L’errore di Leopardi
Paolo Maccallini
Giugno 2023
Giacomo Leopardi è noto soprattutto per il giardino di endecasillabi e settenari coltivato nella
cornice dei primi otto lustri dell’Ottocento, l’orizzonte temporale del suo arco. Ma l’eco di
quella vita, l’orma impressa dalla stampa, popola di guardie monolitiche le nostre librerie anche
con una fitta prosa di trattati, tra cui una precoce ed enciclopedica Storia dell’Astronomia, di
epistole, di filologia, di filosofia morale e di riflessioni tra scienze umane e naturali, ovvero i
Pensieri, le Operette Morali, e le quattromila e più pagine di Zibaldone in cui tutto si embrica
in un labirinto del sapere; senza contare l’affastellarsi di parole moderne da lui donate alle
fatiche di Omero e di Virgilio, traducendo, entro la maggiore età, il libro primo dell’Odissea e
il secondo dell’Eneide.
I Pensieri furono redatti tra il 1831 e il 1835, per lo più a Napoli, sotto le premure di Paolina,
sorella acquisita per la proprietà transitiva dell’affetto; in maggior parte sintesi delle scintille
di etologia umana dello Zibaldone. Ma mai conclusi davvero dal poeta, furono finiti dalla sua
fine, e poi fatti conoscere da una stampa postuma per i tipi di Le Monnier e per la volontà di
Ranieri, nel 1845. Un catalogo di centoundici appunti di viaggio sui primati bipedi, ironici e
amari, misogini e disincantati. Machiavellismo sociale, secondo una definizione dell’autore.
Nel ventesimo pensiero Leopardi ventila la possibilità di speculare, nel mondo parallelo dei
paradossi, sulla pandemica diffusione del vizio degli uomini di scrivere e di voler leggere i
propri ingegni letterari agli amici; propone che si istituisca “una scuola o accademia ovvero
ateneo di ascoltazione; dove, a qualunque ora del giorno e della notte, essi, o persone stipendiate
da loro, ascolteranno chi vorrà leggere a prezzi determinati: che saranno per la prosa, la prima
ora, uno scudo, la seconda due, la terza quattro, la quarta otto, e così crescendo con progressione
aritmetica. Per la poesia il doppio.”
E’ prezioso qui il riferimento alla progressione aritmetica, ma è sbagliato. Infatti, una
successione di termini 𝑎1 , 𝑎2 , …. si chiama progressione aritmetica quando, comunque si scelga
𝑛 > 2, si ha:
𝑎𝑛 − 𝑎𝑛−1 = 𝑟𝑎
dove 𝑟𝑎 assume il nome di ragione aritmetica. Altresì, una successione si dice geometrica
quando
𝑎𝑛
= 𝑟𝑔
𝑎𝑛−1
In questo caso si parla per 𝑟𝑔 di ragione geometrica. E dunque la menzionata successione di
esborsi con cui tassare gli autori molesti è una progressione geometrica, non aritmetica.
Può tuttavia sorgere il dubbio che in passato le due successioni rispondessero ad altri nomi. A
tal proposito, abbiamo conoscenza dei manuali di matematica presenti nella celebrata libreria
del conte Monaldo Leopardi, padre di Giacomo; tra essi gli Elementi di Matematica di Vito
Caravelli (1770) [1]. E andando a recuperare il testo, scopriamo che le definizioni di
progressione aritmetica e geometrica si trovano nei capitoli III (pagina 253) e IV (pagina 258),
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rispettivamente, di suddetto libro. Le due pagine menzionate sono riportate in figura e, come si
può leggere, le definizioni date coincidono con quelle oggi in uso. Si noti tra l’altro che
l’esempio di progressione geometrica crescente portato da Caravelli coincide con la
successione usata da Leopardi nel suo testo, nutrendo almeno la suggestione che in effetti
l’autore ricordasse proprio questa fonte.
Mi sono chiesto allora, proprio principiando dalla pagina dei Pensieri, quale fosse il rapporto
di Leopardi con la matematica e ho interrogato per questo lo Zibaldone. Se si naviga il testo
con la chiave “progressione” ci si imbatte in un riferimento del 1821 alla progressione
geometrica. Ci troviamo a pagina 1924 del testo autografo:
L’andamento, o il così detto perfezionamento dello spirito umano rassomiglia interamente
alla progressione geometrica che dal menomo termine, con proporzione crescente arriva
all’infinito.
