 No me interesa para nada Participo habitualmente 4,9 Total 100 Total (N) (1200) 8,6 100 (359) TABLA 4C. Participación real: participas habitualmente o algunas veces en las siguientes organizaciones (Francia, %) Estudiantes Partido político 9 Parados 6 Sindicato 5 6 Movimiento religioso 15 7 Asociación ecologista Total (N) 526 8 (609) 9 (299) Tabla 4d. Disposición hacia la participación convencional o no convencional en el eje izquierdas-derechas (Italia, medias) Participación convencional (0-4) Participación no convencional (0-6) Parados Estudiantes Estudiantes Parados (media) (media) (media) (media) Izquierdas 3,31 3,17 2,18 1,75 Centro-izquierdas 3,05 2,81 1,52 1,16 Centro 2,68 2,12 1,32 0,64 Centro-derechas 2,47 2,13 1,24 0,70 Derechas 2,37 1,76 1,24 0,69 No sé que decir 2,56 2,36 1,41 1,14 participación en las ONG o en asociaciones religiosas no es considerablemente más alta que en partidos y sindicatos. Y si nos detenemos en el caso de los jóvenes franceses, el resultado es muy similar. En todos los casos hallamos un bajo índice de respuesta participativa, a pesar de la actitudes tan favorables a hacerlo. Es interesante subrayar, a pesar de las limitaciones de nuestras muestras, que en general, la participación real y regular, si tenemos en cuenta a qué jóvenes nos referimos, adquiere un perfil bastante claro: los estudiantes participan un poco más en la política convencional (los partidos) y, cuando lo hacen en los nuevos movimientos, sus preferencias se decantan sobre todo por los de carácter religioso. Los desempleados prefieren algo más los sindicatos y las ONG (o en el caso francés, las asociaciones relacionadas con el medio ambiente). Este última dato necesita de explicaciones adicionales. Porque hallamos un claro desajuste entre las actitudes y la conducta: pese a no ser las asociaciones religiosas las que gozan de mayor preferencia, son ellas, sin embargo, las que recogen un mayor grado de participación de los jóvenes encuestados. Una explicación bastante plausible es que estos jóvenes no conocían la naturaleza de la organización en la que decidieron integrarse, y que solamente después averiguaron su inspiración religiosa. Aunque sólo sea como hipótesis, no podemos dejar de sospechar que un gran nú527 mero de las organizaciones no gubernamentales existentes en los tres países son confesionales, aun cuando no se presenten como tales. Al ser los estudiantes los que en mayor medida participan, lo hacen casi necesariamente en asociaciones religiosas, al ser éstas las que se les ofrecen en más elevado número. Con lo que, si se confirma esta hipótesis, estaríamos no tanto ante una emergencia y fortalecimiento de la sociedad (entendida ésta como red grupos y asociaciones laicas), sino de un aggiornamiento de una nueva forma de sociedad religiosa, inspirada en sus valores (la caridad en confrontación con los derechos incondicionados del Estado del Bienestar). En cualquier caso, lo cierto es que nuestros jóvenes no se sienten muy inclinados a tomar parte activa en ese abigarrado mundo de asociaciones de todo tipo que le ofrece el actual mercado del voluntariado. Por tanto, conviene tomarse con mucha cautela el resurgir ideológico de orientaciones no siempre democráticas que en las ONG quieren ver una suerte de alternativa al Estado y a sus ineficiencias. Que el joven muestre predisposiciones más positivas hacia este nuevo tejido de organizaciones no conlleva una mayor integración en ellas. En definitiva, lo que el joven ha asimilado es un esquema de valores en el que, dando por supuesta la existencia de la política convencional, considera más atractivas estas otras formas de actuar en la vida social, más allá de los partidos políticos. Pero tal esquema no se ha traducido, al menos por ahora, en cambiar sustancialmente un rasgo que bien podemos considerar típico de la juventud: la falta de compromiso (político o de otra índole), como no puede ser de otro modo en quien se encuentra en una fase de formación y de “espera” social. Hoy todavía más, dada la prolongación vital de la etapa juvenil. De modo que no parece estar dándose un trasvase significativo de la política convencional a esta otra forma de participación. Y no se está dando porque tampoco en décadas precedentes la participación del joven en los partidos y sindicatos era alta. De modo que la baja participación de ahora no supone un cambio de la tendencia típica de las últimas décadas. Pero que la participación sea baja no quiere decir que hayamos de desentendernos del nuevo clima cultural que reflejan unos valores políticos asociados en mayor grado a los nuevos movimientos sociales. Valorar esta realidad exige explicar el horizonte 528 de oportunidades políticas y de participación en que se mueve el joven de nuestra época, así como considerar las eventuales consecuencias para el futuro de la participación social en general. 5. La integración política: entre lo virtual y lo real Hemos comprobado en el apartado precedente que las prácticas participativas y políticas del joven de nuestras sociedades no se ha modificado radicalmente. Si por un lado prosigue la tendencia a disminuir la participación en las instituciones y organizaciones de la vida política convencional, no hay un desplazamiento importante hacia formas alternativas de participación. Es igualmente conveniente no olvidar que este joven tampoco se muestra muy proclive a intervenir en acciones abiertamente opuestas al sistema, que supongan además el uso de la violencia. Desde esta perspectiva, podríamos decir que una baja participación se acompaña de actitudes políticas poco inclinadas al radicalismo. ¿Qué es lo que hay de nuevo en los valores y las prácticas políticas de nuestros jóvenes?. Básicamente estos factores: (1) una concepción más virtual que real de la política; (2) una creciente dependencia de la política institucional en términos económicos; (3) una predisposición a participar social y políticamente en acciones concretas y efímeras; (4) una mayor preocupación por causas humanitarias alejadas del entorno más inmediato; (5) una concepción de la política que se asemeja bastante a sus particulares experiencias. Veamos estas cinco dimensiones y extraigamos de cada una de ellas sus consecuencias políticas. Nuestros jóvenes se han habituado a un mundo en el que la política es cada vez más la comunicación política en los medios. Ciertamente gran parte de la política se ha convertido en marketing, y el joven se ha socializado de manera que entiende que la política no se diferencia mucho de las puestas en escenas que los políticos llevan a cabo en los medios de comunicación. Por tal razón, la actitud que en ellos prevalece es la de ser espectadores del mundo político, antes que actores. Tener información política (y ya hemos señalado que nuestros jóvenes disponen de bastante información al respecto) es el equivalente a actuar políticamente. La práctica queda sustituida por la información. Otra cosa es que 529 en esta sobreabundancia informativa el joven disponga de claves para explicar lo que sucede. Pero ese ya no es su problema, sino el de quienes debieran dárselas. Y no parece, por lo demás, que los adultos se hallen en mejor situación. Mas que este joven participe virtualmente en la política no significa que no comprenda uno de los elementos materiales y centrales de la misma. Esto es, sigue siendo un extraordinario depredador de lo público encarnado en el Estado. Cada vez exige más a las instituciones estatales, y su ciudadanía estriba sobre todo en considerarse un consumidor insaciable de una oferta estatal ilimitada, antes que en ser miembro políticamente activo de su sociedad. Esta particular relación con los poderes públicos está cargada de paradojas: el joven está cada vez menos inclinado a asumir algún deber o responsabilidad con el Estado, pero sus exigencias respecto al mismo no dejan de aumentar. De manera que las tradicionales obligaciones para con tal institución (las relativas a los impuestos y el ejército) gozan de escaso predicamento en nuestra juventud, lo que no es obstáculo para que se pida a ese Estado que le proporcione más servicios (gratuitos), financie a las ONG (sin que las mismas pasen por los mismos controles que las instituciones estatales) y utilice el ejército en todo tipo de intervenciones humanitarias (siempre y cuando estas misiones no puedan ser cumplidas por las ONG). El Estado se ha transformado así en una instancia con un contenido político en declive, y con un incremento de sus funciones en la misma línea de las que proporciona una empresa privada, sólo que con una diferencia: sus productos deben ser gratis. Si la edad juvenil no es la del compromiso estable, ello no presupone que el joven se desentienda de cuanto le rodea. Lo hace de una doble manera. Si se trata de problemas que le afectan directamente, su respuesta suele ser la acción reivindicativa, generalmente participando en movimientos convencionales (huelgas, manifestaciones) que no exigen de un alto grado de compromiso, dedicación o conductas arriesgadas. Es el tipo de acción característica del movimiento estudiantil. Una respuesta, por lo demás, que busca siempre un cierto grado de dramaturgia social en sintonía con la lógica de los medios de comunicación, de manera que las reivindicaciones acaben por convertirse en noticia antes que en movimientos sistemáticos y organizados. De ahí lo efímero de estas acciones: por un lado, porque el joven no está dispuesto a mante530 nerlas largo tiempo; de otro, porque prontamente dejan de ser novedad para la información. El joven desempleado tiene más dificultades: carece de un espacio aglutinador (como el que tiene el estudiante) y no es por ahora una categoría social precisa y definida. De ahí que, como hemos comprobado, tenga una mayor inclinación (que el estudiante) por la militancia sindical. En todos los casos, lo que parece suceder es que el joven de nuestros días no busca formas asociativas de larga duración, ni tampoco encara sus problemas de manera sistemática. Ello posibilita que el poder político, pese a la gran multiplicidad de movimientos sociales reivindicativos que estallan entre nuestros jóvenes, pueda afrontarlos con relativa facilidad dado que su virulencia no es excesiva y que su duración es corta. La segunda forma que el joven tiene de preocuparse es la relacionada con aquellos otros problemas que no forman parte de su entorno inmediato; esto es, las causas humanitarias que por lo general afectan a otras sociedades alejadas en el espacio. Es aquí donde los marcos cognitivos de los movimientos sociales adquieren todas su relevancia, y también manifiestan sus ambigüedades. El humanitarismo hacia los demás que sufren continua siendo un discurso altamente ideológico y plagado de contradicciones. Si para muchos de nuestros jóvenes son estos problemas los que les preocupan (además de los propios de su entorno inmediato), ello quiere decir que los han conocido a través de los medios de comunicación (la televisión, sobre todo). Con lo que acceden a ellos conforme a la lógica impuesta por los media: espectáculo, culpa y desidia de los gobiernos occidentales, acción humanitaria de las ONG, necesidad de ayuda internacional (esto es, de los gobiernos), y actos de protesta en las sociedades desarrolladas. No es por tanto una invitación a la participación real en la solución de estos problemas lo que el joven recibe, sino un estímulo bien diverso: el de que la responsabilidad de los hechos suele ser compartida por los políticos de aquí y de allá, y el de que los únicos capaces de arriesgarse y hacer frente a los problemas son las asociaciones humanitarias. Y a éstas no es necesario que el joven les conceda su participación; basta con que para ellas pida una mayor financiación. Lo que se traduce en participar en su sociedad en acciones de protesta contra la responsabilidad occidental al tiempo que de exigencia de más fondos públicos para las ONG. De este modo se deslegitima 531 un poco más la política convencional, pero simultáneamente se la refuerza al hacerse depender de la misma cualquier salida a los problemas que afectan a terceros países. La modalidad participativa del joven, caracterizada bien por ser virtual (mera información) o fragmentaria y episódica (cuando se trata de acciones reivindicativas) le coloca en una posición compleja en relación con la política. De un lado, sigue concibiendo como núcleo esencial de la vida política el que reside en las instituciones estatales. De otro, son las particulares vías de acceso a las mismas que la proporcionan los nuevos movimientos sociales las que el joven empieza a entender como las más adecuadas para relacionarse con la política. Es decir, que si bien considera que la reproducción de la clase política pasa a través de unos cauces que él no está dispuesto a seguir (partidos, elecciones), al mismo tiempo entiende que existe una cierta ruptura entre estos cauces y los que son propios para hacer oír su voz. Con lo que para él la representación política sería diferente de la participación. La primera se efectúa por medio de las organizaciones y rituales convencionales. La segunda a través de organizaciones y acciones ad hoc. En suma, este joven, que hemos visto no se desentiende de la política, ni la considera una cosa sucia, ni la quiere dejar en manos de los políticos profesionales, no parece estar pensando en regenerar la política, ni tampoco en sustituirla por otra. Más bien da la impresión de haber desarrollado un marco cognitivo que permite la existencia de un universo político dual: el de las instituciones políticas convencionales, y el de las acciones reivindicativas concretas. Y éstas solo son posibles (intelectualmente, pero también económicamente) a condición de que siga existiendo el primer nivel. Que por ser el continuo punto de referencia, se convierte en el de mayor realidad, mientras que el otro, bien por su lejanía, bien por su carácter dramatúrgico y efímero, adquiere perfiles menos definidos y propios del espectáculo. Mas esta separación entre representación y participación que hemos señalado puede tener consecuencias importantes a largo plazo. Habituarse (aunque sólo sea mentalmente) a un modo de participación bien diferente al políticamente establecido tiene implicaciones que ahora no son fácilmente evaluables ni previsibles. Lo único claro es que no todas ellas habrán de redundar en una mayor profundización de la democracia. 532 PARTE VI I GIOVANI E LA NUOVA EUROPA 533 534 CAPITOLO DICIANNOVESIMO IL LEGAME CON IL TERRITORIO TRA SRADICAMENTO E BRICOLAGE 1. Il posto dell’Europa nel puzzle dell’identità territoriale Le non poche indagini empiriche sul processo di integrazione europea condotte negli ultimi lustri quasi immancabilmente mostrano che gli italiani – di tutte le generazioni – si distinguono per un entusiasmo europeista con pochi eguali, mentre i francesi esprimono orientamenti più moderati, collocandosi in una posizione tendenzialmente mediana tra sostenitori ed oppositori dell’unificazione europea (Hofrichter 1990; Brechon, Cautrès, Denni 1995; Eurostat 1997; Belot e Smith 1998; Belot eTournier 1998). A prima vista, questa caratterizzazione nazionale si ripropone allorché si prende in considerazione il senso di appartenenza territoriale. Nel nostro campione di giovani, a sentirsi “abbastanza” o “molto” europei sono il 63,8% degli intervistati in Italia e il 59,7% in Francia1 . Una differenza lieve, che conferma il tradizionale maggior europeismo italiano, ma segnala anche – in linea con i dati di altre fonti (Ahrendt 1998, 35 ss.; Eurobarometro 1999, 9) – un crescente disincanto degli italiani, giovani e meno giovani, nei confronti dell’Europa. Sono significative di questa perdita di appeal le differenze per fasce d’età all’interno del nostro campione: mentre in Francia l’attaccamento all’identità continentale si fa più intenso nel segmento più giovane, in Italia è vero il contrario (tav. 1). Poiché anche l’intensità del sentimento cosmopolita – il senso di Questo capitolo è stato scritto da Ettore Recchi. 1 Per l’uso di indicatori non perfettamente identici, i dati relativi alle appartenenze territoriali dei giovani spagnoli non hanno potuto essere analizzati nella chiave comparativa adottata in questo capitolo. 535 appartenenza al “mondo” – diminuisce al diminuire dell’età degli intervistati, se ne deve concludere che in Italia il rinnovo generazionale sembra aver cessato di alimentare quell’apertura verso orizzonti identitari più ampi che rappresenta un correlato importante dello spostamento progressivo dei giovani verso una cultura postmoderna (Inglehart 1997). Se persiste un pur minimo scarto complessivo tra l’europeismo dei giovani italiani e quello dei coetanei francesi, lo si deve alla forte diffidenza dei disoccupati francesi per le dimensioni ultralocali dell’identità politica. Nella popolazione studentesca, infatti, il potenziale di attrazione dell’Europa come centro di identificazione territoriale è praticamente lo stesso in Italia e in Francia: si sentono “molto” europei il 21-22% e “abbastanza” europei il 43-44% degli intervistati. Per contro i disoccupati, che in Italia esprimono opinioni praticamente identiche agli studenti, in Francia hanno una percezione molto blanda dell’Europa (a sentirsi “molto” europei è il 12%, abbastanza il 22%: valori attorno alla metà di quelli riscontrati tra gli studenti). Come vedremo anche più avanti, i disoccupati francesi traducono la loro condizione di disagio in una chiave di chiusura entro i confini della propria municipalità – l’unico ambito territoriale in cui si riconosce una percentuale di giovani privi di impiego superiore ai coetanei studenti (il 28% contro il 15%). In generale, il giovane francese senza lavoro sembra ripiegato su una dimensione “periferica” sotto molti punti di vista – oltreché per riferimenti identitari, per area di socializzazione (solo il 34,5% ha vissuto prevalentemente in un centro con più di duecentomila abitanti, contro il 65,2% nel campione italiano) e per risorse personali utili all’inserimento lavorativo (il 47,5% non è mai stato iscritto all’università, contro il 43,2% in Italia). In sintonia con questa lettura, che lega europeismo e “centralità” sociale (cfr. anche Bendit 1998, 144), è il dato relativo all’estrazione sociale: i giovani borghesi sono più europeisti dei coetanei che appartengono a famiglie della classe media, che a loro volta sono comunque leggermente più europeisti dei figli di operai. L’associazione tra collocazione di classe e prossimità all’Europa come fonte di identità territoriale è particolarmente marcata in Francia, ove del resto non solo la posizione occupazionale del capofamiglia ma anche il capitale culturale dei genitori (indicato dal loro livello di istruzione formale) sembra far mettere ra536 Tavola 1. L’intensità del sentimento di appartenenza all’Europa: differenze per categorie sociali tra i giovani italiani e francesi Per niente Condizione Studenti Disoccupati Genere Donne Uomini Età 18-23 anni 24-30 anni Classe sociale familiare Borghesia Classe media Classe operaia Titolo di studio del padre Laurea o diploma univ. Inferiore al diploma univ. Titolo di studio della madre Laurea o diploma univ. Inferiore al diploma univ. Ambiente di socializzazione Città (> 200mila ab.) Cittadina/paese Poco Abbastanza Molto I F I F 6,2 8,0 12,1 15,7 28,6 25,4 27,2 38,9 43,4 44,3 39,0 33,1 21,7 22,4 21,7 12,3 I F I F 7,0 8,4 9,3 14,0 29,3 28,1 26,8 32,4 43,9 43,5 39,7 36,0 19,9 20,0 24,2 17,6 I F I F 7,8 9,5 8,4 14,3 29,3 28,8 26,2 34,3 41,4 42,0 43,2 34,9 21,5 19,7 22,1 16,6 I F I F I F 7,6 6,5 8,3 12,8 7,9 17,7 24,6 20,9 28,8 36,4 30,5 42,5 42,9 47,2 41,7 37,5 41,4 24,8 24,9 25,4 21,2 13,3 20,2 15,0 I F I F 9,1 6,6 7,9 12,4 26,3 17,7 28,6 35,3 38,8 47,9 42,7 37,9 25,9 27,9 20,9 14,4 I F I F 9,0 7,9 5,3 11,8 28,6 28,0 15,5 34,0 37,6 42,9 51,7 37,4 24,7 21,2 27,5 16,8 I F I F 8,2 9,1 7,9 10,9 26,3 30,6 29,5 29,4 40,7 40,1 43,0 40,9 24,7 20,2 19,6 18,8 N (minimo) = 2732 537 dici più salde all’europeismo dei figli. L’europeismo dei giovani francesi, insomma, risulta essere più spesso il prodotto di una collocazione sociale superiore della famiglia dell’intervistato, mentre in Italia costituisce un orientamento meno elitario, che corrisponde forse alla più profonda metabolizzazione della cittadinanza europea come componente della frammentata identità politica nazionale. 2. L’intensità relativa delle appartenenze territoriali L’immagine consolidata dei giovani italiani come alfieri della coscienza europea viene ridimensionata se confrontiamo l’intensità del sentimento di appartenenza all’Europa – l’“europeismo assoluto” esaminato nel precedente paragrafo – con l’intensità dell’attaccamento ad altri ambiti territoriali. Per questo confronto è stato costruito un indicatore che consiste nella differenza tra la posizione sulla scala di appartenenza all’Europa e la media delle posizioni sulle altre scale che rilevano i sentimenti di appartenenza territoriale (al comune, alla regione, alla propria nazione e al mondo). L’indicatore – che chiameremo “europeismo relativo” – rileva quindi il grado di priorità dell’identità territoriale europea: se l’intervistato vede nell’Europa un punto di riferimento per la propria identità d’importanza superiore, eguale o inferiore agli altri ambiti territoriali. In questo modo, l’atteggiamento verso l’Europa viene depurato della tendenza di certi individui o gruppi a prendere le distanze ovvero a sentirsi prossimi sistematicamente a tutti i diversi ambiti geografici indicati nel questionario2 . Nel complesso, i risultati che emergono dall’analisi di questo indicatore consentono di affinare le interpretazioni avanzate sulla base della scala di ‘europeismo assoluto’. Nella tavola 2 l’indice di ‘europeismo relativo’ è stato ripartito in tre livelli di priorità data all’identità europea – superiore, eguale o inferiore al livello medio di attaccamento agli altri ambiti di appartenenza territoriale. Sia in Italia che in Francia, i giovani che si sentono mediamente più vicini all’Europa che agli altri cenQuesta procedura si ispira alla tecnica della “deflazione” delle batterie di item proposta da Marradi (1993, 97). 