DOSSIER
Alessandra Scotti, Filosofare alla fine dei tempi
ALESSANDRA SCOTTI
FILOSOFARE ALLA
RIFLESSIONI
1. Intro
FINE DEI TEMPI.
AGAMBENIANE
2. Apocalissi e tempo messianico: ho nyn kairós 3. Chronos e kairós
4. Sperren 5. Lettera/Spirito 6. Cosa (non) fare?
ABSTRACT: This work focuses on the
apocalyptic nature of Giorgio
Agamben's philosophical works.
The dialogue with Agamben is full
of references to St. Paul's
letters, Kafka's literary works
and Benjamin's messianism. This
work tries to define the criteria
of
the
kairological
time,
considered as a section of the
chronological
time
which
deactivates
the
discretionary
mechanism, along the same lines
as St. Paul's lessons, which
reformulate
the
distinction
between Jews / non‐Jews. In this
diacritic
strategy
lies
the
secret of any future philosophy,
that is profanation, meant as the
abolition of any sacred limit and
the return to a human use.
1. Intro
Sovente
la
filosofia
di Agamben sʼinterroga
sul
lascito
che
la
storia della filosofia
ha tramandato a quella
odierna
direzione
e
in
che
guardi
la
filosofia futura, su quale sia il suo compito. Ne Lʼimmanenza
assoluta, comparso su «Aut Aut»1 nel 1996, Agamben nota che gli
ultimi testi pubblicati da Foucault e Deleuze prima di morire
hanno come loro fulcro il concetto di vita. Lungi dal costituire
una banale coincidenza seppure testamentaria, dal momento che
1
Cfr. G. Agamben, Lʼimmanenza assoluta, in «Aut‐Aut», 276, 1996, pp. 39‐57.
92
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entrambi i testi hanno qualcosa dellʼordine di un testamento, o un
segno dellʼintima affinità tra i due filosofi, essa rappresenta
per
Agamben
«il
lascito
che
concerne
inequivocabilmente
la
2
filosofia che viene» . Essa, se vorrà raccoglierlo, dovrà guardare
nella direzione verso cui il gesto ultimo dei filosofi indicava.
La filosofia alla fine dei tempi deve allora confrontarsi con ciò
che ha costituito per secoli il rimosso e il perturbante della
tradizione filosofica: la dimensione del vivente, il bìos, la nuda
vita. Si tratta di tematiche che Agamben non abbandona mai e
attraversano
tutto
lʼarco
della
sua
produzione
filosofica,
declinate soprattutto nelle loro interazioni col diritto, nelle
forme di bio‐diritto quale esercizio di potere sulla vita stessa.
Tuttavia la filosofia impiega un tempo a finire, e il messianico
costituisce il typos di un pensiero crepuscolare allʼinizio della
fine. Parafrasando Manganelli possiamo affermare che la filosofia
è già finita e noi non ce ne accorgiamo, perché questa stessa fine
«genera una sorta di tempo, in cui dimoriamo, che ce ne preclude
lʼesperienza»3. Dichiarare la fine della filosofia non vuol dire
dichiararne la resa, ma riconoscere che un certo tipo di esercizio
filosofico, unicamente centrato su se stesso quasi masturbatorio,
è divenuto vetusto e inservibile. Solo mediante un ripensamento di
ciò che la filosofia ha sempre negato, considerato come spurio e
privo
di
valore,
ovvero
il
corpo,
la
vita,
la
materia,
la
filosofia può augurare a se stessa un avvenire. Il confronto con
le lettere paoline e, da ultimo, le Tesi di Benjamin, quali due
testi sommi della tradizione messianica, è teso, dunque, a far
emergere la struttura temporale del tempo messianico, come tempo
dellʼattesa, disteso tra il chronos e lʼéschaton. Questo non
coincide con la fine dei tempi, né col tempo cronologico profano,
2
Id., La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Neri Pozza, Vicenza 2005,
p. 385.