E alcune righe sotto, ad inizio della pagina seguente, in una variante per lo più tautologica e
permutativa, leggiamo:
E non è dubbio che quella che si chiama perfettibilità dell’uomo è suscettibile di aumento
in infinito come la progressione geometrica, e di un aumento sempre proporzionalmente
maggiore.
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Mi sembra che anche mettendo insieme le due proposizioni, non si pervenga con sicurezza a
una definizione della progressione geometrica, come se l’autore non avesse in mente un
riferimento puntuale ad essa ma ne usasse il nome per il suo valore evocativo.
Se si interroga lo Zibaldone con la parola “matematica”, si trova, a pagina 46 del manoscritto
autografo, il seguente sillogismo, mutilato della conclusione:
La grazia non può venire altro che dalla natura, e la natura non istà mai secondo il
compasso della gramatica della geometria dell’analisi della matematica ec.
Siamo tra il 1818 e il 1820 e il giovane Leopardi sembra affermare che la natura non può essere
descritta dalla matematica, una delle due premesse, e che la grazia non può attingere alla
matematica, conclusione questa che potrei però avere frainteso. La premessa menzionata è
ribadita altrove, già solo fermandosi alle prime seicento pagine del testo. A pagina 583, siamo
nel 1821, si legge:
E dovunque ha luogo la perfezione matematica, ha luogo una vera imperfezione (quando
anche questa rimedii ad altri più gravi inconvenienti e corruzioni), cioè discordanza dalla
natura, e dall’ordine primitivo delle cose, il quale era combinato in altro modo, e fuor del
quale non v’è perfezione, benchè questa non sia mai assoluta, ma relativa.
A cavallo tra le pagine 584 e 585, Leopardi ribadisce:
Questa pure è una gran fonte di errori ne’ filosofi, massime moderni, i quali assuefatti
all’esattezza e precisione matematica, tanto usuale e di moda oggidì, considerano e
misurano la natura con queste norme, credono che il sistema della natura debba
corrispondere a questi principii; e non credono naturale quello che non è preciso e
matematicamente esatto: quando anzi per lo contrario, si può dir tutto il preciso non è
naturale: certo è un gran carattere del naturale il non esser preciso.
Sembra certo allora che Leopardi sia convinto che la matematica non sia lo strumento adatto a
descrivere la natura, posizione che lo vede solitario, consapevole di esserlo. E non sembrano
esserci dubbi sulla accezione da selezionare per “natura”, perché proprio il poeta ce l’ha
presentata questa accezione, letteralmente, nella sua letteratura: ha dialogato con essa, travestito
da islandese, da qualche parte, in Africa, vicino l’equatore.
E dunque, se non ho frainteso tutto, Leopardi tradisce Galileo e Newton, di cui tuttavia
menziona correttamente – sebbene in modo qualitativo – i risultati già nella citata storia
dell’astronomia, scritta a quindici anni; quel monumento di oltre 400 pagine popolate da
citazioni in varie lingue, sia parlate che seppellite, e scoperte che partendo dagli astronomi
Caldei, arrivano all’anno 1813. Il ragazzo che fu menzionava diligentemente la legge di caduta
dei gravi, a velocità linearmente crescente con il tempo, le leggi di Keplero, alcuni dei risultati
di Newton. Ma è come se non avesse inteso la lezione principale del diciassettesimo secolo,
quella che denuncia tutta l’opera, non solo dei due grandi, ma di Torricelli, Cavalieri, Stevin,
Pascal, e altri, e che trova l’enunciato più esplicito e noto nel Galileo del Saggiatore, che dice:
La filosofia naturale è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto
innanzi agli occhi, io dico l’universo, ma non si può intendere se prima non s’impara a
intender la lingua e conoscer i caratteri nei quali è scritto. Egli è scritto in lingua
matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali
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mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi
vanamente per un oscuro labirinto.
Senza contare che Leopardi nasce dopo tutta la vita di Eulero, è contemporaneo di Fourier e di
Gauss, è di sessant’anni più giovane di Lagrange. Ovvero vive l’epopea del calcolo
differenziale come impareggiabile chiave di decifrazione di ogni aspetto della natura, e sembra
non accorgersene.
