Pietro Scanu
a mio padre
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
Pietro Scanu
La battaglia
di Cornus
romanzo storico
Condaghes
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
Grafica di sovraccoperta a cura di Solter – Cagliari.
La battagLia di cornus
Collana di narrativa
“I Dolmen”
Pietro Scanu
La battaglia di Cornus
ISBN 978-88-7356-189-7
© 2012 Condaghes – Tutti i diritti riservati
Condaghes s.n.c. – via Sant’Eulalia n° 52 – 09124 Cagliari (CA)
telefono e fax: 070 659 542; e-mail:
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
«È il mar Mediterraneo,
che vaglia le stirpi alla potenza e alla gloria,
in ogni flutto freme la battaglia.»
Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi
Gabriele D’annunzio
Cornus, 214 a.C.
La norma era stata disattesa. Quel pomeriggio nell’ampia vallata
a circa mezz’ora di cammino da cornus, si sentiva un insolito,
inaspettato brulichio di voci proveniente dalle vasche adibite alla
produzione della porpora. schiavi e servi avevano scompaginato
le squadre e interrotto i serrati ritmi di lavoro; le loro sagome
ora, non più specchiate nelle vasche, sembravano risucchiate
da capannelli umani multicolore. Vagavano e discutevano
animatamente, scambiandosi strattoni, con i visi imperlati di
sudore. Persino i sovrintendenti, di solito attenti al loro operato
e all’ordine, approfittavano del momento di tranquillità mentre
il loro capo, asmun, si era assopito.
Era una pausa insolita, trascorsa diversamente da altre
volte; doveva trattarsi di qualcosa di importante, a giudicare
dal modo con cui si accapigliavano.
gli unici a essere rimasti fermi, immobili nelle loro postazioni sui costoni della vallata, erano i soldati, attenti a tenere
d’occhio il territorio circostante e pronti a intervenire al suono
del corno di asmun.
cespi ameni di tamerici, cresciuti spontaneamente fra le
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
vasche, e quel giorno bagnati dalla pioggia notturna, emanavano
un effluvio di profumi che il maestrale teso e salmastro trascinava per tutta la valle: era l’unico sollievo al fetore nauseabondo
dei processi di macerazione cui erano sottoposti i molluschi
monovalvi, che servi e schiavi, avvezzi alla fatica e obbligati a
lavorare in mezzo a quel fetore, mettevano a stabulare in vasche
a tenuta idrica.
il primo passaggio della produzione della porpora prevedeva la rottura dei gusci delle conchiglie messi poi a macerare
per un breve periodo da cui bisognava togliere i resti calcarei.
nel passaggio successivo si aggiungeva sapientemente acqua
marina. In base alla quantità utilizzata si ottenevano pigmenti
di colore variabile per intensità: dal rosso cupo fino al violaceo.
La porpora veniva adoperata per tinture indelebili su lana e cotone; considerata la quantità di conchiglie necessaria, il lavoro
degli uomini e la fatica che dovevano metterci, la porpora era
particolarmente apprezzata e ricercata fra i ceti altolocati.
L’attività degli schiavi aveva prodotto enormi cumuli di
conchiglie frantumate, sistemati lungo la periferia sud delle
vasche, che ammassati in banchi emanavano un odore fetido,
ottimo richiamo per nugoli di mosche affamate. Ecco il perché
della scelta di impiantare le vasche a debita distanza dal centro
abitato di cornus.
il fragoroso irrompere di una carretta nella vallata, dall’accesso verso il mare, fece svegliare di soprassalto asmun, ancora
in preda ai fumi della sbornia della sera precedente. Egli era
conosciuto anche con il buffo nome di “fauno”, per la particolare conformazione delle sue orecchie appuntite simili a due
faraglioni. in ambiente punico era usuale appioppare soprannomi o apostrofare le persone con qualche caratteristica legata
al fisico e Asmun non ne era stato sottratto.
– Per bes potente! – urlò indignato. – Possiate essere inghiottiti dagli inferi, branco d’incapaci! Pensate forse di farmi
scuoiare vivo dai padroni?
al richiamo di asmun si creò un gran silenzio e tutti
tornarono alle loro postazioni sparpagliandosi rapidamente;
nella confusione del momento alcuni finirono dentro le vasche
sollevando schizzi multicolore da cui riemersero con il colore
della pelle che li faceva sembrare divinità infernali o popoli
ancora sconosciuti.
L’arrivo del carretto con un nuovo carico di molluschi
catturò l’attenzione dei lavoratori che si avvicinarono per le
operazioni di scarico riportando tutto all’ordine consueto.
asmun si avvicinò a un catino dove c’era dell’acqua pulita
e vi immerse avidamente il viso per togliere i segni del riposo.
Mentre dei rigagnoli gli solcavano le guance scendendo poi sulla
tunica, avvertiva un senso di amaro in gola che lo infastidì.
sapeva molto bene di aver corso un brutto rischio perché se
fosse arrivato uno dei padroni e l’avesse trovato a dormire non
l’avrebbe di certo passata liscia.
nel frattempo iosto galoppava verso valle, tenendosi ben
stretti i suoi vent’anni, e i riccioli, che ondeggiavano sulla sua
fronte, erano meno intricati e spettinati dei pensieri che gli
aleggiavano nella mente. si era lasciato alle spalle le miniere
sotto le aspre rocce di Monteferro, adagiate nella profonda vallata del fiume Sirisi e immerse tra fitti boschi di lecci e sughere
secolari. Fiancheggiava il greto del fiume sotto una tettoia di
agrifogli che, in alcuni tratti, superava di tre volte l’altezza di
un uomo, attorniato dal suo seguito: una decina di amici con i
quali era cresciuto e aveva condiviso tutto.
in quei luoghi gli tornarono in mente le gesta di quando,
ancora ragazzo, sfidava gli amici in prove di coraggio e virilità fra le cascatelle del fiume, gli scivoli e le piscine. Una
prova consisteva nell’immergersi completamente nudi in pieno
inverno e resistere ai getti di acqua gelida il più a lungo possibile. un’altra era dedicata alla pesca di trote a mani nude,
fra le acque spumeggianti, insidiandole nelle rocce sotto cui si
nascondevano.