3
G. Manganelli, La notte, Adelphi, Milano 1996, p. 19.
93
DOSSIER
Alessandra Scotti, Filosofare alla fine dei tempi
ma è «porzione del tempo profano»4 che lo lavora e lo trasforma
dal di dentro. La cesura fra i due tempi squarcia il chronos
introducendo un eccesso della divisione, banalmente un resto, che
è il da pensare. Se è vero che il compito politico e filosofico
delle generazioni future sarà la profanazione5 e che essa vuol
dire «aprire la possibilità di una forma speciale di negligenza,
che
ignora
la
separazione
o,
piuttosto,
ne
fa
un
uso
6
particolare» , la filosofia che verrà necessiterà di un metodo
diacritico
capace
di
rimodulare
alcuni
antichi
paradigmi
oppositivi, umano e divino, vita biologica e vita della mente,
immanenza e trascendenza, individuando quel resto, quella zona di
indiscernibilità che è nientʼaltro che ciò che resiste a ogni
separazione.
2. Apocalissi e tempo messianico: ho nyn kairós
Cosa intendere per vita messianica? Qual è la struttura del tempo
messianico? E soprattutto cosʼè che fa di Paolo un interlocutore
attuale? Sono questi gli interrogativi a cui proviamo a dare
risposta
a
partire
dalla
premessa
agambeniana
che
il
tempo
messianico si mostra quale «paradigma del tempo storico»7 offrendo
la possibilità di esperire quello che Paolo chiama ho nyn kairós,
il
«tempo
di
ora».
La
parola
messia
deriva
dal
latino
ecclesiastico messīa, che è dal greco messías e questo ancora dal
lontano ebraico māshíah, ovvero “unto”, consacrato a Dio per mezzo
dellʼunzione sacra. Il tempo messianico, che è chiaramente il
tempo
della
venuta
del
messia,
non
vale
come
tempo
dell’apocalissi. Nel commento alla lettera ai romani Agamben opera
una chiara distinzione fra tempo messianico e escatologico, tra
lʼapostolo, il profeta e lʼapocalittico. Lʼannuncio del profeta
4
G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla lettera ai romani, Bollati
Boringhieri, Torino 2000, p. 64.
5
Cfr. Id., Elogio della profanazione in Profanazioni, Nottetempo, Roma 2005,
pp. 83‐106.
6
Ibid., p. 85.
7
Id., Il tempo che resta …, cit., p. 11.
94
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riguarda sempre un tempo a venire, orientato dallʼéschaton, quello
dellʼapocalittico è sospeso a contemplare la fine dei tempi,
situandosi
nellʼultimo
dei
giorni.
Lʼapostolo,
diversamente,
8
«parla solo a partire dalla venuta del messia» , è tutto immerso
nel presente e quel che lo interessa «non è lʼultimo giorno, non è
lʼistante in cui il tempo finisce, ma il tempo che si contrae e
comincia a finire (ho kairós synestaménos estin: I Cor. 7, 29) ‐
o, se volete, il tempo che resta tra il tempo e la sua fine»9.
Lʼescatologia non è il messianismo, il tempo messianico è come una
corda tesa tra un già e un non ancora: la resurrezione da un lato,
che è lʼevento messianico katʼexochen e la parousia dallʼaltro,
ovvero la seconda venuta di Cristo alla fine dei tempi. Esso non è
esterno al tempo profano, quello che Paolo chiama chronos, ma
neanche
interno,
tantomeno
coincide
con
lʼeone
futuro,
è,
piuttosto, ciò che eccede costitutivamente i due tempi. Si tratta
di qualcosa che riusciamo a rappresentarci con molta difficoltà
che, anche se ne abbiamo esperienza, sfugge a ogni immagine.
Agamben prova a risolvere tale aporia servendosi del concetto di
“tempo operativo” che si deve al linguista Gustave Guillaume.
Guillaume nota che la tripartizione dei tempi verbali (passato,
presente, futuro) non tiene conto del tempo performativo del
pensiero, ovvero del tempo che la mente impiega per realizzare una
immagine‐tempo. A tal proposito Guillaume parla di cronogenesi che
restituisce il processo di formazione dellʼimmagine‐tempo nel suo
stato
potenziale,
in
fieri
e
compiuto.
