Comitato Nazionale per le celebrazioni del VII centenario
della morte di Iacopone da Todi (1306-2006)
in collaborazione con
Centro italiano di studi sul basso medioevo - Accademia Tudertina
Fondazione Ezio Franceschini ONLUS
LA VITA E L’OPERA
DI IACOPONE DA TODI
Atti del Convegno di studio
Todi, 3-7 dicembre 2006
a cura di
ENRICO MENESTÒ
FONDAZIONE
CENTRO ITALIANO DI STUDI SULL’ALTO MEDIOEVO
SPOLETO
2007
MARIA SOFIA LANNUTTI
Il verso di Iacopone
Accingersi a valutare la versificazione del laudario iacoponico
vuol dire rassegnarsi a convivere con un senso di frustrazione. Si è
consapevoli sin dall’inizio che il confronto sarà difficile, per molti
aspetti perdente, che ogni tentativo di razionalizzare, di individuare
un sistema coerente è destinato a scontrarsi con ambiguità e irregolarità talmente pervasive da rendere talvolta impossibile stabilire un
modello metrico di riferimento. Un caso-limite (la definizione è di
Contini) 1 la cui complessità è aggravata dall’assenza di un testo criticamente ricostruito e da una tradizione manoscritta così marcatamente incline al rifacimento. Ma al di là delle difficoltà, la rilettura
metrica dei componimenti mi ha indotta a pensare che la versificazione di Iacopone sia singolare quanto il suo laudario, che pur condividendo con il repertorio laudistico confraternale molte peculiarità,
se ne discosti nella selezione dei modelli, come vedremo subito, e
nella gamma delle realizzazioni e delle soluzioni esecutive.
Dei 111 componimenti che si può per ora ritenere costituiscano
il canone 2, cioè 92 dell’ed. Ageno, 5 dell’Appendice Mancini, cui
1
Esperienze di un antologista del Duecento poetico italiano, in Studi e problemi di critica testuale, Bologna, 1961 (Collezione di opere inedite e rare pubblicate dalla Commissione
per i Testi di Lingua, 123), pp. 241-272, ora in Breviario di ecdotica, Milano-Napoli,
19902, pp. 175-210, a p. 187.
2
Su cui si veda L. LEONARDI, La tradizione manoscritta e il problema testuale del laudario
di Iacopone, in Iacopone da Todi. Atti del XXXVII Convegno storico internazionale (Todi, 8-11 ottobre 2000), Spoleto, 2001, pp. 177-204, alle pp. 184-186.
114
MARIA SOFIA LANNUTTI
si aggiungono i 14 recuperi di Rosanna Bettarini dall’Urbinate 3,
103 sono omometrici (mi riferisco al verso-base, senza tenere conto
per ora dei diversi gradi di escursione sillabica): 46 componimenti
sono in settenari, 37 in ottonari (uno dei quali con cauda senaria in
fine di strofe), 12 in doppi quinari, 8 in endecasillabi (due dei quali
con cauda quinaria in fine di strofe). Dei quattro componimenti eterometrici, due presentano un’analoga struttura rimica e sillabica e alternano endecasillabi e settenari, un altro presenta ripresa e volta di
settenari doppi e mutazioni di endecasillabi, il quarto è costituito da
un modulo, ripetuto tre volte e anticipato nella ripresa, di due doppi
quinari seguiti da un ottonario. Restano fuori da questa classificazione quattro altre laude omometriche, per le quali si è pensato a un
modello novenario, peraltro rarissimo in ambito italiano, la cui struttura sillabica rimane tutto sommato incerta 4.
Colpisce in questo quadro la preminenza del settenario, soprattutto se si considera che nel repertorio confraternale esso è di gran
lunga minoritario rispetto all’ottonario. Ma in Iacopone il confine tra
settenario e settenario doppio è dei più incerti, e anzi ci si può chiedere se anche quando lo schema delle rime permetta o suggerisca
una disposizione non accoppiata, il settenario non venisse comunque
sentito come doppio. Si veda, ad esempio, il caso delle due laude 27
e 50 con identico incipit O Cristo onipotente dove site enviato, accomunate dal tema della redenzione in Cristo svolto in forma di dialogo
tra Cristo gli angeli e l’anima. Le due laude presentano una lieve variazione nello schema delle rime:
27 O Cristo onipotente dove site enviato? / Perché pelegrinato:
zyyx // abcbbx → (z)Y (y)X // (b)A (c)A (a)X
50 O Cristo onipotente dove site enviato? / Perché poveramente:
yxyx // ababbx → (y)X (y)X // (b)A (b)A (a)X
In una troviamo un settenario irrelato in terza sede, nell’altra lo
stesso verso ripete invece la rima del primo. Ageno sceglie, come
3
R. BETTARINI, Iacopone e il Laudario Urbinate, Firenze, 1969.
Si tratta delle laude 78 Un arbore è da Deo plantato, 16 L’amor ’n lo Cor se vòl rennare, 80 Molto me so’ delongato e Peccatore, or que farai?, quest’ultima, su cui avrò modo di
tornare, tràdita dal solo Urbinate (cfr. BETTARINI, Iacopone e il Laudario Urbinate, cit., pp.
527-528).
4
IL VERSO DI IACOPONE
115
per tutti i componimenti in settenari, la soluzione del verso doppio,
riproponendo la disposizione della princeps 5. Mancini distingue tra le
due soluzioni del settenario e del settenario doppio, suddividendo in
settenari doppi la lauda con la rima irrelata e in settenari semplici
l’altra, in osservanza al criterio, sottinteso e a dire il vero non sempre
adottato, di escludere la soluzione del settenario doppio qualora la
strofe non presenti rime irrelate 6. L’identità testuale tra le due laude, che riguarda i due primi settenari e che ripropone una consueta
tecnica di collegamento intertestuale, lascia tuttavia supporre che essi
venissero sentiti come un unico verso. Né d’altra parte una così lieve
differenza nello schema delle rime mi sembra poter determinare una
diversa percezione della suddivisione in versi. La duplice possibilità
del verso e dell’emistichio, tante volte insita nella veste strutturale
dei componimenti poetici antichi, pone di per sé notevoli problemi
in sede di edizione e la scelta, nei casi più delicati, non può che essere convenzionale. Nel laudario di Iacopone, tuttavia, mi pare che
gli schemi delle rime possano davvero orientare verso la soluzione
del settenario semplice solo nel caso della strofe zagialesca, che è tuttavia perlopiù in ottonari. E va anche sottolineato il fatto che la disposizione accoppiata dei settenari permette spesso di ricavare una
configurazione zagialesca, come nel tipo strofico proprio ad esempio
di 38 O anema fedele (xyyx // abcbdbbx → (x)Y (y)X // (b)A (c)A
(d)A (a)X) e di diverse altre laude, o in quello delle due laude già
menzionate (considerando come ultima del modulo la rima interna
del doppio settenario finale). Ritroviamo questa struttura nei rari
componimenti in settenari doppi di ambito profano, tutti di gusto
apertamente popolareggiante e tendenzialmente dialogati, come ad
esempio la ballata dei Memoriali bolognesi (B 3 Pur bii del vin comadre: (z)X (y)X // (b)A (c)A (d)A (e)X) 7. Analoghe considerazioni
5
Jacopone da Todi, Laudi, Trattato e detti, a cura di F. AGENO, Firenze, 1953, pp.
141-146.
6
Jacopone da Todi, Laude, a cura di F. MANCINI, Bari, 1974 (Scrittori d’Italia, 257),
pp. 73-74 e 139-142.