2 538 Tavola 2. Il livello di priorità del sentimento di appartenenza all’Europa: differenze per categorie sociali tra i giovani italiani e francesi Bassa Condizione Studenti Disoccupati Genere Donne Uomini Età 18-23 anni 24-30 anni Classe sociale familiare Borghesia Classe media Classe operaia Titolo di studio del padre Laurea o diploma univ. Inferiore al diploma univ. Titolo di studio della madre Laurea o diploma univ. Inferiore al diploma univ. Ambiente di socializzazione Città (> 200mila ab.) Cittadina/paese Media Alta I F I F 45,4 29,9 43,6 43,7 32,3 33,1 32,1 34,5 22,2 37,0 24,3 21,8 I F I F 45,6 33,2 43,8 36,3 32,6 34,6 31,8 31,8 32,3 20,0 24,3 31,8 I F I F 45,6 33,1 43,5 39,4 30,7 33,9 35,1 32,0 23,7 33,0 21,4 28,6 I F I F I F 38,8 24,0 45,9 41,9 48,6 47,8 31,7 33,4 32,9 34,2 30,2 31,9 29,4 42,5 21,3 23,9 21,1 20,4 I F I F 40,0 23,6 46,3 42,9 30,6 34,8 32,2 32,6 29,4 41,6 21,5 24,6 I F I F 43,1 22,7 45,3 42,0 29,8 34,3 32,5 33,1 27,1 42,9 22,2 25,0 I F I F 41,4 34,5 47,3 34,1 31,3 31,7 32,9 34,4 27,2 33,7 19,8 31,5 N (minimo) = 2732 Nota: la priorità è considerata ‘bassa’ quando l’intensità del sentimento di appartenenza all’Europa è inferiore alla media dell’intensità del senso di appartenenza alle altre aree geografiche di riferimento (comune, regione, nazione, mondo); ‘media’ quando è pari o si discosta solo marginalmente (+/+0,5 punti) dalla media; ‘alta’ quando è superiore alla media 539 tri di identificazione territoriale sono una minoranza – rispettivamente il 23,2% e il 31,8%. Con questo indicatore, si noterà, i francesi risultano più europeisti degli italiani. E se le differenze tra un paese e l’altro sono non piccole, il quadro si articola meglio distinguendo studenti e disoccupati. In generale, gli studenti si confermano più europeisti. Tuttavia, gli universitari francesi che si sentono soprattutto europei (il 37%) surclassano i loro omologhi italiani (il 22,2%). Fra i disoccupati, invece, sono proporzionalmente più numerosi, sebbene di poco, gli europeisti italiani (il 24,3% contro il 21,8% dei senza lavoro francesi). La divaricazione negli orientamenti verso l’Europa di studenti universitari e disoccupati sembra riflettere la distanza tra questi due segmenti di popolazione giovanile che si riscontra nei due paesi. In Italia il confine tra studente e disoccupato è molto più labile che in Francia, ove il disoccupato giovane è generalmente un drop-out del sistema scolastico. Nel contesto italiano, invece, la frequentazione delle aule universitarie e dei centri di orientamento al lavoro rappresentano esperienze tutt’altro che incompatibili. I costi comparativamente bassi dell’iscrizione universitaria e le alte aspettative di promozione sociale tramite l’università espresse dalle famiglie (cfr. capitolo VII) incentivano, più spesso che in Francia, l’accesso all’istruzione superiore come possibilità di “moratoria sociale”. Col risultato di avvicinare, sin quasi a confondere, la cultura politica di studenti e disoccupati. Ciò non impedisce che vi sia una divisione piuttosto netta tra le identità territoriali dei giovani di estrazione borghese e dei coetanei provenienti da milieux meno privilegiati. Ma, di nuovo, il fenomeno appare specialmente marcato in Francia, dove l’opzione europeista viene preferita da una quota di giovani della classe superiore (il 42,5%) più che doppia rispetto ai loro pari età figli di operai (il 20,4%). Analogamente, i punteggi di ‘europeismo relativo’ dei giovani i cui genitori sono laureati risultano quasi doppi di quelli degli intervistati che sono cresciuti in famiglie meno dotate di capitale culturale. L’europeismo dei giovani francesi, insomma, pare costituire un tratto identitario d’élite. O quantomeno, come già si è notato, un correlato della “centralità sociale” di alcune categorie – gli studenti, i borghesi, gli individui formatisi culturalmente in aree urbane. Quest’ultimo risultato, per la verità, assume un rilievo maggiore tra i giovani italiani: coloro 540 che danno un’alta priorità alla loro identità europea sono quasi il 50% in più tra chi ha vissuto prevalentemente in centri che contano oltre duecentomila abitanti. Il dato merita una sottolineatura in quanto riflette meno di quanto ci si potrebbe attendere l’associazione “classica” fra cosmopolitismo e vita urbana 3. Infatti, le quote di giovani che si sentono di appartenere “molto o abbastanza” al “mondo” sono pressoché identiche (intorno ai due terzi) al variare delle dimensioni dei contesti territoriali di socializzazione. La differenza tra giovani urbani e non urbani viene alla ribalta rispetto all’Europa. L’europeismo, forse, meglio del cosmopolitismo generico sostanzia un orizzonte identitario aperto quale può svilupparsi a contatto con la varietà dei modi di vita tipici dell’esperienza urbana, ancorandolo però ad una realtà politica concreta. Si aggiunga che la crescente presenza (e stigmatizzazione) di relazioni etniche conflittuali nei contesti metropolitani può stimolare l’afferenza ad un territorio identitario sovralocale quale quello europeo ma non totalizzante e soprattutto culturalmente distinto in maniera netta dal Terzo Mondo. Anche inconsciamente, dirsi europei significa dirsi comunitari, cioè non extra-comunitari. Al di là delle differenze per categorie sociali esaminate fin qui, in che misura le appartenenze territoriali riflettono caratteristiche significative della cultura politica dei giovani? Per rispondere a questa domanda, la tavola 3 presenta una serie di correlazioni parziali tra l’indice di europeismo relativo ed alcune dimensioni valoriali rilevanti. L’analisi distingue, per un miglior confronto, i campioni italiano e francese, “neutralizzando” gli effetti della condizione occupazionale, del genere, dell’età e della collocazione di classe degli intervistati. Il risultato più evidente riguarda lo stretto intreccio tra le dimensioni territoriale ed istituzionale dell’europeismo – il sentimento di appartenenza al continente e la fiducia accordata all’Unione Europea. Va detto che, con la sola eccezione dei disoccupati francesi, i quali sembrano in qualche modo fare dell’UE un capro espiaIl riferimento principale è ovviamente al Simmel di Metropoli e personalità (in Elia 1971), ma anche a L’estensione del gruppo e lo sviluppo dell’individualità (in Simmel 1982), ove sono esplicitamente tematizzate le condizioni socioterritoriali che favoriscono il cosmopolitismo. 3 541 Tavola 3. Il sentimento di appartenenza all’Europa nella cultura politica dei giovani italiani e francesi. Coefficienti di correlazione parziale tra l’europeismo relativo e altre componenti dell’identità politica Autocollocazione sull’asse sinistra-destra (sx=1, dx=10) Autocollocazione sull’asse di priorità per libertà (=1) o eguaglianza (=10) Italia Francia -0,04 -0,07* 0,01 -0,03 Senso di appartenenza alla famiglia -0,05* Senso di appartenenza alla propria generazione -0,03 Senso di appartenenza alla cristianità n.d. -0,00 -0,07** 0,00 Senso di appartenenza al mondo occidentale 0,09** 0,07* Senso di impotenza politica° 0,03 0,07* Fiducia nel governo nazionale 0,06** 0,09** Fiducia nel parlamento nazionale 0,05* 0,09** Fiducia nell’Unione Europea 0,24** Fiducia nei sindacati 0,01 Fiducia nei partiti politici 0,28** -0,00 0,02 0,06 Fiducia nella polizia -0,02 -0,04 Fiducia nella Chiesa cattolica -0,01 -0,01 Fiducia nelle associazioni di volontariato 0,01 0,06 Fiducia nelle televisioni -0,05* -0,03 Fiducia nel sindaco -0,03 -0,00 Particolarismo fiscale°° -0,08** Favore per eutanasia 0,03 0,10** Favore per legalizzazione delle droghe leggere 0,04 0,09** -0,07** -0,10** Favore per blocco immigrazione di extracomunitari n.d. N (minimo) = 1873 (campione italiano), 763 (campione francese) * P ≤ 0,05; ** P ≤ 0,01 ° Scala Likert relativa all’affermazione: “Non possiamo avere reale influenza sulle decisioni politiche, dunque è meglio occuparsi dei propri problemi privati” °° Scala autoancorante a dieci posizioni, con 1 = “Il cittadino deve pagare tutte le tasse che lo Stato gli richiede” e 10 = “Il cittadino deve pagare le tasse in proporzione a quanto riceve dallo Stato” Nota: i coefficienti descrivono la relazione lineare tra le variabili indicate controllando gli effetti delle seguenti variabili: condizione occupazionale, genere, età, collocazione di classe torio della loro condizione, la fiducia accordata all’Europa come istituzione è decisamente più alta – soprattutto in Italia – di quella riservata a istituzioni politiche nazionali come il governo, il parla542 mento, il sindaco. L’Europa come istituzione riscuote più apprezzamento delle altre istituzioni politiche, mentre l’Europa come territorio raccoglie un’adesione meno diffusa di altri ambiti spaziali. Se si ammette che l’appartenenza territoriale è una componente “calda” e il sostegno istituzionale una dimensione “fredda” dell’identità politica, si deve concludere che i giovani manifestano un europeismo di testa più che di cuore. Il processo di integrazione europea, di cui la presenza dell’UE rappresenta un primo prodotto, è visto con favore pur in presenza di un attaccamento non particolarmente entusiasta al suolo europeo. Tuttavia, la notevole correlazione tra sostegno istituzionale all’Europa e identità territoriale europea sta a ricordare che promuovendo l’uno si può forse rinvigorire anche l’altra4 . Il dato può sembrare scontato, senonché tra fiducia nelle istituzioni politiche e appartenenza al territorio non sempre si verifica una relazione così stretta. Basti pensare allo scollamento tra il sentimento nazionale e la fiducia nello Stato che si registra in Italia (cfr. Sciolla e Negri 1996; Diamanti 1999b; nelle nuove generazioni, Segatti 1997). Questo scollamento si spiega in chiave comparata in ragione del significato attribuito all’idea di patria, che in Italia si incentra su caratteri artistico-culturali anziché politico-economici (Segatti 1999). Si è piuttosto compaesani che concittadini – orgogliosi dei monumenti, delle tradizioni culinarie e dei successi sportivi, ma non del passaporto, della moneta e dei propri leader (cfr. Porro 1995). Probabilmente, laddove invece l’identità nazionale richiama soprattutto significati politici ed economici (come ad esempio in Germania), sentimento di appartenenza territoriale e sostegno alle istituzioni politiche vanno più di concerto. L’Europa sembra vicina a quest’ultimo modello, sicché 4 Non esistono ad oggi ricerche specifiche sul livello di stabilità della dimensione territoriale dell’identità politica. Non sappiamo quindi stimare empiricamente il grado di plasticità delle identità territoriali a fronte di mutamenti negli assetti politico-istituzionali. Ciò detto, tutte le (non molte) indagini esistenti forniscono risultati congruenti e stabili nel tempo. Vi sono quindi indizi fondati per ritenere che l’identità territoriale è un dato fortemente interiorizzato, prossimo al nocciolo duro dell’identità politica degli individui. Per contro, la fiducia nelle istituzioni sembra decisamente più volatile, con oscillazioni anche brusche a distanza di poco tempo e con diversi campioni – il che fa pensare che si configuri come un “atteggiamento riflessivo e sensibile all’esperienza piuttosto che come fede e abitudine del cuore” (Sciolla 1997, 51). 543 è ipotizzabile che in futuro una crescita (o una perdita) di rispettabilità delle sue istituzioni possa retroagire più direttamente sul “nazionalismo europeo” dei cittadini. Un secondo risultato di ordine generale consiste nella congruenza comparativa delle correlazioni, per segno e significatività. Dunque, l’europeismo si colloca all’interno di un humus culturale simile in Italia e in Francia: in sintonia con una collocazione ideologica piuttosto orientata a sinistra, con una esplicita e consapevole adesione ai valori del “mondo occidentale” (l’atlantismo è del resto storicamente il pilastro politico della coscienza europea: cfr. Girault 1994), con una maggiore integrazione nel contesto politico-istituzionale del proprio paese (indicata dalla fiducia nel governo e nel parlamento), con il rifiuto di atteggiamenti di chiusura verso il mondo esterno (in particolare, contro gli immigrati) e con un senso di efficacia politica individuale leggermente sopra la media (specie in Francia). Questo quadro viene completato in Italia da una presa di distanza non comune dal familismo spinto e dal particolarismo diffuso di coloro che si dicono disposti a pagare le tasse solo “in proporzione a quanto ricevono dallo Stato”5 . Tra i giovani italiani, inoltre, l’europeismo fa breccia in connessione con il laicismo (espresso da un basso senso di appartenenza alla cristianità) e da una certa insofferenza per le televisioni. Per contro, in Francia un più spiccato sentimento di appartenenza all’Europa è maggiormente presente in quei giovani che esprimono il loro consenso per opzioni politiche non convenzionali – come l’eutanasia e la liberalizzazione delle droghe leggere – che sembrano porsi in linea con il “liberalismo culturale” emergente tra le nuove generazioni di francesi (Schweisguth 1995). Nel complesso, i risultati contribuiscono a disegnare un ritratto del giovane europeista come cittadino tendenzialmente borghese (se non per estrazione sociale, per livello di istruzione e possibile destinazione nella struttura socio-professionale, specie in Francia), liberale-progressista, socialmente responsabile ed impegnato, rispettoso dell’ordine sociale ma non necessariamente conformista. 5 Questo item non era purtroppo presente nel questionario francese. Per contro i dati spagnoli al riguardo mostrano una notevole convergenza con il particolarismo fiscale dei giovani italiani (Ortega 1999, 684-685). 544 3. Le persistenti influenze delle culture nazionali nel rapporto con il territorio Ben più che per i coetanei francesi, per i giovani italiani il sentimento di appartenenza all’Europa si inserisce nel quadro di un esercizio di composizione di lealtà multiple: il 7,6% si sente al contempo molto europeo e molto cittadino del proprio comune (il 4,4% in Francia), l’8,2% europeo e membro della propria regione (il quadruplo che in Francia), il 15,6% europeo ed italiano (il 12,1% in Francia), il 14,7% cittadino d’Europa e del mondo (il 10,7% in Francia). Inoltre, le correlazioni tra gli indici di appartenenza ai diversi ambiti territoriali mostrano che nel campione francese è più nitida la distinzione tra orientamenti localisti e orientamenti cosmopoliti. A differenza che tra gli italiani, il senso di appartenenza al mondo è correlato significativamente (r = 0,44) soltanto con il senso di appartenenza all’Europa; non vi è alcuna associazione tra il livello di appartenenza municipale e quello europeo; i valori dei coefficienti sono sempre più bassi che nel campione italiano. Gli intervistati francesi sembrano insomma impiegare una logica più selettiva, o comunque adottare pratiche di composizione delle identità territoriali più strutturate dei coetanei italiani (in genere lungo l’asse locale-globale), come è del resto emerso anche in altre ricerche (Diamanti 1999b, 302). La comparazione con il caso francese dà forza all’ipotesi – maturata nelle ricerche esistenti citate in precedenza – di una specificità italiana nel rapporto tra individuo e territorio: il bricolage delle appartenenze. Che una concezione dell’Europa come patria quantomeno sussidiaria faccia più facilmente breccia in Italia che in Francia, quindi, rappresenta solo un effetto spurio della tendenza dei giovani italiani a sentirsi parte di tutti i diversi livelli territoriali. Questo ecumenismo territoriale è probabilmente l’espressione di una difficoltà generalizzata a discriminare tra i diversi ambiti. In sintonia con quanto emerso in precedenti indagini sui giovani italiani, la variegatezza delle identità territoriali “fa pensare che nessuna appartenenza sia così forte da escludere le altre” (Cavalli 1994, 7). E’ la peculiare incapacità di mettere ordine tra i diversi livelli geopolitici di riferimento che rende i giovani della Penisola al contempo, e senza remore, “cosmopoliti e localisti” (Sciolla 1997, 84). Per cercare di dare una spiegazione al fenome545 no, è inevitabile evocare la convergenza nella cultura politica italiana di una tarda unificazione nazionale, cui si lega la forza delle identità locali preesistenti, e della costante compresenza di un potere forte di natura extra-territoriale quale quello della Chiesa (cfr., fra i tanti, Cartocci 1994). Insomma, sembra plausibile che la disinvolta sovrapposizione delle identità territoriali che caratterizza i giovani italiani rifletta la sedimentazione storica di una pluralità di pretese di sovranità non mutuamente esclusive. I grafici 1 e 2 consentono una visione d’insieme delle appartenenze territoriali più forti e di quelle più deboli considerando separatamente studenti e disoccupati in Italia e in Francia. Il primo grafico raffigura i poli dell’appartenenza territoriale verso i Grafico 1. I poli attrattivi del sentimento di appartenenza territoriale dei giovani in Italia e in Francia Comune 50 Studente F Studente I Disoccupato F Disoccupato I 40 30 20 Mondo Regione 10 0 Nazione Europa N = 2854 Nota: Gli angoli del pentagono “radar” indicano i poli dell’appartenenza territoriale. I vertici dei poliedri all’interno del pentagono rappresentano la maggiore o minore prossimità ai poli dei diversi sottocampioni. La scala utilizzata, segnata su uno dei raggi del pentagono, corrisponde alla percentuale degli intervistati che dichiarano di appartenere “molto” a ciascun polo territoriale (ad esempio, tra gli studenti e i disoccupati italiani coloro che si sentono “molto europei” coincidono e sono pari a poco più del 20%; cfr. in basso a sinistra) 546 quali gli intervistati si sentono “molto” attratti; il secondo i poli rispetto ai quali costoro non si sentono “per niente” vicini. Il grafico 1 contiene numerose informazioni interessanti. Anche a un primo sguardo, è evidente che i poliedri che descrivono il livello di attrazione dei diversi centri di identificazione hanno forme simili nei sottocampioni esaminati. Ciò significa che, con un’unica eccezione (l’alto livello di municipalismo dei disoccupati francesi), i giovani italiani e francesi compiono un’operazione molto simile di gerarchizzazione implicita tra aree di identificazione. La nazione viene prima di tutto (i poliedri hanno l’angolo più acuto in basso a destra); seguono il mondo, il comune e la regione con percentuali non troppo dissimili. I poliedri sono invece “schiacciati” in basso a sinistra, a indicare che le percentuali di giovani che si considerano “molto” europei sono comparativamente ridotte. Nonostante la caduta progressiva del patriottismo con il succedersi delle generazioni in Europa (Dogan 1999, 404-409), dunque, l’equazione territorio = nazione non perde la sua validità né in Francia né, il che può forse sorprendere di più, in Italia. Un’analisi complessiva del grafico mostra un’altra particolarità ancor meno attesa: i poliedri sono inscritti l’uno nell’altro (di nuovo, con l’eccezione del vertice che rappresenta il municipalismo dei disoccupati francesi). Alla tendenziale omologazione delle priorità, quindi, fa riscontro una netta differenziazione dei livelli di intensità per paesi e per condizione occupazionale. Se è vero che il sentimento di appartenenza nazionale è sempre il sentimento prevalente, le quote di coloro che si sentono “molto” italiani o francesi variano notevolmente. Ma, e questo è il dato che merita di essere sottolineato, variano nella stessa direzione. Sicché gli studenti italiani, fra cui vi è il picco nella quota di coloro che si sentono di appartenere “molto” al proprio paese (il 49,7%), sono anche la categoria in cui sono più numerosi i cosmopoliti (37,6%), i regionalisti (31,9%) e i municipalisti (33,7%)6 ; i disoccupati italiani esprimono su tutte le dimensioni la seconda quota più alta, gli studenti francesi la terza e i disoccupati francesi la più bassa. In altre parole, i giovani italiani tendono sistematicamente a sentirsi più vicini a 6 Come già si è notato, la quota di coloro che si sentono di appartenere “molto” all’Europa – il 21,7% – è invece leggermente inferiore tra gli studenti italiani rispetto agli omologhi francesi (il 22,4%). 547 tutti gli ambiti territoriali dei loro coetanei francesi; egualmente gli studenti hanno sentimenti di appartenenza territoriale più spiccati dei disoccupati, soprattutto in Francia. Il punto da rimarcare è il carattere socialmente strutturato di queste differenze. Da una parte, ciò significa che le correlazioni tra i sentimenti di appartenenza territoriale non si possono imputare a un effetto psicologico di desiderabilità sociale degli item, cui dovrebbero essere soggetti pressoché tutti i rispondenti, e particolarmente i meno istruiti; al contrario, a dichiarare la maggiore prossimità a tutti i centri di identificazione sono gli studenti, cioè i più istruiti. D’altra parte, su un versante più sostantivo, l’insieme di questi dati suggerisce di tenere conto di un criterio di differenziazione degli atteggiamenti relativi agli ambiti di appartenenza territoriale che è forse più importante delle priorità dell’uno o dell’altro: la tendenza a dare molto o poco peso al terriGrafico 2. I poli repulsivi del sentimento di appartenenza territoriale dei giovani in Italia e in Francia Studente F Comune 20 Studente I Disoccupato F Disoccupato I 16 12 8 Mondo Regione 4 0 Europa Nazione N = 2854 Nota: Gli angoli del pentagono “radar” indicano i poli dell’appartenenza territoriale. La scala utilizzata, segnata su uno dei raggi del pentagono, corrisponde alla percentuale degli intervistati che dichiarano di sentirsi di non appartenere “per niente” a ciascun polo territoriale. 