Secondo
Agamben
il
paradigma del tempo operativo è funzionale alla spiegazione della
natura del tempo messianico: esso è il tempo che il tempo impiega
per
volgersi
Merleau‐Ponty
in
rappresentazione,
leggendo
Bergson
concetto,
affermava
segno
qualcosa,
grafico.
per
certi
versi, di simile: la durata è non coincidenza con se stessi,
creazione, eterogeneità e il mio pensiero su di essa è sempre un
8
9
Ibid., p. 62.
Ibid., p.63.
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DOSSIER
Alessandra Scotti, Filosofare alla fine dei tempi
attimo prima o un attimo dopo. La vita messianica è, allora, vita
«vissuta nel differimento»10; ecco perché, come scrive Kafka nei
suoi Quaderni in ottavo, «il messia verrà solo quando non ci sarà
più bisogno di lui, non arriverà che il giorno dopo il suo arrivo,
verrà non lʼultimo giorno, ma lʼultimissimo»11.
3. Chronos e kairós
In Che cosʼè il contemporaneo? Agamben afferma che appartiene
veramente al suo tempo «colui che non coincide perfettamente con
esso»12, ma proprio in ragione di questo scarto e differimento è
capace
più
degli
altri
di
afferrarlo
concettualmente.
Così
Nietzsche nelle sue Unzeitgemässe Betrachtungen [considerazioni
intempestive] prendeva posizione in merito a un problema vissuto
come di cocente attualità: lʼipertrofia della malattia storica.
Questa mancata coincidenza e sbavatura definisce, secondo Agamben,
la struttura temporale che lega il singolo al proprio tempo, per
cui «la contemporaneità è quella relazione col tempo che aderisce
ad esso mediante una sfasatura e un anacronismo»13. Contemporaneo
è colui che salda i due secoli, il saeculum che è il tempo della
vita,
e
quello
significa,
in
della
ultima
storia
universale.
analisi,
Essere
presentarsi
contemporanei
«puntuali
a
un
appuntamento che si può solo mancare»14; chi è stato in grado di
pensare il proprio tempo ha potuto farlo solo a patto di un
possesso a distanza, di una sostanziale discontinuità. In tal
senso nessuno è stato più contemporaneo di Paolo, il “tempo di
ora” (ho nyn kair s) è vicino ma indeterminato15 e ricapitola a sé
10
Ibid., p. 69.
F. Kafka, Lettera al padre. Gli otto quaderni in ottavo, tr. it. Mondadori,
Milano 201121, p. 84.
12
G. Agamben, Che cosʼè il contemporaneo? in Nudità, Nottetempo, Roma 2009, p.
20.
13
Ibid., p. 21.
14
Ibid., p.25.
15
Si legge nella lettera Ai Romani: «È tempo ormai di svegliarsi dal sonno.
Adesso la nostra salvezza è più vicina di quando abbiamo incominciato a
credere; la notte è progredita, il giorno si è avvicinato (13, 11‐12)», per le
lettere paoline utilizziamo lʼedizione a cura di C. Carena, Einaudi 19992.
11
96
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ogni istante, dal momento che «tutte le cose si ricapitolano nel
messia,
tanto
quelle
celesti
che
quelle
terrene
(anakephalaiósasthai ta panta en tō christō, ta epi tois ouranoís
kai ta epi tēs gēs en autó)»16. Si tratta di un celebre passo
della lettera agli efesini ricco di strascichi ermeneutici, dalla
teoria dellʼapocatastasi di Origene a quella dellʼeterno ritorno
nietzscheano, in cui Paolo afferma che nel tempo messianico si dà
una
«ricapitolazione
sommaria»17
intesa
anche
come
giudizio
sommario. Ogni istante messianico è eterno nella sua contingenza;
per restituire questo paradosso temporale Agamben ricorre a un
esempio: la fotografia. Tutto ciò che è fotografato è chiamato a
comparire nel giorno del giudizio, come nel Boulevard du Temple di
Daguerre dove lʼobiettivo fotografico si fissa sul gesto più umile
e insignificante, caricandolo del peso di unʼintera vita18. Ciò
che la fotografia, in quanto cifra dellʼapokatastasis, ripete
meccanicamente
infinite
volte
è
lʼunico,
lʼogni
volta
unico
istante nella sua più pura contingenza che è chiamato a una
ricapitolazione. Il fotografo di talento coglie tale «kair s del
desiderio»19, per usare le parole di Barthes ne La camera chiara,
la singolare natura ontologica della fotografia che è una e molte,
memoria e avvenire, come il tempo messianico. «Per questo – scrive
Agamben – la rappresentazione comune che vede il tempo messianico
come
orientato
Ricapitolazione,
unicamente
verso
anakephalaíōsis,
16
il
futuro
significa
per
è
falsa.[…]
Paolo,
al
Ibid., Prima agli Efesini, 1, 10‐11.