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
Fin da allora Iosto era sempre stato per tutti «il figlio di
ampsicora», signore di cornus, e aveva sempre avuto una
posizione privilegiata in tutto ciò che faceva.
gli amici di sempre quella mattina lo stavano scrutando con
occhi attenti per la grande novità che lo attendeva: Ampsicora
gli aveva affidato ufficialmente l’incarico di controllare gli uomini che lavoravano nelle miniere, nei cantieri di estrazione del
legname per imbarcazioni, quelli destinati all’allevamento del
bestiame e alla coltura dei campi, senza trascurare gli addetti
alla lavorazione della porpora.
c’era il reale pericolo che tutta quella massa di schiavi
potesse ribellarsi al pensiero di cambiare padrone, proprio il
giorno in cui era giunta la notizia dell’arrivo dei legati romani
al senato cornuense e delle loro richieste.
In quell’occasione fu offerta a Iosto la possibilità di sedere
in senato al fianco del padre. In giovane età, quando appena
iniziavano a delinearsi i tratti d’uomo, si trovò davanti, avvolti
nelle loro tuniche preziose, gli anziani senatori appartenenti
all’oligarchia formata da ricchi mercanti e nobili latifondisti di
stirpe punica.
Questi avevano beneficiato per decenni di una pace cresciuta all’ombra dell’egida protettiva di cartagine, che aveva
imposto una monocoltura cerealicola e il divieto di coltivare
diversi tipi di frutta ma che, per contro, aveva garantito lucrosi
scambi con vari centri lungo la costa, potendo così contare su
ingenti risorse finanziarie per acquistare schiavi e mercenari
da utilizzare nell’esercito, lasciando i cittadini liberi di occuparsi del commercio e di altre attività. A ciò si aggiungeva che
l’utilizzo di mercenari al posto di truppe cittadine aveva tutta
un’altra serie di vantaggi: il loro mancato pagamento in caso di
ribellione o decesso in battaglia; le città di appartenenza potevano dissociarsi dal loro operato nel caso si fossero macchiati
di gravi atrocità e nefandezze durante le missioni.
Agli ufficiali ciò che interessava maggiormente era la glo-
ria, che per i mercenari invece non contava niente; essi erano
interessati molto più a salvare la propria pellaccia durante il
combattimento e intascare i soldi per campare fino alla battaglia
successiva. Evitavano di farsi chiamare mercenari, cercando
con i giusti appellativi di mettere in risalto la propria specialità:
arcieri, frombolieri, cavalieri, fanti, e così dicendo.
solo ai rampolli dell’aristocrazia era consentito di far
parte della ristretta cerchia di ufficiali che avrebbe comandato
l’esercito. Questo spettò anche a iosto la cui preoccupazione
principale era allevare cavalli ed essere conteso dagli ufficiali
di stanza a cornus. il padre ampsicora era orgoglioso delle
abilità del figlio che, nonostante l’indole mite, aveva dato prova
di sapersela cavare molto bene con la spada.
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Esattamente ventitré anni prima, a cartagine capitò di non
poter adempiere ai pagamenti dell’esercito mercenario per via
delle gravi difficoltà in cui versava la città. Tale esercito era formato da componenti etniche molto variegate; vi erano arruolati
soldati celti, iberi, greci, liguri, campani, baleari, ma perlopiù
libici. Quando questa moltitudine di specializzati venne a sapere
delle difficoltà economiche di Cartagine decise di assediarla.
La città riuscì ad allontanare il pericolo grazie all’intervento di
Amilcare Barca che sconfisse i rivoltosi capeggiati da Matho.
La fiamma della rivolta giunse anche in Sardegna contagiando i mercenari presenti sull’isola, che uccisero il loro
comandante Bostare e iniziarono a infierire sui cartaginesi
presenti nel territorio.
Persino i rinforzi inviati da cartagine per sedare i tumulti
non furono sufficienti.
La città di Cornus si salvò grazie alla lungimiranza di Ampsicora, il quale riuscì a isolare i facinorosi che fomentavano i
mercenari, commisurandogli delle pene esemplari. nelle altre
parti dell’isola i mercenari ebbero paura della reazione dei sardi
e chiesero aiuto a roma.
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
in altre circostanze roma avrebbe fatto orecchie da mercante, ma in quell’occasione, data la sempre maggiore richiesta di
approvvigionamento da parte dell’esercito e il pericolo costante
rappresentato da cartagine, pensò bene di inviare le sue truppe
comandate dal console tiberio sempronio gracco. Quest’ultimo
sbarcò a Karales e, dopo aver messo rapidamente in sacco la
città, occupò senza grossi impedimenti altri centri importanti,
come nora, bitia, sulcis, neapolis e le fortezze di Monte Luna,
Monte sirai e barumini, grazie all’aiuto dei mercenari rivoltosi
e alla scarsa resistenza degli indigeni. durante la campagna militare, gracco aveva catturato una massa enorme di schiavi che
fu inviata a roma determinando un pesante crollo del prezzo.
Furono resi grandi onori alla famiglia di gracco anche
perché fu il primo della sua gens che riuscì a diventare console,
sollevandone così le sorti. gracco poté arrivare a calpestare le
sacre pietre del Campidoglio sacrificando solennemente un toro
davanti al tempio massimo dedicato a giove. La cittadinanza
proseguì i festeggiamenti in suo onore per altri tre giorni.
undici anni dopo, ormai in possesso del territorio meridionale della sardegna compresa la pianura del campidano di
Karales, roma decretava la provincia della sardegna e della
corsica governata dal pretore Marco Valerio Levino, con pieni
poteri civili e militari.
nel pendio e ben esposti alla vista dei difensori. Alti bastioni
accompagnavano la cinta muraria che si presentava singola sul
lato degradante la costa e doppia sul lato rivolto ai monti. In
direzione settentrionale poi l’altopiano proseguiva sul promontorio di Corchinas, unito da una lingua di terra su cui spiccava la
cittadella fortificata con l’acropoli a picco sul mare.