548 torio – a tutti i territori – come componenti della propria identità. Cioè, estremizzando, l’alternativa non è tanto sentirsi membri di una regione, di una nazione od europei, quanto dare importanza alla territorialità o meno nella definizione di sé. E, come si vedrà, è su questa dimensione che si registrano le distanze più marcate tra giovani italiani e francesi. Il grafico 2 mostra l’“altra faccia della luna” – cioè, quali poli di identificazione territoriale sono più nettamente rifiutati dagli intervistati, con le consuete distinzioni per paese e per condizione occupazionale. La rappresentazione grafica mette soprattutto in risalto, in linea con i commenti appena sviluppati, come gli studenti italiani non disdegnino nessuna area territoriale quale punto di riferimento identitario – a dichiarare di non appartenere affatto al comune, alla regione, all’Italia, all’Europa o al mondo è sempre una percentuale inferiore al 10%. Per contro, gli studenti francesi mostrano una peculiare allergia per le appartenenze locali – municipali e regionali – che del resto sono tradizionalmente poco enfatizzate nella cultura politica d’Oltralpe. Il profilo delle identità territoriali negate è invece molto simile tra i disoccupati italiani e i loro pari d’Oltralpe. Entrambi i gruppi, in particolare, dichiarano un’accentuata insofferenza per l’Europa (specialmente i francesi) e il mondo (specialmente gli italiani). Risulta così confermata, in negativo, l’associazione tra cosmopolitismo e centralità sociale già emersa nelle analisi presentate nelle pagine precedenti. Quanto detto fin qui converge nel mettere in luce la rilevanza di una dimensione che in genere, negli studi sul senso di apparteTavola 4. Tipi di radicamento nel territorio tra i giovani studenti e disoccupati in Italia e in Francia (% di riga) Sradicati Selettivi Bricoleurs Studenti italiani 16,3 30,5 53,1 Disoccupati italiani 25,3 29,3 45,4 Studenti francesi 32,3 32,2 35,5 Disoccupati francesi 45,2 28,4 26,4 Totale 24,6 30,4 45,0 N = 2854 549 Grafico 3. Tipi di identità territoriali, fiducia nelle istituzioni e posizioni ideologiche dei giovani italiani e francesi: analisi delle componenti principali non lineari 1,00 - 1,00 N = 2416 550 nenza, viene trascurata in favore dell’individuazione dei luoghi che prevalgono nella definizione dell’identità politico-territoriale individuale: l’estensione del radicamento nel territorio. Come si è visto, i giovani intervistati si differenziano tra loro sulla base di quante oltreché di quali appartenenze dichiarano. Si sono quindi distinti tre tipi di giovani: a) gli “sradicati”: tendono a dare poco significato al rapporto col territorio come componente qualificante la propria identità (operativamente, sulle scale di appartenenza non indicano in nessun caso la modalità “molto”); b) i “selettivi”: scelgono un ambito territoriale con cui hanno un’identificazione forte (indipendentemente da quale sia questo ambito); c) i “bricoleurs”: dichiarano di sentirsi “molto” attaccati a più di un ambito territoriale. La distribuzione di questi tipi nel campione è riportata nella tavola 4, che ribadisce la sensibile distanza tra la concezione pluridimensionale dell’appartenenza territoriale dei giovani italiani e l’approccio più selettivo dei loro coetanei transalpini e, inoltre, come la composizione di un’identità territoriale plurima sia operazione decisamente più diffusa tra gli studenti. Questa tipologia, tuttavia, consente soprattutto di apprezzare come l’estensione del radicamento territoriale occupi una posizione ben definita nel quadro della cultura politica dei giovani in Italia e in Francia (grafico 3). L’analisi delle componenti principali non lineare presentata nella figura tiene conto sia di alcune caratteristiche sociobiografiche fondamentali (il genere, lo stato civile dei genitori, la professione del capofamiglia, la nazionalità e la condizione occupazionale) sia di una serie di atteggiamenti che si ritiene abbiano particolare rilevanza per la definizione dell’identità politica soggettiva: la collocazione sull’asse sinistra-destra (con sei posizioni, di cui una indica l’incapacità o non volontà di collocarsi sull’asse), il senso di efficacia politica (“possiamo influenzare le decisioni politiche”), la fiducia nelle associazioni politiche (un voto medio a ‘partiti politici’ e ‘sindacati’ superiore o inferiore a 6 in una scala da 1 a 10), l’inclinazione a partecipare alla vita di associazioni (dicotomizzata sulla base della presenza o meno di esperienze di partecipazione), la fiducia nelle istituzioni politiche (un voto medio a ‘parlamento’, ‘governo’ e ‘sindaco’ superiore o inferiore a 6 in una scala da 1 a 10), la fiducia nella società civile (un voto medio a ‘associazioni di volontariato’ e ‘associazioni ecologiste’ superiore o inferiore a 6 in una scala da 1 a 10), il livello di europeismo rela551 tivo (che distingue chi ha un sentimento di appartenenza all’Europa superiore, eguale o inferiore al sentimento di appartenenza agli altri ambiti territoriali) e, infine, l’estensione del radicamento soggettivo al territorio (con le tre modalità descritte sopra). Le informazioni di tutte queste variabili risultano ben sintetizzate da due fattori7 che richiamano da un lato differenze “classiche” di collocazione ideologica (asse orizzontale, che è individuato particolarmente dalle cinque posizioni sulla linea sinistra-destra) e dall’altro l’espressione o meno di fiducia generalizzata (asse verticale, che corrisponde ai voti positivi o negativi attribuiti ad associazioni ed istituzioni, nonché alla partecipazione associativa). Per maggiore chiarezza, nel grafico le modalità delle due variabili relative al rapporto col territorio – l’europeismo relativo e il livello di radicamento territoriale – sono indicate rispettivamente con un triangolo e con un cerchietto. Ebbene: anche queste due dimensioni sono disposte in maniera tendenzialmente ortogonale. Cominciamo dalla prima dimensione, sull’asse orizzontale. Gli europeisti sono decisamente spostati a sinistra e gli antieuropeisti a destra (mentre la posizione ambigua o indifferente occupa il centro esatto dello spazio fattoriale a due dimensioni), riproducendo così una divaricazione storicamente sedimentata anche a livello sistemico negli orientamenti dei maggiori partiti nazionali, non solo in Italia e in Francia. Inoltre, come già si è notato, ai due poli opposti dell’europeismo e dell’antieuropeismo sono prossimi rispettivamente i giovani d’estrazione borghese – figli di imprenditori, manager, professionisti – e i giovani di classe media e operaia, a ulteriore conferma della connotazione elitaria del sentimento d’appartenenza all’Europa. L’altra dimensione che ci interessa – l’ampiezza del radicamento territoriale – è in buona misura omogenea al livello di fiducia generalizzata degli intervistati, che struttura l’asse verticale del grafico. Lo sradicamento si configura come un sinonimo di bassa fiducia; non avere luoghi “propri” rappresenta una presa di distacco dalla vita sociale anche nelle sue forme meno istituzionalizzate (come le associazioni). Gli sradicati sono più spesso giovani che 7 I due fattori riproducono il 31,4% della varianza – un valore non troppo modesto se si considera che l’analisi riguarda trentadue variabili-modalità. 552 manifestano altri sintomi di isolamento relazionale (figli di genitori divorziati, senza alcun legame associativo, con più probabilità disoccupati) ed apatia (non vogliono o non sanno collocarsi né a destra né a sinistra, hanno un basso senso di efficacia politica). Per contro, una ridondanza di appartenenze territoriali forti si associa ad una solida fiducia nella società civile e nelle istituzioni nonché ad una spiccata propensione alla partecipazione a qualche forma di azione collettiva. Il bricoleur è un giovane integrato – e, se si vuole, anche un po’ conformista. In questo senso, la pluralità delle appartenenze territoriali si pone all’interno di una logica di integrazione ed accettazione dell’esistente che non coincide con quella tendenza all’eclettismo critico insita nel concetto di bricolage valoriale proposto come paradigma dell’identità postmoderna (cfr. Bourricaud 1980). Ma la variabile che complessivamente ha il component loading più alto è la nazionalità degli intervistati. Anche nelle giovani generazioni di europei, dunque, i confini nazionali dividono gli orientamenti politico-culturali degli individui come nessun altro fattore. Nello specifico, l’asse Francia-Italia taglia trasversalmente le due componenti principali individuate dall’analisi: i giovani francesi sono spostati a sinistra ma soprattutto poco inclini a riconoscersi in qualche ambito territoriale e a dar fiducia alle espressioni istituzionali della società in cui vivono, i giovani italiani più prossimi alla destra e più integrati territorialmente e istituzionalmente. Sarebbe interessante poter replicare l’analisi in campioni che includessero anche esponenti di coorti più anziane per acclarare in che misura questi risultati riflettono da un lato tendenze diverse delle culture giovanili nei due paesi e dall’altro tratti salienti dei caratteri nazionali che si riproducono con le generazioni8 . Invero, gli unici dati disponibili su campioni rappresentativi della popolazione nazionale di tutte le fasce d’età mostrano una più spiccata propensione al bricolage territoriale degli italiani rispetto a tedeschi, francesi, spagnoli e inglesi (Diamanti 1999b, 301-303), dando corpo all’ipotesi che la pluridimensionalità delle appartenenze territoriali rappresenti una componente importante del carattere nazionale italiano più che una specificità della cultura giovanile. 8 553 4. Identità territoriale e mutamento politico: un sentiero difficile per l’integrazione europea? Ricostruire la tavolozza delle appartenenze territoriali delle nuove generazioni rappresenta un passaggio essenziale per mettere a fuoco le possibili colorazioni di alcune dimensioni cruciali della loro cultura politica – in particolare, le possibili direzioni future della domanda di rappresentanza e il grado di adattabilità ai processi di globalizzazione culturale. Cominciamo dalla prima questione: quali livelli di res publica toccano le corde più profonde dell’identità politica degli individui e possono sollecitare mutamenti nella distribuzione del potere politico tra livelli di governo9 ? I dati esaminati in questo saggio convergono con i risultati di altre ricerche nel segnalare come, nell’Italia e nella Francia contemporanea, il processo di socializzazione politica non conduca alla formazione di un’identità collettiva fondata su un ambito territoriale esclusivo. Specie in Italia, per i giovani l’identità territoriale si configura come una costruzione modulare. In questo quadro l’Europa, senza essere del tutto negletta, rappresenta tutt’altro che un riferimento spaziale prioritario. Insomma, in entrambi i paesi analizzati non ha alcuna presa tra i giovani l’idea che l’Europa costituisca un’area geosimbolica di afferenza esclusiva (si sentono “molto” europei e nient’altro solo l’1,1% degli italiani e l’1,8% dei francesi intervistati). Questa difficoltà di far breccia nelle rappresentazioni simboliche ha inevitabili ripercussioni sul piano della domanda di rappresentanza. Ad esempio, suscita qualche dubbio sul possibile consenso per un Nel caso italiano il rapporto tra appartenenze territoriali e domanda di rappresentanza è emerso con la massima chiarezza nelle vicende politiche del Nord del paese dalla fine degli anni Ottanta in poi. Come è noto, la Lega Nord dovette il suo iniziale successo alla sensibilità per una dimensione dell’identità territoriale – quella locale – dei cittadini delle regioni settentrionali che era stata inopinatamente trascurata dalle forze politiche preesistenti. Dovette anche però la sua crisi della fine degli anni Novanta all’incapacità di cogliere la natura composita di tale identità, in cui il locale non elideva necessariamente il nazionale e il globale. L’obiettivo secessionista, rivendicando un’opposizione radicale tra appartenenza locale e nazionale, mal si conciliava con l’identità plurale dei cittadini del Nord-Est (Diamanti 1999b), oltreché con altre forme di interdipendenza strutturale tra le regioni italiane (Trigilia 1994, 86). 9 554 processo a breve termine di estensione della sovranità delle istituzioni europee. Forse, al volgere del secolo che ha visto nascere l’Europa unita in maniera pacifica, neanche i più giovani tra i cittadini francesi e italiani sono ancora pronti a farsi governare da un premier irlandese, spagnolo o danese. I progetti più ambiziosi di integrazione devono aspettare. D’altra parte, i dati mostrano che vi sono delle avanguardie sociali dell’europeismo – e segnatamente, i giovani d’estrazione sociale superiore e di ispirazione politica progressista. Non va dimenticato che anche il nazionalismo, prima di divenire la chiave di volta della cultura di massa del secolo XX, è stato fatto proprio e sostenuto da cerchie ristrette e privilegiate da cui si è poi propagato10 . La variabile ‘tempo’ ha la sua importanza: “è troppo facile far presente tutti i modi in cui la costruzione di un’unione economica non ha sinora prodotto integrazione sociale; data la lentezza e la profondità del radicamento dei processi sociali, nessuno si dovrebbe attendere che possa aver già sortito degli effetti. Ciò non significa però che nel lungo periodo non possa sortirne” (Crouch 1999, 395). Ad oggi stiamo probabilmente attraversando una fase di transizione. Il sentimento di appartenenza nazionale è in declino col passare delle generazioni, ma l’identità europea resta lungi dal soppiantarlo. Il nazionalismo è (quasi) morto, l’europeismo non è ancora nato. Il mosaico delle appartenenze territoriali riflette allora la sovrapposizione delle pretese di sovranità cui sono soggetti i cittadini europei alle soglie del secolo XXI, come espressione soggettiva di un lento e difficile mutamento delle identità territoriali collettive verso nuovi assetti. La seconda tematica che può valersi di dati sul senso di appartenenza territoriale investe il problema dell’integrazione sociale e culturale di individui nati e cresciuti in contesti nazionali differenti. Sono passati molti lustri da quando Shils osservò che “la collocazione spaziale, come il lignaggio, possiede una valenza primorStoricamente la diffusione dei nazionalismi – in Europa e non solo – ha sempre fatto leva sui giovani, con un contributo determinante dei più istruiti tra loro (Minogue 1967). Anche perché, molto pragmaticamente, di solito sono le giovani generazioni di intellettuali a trarre i maggiori benefici, in termini di opportunità professionali, dalla creazione di un nuovo livello di governo e di amministrazione (Gellner 1983, 58-62). 10 555 diale, [dal momento che] gli esseri umani si considerano in parte costituiti dalla sezione della superficie terrestre su cui vivono” (1975, 65). Proprio per la sua natura “primordiale”, l’autoriconoscimento come membri di un territorio ha una capacità integratrice e stabilizzatrice dei gruppi sociali che insistono su quel territorio senza pari. Ma quale territorio? E cosa succede se il suolo nazionale perde la sua esclusiva come catalizzatore delle appartenenze collettive, ma nessun altro ambito spaziale ne rileva il ruolo? Il quadro frastagliato che è emerso dalla ricerca empirica manifesta senz’altro i sintomi di una confusione identitaria. Tuttavia, non si può trascurare che una coscienza nazionale flou costituisce meno un vincolo che una risorsa per chi è chiamato a muoversi in un mondo i cui interessi e i cui livelli di mediazione tendono a scavalcare il livello della sovranità statale (Cassano 1998). E, sul filo di questo stesso ragionamento, una molteplicità di baricentri territoriali soggettivi può paradossalmente assecondare meglio alcuni processi di trasformazione macrosociale. In particolare, posto che le appartenenze territoriali costituiscono una cartina di tornasole dei rapporti con altre nazionalità ed etnie, è ragionevolmente ipotizzabile che l’assenza di un’identità territoriale forte favorisca un approccio flessibile a una issue – l’immigrazione – sempre più in primo piano nell’agenda politica dei paesi sviluppati. Nella misura in cui una pluralità di appartenenze territoriali indica una non esclusività dell’identità collettiva, le barriere tra “noi” e “loro” risultano forse meno rigide e i processi di integrazione degli immigrati meno drammatizzati. In una prospettiva di apertura ai processi di globalizzazione culturale, dunque, la presenza di un’identità territoriale “plastica” sembra rendere le nuove generazioni – pur con differenziazioni interne – relativamente pronte alle sfide del cambiamento e alla formazione di un futuro spazio sociale europeo a carattere multiculturale allargato. 556 CAPITOLO VENTESIMO VERSO UNA COMUNE IDENTITÀ EUROPEA: LE APPARTENENZE DIFFICILI 1. La categoria di ‘appartenenza’ e le sue trasformazioni La categoria di appartenenza è stata declinata nel lavoro di concettualizzazione compiuto dalla sociologia classica, in stretta connessione con i processi di transizione alla modernità che hanno attraversato le società europee tra il XIX e il XX secolo. Fin da subito ne è stato evidenziato il carattere problematico e multidimensionale. La forma moderna dell’appartenenza si caratterizza, infatti, per la necessità di compenetrare per lo meno due aspetti in apparenza contraddittori: l’identificazione con una collettività e il pluralismo delle cerchie sociali e dei ruoli, il cui progressivo incremento caratterizza i processi di mutamento delle società moderne1. Secondo Questo capitolo è stato scritto da Gianfranco Bettin Lattes. L’elaborazione dei dati e dei grafici è di Andrea Spreafico. 1 In questa linea Talcott Parsons aveva sottolineato appunto che «l’integrazione dei membri di una società implica una zona di interpenetrazione tra il sistema sociale e quello della personalità» (Parsons 1975, 58). Ora, secondo Parsons, le logiche di interpenetrazione devono potersi sviluppare in un contesto relazionale che vincola gli individui ad uno specifico ambiente, sia fisico che sociale, poiché è dalla condivisione di forme culturali nel relazionarsi all’ambiente che è possibile definire il sistema sociale. Da un’altra prospettiva, però, Parsons si era interrogato sulla possibilità dell’esistenza di rapporti di lealtà nei confronti delle diverse collettività all’interno delle quali i membri rivestono uno o più ruoli, osservando che «l’incremento del pluralismo dei ruoli, è la principale caratteristica dei processi di differenziazione che sono alla base delle società moderne. Pertanto la regolamentazione della lealtà dei membri verso la comunità stessa e verso varie altre collettività è il problema principale per l’integrazione di una comunità sociale. (…) Una comunità sociale è costituita da una rete complessa di collettività intersecantesi e di lealtà collettive» (Parsons 1975, 62-63). 557 l’impostazione della teoria classica è l’appartenenza allo Stato nazionale che permette di compensare questa pluralità endemica di elementi interni al sentimento di appartenenza. Lo Stato nazionale per un verso istituisce una società che ha dimensioni molto più ampie della comunità, ma che al medesimo tempo consente di interconnettere un ampio numero di individui attraverso sentimenti di lealtà e di identificazione (oltre agli interessi materiali). Da questo punto di vista lo strumento principe dell’integrazione viene ad essere la cittadinanza. Lo sviluppo delle istituzioni della cittadinanza ha permesso, infatti, l’articolazione dell’appartenenza e delle lealtà anche al di fuori degli ambiti relazionali particolari, separando i tre fattori che anticamente erano incardinati nella struttura del sentimento di appartenenza: la religione, l’etnicità e la territorialità. Nelle società moderne queste tre dimensioni si separano reciprocamente, perdendo di centralità sociale, tuttavia Talcott Parsons non mancava di sottolineare il rischio per questo tipo di solidarietà astratta e istituzionalizzata nella cittadinanza di essere «gravemente compromessa da fratture regionalistiche, specialmente quando queste coincidono con divisioni etniche o religiose. Molte società moderne si sono disintegrate proprio per questi motivi»2 . Il carattere spaziale del radicamento come condizione dell’appartenenza costituisce un aspetto centrale nella strutturazione delle identità collettive. In questa linea già Georg Simmel aveva indirizzato l’analisi sulla relazione tra struttura spaziale delle relazioni sociali e identità sociale3. Simmel elabora una sociologia dell’appartenenza a partire da una lettura spaziale delle logiche interne alle relazioni sociali, infatti il radicamento territoriale conferisce alle formazioni sociali un’unicità che è anche esclusività rispetto a forme sociali simili. Il sentimento di appartenenza allo Stato nazionale consiste propriamente di questi elementi, infatti Parsons 1975, 74. In un saggio del 1897 aveva osservato che un importante fattore «della continuità degli esseri collettivi è la permanenza del suolo sul quale essi vivono. L’unità, non solo dello Stato, ma della città e di altre associazioni, viene riferita anzitutto al territorio che serve da substrato durevole di tutti i cambiamenti» (Come si conservano le forme sociali, in Mongardini 1975, 45). 2 3 558 l’identità nazionale si costituisce anche a partire dalla configurazione spaziale delle relazioni e dalla relazione tra ambiente e società nel perimetro della società-nazione4 . È a partire da questi spunti classici che è opportuno interrogarsi sui possibili sviluppi di un sentimento di appartenenza in chiave sovranazionale come conseguenza e/o condizione del compimento dei processi di integrazione istituzionale e sociale in corso nell’Unione europea. Le riflessioni di Simmel, pur nella loro immutata fecondità, evidenziano bene la difficoltà per il pensiero classico, ivi comprendendo anche Parsons, di concepire forme dell’appartenenza extrastatuali che non fossero tipicamente politico-simboliche, come il cosmopolitismo illuministico o religiose, come la fratellanza universale, ma comunque sempre riconducibili al livello dell’esperienza e della scelta dell’individuo. Riflettere dunque sulle condizioni della formazione di sentimenti di appartenenza verso istituzioni sovranazionali a carattere non universale significa porre, innanzitutto, un problema teorico tutt’altro che secondario. Simmel ci insegna che le forme dell’appartenenza sono strettamente connesse con il grado di astrazione contenuto nelle relazioni sociali che strutturano la collettività di riferimento; in questo senso i processi di integrazione europea possono essere considerati come transizioni delle relazioni sociali ad un livello di astrazione maggiore. Da un punto di vista sistemico si può dire che la costituzione di un macrosistema è resa possibile solo da un processo di differenziazione interna che separa ulteriormente le dimensioni istituzionali dalle relazioni sociali concrete, conseguendo una forma di integrazione che è ancora più astratta di quella statuale, a sua volta prodotta, secondo l’osservazione di Parsons, dall’astrazione dei processi integrativi etnici, religiosi e territoriali. La formazione dello Stato nazionale ha infatti prima ridotto ad un livello secondario le identità etniche e linguistiche tipiche dell’epoca feudale, successivamente – come ha mostrato Granet – lo Stato si è costituito come centro di governo dei destini degli indiÈ in questa stessa linea che Simmel osserva che «il tipo di relazione tra gli individui che lo Stato crea, o che crea lo Stato, è talmente collegato con il territorio che un secondo Stato contemporaneo sul medesimo territorio è un concetto impensabile» (Simmel 1989, 526). 