G. Agamben, Il tempo che resta …, cit., p. 75.
18
«Conoscete certamente il celebre dagherrotipo del Boulevard du Temple, che
viene considerato come la prima fotografia in cui compaia una figura umana. La
lastra dʼargento rappresenta il boulevard du Temple fotografato da Daguerre
dalla finestra del suo studio in unʼora di punta. Il boulevard doveva essere
stracolmo di gente e di carrozze e, tuttavia, dal momento che gli apparecchi
dellʼepoca esigevano un tempo di esposizione estremamente lungo, di tutta
questa massa in movimento non si vede assolutamente nulla. Nulla, tranne una
piccola sagoma nera sul marciapiede, in basso a sinistra nella foto. Si tratta
di un uomo che si stava facendo lucidare gli stivali ed è dunque rimasto
immobile abbastanza a lungo, con la gamba appena sollevata per poggiare il
piede sul banchetto del lustrascarpe», Id., Il giorno del giudizio, in
Profanazioni, cit., p. 26.
19
R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, tr. it. Einaudi, Torino
2003, p. 60.
17
97
DOSSIER
Alessandra Scotti, Filosofare alla fine dei tempi
contrario, che ho nyn kair s è una contrazione di passato e
presente, che, nellʼistanza decisiva, è innanzitutto col passato
che dobbiamo regolare i conti»20. Il Corpus Hippocraticum fa dono
della
più
bella
definizione
mai
data
di
cosa
sia
il
tempo
cairologico: «il chronos è ciò in cui vi è kair s e il kair s è
ciò in cui vi è poco chronos [chronos esti en ho kairós kai kairós
esti en hō ou pollos chronos]»21. Il kair s, dunque, non è un
altro tempo ma è come unʼapertura di senso nel chronos, un suo
slargamento semantico o, per usare lʼimmagine di Agamben, una sua
contrazione.
4. Sperren
Fino a qualche anno fa cʼera unʼusanza tipografica piuttosto
diffusa che consisteva nel porre in rilevanza alcuni termini
scrivendoli alternando una lettera e uno spazio bianco come se si
volesse sillabare con accorta prudenza la parola in questione. Il
cosiddetto
spazieggiato,
divenuto
ormai
desueto
e
soppiantato
dallʼimpiego del corsivo, sottolinea il vuoto, legge la parola e
il
suo
riverbero.
inaugurando
una
Lo
spazio
nuova
bianco
strategia
unisce
ciò
diacritica.
che
separa,
Nellʼincipit
folgorante della Lettera ai Romani (Paulos doulos christoú Iēsou,
klētós apóstolos aphōrisménos eis euaggélion theoú) che Agamben
analizza minuziosamente ne Il tempo che resta, compare il termine
aphōrisménos,
participio
passato
di
aphorízō,
letteralmente
“separato”, tradotto infatti da Girolamo col latino segregatus.
Perché Paolo si dice “separato”? Da chi o da cosa? Questo termine
pone un problema ermeneutico non da poco, dal momento che Paolo
predica lʼuniversalismo e la fine di ogni separazione tra ebrei e
pagani e che in un altro passo delle sue lettere, Ef. 2, 14‐15, si
legge: «il messia ha distrutto il muro della separazione». In
primo
20
21
luogo
bisogna
intendere
lʼaggettivo
G. Agamben, Il tempo che resta …, cit., p. 77.
Ibid., p. 68.