Resta il punto sulla grazia e la matematica. A cavallo tra pagina 247 e 248, nel 1820, l’autore
scrive:
Perciò la matematica la quale misura quando il piacer nostro non vuol misura, definisce
e circoscrive quando il piacer nostro non vuol confini (sieno pure vastissimi, anzi sia pur
vinta l’immaginazione dalla verità), analizza, quando il piacer nostro non vuole analisi nè
cognizione intima ed esatta della cosa piacevole (quando anche questa cognizione non
riveli nessun difetto nella cosa, anzi ce la faccia giudicare più perfetta di quello che
credevamo, come accade nell’esame delle opere di genio, che scoprendo tutte le bellezze,
le fa sparire), la matematica, dico, dev’esser necessariamente l’opposto del piacere.
La matematica dunque è contraria al piacere e sottrae la bellezza a ciò che è bello. Una
posizione questa difficilmente condivisibile, quanto largamente condivisa; per restare negli
stessi anni, ma cambiando lato dello iato oceanico, Edgar Allan Poe si esprimeva in modo
analogo nei confronti della scienza [2]:
Science! true daugther of Old Time thou art!
Who alterest all things with thy peering eyes.
Why preyest thou upon the poet’s heart,
Vulture, whose wings are dull realities?
Ma volendo anche in questo caso risolvere la questione con parole altrui, interpello Godfred
Harold Hardy [3]:
The mathematician’s patterns, like the painter’s or the poet’s, must be beautiful; the ideas,
like the colours or the words, must fit together in a harmonious way. Beauty is the first
test: there is no permanent place in the world for ugly mathematics.
E inoltre:
It would be difficult now to find an educated man quite insensitive to the aesthetic appeal
of mathematics.
Cosa si trova se si invoca ancora lo Zibaldone in nome di Galileo? C’è una osservazione di
pagina 2013 (autunno del 1821), fra le altre, che lo menziona in rapporto a quanto espresso
sulla matematica:
Torno a dire che la precisione moderna ch’è estrema, e che in tali scritti e generi è di
prima necessità, e che oggi si ricerca sopra tutte le qualità ec. è assolutamente di sua
natura incompatibile colla eleganza: ed infatti il nostro secolo che è quello della
precisione, non è certo quello della eleganza in nessun genere. Bensì ell’è
compatibilissima colla purità, come si può vedere in Galileo, che dovunque è preciso e
matematico quivi non è mai elegante, ma sempre purissimo italiano.
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Cioè Leopardi afferma che dove Galileo usa un linguaggio matematico non può essere elegante,
coerentemente con quanto enunciato sulla matematica. Perché per Leopardi, come sappiamo,
l’eleganza è appannaggio dell’indefinito:
Se attentamente riguarderemo in che soglia consistere l’eleganza delle parole, dei modi,
delle forme, dello stile, vedremo quanto sovente anzi sempre ella consista
nell’indeterminato, (v. in tal proposito quello che altrove ho detto circa un passo di
Orazio) v. p.1337. principio o in qualcosa d’irregolare, cioè nelle qualità contrarie a quelle
che principalmente si ricercano nello scrivere didascalico o dottrinale. Non nego io già
che questo non sia pur suscettibile di eleganza, massime in quelle parti dove l’eleganza
non fa danno alla precisione, vale a dire massimamente nei modi e nelle forme. E di questa
associazione della precisione coll’eleganza, è splendido esempio lo stile di Celso, e fra’
nostri, di Galileo.
Quindi, nonostante la tensione verso la precisione che inaridisce, Leopardi non riesce a negare
di ammirare la prosa di Galileo. E Galilei, tra le osservazioni sperimentali e le argomentazioni
geometriche che hanno cambiato il mondo e fatto tremare gli dèi, ha effettivamente seminato
dei paragrafi che rappresentano forse la migliore letteratura italiana [4]:
Né sia chi creda che la lettura de gli altissimi concetti, che sono scritti in quelle carte,
finisca nel solo vedere lo splendore del Sole e delle stelle e ‘l lor nascere ed ascondersi,
che è il termine sin dove penetrano gli occhi dei bruti e del vulgo; ma vi son dentro misteri
tanto profondi e concetti tanto sublimi, che le vigilie, le fatiche e gli studi di cento e cento
acutissimi ingegni non gli hanno ancora interamente penetrati con l’investigazione
continuate per migliaia e migliaia d’anni. E credino pure gli idioti che, sì come quello che
gli occhi loro comprendono nel riguardo l’aspetto esterno d’un corpo umano è
piccolissima cosa in comparazione de gli ammirandi artifizi che in esso ritrova un
esquisito e diligentissimo anatomista e filosofo, mentre va investigando l’uso di tanti
muscoli, tendini, nervi ed ossi, essaminando gli offizi del cuore e de gli altri membri
principali, ricercando le sedi delle facoltà vitali, osservando le meravigliose strutture de
gli strumenti de’ sensi, e, senza finir mai di stupirsi e di appagarsi, contemplando i ricetti
dell’immaginazione, della memoria e del discorso; così quello che ‘l puro senso della
vista rappresenta, è come nulla in proporzion dell’alte meraviglie che, mercè le lunghe ed
accurate osservazioni, l’ingegno degli intelligenti scorge nel cielo.