4 559 vidui in seguito al suo svincolamento dalla religione e allo sviluppo della secolarizzazione delle istituzioni religiose. In questa linea la formazione di un’unità sovranazionale come l’Unione europea rappresenta il superamento – in senso astratto – dell’ultima forma delle appartenenze, quella spaziale-territoriale che ha caratterizzato la formazione degli Stati moderni. Alla luce di queste riflessioni si può ipotizzare, allora, che l’unica forma possibile che potrà assumere l’appartenenza all’Unione europea sarà quella istituzionale. Il grado di astrazione incorporato nelle relazioni sovranazionali è facilmente rinvenibile anche soltanto quando si osservi il percorso esclusivamente economico che ha contrassegnato lo sviluppo dei processi di integrazione nell’Europa dell’ultimo mezzo secolo. Inoltre se i temi della cittadinanza europea costituiscono oggi oggetto di un intenso dibattito, la composizione delle forme nazionali della cittadinanza rimane ancora un compito gravoso e di difficile soluzione. In questo quadro si inscrivono gli sforzi degli organi dell’Unione europea di lasciare ai singoli stati membri la regolazione normativa dei gruppi etnico-linguistici e più in generale delle forme di comunità e associazione fondate su sentimenti di appartenenza, concentrandosi sulla legiferazione e la difesa dei diritti degli individui (nelle loro diverse articolazioni: umani, di consumo, ecc.). Anche quando si consideri il sentimento di appartenenza all’Europa dal punto di vista non più strutturale ma culturale, è chiaro che l’immenso patrimonio che caratterizza la cultura europea può essere definito europeo proprio quando si prescinda dalle peculiarità nazionali. In questa chiave, dunque, la storia e le tradizioni dell’Europa occidentale difficilmente potranno costituire uno specifico sentimento di appartenenza all’Unione europea in quanto forme culturali prodotte nell’alveo delle appartenenze territoriali premoderne e moderne con una portata e valenze universali, ma non, in senso stretto, continentali. L’integrazione europea segna il proprio sviluppo attraverso un processo di deterritorializzazione dell’appartenenza che apre al medesimo tempo prospettive nuove e problematiche circa le possibili modalità di articolare la rappresentanza politica a livello europeo e lo sviluppo di una cultura civica come sostegno necessario alla legittimità procedurale delle istituzioni. Alla luce di que560 ste riflessioni si può allora ipotizzare che i sentimenti di appartenenza difficilmente avranno le caratteristiche di intensità e coinvolgimento peculiari all’identità nazionale nella storia dello Stato moderno, caratterizzandosi piuttosto per forme di lealtà astratte e specifiche. Una soluzione, che non intacca il carattere prevalentemente giuridico-formale dell’attuale processo europeo, ma che cerca – facendo leva proprio su questa dimensione – di compensare l’assenza di radicamento storico-territoriale del sentimento di appartenenza, è stata avanzata da Jürgen Habermas nel modello del “patriottismo costituzionale” (Habermas 1992). Per il sociologo tedesco, da sempre molto attento alla questione dell’unificazione europea, la costituzione di una collettività europea è possibile attraverso la condivisione da parte degli europei di un insieme ristretto di valori, regole e procedure, in breve, di una Carta costituzionale europea. Habermas teorizza, in altre parole, due livelli di appartenenza: il primo, più astratto e concernente valori universalistici e procedure democratiche, contenuto in una carta costituzionale; il secondo riguarda invece la propria etnia e nazione di appartenenza, ed è il risultato della storia particolare dei popoli europei. Il punto è che tra i due livelli non esiste necessariamente una contrapposizione né il primo è troppo necessariamente astratto per poter creare un sentimento di appartenenza. Da un lato, quindi, ogni europeo può sentirsi vicino ad una collettività in un certo senso giuridica e non concreta come quella costituita attorno alla Comunità europea, e nello stesso tempo non perdere i legami con la propria collettività “naturale” – la nazione o l’etnia. Dall’altro lato, il primo livello assicurerebbe un minimo di coscienza collettiva, alla Durkheim, e di solidarietà tra gli europei, in grado di costituire una base culturale su cui edificare la solidarietà e la partecipazione a livello europeo in mancanza di una comune identità culturale. In altre parole, la fedeltà ad una Carta costituzionale europea fornirebbe gli elementi per la formazione di una identità civica europea, che appare necessaria per la costruzione di un processo democratico a livello europeo. Infatti, questa prospettiva, affiancando una cittadinanza europea a quella su base nazionale, dovrebbe riuscire a favorire l’allargamento della democrazia che oggi appare esclusivamente legata all’ambito dello Stato naziona561 le. Si tratta di una prospettiva di indubbio interesse, poiché si confronta con quello che costituisce sicuramente il principale problema dell’Europa unita. A tutt’oggi, l’Unione europea appare costituita da organizzazioni internazionali che sono per loro natura non democratiche, in un senso puro; la rappresentanza e la partecipazione democratica restano ancorate allo Stato nazionale, mentre la «diplomazia, non la democrazia» governa i meccanismi decisionali delle istituzioni europee (Mancini 1998). L’ipotesi di Habermas è stata tuttavia fortemente criticata. In primo luogo, si è sostenuto che la condivisione di una Carta costituzionale è ancora troppo poco per formare una coscienza collettiva e un sentimento di appartenenza. Habermas lascia in secondo piano la funzione integrativa che sottende al funzionamento delle istituzioni e delle procedure democratiche e che costituisce principalmente una condizione ineliminabile della solidarietà sociale. Un lungo filone di ricerche sociologiche ha individuato, invece, proprio nella condivisione di una storia comune, di una cultura comune, in altre parole nell’esistenza di un ethnos condiviso collettivamente una delle principali condizioni per l’affermazione e per l’efficacia di un sistema democratico. La democrazia non si realizza esclusivamente attraverso l’instaurazione di regole e procedure istituzionali, ma richiede anche l’esistenza di una collettività omogenea dal punto di vista simbolico-culturale. Lo Stato-nazione ha offerto una condizione eccezionale per il realizzarsi delle democrazie moderne grazie appunto al fatto di basarsi su una collettività con una storia, una lingua e una cultura comune, in altre parole una collettività etnica che si sintetizza con il termine “nazione”. Nello Stato-nazione moderno l’appartenenza è dunque il lascito sociologico di una storia e di una cultura comune, ed è ciò che crea il substrato necessario per la cittadinanza democratica. Prima ancora che l’equilibrio istituzionale e la razionalità dell’assetto costituzionale, questa dimensione prettamente culturale, la nazione, è ciò che ha consentito e consente il funzionamento e la stabilità delle attuali istituzioni democratiche. Nel caso dell’Europa naturalmente questa condizione dell’omogeneità culturale manca ancora del tutto. L’Europa è essenzialmente un insieme di nazioni diverse. L’idea della storia e della cultura comune nata nel medioevo è in realtà una “mezza verità” che serve ben poco allo scopo di giustificare e affermare 562 l’esistenza di una identità collettiva tra i popoli europei (Mancini 1998). Una Costituzione europea, con una solidarietà esclusivamente giuridica e del tutto sganciata da una cultura comune, potrebbe rivelarsi ancora un debole mezzo per realizzare un sistema democratico a livello europeo. Senza la presenza di un ethos politico democratico l’Unione europea non è altro che un’impalcatura di leggi senza un’autentica carica identitaria, un’entità politica priva di integrazione civica (Rusconi 1996). A questo tipo di obiezioni si è in genere risposto ricordando, in primo luogo, che esistono diverse democrazie che si fondano su società non culturalmente ed etnicamente omogenee, ma plurietniche. Quello che è accaduto in Europa, la correlazione tra nazione e democrazia, per Habermas è esclusivamente una contingenza storica e non un legame sociologicamente necessario. In secondo luogo, gli attuali processi migratori profilano per il futuro degli Stati europei la fine della loro tradizionale omogeneità culturale: le società nazionali europee sono destinate ad essere sostituite con società fondamentalmente multiculturali. La scissione tra democrazia e omogeneità storico-culturale, tra demos ed ethnos, sembra costituire ormai una necessità da cui dipende lo stesso futuro della democrazia europea5 . Ma la nascita di un’opinione pubblica europea si scontra con parecchie e gravi difficoltà. Innanzitutto, l’assenza di una lingua comune impedisce la formazione di un dibattito politico diffuso socialmente a livello europeo. Ancora una volta emerge con chiarezza il problema dell’omogeneità culturale. In secondo luogo, mancano delle agenzie di mediazione tra istituzioni europee e i cittadini, che siano in grado di articolare il dibattito, di diffonderlo e di renderlo comune nei diversi Stati. I partiti e i gruppi di pressione tendono, infatti, ancora ad agire e a essere sostanzialmente legati alla loro base nazionale. 5 Tuttavia, se l’esempio nord americano testimonia la capacità dello Stato moderno di restare democratico e di adattarsi alla trasformazione dell’ambiente sociale in termini multiculturali, non si può dimenticare che esistono difficoltà particolari per quanto riguarda l’Europa unita. Due eminenti giudici costituzionali tedeschi, Grimm e Kirchhoff, hanno giustamente sottolineato come la democratizzazione dell’Europa richieda la formazione di un’opinione pubblica europea, che sia in grado di discutere, avanzare riflessioni e costruire consenso. 563 Un processo di allargamento degli orizzonti sociali e culturali è dunque un dato fondamentale. Anche se appare possibile fondare su un demos e non su un ethnos, un regime democratico, certe condizioni sociali ed extragiuridiche sono pur sempre imprescindibili per produrre la necessaria coesione. Segnali di cambiamento in questa direzione vengono proprio dalle giovani generazioni. Sono oggi numerosi i giovani che cominciano ad assumere, di fatto e nella quotidianità, l’Europa come uno spazio dei propri interessi, uno spazio nuovo entro cui muoversi liberamente per i motivi più diversi. Sono infatti le nuove generazioni che più di tutte si troveranno a sperimentare, anche in chiave di cultura civica e di legittimazione politica, i temi procedurali ed economico-istituzionali che, fino ad oggi, hanno “fatto l’Europa”. La sociologia della condizione giovanile ha messo in luce – ormai da un paio di lustri – l’inclinazione delle nuove generazioni a forme di appartenenza multiple. Le trasformazioni dell’identità sociale giovanile agiscono infatti nella direzione di destrutturare la configurazione gerarchica tradizionale delle identità, anche territoriali, aprendola a sentimenti di appartenenza plurali. Si tratta, in altri termini, di un senso di appartenenza multipla che non sembra strutturarsi in modo significativo intorno ad un nucleo rigidamente definito e a punti di riferimento nettamente delineati. Questo aspetto indica che – in un modo che si potrebbe definire postmoderno – per molti giovani l’appartenere è un elemento importante della propria identità, senza però comportare una strutturazione forte delle relazioni gerarchiche tra i diversi centri di appartenenza: si percepisce il sentimento di appartenenza a molte dimensioni, ma non si sente di appartenere a qualcuna in un modo più marcato di altre. In questa linea è stato osservato che i giovani italiani hanno un sentimento di appartenenza nel quale «realizzano il loro rapporto con il territorio in modo flessibile e articolato, componendo, organizzando, riaggiustando le principali definizioni dell’ambito territoriale a misura delle loro esigenze cognitive e pratiche. Una sorta di “logica del bricolage” che permette, fra l’altro, la coabitazione di identità e di sistemi locali, peraltro tanto specifici e differenziati come quelli proposti dalla realtà e dalla storia italiana» (Diamanti 1997, 147). All’interno di questo quadro l’Europa si colloca però ancora in una posizione troppo marginale. Le nuove generazioni si trova564 no oggi in una fase di transizione che, se da un lato rompe le strutture identitarie e di appartenenza tradizionali, aprendole a forme plurali e segmentate, dall’altro lato mostra ancora una netta preferenza per il legame territoriale piuttosto che per il sentimento più astratto della cittadinanza europea. Una conferma di questi orientamenti viene anche dall’ultima indagine Iard. Se nove giovani su dieci condividono la costruzione dell’unità nazionale e dunque legittimano i processi di integrazione europea, il tema dominante dell’appartenenza non sembra caratterizzarsi in termini di radicamento. Insomma, l’Unione europea nel momento in cui viene legittimata lo è in quanto cornice istituzionale delle identità nazionali, o, come è stato osservato «l’Europa non è ancora (ammesso che lo possa mai divenire in futuro) per i giovani una “patria”, un contesto di riferimento identitario. È invece considerata una ‘casa comune’ per gli stati e le ‘patrie’ – nazionali e locali – che ne fanno parte» (Diamanti 1997, 159). 2. L’Europa nella geografia delle appartenenze Come si è illustrato nel capitolo precedente, il senso di appartenenza verso tutti gli ambiti territoriali è intenso, ma soprattutto si può parlare al riguardo di appartenenze multiple, orientate cioè simultaneamente verso più dimensioni (per molti giovani, come si è già detto, l’appartenere comunque è un aspetto importante della formazione della propria identità). Tra gli studenti universitari l’attaccamento nazionale e quello locale sono complementari, non si escludono, anzi coesistono con un buon grado di intensità e si combinano anche con un’importante apertura cosmopolita (grafico 1). I giovani realizzano il loro rapporto con il territorio in modo flessibile, in modo da far convivere tra loro identità specifiche e differenziate; connettono i loro attaccamenti familiari e locali a quelli nazionali e cosmopoliti, muovendosi dagli uni agli altri senza contraddizioni: passano con una certa indifferenza dal cosmopolitismo dei valori, delle relazioni e delle comunicazioni al localismo familiare, amicale, professionale e del tempo libero. Assai diverso è invece il caso dell’appartenenza all’Unione europea. L’identità europea, ancorché indicata all’incirca dai 2/3 565 Grafico 1. L’intensità delle appartenenze territoriali degli studenti italiani 90,0 86,8 80,0 70,0 60,0 73,7 67,8 65,0 69,0 50,0 40,0 30,0 20,0 10,0 0,0 comune regione Italia Europa nord molto + abbastanza dei giovani come “importante”, è comunque quella che riceve in assoluto il minor numero di consensi e che rappresenta l’ambito di appartenenza “più rilevante” soltanto per un 9% degli studenti intervistati. E’ un dato che fa riflettere per la sua esiguità e sembra in aperto contrasto, oltreché con il tradizionale e sbandieratissimo europeismo degli italiani, con la configurazione sociologica di questo segmento del mondo giovanile che, per formazione culturale, dovrebbe esser assai aperto alle appartenenze di livello extranazionale. Una possibile interpretazione è che in questi ultimi anni, in contemporanea con il processo di integrazione europea, sia in corso un processo che potremmo definire di deculturalizzazione del contenuto dell’idea di Europa. Nelle more del processo di europeizzazione economico-istituzionale l’idea di Europa sembra essere investita da una profonda trasformazione in forza della quale vengono poste in secondo piano le tradizionali connotazioni di tipo valoriale e culturale a vantaggio di una connotazione più contingente che la qualifica, nell’orizzonte identitario dei giovani, sempre più come spazio economico e politico-istituzionale svincolato da riferimenti etico-culturali profondi, che coinvolgono l’identità di neo-cittadini. Si tratta di un processo, per certi versi, paradossale ma che meriterebbe di essere indagato in modo adeguato alla sua complessità. Sarebbe utile verificare, ad esempio, quanto incida in questa trasformazione la tematizzazione dell’Europa fatta dai media. La deculturalizzazione dell’idea di Europa viene indicata indirettamente anche dal bassissimo livello di identificazione con l’Occidente e con il Cristianesimo, le due dimensioni culturali 566 da secoli costitutive dell’idea di Europa e che gli studenti collocano agli ultimi due posti nella scelta delle appartenenze prioritarie con rispettivamente un 5% per l’Occidente ed un 4% per il Cristianesimo. Gli aspetti dell’unificazione europea che ricevono maggiori consensi sono quelli economici ed organizzativi, ad esempio la moneta unica e l’attribuzione di maggiori poteri al parlamento europeo: l’Europa è soprattutto quella monetaria ed istituzionale, non è un contesto di riferimento identitario né una patria (i giovani si pensano “italiani in Europa”, o al limite “fiorentini, romani, genovesi e così via in Europa” piuttosto che “europei”). Un aspetto rilevante del discorso sociologico sulla politica giovanile riguarda il tipo di legame che è possibile rintracciare tra le appartenenze territoriali e le forme dell’identità civica. Alcune recenti ricerche (Diamanti 1997) hanno evidenziato come l’identità civica dei giovani sia influenzata dall’appartenenza territoriale. Si tratta di un elemento che già la teoria politica ha da tempo messo in luce. Il concetto di partecipazione, infatti, oltre ad indicare la possibilità di prendere parte ad una decisione, comprende anche nel suo campo semantico il significato di “fare parte”, “essere parte” di una collettività e/o istituzione (Cotta 1979). Di conseguenza quando il senso di identificazione verso un’unità territoriale è intenso, ne risulta rafforzata anche la disponibilità a partecipare ai processi politici che la caratterizzano. La partecipazione assume in questo caso la forma di un processo simbolico, prima che strumentale, con cui i singoli individui esprimono l’appartenenza-identificazione alla medesima collettività (Pizzorno 1966). Un’appartenenza territoriale forte tende quindi a favorire lo sviluppo di identità civiche di tipo partecipativo, in cui è considerevole il coinvolgimento nelle istituzioni e nei processi politici che costituiscono la sfera pubblica dell’unità territoriale. Al contrario, un debole sentimento di appartenenza favorisce un atteggiamento “impolitico” o più distaccato rispetto all’ambito pubblico, qualunque esso sia, cittadino, regionale, nazionale o extranazionale. Queste indicazioni teoriche suggeriscono che le forme dell’appartenenza dei giovani costituiscono una dimensione di analisi importante per comprendere le modalità della cultura politica nelle giovani generazioni. Dai dati della ricerca emerge, in primo luogo, come sia possibile distinguere nei giovani tre diversi atteg567 giamenti verso l’appartenenza. Gli ambiti di riferimento considerati nella ricerca sono quelli classici delle forme dell’appartenenza politico-territoriale, disposti in un ordine che va dall’ambito più circoscritto e più vicino al mondo vitale del giovane: il comune, per allargarsi via via ad ambiti territorialmente più ampi come la regione, la nazione, l’Europa, il mondo. La prima modalità dell’appartenenza è quella dell’“indifferenza”. I giovani “senza radici” o meglio “indifferenti” sono quelli che manifestano uno scarso senso di identificazione territoriale rispetto agli ambiti considerati. La seconda modalità è invece rappresentata dalla “elezione” tipica dei giovani che esprimono un forte sentimento di appartenenza verso una sola tra le cinque identità territoriali considerate. Infine, la terza modalità è quella del “pluralismo ” che indica la tendenza a sviluppare un senso di appartenenza plurimo, vale a dire verso più di una identità territoriale senza alcuna particolare predilezione. La tavola 1 illustra come si distribuiscono i giovani del nostro campione (studenti e disoccupati) rispetto a quest’aspetto dell’appartenenza. Tavola 1. Tipi di atteggiamento verso l’appartenenza territoriale (in %) Studenti Disoccupati Indifferenti 16 25 Elettivi 31 30 Pluralisti 53 45 Totale 100 100 Come si può vedere in entrambi i gruppi di giovani si registra un consistente atteggiamento di appartenenza. In particolare prevalgono i giovani “pluralisti”, vale a dire la tendenza a sentirsi parte di più di una identità territoriale. Considerevole è anche la quota di giovani che sente di appartenere ad una sola identità territoriale. Decisamente bassa è invece la percentuale di giovani che non evidenziano alcun sentimento di appartenenza verso comune, regione, nazione, Europa e mondo. Si nota anche chia568 ramente come esista una significativa differenza tra gli studenti e i giovani disoccupati. Presso i disoccupati la percentuale di “indifferenti” è di quasi dieci punti più alta rispetto agli studenti. Nei due gruppi si distinguono, quindi, un chiaro atteggiamento di appartenenze plurime (gruppo degli studenti), e un atteggiamento più marcato verso la non appartenenza (gruppo dei disoccupati). Evidentemente la condizione di disoccupazione inibisce o tende a mettere in crisi i sentimenti di appartenenza. In realtà disaggregando il campione dei disoccupati rispetto al livello di istruzione, ci si accorge che la condizione di disoccupato incide su quell’aspetto peculiare della cultura politica che è l’appartenenza territoriale meno di quanto ci si potesse aspettare 6. Su questo punto si può ipotizzare che un livello di istruzione più alto funzioni come una sorta di “correttore” rispetto agli aspetti politicamente disaggreganti che la condizione di disoccupazione porta inevitabilmente con sé. Gli aspetti politicamente critici della disoccupazione si riscontrano, infatti, quasi esclusivamente nei giovani meno istruiti, che mostrano tassi pericolosamente elevati di assenza di una qualsiasi forma di identificazione territoriale, mentre appaiono del tutto contenuti e quasi inesistenti nei giovani più istruiti. Riguardo all’appartenenza all’Europa (tavola 2), va sottolineato come l’appartenenza all’Europa sia in generale più forte tra gli studenti. Chi si sente di non appartenere per nulla all’Europa è presso i disoccupati esattamente il doppio che negli studenti. Ma ancora una volta i disoccupati con un livello di istruzione più elevato mostrano tassi più simili agli studenti. Anche in questo caso, cioè, le percentuali diverse rispetto agli studenti si spiegano soprattutto con la presenza nei disoccupati di giovani con un livello di istruzione più basso, piuttosto che come effetto della condizione di disoccupazione. 6 Infatti, se presso i disoccupati poco istruiti gli “indifferenti” sono oltre il 43% presso quelli laureati o diplomati il livello degli indifferenti cala sensibilmente rispettivamente al 12% e al 25%. Nello stesso tempo, l’atteggiamento “pluralista”, che per i disoccupati poco istruiti è presente nel 35%, in quelli laureati sale al 50%. 569 Tavola 2. “Quanto si sente di appartenere all’Europa?”