Ai piedi dell’altura scorreva il fiume alla cui foce erano stati
costruiti il porto e la periferia cittadina.
I legati romani, col compito di portare un’ambasceria a
Cornus, dopo essere partiti da Karales e aver attraversato il Campidano, si apprestarono a raggiungere la sommità dell’altopiano
prospiciente il mare su cui era arroccata la città.
Avanzavano sul ripido sentiero d’accesso alla porta est, rasentando le possenti mura di cinta e cogliendo i particolari della
città che già gli erano stati riferiti dalle spie.
Cornus, posta sull’altopiano di Filigalzu a due giorni di
marcia da Tharros a sud e da Bosa a settentrione, era ben fortificata: la si poteva raggiungere attraverso tre accessi, tutti posti
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La notizia dell’arrivo della delegazione romana era stata
annunciata in città dalle sentinelle e aveva scatenato una gran
confusione tra il popolo che, senza pensarci due volte, abbandonò
le proprie abitazioni, lasciando perdere i lavori domestici e le botteghe, interrompendo il lavoro, per precipitarsi al centro. Frotte
di ragazzini schiamazzavano nei vicoli facendo a gara con i loro
cavallini di ferula a chi arrivava per primo sulla strada del senato.
Furono in pochi a rinunciare, in quel freddo giorno di febbraio, al passaggio dei romani avvolti in stole di pelliccia agitate
dal maestrale. Era un’occasione da non perdere per i cornuensi
che mai prima di allora avevano avuto modo di vedere un romano
pur conoscendo bene, attraverso i racconti, le loro gesta crudeli
nel cercare di imporsi su altre popolazioni. Solo Annibale in
quel periodo era stato in grado di dare filo da torcere ai romani
facendo ricorso agli elefanti.
Nel vedere passare i legati romani per le vie di Cornus, molti
cittadini ebbero la netta sensazione di essere attraversati da un
fremito di paura, avvertendo il materializzarsi di una creatura
mostruosa che di lì a poco avrebbe potuto ghermirli.
Un gruppo di giovani baldanzosi, non curandosi delle buone
maniere e infischiandosene delle tradizioni di ospitalità, prese a
insultarli; ma gli ambasciatori proseguivano impassibili verso il
senato con un incedere lento e ritmato.
Al loro arrivo in senato si creò un silenzio quasi irreale;
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
Vibio Crispo, Eprio Marcello e Metio Sabino si presentarono
davanti ad Ampsicora e all’Assemblea.
Iosto, teso e immobile, sentì il sangue ghiacciare nelle vene.
– Ave Ampsicora, principe di Cornus! – proruppe Vibio
sollevando il braccio destro e l’indice della mano nel classico
DiGituS SalutariS. Egli, appartenente a un ramo cadetto della
nobiltà romana, era il più anziano e di gran lunga il più astuto
dei tre; aveva la rara dote di accompagnare le parole con una
buona mimica facciale e un movimento suadente delle braccia,
che avrebbe messo a proprio agio chiunque.
ampsicora rispose al saluto e, dopo averli squadrati da
testa a piedi, prese la parola per chiedergli il motivo della visita.
Vibio, con molta enfasi, sfoderò la sua grande dote oratoria e
spiegò i vantaggi che cornus avrebbe potuto ottenere entrando
a far parte delle città amiche di Roma; in atto di convincimento
raccontò delle altre città sarde che avendo dimostrato valide
collaborazioni si erano già meritate il titolo di Sociae.
rosso in viso dalla rabbia, ampsicora, consapevole che se
fosse sceso a patti con i romani avrebbe corso un bel pericolo,
si trattenne dal desiderio di urlare e disse: – Prevaricatori si può
essere in due modi, o per un gesto compiuto involontariamente,
o per indole!
a queste parole preferì rispondere Eprio: – L’ora delle
chiacchiere è finita e i rappresentanti di Roma vogliono sapere
se il popolo di cornus preferisce stare dalla parte di cartagine
o di roma. decidete la soluzione: la pace o la guerra.
ampsicora si sentiva ribollire sempre più il sangue nelle
vene e, sostenuto dalle grida di incitamento dei senatori, guardando ben dritto nelle pupille di Vibio, disse: – scegliete voi la
soluzione che più vi fa comodo, o degni rappresentanti della stirpe
romana, affinché sappiate che Cornus non teme nulla e nessuno.
sentendo quelle parole Vibio puntò l’indice e facendolo scorrere a semicerchio verso tutti i senatori esclamò: – E guerra sia!
alte urla, liberatorie della tensione che si era creata in quei
pochi minuti, si levarono nella sala dalle bocche dei senatori
che ormai inneggiavano allo scontro.
ampsicora stava in silenzio, fermo, in piedi a seguire con
lo sguardo le sagome dei legati che si stavano allontanando
dalla sala.
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Iosto fissava il padre e mai come allora notò la veemenza
del suo temperamento e il vigore del carattere. non l’aveva mai
considerato un satrapo in famiglia, con lui era sempre stato un
padre affettuoso e premuroso, gli aveva sempre elargito consigli
preziosi e lo aveva educato secondo i precetti informativi nei
quali prevalgono le regole indirizzate alla formazione dell’uomo capace di trarre sostentamento dal lavoro, astenendosi dal
compiere azioni malvagie e disoneste.
ora per ampsicora il solo pensiero, l’unica ragione di vita
era contrapporsi con fermezza ai romani e difendere cornus;
iosto dal canto suo desiderava ardentemente di poter emulare
il padre con la stessa forza d’animo.