7
Per i componimenti duecenteschi rinvio all’edizione delle Concordanze della lingua
poetica italiana delle origini (CLPIO), I, a cura di d’A. S. AVALLE e con il concorso dell’Accademia della Crusca, Milano-Napoli, 1992 (« Documenti di filologia », 25), riprendendo il sistema identificativo adottato da Avalle: sigla del manoscritto, numero progressivo
del componimento, eventuale sigla dell’autore a cui il componimento è attribuito.
116
MARIA SOFIA LANNUTTI
possono valere anche per l’ottonario, a maggior ragione quando sia
organizzato in schemi rimici analoghi, ad es. in 15 Ensegnateme Iesù
Cristo (xyyx // abcbbx → (x)Y (y)X // (b)A (c)A (a)X) oppure in
28 Coll’occhi c’aio nel capo (xyyx // abcbdbbx → (x)Y (y)X // (b)A
(c)A (d)A (a)X). In ambito profano un collegamento può essere credo stabilito con il solo Contrasto della Zerbitana, in ottonari doppi,
che presenta esattamente lo stesso schema rimico di Coll’occhi c’aio nel
capo: (w)Y (z)X // (b)A (c)A (d)A (a)X 8. Vale la pena infine di ricordare quanto osserva Contini a proposito dell’anisosillabismo nella
poesia didattica: « Come il settenario-senario, anche il novenario-ottonario può fungere del resto da mero emistichio. Il fondamento di
una distinzione altrimenti futile si trova infatti nell’ufficio esercitato
(di qui si ricava il criterio che permette di distinguere e numerare, in
rapporto alle contraddittorie abitudini degli editori, i versi di Jacopone): se le due serie sono costantemente pari, i versi sono evidentemente doppî (con rima interna) » 9.
L’ampia attestazione del doppio quinario, verso che ci riconduce
alle origini più remote della poesia religiosa in volgare, al Pianto della Vergine cassinese, conferma la propensione di Iacopone per i versi
doppi. A questa stessa tendenza vanno collegate anche le strutture
strofiche che prevedono un verso breve con funzione di cauda in
chiusura, se si considera che la cauda, quinaria nei due componimenti in endecasillabi, forse secondo il modello della strofe saffica, e senaria nella lauda in ottonari, deriva dalla scomposizione in due parti
del modello metrico, tenendo conto dei due accenti principali, di
quarta nell’endecasillabo e di terza nell’ottonario (quindi prima parte
dell’endecasillabo e seconda parte dell’ottonario, inclusa la tonica in
terza posizione).
L’impiego di versi composti può dirsi proprio dell’intero repertorio laudistico duecentesco. Nel Laudario di Cortona, ad esempio,
8
Oltre all’ed. di Contini (Poeti del Duecento, a cura di G. CONTINI, Milano-Napoli,
1960, I, pp. 919-921), si possono ora vedere le edd. di M. SALEM ELSHEIKH, La Zerbitana
e dintorni. Qualche ipotesi stravagante, in Studi e problemi di critica testuale, XLVIII (1994),
pp. 5-19, a p. 19 e di L. MINERVINI, La lingua franca mediterranea. Plurilinguismo, mistilinguismo, pidginizzazione sulle coste del Mediterraneo tra tardo medioevo e prima età moderna, in
Medioevo romanzo, XX, fasc. II (maggio-agosto 1996), pp. 231-301, a p. 281.
9
Esperienze, cit., p. 181.
IL VERSO DI IACOPONE
117
troviamo laude che rivelano una vera e propria tecnica di scomposizione dei versi e moltiplicazione degli emistichi, come nel caso della
lauda 10 (C 10 O Maria
d’omelia
se’ fontana, costituita da
quaternari doppi e tripli, sentiti con ogni probabilità come parte dell’ottonario. La stessa tecnica si ravvisa nella lauda di Iacopone O novo
canto (n. 64) in cui si trova ad essere triplicato il quinario (O novo
canto,
c’ài morto el planto
de l’omo enfernato).
Si direbbe dunque che Iacopone faccia propria una concezione
del verso ancora profondamente debitrice nei confronti della poesia
mediolatina, dove la scomposizione e la moltiplicazione degli emistichi può dirsi costitutiva, secondo gli sviluppi di una tradizione di
pensiero che già nel De musica di sant’Agostino teorizza la binarietà
del verso 10.
Ma il debito nei confronti della poesia mediolatina caratterizza
altri aspetti della versificazione laudistica, alcuni dei quali si ritrovano
nel laudario di Iacopone amplificati e spinti all’estremo, in sintonia
con il pensiero e il linguaggio dell’autore.
Consideriamo prima di tutto il numerismo sillabico riguardo agli
incontri vocalici nel corpo della parola o tra due parole, cioè alla
possibilità della dieresi e della dialefe. Nella versificazione ritmica
mediolatina le vocali contigue valgono sempre per una sillaba e gli
incontri vocalici tra due parole, comunque meno diffusi anche per la
maggiore frequenza delle consonanti finali, sono tendenzialmente
evitati 11. Nella versificazione romanza accade l’inverso, le vocali
contigue si uniscono di norma in una sola sillaba, soprattutto quando
si trovino tra due parole, e la presenza delle dieresi e delle dialefi va
riducendosi con il tempo. Si pensi alla dieresi riguardante i nessi di
vocale tonica più vocale atona non in fine di verso, che solo con Pe-
10
Cfr. il seguente passo contenuto nel secondo libro, in cui si distinguono metrum e
versus: « Atqui scias oportet, a veteribus doctis, in quibus magna auctoritas, illud superius
genus [scilicet metrum] non esse versum appellatum, sed hunc definitum et vocatum esse
versum, qui duobus quasi membris constaret, certa mensura et ratione coniunctis » (sant’Agostino, De musica, a cura di G. MARZI, Firenze, 1969, p. 258).
11
Ne è ben cosciente tra gli altri Dante, come dimostrano alcuni endecasillabi della
Commedia, ad es. « Manibus, oh, date lilia plenis » (Purg. XXX 21) oppure « In exitu
Israel de Aegypto » (Purg. II 46) o ancora « ‘Gloria in excelsis’ tutti ‘Deo’ » (Purg. XX
136): cfr. A. MENICHETTI, Metrica italiana. Fondamenti metrici, prosodia, rima, Padova, 1993,
p. 318.
118
MARIA SOFIA LANNUTTI
trarca e con i petrarchisti potrà dirsi eccezionale 12. La versificazione
del repertorio laudistico si rivela invece particolarmente propensa alla
dilatazione del verso mediante le dieresi e le dialefi, tanto da suggerire l’idea di una prosodia latineggiante. In versi ottonari del tipo « La
nostra redemptïone / prese ˆ encarnatïone / k’è sença corruptïone /
de te donna santissima » (seconda strofe della lauda cortonese C 3
Ave donna santissima) la dieresi non serve, come in Petrarca, ad ottenere un latinismo fonetico, ma diventa elemento costitutivo della
versificazione, così come la dialefe, che sembra presupporre lo stacco
tra la voce verbale latina e il successivo sostantivo (prendit incarnationem). Sempre all’ambito mediolatino potrebbe rimandare anche l’impiego di cadenze sdrucciole, così frequenti nella poesia ritmica e così
rare nella poesia in volgare, a parte i ritmi più arcaici e il contrasto
di Cielo d’Alcamo in strofe di settenari doppi e endecasillabi. Nella
lauda cortonese che ho appena citato i tre ottonari sono seguiti in
ogni strofe da un senario sdrucciolo con funzione di cauda che replica la misura dei versi della ripresa « Ave, donna santissima / regina
potentissima ». E si pensi alla lauda del Banco Rari 18 Alleluia alleluia
alto re di gloria, i cui versi doppi sono calchi del settenario trocaico 13.