98
“separato”
come
un
S&F_n. 8_2012
richiamo biografico: «Aphōrisménos non è altro che la traduzione
greca del termine ebraico paruš, cioè fariseo»22. Paolo era un
fariseo, un separato. I farisei costituivano una setta interna al
giudaismo che divenne classe dominante in Palestina intorno alla
fine del I secolo a. C.; essi, pur essendo laici, praticavano
lʼosservanza di regole della purezza sacerdotale distinguendosi
così dalla massa incolta e inosservante. La Torah per i farisei
non
è
solo
consuetudines
quella
da
scritta,
rispettare
ma
per
è
anche
proteggersi
lʼinsieme
da
ogni
delle
contatto
impuro. Lʼaggettivo aphōrisménos è da intendersi allora in senso
parodico,
Paolo
separazioni.
Il
è
un
muro
separato
che
alla
lʼannuncio
seconda,
separato
messianico
fa
dalle
cadere
è
nientʼaltro che la siepe dietro la quale si proteggono i farisei,
la porta custodita dal guardiano nellʼapologo kafkiano Davanti
alla legge. Lʼetimologia del termine greco nómos, legge, insegna
che il sostantivo nómos deriva dal verbo nemō, cioè dividere,
attribuire delle parti; il principio legislativo trova dunque la
propria
fondazione
nellʼatto
divisorio,
nello
stabilire
dei
confini, in primis ciò che è interno alla legge da ciò che non lo
è. Nello specifico la legge messianica è attraversata da un unico
grande spartiacque: la separazione tra ebrei/non ebrei. In che
modo allora Paolo, allʼinterno della prospettiva messianica, rende
inoperanti
le
distinzioni
nomistiche?
Paolo
opera
secondo
un
metodo diacritico del tutto peculiare, realmente contemporaneo,
potremmo dire ibridativo, in cui il taglio divisore allo stesso
tempo separa e unisce, proprio come lo spazio bianco tra le
lettere, creando un resto, una zona dʼindiscernibilità. Ad esempio
la distinzione paolina tra carne/soffio‐spirito (sarx/pneuma) non
combacia perfettamente con quella ebrei/non ebrei, non coincide,
ma al tempo stesso non ne è estranea: taglia la divisione in due.
22
Ibid., p. 48.
99
DOSSIER
Alessandra Scotti, Filosofare alla fine dei tempi
«La circoncisione è nulla e il prepuzio è nulla»23, e non basta
allʼesercizio della fede messianica.
Per
esprimere
la
relazione
che
sussiste
tra
la
legge
e
il
messianico Agamben compie uno studio del verbo katargéō che deriva
dallʼaggettivo argós, cioè non in opera, inattivo (a privativa +
ergos).
Si
tratta
anche
qui
di
un
topos
della
produzione
agambeniana sviluppato a partire da unʼinterpretazione di un passo
del libro IX della Metafisica di Aristotele. Lʼessere umano è
lʼunico fra gli esseri viventi che può distaccarsi dal patrimonio
comportamentale ricevuto in dotazione e esercitare la propria
potenza
astenendosene
dallʼuso,
ovvero
può
non
fare,
può
la
propria impotenza. In Bartleby La formula della creazione il
copista newyorkese è il simbolo di questo “poter non fare”: «il
“preferirei di no” è la restitutio in integrum della possibilità,
che la mantiene in bilico tra lʼaccadere e il non accadere, tra il
poter essere e il poter non essere. Esso è il ricordo di ciò che
non è stato»24. Ma ciò che colpisce maggiormente dello studio
etimologico del verbo katargéō è che esso viene tradotto da Lutero
col tedesco Aufheben. Non è questo il luogo per indagare il peso
che il suddetto verbo ha esercitato nella storia della filosofia
da Hegel in poi, basti notare che Aufheben, nella doppia accezione
di abolire e conservare a un tempo, illumina la questione della
legge messianica di luce nuova: essa per effetto della katargesis
è insieme sospesa e compiuta, come la legge che vige nello stato
di eccezione. La legge paolina opera come un taglio di Apelle25 e
attraverso
la
“divisione
della
divisione”
recupera
lo
scarto
esistente tra ebrei/non ebrei, nella legge/fuori dalla legge.