(in %) Studenti Disoccupati Niente 6 12 Poco 29 27 Abbastanza 43 39 Molto 22 22 Totale 100 100 3. Le rappresentazioni della democrazia e le appartenenze territoriali Le rappresentazioni della democrazia costituiscono un indicatore significativo, anche se non certo l’unico, del tipo di cultura civica che un individuo possiede. Nel caso dei giovani, in un capitolo precedente, abbiamo visto come il fenomeno più interessante che emerge dai dati relativi a quest’aspetto della cultura politica è sicuramente offerto dall’allargamento del concetto di democrazia ben oltre la sfera della politica intesa in modo tradizionale. Questo elemento di orientamento “politico” sui generis viene evidenziato dall’alta percentuale di giovani che possiede una rappresentazione della democrazia priva di riferimenti alla politica istituzionale e alla partecipazione e ricca, invece, di riferimenti alla libertà individuale. La democrazia viene identificata con la libertà personale, con la possibilità di esprimere pienamente la propria individualità, con la libertà realizzativa di un proprio stile di vita. Altri gruppi di giovani (che abbiamo chiamato rispettivamente “solidaristi” ed “egualitari”) insistono nell’esprimere la loro rappresentazione di democrazia articolandola sugli elementi della solidarietà e dell’eguaglianza delle opportunità, tralasciando anch’essi qualsiasi riferimento alla politica. L’assenza di elementi strettamente politici e la centralità attribuita alla dimensione “esistenziale” della democrazia favorisce in questi giovani il formarsi di un’identità civica radicalmente diversa rispetto al modello tradizionale di civismo ti570 pico della storia politica europea. Si tratta di un modello di civismo, come viene recentemente suggerito da Ulrich Beck, che si nutre della soggettività dei giovani e che si esplica in forme di impegno modellate sull’autoaffermazione e sull’appagamento individuale piuttosto che essere basate sull’appartenenza alle organizzazioni e sullo spirito militante di “abnegazione” (Beck 2000). Il modello classico dell’identità civica, quello incentrato sul significato più strettamente politico del civismo e sul rapporto con le forme politiche istituzionali ufficiali si individua specificatamente nel gruppo non troppo esteso dei “partecipazionisti” e dei “proceduralisti” cioè dei giovani che indicano elementi politici di stampo tradizionale nella loro definizione di democrazia. Il ragionamento svolto fino a questo momento risulta utile per inquadrare nella maniera più proficua possibile il tema che più ci interessa in questa sede, vale a dire quello relativo all’appartenenza verso l’Europa. Nel complesso le diverse rappresentazioni della democrazia non incidono in maniera cruciale sull’atteggiamento che i giovani manifestano verso l’Europa. Si conferma, infatti nettamente la tendenza a sentirsi “abbastanza” identificati con l’Europa. Tuttavia, alcuni dati appaiono di indubbio interesse, soprattutto rispetto al rapporto tra identità civica e senso di appartenenza. Dato per assunto che, comunque, la dichiarazione di appartenenza all’Europa non è particolarmente frequente, la domanda a cui si vuole dare risposta è: quale tipo di identità civica si collega all’appartenenza all’Europa? O, più direttamente, un dato tipo di rappresentazione della democrazia produce un orientamento d’appartenenza all’Europa più marcato di altri tipi di rappresentazione? In altre parole, quale significato, politico e non, assume il sentirsi di appartenere all’Europa presso i giovani italiani? Illustriamo rapidamente i dati per individuare gli elementi che possono servire a spiegare il senso della relazione tra rappresentazioni della democrazia e appartenenza europea. Innanzitutto, i “proceduralisti” mostrano il più elevato livello di appartenenza all’Europa (il 27% di questi dichiara di sentirsi “molto” appartenente all’Europa). E’ questo il gruppo più europeista di tutti. Nei “partecipazionisti” la percentuale cala al 20%. I “libertari” rappresentano la categoria di giovani che si sente meno di appartenere all’Europa. I “libertari” manifestano una maggiore appartenenza 571 all’Italia (dichiarano di appartenere “molto” all’Italia il 55%), mentre solo il 19% dichiara “molto” e ben il 33% si sente di appartenere “poco” all’Europa (cfr. tavola 3). Interessante il caso dei giovani “critici” verso la democrazia. I “critici” costituiscono il gruppo che mostra la percentuale più alta di giovani che non si identificano “per niente” con l’Europa (9%), ma, tuttavia, la percentuale di chi dichiara “molto” è piuttosto consistente (25%). Ciò si spiega con il fatto che in questo gruppo confluiscono soggetti con un elevato grado di sfiducia verso le istituzioni politiche (la democrazia appunto), che si traduce in un elevato livello di “non appartenenza”, ma anche soggetti che pur esprimendo diffidenza e scetticismo verso la democrazia, spesso identificata con il sistema politico-partitico italiano, pur sempre investono di fiducia il progetto di unificazione europea. Fermo restando che esiste un elemento di crisi nell’identità civica di questi soggetti, occorre tuttavia precisare che solo in una parte di essi la sfiducia verso la democrazia si traduce in un rifiuto di un qualsiasi legame e di una qualsiasi forma di solidarietà sociale e politica, un rifiuto che si estende poi automaticamente anche all’Europa. Per altri esistono, invece, possibilità di recupero al legame sociale Tavola 3. Rappresentazioni della democrazia e intensità dell’appartenenza all’Europa (studenti in %) Niente Poco Abbastanza Molto Totale Proceduralisti 8 26 39 27 100 Partecipazionisti 6 29 45 20 100 Egualitari 6 21 53 20 100 Libertari 5 33 42 19 100 Solidaristi – 30 49 21 100 Misti 5 26 46 23 100 Utopici e critici 9 25 41 25 100 Totale 6 30 44 22 100 572 e politico attraverso modelli di appartenenza innovativi stimolati da eventi, come appunto il progetto di unificazione europea, che sembrano allora in grado di sanare la disillusione causata dall’esperienza in altri ambiti di appartenenza. Le sei rappresentazioni della democrazia adottate possono, per ulteriore comodità di analisi, essere aggregate in quattro gruppi principali. Il primo gruppo è costituito dalle rappresentazioni composte esclusivamente da riferimenti alla politica. Esistono naturalmente all’interno di questo gruppo differenze significative rispetto all’identità civica, più legata al coinvolgimento diretto nel caso dei “partecipazionisti”, connessa con le istituzioni e le procedure ufficiali per i “proceduralisti”. Entrambi, tuttavia, in virtù del riferimento alla politica come dimensione di convivenza nella società democratica, esprimono una forma di identità civica di tipo tradizionale. Il secondo gruppo raccoglie le rappresentazioni che contengono soltanto riferimenti ad elementi sociali e culturali e non di tipo politico. Tra questi spiccano naturalmente i “libertari”. Il terzo gruppo può essere definito “misto” poiché è costituito da rappresentazioni della democrazia che mettono insieme elementi semantici provenienti dalla sfera politica e anche dalla più ampia sfera sociale e culturale. Un gruppo a sé è invece rappresentato dalle risposte che esprimono sfiducia e critica verso la democrazia. Ogni gruppo implica un ben preciso modello di identità civica. All’interno di questi modelli di identità civica viene profondamente ridefinito anche il significato che assume l’appartenenza agli ambiti territoriali. La rappresentazione “libertaria” della democrazia si lega ad un ridimensionamento del senso di appartenenza territoriale, che si traduce nell’emergere di un tendenziale sradicamento come esperienza tipica di un segmento importante del mondo dei giovani ed in particolare degli studenti. Per i “figli della libertà”, come li chiama appunto Beck, la crisi di un significato strettamente politico-istituzionale della democrazia si traduce in una perdita di importanza dell’appartenenza territoriale, oppure in una radicale riscrittura del suo senso fondamentale. Nello stesso momento in cui la concezione della politica e dell’identità civica si trasforma e travalica i suoi tradizionali confini semantici e sociologici promuovendo così un processo di adattamento della cultura politica democratica, nei giovani si fa strada la propensio573 ne ad avere appartenenze plurime. Le appartenenze cessano di essere esclusive, ma si sovrappongono negli stessi individui. I dati della tavola 4 mostrano chiaramente che i giovani con rappresentazioni della democrazia di tipo sociale/culturale presentano una quota di soggetti caratterizzati da sentimenti di pluriappartenenza più alta rispetto a coloro che possiedono rappresentazioni esclusivamente di tipo “politico” (55% contro 49%). Un forte legame di appartenenza ad una precisa identità territoriale si rintraccia, invece, nei giovani che, nelle loro rappresentazioni della democrazia, valorizzano le procedure, le istituzioni e la partecipazione. Questi giovani manifestano un modello di identità civica che mette insieme appartenenze forti ed esclusive con forme di partecipazione istituzionale e ufficiale secondo lo schema classico della teoria politica accennato all’inizio. I giovani con rappresentazioni “politiche” della democrazia sono “elettivi” per il 36%, contro il 29% dei giovani con rappresentazioni “sociali/ culturali”. Un caso a sé e assai rilevante è costituito poi dai giovani “utopici” e “critici”, vale a dire quelli che evidenziano un chiaro atteggiamento di sfiducia verso i valori democratici, oppure che apprezzano la democrazia come progetto ideale ma che si mostrano scettici e critici verso le sue “forme realizzate”. Presso questi giovani l’identità civica appare pericolosamente poco matura, e questo tratto caratteristico si riflette puntualmente nell’atteggiamento verso l’appartenenza. I giovani utopici e critici sono quelli che mostrano un più alto livello di “indifferenza” vale a dire non sviluppano alcuna forma di appartenenza politico-territoriale. Ad una cultura civica non pienamente sviluppata, anzi quasi assente, si associa immediatamente un debole senso di appartenenza. Questo dato è chiaramente in linea con le ipotesi classiche circa il rapporto tra appartenenza e cultura civica: il debole sentimento di appartenenza territoriale si accompagna alla perdita di importanza dell’identità civica. In sintesi, esistono tre modi con cui prende forma il rapporto identità civica e appartenenza: il modello “classico” che lega un’identità civica tradizionale con un’appartenenza territoriale di tipo esclusivo; il modello “postmoderno” in cui l’identità civica viene riformulata radicalmente, soprattutto allargando la sfera e i significati 574 Tavola 4. Rappresentazioni della democrazia e forme di appartenenza (studenti, in %) Rappresentazione democrazia Indifferenti Elettivi Pluralisti Totale Politica: procedurale partecipativa 15 36 49 100 Sociale e culturale: uguaglianza, libertà, solidarietà 16 29 55 100 Mista: politica e sociale-culturale 14 26 60 100 Negativa e utopica 17 33 50 100 Totale 15 31 54 100 della politica, e che si collega ad un atteggiamento di appartenenza a più ambiti territoriali; il modello “marginale”, in cui l’identità civica appare di basso profilo, e nello stesso tempo si smarrisce, forse pericolosamente, il sentimento di appartenenza ad un ambito territoriale. Gli ultimi due modelli costituiscono entrambi uno scostamento rispetto al modello tradizionale che collega strettamente identità civica e sentimento di appartenenza, che abbiamo chiamato “modello classico”. Tuttavia va sottolineata una differenza cruciale. Nel caso del modello “postmoderno”, tipico dei giovani “libertari” ci troviamo di fronte ad una riformulazione della cultura civica e del significato dell’appartenenza; nel caso del modello “marginale” ci troviamo di fronte piuttosto ad una avvisaglia di crisi degli stessi valori democratici. Si tratta di una differenza che ci aiuta a chiarire perché buona parte della letteratura sulle forme e sulle recenti trasformazioni della politica giovanile (Giddens, Beck, Touraine) insista nel dare rilievo alle novità, spesso assai dirompenti e difficili da armonizzare con i nostri modelli classici di cultura civica, che si registrano nel campo dei rapporti con la sfera pubblica, e le assuma come elementi di sostanziale rinnovamento della politica. Questa letteratura sociologica fa riferimento essenzialmente agli elementi specifici del modello che abbiamo chiamato “postmoderno”, composto da una cultura civica “impolitica”, più che “apolitica”, e da appartenenze multiple. Tale distinzione ci permette di cogliere, nello stesso tempo, quegli ele575 menti di crisi, rappresentati dai giovani sfiduciati verso la politica e privi di un qualsiasi sentimento di appartenenza, che sono contestualmente rintracciabili nel mondo giovanile odierno e che non sono comunque sempre di sicura e di agevole interpretazione. 4. Le basi valoriali e sociali delle appartenenze degli studenti universitari e dei giovani disoccupati A questo punto sembra di un certo interesse integrare l’analisi sugli orientamenti di appartenenza dei giovani evidenziando l’incidenza di alcuni aspetti valoriali e politici finora trascurati ma cui si fa comunemente ricorso da parte degli addetti ai lavori. Il primo degli aspetti da considerare riguarda la relazione tra la collocazione sull’asse destra-sinistra e la scelta dei riferimenti di appartenenza. La collocazione politica degli intervistati sulla scala sinistradestra (relativamente alla quale si veda il grafico 2) comporta delle sensibili differenze nelle appartenenze territoriali. Gli studenti di sinistra (più cosmopoliti) hanno una maggiore propensione a scegliere l’ambito mondo e quello europeo rispetto agli altri studenti. Gli studenti di centro e quelli di destra sono invece nettamente più propensi alla scelta dell’ambito Italia (un ambito usualmente più tradizionale). La regione è più scelta tra gli intervistati di destra. Esiste, poi, una relazione tra le forme dell’appartenenza e l’orientamento valoriale materialismo/postmaterialismo7 che merita indagare per completare il quadro dell’analisi (cfr. grafico 3). Gli studenti postmaterialisti si distinguono nettamente per la tendenza cosmopolita; l’ambito “mondo” viene scelto in una percentuale tre volte superiore a quella dei materialisti, doppia è quella per l’Europa. Anche le intensità confermano questa tendenza. I soggetti più istruiti, come gli studenti universitari, hanno degli All’enfasi materialista sulla sicurezza fisica ed economica si contrappone quella postmaterialista verso l’autorealizzazione, la libera espressione e la preminenza delle idee, la partecipazione a una società meno impersonale, la qualità non materiale della vita (cfr. Inglehart 1997). 7 576 Grafico 2. Le appartenenze degli studenti universitari secondo la collocazione politica al mondo studenti di sinistra al mio comune 25,6% 20,3% alla mia regione 13,7% all’Europa 10,4% all’Italia 29,9% al mondo studenti di centro al mio comune 16,8% 17,9% all’Europa 7,0% alla mia regione 16,1% all’Italia 42,1% al mondo 15,7% all’Europa 3,9% studenti di destra al mio comune 17,5% alla mia regione 19,2% all’Italia 43,7% 577 orientamenti di valore più confligenti con l’idea di nazione: sono meno disponibili a difendere la patria, hanno un minore orgoglio nazionale, sono più postmaterialisti (atteggiamento cui è associato quello pacifista) e favorevoli a una prospettiva cosmopolita, di sapore utopico e, a volte, dalle premesse anti-istituzionali. Questa prospettiva trova le sue origini nella socializzazione delle giovani generazioni, avvenuta in contesti incomparabilmente più favoriti rispetto al passato, sia in termini di benessere economico che di pace e di sicurezza; a ciò bisogna aggiungere la crescita dell’individualismo narcisistico e del consumismo propagandato dal sistema dei media, intrinsecamente indifferenti ai confini nazionali. I materialisti hanno invece una tendenza doppia dei postmaterialisti a scegliere l’ambito nazionale, ambito più tradizionale e maggiormente legato alle esigenze di sicurezza materialiste, storicamente funzionale alla loro tutela. Anche entrambi gli ambiti locali sono maggiormente connessi ad un atteggiamento valoriale materialista. Il gruppo dei “non identificabili” o, se si preferisce, dei “misti” si trova “a metà strada” tra gli altri due rispetto a tutti gli ambiti. L’atteggiamento postmaterialista e quello materialista hanno inoltre una netta colorazione politica: il primo è prevalentemente associato a posizioni politiche di sinistra (i due elementi si possono così sommare nello spingere verso atteggiamenti cosmopoliti), i materialisti sono soprattutto di destra ed in secondo luogo di centro (materialismo e posizioni di centro-destra si associano spesso alla scelta dell’Italia come ambito prediletto). Tre quarti del campione è comunque favorevole al mantenimento di un’Italia unita ed indivisibile. Per quanto riguarda il rapporto tra appartenenza religiosa ed appartenenze territoriali (grafico 4), gli atei si distinguono per un attaccamento estremamente elevato agli ambiti sovranazionali (mondo ed Europa, il mondo è addirittura preferito a tutti gli altri ambiti8 ). I cattolici hanno una maggiore propensione a preferire l’Italia (quelli praticanti anche il comune; i non praticanti hanno Nonostante l’apertura della religione cattolica al mondo, gli atei sono quelli che vi fanno più riferimento. 8 578 Grafico 3. Appartenenze e valori ambiti appartenenza territoriale postmaterialisti al mio comune 17,5% al mondo 35,7% alla mia regione 13,6% all’Europa 11,4% all’Italia 21,8% ambiti appartenenza territoriale non identificabili al mondo 18,3% all’Europa 8,9% al mio comune 20,3% alla mia regione 15,4% all’Italia 37,1% ambiti appartenenza territoriale materialisti al mondo 12,1% all’Europa 5,7% all’Italia 43,6% al mio comune 20,7% alla mia regione 17,9% 579 appartenenze lievemente più ampie dei praticanti): in genere, quindi, la fede religiosa sembra associarsi a sentimenti nazionalisti; dove essa viene a mancare, come nel caso degli atei, l’appartenenza alla nazione diminuisce e ci si apre di più anche all’Europa. Grafico 4. Appartenenza religiosa ed appartenenze territoriali 100,0 15,1 19,4 28,8 90,0 80,0 7,1 7,7 70,0 15,9 60,0 20,6 50,0 40,0 al mondo all’Europa 16,9 30,0 20,0 appartenenza 23,3 16,3 16,8 all’Italia 18,7 18,7 alla mia regione 10,0 0,0 al mio comune cattolico praticante ateo cattolico non praticante religiosamente come si considera Una dimensione importante, ma assai poco studiata, nella formazione dell’identità e del sentimento di appartenenza europea è costituita dai processi di socializzazione intergenerazionale che trovano nella famiglia un punto istituzionale essenziale del loro sviluppo. In particolare merita una riflessione la specifica configurazione delle differenti modalità generazionali di declinare il sentimento di appartenenza. L’intensità del sentimento di appartenenza all’Europa nei padri degli studenti universitari italiani e nei rispettivi figli risulta molto simile, con una preferenza più spiccata da parte dei figli. Il 68% dei figli e il 64% dei padri affermano di avvertire molto o abbastanza questo tipo di sentimento. L’identità europea è però la più debole rispetto alle identità legate agli altri ambiti geografici. Dovendo indicare l’identità in cui maggiormente si riconoscono, solo il 9% dei padri e il 10% dei figli scelgono quella europea. Per entrambi l’identità dominante rimane quella nazionale. Più di un terzo dei giovani e dei loro padri la conside580 rano l’identità in assoluto più sentita. Il confronto tra le generazioni mostra in effetti un mutamento intergenerazionale significativo: nei figli le identità localistiche – pur restando forti – si indeboliscono lasciando tendenzialmente il passo ad una rappresentazione di tipo cosmopolita dell’appartenenza. Il fatto però che in questa ridefinizione delle identità in chiave universalistica da una generazione a quella successiva, la dimensione europea venga esclusa evidenzia, ancora una volta, il carattere problematico che si percepisce nella determinazione dei contenuti dell’integrazione europea. Si noti, in particolare, che l’allontanamento dei giovani dalle identità territoriali localistiche e da quella nazionale avviene a favore di una modalità dell’appartenenza – quella cosmopolita – che rifiuta per definizione, superandone i condizionamenti, la stessa dimensione territoriale. Diversamente da quanto ci si attenderebbe, la propensione alla multidimensionalità del sentimento di appartenenza risulta essere, nel nostro campione, maggiormente diffusa tra i genitori: sono i padri che compongono più spesso diverse identità territoriali, mentre i figli appaiono più “coerenti” e meno disponibili a conciliare identità localistiche e cosmopolite. Si tratta di differenze che non capovolgono, tuttavia, le tendenze di fondo; possono, però, essere spiegate se si accoglie l’ipotesi che l’identità personale e le rappresentazioni valoriali si costruiscono e si associano lungo il corso della vita. La coscienza europea dei figli si caratterizza – nel confronto con i genitori – anche per una maggiore incidenza di eventi di rilevanza continentale che hanno fatto presa su di loro nella fase della socializzazione politica. Non è un caso, infatti, che eventi critici come la caduta del Muro di Berlino e la guerra nella ex Yugoslavia abbiano avuto un effetto molto maggiore nei figli al fine della formazione della loro coscienza civica. Diverso è invece il significato attribuito alla formazione dell’Europa unita; sebbene anche questo processo sembra abbia colpito più i figli dei padri, la fiducia nelle istituzioni europee è un dato che avvicina di nuovo le due generazioni, anche perché entrambe si ritrovano nell’esprimere una sfiducia maggiore nei confronti delle istituzioni politiche nazionali. In definitiva sembra di poter dire che anche l’elaborazione-trasmissione dell’identità europea procede in ambito familiare secondo linee già confermate dalla ricerca quando ha esaminato gli effet581 ti dei processi di socializzazione politico-valoriale: la trasmissione dai genitori ai figli ha successo soprattutto per gli orientamenti maggiormente polarizzati. Sono infatti i padri più europeisti e quelli meno europeisti ad esercitare sui figli una influenza rilevante nella formazione del loro orientamento più o meno pro-Europa. 5. Le giovani radici dell’Europa Giunti al termine di questo excursus empirico ci si deve domandare: la costruzione di un’identità europea passa attraverso un contributo essenziale delle nuove generazioni ? Una risposta positiva ad un interrogativo di questo genere sembrerebbe ineludibile. Tuttavia proprio la rassegna dei dati esposta fino a questo punto introduce più di un elemento di sconforto. Ciò proprio in un’ottica previsiva, anche se gli studiosi di fenomeni sociali sanno benissimo che quando si parla di orientamenti politici e di valori dei giovani si può sempre applicare una sorta di teoria della reversibilità perché niente è più instabile ed aleatorio di quanto riguarda il mondo dei giovani. L’instabilità è un dato endemico a questo segmento della società, in naturale evoluzione, anche quando affida l’affermazione di una sua identità al superamento di stadi di crisi in aperta dissonanza con lo status quo. Vero è che le ricerche citate ed anche quella che qui è stata sommariamente presentata dimostrano che questa generazione sembra essere in controtendenza: si parla, non a caso, di stato di moratoria e di silenzio dei giovani e perfino di “generazione invisibile” (Diamanti 1999). In linea generale si può dire, e non si tratta certo di una novità, che la gioventù rappresenta da tempo un punto di riferimento importante per la elaborazione di un quadro sociopolitico europeo capace di reggere la sfida del nostro tempo. Già nel 1951, al momento della costituzione della Comunità del carbone e dell’acciaio, era stata avviata, sotto l’egida del Consiglio d’Europa, una “campagna per la gioventù” finalizzata al coinvolgimento dei giovani nella creazione dell’Europa. Poi, a partire dal 1985, è stato promosso un programma quinquennale “Jeunesse pour l’Europe” che adotta una prospettiva squisitamente culturale e politica. I giovani, infatti, vengono incoraggiati a concepire l’Europa come un 582 dato fondamentale del loro ambiente storico e sociale. Vengono stimolati ad assumere coscienza del ruolo che possono svolgere come cittadini nella costruzione dell’Unione europea; vengono educati a comprendere il dato storico-strutturale della “diversità” come dato tipico della società europea di ieri e di oggi che deve essere valorizzato al meglio. In altri termini gli attori istituzionali che promuovono il processo di integrazione europea da molti lustri affidano alle giovani generazioni il compito di far mettere radici all’idea d’Europa. I dati sui giovani contemporanei ci mostrano, invece, con poca ombra di dubbio che il cammino da fare è ancora lungo. I giovani non sembrano davvero essere gli alfieri di un progetto di ridefinizione delle appartenenze collettive che, in tempi medio-brevi, consenta di sostituire (perfino di affiancare) il sentimento di appartenenza alla nazione con un’impegnativa identificazione con l’Europa. Gli effetti della variabile età indiscutibilmente si intrecciano con altre variabili nell’inibire un ruolo trainante ed innovativo dei giovani come portatori di una mentalità europea. E’ comunque altrettanto indiscutibile il dato secondo cui i giovani rappresentano un campo di studio di rilevante interesse per monitorare i processi di trasformazione dell’identità territoriale e politica e dunque per prevedere le direzioni del mutamento che una società sovranazionale come l’Unione europea sta intraprendendo. 