Molti senatori riuscirono a leggere sul viso di iosto tali
propositi e si sussurrarono alle orecchie che senz’altro quel
giovane avrebbe presto fatto parlare di sé.
gli applausi della vecchia guardia senatoriale suonarono in
segno di giusta riconoscenza e ammirazione verso ampsicora
e di buon auspicio nei confronti di iosto. ampsicora riprese
la parola; nei suoi occhi vi si poteva scorgere il bagliore del
lampo che avvampa nei cieli, ma con voce pacata e commossa
disse: – Fratelli, l’ultima volta che cornus corse dei pericoli,
undici anni fa, per mano dei mercenari, riuscimmo a rigettare
tali insidie e il popolo fu salvo. stavolta il nemico è molto più
forte e pericoloso. accarezzandosi la folta barba iniziò a camminare a piccoli passi per la sala davanti ai senatori attenti, e
proseguì: – Con le nostre uniche forze Roma ci annienterà;
dobbiamo allearci alle città di Tharros e Othoca, al territorio del
Montiferro, alle popolazioni dell’interno, chiedendo il sostegno
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
anche a cartagine. La guerra resta per noi l’unica strada da
percorrere se vogliamo salvare il nostro popolo dalla tirannia
romana. Rinunciarvi significherebbe la schiavitù.
a questo punto chiese la parola ozbaal, il senatore più
anziano dell’assemblea che, alzatosi in piedi retto su un bastone
di ginepro, aggiunse: – La grande avventura che ci accingiamo
a intraprendere è espressione del volere delle divinità. Il loro
potere è assoluto e dinnanzi a loro il nostro essere non vale
niente. Possa l’osservanza delle prescrizioni rituali portare al
raggiungimento di una vittoria garante della libertà per le future
generazioni.
– dovremo compiere il massimo degli sforzi – aggiunse
ampsicora – per riuscire ad attirare la misericordia delle nostre
divinità Sid Addir, Melquart, Eshmun e Bes. Possano queste
alitare su di noi la forza che ci guidi alla vittoria. Manderemo
quanto prima dei legati che chiedano ai sufeti delle città amiche
di supportarci nello sforzo comune. Fra un mese, nella seconda
decade di marzo, quando le costellazioni avverse ai naviganti
saranno tramontate e nel cielo sorgerà la costellazione di Orione,
il mare sarà di nuovo navigabile verso Cartagine. Solo allora
potremo inviare una nostra delegazione al senato cartaginese
con le richieste di aiuto. Possa tanit misericordiosa rendere i
loro cuori sensibili alla nostra richiesta! – E continuò con parole
rassicuranti: – Mi recherò personalmente dai capi dei territori
dell’interno ai quali siamo legati da una fratellanza di vecchia
data; mi hanno sempre accolto, non mi negheranno l’alleanza, pretenderanno però una buona organizzazione offensiva e
difensiva.
ampsicora dimostrava ancora una volta buone doti strateghe che in parte aveva appreso dai suoi avi e in parte rientravano
nel suo talento innato che gli consentiva di saper analizzare
in modo critico le situazioni con lucidità. Anche in questa
condizione di pericolo riusciva a esprimersi con la massima
diligenza e ad architettare una valida strategia per sbaragliare
gli ostacoli che si frapponevano alla libertà del proprio popolo
e della propria terra.
chiuse l’assemblea dicendo: – domani convocheremo
l’assemblea popolare e in tale occasione daremo la notizia ufficiale agli abitanti di Cornus di quello che si è deciso oggi in
questa sede. Sarà anche un’occasione per chiedere il massimo
appoggio e sostenerci in questo sforzo comune. Infine, esorteremo il sommo sacerdote Mequim affinché possa officiare una
solenne cerimonia sacrificale nel tempio dedicato a Sid Addir
Babi, potente figlio di Melquart, e Tanit.
dopo aver abbracciato a uno a uno tutti gli anziani senatori, ampsicora restò solo con iosto. il ragazzo inizialmente
non osava sollevare lo sguardo verso il padre che, con piglio
deciso, all’improvviso gli disse: – iosto, guardami negli occhi.
Capisco il tuo sgomento per la velocità e l’intensità con cui
questi avvenimenti accadono, ma la vera tempra di un uomo
si vede proprio nei momenti di difficoltà. E stavolta ti assicuro
che ce ne saranno. ormai sei un uomo ed è arrivato il momento
di dimostrare chi sei e quanto vali.
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una grande folla si radunò il giorno seguente nella piana
adiacente la collinetta del tempio. Prese parte tutto il popolo a
eccezione degli schiavi e degli stranieri. a cornus non succedeva quasi mai che la cittadinanza fosse radunata per discutere
di problemi di loro interesse, ma stavolta la motivazione per la
convocazione era davvero grave e urgente e i cornuensi, avendolo intuito, accorsero in massa. ampsicora conosceva bene il
suo popolo e il senso di diffidenza che esso nutriva nei confronti
degli stranieri; avrebbe sfruttato questa sua conoscenza e, con
furbizia, fatto di tutto per trasformare tale sentimento in odio
verso i romani.
Le parole di ampsicora furono molto chiare e spiegarono
bene la complessità e la pericolosità degli eventi cui avrebbe
dovuto far fronte la città; egli informò la folla di voler costitui
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
re un iniziale nucleo compatto su cui imbastire poi una rete di
alleanza che le avrebbe garantito di non restare sola nel grande
progetto di rivolta contro i romani.
– Popolo di cornus, – proruppe – quello che poteva apparire come un destino riguardante solo le popolazioni a sud di
othoca purtroppo oggi coinvolge anche noi.
attanagliata da un forte senso di timore la gente cercò di
smorzare tale sentimento sbottando in un fragoroso applauso
accompagnato da forti grida.
– Il vostro ruolo passivo – continuò – da oggi cambierà!
Come già abbiamo sentito dire dai nostri amici greci a proposito
del pericolo romano: una nube minacciosa è apparsa nei cieli
occidentali! La realtà ci porta a considerare la guerra come l’unica strada da percorrere, se non vogliamo che il giogo romano
sottometta le nostre vite.
un altro boato venne fuori dalla folla.