23
San Paolo, Le lettere, cit., Prima ai Corinti, 7, 19.
G. Agamben, G. Deleuze, Bartleby La formula della creazione, Quodlibet,
Macerata 20065, p. 79.
25
Una leggenda narrata da Plinio racconta di una sfida mitica tra Protogene e
Apelle. Protogene traccia una linea su una tela talmente sottile che non pare
fatta da un pennello umano e invita Apelle a fare altrettanto, ma questi con il
suo tratto divide a metà la linea tracciata dal rivale ricavandone una ancora
più sottile.
24
100
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5. Lettera/Spirito
I farisei sono gli uomini della lettera, gli esegeti delle sacre
scritture, i filologi accorti, i fanatici del candore, della
purezza adamantina. Nel vangelo di Matteo Gesù si rivolge a essi
con queste parole:
Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite lʼesterno del
bicchiere e del piatto mentre allʼinterno sono pieni di rapina e
dʼintemperanza. Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che
rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi allʼesterno son belli a
vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume26.
La fede del fariseo si risolve nellʼesercizio del rituale, è
votata tutta allʼesteriorità e non allʼinteriorità, alla lettera
non allo spirito. La distinzione tra fede, ma anche morale come
vedremo, esteriore/interiore trova la sua fondazione nelle parole
dellʼ ex fariseo Paolo: «non si è giudei manifesti nella carne, e
la circoncisione non è quella manifesta nella carne: si è giudei
nel segreto, e la circoncisione è quella del cuore, nello spirito
non nella lettera»27. La dicotomia paolina spirito/lettera è così
feconda
e
longeva
che
nel
terzo
capitolo
della
Kritik
der
praktischen Vernunft leggiamo che la legge morale «non deve [soll]
soddisfare meramente la lettera della legge, senza contenere il
suo spirito […] mera ipocrisia senza consistenza alcuna»28. Il
riferimento kantiano ai farisei è evidente, sono infatti loro a
essere tacciati di ipocrisia nel Vangelo. Il termine ipocrisia che
ricorre ossessivamente e di cui oggi si fa un largo uso e abuso,
additata come la più esecrabile fra le condotte umane rinvia,
etimologicamente, alla dimensione dellʼactio. Lʼhypocrites, in
greco, è lʼattore che calca la scena e dissimula, si cela dietro
una maschera, finge di ignorare qualcosa di cui in realtà è a
conoscenza. Ma la dimensione dell’attorialità non esaurisce il
ventaglio
semantico
della
parola
in
questione.
Lʼipocrisia
è
apparentata con un termine assai caro al lessico kantiano: il
26
Vangelo di Matteo, 23, 25.27.
San Paolo, Le lettere, cit., Ai romani, 2, 28‐29.
28
I. Kant, Critica della ragion pratica, tr. it. Bur Rizzoli, Milano 20096, p.
275 (corsivo mio).
27
101
DOSSIER
Alessandra Scotti, Filosofare alla fine dei tempi
verbo greco krino, che vuol dire separo, distinguo, giudico, da
cui Kritik, critica per lʼappunto. Anche lʼetimo della parola
giudizio in tedesco (Ur‐teil, Teil è parte, sezione) rinvia a
unʼattività
di
discernimento.
Se
denota
krino
la
matrice
giudicativa del termine, il prefisso hypo indica uno “stare sotto”
al
giudizio,
una
sua
messa
in
sospensione,
una
falla
nel
meccanismo. Lʼipocrita è colui che per ignavia, o perché riposa
nello Shabbath del creatore, si astiene dal giudizio. In Kant
lʼopposizione tra lettera e spirito si riflette in quella tra
moralità estrinseca, o legalità, e intrinseca, che costituirebbe
la
vera
morale.
Il
problema
kantiano
si
articola
intorno
allʼindividuazione di una volontà che non sia determinata come
volontà di piacere, tra la voluptas e la voluntas corre solo una
consonante; così come tra il rigore del formalismo kantiano e ogni
forma di epicureismo. Si tratta allora, per Kant, di capire come
la volontà possa determinare se stessa in piena autonomia, senza
fare
riferimento
ad
altro.