La propensione al verso doppio e composto, il tipo di trattamento delle vocali contigue, l’adozione delle cadenze sdrucciole rimandano nel complesso a un filone poetico sentito al contempo come
popolareggiante e arcaizzante. La ragione della complementarietà dei
due aggettivi va cercata proprio nel legame con la tradizione mediolatina. Per questo tipo di versificazione si può forse chiamare in causa
la nozione di rusticitas intesa come espressione di un ibridismo tra latino e volgare, di un sistema contaminato, di uno sperimentalismo
che verrà gradualmente annullato o riconvertito durante il processo
12
P. G. BELTRAMI, La metrica italiana, Bologna, 20024, pp. 166-170.
Il Laudario di Santo Spirito (Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, B.R. 18) si legge
nell’edizione di F. LIUZZI, La lauda e i primordi della melodia italiana, Roma, 1935, 2 voll., vol.
II (Alleluia alleluia si trova alle pp. 83-84) e in quella più recente contenuta in The Florence
Laudario: an Edition of Florence, Biblioteca Nazionale Centrale, Banco Rari 18, cur. B. WILSON e
N. BARBIERI, Madison, 1995 (pp. LXI e 25). Cfr. anche l’edizione delle sole parti musicate in
M. DÜRRER, Altitalienische Laudenmelodien: Das einstimmige Repertoire der Handschriften Cortona
und Florenz, Kassel-Basel-London-New York-Prag, 1996, 2 voll. (la lauda in questione si
trova nel vol. II, alla p. 84).
13
IL VERSO DI IACOPONE
119
di consolidamento della poesia d’arte in volgare, ottenuto anche attraverso l’affrancamento dalle matrici mediolatine. 14
Nell’ambito della rusticitas rientra anche la tendenza all’irregolarità
del sillabismo, che nel repertorio laudistico, come del resto negli altri
repertori italiani delle Origini, si nutre in parte della proliferazione
delle vocali tradizionalmente considerate di valore puramente grafico.
Che queste vocali non rientrino nel computo sillabico, che non pertengano cioè alla realizzazione del modello metrico, è concetto indiscutibile. Ma che il loro valore sia davvero solo grafico, cioè che non
pertengano neppure al livello dell’esecuzione, è invece a mio parere
ancora sub iudice. Come ho già avuto modo di proporre in uno studio sulla versificazione del Cortonese 15, la presenza di vocali sovranumerarie in forme come core in luogo di cor, spirito in luogo di spirto, diritto in luogo di dritto potrebbe essere il riflesso di consuetudini
esecutive proprie del canto monodico in latino, in cui i nessi fonetici
di difficile pronuncia, come quelli costituiti da più consonanti consecutive, prevedevano l’impiego nell’esecuzione di elementi fonetici
definiti dai trattatisti antichi e dagli studiosi moderni ‘semivocali’, a
garanzia di una percezione più chiara della parola. 16 Così ad esempio
cordem veniva in realtà pronunciato nel canto *coredem, cor nostrum
14
Fondamentali per la comprensione del latino circa romançum o iuxta rusticitatem rimangono gli studi di Avalle. Oltre alla raccolta di testi nel volumetto Latino « circa romançum » e « rustica romana lingua ». Testi del VII, VIII e IX secolo a cura di d’A. S. AVAL3
LE, Padova, 1983 (Vulgares eloquentes, 2), si possono vedere Protostoria delle lingue romanze (dal sec. VI ai Giuramenti di Strasburgo e con particolare riguardo al territorio gallo-romanzo), Torino, 1965; La Cantilena di san Farone, in Studi in onore di Italo Siciliano, Firenze, 1966, I, pp. 289-307; Alcune particolarità metriche e linguistiche della « Vita ritmica di
San Zeno », in Linguistica e filologia. Omaggio a Benvenuto Terracini, a cura di C. SEGRE,
Milano, 1968, pp. 11-37, in particolare le pp. 17-29, dove si trattano gli aspetti metrici.
Sono tornati più di recente sull’argomento M. BRACCINI, La cantilena di S. Farone: iuxta
rusticitatem = rustica romana lingua, in Cultura neolatina, LVI (1996), pp. 129-186; M.
L. MENEGHETTI, Le origini delle letterature romanze, Roma-Bari, 1997, alle pp. 53-59.
15
Anisosillabismo e semiografia musicale nel laudario di Cortona, in Studi medievali,
XXXV (1994), pp. 1-66.
16
A questi elementi fonetici pensa forse Dante nel De vulgari eloquentia (II VIII 4),
quando, descrivendo un endecasillabo di Guiraut de Bornelh in -arz (« Ara ausirez encabalitz cantarz »), sostiene che la rima non può realizzarsi pienamente se non in virtù di
un’altra vocale sottintesa (« virtute alterius subintellecte »). Il che potrebbe voler dire che
gli elementi fonetici della rima non avrebbero potuto essere pienamente percepiti se
non grazie all’impiego di una vocale eufonica che permettesse di pronunciare distintamente il nesso consonantico (cantarz > *cantarez). Cfr. in proposito M. S. LANNUTTI,
120
MARIA SOFIA LANNUTTI
*core nostrum, come ci confermano i copisti del testo musicale, che
impiegavano in corrispondenza di queste sillabe di pronuncia difficile, sebbene in modo non sistematico, dei neumi speciali denominati
liquescenze. Il fatto che queste vocali, pur essendo pronunciate, non
accrescessero il numero di sillabe delle parole (cor rimaneva monosillabo e veniva munito di un solo neuma, liquescente nelle scritture
più accurate), esattamente come le vocali coinvolte nella sinalefe,
può spiegare i casi di rima interna ipermetra non infrequenti persino
nella poesia cortese, in versi come il guittoniano « ché non per stare,
ma per passare,
orrato » (L 1 = P 93 Ora parrà s’eo saverò
cantare, v. 44), endecasillabo reso ipermetro dalla forma stare per star
in rima con passare a sua volta in sinalefe con orrato 17.
E siamo giunti di nuovo nei pressi del delicato discrimine tra verso e
emistichio e nel territorio delle cosiddette figure metriche interversali.
Contini cita come caso di anisosillabismo in ambito cortese i due ottonari in sede settenaria della canzone V 91 L’animo è turbato di Neri de’
Visdomini, vv. 49-50: « Or non si dovria mutare / per sé ciascuno alimento » 18. Ma se i due versi incriminati fossero considerati come due
emistichi di un settenario doppio, almeno una delle due ipermetrie risulterebbe generata dalla forma mutare in luogo di mutar, proprio come
nell’endecasillabo di Guittone dalla forma stare per star. In somma, se si
ammettesse che la poesia delle Origini rispondeva a parametri esecutivi
diversi da quelli moderni e influenzati dal canto monodico, molte delle
ipermetrie risulterebbero solo apparenti, secondo una linea interpretativa
indicata molti anni fa da Avalle 19.
Ma si potrebbe procedere anche oltre, oltre le figure metriche
interversali, per tornare indietro, alla conflittualità tra latino e volgare. Nella poesia latina, alla frequenza di versi sdruccioli fa da contro-
« Ars » e « scientia », « actio » e « passio ». Per l’interpretazione di alcuni passi del « De vulgari eloquentia », in Studi medievali, XLI (2000), pp. 1-38, in particolare le pp. 23-31.
17
Il fenomeno della rima interna ipermetra del tipo che ho illustrato ha destato l’attenzione degli studiosi sin dal saggio di M. SERRETTA, Endecasillabi crescenti nella poesia italiana delle origini e nel Canzoniere di Petrarca, Milano, 1938. La bibliografia sull’argomento
si trova in LANNUTTI, Anisosillabismo cit., p. 27 e nota 61.
18
CONTINI, Esperienze cit., p. 189.
19
D’A. S. AVALLE, La struttura musicale e i suoi problemi tra Medioevo e Rinascimento, in
Musica, società e cultura. Dal Medioevo al barocco, I, Torino, 1982, alle pp. 153-165; Musique et poésie au Moyen Age, in Travaux de linguistique et de littérature, XXI/2 (1983), pp.