– Per migliorare le nostre condizioni abbiamo rigettato
indietro le false proposte degli ambasciatori romani! il terrore
della schiavitù deve essere sempre presente nei nostri animi.
una giovinetta di nome narna, sedici anni appena compiuti, di statura non molto alta, si era procurata un posto tra le
prime file e ascoltava attentamente il discorso di Ampsicora,
ma con lo sguardo fissava attentamente Iosto, il suo amore da
ormai un anno.
Egli ricambiava e scrutava attentamente i suoi grandi occhi
neri e i lunghi capelli ricci tenuti in ordine da un klaft; quel giorno indossava gli orecchini che iosto le aveva regalato facendo
invidia alle sue amiche. Erano molto belli, formati da un corpo
centrale a forma di sanguisuga da cui partivano dei pendenti
zoomorfi minuziosamente incisi dalle abili mani degli artigiani
impiegati presso la bottega del nonno di iosto. sua madre, Ellissa, era infatti la figlia del più famoso orafo di Tharros.
il loro intimo scambio di sguardi fu interrotto dal rumoreggiare sempre più intenso della folla quando si accorse della
presenza di un caprone che ampsicora si era fatto portare sul
palco con l’intento di pronunciare un solenne giuramento. con
l’animale di fronte, impugnò un bastone di ulivo e iniziò a percuoterlo e imprecare per se stesso la sorte che procurava a quella
vittima se avesse spergiurato. Poi si rivolse alla folla: – Possa
io ampsicora, principe di cornus, con l’aiuto degli dei, portare
fuori pericolo cornus e i suoi abitanti dall’invasore romano.
Per fare questo non dovrò lesinare la benché minima energia,
poiché coloro i quali hanno paura muoiono a ogni levar del sole,
i coraggiosi muoiono una sola volta. cornuensi, siete con me?
il popolo, radunato ai piedi di ampsicora, rispose in rapida
sequenza tre volte sì. Chi era riuscito a stare nelle prime file
raccontava di aver visto gli occhi lucidi del principe di cornus.
nel salutare e chiudere l’adunata, ampsicora esortò tutti
a partecipare alla solenne cerimonia che il sommo sacerdote
Mequim avrebbe celebrato il pomeriggio nel tempio sovrastante,
dedicato a sid addir babi e tanit.
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il sommo sacerdote, chiamato anche rab, deteneva un
notevole potere derivatogli dal suo ruolo di intermediatore fra
gli uomini e le divinità, quindi degno di massimo rispetto. Egli
gestiva pubblicamente una piccola corte rappresentata da sacerdoti semplici e diverse categorie di inservienti tra cui scaccini,
scrivani, musici, macellatori, barbieri e fornai; era spesso oggetto di derisione per il difetto della balbuzie e per il suo essere
risaputamente taccagno. Era proprio lui ad aver stabilito con
precisione quasi maniacale il tariffario da corrispondere in base
alla tipologia di sacrifici che gli venivano richiesti; tariffario che
aveva poi fatto affiggere all’esterno dei templi e che i ragazzini
si divertivano sistematicamente a pasticciare con il carboncino,
gonfiando i prezzi.
rab faceva spesso la cresta ai creditori ripetendo la frase
con cui tutti cascavano: «Sid ti ricompenserà mille volte di più
nell’aldilà!».
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
Le vittime che venivano immolate durante i sacrifici erano
vitelli, buoi, arieti, uccelli, volatili da cortile, selvaggina e le
modalità del rituale cambiavano in rapporto a quanto veniva
richiesto. L’importante era versare l’importo dovuto a rab e
rispettare la suddivisione delle carni della vittima sacrificata tra
il sacerdote e l’offerente. solo una parte della vittima infatti
veniva bruciata durante il rituale, mentre la rimanente si metteva a bollire in pentola oppure si arrostiva. durante l’opera
di spartizione della carne, nonostante rab sapesse molto bene
che la maggior parte spettava all’offerente, finiva sempre col
prenderla per sé.
La sua famiglia aveva conservato il sacerdozio da ben
cinque generazioni, grazie soprattutto al rapporto di stima che
aveva saputo instaurare con l’aristocrazia oligarchica, detentrice
del potere.
c’erano tre altari esterni. il tempio si presentava a forma di
parallelepipedo allungato e diviso in due lunghi corridoi indipendenti, chiuso da due enormi portoni in legno. due ingressi
indipendenti davano quindi accesso ai vani templari le cui pareti
di fondo si dividevano a loro volta in quattro celle quadrate.
Quelle centrali conservavano una l’immagine di tanit scolpita
su un blocco di trachite rosa, e l’altra un betilo, simbolo aconico
di sid addir babi. nelle altre celle trovavano posto gli altari
focolari. Lungo le pareti laterali del sacello si notavano curiose
aperture contenenti svariati ex voto. un’unica copertura piana,
a terrazza, proteggeva il tetto. nel complesso, quindi, niente di
particolarmente fastoso o monumentale, ma tutto molto sobrio,
senza abbellimenti architettonici né scultorei, all’insegna della
sua funzione principale.
giunti nel tempio gli inservienti avviarono subito nelle
lanterne, disposte lungo la terrazza, la combustione degli oli e
delle essenze aromatiche affinché si potesse dare inizio al rituale
di purificazione. Quando Rab fu al centro della terrazza alzò
le braccia al cielo e cominciò a recitare a voce alta le formule
di richiamo delle divinità nel più completo silenzio dei fedeli.
in un crescendo di invocazioni rab impallidiva sempre più,
tanto da sembrare cadaverico, mentre gli altri sacerdoti, con le
braccia incrociate sul petto, biascicavano formule incomprensibili. abbassate improvvisamente le braccia, rab gridò: – è
giunto il momento!
a quell’ordine i macellatori del tempio fecero rotolare una
dopo l’altra le teste dei buoi. rab prese in mano il cuore ancora
palpitante di uno di essi e continuò la formula: – Possiate voi, o
divinità misericordiose, Tanit e Sid, allontanare l’onta malefica
romana che incombe su cornus!
abbracciò i suoi concelebranti e piegando la testa verso il
basso salutò la folla che ricambiò con un fragoroso e commosso
applauso.
rab era stato messo personalmente al corrente da ampsicora dell’imminente pericolo a cui cornus e i suoi abitanti
stavano andando incontro e sentendosi investito di una forte
responsabilità decise di invocare subito la clemenza degli dei.