Nelle
alture
gelide
della
morale
kantiana non cʼè spazio né per i sentimenti né per le passioni,
che attecchiscono come un cancro della ragione, solo uno fra essi
viene preso in considerazione da Kant e adoperato come leva
archimedea
della
sua
morale:
il
sentimento
del
rispetto.
Il
filosofo di Königsberg deve concederci qualcosa, dacché siamo
creature di rango inferiore, e anche se votati verso la santità
essa rimarrà sempre un ideale regolativo e nulla più, quello che
si può sperare e non quello che si deve fare. Data la nostra
fallibilità non possiamo immaginare di entrare in possesso della
santità
spontaneamente,
ma
solo
mediante
il
sacrificio,
la
costrizione, lʼautocoazione. Il rispetto, questo «giogo dolce»29,
in particolar modo nella sua forma di rispetto per la legge,
costituisce lʼunico principio soggettivo che riveste qualità di
movente, «il rispetto per la legge morale – si legge nella Critica
della
29
Ragion
Pratica
–
è
Ibid., p. 307.
102
il
movente
morale
unico
e
S&F_n. 8_2012
indubitabile»30.
Esso
finisce
col
coincidere
con
la
moralità
stessa, la formula “il dovere per il dovere” non esprime altro che
questa tautologia morale. Che cosa cʼentri Kant con Paolo e il
tempo messianico lo spiega molto bene Agamben in Homo sacer quando
parla di “vigenza senza significato” ricordando ancora una volta
la leggenda kafkiana narrata nel duomo, simbolo di una legge che
si esprime nel punto di massima auto trasparenza, che non comanda
nientʼaltro che se stessa, non prescrive più nulla, è puro bando.
«La porta aperta – davanti alla quale si trova il contadino – lo
include escludendolo e lo esclude includendolo. E questo è (…) la
radice prima di ogni legge»31. Non cʼè un dentro della legge e non
cʼè un fuori. Così il prete del Processo rivelando che «il
tribunale non vuole nulla da te. Ti accoglie quando vieni, ti
lascia
andare
quando
te
vai»32
ne
manifesta
la
struttura
originaria del nómos in quanto tale. Lʼespressione “vigenza senza
significato”
è
da
attribuire
a
Scholem
che,
in
una
lettera
indirizzata a Benjamin del settembre 1934, definisce la relazione
con la legge nei romanzi di Kafka, e in particolare nel Processo,
come
«nulla
della
rivelazione»33,
intendendo
cioè
che
essa
determina «uno stadio in cui la rivelazione appare priva di
significato,e, tuttavia, afferma ancora se stessa, poiché vige, ma
non significa»34. Questa prescrizione che non descrive più nulla
costituisce, secondo Agamben, il bando, lʼorigine e lʼessenza di
ogni legge sovrana. «È in Kant – afferma in Homo sacer – che la
forma pura della legge come “vigenza senza significato” appare per
la prima volta nella modernità»35. Dal momento che la volontà
kantiana astrae da ogni motivo materiale determinante lʼazione non
rimane che la forma vuota di una legislazione universale; e una
30
Ibid., p. 291.
G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino
20052, p. 58.
32
F. Kafka, Il processo. Lʼordinaria amministrazione dellʼassurdo, tr. it.
Acquarelli, Verona 1994, p. 250.
33
Cfr. G. Agamben, La potenza del pensiero …, cit., p. 269.
34
Ibid.
35
Id., Homo sacer …, cit., p. 60.
31
103
DOSSIER
Alessandra Scotti, Filosofare alla fine dei tempi
volontà che abbia come forma solo se stessa, in quanto volontà di
legge, non è né libera né non libera, proprio come il contadino
kafkiano.