7-19, a p. 15; Concordanze, cit., pp. LXXXVII-LXXXVIII.
IL VERSO DI IACOPONE
121
canto l’assenza, obbligata dalla lingua, di versi tronchi. Una delle novità della versificazione romanza è dunque la possibilità che ultimo
accento e ultima sillaba del verso o dell’emistichio coincidano.
Un’altra novità è costituita dall’esclusione dal computo sillabico delle
sillabe atone dopo l’ultima accentata, che in italiano rende equivalenti le uscite tronche, piane e sdrucciole. L’ammissibilità delle figure
metriche tra due versi va a mio avviso messa in relazione proprio
con il virtuale ampliamento della cadenza finale, tollerato in virtù
dell’equivalenza tra uscita tronca piana e sdrucciola. In altri termini,
nei due versi ipermetri di Neri de’ Visdomini che ho citato, l’ipermetria del secondo potrebbe essre risolta anche a prescindere dal valore virtuale della finale di mutare, in quanto la sillaba iniziale potrebbe essere sentita come atona finale del verso precedente, che diventerebbe quindi sdrucciolo: « Or non si dovria mutare per / sé ciascuno alimento ».
Secondo il principio che ho appena illustrato, la possibilità di
escursione sillabica trova un preciso limite, non diverso da quello individuato da Contini con il ricorso al concetto di anacrusi 20. Impiegata sin dall’Ottocento in più di un manuale italiano e applicata proprio ai versi di Iacopone da John Schmitt agli inizi del Novecento 21,
l’anacrusi trova spazio anche in un saggio di Costanzo Di Girolamo
del 1975, dove si recupera la possibilità teorica, già presente nei manuali ottocenteschi e in Contini, dell’inserzione di sillabe anacrusiche
anche in sedi diverse dall’iniziale 22. Sorvolo sul complesso ragionamento di Di Girolamo, che pure storicizza la soluzione dell’anacrusi
mettendola in rapporto, sulla scia di Contini, con le diverse derivazioni dei versi anisosillabici, dell’ottonario-novenario dall’ottonario
trocaico e del novenario-ottonario dall’octosyllabe francese, e con la
possibilità di scambi e confusioni tra i due diversi modelli ritmici.
20
Esperienze cit., pp. 175-189; Poeti del Duecento cit., I, pp. XVIII-XXI; Filologia, in
Enciclopedia del Novecento, Roma 1977, II, pp. 954-972, ora in Breviario di ecdotica cit.,
pp. 3-66, alle pp. 23-25.
21
La metrica di Frà Jacopone, in Studi medievali, I (1905), pp. 514-560.
22
C. DI GIROLAMO, Regole dell’anisosillabismo. Il caso dell’ottonario/novenario nella poesia
italiana del Duecento, in Medioevo romanzo II (1975), pp. 254-272, ora in Teoria e prassi
della versificazione, Bologna, 19863, pp. 119-135. La cosiddetta anacrusi mobile, già menzionata da P. E. GUARNERIO, Manuale di versificazione italiana, Milano, 1893, p. 46, è ripresa da CONTINI, Esperienze cit., p. 187.
122
MARIA SOFIA LANNUTTI
Vorrei tuttavia sottolineare il rischio che il principio dell’anacrusi, se
applicato in via del tutto astratta, senza alcuna contestualizzazione,
possa portare a giustificare in modo indiscriminato tutte le forme di
irregolarità sillabica, anche le più abnormi, per le quali si può e forse
si deve pensare a processi di innovazione attuati nel corso della tradizione manoscritta 23.
Il concetto di anacrusi, con la diversa denominazione di mesure
d’attaque, è stato impiegato, com’è noto, da Dag Norberg per giustificare analoghe sillabe atone sovranumerarie a inizio di verso nella
poesia ritmica mediolatina 24, a cominciare dalla più antica, alla quale
la nozione di rusticitas prosodica può essere applicata in senso proprio, come risultato di una commistione tra latino e lingue romanze
emergenti (ma si può pensare che essa possa valere anche per la produzione successiva, in cui potrebbe essere interpretata come il contrassegno di un particolare registro stilisco e formale, contribuendo a
identificare un filone di produzione di gusto popolareggiante). Da
questo punto di vista, la possibilità dell’equivalenza tra i diversi tipi
di cadenza potrebbe essere presa in considerazione, come tratto assimilabile agli altri volgarismi, anche per la produzione mediolatina
anisosillabica studiata da Norberg, secondo quanto suggerisce Avalle,
e contribuire a spiegarne le ipermetrie 25. L’ipotesi che la possibilità
dell’equivalenza tra cadenza tronca piana e sdrucciola giustifichi la
presenza di sillabe atone sovranumerarie a inizio di verso nella produzione ritmica mediolatina assume una maggiore plausibilità se la si
mette in relazione con i non pochi casi di enjambement in cesura. Mi
limito a citarne uno dall’Apparebit repentina analizzato da Norberg:
23
Una disamina degli studi di metrica che hanno fatto uso del concetto di anacrusi per
spiegare i casi di escursione sillabica si trova in LANNUTTI, Anisosillabismo cit., pp. 1-4.
24
Cfr. in particolare La poésie latine rythmique du haut moyen âge, Stockholm, 1954, pp.
26-29; Introduction à l’étude de la versification latine médiévale, Stockholm, 1958, pp. 142-154.
25
« Effettivamente, l’impressione che si ricava dalla storia della versificazione mediolatina
è che ad un certo punto, e precisamente dall’epoca merovingica in poi si sia abbandonato da
parte di un certo numero di poeti il principio della isosillabia e si sia cominciato ad adoperare versi di differente lunghezza per uno stesso componimento, come se quello che contasse
non fosse più il computo totale delle sillabe, bensì, grosso modo, la posizione dell’ultimo accento tonico indipendentemente dal numero delle atone poste dopo di esso » (d’A. S. AVALLE, Le origini della quartina monorima di alessandrini, in Saggi e ricerche in memoria di Ettore Li
Gotti, Palermo, 1962, I, pp. 119-60, alle pp. 141-142.
IL VERSO DI IACOPONE
123
13,1 « nouum melos- / -que te coram »; e uno dalla Vita ritmica
di san Zeno analizzato da Avalle: v. 64 « Festinans adhuc in / Veronam veniens » 26. Ci si può quindi chiedere se un verso ipermetro
come ad esempio l’adonio « Laus creatori, / angelorum regi » (5p +
6p anziché 5p + 5p), che apre la strofe finale del componimento n.
16 dei Carmina cantabrigiensia, composto in occasione dell’incoronazione dell’imperatore Enrico III (Norberg lo considera un caso estremo di anisosillabismo), non vada interpretato con enjambement e cadenza sdrucciola in cesura: *« Laus creatori, an- / -gelorum regi »,
(6pp + 5p = 5’’ + 5’) 27.
Ma veniamo finalmente a Iacopone e ai problemi concreti posti
dalla sua versificazione.