Una possibile conclusione di questa breve esplorazione è che Leopardi sia stato vittima di una
educazione incompleta; incredibilmente, vista la dimensione borgesiana della biblioteca
paterna, che includeva anche le opere originali di Galileo e Newton. E’ stato in effetti suggerito
che il recanatese non conobbe mai i logaritmi, introdotti già da quasi duecento anni, e non
avesse studiato né la geometria analitica di Descartes, né il calcolo differenziale, che pure era
vecchio di almeno un secolo alla sua nascita [1]. Può darsi che il poeta abbia ereditato un
peccato paterno: se si confronta il piano di studi dell’educazione domestica matematica di
Leopardi con il tipo di istruzione impartita nelle università spagnole del diciottesimo secolo, si
trova una sovrapponibilità [1], [5]. Se chiedo al lettore il nome di un matematico spagnolo
dell’epoca di Galilei e dei due secoli successivi, cosa mi dice? Esatto! Il calcolo differenziale
arrivò in Spagna, in una forma didattica e non investigativa, solo dopo la cacciata dell’ordine
dei Gesuiti (1767), con il ricambio del corpo docente. Fino ad allora, la matematica rimase
cristallizzata nelle formule algebriche e nei teoremi di Euclide, umiliate spesso dalle semplici
applicazioni finanziarie, di agronomia, e militari. E dopo progredì solo come un corpo minato
da una grave malattia [5]. E dove apprese Monaldo la sua scienza? Il suo precettore fu un
Giuseppe Torres, gesuita approdato in Italia dal rifiuto spagnolo del suo ordine. E’ possibile
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che la nuova matematica fosse troppo indissolubilmente legata alla nuova fisica, per questo
condannata ad essere rifiutata con essa dai monopolisti gesuiti del sapere. Con il risultato che
la storia della matematica moderna sarebbe forse la stessa se la Spagna non fosse mai esistita.
L’errore di Leopardi non sarebbe dunque quello della confusione tra la progressione aritmetica
e quella geometrica, che non ha nessuna importanza, ma quello di essersi fermato sulla soglia
di un mondo che forse avrebbe potuto soddisfare il suo anelito alla bellezza e alla felicità. Si
affrancò dal sistema tolemaico, ma non dalla ignoranza che lo sottendeva. E ora che scrivo,
aggiungendo una pagina al mio modesto Zibaldone, e me lo figuro ragazzo nelle ore dilatate
dalla giovinezza, in quella dimora privilegiata che gli fu così angusta, mi piace immaginarlo
distratto, su quella soglia, dal fascino opalino della Luna, o dal fruscio delle vesti di una Nerina
di cui è stato da tempo dimenticato il nome.
Riferimenti
[1] M.T. Borgato, L. Pepe, Leopardi e le Scienze Matematiche, 1998
[2] E.A. Poe, Sonnet – To Science, vv 1-4, scritto e rimaneggiato tra il 1829 e il 1845
[3] G.H. Hardy, A Mathematician’s Apology, 1940
[4] G. Galilei, Lettera a Cristina di Lorena, 1615
[5] C. López-Esteban, A. Maz-Machado, Las matemáticas en España durante el siglo XVIII a
través de los libros y sus autores, 2020
Il testo completo dei Pensieri si può consultare qui. Una edizione di questa opera con i
commenti di Paolo Emilio Castagnola è disponibile qui. La edizione del 1770 degli Elementi
di Matematica di Vito Caravelli è disponibile qui. Una copia completa dello Zibaldone può
essere scaricata in pdf qui. Nel film su Leopardi di Mario Martone del 2014, Il giovane favoloso,
la sezione del pensiero XX qui discussa è messa in bocca allo stesso poeta, durante una cena
romana, presso dei parenti, e la menzione alla progressione aritmetica è stata eliminata,
probabilmente perché ci si è resi conto della svista del poeta, e non potendo modificare le sue
parole, le si è tagliate.
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