Quel pomeriggio rab apriva il corteo diretto verso il tempio, pallidissimo in volto, indossava una candida tunica di lino
su cui spiccavano due stole rosso porpora.
Era preceduto da due giovinetti imberbi con la corona di
mirto in testa e in mano dei torcieri, e seguito da una decina di
sacerdoti sacrificatori, anch’essi in candide vesti, e da musici
con flauti e triangoli. Ancora dietro c’erano gli inservienti del
tempio con i doni votivi rappresentati da quattro buoi da tiro,
prelevati dagli allevamenti di ampsicora di cui l’uomo andava
molto fiero.
il corteo avanzava lentamente tra la folla, accompagnato
dalle litanie dei religiosi in cammino verso il luogo sacro.
Questo era costituito da una vasta area a cielo aperto e dall’edificio del culto sopraelevato su un terrazzamento. Sulla facciata
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
stavolta tra i convenuti c’era anche Ellissa, circondata
da uno stuolo di ancelle, che aveva preferito mischiarsi tra la
folla e non rimanere con il gruppo dei nobili. Per l’occasione
aveva indossato un lungo abito blu cobalto con le maniche
corte, spezzato in vita da una stretta cintura; un largo mantello
in lana copriva le spalle della donna i cui lunghi capelli ricci e
corvini erano ben acconciati e protetti da un velo che ricadeva
dietro la testa. La pelle del suo viso era liscia e levigata, quasi
a contrastare le spigolosità del carattere, che in parte Ampsicora
durante gli anni di convivenza era riuscito a smussare.
Ellissa aveva avuto fin da piccola un fare prepotente e piuttosto instabile, causato probabilmente dall’essere figlia unica,
e viziata dal padre che stravedeva per lei accontentandola in
tutti i suoi desideri. con ampsicora la vita della donna cambiò;
l’uomo, abituato a comandare, non riusciva ad assecondare
la moglie con tutte le sue richieste e lei, dopo anni di pianti
e capricci inutili, si arrese e capì che fra i due il più forte era
lui. Ma ciò a cui Ellissa non seppe né volle mai rinunciare fu
l’abitudine a ostentare in pubblico la ricchezza e preziosità dei
suoi gioielli. E anche per quest’ultima occasione, non si privò
del gusto di sfoggiare una collana a grossi vaghi d’oro alternati
a listelli lavorati a filigrana. Ai polsi due fili d’oro cordonati
e sovrapposti a molla, piegati alle estremità a forma di ganci
raffiguranti teste di leone. I lobi erano impreziositi da orecchini
d’oro con pendenti a goccia; e in ogni dito delle mani brillava
un anello d’oro con pietre dure incastonate dalle variabili forme
rettangolari, circolari, quadrate, ovali.
non vi era donna a cornus che potesse competere con
Ellissa per la quantità, la qualità e la finezza dei manufatti che
aveva, tutti provenienti dalle abili mani del padre, che si era
saputo distinguere nel suo mestiere diventando celebre non solo
in sardegna ma anche a cartagine.
ampsicora aveva conosciuto Ellissa proprio nel laboratorio di Hanno quando una mattina vi si era recato in compagnia
del padre baalram. i due signori si trovavano a tharros per
consegnare una grossa partita di buoi da tiro che sarebbe stata
poi destinata a Cartagine; Baalram volle gratificare il figlio
regalandogli un bracciale d’oro. Entrarono quindi nella bottega dove ampsicora ne scelse uno composto da cinque lamine
d’oro congiunte da cerniere: in quella centrale spiccava uno
scarabeo con quattro ali e testa di sparviero, realizzato con la
tecnica della granulazione. il giovane rimase impressionato da
tale meraviglia, ma ancora ignaro di quanto gli sarebbe accaduto di lì a poco. avvertì un rumore che lo portò a voltarsi e
trovarsi di fronte l’immagine di Ellissa la cui bellezza lo lasciò
senza fiato; anche lei rimase turbata poiché, sebbene fosse stata
informata dalla mamma che due clienti altolocati erano giunti in
visita, non si aspettava di trovare un suo coetaneo e tra l’altro
così affascinante.
dagli sguardi dei due giovani si notò subito un’attrazione
reciproca e se ne accorse pure baalram che, per spezzare l’imbarazzo del figlio, disse: – Caro Hanno, mi hai sempre mostrato
il meglio della tua produzione ma oggi hai superato te stesso
deliziandoci della meraviglia di questo gioiello.
Hanno sorrise e, con tono soddisfatto, rispose: – è la mia
figliola, il miglior dono che la vita mi potesse riservare, per lei
farei qualsiasi cosa.
Quell’incontro inaspettato cambiò la vita di Ellissa e di
ampsicora, che da quel giorno trovava ogni tipo di scusa per
andare a Tharros e passare a salutarla, finché un giorno prese
coraggio e la chiese in sposa.