Nel laudario di Iacopone la conflittualità tra i due sistemi, il latino e il romanzo, la rusticitas prosodica di cui si è detto, è percepibile
riguardo a tutti gli aspetti che ho fin qui descritto, a cominciare dal
trattamento ‘alla latina’ delle vocali contigue. Traggo alcuni esempi
dalle 14 laude attestate nel solo Urbinate, attribuite a Iacopone da
Rosanna Bettarini 28. Nella prima, che inizia la serie dei quattro
Planctus Virginis, appare chiara l’incidenza di forme dieretiche necessarie alla misura endecasillabica già dall’incipit « Ancor non saçça la
condictïone » e poi in versi come 10 « k’avesse la memorïa cangiata », 82 « le bestïe, l’aucelli e li serpenti », 107 « e.dd’omo prese proprïa similla », fino al limite rappresentato da 104 « l’angustïosa tribulatïone », verso che secondo il sistema romanzo sarebbe di nove sillabe. Ma un interesse ancora maggiore rivestono i successivi due planctus in quartine monorime di doppi quinari, dove alle dieresi e alle
dialefi si affiancano cadenze sdrucciole e figure metriche tra i due
emistichi. Ho estratto da queste due laude alcuni esempi di dieresi e
di dialefe:
XIX
Dieresi: II 5b lo radïare; II 66a detratïando; II 70b annuntïava; II 95b e gratïoso;
III 15b celestïale, III 24a süavetoso; III 41b cuitatïone; III 67a remedïat’à; III
78b dannatïone; III 88a c’ò per nïente; III 89a per pïetança.
26
D. NORBERG, Les vers latins iambiques et trochaïques au Moyen Age et leurs répliques
rythmiques, Stockholm, 1988, p. 97; AVALLE, Alcune particolarità cit., p. 13.
27
NORBERG, Introduction, cit., p. 147.
28
Jacopone e il Laudario Urbinate cit., pp. 485-531.
124
MARIA SOFIA LANNUTTI
Dialefi: II 20b ke amo tanto; II 32a et or te ve[io]; II 92b mo à Maria; II 102a
ked è mandato; II 104a e dentro essar; III 6b et arvoscelli; III 63a et a la
gente 29.
Altri esempi tratti dalla lauda II possono servire a farsi un’idea
della frequenza delle cadenze sdrucciole e delle figure metriche tra i
due emistichi. L’incipit « Sorelle, prègovo
per mi’ amore » è di
unidici sillabe per la cadenza sdrucciola in fine di emistichio, che ai
vv. 6 « de voler plangnare
e.ssospirare » e 24 « ké.ccusì vivar
non è nigente! » è invece neutralizzata, nel primo caso virtualmente,
da una sinalefe con la vocale iniziale dell’emistichio successivo, nel
secondo caso anche graficamente, dalla forma apocopata vivar in luogo di vivare. Al v. 10 « ké.nno vo dicano
villania », l’ultima sillaba della cadenza sdrucciola va a compensare l’ipometria del secondo
emistichio. Nella stessa lauda si danno poi casi di ipermetria del secondo emistichio (12 « ò morto el fillo
a la sua Maria », oppure
.
88 « vollo murire,
e nno poco, Amore »), ipermetria che è però
solo apparente, perché può essere risolta mediante sinalefe tra la vocale finale del primo emistichio e la vocale atona iniziale del
secondo.
A parte i due planctus già presi in considerazione, nel gruppo dei
14 componimenti dell’Urbinate è in doppi quinari solo la lauda VIII
Odo una voce. In essa la realizzazione del doppio quinario si presenta
notevolmente diversa, in quanto quasi tutti i versi raggiungono nel
complesso la misura endecasillabica, non estranea, come si è visto,
neppure ai due planctus per la presenza di cadenze sdrucciole. In Odo
una voce, tuttavia, il primo emistichio è quasi sempre piano, per cui
la misura endecasillabica viene quasi sempre raggiunta in virtù della
presenza di una sillaba atona all’inizio del secondo emistichio. Sebbene non sia escluso che nelle realizzazioni endecasillabiche abbia potuto influire, come sottolinea John Schmitt, la conformazione del verso
lungo della strofe saffica, costituito proprio da 5 + 6 sillabe a cadenza
29
Tra gli esempi di dialefe ho annoverato i casi in cui la separazione delle due vocali
è anche rappresentata graficamente da -t o -d etimologiche. Questo uso grafico, potenzialmente anche fonetico, può essere messo in relazione con l’impiego nella scripta della
lirica duecentesca della t definita da Avalle antidieresi (Concordanze, cit., p. CLXXIb), come
in V 169, v. 40 teneta per tenea.
IL VERSO DI IACOPONE
125
piana, che il modello sia il doppio quinario è dimostrato dal v. 47
« Vene lo povero, more de fame », con cadenza sdrucciola come in
II 1 « Sorelle, prègovo
per mi’ amore » e soprattutto dal v. 49
« fo meretato
Laçaro e ’l Divo », in cui è pienamente rispettato
il numero regolare di sillabe. Vi sono poi versi in cui è possibile una
sinalefe tra i due emistichi, come in 8 « ki.ddé andare
in gloria o
in supplizio » o in 16 « ke.nnon se mustri
in presença de tucti »,
e versi in cui sarebbe possibile non computare vocali finali o intertoniche, come in 40 « de lo Signore
per umeletate », che può essere interpretato *« de lo Signore
per umeltate », oppure *« de
lo Signor
per umeletate » (analogamente al citato verso di Guittone « ché non per stare, ma per passare, orrato », dove la misura endecasillabica è ottenibile solo a costo di apocopare la forma stare in
rima). Nella maggioranza dei versi, tuttavia, il modello metrico non
può dirsi rispettato se non si ammette che la sillaba atona iniziale del
secondo emistichio vada considerata come ultima sillaba dell’emistichio precedente, che diventa in tal modo sdrucciolo: vv. 1-2 « Odo
una voce
ke. ppuro ne clama: / “Surgete, morti! / Venite al
giudizio!” » → *« Odo una voce ke. / ppuro ne clama: / “Surgete,
morti! Ve- / -nite al giudizio!” ».
Questa modalità di realizzazione di modelli metrici doppi (che,
come si è visto, non è escluso sia già presente nella produzione mediolatina di tipo ‘rustico’) è meno isolata di quanto si possa pensare,
perché è propria ad esempio di alcuni componimenti oitanici, che
ho avuto modo di analizzare in altra occasione 30. Si tratta di due pastorelle con refrain (RS 1583 e RS 1680), legate da un rapporto di
imitazione metrica, che sono costituite da versi doppi in cui il primo
emistichio ha l’ultimo accento sulla quinta sillaba e il secondo emistichio sulla quarta 31. Il numero complessivo di sillabe dei versi raggiunge spesso ma non obbligatoriamente la misura decasillabica, sia,
30
M. S. LANNUTTI, Versificazione francese irregolare tra testo verbale e testo musicale, in
Studi di filologia medievale offerti a d’Arco Silvio Avalle, a cura di L. LEONARDI e S. ORLANDO, Milano-Napoli, 1996, pp. 185-215, alle pp. 194-201.
31
RS 1583 si può leggere nell’ed. di S. ROSEMBERG e H. TISCHLER, Chanter m’estuet.
Songs of the trouvères, London-Boston, 1981, pp. 249-252; RS 1680 in Pastourelles. Textes
des Chansonniers de Berne, de l’Arsenal, de la Bibliotheque Nationale, avec notes par J.-C.
RIVIÈRE, Genève, 1974-1976, 3 voll. (Textes Littéraires français, 213, 220, 232), II, pp.
162-165.
126
MARIA SOFIA LANNUTTI
com’è ovvio, quando il primo emistichio è piano (RS 1680, v. 2
« trouvai pastorele
qui en chantant »), sia anche quando il primo
emistichio è tronco, ma in quel caso il secondo sarà ipermetro per la
presenza di una sillaba atona iniziale che dovrà essere considerata come ultima sillaba del primo emistichio: RS 1680, v. 19 « Son vis
vermeillet,
ou a grant biauté » → *« Son vis vermeillet ou
a
grant biauté ». In altri casi il secondo emistichio è invece ipometro,
ma è preceduto da una cadenza piana, la cui atona finale andrà a
compensare l’ipometria: RS 1680, v. 21 « Enver sa mamele
flor
de lis » → *« Enver sa mame-le flor de lis ».