Tutta
la
ricchezza
e,
al
tempo
stesso,
il
limite
dellʼetica kantiana sta nellʼaver lasciato vigere come principio
vuoto la forma di legge. Tale vigenza senza significato nella
sfera
dellʼetica
corrisponde
simmetricamente,
in
quella
della
conoscenza, allʼoggetto trascendentale. Esso non è mai un oggetto
reale, ma una semplice idea di relazione del pensiero con un
pensato indeterminato. La risposta che Benjamin dà alla visione
scholemiana di una vigenza senza significato è disarmante:
Che gli scolari abbiano smarrito la scrittura oppure non riescano a
decifrarla e, alla fine, la stessa cosa, poiché una scrittura senza la
sua chiave non è una scrittura, ma vita, vita quale viene vissuta nel
villaggio ai piedi del monte dove sorge il castello36.
Una vita vissuta sotto una legge che vige senza significare, che è
tanto pervasiva quanto priva di qualsiasi contenuto, assomiglia
alla vita nello stato di eccezione, che, come afferma Benjamin
nellʼottava Tesi di filosofia della storia, è divenuto ormai la
regola37, lo stato di eccezione in cui viviamo. Ad accomunare
legge messianica e stato di eccezione è la peculiare struttura
dellʼex‐ceptio:
essa
non
è
semplicemente
unʼesclusione,
bensì
unʼesclusione inclusiva, una cattura del fuori (ex è preposizione
che indica la provenienza, lʼuscir fuori e ceptio è forma del
verbo căpĭo, afferrare, prendere) e questa indistinguibilità tra
un dentro e un fuori della legge ricorda il metodo diairetico
delle lettere paoline nel suo rendere indiscernibile il dentro e
il fuori della legge con lʼintroduzione di un resto.
6. Cosa (non) fare?
Lʼinsuperato incipit di Anna Karenina attestava che le famiglie
felici si assomigliano tutte, mentre quelle infelici ognuna lo è a
36
W. Benjamin, G. Scholem, Teologia e utopia. Carteggio 1933‐1940, tr. it.
Einaudi, Torino 1987, pp. 155‐156.
37
«La tradizione degli oppressi ci insegna che lo “stato di eccezione” in cui
viviamo è la regola», Cfr. W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia in
Angelus Novus, tr. it. Einaudi, Torino 1995, pp. 75‐86.
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S&F_n. 8_2012
modo suo. Bisogna rivendicare allora accanto a una scienza del
conoscere
la
presenza
di
una
sorellastra
cattiva,
unʼarte
dell’ignoranza. Le maniere dʼignorare qualcosa rivestono almeno la
stessa importanza di quelle di conoscerlo, così i modi del non
fare qualcosa, talvolta, acquistano più valore del fare. Se la
profanazione, in quanto atto di resistenza a ogni separazione, è
il monito della filosofia a venire, questa può compiersi solo
mediante
lʼinoperosità.
Ecco
svelata
la
ragione
del
nostro
insistere sullʼetimologia e lʼuso del verbo paolino katargéō,
quale messa in sospensione, argeo è anche il riposo del sabato.
Lʼinoperosità schiude le porte della profanazione, di un nuovo
possibile uso comune, dal momento che il consacrare segna lʼuscita
delle
cose
dalla
sfera
dellʼuomo
mentre
il
profanare
ne
restituisce lʼuso. Lʼin‐opera rinvia subito a unʼatmosfera festosa
che disinnesca la routine delle azioni quotidiane, dei gesti, dove
ogni
cosa
inefficace.
viene
Il
sospesa
gioco
è
dal
proprio
lʼemblema
della
uso
consueto
profanazione
e
resa
giacché
immette in una nuova dimensione dellʼuso: nel gioco dei bambini
spesso un oggetto è svuotato del fine e reso mezzo puro. La
filosofia non è mai unʼoccupazione seria, lo diceva già Merleau‐
Ponty negli anni ʼ50, ma la filosofia futura sarà ludica perché
permetterà
di
riaccedere
alla
festa
perduta
e
mediante
lʼinoperosità affrettare la venuta del giorno ultimo. Il filosofo
del futuro sarà come lʼagrimensore K. che assalta i limiti che
separano il castello dagli orticelli del villaggio, il divino
dall’umano. Cosa ne sarà di questo nuovo mondo senza limiti non è
dato saperlo, esso è avvolto dalla nebbia, come quella che cinge
la cima del Castello.
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