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La battaglia di Cornus
ii
ritta come il fuso delle tessitrici, Jezbel guardava le barche
allontanarsi, da sopra un grande masso sulla banchina del porto.
un vento leggero di levante le scarmigliava i capelli castani con
qualche filo argentato dovuto all’età e gonfiava la sua tunica
come la vela delle navi di fronte. dai monti alle sue spalle il
sole iniziava a sollevarsi e un altro giorno era ormai alle porte.
come era solita fare, aveva accompagnato all’alba i suoi due
gemelli, Mussumbal e attumbal, all’imbarco degli equipaggi
per la pesca.
i due, nati da ventitré anni, non ebbero la fortuna di conoscere il padre ozbaal che, da mercenario ribellato a cartagine,
fu gettato in un dirupo dagli uomini di ampsicora subito dopo
che Jezbel rimase incinta. La giovane donna, rimasta vedova,
lasciò cornus e iniziò a vagare di villaggio in villaggio dove
svolgeva le mansioni più disparate per poter crescere i figli.
una sola, grande forza interiore la sosteneva e le dava la spinta
per andare avanti: l’odio acerrimo verso chi le aveva strappato
dalle braccia il suo uomo. aveva vissuto così al servizio di varie famiglie, soprattutto quelle benestanti dei clan dell’interno
dell’isola, grazie al suo bell’aspetto e ai suoi modi gentili. ogni
giorno che passava faceva crescere dentro di lei il sentimento di
vendetta, intimo, profondo, mai rivelato a nessuno. E aspettava
impaziente, ma con determinazione, l’occasione propizia per
potersi finalmente vendicare del torto subito.
ritornò a cornus quando i ragazzi avevano una decina
d’anni e lì, da subito, fece in modo che si appassionassero alla
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Pietro Scanu
vita del mare e diventassero dei bravi pescatori, come lo era
stato il nonno paterno.
Vedeva che i ragazzi la salutavano mentre la barca si allontanava sempre più dalla banchina fino a diventare una sagoma
sfumata, poi un puntino per poi sparire all’orizzonte. diventati
grandicelli, avevano provato in tutti i modi a convincerla che
sarebbero potuti andare da soli al porto evitandole levatacce
mattutine, ma lei non ne voleva minimamente sentir parlare.
in un ambiente di soli maschi, però, una presenza femminile
non passava certo inosservata e diverse volte i gemelli erano
stati scherniti dai compagni che li avevano soprannominati “i
poppanti”.
Jezbel rientrò al paese passando per un viottolo stretto,
una scorciatoia ai cui lati le pareti verdi ricoperte di cespugli
rilasciavano effluvi di essenze di mirto, di lentisco, di cisto.
Procedeva spedita nonostante il fiatone per la salita e il suo stato
d’animo era fulgente da quando i romani avevano fatto la loro
comparsa a cornus. La presenza di quel popolo rianimava nella
donna il desiderio di vendetta perché vedeva in loro l’unico
modo con cui potersi ripagare del gesto subito da ampsicora.
Grazie alla sua attività di fornarina era riuscita a origliare dei
discorsi ed era venuta a sapere della presenza a cornus di una
rete di spie che riferivano le strategie ai romani. Pensò quindi
di contattare quegli informatori prima possibile e fornirgli il
proprio contributo, attirata oltre che dalla sete di vendetta anche
dall’aspetto economico dato che i romani pagavano bene aiuti
di questo tipo.
i due giovani Mussumbal e attumbal, diventati due abili
pescatori, non disdegnavano eventuali commesse come marinai
sulle navi di piccolo cabotaggio che trasportavano merci da
cornus a tharros. come sempre speranzosi in una buona battuta
di pesca, seguivano alla lettera le direttive di Hairam, l’anziano
pescatore che meglio di tutti conosceva le correnti marine, le
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
tane e i territori di pesca più ricchi. Hairam aveva una naso
rincagnato fra grossi zigomi, percorso da venuzze superficiali,
labbra carnose; incuteva un forte senso di inquietudine a chi
lo incontrava per la prima volta, ma di certo non alle ciurme,
che abitualmente dirimeva e che avevano nei suoi confronti un
rispetto reverenziale e un certo affetto.
nel procedere verso i luoghi di pesca, i gemelli e gli altri
compagni si alternavano nelle loro chiacchiere aggiungendo del
loro a una storia che Hairam raccontava spesso e a cui teneva
molto. Si trattava della leggenda legata alle modalità con cui gli
dei avevano trasmesso ai mortali la conoscenza della colorazione
dei tessuti che si poteva ottenere con la porpora. Melquart, dio
e fondatore della città di Tiro, era il custode di tale segreto, ma
fu costretto a farne dono a una ninfa di nome tiro. Quest’ultima
una mattina stava passeggiando su una spiaggia del Libano, c’era
una forte risacca, quando a un certo punto fu attratta dal colore
di un mollusco gettato dalle onde vicino ai suoi piedi. Questo
aveva attorno al guscio una secrezione color porpora. La ninfa
rimase talmente impressionata da quel colore mai visto prima
che rifiutò i suoi favori a Melquart fintanto che lui non si fosse
deciso a svelarle il segreto di come poter ottenere una simile
colorazione per un tessuto. il dio cedette e il segreto le fu rivelato. attumbal, sentito il racconto, si dilettava a inventare doti
personali con le quali far colpo sulle ninfe, e gli altri compagni
al seguito facevano la gara con tecniche di seduzione.
grazie ad Hairam che conosceva alla perfezione i fondali
e le secche di quel tratto di mare, giunsero sul punto esatto in
cui la sera prima avevano calato le nasse, grazie ai galleggianti
di sughero con al centro un’asticella, che afferrarono e iniziarono a salpare. non era facile impresa, soprattutto per via del
forte scarroccio della barca verso riva. Le operazioni furono
interrotte da un urlo di dolore che proveniva da una delle imbarcazioni. si trattava di azhar, un giovanotto di circa vent’anni,
non molto alto ma con una forte corporatura e spalle larghe.
Aveva maldestramente infilato la mano dentro una nassa che fu
morsicata da un grongo. il ragazzo ritrasse la mano dolorante
sferrando un violento manrovescio a un suo compagno, che a
sua volta, preso alla sprovvista, indietreggiò con un balzo che
fece ballare la barca. La scena non si tramutò in tragedia grazie
all’intervento tempestivo di Himilk, altro poderoso marinaio,
che controbilanciò la spinta dalla parte opposta, riuscendo a
scongiurare il peggio.
– ammon ti fulmini! – imprecò Himilk. – Per fortuna prima
della partenza di stamattina ho dedicato un capretto a tanit!