Tornando a Iacopone e all’Urbinate, se si considera Odo una voce
come sostanzialmente regolare sotto il profilo del numerismo sillabico, l’anisosillabismo riguarderà solo una delle 14 laude da attribuire a
Iacopone, la XII Peccatore, or que farai. Gli altri casi di anisosillabismo
segnalati dalla Bettarini, in numero davvero trascurabile, o sono solo
apparenti, come in V 12 « a.cki se vol salvare », cauda senaria di una
strofe di ottonari, per la quale si può pensare a una sinalefe con il
verso precedente, e in VI 44 « poco se pò tenere caro », ottonario,
dove tenere è passibile di apocope, oppure sono dovuti alla presenza
di monosillabi non necessari, che è anche possibile leggere come sillabe finali del verso precedente. È il caso di alcuni novenari in luogo
di ottonari, ad esempio VI 16 « ke.ssirà preso de rio laço », dove la
congiunzione iniziale non sarebbe necessaria a una sintassi per asindeto, oppure VI 35 « Ki co la nave veterana », dove si potrebbe omettere l’articolo, considerando il carattere proverbiale dell’enunciato,
confermato dal verso successivo « vole fare via luntana ».
Peccatore, or que farai? è una della quattro laude ritenute in novenari di tutto il laudario di Iacopone. La misura dei versi varia dalle
otto alle dieci sillabe, per cui si direbbe che la realizzazione del modello metrico ammetta eccezionalmente sia l’accrescimento sia la diminuzione di una sillaba. Questa duplice possibilità di escursione,
che secondo Contini è dovuta alla compresenza di due modelli metrici, uno derivato dall’ottonario trocaico, l’ottonario, e uno derivato
dall’octosyllabe, il novenario, ci fa percepire il testo come maggiormente irregolare. Il mio sospetto è che ci troviamo di fronte a una
versione corrotta di una lauda nata in doppi quinari, e più precisamente a un processo di trasformazione di un modulo metrico forse
sentito come arcaico e comunque minoritario rispetto al verso per
eccellenza del repertorio laudistico confraternale, l’ottonario. D’altra
IL VERSO DI IACOPONE
127
parte la quartina monorima, in cui si organizzano i più antichi doppi
quinari e che è propria anche dei due planctus in doppi quinari che
ho già analizzato, può essere tradotta nella strofe zagialesca tipica del
repertorio laudistico solo posizionando una rima fissa in ultima sede.
Ma si tratta, ripeto, solo di un sospetto, che si scontra con l’implicazione, certo molto onerosa, che l’eccellente Urbinate attinga per
questo componimento da un modello già pesantemente corrotto 32.
Ricapitolando, eccezion fatta per Peccatore, or que farai?, la versificazione delle laude dell’Urbinate attribuite da Rosanna Bettarini a
Iacopone sembra in realtà prestarsi a una piena razionalizzazione e
l’escursione sillabica sembra rientrare nei limiti indicati a suo tempo
da Contini, i cui presupposti teorici ho tentato di precisare al di là
dell’astratta nozione di anacrusi.
Nelle altre laude iacoponiche dell’Urbinate di cui la Bettarini offre un’edizione critica sulla base di una recensio completa, la situazione non è altrettanto rassicurante. Le laude sono in tutto sei, comprese 61 Quando t’allegri e 70 Donna de paradiso, per le quali la studiosa
rimanda all’edizione di Contini nei Poeti del Duecento, limitandosi a
offrire le modifiche emerse dalla recensio e, per Quando t’allegri, l’apparato delle varianti 33. Le prime tre, 13 O regina cortese, 62 Oimè lascio dolente e O peccator dolente, quest’ultima non compresa nelle edizioni Ageno e Mancini e quindi estranea al canone di cui si è detto,
sono immuni da escursioni sillabiche, con l’eccezione del v. 7 di O
peccator dolente, in settenari doppi, la cui ipermetria riguarda la prima
sillaba atona del secondo emistichio, non necessaria alla sintassi, che
si può inoltre ritenere in sinalefe con l’ultima vocale del verso precedente: « Tu di’ ben perdonare
a.cchi.tt’ha fatto offesanza ». Negli
32
Ad ogni modo faccio notare che dei 38 versi complessivi di Peccatore, or que farai?
20 sono interpretabili come doppi quinari, solo 12 come ottonari, quasi tutti regolari;
degli altri cinque, di nove sillabe, due potrebbero essere ricondotti al doppio quinario
con semplici integrazioni: 20 « e.mectaràte gran[de] pagura », 37 « nanti ke veng[h]i
a.ccquell[e] ore ». Il solo settenario sicuro è il secondo verso della ripresa « quando verrà
la morte », che, nell’ipotesi di una riscrittura responsoriale della quartina monorima, potrebbe essere stata ricavata dalla prima strofe del componimento originario. Vanno inoltre notate le assonanze in ultima sede nelle strofe 2, 3, 7 e 8, il cui valore nella versificazione di Iacopone potrebbe essere precisato solo da uno studio complessivo del sistema delle omofonie, di cui ancora non disponiamo.
33
Jacopone e il Laudario Urbinate cit., pp. 19-120.
128
MARIA SOFIA LANNUTTI
altri tre componimenti si registrano ipermetrie più rilevanti che cercherò di analizzare.
In Quando t’allegri, lauda in doppi quinari, alle oscillazioni ammesse dal sistema che ho descritto se ne aggiungono altre non razionalizzabili. Prima di entrare nello specifico, va detto, con le parole di
Contini, che il componimento è « tra le laude più diffuse, interpolate
e rimaneggiate di Iacopone » 34, per cui la presenza di ipermetrie abnormi potrebbe dipendere da uno stato testuale innovato sin dai piani più alti della sua tradizione manoscritta. Ad ogni modo, la versificazione di Quando t’allegri nel testo restituito da Rosanna Bettarini
sembra rivelare una sistematica estensione dei contesti metrici e fonetici in cui abbiamo visto finora realizzarsi la maggior parte delle
escursioni sillabiche. L’estensione riguarda sostanzialmente il fatto che
di norma e non eccezionalmente le figure metriche interversali non
si realizzano, in questa lauda, solo tra i due emistichi di uno stesso
verso, ma anche tra la fine di un verso e l’inizio del successivo. Vediamo qualche esempio. L’ipermetria del primo emistichio del v. 9
« Ornato te veggio », senario anziché quinario, può essere neutralizzata interpretando la prima sillaba atona come ultima del verso precedente « ... vestito? Or- /-nato te veggio », anche se a dire il vero
rimane il sospetto che il testo originario fosse « Te veggio ornato » o
« Veggio.te ornato », da leggersi come regolare quinario con sinalefe.
In questo caso comunque lo slittamento della sillaba sarebbe addolcito dalla possibilità della sinalefe, possibilità che manca nei versi inizianti per consonante, ad esempio nei vv. 16-17 « Con cui t’aragnasti
che ’l t’à sì pelato? / Fo acqua bollita
che ’l t’à sì calvato? ».
Devo dire che anche qui si ha il sospetto che il testo potesse in origine essere « Cui t’aragnasti
t’à sì pelato? / Acqua bollita
t’à
sì calvato? », cioè in regolarissimi doppi quinari, accresciuti da un
procedimento di esplicitazione linguistica. Ad analoghi, più modesti
procedimenti di esplicitazione linguistica fanno pensare i numerosi
che più spesso dichiarativi-causali, tante volte sovranumerari a inizio
di verso, come nel caso dei vv. 29-30 « Ohimè dolente
or so’
nel malanno / ché ’l corpo è vorato
e l’alma en ardura », dove
potrebbe essere stato aggiunto anche or.
34
Poeti del Duecento cit., II, p. 108.