583 584 APPENDICE METODOLOGICA 1. Gli strumenti e i metodi di indagine I dati su cui si fondano le analisi contenute nei capitoli di questo rapporto provengono da una serie di rilevazioni congiunte condotte in Italia, Francia e Spagna tra il 1997 e il 1998 grazie al cofinanziamento della Direzione Generale XXII della Commissione Europea (programma “Youth for Europe”), nonché del Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e del CNR in Italia. In tutti e tre i paesi le rilevazioni hanno interessato un campione di studenti universitari e di coetanei disoccupati, nella convinzione che, in base ad una definizione forse radicale ma certo sociologicamente più rigorosa della condizione giovanile che non il semplice criterio anagrafico, la giovinezza rappresenti una condizione segnata anzitutto da una fondamentale indeterminatezza nella collocazione socio-professionale. E’ chiaro che la transizione all’età adulta richiede il superamento di altre due soglie critiche: il distacco dal domicilio parentale e la costituzione di una famiglia propria (per un inquadramento teorico, Galland 1996a; Lagree 1997). Tuttavia il confine tra lavoro e non lavoro sembra segnare il crinale ancor oggi più marcato per il passaggio alla condizione adulta – l’unico, forse, il cui superamento se non sufficiente è comunque più degli altri necessario per consentire un traghettamento definitivo in un’altra fase della vita. Quindi, i campioni nazionali sono stati estratti nei due segmenti principali della popolazione non attiva tra i 18 e i 30 anni d’età: gli studenti e i non occupati (secondo quote tendenzialmente pari a due terzi ed un terzo del campione complessivo). Questa appendice è stata scritta da Ettore Recchi. 585 In tutti e tre i paesi della ricerca, i questionari (opportunamente tradotti ed adattati: ad esempio, per ciò che riguarda i titoli di studio e i percorsi di istruzione) dei giovani studenti e disoccupati contengono, laddove logicamente possibile, le medesime domande; questo nucleo comune è stato poi integrato da indicatori più specifici adatti alle differenti condizioni ed esperienze di questi due segmenti di popolazione giovanile. Per gli studenti, i dati sono stati rilevati tramite questionari autosomministrati in aula durante le ore di lezione, a seguito di una breve presentazione della ricerca da parte del docente titolare del corso ed un’illustrazione delle finalità del questionario e delle modalità di compilazione da parte di un membro dell’équipe di ricerca. Nell’aula della compilazione – che ha richiesto tra i quaranta minuti e un’ora – sono stati sempre presenti alcuni ricercatori per ogni eventuale chiarimento circa le tecniche di risposta. Nel complesso, questa procedura di somministrazione si è rivelata soddisfacente, sia in termini di resa (superiore alla quota di risposta abituale per questionari postali), sia di economia della ricerca, sia come stimolo all’autoriflessione promosso in un quadro istituzionale – l’università – di solito accusato di mostrare poca attenzione alla formazione morale del corpo studentesco. Vi è ragione di credere, sul piano più strumentale, che il coinvolgimento degli studenti intervistati in sede di lezione ha conferito – agli occhi degli intervistati stessi – un’autorevolezza all’indagine non altrimenti ottenibile per le vie consuete. Analogamente, i questionari dei disoccupati sono stati compilati dagli interpellati sotto il ‘controllo’ di intervistatori opportunamente addestrati (laureati e laureandi in sociologia). Il campionamento e la distribuzione sono avvenuti in maniera aleatoria presso centri di informazione sulle opportunità di lavoro giovanile (gestiti da enti locali) e corsi di formazione e avviamento al lavoro per giovani disoccupati (gestiti da sindacati e/o enti locali). Occorre notare che i disoccupati hanno trovato maggiori difficoltà degli universitari nella compilazione, specialmente laddove si chiedeva loro di rispondere a domande aperte o formulare ragionamenti in forma libera. Comunque, anche in questo caso, nonostante si trattasse di una popolazione sulla carta meno “malleabile”, i rifiuti sono stati assolutamente eccezionali. Si è peraltro osservata una maggiore variabilità nei tempi di compilazione – da mezz’ora a due ore – probabilmente differenziata in ragione della maggiore dispersione di questo campione in termini di scolarizzazione. In Italia ed in Spagna, inoltre, è stata compiuta un’ulteriore rilevazione sui genitori di una parte del campione degli studenti, utile ad ana- 586 lizzare una serie di processi di socializzazione intrafamiliare. Tecnicamente, si è chiesto allo studente intervistato di consegnare ai genitori (al capofamiglia in Italia) un questionario molto simile a quello da lui riempito. Il questionario del genitore doveva poi essere restituito al responsabile locale della ricerca. Gli intervistati sono stati anche informati che un numero d’identificazione consentiva l’associazione anonima delle risposte di genitori e figli. Questo sistema non ha creato particolari problemi: nessuno degli interpellati ha rifiutato esplicitamente il questionario1. Purtroppo, questa rilevazione complementare non ha potuto essere estesa alla popolazione dei genitori dei giovani non occupati e al caso francese per carenza di fondi disponibili. 2. La rilevazione dei dati in Italia Complessivamente, il database italiano è formato da 1946 questionari correttamente compilati. I dati della ricerca sugli studenti universitari italiani si riferiscono ad un campione di 1352 studenti iscritti a varie facoltà di dodici atenei (Milano, Genova, Pisa, Firenze, Perugia, Roma, Napoli, Bari, Cosenza, Catania, Palermo, Sassari). Si dispone inoltre di 886 coppie di questionari di studenti e dei loro capifamiglia. L’età mediana degli studenti intervistati è 22 anni. Tra loro, le donne sono in maggioranza (59,2%; tra gli studenti universitari italiani nel 1995 erano il 52,8%). Questa sproporzione si spiega in parte con la apparente maggiore assiduità delle ragazze alle lezioni, e in parte con la distribuzione delle interviste per facoltà: due terzi (il 66,2%) del campione è iscritto a scienze politiche o sociologia (in cui la presenza femminile è prevalente), un terzo ad altre facoltà (statistica, economia e commercio, giurisprudenza, architettura, agraria, ingegneria, scienze naturali). Vi è infine un altro bias di campionamento di cui occorre tenere conto per Un piccolo numero di questionari (venticinque) sono stati poi scartati perché la calligrafia del questionario paterno/materno corrispondeva alla grafia del questionario del figlio. Resta peraltro difficile stabilire se questa fase della rilevazione ha dovuto sopportare intromissioni degli studenti sul lavoro di compilazione dei padri – salvo, appunto, il controllo effettuato ex post su manipolazioni grossolane del questionario del genitore in base alla corrispondenza con la scrittura del figlio. D’altra parte, il rischio di una manomissione del genere è presente, come è noto, anche nei più comuni questionari postali. 1 587 un’adeguata interpretazione dei risultati: gli studenti residenti nelle regioni centrali del paese (il 28,1% del totale) sono sovrarappresentati, mentre gli studenti delle regioni settentrionali (il 16,7% del campione) risultano sottorappresentati. Sono poi stati intervistati 594 giovani in cerca di lavoro: circa un terzo in una provincia del Nord (Genova), un terzo in provincie del Centro (Firenze e Perugia), un terzo in provincie del Sud (Roma, Napoli e Catania). L’età mediana degli intervistati è 23 anni. Il campione si divide pressoché a metà su base di genere (52,8% donne, 47,2% uomini). Prevalgono gli individui con titoli di studio della scuola secondaria superiore; una minoranza i rispondenti con solo la licenza media (il 13,3%) o la laurea (il 12,2%). Data la normale associazione tra estrazione sociale e istruzione, non sorprende poi che il 37,8% dei padri svolgano una professione impiegatizia; i figli di operai costituiscono il 22,8 del campione e quelli di dirigenti, imprenditori e professionisti il 17,6% complessivo. Oltre un terzo di questo campione (per la precisione il 35,2%) è formato da giovani che hanno perso il lavoro o lo cercano da almeno 12 mesi. 3. La rilevazione dei dati in Francia L’indagine sul campo è stata svolta su un campione di 909 giovani, di cui 609 studenti di livello universitario e 300 disoccupati tra i 18 e i 27 anni; l’età mediana è 21 anni. Le modalità di raccolta dei dati sono analoghe a quelle del campione italiano corrispondente. Tra gli studenti, il 60,5% è iscritto a un corso universitario (di DEUG in scienze umane e sociali a Parigi) e il 39,5% a un Institut d’Etudes Politiques (a Parigi, Grenoble e Lille). Per il tipo di corsi frequentati, le ragazze sono una larga maggioranza (il 73,7%). Ciò si deve soprattutto alla generale femminilizzazione degli studi di scienze umane e sociali; i dati forniti dal Centro di documentazione del ministero dell’educazione nazionale indicano che in Francia le ragazze rappresentano il 71,6% degli studenti universitari in sociologia e demografia e il 76,9% degli iscritti alle facoltà di scienze dell’educazione. Anche se pur sempre una maggioranza, la loro prevalenza è meno marcata negli istituti di studi politici, ove sono il 56,2% degli iscritti a livello nazionale. Gli studenti interpellati provengono soprattutto da famiglie di estrazione sociale superiore: i padri che svolgono professioni intermedie e impiegatizie sono il’13,2% e i padri operai il 14%, mentre i figli di lavo- 588 ratori autonomi sono il 18,7%. Ma questa sottorappresentazione degli strati sociali meno privilegiati riflette – accentuandola leggermente, forse per il peso degli allievi degli istituti di studi politici, notoriamente piuttosto elitari, specie a Parigi – la collocazione sociale della popolazione degli studenti universitari. Nel 1997, il 61% degli studenti universitari (o di corsi equivalenti) era figlio di un genitore dirigente, quadro o appartenente ad una professione intermedia (secondo la categorizzazione socio-occupazionale in uso in Francia). Il campione dei disoccupati è stato estratto nell’area parigina (per la precisione, a Parigi, Seine St. Denis e Val de Marne). L’età mediana degli intervistati è 23 anni; la componente maschile – come nella popolazione di riferimento – è maggioritaria (raggiunge il 60,4%). Le caratteristiche sociali di questi giovani sono decisamente diverse da quelle dei loro coetanei studenti. Il 29,1% di loro non ha neppure frequentato una scuola secondaria superiore; non più del 19,4% ha un diploma universitario o una laurea. E, d’altra parte, una percentuale non insignificante (il 15,2%) possono essere considerati parte della categoria dei “disoccupati di lunga durata”, in quanto privi d’impiego da almeno un anno. Come si è detto, poi, le loro origini sociali sono relativamente deprivilegiate: coloro il cui padre svolge una professione di livello impiegatizio od operaio raggiungono il 46,6% (sono il 27,2% tra gli studenti). 4. La rilevazione dei dati in Spagna L’indagine empirica ha interessato due campioni relativi a sottopopolazioni differenziate: studenti universitari e giovani disoccupati. I questionari somministrati, secondo lo standard metodologico già illustrato, contenevano un set di domande comuni ed una serie di domande definite sulla base delle esperienze e delle caratteristiche proprie di ciascuno dei due segmenti di popolazione giovanile indagati. Come anticipato, inoltre, di un sottocampione di 210 studenti si sono intervistati anche entrambi i genitori (ossia, altri 420 individui), in modo da consentire analisi più approfondite sui processi di socializzazione che hanno luogo in ambito familiare. Nel complesso sono state realizzate 1838 interviste. Il campione degli studenti si compone di 1065 casi, estratto in cinque diversi atenei spagnoli (Salamanca, Madrid, Alicante, Barcellona e Siviglia), in rappresentanza degli iscritti a corsi di laurea in giornalismo, sociologia, giurisprudenza, architettura, ottica e statistica. Il 65,9% degli 589 intervistati è di sesso femminile; anche nel caso spagnolo, questo risultato dipende fondamentalmente dalla maggiore partecipazione delle giovani donne agli studi universitari. L’età mediana degli studenti è 21 anni. Il campione dei disoccupati è costituito da 353 individui intervistati proporzionalmente nelle province di Salamanca, Madrid e Alicante, di cui la maggioranza (il 54,2%) di sesso maschile. L’età mediana dei disoccupati interpellati è 24 anni. Il 38,2% del campione ha un titolo di studio primario o di formazione professionale, mentre il 24,8% ha conseguito il baccalaureato ed il 37% ha un titolo universitario (il 12,2% un diploma). Quanto alle origini sociali, il 21,4% proviene da famiglie borghesi (i padri sono dirigenti, liberi professionisti, o svolgono professioni intellettuali), mentre il 44,3% è espressione dei ceti medi (padri impiegati o lavoratori autonomi) e il 32,7% ha un’estrazione operaia. I “disoccupati di lunga durata” (da dodici mesi o più) costituiscono il 45,3% di questo campione. 590 BIBLIOGRAFIA AA.VV. (1967), L’attivista di partito, Il Mulino, Bologna. AA.VV. (1995), “L’évolution des valeurs européens” in Futuribles, 200 (numero monografico). Abrams, P. (1970), “Rites de passage: The Conflict of Generations in Industrial Society” in Journal of Contemporary History, 5. — (1983), Sociologia storica, Il Mulino, Bologna; in part. il cap.VIII “La sociologia storica degli individui: l’ identità e il problema delle generazioni”. Accornero, A. e Carmignani, F. (1986), I paradossi della disoccupazione, Il Mulino, Bologna. — (1999), “La disoccupazione e le gambe storte del sistema” in Stato e mercato, 56. Adler, F.H. (1997), “Razzismo, differenza e destra in Francia”, in Campi, A. e Santambrogio, A. (a cura di), Destra/sinistra. Storia e fenomenologia di una dicotomia politica, Pellicani Editore, Roma. Ahrendt, D. (1998), Young People’s Attitudes to the European Union, European Commission, Bruxelles. Alaminos, A. (1994), “La cultura política de los jóvenes” en Martín Serrano, M. (dir.), Historia de los cambios de mentalidad de los jóvenes entre 1960 y 1990, Instituto de la Juventud, Madrid. — (1999), “Giovani, socializzazione e ideologia politica in Spagna” in Bettin, G. ( a cura di). Alaminos, A. e Penalva, C. (2000), “La famiglia come agente di trasmissione di valori e di ideologia” in Bettin, G. (a cura di), La politica acerba, Rubbettino, Soveria Mannelli (in stampa). Alberoni, F. (1970), Classi e generazioni, Il Mulino, Bologna. Alfassio Grimaldi, A. e Bertoni, I. (1964), I giovani degli anni Sessanta, Laterza, Bari. 591 Allen, W. S. (1968 [1965]), Come si diventa nazisti, Einaudi, Torino. Allum, P. (1997), Democrazia reale. Stato e società civile nell’Europa occidentale, Utet, Torino. Alonzo, P. (2000), Femmes et salariat. L’inégalité dans l’indifférence, L’Harmattan, Paris. Altieri, L. (1991), Tracce di libertà, Angeli, Milano. Angvik, M. e von Borries, B. (1997), Youth and History. A Comparative European Survey on Historical Consciousness and Political Attitudes among Adolescents, Koerber-Stiftung, Hamburg. Attias-Donfut, C. (1988), Sociologie des générations. L’empreinte du temps, Puf, Paris. Baglioni, G. (1962), I giovani nella società industriale, Vita e Pensiero, Milano. Bakke, E. W. (1933), The Unemployed Man, Nisbet, London. Baldacci, E., Gazzelloni, S., Inglese, L. (1997), “Italy” in Lugaresi, S., Jones, G., Frustaci, M. (a cura di), A Statistical Portrait of Youth Exclusion, Istat, Roma. Barbagli, M. (1974), Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico in Italia, Il Mulino,Bologna. Barnes, S. H., Kaase, M. (1979), Political Action. Mass Participation in Five Western Democracies, Sage, Beverly Hills-London. Battagliola, F., Brown, E., Jaspard, M. (1997), “Itinéraires de passage à l’âge adulte, différences de sexe, différences de classe” in Sociétés contemporaines, 25. Baudelot, C. e Establet, (1992), Allez les filles!, Seuil, Paris. — (2000), Avoir 30 ans en 1968 et en 1998, Seuil, Paris. Baudelot, C., Benoiel, R., Cukrowicz, H., Establet, R. (1981), Les étudiants, l’emploi, la crise, Maspero Paris. Bauman, Z. (1997), Postmodernity and Its Discontents, Polity, Cambridge. Beaud, S. e Pialoux, M.(1997), “Les ouvriers et le Front National” in Politique La Revue , 4. Beccalli, B. (1977), “Protesta giovanile e opposizione politica” in Quaderni piacentini, 64. 592 Beck, U. (1992), Risk society: towards a new modernity, Sage, London. — ( a cura di) ( 1997), Kinder der Freiheit, Suhrkamp, Frankfurt. Beck (1999), L’epoca delle conseguenze secondarie e la politicizzazione, in Beck, U., Giddens, A., Lash, S. — (2000, [1997]), “Figli della libertà: contro il lamento sulla caduta dei valori” in Rassegna Italiana di Sociologia, 40. Beck, U., Giddens, A., Lash, S. (1995), Reflexive Modernization: Politics,Tradition and Aesthetics in the Modern Social Order, Stanford University Press, Stanford (trad. it. Modernizzazione riflessiva, Asterios, Trieste, 1999). Belot, C. e Smith, A. (1998), “European Integration from Political to Social Legitimacy”, in Hedetoft, U. (a cura di), Political Symbols, Symbolic Politics: Europe between Unity and Fragmentation, Avebury, London. Belot, C. e Tournier, V. (1998), “Les jeunes, l’Europe et la nation”, in Bréchon, P. e Cautrés, B. (a cura di), Les enquêtes eurobaromètres. Analyse compareé des données socio-politiques, L’Harmattan, Paris. Belotti, V. e Diamanti, I. (1994), L’identità pubblica dei giovani: gli altri, la politica, i valori, Fondazione G. Corazzin, Venezia, cicl. Beltrán Villalba, M. (1984), La subcultura juvenil in Beltrán Villalba, M. et alii, Informe sociológico sobre la Juventud española (1960-1982), S.M., Madrid. Bendit, R. (1998), “Giovani e politica giovanile in Europa: tra globalizzazione e regionalizzazione” in Tomasi, L. (a cura di), La cultura dei giovani europei alle soglie del 2000, Angeli, Milano. Benedicto Millán, J. (1989), “Sistemas de valores y pautas de cultura política predominantes en la sociedad española (1976-1985)” in Tezanos, J.F., Cortarelo, R., De Blas, A. (a cura di), La transición democrática española, Editorial Sistema, Madrid. Berger, B.M. (1960), “How Long Is a Generation?” in British Journal of Sociology, XI, 1. Berger, P. (1994), Una gloria remota, Il Mulino, Bologna. Berger, P., Berger, B., Kellner, H. (1973), The Homeless Mind, Penguin, Harmondsworth. 593 Berthelot, J.M. (1982), “Pour un contre-investissement culturel à l’école” in Esprit, 11-12. Berthelot, J.M. (1983), Le piège scolaire, Puf, Paris. Besozzi, E. (1990), “Mutamento culturale e processi di socializzazione” in Cesareo, V. (a cura di), La cultura dell’Italia contemporanea, Fondazione Agnelli, Torino. Bettin, G. (1995a), “I cittadini, le generazioni e l’immagine del sindaco” in Queste istituzioni, 23. — (1995b), “L’idea di Europa”, in Id. (a cura di), La società degli europei, Monduzzi, Bologna. — (1997), “Alcune considerazioni sul mutamento delle generazioni e sul mutamento politico” in Id., (a cura di), Politica e società, Cedam, Padova. — (1999a), “Sul concetto di generazione politica” in Id. (a cura di). — (a cura di) (1999b), Giovani e democrazia in Europa, Cedam, Padova. Bettin, G., Bontempi, M., Caniglia, E., Marsiglia, G., Recchi, E. (1999), The Integration of Young People into Working Life and The Future of Democratic Culture in Southern Europe, The European Commission, mimeo. Bisi, S. (1999), Genitori e figli: un rapporto contraddittorio, Angeli, Milano. Blau, P. e Duncan, O. D. (1967), The American Occupational Structure, Wiley, New York. Bobbio, N. (1994), Destra e Sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica, Donzelli, Roma. Bogi, D. (1996), “Globalizzazione e localismo. Un’indagine sui giovani politici della Lega Nord” in Queste istituzioni, 24. Boltanski, L. (2000), Le nouvel esprit du capitalisme, Seuil, Paris. Bontempi, M. (1997), Mito politico e modernità, Cedam, Padova. — (1999a), “La differenziazione dei sistemi di valore nella cultura politica dei giovani in Spagna (1975-1998)” in Bettin, G. (a cura di). — (1999b), “Centri di relazioni primarie e identità politiche”, paper presentato al Convegno della Sezione di Sociologia Politica del594 l’Associazione Italiana di Sociologia sul tema Politica, Istituzioni e sviluppo, Università della Calabria, 17-18/6/1999. — (1999c) “La socialisation politique dans une societé differienciée: le cas italien au cours des années ‘90”, paper presentato al VI Congres de l’Association Francaise de Science Politique Rennes (Francia) 28/9/ -1/10/1999. Botella, J. (1990), “La cultura política en la España democrática” in Cortarelo, R. (a cura di), Transicíon y democracia en España: política, C.I.S., Madrid. Botta, P. (1993), “Giovani e valori” in Scuola Democratica, 3-4. Bourdieu, P. (1977), “Questions de politique” in Actes de la Recherche en Sciences Sociales, 16. — (1982), “Les rites comme actes d’institution” in Actes de la Recherche en Sciences Sociales, 43. — (1988), La distinción, criterio y bases sociales del gusto, Taurus, Madrid. Bourdieu, P. e Passeron, J-C. (1964), Les Héritiers, Minuit, Paris. — (1972), La riproduzione, Gualda, Rimini. Bourricaud, F. (1980), Le bricolage idéologique, Puf, Paris. Boy, D., Mayer, N. (1997), L’électeur a ses raisons, Presses de SciencePo, Paris. Braungart, R. (1993), “Historical Generation and Generation Unit: A Global Pattern of Youth Movements” in Braungart, R. e Braungart, M., Life Course and Generational Politics, University Press of America, Syracuse. Braungart, R. e Braungart, M. (1989), “Les générations politiques” in Crete, J. e Favre, P. (a cura di), Générations et Politique, Economica, Paris. Breen, R. e Goldthorpe, J. H. (1997), “Explaining Educational Differentials: Towards a Formal Rational Action Theory” in Rationality and Society, 9. Buzzi, C., Cavalli, A., de Lillo, A. (a cura di) (1997), Giovani verso il Duemila. Quarto rapporto Iard sulla condizione giovanile in Italia, Il Mulino, Bologna. Bynner, J., Chisholm, L., Furlong, A. (a cura di) (1997), Youth, Citizenship, and Social Change in the Europeam Context, Avebury, Aldershot. 