IL VERSO DI IACOPONE
129
Più di una volta ci troviamo di fronte a emistichi di misura settenaria, come 76b « a veder mio mercato », 56a « menaccianno a la
gente », 72a e 72b « che te guarden dai vermi
che te sto a devorare », 77a « che me veia iacere ». Nel primo caso, la misura settenaria non è incompatibile con il modello metrico, perché le due sillabe
atone iniziali possono essere assorbite, per così dire, dal’emistichio
precedente, grazie alla sinalefe tra venire e a: « Ma falli venire a ve- /
-der mio mercato ». Ma negli altri quattro casi, i soli se non erro di
tutto il componimento, la misura settenaria non trova alcuna giustificazione e non è quindi a mio avviso irragionevole pensare a delle innovazioni. Per 72a, 72b e 77a si tratterebbe del solito che non strettamente necessario alla sintassi, mentre in 56a si può suppore ad esempio un menaccian la in luogo di menaccianno a la, che è compatibile
con il contesto linguistico.
In Donna de paradiso, lauda in strofe zagialesche di settenari, le
ipermetrie sono in tutto sei e due di esse possono essere considerate
solo apparenti, cioè dovute alla presenza di vocali virtuali. È il caso
del v. 25 « el figlio mio tormentare », dove l’articolo el è passibile di
aferesi (« ’l figlio mio tormentare ») oppure può essere letto in sinalefe con la vocale finale del verso precedente, a maggior ragione se si
considera il modello del settenario doppio; è anche il caso del v. 128
« Ioanni, figlio novello », dove Ioanni è passibile di apocope: « Ioan,
figlio novello ». L’ipermetria del v. 69 « ennella croce se stende » può
essere anch’essa risolta mediante una sinalefe con il verso precedente,
tanto più se si considera il carattere pleonastico della prostesi. Pongono un ulteriore problema altri due versi crescenti, il v. 56 « Soccurri,
piena di doglia » e il v. 76 « E io comenzo el corrotto », dove l’ipermetria è determinata da sillabe atone sovranumerarie a inizio di strofe, per le quali è necessario ipotizzare una concatenazione interstrofica, o meglio tra ultimo verso della ripresa e primo verso della strofe,
se è vero che la ripresa veniva ripetuta dopo ogni strofe (ma dal
punto di vista metrico non c’è differenza, dal momento che la rima
fissa alla fine di ogni strofe è identica alla rima finale della ripresa).
Ammettere una concatenazione interstrofica significa naturalmente
ampliare ancora i contesti di realizzazione delle figure metriche interversali. La rima fissa è in -ATO, per cui si avrebbero le seguenti soluzioni, la seconda con possibilità di sinalefe tra due versi: « ... -ATO.
Soc- / -curri, piena di doglia » e « ... -ATO. E / io comenzo el corrotto ». Devo dire però che per queste ipermetrie non mi sembra ir-
130
MARIA SOFIA LANNUTTI
ragionevole pensare a delle innovazioni, che sarebbero in realtà di
poco conto: al v. 56, Soccurri può aver sostituito un originario Curri,
forse per influenza del Soccurri che apre le strofe 5 e 6; al v. 76 « E io
comenzo el corrotto », potrebbe essere stata aggiunta la congiunzione
iniziale. L’unica ipermetria davvero importante del componimento è
quella del v. 28 « Crucifige crucifige! », che è in latino ed è uno
schietto ottonario che non lascia margine ad alcun ritocco. L’ipotesi
che si può tuttavia formulare si appoggia ancora alla concezione doppia dei versi e alle figure metriche interversali. In questo caso, infatti,
se si legge il verso ipermetro come primo emistichio del settenario
doppio, una sinalefe tra crucifige e omo permetterà comunque di ripristinare la misura complessiva di 14 sillabe: « Crucifige crucifige!
Omo che se fa lege ».
Con l’ultimo componimento anisosillabico che ci rimane da esaminare tra quelli editi dalla Bettarini, Omo, de te me lamento, entriamo nel regno dell’ottonario-novenario, considerato da Contini « il
seme del selvoso, abnorme anisosillabismo jacoponico » 35. I versi novenari, diffusi in tutto il componimento, si concentrano maggiormente nelle strofe 11, 12 e 13, che sembrano assumere il novenario
come verso base, raggiungendo in due casi la misura decasillabica. La
maggior parte delle ipermetrie è dovuta alla presenza di monosillabi
in prima posizione, quasi sempre pleonastici. Si tratta dei soliti che,
talvolta ca, o delle congiunzioni e e ma. Si è detto che anche l’ottonario può essere interpretato, in questo tipo di versificazione, come
verso doppio, ed è per questo che anche per esso si possono ritenere
ammissibili le soluzioni proposte per il settenario o doppio settenario
e soprattutto per il doppio quinario, il più soggetto a realizzazioni irregolari. Va detto che due versi, il v. 90 « La carne, el diavolo, el
mondo » e il v. 102 « Fugi da la man pietosa », interpretati nell’edizione come novenari, possono essere in realtà letti come ottonari.
Per gli altri, valgono i principi che ho indicato, per cui le sillabe atone iniziali possono essere lette come sillabe finali del verso precedente e essere coinvolte nelle figure metriche interversali, anche nei casi
di sillabe atone sovranumerarie a inizio di strofe, a maggior ragione
se si considera che la rima fissa -ARE è passibile di apocope, e che
35
Esperienze cit., p. 186.
IL VERSO DI IACOPONE
131
pertanto facilita l’assorbimento della sillaba sovranumeraria a inizio di
strofe, anche quando cominci per consonante, secondo il solito meccanismo, comune alle rime interne ipermetre del repertorio cortese.
Eccone la casistica: v. 46 « ... -ARE. El / mio pate sì m’ha mandato »;
v. 67 « ... -ARE. A / la carne engannar te lassi »; « ... -ARE. El / mondo se mustra piacente »; v. 81 « ... -ARE. Le / demonia te vo pur
guatanno »; v. 88 « ... -ARE. Co- / -tanti nemici hai dentorno ». Va
notato che il v. 81, che apre la seconda delle tre strofe a prevalenza
novenaria, è addirittura un decasillabo e rimane pertanto ipermetro,
inducendoci ancora una volta a valutare la possibilità dell’innovazione (si può ad esempio pensare che demonia abbia sostituito un originario demon o che sia stato aggiunto pur). L’altro decasillabo del
componimento, il v. 85 « E non voglion c’arsagli enn-estato », situato nella stessa strofe, è compatibile con il modello ottonario grazie
alla sinalefe (« ... spogliato, e non / voglion c’arsagli enn-estato »), ma
mi sembra comunque verosimile che la e prostetica di estato abbia in
realtà un valore virtuale e sia passibile di aferesi.
Anche nelle altre due laude per le quali disponiamo di un’edizione critica condotta su tutti i testimoni, 69 O dolce amore e 2 Fugo la
croce, edite da Lino Leonardi, la casistica delle ipermetrie non è diversa da quella che ho descritto finora 36. Va detto che in O dolce
amore, la cui strofe è costituita da moduli di due quinari seguiti da un
ottonario, le ipermetrie sono razionalizzabili secondo il solito sistema
anche nel caso dei versi decasillabi in sede ottonaria, come ad esempio il v. 12 « ch’io non mora abracciato d’amore », le cui prime due
sillabe appartengono idealmente al verso precedente, passibile di apocope: « ... soffrire ch’io non / mora abracciato d’amore ». Fa eccezione il solo v. 75 « con lo sposo ch’è gioia d’amore », per il quale le
figure metriche interversali non sono ammissibili e che pertanto rimane crescente di una sillaba (si può naturalmente congetturare l’eliminazione della relativa espressa da ch’è: « con / lo sposo gioia d’amore »). Anche in queste due laude sono inoltre presenti le ipermetrie a inizio di strofe, cinque in O dolce amore e quattro in Fugo la
croce, ancora risolvibili grazie alla possibilità delle figure metriche in-
36
L. LEONARDI, Per il problema ecdotico del laudario di Jacopone: il manoscritto di Napoli,
in Studi di filologia italiana, XLVI (1988), pp. 13-85; le due edizioni si trovano alle pp.
42-64 e 65-83.
132
MARIA SOFIA LANNUTTI
terversali, dal momento che la rima fissa è passibile di apocope (-ORE
in O dolce amore e -ARE in Fugo la croce). Vediamone la casistica: O
dolce amore: v. 4 « ... -ORE. A- / mor, ch’ài menato »; v. 13 « ... -ORE.
Se / non perdonasti; v. 22 « ... -ORE. L’a- / -more sta appeso » (ma
in questo caso sarebbe passibile di apocope anche amore nel corpo del
verso); v. 58 « ... ORE. O / croce, io m’appicco »; v. 67 « ... -ORE. Se
/ moglie e marito ». Fugo la croce: v. 3 « ... -ARE. Non / pozzo portare »; v. 5* « ... ARE. Io / non trovo posa »; v. 31 « ... -ARE. Eo / pozzo parlare »; v. 35 « ... -ARE. E / me fatto à muto ».
Ricapitolando ancora una volta, nelle laude ad attestazione pluritestimoniale, la cui recensio rivela l’esistenza di più famiglie di manoscritti, assistiamo a un ampliamento dei contesti in cui si inscrivono il
principio dell’equivalenza di cadenza tronca piana e sdrucciola e la
possibilità delle figure metriche interversali. Si passa cioè da ipermetrie situate nella quasi totalità dei casi all’inizio del secondo emistichio di versi doppi (è la fenomenologia che abbiamo riscontrato nelle laude in doppi quinari tràdite dal solo Urbinate) a ipermetrie situate a inizio di verso (Quando t’allegri, Donna de paradiso, O dolce
amore, Omo, de te me lamento) o addirittura a inizio di strofe (Donna
de paradiso, Omo, de te me lamento, O dolce amore, Fugo la croce).
Rimane a questo punto da vagliare la casistica delle ipometrie,
che risultano davvero eccezionali. Alcune di esse sono in realtà solo
apparenti, perché riguardano il secondo emistichio di versi preceduti
da cadenze sdrucciole, come ad esempio nel già citato v. 10 « ké.nno
vo dicano
villania » della lauda II in doppi quinari attestata dal
solo Urbinate. Non considerando il caso particolare di Peccator or que
farai?, in tutti i componimenti che ho analizzato si registrano, se ho
visto bene, tre sole ipometrie reali, nella lauda IX dello stesso gruppo
tramandato dal solo Urbinate, ai vv. 35 « plu vilmente », 161 « li taupini », 217 « glorïosa », che costituiscono la cauda strutturalmente quinaria di strofe di endecasillabi, e per i quali l’ipotesi dell’innovazione
mi sembra questa volta davvero la più economica 37.
In Peccator or que farai? le ipometrie rispetto alla misura novenaria
sono invece numerose, ma, come si è visto, siamo di fronte all’eccezionale compresenza di due modelli metrici, sebbene si debba a mio
37
BETTARINI, Jacopone e il Laudario Urbinate cit., pp. 513-519.
IL VERSO DI IACOPONE
133
avviso valutare attentamente la possibilità che il testo non sia attendibile, possibilità che Contini non esclude per un’altra delle laude in
novenari, Molto me so’ delongato 38. Va comunque detto che la questione può essere in fondo liquidata sul piano operativo, dal momento che quel testo, per quanto incerto, è comunque l’unico che
abbiamo.
Ed eccoci alle conclusioni, certo non facili vista l’ampiezza e la
delicatezza degli argomenti affrontati. Né ci si può illudere che l’analisi che ho condotto sui testi editi da Rosanna Bettarini e da Lino
Leonardi possa esaurire la tipologia dei problemi posti dalla versificazione dell’intero laudario di Iacopone. Si può solo tentare di tradurre
la serie di valutazioni e di proposte interpretative in indicazioni utili,
si spera, per la futura edizione critica delle singole laude condotta su
una recensio completa.
Dapprima il problema della suddivisione in versi, per il quale si
dovrà a mio avviso cercare di adottare un criterio che tenga conto
della ricorrenza degli stessi schemi di rime in componimenti costituiti da settenari e in componimenti costituiti da ottonari. Credo inoltre che si debba tendere a privilegiare la scelta del verso doppio, se è
vero che il verso doppio è espressione di una particolare sensibilità
prosodica ancora debitrice nei confronti della poesia ritmica mediolatina, a maggior ragione se si considera il fatto che in quasi tutti i
componimenti la strofe è costituita da un numero pari di versi. Solo
nel caso della strofe zagialesca la disposizione in versi doppi potrebbe
forse rischiare di rendere meno immediata la percezione di una struttura strofica così peculiare.
Riguardo all’anisosillabismo, che è determinato quasi sempre dalle ipermetrie, il principio di equivalenza tra cadenza tronca piana e
sdrucciola, che inscrive nel sistema di versificazione romanzo la possibilità astratta dell’aggiunta di sillabe a inizio di verso, si integra con
l’eventualità che le vocali, pur essendo presenti e pronunciate, non
rientrino nel computo sillabico del modello metrico, come nel caso
delle vocali in sinalefe, ma anche, con ogni probabilità, nel caso delle
vocali passibili di apocope, di aferesi, di sincope. La presenza di que-
38
« Se il testo tramandato è corretto, i versi, novenarî di base, ammettono qualche
volta l’aferesi (ottonarî), più spesso l’anacrusi (decasillabi), che peraltro può essere doppia
(endecasillabi) » (Poeti del Duecento cit., II, p. 128).
134
MARIA SOFIA LANNUTTI
ste vocali in fine di verso permette inoltre di accrescere il numero
teorico di sillabe sovranumerarie ammesso dal principio di equivalenza tra cadenza tronca piana e sdrucciola, ampliando la serie di versi
ipermetri razionalizzabili. L’analisi ha evidenziato una gradualità nella
quantità e qualità dell’anisosillabismo, che va dall’assenza di escursioni, alla loro presenza all’inizio del secondo emistichio, del verso, della strofe. Solo il lavoro filologico permetterà forse di precisare se nel
complesso l’estensione dei contesti possa dipendere da procedimenti
di innovazione che non comportano un evidente peggioramento del
testo, insomma da una riscrittura di scuola. Ma va da sé che, se anche questa interpretazione si rivelasse la più attendibile, non giustificherebbe comunque operazioni pesantemente correttorie sul testo
tràdito, una riscrittura della riscrittura, e si potrebbe semmai solo riservare in apparato un posto a eventuali commenti o ipotesi.
Nelle venti laude studiate, il numero esiguo di versi ipermetri
abnormi (non più di sei su circa 350 escursioni), sembra indicare che
il sistema funziona, ma è di certo necessario che la sua reale efficacia
sia comprovata su un più ampio numero di componimenti. Credo
quindi che allo stato attuale delle conoscenze sia quanto meno avventato considerare i versi ipermetri abnormi alla stregua di lezioni
erronee, con le inevitabili conseguenze sulla ricostruzione dei rapporti tra i manoscritti. La loro presenza dovrebbe tuttavia suonare a
mio avviso come un campanello di allarme, che non smetta di farsi
sentire fino a quando il lavoro filologico su tutti i testi del laudario
non sia giunto al termine. Solo allora potremo nuovamente valutare
la versificazione di Iacopone con migliore cognizione di causa e cercare, ancora con Contini, « di amministrare con equilibrata economia
conservazione e congettura » 39.
39
Esperienze cit., p. 178.