595 Caciagli, M. (1987), “I giovani e l’iscrizione ai partiti” in De Seta, S. (a cura di), Società e partiti politici: il dibattito sulla crisi, Angeli, Milano. Cacouault, M. (1987), “Prof, c’est bien... pour une femme?” in Le Mouvement social, numero monografico: Métiers de femmes (dir. Perrot, M.), 140. — (1999), Différenciation des carrières entre les hommes et les femmes dans l’enseignement du second degré. Les chefs d’établissement et les professeurs de type lycées, FEN-UNSA, Paris. — e Fournier, C. (1998), “Le diplôme contribue-t-il à réduire les différences entre hommes et femmes sur le marché du travail?” in Mosconi, N. (dir.), Egalité des sexes en éducation et formation, Puf, Paris. Cacouault, M., e Muxel, A. (1999), The Integration of Young People into Working Life and The Future of Democratic Culture in Southern Europe, The European Commission, mimeo. Cacouault, M., e Oeuvrard, F. (1995), Sociologie de l’éducation, La Découverte, Paris. Calza Bini, P. Cavarra, R., Rella, P. (1995), “La disoccupazione giovanile in un sistema locale” in Giullari, B. e La Rosa, M. (a cura di), Disoccupazione perché? Scienze sociali a confronto, Sociologia del lavoro, 4 (numero monografico). Capano, G. (1998), La politica universitaria, Il Mulino, Bologna. Capozza, D., Comucci Tajoli, A., Manganelli Rattazzi, A. M. (1992), “Educational and Occupational Expectations of Italian Adolescents” in Social Science Information. Caro, F., Pihlblad, C. T. (1965), “Aspirations and Expectations” in Sociology and Social Research, 49. Cartocci, R. (1994), Tra Lega e Chiesa, Il Mulino, Bologna. Cartocci, R., Parisi, A. M. L. (a cura di) (1997), Difesa della patria e interesse nazionale nella scuola, Angeli, Milano. Castel, R. (1995), Les métamorphoses de la question sociale. Une chronique du salariat, Fayard, Paris. Cassano, F. (1998), Paeninsula. L’Italia da ritrovare, Laterza, RomaBari. Castillo, J. (1966), “Es España societad de consumo de masas?” in Anales de Sociología, 1. 596 Cavalli, A. (1980), “La gioventù: condizione o processo?” in Rassegna Italiana di Sociologia, 21. — (1992), Insegnare oggi, Il Mulino, Bologna. — (1994a), “I giovani italiani e l’Unione Europea” in Quaderni Iard, 2. — (1994b), “Un nuovo movimento di nuovi studenti” in Il Mulino, 6. — (1994c), “Generazioni” in Enciclopedia delle scienze sociali, vol.4, Treccani, Roma. — (1994c), “Giovani” in Enciclopedia delle scienze sociali, vol..4, Treccani, Roma. — (1996 [1993]), “Il prolungamento della giovinezza in Italia: non bruciare le tappe” in Cavalli, A. e Galland, O. (a cura di). — (1997a), “La lunga transizione all’età adulta” in Buzzi, C., Cavalli, A., de Lillo, A (a cura di). Cavalli, A. e de Lillo, A. (a cura di) (1993), Giovani anni 90. Terzo rapporto Iard sulla condizione giovanile in Italia, Il Mulino, Bologna. Cavalli, A. e Galland O., (1993), L’allongement de la jeunesse, Actes Sud, Poitiers. — (1996), Senza fretta di crescere, Liguori, Napoli. Cavalli, A. e Martinelli, A. (1969), Il campus diviso, Marsilio, Padova. Cavalli, A. et alii (1992), Political Culture and National Identity among European Youth, Paper presentato alla First European Conference of Sociology, Vienna, 8 agosto. Cavalli, L. (1964), La democrazia manipolata, Comunità, Milano. — (1973), “La contestazione degli studenti come forza di mutamento” in Id. (a cura di), Materiali sull’Italia in trasformazione, il Mulino, Bologna. — (2000), Il primato della politica nell’Italia del secolo XXI, Cedam, Padova. Censis (1977), Diploma, università, occupazione. Indagine su una leva di diplomati degli istituti tecnici, Roma. Centro de Investigaciones Sociologicas (1996), Datos de opinión. Boletín del Centro de Investigaciones Sociológicas, 8, Diciembre. 597 — (1997), Juventud e identidad nacional, estudio n. 2257. — (1999), “Los jóvenes de hoy” in Datos de opinión, 19. Cepr (1995), La disoccupazione: scelte per l’Europa, Il Mulino, Bologna. CEREQ-DLC (1997), “Femmes sur le marché du travail. L’autre relation formation-emploi” in Etudes, 70. Certeau de, M. (1980), L’invention du quotidien, 10/18, Paris. Chamboredon, J.C. (1985), “Adolescence et post-adolescence: la juvénisation” in Alléon, A.M., Morvan, O., Lebovici, S. (a cura di), Adolescence terminée, adolescence interminable, PUF, Paris. Chaponnière, M. et alii (1993), Les valeurs dites féminines et masculines, L’Age d’homme, Lausanne. Charlot, B. (a cura di) (1994), L’école et le territoire : nouveaux espaces, nouveaux enjeux, A. Colin, Paris. Chauvel, L. (1998), Le destin des générations. Structure sociale et cohortes en France au XXe siècle, Puf, Paris. Chiche, J. e Jaffré J. (1997), “Mobilité, volatilité, perplexité” in Boy, D. e Mayer, N. (a cura di), L’électeur a ses raisons, Presses de Science Po, Paris. Chebel, M. (1986), La formation de l’identité politique, PUF, Paris. Chiarini, R. (2000), “La destra italiana e l’immigrazione” in Storia contemporanea, 1. Chiesi, A. (1997a), “Il lavoro. Strategie di risposta alla crisi” in Buzzi C., Cavalli A., de Lillo A. (a cura di). — (1997b), Lavori e professioni. Caratteristiche e mutamenti dell’occupazione in Italia, NIS, Roma. Ciucci, R. (1996), Generare e corrompere, Pacini Fazzi, Lucca. — (1998), “Asimmetrie e conflitti tra le generazioni” in Parolechiave, 16. — (1999), “Pluralismo, soggettività giovanile e orientamenti politici” in Bettin, G. (a cura di). Clark, B. (1960), The “Cooling-Out” Function in Higher Education in American Journal of Sociology, 65. Clark, T.N. e Inglehart, R. (1998), “The New Political Culture”, in Clark, T.N. e Hoffmann-Martinot, V. (a cura di). 598 Clark, T. N. e Rempel, M. (a cura di) (1997), Citizen Politics in Post-Industrial Societies, Westview, Boulder. Clark, T.N. e Hoffman-Martinot, V. (a cura di) (1997), The New Political Culture, Westview Press, Boulder. Cobalti, A. e Schizzerotto, A. (1994), La mobilità sociale in Italia, Il Mulino, Bologna. Cofrancesco, D. (1984), Destra e sinistra. Per un uso critico di due termini chiave, Bertani, Verona. Coleman, J. (1988), “Social Capital in the Creation of Human Capital” in American Journal of Sociology, 94. — (1990), Foundations of Social Theory, Belknap Press, Cambridge (Mass.). Colmou, A.M. (1999), L’encadrement supérieur de la fonction publique: vers l’égalité entre les hommes et les femmes. Rapport au Ministre de la fonction publique, Paris. Commaille, J. (1997), Les nouveaux enjeux de la question sociale, Hachette, Paris. Corbetta, P. (2000), Metodologia e tecniche della ricerca sociale, Il Mulino, Bologna. Corradini, D. (1976), Karl Mannheim, Giuffré, Milano. Cotta, M. (1979), “La partecipazione politica” in Rivista italiana di Scienza politica, 9. Craig, S. C. e Bennet, E. (a cura di) (1997), After the Boom. The Politics of Generation X, Rowman & Littlefield, Lanham. Crepet, P. (1990), Le malattie della disoccupazione, Edizioni Lavoro, Roma. Crête, J. e Favre, P. (a cura di) (1989), Générations et politique, Economica, Québec-Paris. Cristofori, C. (1990), Stato di moratoria, Angeli, Milano. Crouch, C. (1999), Social Change in Western Europe, Oxford University Press, Oxford. D’Alessandro, V. (1985), Ethos giovanile e lavoro. Senso del lavoro e strategie professionali in una società differenziata, Angeli, Milano. — (1989), “Identità giovanili. Mutamenti di valore e paradigma 599 inglehartiano: ipotesi sulle nuove tendenze della rivoluzione silenziosa” in Bechelloni, G. (a cura di), Il mutamento culturale in Italia (1945-1985), Liguori, Napoli. Dahrendorf, R. (1997), After 1989. Morals, Revolution and Civil Society, Macmillan, London. Davis, J. A. (1996), “Review Essay on Value Change in Global Perspective” in Public Opinion Quarterly, 60. Davis, J.C. (1969), “The J-Curve of rising and declining satisfactions as a cause of some great revolutions and contained rebellion” in Graham D. e Gurr T. (a cura di), Violence in America, New York, Signet Books. De Benoist, A. (1986), Europe, tiers-monde, meme combat, Hallier, Paris. Degenne, A., Lemel Y. (1999), “Les réseaux de relations de la vie quotidienne” in Données sociales, INSEE. Dei, M. (1998), La scuola in Italia, Il Mulino, Bologna. Dei, M. e Rossi, M. (1978), Sociologia della scuola italiana, Il Mulino, Bologna. De Lillo, A. (1997), “I sistemi di valore” in Buzzi, A., Cavalli, A., De Lillo, A. (a cura di). De Lillo, A. e Schizzerotto, A. (1985), La valutazione sociale delle occupazioni, Il Mulino, Bologna. De Mucci, R. (1999), “Spazio politico e struttura sociale nell’Italia di fine secolo” in Antiseri, D. e Infantino, L. (a cura di), Destra e sinistra: due parole ormai inutili, Rubbettino, Soveria Mannelli. Deutsch, E., Lindon, D., Weil, P. (1966), Les familles politiques aujourd’hui en France, Editions de Minuits, Paris. Devriese, M., (1989), “Approche sociologique de la génération” in Vingtieme Siecle, 20. Diamanti, I. (1997), “L’Italia: un puzzle di piccole patrie” in C. Buzzi, A. Cavalli, A. de Lillo (a cura di). — (a cura di) (1999), La generazione invisibile. Inchiesta sui giovani del nostro tempo, Edizioni Il Sole-24Ore, Milano. — (1999a), “Il vantaggio di essere italiani” in Limes, 1. — (1999b), “Ha senso ancora discutere di nazione?” in Rassegna italiana di sociologia, 40. 600 Díez Nicolás, J. (a cura di) (1996), Los Jóvenes, Instituto de la Juventud, Madrid (versione software). Díez Nicolás, J. e Inglehart, R. (a cura di) (1994), Tendencias mundiales de cambio en los valores sociales y políticos, Fundesco, Madrid. Dogan, M. (1993), “Déclin des nationalismes et dynamique des générations en Europe de l’Ouest” in Revue Internationale des Sciences Sociales, 136. Dogan, M. (1999), “La dinamica delle generazioni e il declino dei valori tradizionali” in G. Bettin Lattes (a cura di). Donati, P. e Colozzi, I. (a cura di) (1997), Giovani e generazioni. Crescere in una società eticamente neutra, Il Mulino, Bologna. Dubet, F. (1991), Les lycéens, Seuil, Paris. — (1994), “Dimensions et figures de l’expérience étudiante dans l’université de masse” in Revue Française de Sociologie, 35. Dubet, F., Delage, B., Andrieu, J., Martucelli, D., Sembel, N. (1993), Les étudiants, le Campus et leurs études, LAPSAC, CEDAS, Université de Bordeaux II. Duchesne, S. (1997), Citoyenneté à la française, Presses de SciencePo, Paris. Dupoirier, E., Chiche, J. (1998), “L’abstention aux élections législatives de 1997” in Perrineau, P., Ysmal, C. (a cura di), Le vote surprise. Les élections législatives de 1997, Presses de Science Po, Paris. Duverger, M. (1974), Métodos de las ciencias sociales, Ariel, Barcelona. Edwards, B. e Foley, M. V. (a cura di) (1997), Social capital, civil society and contemporary democracy, numero monografico di American Behavioral Scientist, 40. Eisenstadt, S. N. (1956), From Generation to Generation, Free Press, New York (trad. it. Da generazione a generazione, Etas Kompass, Milano, 1971). Elia, G. (a cura di) (1971), Sociologia urbana, Hoepli, Milano. Elzo, J. (1995), Jovenes españoles 94, S.M., Madrid. Elzo, J. et alii (1999), Jóvenes españoles 99, S.M., Madrid. 601 Erikson, E.H. (1966), Infanzia e società, Armando, Roma. — (1974), Gioventù e crisi di identità, Armando, Roma. Esler, A. (a cura di) (1974), The Youth Revolution. The Conflict of Generations in Modern History, Heat, London. — (1984), “The Truest Community: Social Generations as Collective Mentalities” in Journal of Political and Military Sociology, 12. Ester, P., Halman, L., De Moor, R. (a cura di) (1993), The Individualizing Society. Value Change in Europe and North America, Tilburg University Press, Tilburg. Euriat, M. e Thélot, C. (1995), “Le recrutement social de l’élite scolaire en France. Evolution des inégalités de 1950 à 1990” in Revue française de sociologie, 36. Eurisko (1994), “Il profilo socioculturale degli elettori 1994” in Social Trends, 66. Eurobarometro (1999), Public Opinion in the European Union. Report number 51, European Commission, Bruxelles. Eurostat (1997), Les jeunes de l’Union Européenne ou les ages de transition, Luxembourg. Faini R., Galli, G., Rossi, F. (1996), Mobilità e disoccupazione in Italia: un’analisi dell’offerta di lavoro, Centro Studi Confindustria, Working Paper n. 6, Roma. Ferrari, G. (1874), Teoria dei periodi politici, Hoepli, Milano-Napoli. Feuer, L.S. (1969), The Conflicts of Generations. The Character and Significance of Student Movements, Heinemann, New York. Fichter, T. (1991), “Political Generations in Federal Germany” in Comparative Political Quarterly, 21. Flament, C. (1992), ”Struttura e dinamica delle rappresentazioni sociali” in Jodelet, D. (a cura di), Le rappresentazioni sociali, Liguori, Napoli. Flanagan, S. (1982), “Changing Values in Advanced Industrial Societies” in Comparative Political Studies, 14. — (1987), “Changing Values in Advanced Industrial Societies Revisited: Towards a Resolution of the Values Debate” in American Political Science Review, 81. Fogt, H. (1982), Politische Generationen, Opladen, citato in Cavalli, A. (1994), Generazioni, in Enciclopedia delle scienze sociali, vol. 4, Treccani, Roma. 602 Frey, L. (1980), La problematica del lavoro giovanile e le sue prospettive negli anni Ottanta, Angeli, Milano. Furlong, A. e Cartmel, F. (1997), Young People and Social Change: Individualisation and Risk in the Age of High Modernity, Open University Press, Buckingham. Galland, O. (1991), Sociologie de la jeunesse, Colin, Paris. — (1995), “Une entrée de plus en plus tardive dans la vie adulte” in Economie et Statistique, 283-284. — (a cura di) (1995), Le monde des étudiants, PUF, Paris. — (1996a [1993]), “Che cos’è la gioventù?” in Cavalli, A. e Galland, O. (a cura di). — (1996b [1993]), “La gioventù in Francia, una nuova età della vita” in Cavalli, A. e Galland, O. (a cura di) — (1996c), “L’entrée dans la vie adulte en France. Bilan et perspectives sociologiques” in Sociologie et sociétés, 28. Galland, O. e Oberti, M. (1996), Les étudiants, La Découverte, Paris. Gallino, L. (1998), Se tre milioni vi sembran pochi. Sui modi per combattere la disoccupazione, Einaudi, Torino. Garelli, F. (1984), La generazione della vita quotidiana, Il Mulino, Bologna. — (1994), “I giovani nelle contraddizioni della complessità” in Il Mulino, 6. Garrido, L. e Requena, M. (1996), La emancipación de los Jóvenes en España, Instituto de la Juventud, Madrid. Gasperoni, G. (1997), Il rendimento scolastico, Il Mulino, Bologna. Gauchet, M. (1991), La Droite et la Gauche, Gallimard, Parigi. Gellner, E. (1983), Nations and Nationalism, Blackwell, Oxford. Germani, G. (1971), Sociologia della modernizzazione, Laterza, Bari. Giannelli, G., Orientale Caputo, G., Pugliese, E. (1996), “La disoccupazione giovanile in Europa” in Pugliese, E. (a cura di), Una disoccupazione mediterranea. Giovani e mercato del lavoro nel Mezzogiorno e a Napoli, Libreria Dante & Descartes, Napoli. 603 Giddens, A. (1990), The Consequences of Modernity, Cambridge University Press, Cambridge. — (1994), Beyond Left and Right, Polity Press, Oxford. Giovannini, P. (1988), “Generazioni e mutamento politico in Italia” in Rivista italiana di Scienza Politica, 18. Girault, R. (1994), “Les trois sources de l’identité et de la conscience européennes au XX siecle” in Id. (a cura di), Identité et conscience européennes au XX siecle, Hachette, Paris. Giuliano, L. (1990), “Sul concetto di generazione: significati e prospettive” in Sociologia, 2-3. Greenstein, F. (1965), Children and Politics, Yale University Press, New Haven. Gurr, T., (1970), Why Men Rebel, Princeton University Press, Princeton. Habermas, J. (1968), L’università nella democrazia, De Donato, Bari. — (1992), “Cittadinanza politica e identità nazionale. Riflessioni sul futuro dell’Europa” in Id., Morale, diritto, politica, Einaudi, Torino. Hagen, E. E. (1962), On the Theory of Social Change, Dorsey Press, Homewood. Hamon, H. e Rotman, P. (1988), Generation, Le Seuil, Paris. Han, W. S. (1968), “Discrepancy in Socioeconomic Level of Aspiration and Perception of Illegitimate Expediency” in American Journal of Sociology, 74. Heberle, R. (1951), Social Movements, Appleton-Century Crofts, New York. Heinz, W.R. e Nagel, U. (1995), “Changement social et modernisation des transitions école-travail” in Jobert, A., Marry, C., Tanguy, L. (a cura di) Education et travail en Grande-Bretagne, Allemagne et Italie, Armand Colin, Paris. Herzog, A. R. (1982), “High School Seniors’ Occupational Plans and Values: Trends in Sex Differences 1976 through 1980” in Sociology of Education, 55. Hitzler, R. e Pfadenhauer, M. (1999), Strategie esistenziali, ovvero sulla politica del divertimento dei “tecnóidi”, in Bettin, G. (a cura di). 604 Hofrichter, J. (1990), European Attitudes of the Young, DG XXII European Commission, Bruxelles. Houdon, R. e Fournier, V. (a cura di) (1994), Jeunesse et politique, vol. I, L’Harmattan, Paris-Montréal. Hyman, H. (1953), “The Value Systems of Different Classes: A Social Psychological Contribution to the Analysis of Stratification” in Bendix, R. e Lipset, S. M. (a cura di), Class, Status, and Power, Free Press, Glencoe. — (1959), Political Socialization, Free Press, New York. IARD (1993), I giovani e la voglia di cambiare. Il mutamento negli atteggiamenti politici delle nuove generazioni (Febbraio 1992Settembre 1993), Quaderno n. 8. — (1994), Gli orientamenti politici dei giovani. Un’analisi longitudinale (Febbraio 1992-Settembre 1993-Maggio 1994), Quaderno n. 3. Iglesias de Ussel, J. (1988), “Socialización y control social” in Del Campo, S. (a cura di), Tratado de Sociología, vol. I, Taurus, Madrid. — (1998), La familia y el cambio político en España, Tecnos, Madrid. Inglehart, R. (1977), The Silent Revolution: Changing Values and Political Styles, Princeton University Press, Princeton (trad. it. La rivoluzione silenziosa, Rizzoli, Milano, 1983). — (1990), Culture Shift in Advanced Industrial Society, Princeton University Press, Princeton (trad. it. Valori e cultura politica nella società industriale avanzata, Liviana, Padova, 1993). — (1991), El cambio cultural en las sociedades industriales avanzadas, CIS, Madrid. — (1996), Modernization and Postmodernization, Princeton University Press, Princeton, (trad. it. La società postmoderna. Mutamento, ideologie e valori in 43 paesi, Editori Riuniti, Roma, 1998). — (1999), “L’emergere dei valori postmoderni” in Bettin Lattes, G. (a cura di). INSEE (1995), Les femmes, Paris. IRP-CNR (1999), Giovani che non lasciano il nido. Atteggiamenti, speranze, condizioni all’uscita di casa, Istituto di Ricerche sulla Popolazione, Roma. 605 Isfol (1977), “Atteggiamenti dei giovani nei confronti del lavoro”, in Quaderni di formazione, 38-39. ISTAT (1996), Inserimento professionale dei laureati. Indagine 1995, Istat, Roma. — (1997), Annuario statistico italiano 1997, Istat, Roma. — (1998), Rapporto annuale. La situazione del Paese nel 1997, Istat, Roma. — (1999), Rapporto annuale. La situazione del Paese nel 1998, Istat, Roma. Jacobs, J. A., Karen, D., McClelland, K. (1991), “The Dynamics of Young Men’s Career Aspirations” in Sociological Forum, 6. Jaffré J. e Muxel, A. (1997), “Les repères politiques” in Boy, D. e Mayer, N. (a cura di), L’électeur a ses raisons, Presses de Science Po, Paris. Jahoda, M., Lazarsfeld, P. F., Zeisel, H. (1933 [1986]), I disoccupati di Marienthal, Edizioni Lavoro, Roma. Jansen, N. (1975), Generation Theory, Mc Graw-Hill, Johannesburg. Jennings, M.K. e Niemi, R. (1981), Generations and Politics, Princeton University Press, Princeton. Jobert, A., Marry, C., Tanguy, L. (a cura di ) (1995), Education et Travail en Grande-Bretagne, Allemagne et Italie, A. Colin, Paris. Jodelet, D. (1992), “Rappresentazioni sociali: un campo in espansione” in Id. (a cura di), Le rappresentazioni sociali, Liguori, Napoli. Justel, M. (1992), “Edad y cultura política” in Revista Española de Investigaciones Sociologícas, 58. Kaufman, R. L. (1996), “Comparing Effects in Dichotomous Logistic Regression: A Variety of Standardized Coefficients” in Social Science Quarterly, 77. Keniston, K. (1965), The Uncommitted Alienated Youth in American Society, Dell, New York. Keniston, K. (1972), Giovani all’opposizione, Einaudi, Torino. Kerckhoff, A. (1972), Socialization and Social Class, Prentice-Hall, Englewood Cliffs. Kertzer, D.I. (1983), “Generation as Sociological Problem” in Annual Review of Sociology, 9. 606 Knutsen, O. (1989), “Cleavage Dimensions in Ten West European Countries: A Comparative Empirical Analysis” in Comparative Political Studies, 21. Kornhauser, W. (1959), The Politics of Mass Society, Free Press, Glencoe. Kriegel, A. (1978), “Generation Difference: the History of the Idea” in Daedalus, 107. Lagree, J-C. (1997), “Youth in Europe: Cultural Patterns of Transition” in Berkeley Journal of Sociology, 2. Landuzzi, M.G. (1997), Il contesto familiare e la socializzazione primaria, in Donati, P., e Colozzi, I. (a cura di)., Giovani e generazioni, Il Mulino, Bologna. Lapeyronnie, D. e Marie, J.L. (1992), Campus blues, les étudiants face à leurs études, Seuil, Paris. Lash, C. (1996), “Modernizzazione riflessiva” in Il Mondo 3. Rivista di teoria delle scienze umane e sociali, 3. Lazarsfeld, P. F. (a cura di) (1931), Jugend und Beruf. Kritik und Material, Gustav Fischer, Jena. — (1971 [1986]), Quarant’anni dopo. Prefazione all’edizione inglese in Jahoda, M., Lazarsfeld, P. F., Zeisel, H., I disoccupati di Marienthal, Edizioni Lavoro, Roma. Le Bart, C. e Merle, P. (1997), La citoyenneté étudiante, PUF, Paris. Linz, J. (1981), Informe sociológico sobre el cambio politíco en España, Euroamerica, Madrid. Lodi, G. e Grazioli, M. (1984a), “Giovani sul territorio urbano: l’integrazione minimale” in Melucci, A. (a cura di). Lodi, G. e Grazioli, M. (1984b), “La mobilitazione collettiva negli anni Ottanta: tra condizione e convinzione” in Melucci, A. (a cura di). Lopez Pintor, R. (1982), La opinion pública española: dal franquismo a la democracia, CIS, Madrid. — (1984), Actitudes políticas y comportamiento político de la juventud in Beltrán Villalba, M. et alii, Informe sociológico sobre la Juventud española (1960-1982), S. M., Madrid. Lipset, S.M. (1968), Studenti e politica, De Donato, Bari. 607 — Lipset, S.M., e Solari, A. (1967), Elites y desarrollo en América Latina, Buenos Aires, Paidós. Lueptow, L. B. (1980), “Social Change and Sex-Role Change in Adolescent Orientations toward Life, Work, and Achievement: 19641975” in Social Psychology Quarterly, 43. Luhmann, N. (1985), Amore come passione, Laterza, Roma-Bari. Lumley, R. (1998), Dal ’68 agli anni di piombo, Giunti, Firenze. Lyotard, J.F. (1981), La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano. MacLeod, J. (1995), Ain’t No Makin’ It: Aspirations and Attainment in a Low-Income Neighborhood, Westview, Boulder. Mancini, F. (1998), “Per uno stato europeo” in Il Mulino, 377. Manganelli Rattazzi, A. M. e Capozza, D. (1995), “The Influence of the Family on Status Expectations of Italian Adolescents” in International Journal of Adolescence and Youth, 5. Mannheim, K. (1940), Man and Society in an Age of Social Reconstruction, Harcourt Brace, New York (trad. it. L’uomo e la società in un’età di ricostruzione, Comunità, Milano, 1959). — (1951), Diagnosi del nostro tempo, Mondadori, Milano; in part. il cap. III “Il problema della gioventù nella società moderna“, pp.54-85. — (1974 [1928]), “Il problema delle generazioni” in Id., Sociologia della conoscenza, Dedalo, Bari. Marías, J. (1968), “Generations: The Concept” in International Encyclopedia of the Social Sciences, vol. 6. — (1983), Costellazioni e generazioni (a cura di G. Lentini), Palumbo, Palermo. Marini, M. M. (1980), “Sex Differences in the Process of Occupational Attainment: A Closer Look” in Social Science Research, 9. Marradi, A. (1993), L’analisi monovariata, Angeli, Milano. — (1996), “Una lunga ricerca sui valori, e alcuni suoi strumenti” in Marradi, A. e Prandstraller, G. P. (a cura di), L’etica dei ceti emergenti, Angeli, Milano. Marsiglia, G. (1999), La “moratoria sociale e la ‘nuova’ cultura politica dei giovani” in G. Bettin (a cura di), Giovani e democrazia in Europa, Cedam, Padova. 608 Marsiglia, G. e Alacevich, F. (1982), La socializzazione prelavorativa tra scuola e famiglia, Regione Toscana, Firenze. Martín Serrano, M. (1991), Los valores actuales de la juventud en España, Instituto de la Juventud, Madrid. — (a cura di) (1994), Historia de los cambios de mentalidades de los jóvenes entre 1960-1990, Instituto de la Juventud, Madrid. Martín Serrano, M. e Velarde Hermida, O. (1996), Informe Juventud en España, Instituto de la Juventud, Madrid. Martinelli, D. (1994), “Diplômés de l’Université. Insertion au début des années 1990”, in CEREQ, Documents, 100. Martinelli, D., e Vergnies, J-F. (1999), “Diplômés de l’enseignement supérieur. La reprise de l’emploi ne profite pas à toutes les filières” in CEREQ, Bref , 156. Martinotti, G. (1966), “La partecipazione politica dei giovani” in Quaderni di sociologia, 3-4. Martinotti, G., Maggioni, G., Mingione, E. (1968), “Ricerca sociologica sul movimento studentesco a Milano” in Problemi del socialismo, 37. Maruani, M. (2000), Travail et emploi des femmes, La Découverte, Paris. Mayer, N. e Perrineau, P. (a cura di), (1996), Le Front National à découvert, Presses de Sciences Po, Paris. McAdam, D., McCarthy, J.D., Zald, M.N. (a cura di) (1996), Comparative Perspectives on Social Movements, Cambridge University Press, Cambridge. McClelland, D. C. (1961), The Achievement Society, The Free Press, New York. McClelland, K. E. (1990), “The Social Management of Ambition”, in Sociological Quarterly, 31. Mead, M. (1972), Generazioni in conflitto, Bompiani, Milano. Melucci, A. (a cura di) (1984), Altri codici. Aree di movimento nella metropoli, Il Mulino, Bologna. — (1987), “La sfida simbolica dei movimenti contemporanei” in Problemi del socialismo, 12. MEN-DEP (1996), “Concours de recrutement de professeurs des écoles, session 1995” in Note d’information, 41. 609 — (1995), Repères et Références Statistiques sur les enseignements et la formation, Paris. — (1996), Repères et Références Statistiques sur les enseignements et la formation, Paris. — (1997a), Repères et Références Statistiques sur les enseignements et la formation, Paris. — (1997b), “L’accès au deuxième cycle universitaire” in Note d’Information, 97. — (1998), Repères et Références Statistiques sur les enseignements et la formation, Paris. MEN-DPD (1996), L’Etat de l’Ecole, Paris. — (1998), L’Etat de l’Ecole, Paris. — (1999), L’Etat de l’Ecole, Paris. Merle, P. (2000), “Le concept de démocratisation de l’institution scolaire: une typologie et sa mise à l’épreuve” in Population, 55. Merlié, D. e Prévost, J. (1997), La mobilité sociale, La Découverte, Paris. Merton, R.K. (1964), Teoría y estructura sociales, FCE, México. — (1968), Social Theory and Social Structure, Free Press, New York. Milbrath, L. (1965), Political Participation, Rand McNally, Chicago. Minc, A. (1995), L’ivresse démocratique, Gallimard, Paris. Mingione, E. e Pugliese, E. (1995), “Modelli occupazionali e disoccupazione giovanile di massa nel Mezzogiorno” in Sociologia del lavoro, 59-60. Minogue, K. (1967), Nationalism, Batsford, London. Modigliani, F., Fitoussi, J. P., Moro, B., Snower, D., Solow, R., Steinherr, A., Sylos Labini, P. (1998), “An Economists’ Manifesto on Unemployment in the European Union” in BNL Quarterly Review, 51 (la versione italiana da cui si cita è stata pubblicata su Internet nel sito www.ilsole24ore.it). Molinari, J-P. (1992), Les étudiants, Ed. Ouvrières, Paris. — (1993), Modes de vie d’étudiants de l’Université de Nantes, LERSCO, Nantes. 610 Mongardini, C. (1995) “Distanze e processi di socializzazione nella cultura tardo-moderna” in Sociologia, 1. Montero, J.R. e Torcal, M. (1994), “Cambio cultural, reemplazo generacional y política en España” in Díez Nicolás, J. e Inglehart, R. (a cura di). Montero, J.R., Gunther, R., Torcal, M. (1998), “Actitudes hacia la democracia en España: legitimidad, descontento y desafección”, in Revista Española de Investigaciones Sociológicas, 83. Morán, M.L. e Benedicto, J. (1995), La cultura política de los españoles: un ensayo de reinterpretación, CIS, Madrid. Morcellini, M. (1994), Passaggio al futuro. La socializzazione nell’età dei mass media, Angeli, Milano. Morlino, L. (1989), Teoria e macropolitica in Idem (a cura di) Scienza Politica, Fondazione Agnelli, Torino. — (a cura di) (1993), Costruire la democrazia, Il Mulino, Bologna. Moscati, R. (1983), L’università: fine o trasformazione del mito?, Il Mulino, Bologna. Moscovici S. (1989), “Il fenomeno delle rappresentazioni sociali”, in Moscovici S., Farr R. (a cura di), Rappresentazioni sociali, Il Mulino, Bologna. Müller, W. e Shavit, Y. (1998), “The Institutional Embeddedness of the Stratification Process: A Comparative Study of Qualifications and Occupations in Thirteen Countries”, in Shavit, Y. e Müller, W. (a cura di), From School to Work: A Comparative Study of Educational Qualifications and Occupational Destinations, Clarendon, Oxford. Musil, R. (1965), L’homme sans qualité, Le Seuil, Paris (trad. it. L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino, 1958). Muxel, A. (1977), “L’autopositionnement des jeunes sur l’échelle gauche-droite à l’épreuve des mots” in Dupoirier, E. e Parodi, J.L. (a cura di), Les indicateurs socio-politiques aujourd’hui, L’Harmattan, Paris, pp. 249-263. — (1991), “La moratoire politique des année de jeunesse” in Percheron, A. e Remond, R. (a cura di), Age et politique, Economica, Paris. — (1992), “L’âge des choix politiques” in Revue Française de Sociologie, 33. 611 — (1996a), “Soglie di ingresso in politica: tra eredità e sperimentazione” in Cavalli, A. e Galland, O. (a cura di). — (1996b), Les jeunes et la politique, Hachette, Paris. — (1999), “L’incerto legame dei giovani francesi con la politica” in Bettin Lattes, G. (a cura di), Giovani e democrazia in Europa, Cedam, Padova. Muxel, A. e Jaffré, J. (1997), “Les repères politiques” in Boy, D. e Mayer, N. (a cura di), L’électeur a ses raisons, Presses de Science Po, Paris. Navarro, M. e Mateo, M. J. (1993), Informe juventud en España, Ministerio de Asuntos Sociales, Instituto de la Juventud, Madrid. Nevola, G. (1997), “Appartenenza nazionale, socializzazione politica e scuola” in Cartocci, R. e Parisi, A. (a cura di). Newton, K. (1997), “Social Capital and Democracy” in American Behavioral Scientist, 40. OECD (1996), Education at a Glance. OECD Indicators, OECD, Paris. — (1997), Education Policy Analysis, OECD, Paris. — (1998), Employment Outlook June 1998, OECD, Paris. Oppo, A. (a cura di) (1980), La socializzazione politica, Il Mulino, Bologna. — (1990), “Socializzazione politica” in Bobbio, N., Matteucci, N., Pasquino, G. (a cura di), Dizionario di politica, Utet, Torino. Orizo, F. A. (1991), Los nuevos valores de los españoles, S. M., Madrid. — (1994a), Value Change in Southern Europe 1980-1990, Social Science Research Council, London. — (1994b), Los valores de libertad en España in Díez Nicolás, J. e Inglehart, R. (a cura di). — (1996), Sistemas de valores en la España de los 90, CIS-Siglo XXI, Madrid. Ortega y Gasset, J. (1966), “El tema de nuestro tiempo” in Obras Completas, III, Revista de Occidente, Madrid (trad. it. Il tema del nostro tempo, a cura di S. Solmi, Rosa e Ballo, Milano, 1947). Ortega, F. (1995), “Le generazioni e il corso della vita” in Bettin Lattes, G. (a cura di). 612 — (1999), “I giovani non sono (tutto) quel che sembrano. Sul cambiamento culturale della gioventù spagnola” in Bettin Lattes, G. (a cura di). Ortega, F. et alii (1993), La flotante identidad sexual, Universidad Complutense de Madrid, Madrid. Ortega, F. e Humanes, Mª.L. (2000), Algo más que periodistas. Sociología de una profesión, Ariel, Barcelona. Paci, M. (1973), Mercato del lavoro e classi sociali in Italia, Il Mulino, Bologna. Parole Chiave (1998), numero monografico dedicato alle “Generazioni” (con saggi di Cavalli, A. e Ciucci, R.), 16. Parsons, T. (1975), Sistema politico e struttura sociale, Giuffré, Milano. Pearlin, L. I. (1971), Class Context and Family Relations: A CrossNational Study, Little, Brown and Co, Boston. Percheron, A. (1985), “Le domestique et le politique. Types de famille, modèles d’éducation et trasmission des systèmes de normes et d’attitudes entre parents et enfants” in Revue Française de Science Politique, 35 (5), pp. 840-891. — 1989, “Peut-on encore parler d’héritage politique en 1989?” in Meny, Y. (a cura di), Idéologies, partis politiques et groupes sociaux, Presses de Science Po, Paris. — (1993), La socialisation politique, Armand Colin, Paris. Perrineau, P. (1997), “Le premier tout des élections législatives de 1997” in Revue Française de Science Politique, 47. — (1998), “La logique des clivages politiques” in Rosanvallon, P. (a cura di), France: les révolutions invisibles, Calmann Lévy, Paris. Piccone Stella, S. (1997), “I giovani in famiglia” in Barbagli, M. e Saraceno, C. (a cura di), Lo stato delle famiglie in Italia, Il Mulino, Bologna. Pisati, M. (2000), La mobilità sociale, Il Mulino, Bologna. Pisati, M. e Schizzerotto, A. (1999), “Pochi promossi, nessun bocciato. La mobilità di carriera in Italia in prospettiva comparata e longitudinale” in Stato e mercato, 56. Pizzorno, A. (1966), “Introduzione allo studio della partecipazione politica” in Quaderni di Sociologia, n. 3-4. 613 — (1971 [1966]), “Squilibri (o incongruenze) di status e partecipazione politica” in Carbonaro, A. (a cura di), Stratificazione e classi sociali, Il Mulino, Bologna. — (1993), Le radici della politica assoluta, Feltrinelli, Milano. — (1995), “Caro Bobbio, ecco dove sbagli” in La Repubblica, 7 febbraio. Porro, N. (1995), Identità, nazione, cittadinanza. Sport, società e sistema politico nell’Italia contemporanea, Seam, Roma. Prandini, R. (1997), “Forza e debolezza delle reti primarie” in Donati, P. e Colozzi, I. (a cura di). Pugliese, E. (1993), Sociologia della disoccupazione, Il Mulino, Bologna. Pugliese, E. e Rebeggiani, E. (1997), Occupazione e disoccupazione in Italia, Edizioni Lavoro, Roma. Putnam, R.D. (1993), “The prosperous community: Social capital and public life” in The American Prospect, 13. Quaderni di sociologia, (1969), fascicolo speciale dedicato ai “Movimenti politici degli studenti” (con saggi di G. Germani, A. Touraine, S.M. Lipset, A.H. Barton, T. Burns, A. Matejovski, E.K. Scheuch, U. Kadritzke, T. Fuse), 1-2. Recchi, E. (1997), Giovani politici, Cedam, Padova. — (1998), “Planning Work-Life Entry: Determinants of Occupational Expectations among University Students in Italy”, paper presentato al XIV Congresso Mondiale di Sociologia (Research Committee 28), Montreal. — (1999), “Il rischio disoccupazione e i valori politici degli studenti universitari italiani” in Bettin Lattes, G. (a cura di). — (2000), Il senso di appartenenza all’Europa e l’identità territoriale dei giovani in Italia e in Francia, Facoltà di Scienze politiche “Cesare Alfieri”, Università di Firenze, mimeo. Rees, A. e Gray, W. (1982), “Family Effects in Youth Employment” in Freeman, R. B. e Wise, D. A. (a cura di), The Youth Labor Market Problem: Its Nature, Causes, and Consequences, University of Chicago Press, Chicago. Reissman, L. (1953), “Levels of Aspiration and Social Class” in American Sociological Review, 18. 614 Requena Santos, F. (1994), Amigos y redes sociales. Elementos para una sociología de la amistad, Siglo XXI, Madrid. Reyneri, E. (1996), Sociologia del mercato del lavoro, Il Mulino, Bologna. — (1997), Occupati e disoccupati in Italia, Il Mulino, Bologna. Ricolfi, L. (1984), “Associazionismo e politica” in Cavalli, A. e de Lillo, A. (a cura di), Giovani oggi, Il Mulino, Bologna. Ricolfi, L. e Sciolla, L. (1980), Senza padri né maestri, De Donato, Bari. Rintala, M. (1968), “Political Generations” in International Encyclopedia of Social Sciences, vol.6. Rodano, G. (1998), La disoccupazione, Laterza, Roma-Bari. Rossi, G. (1997), “Quando i giovani restano a lungo nella famiglia di origine: il caso italiano” in Scabini, E. e Rossi, G. (a cura di). Rovati, G. (2000), “L’incerta scelta. Autocollocazione politica e intenzioni di voto” in Gubert, R. (a cura di), La via italiana alla postmodernità, Angeli, Milano. Rusconi, G.E. (1996), “La cittadinanza europea non crea il popolo europeo” in Il Mulino, 5. Santambrogio, A. (1996), “Da identità senza politiche a politiche senza identità. Le rappresentazioni sociali di destra e di sinistra nel PDS” in Studi Perugini, 1. — (1997), “Destra e sinistra: due dialetti della stessa lingua” in Campi, A. e Santambrogio, A. (a cura di), Destra/Sinistra. Storia e fenomenologia di una dicotomia politica, Antonio Pellicani Editore, Roma. — (1999), “Rappresentazioni sociali e cultura politica” in Bettin Lattes, G. (a cura di). Sarchielli, G. (1995), “Approcci psicologici allo studio della disoccupazione” in Sociologia del lavoro, 59-60. Sarchielli, G., Depolo, M., Fraccaroli, F., Colasanto, M. (1991), Senza lavoro, Il Mulino, Bologna. Sartori, G. (1982), Teoria dei partiti e caso italiano, SugarCo, Milano. Scabini, E. e Rossi, G. (a cura di) (1997), Giovani in famiglia tra autonomia e nuove dipendenze, Vita e pensiero, Milano. 615 Schelsky, H. (1954), Die skeptische Generation, Diedirichs Verlag, Eugen. Schizzerotto, A. (1997), “Perché in Italia ci sono pochi diplomati e pochi laureati? Vincoli strutturali e decisioni razionali degli attori come cause della contenuta espansione della scolarità superiore” in Polis, 11. Schizzerotto, A e Cobalti A., “Occupational Returns to Education in Contemporary Italy” in Shavit, Y., Müller, W., From School to Work, Oxford, Clarendon Press, 1998. Schnapper, D. (1997), Contre la fin du travail, Textuel, Paris. — (1994), L’épreuve du chômage, Gallimard, Paris. Schulteis F., (1990) “Comme par raison - comparaison n’est pas toujours raison. Pour une critique sociologique de l’usage social de la comparaison interculturelle” in Document de travail. Schweisguth, E. (1995), “La montée des valeurs individualistes” in Futuribles, 200. Sciolla, L. (1981), “Fermare il tempo. Osservazioni su cultura giovanile e identità” in Inchiesta, 54. — (1982), “Un’ipotesi di lettura della condizione giovanile” in Problemi della transizione, 10. — (1990), “Identità e mutamento culturale nell’Italia di oggi” in Cesareo, V. (a cura di), La cultura dell’Italia contemporanea, Fondazione Agnelli, Torino. — (1993), “Identità e trasmissione dei valori: un problema di generazioni” in Ansaloni, S. e Borsari, M. (a cura di), Adolescenti in gruppo. Costruzione dell’identità e trasmissione dei valori, Angeli, Milano. — (1997), Italiani. Stereotipi di casa nostra, Il Mulino, Bologna. — (1999), “Come si può costruire un cittadino” in Il Mulino, luglio-agosto. — (2000), “Coesione sociale, cultura civica, società complesse” in Il Mulino, gennaio-febbraio. Sciolla, L. e Negri, N. (1996), “L’isolamento dello spirito civico” in Negri, N. e Sciolla, L. (a cura di), Il paese dei paradossi. Le basi sociali della politica in Italia, NIS, Roma. 616 Sciolla, L. e Ricolfi, L. (1989), Vent’anni dopo. Saggio su una generazione senza ricordi, il Mulino, Bologna. Segatti, P. (1991), “108 facoltà occupate fanno un movimento? Le proteste studentesche contro la riforma universitaria” in Leonardi, R. e Anderlini, R. (a cura di), La politica in Italia. I fatti e le interpretazioni dell’anno. Edizione 1991, Il Mulino, Bologna. — (1997), “Gli orientamenti dei giovani in Italia e in Europa” in Cartocci, R. e Parisi, A. M. L. (a cura di), Difesa della patria e interesse nazionale nella scuola, Angeli, Milano. — (1999), “Quale idea di nazione hanno gli italiani? Alcune riflessioni sull’idea italiana di nazione in una prospettiva comparata” in Bettin Lattes, G. (a cura di). Sen, A. (1997), “The Penalties of Unemployment” in Temi di discussione del Servizio Studi, 307, Banca d’Italia, Roma. Shavit, Y. e Müller, W. (1998) (a cura di), From School to Work: A Comparative Study of Educational Qualifications and Occupational Destinations, Clarendon, Oxford. Shavit, Y. e Westerbeek, K. (1998), “Educational Stratification in Italy. Reforms, Expansion, and Equality of Opportunity” in European Sociological Review, 14. Shils, E. (1975), Center and Periphery. Essays in Macrosociology, University of Chicago Press, Chicago. Shu, X. e Marini, M. M. (1998), “Gender-Related Change in Occupational Aspirations” in Sociology of Education, 71. Simmel, G. (1975), “Come si conservano le forme sociali” in Mongardini, C. (a cura di), Il conflitto della cultura moderna, Bulzoni, Roma — (1982 [1890]), La differenziazione sociale, Laterza, Roma-Bari. — (1989 [1908]), Sociologia, Comunità, Milano. Sineau, M. (1997), “Quel pouvoir politique pour les femmes? Etat des lieux et comparaisons européennes” in Gaspard, F. (a cura di), Les femmes dans la prise de décision en France et en Europe, L’Harmattan, Paris. Sirinelli, F. (1989), “Histoire et générations politique” in Vingtieme Siecle, 9. 617 Sniderman, P., Tetlock, P., Brody, R. (1993), Reasoning and Choice, Explorations in Political Psychology, Cambridge University Press, Cambridge. Spreafico, A. (2000), Appartenere alla comunità. L’appartenenza socio-territoriale tra teoria e ricerca, Facoltà di Scienze politiche “Cesare Alfieri”, Università di Firenze, mimeo. Statera, G. (1973), Storia di un’utopia, Rizzoli, Milano. Statera, G. e Cannavò, L. (1975), Laurea e occupazione. Una ricerca sul destino sociale dei laureati dell’Università di Roma, Bulzoni, Roma. Stokes, B. e Di Iulio, G. (1993), “The Setting: Valence Politics in Modern Elections” in Nelson, M. (a cura di), The Election of 1992, Woodrow Wilson Center Press,Washington. Taguieff, P. A. (1991), Face au racisme, La Decouverte, Paris. Tarchi, M. (1994), “Destra e sinistra: due essenze introvabili” in Democrazia e diritto, 1. Taviani, E. e Vedovati, C. (1991), “L’università degli studenti” in Democrazia e diritto, 3. Taylor, C. (1992), Multiculturalism and “the Politics of Recognition”, Princeton University Press, Princeton. Tezanos, F.J. (1989), Modernización y cambio social en España in Tezanos, J.F. Cortarelo, R., De Blas, A. (a cura di), La transición democrática española, Editorial Sistema, Madrid. Therborn, G. (1986), Why Some Peoples Are More Unemployed than Others, Verso, London. Toharia, J.J. (1989), Los jóvenes españoles y la política in Blasco, G. e Orizo, F., Jóvenes españoles ‘89, S.M., Madrid. Tomasi, L. (a cura di) (1998), La cultura dei giovani europei alle soglie del 2000, Angeli, Milano. Topf, R. (1995), “Electoral participation” in Fuchs, D. e Klingeman, H.D. (a cura di), Citizens and the State, Oxford University Press, Oxford. Torcal Loriente, M. (1989), “La dimension materialista/postmaterialista en España: las variabiles del cambio cultural” in Revista Española de Investigaciones Sociológicas, 47. 618 Touraine, A. (1969), “Ce n’est qu’un dèbut” in Quaderni di sociologia, 18. — (1999), Comment sortir du liberalisme?, Fayard, Paris. Tournier, V. (1997), “Ecole publique, école privée, le clivage oublié” in Révue Française de Siences Politique, 47 (5), pp. 560-588. Trigilia, C. (1994), “Nord e Sud: se il Belpaese si spezza” in Limes, 4. Tussel, J., Lamo de Espinosa, E., Pardo, R. (a cura di) (1996), Entre dos siglos. Reflexiones sobra la democracia española, Alianza, Madrid. Vallespín, F. (2000), El futuro de la política, Taurus, Madrid. Van Deth, J. e Scarbrough, E. (a cura di) (1995), The Impact of Values, Oxford University Press, Oxford. Vandenberghe, F. (1999), “Globalizzazione e individualizzazione nella tarda modernità” in Bettin Lattes, G. (a cura di). Verret, M. (1968), “Après Les Héritiers. Problèmes de sociologie de l’éducation” in La Pensée, 139. Volino, A. (1997), “Appendice statistico-metodologica” in Buzzi, C., Cavalli, A., de Lillo, A. (a cura di), Giovani verso il Duemila, Il Mulino, Bologna. Zadawski, D. e Lazarsfeld, P. F. (1935), “The Psychological Consequences of Unemployment” in Journal of Social Psychology, 6. Zárraga, J.L., (1985), Informe juventud en España. La inserción de los jóvenes en la sociedad, Instituto de la Juventud, Madrid. Zurla, P. (1995), Giovani alla ricerca della società, Angeli, Milano. 619 620 NOTIZIE SUGLI AUTORI ANTONIO ALAMINOS è Profesor catedratico de Sociologia presso la Facultad de Ciencias Economicas y Empresariales dell’Università di Alicante. GIANFRANCO BETTIN LATTES è Professore ordinario di Sociologia presso la Facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” dell’Università di Firenze e Direttore del Centro Interuniversitario di Sociologia Politica. MARCO BONTEMPI è Ricercatore di Sociologia e insegna Sociologia presso la Facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” dell’Università di Firenze. MARLAINE CACOUAULT è Maître de Conférences presso la Faculté des Sciences Humaines et Sociales Sorbonne dell’Université René Descartes-Paris V a Parigi. ENRICO CANIGLIA è Dottore di ricerca in Sociologia politica e svolge attività di ricerca come Assegnista presso il Centro Interuniversitario di Sociologia Politica dell’Università di Firenze. GIORGIO MARSIGLIA è Professore associato di Sociologia presso la Facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” dell’Università di Firenze. ANNE MUXEL è Ricercatrice presso il Centre d’étude de la vie politique française della Fondation Nazionale des Sciences Politiques di Parigi. 621 FÉLIX ORTEGA è Profesor de Sociologia presso la Facultad de Ciencias de la Informaciòn dell’Università Complutense di Madrid. CLEMENTE PENALVA è Profesor Ayudante de Escuela e docente di Ciencia Politica I presso la Facultad de Ciencias Economicas y Empresariales dell’Università di Alicante. ETTORE RECCHI è Ricercatore confermato di Sociologia e insegna Sociologia dell’organizzazione presso la Facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” dell’Università di Firenze. PAOLA TRONU è Dottore di ricerca in Sociologia politica; svolge attività di ricerca presso il Centro interuniversitario di Sociologia Politica dell’Università di Firenze. E’, inoltre, funzionario responsabile dell’Osservatorio Elettorale presso l’Ufficio di Statistica della Regione Toscana. 622 Finito di stampare nel mese di gennaio 2001 dalla Tipolitografia Pegaso - Firenze 623 624