Ma tu, azhar, appena metterai piede sulla terraferma dovrai
consumare i sandali per la velocità con cui ti dovrai recare alla
grotta dedicata alla misericordiosa baal shamim stando attento
oltretutto a non dimenticare di portare il modellino della barca
come ex-voto.
L’ilarità scatenata da questa scena e dalle parole di Himilk non furono sufficienti per distogliere l’occhio esperto di
ahiram dal cielo mentre scrutava preoccupato i nuvoloni che
si andavano profilando.
guidato dall’esperienza urlò in modo che tutti potessero
sentirlo: – A breve il vento rinforzerà, dobbiamo fare in fretta,
forza! Veloci con quei remi, dobbiamo rientrare prima che il
mare si ingrossi.
Quella costa era fortemente esposta al maestrale e gli
uomini conoscevano bene i rischi che avrebbero corso se non
fossero rientrati presto. si diressero quindi verso la terraferma.
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una volta rientrati a casa, i gemelli trovarono la mamma
intenta in cucina e Mussumbal le chiese: – cosa ci stai preparando di buono per la cena?
Jezbel era indaffarata nel versare in un mastello pulito
una libbra di farina e voltandosi verso il figlio rispose: – È una
ricetta che mi ha dato una vicina di casa e sono molto curiosa
di provarla, dev’essere buonissima! Mussumbal, – proseguì la
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
donna – vai a prendere tre libbre di formaggio fresco dal ripostiglio. E tu attumbal prendimi un uovo dal pollaio, per favore.
una volta che ebbe a portata di mano tutti gli ingredienti
richiesti, vi aggiunse mezza libbra di miele e, mescolando bene
il tutto, lo mise in cottura. Quando la minestra fu pronta i tre si
sedettero in tavola gustando rapidamente i loro piatti.
– accidenti, – disse attumbal – è davvero buona!
oramai fuori era quasi buio e all’interno della casa fu necessario accendere le lanterne. Al chiarore della fioca luce diffusa
dalla lampada, Mussumbal si rivolse alla madre e le disse: – Madre cara, è da alcuni giorni che vi vediamo più radiosa e meno
chiusa. avete voglia di raccontarci quel che di bello vi è capitato?
– Figli miei cari, – disse la donna – il giorno stesso che i
romani hanno messo piede a cornus mi sono sentita rinascere
e pervasa da una nuova forza. sono andata al villaggio tinnia
per incontrare la bithia oratanda.
– di’ un po’, – chiese incuriosito attumbal – non è per
caso quella megera di cui si racconta abbia approfittato Narna,
la fiamma di Iosto, per farsi fare un filtro d’amore e sedurre il
giovanotto?
– si dicono tante cose su di lei, per esempio che ha doppie
pupille con cui riesce a fulminare un uomo con il solo sguardo
– rispose Jezbel. – Mi sono recata da lei con il cuore gonfio di
gioia e approfittando delle sue doti di veggente l’ho interrogata
su come i romani possano influire sul destino di Cornus. Lei,
dopo aver bevuto alcuni intrugli e aver annusato gli incensi
magici, è andata in estasi e parlandomi con voce roca mi ha
detto: «Vedo un gran polverone sollevato da un forte vento,
c’è un turbinio dal quale emerge uno scudo brillante. La lucentezza però diminuisce a poco a poco per lasciare posto a un
rosso cupo… Lo scudo sta grondando sangue!». Pronunciate
queste parole, la megera ha emesso un forte urlo che l’ha fatta
risvegliare e ha aggiunto: «è un cattivo presagio. non vorrei
sbagliare, ma lo scudo mi è sembrato punico!».
Dopo che ebbe finito questo racconto, Jezbel fece una
breve pausa di silenzio, poi riprese: – Ecco perché mi vedete
cambiata; si prospetta all’orizzonte la possibilità che i punici
vengano spazzati via dai romani. L’onta di vergogna che pesa
sul loro capo per l’assassinio di vostro padre sarà riscattata dagli
dei. ozball chiedeva soltanto la giusta ricompensa ai cartaginesi
per il servizio svolto dalle loro milizie in sicilia. Per riscattare
la memoria del mio dolce sposo avrò bisogno anche del vostro
aiuto, figlioli.
ascoltate con attenzione le parole della mamma e colpiti in
particolare dalla sua richiesta, in coro domandarono: – in che
modo ti potremo aiutare?
– è molto semplice. d’ora in poi dovrete preoccuparvi
di “pescare” soprattutto notizie su ampsicora, la sua famiglia
e il senato e riferirmele affinché io possa poi consegnarle ai
romani. badate bene che essi sono sempre stati molto generosi
e riconoscenti verso i loro confidenti.
– se questo è il vostro desiderio, – disse attumbal – siamo
pronti a soddisfarlo. anche noi vogliamo ripagare con la stessa
moneta chi ci ha privato del piacere di conoscere nostro padre.
i giorni seguenti videro i cornuensi impegnati in ampie
discussioni sui romani: si parlava di loro nelle mescite, nelle
case, per strada. ovunque si cercava di costruire congetture
che potessero evitare a cornus il giogo romano. Ma l’arrivo di
tre navi da cartagine cambiò le sorti delle discussioni in paese.
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Era la fine di marzo e le navi avevano ripreso a solcare i
mari confidando nel tempo migliore. Il clima favorevole avrebbe
consentito maggiori probabilità alle navi di non imbattersi in
pericolose tempeste e trovare il cielo sereno che consentisse
la visibilità. La sagoma snella delle tre navi ancorate spiccava
nella rada di cornus. Lunghe circa venticinque metri, stazionavano con le vele ammainate e l’albero principale abbattuto,
posizionato verso il centro dello scafo.
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
Gli occhi disegnati sulla prua, a significare che le barche
potessero vedere e quindi seguire la rotta, ondeggiavano per il
rollio del mare.
due delle tre navi erano abbellite sul prolungamento della
ruota di prua da un palustre a forma di testa di cavallo; la terza
era fregiata da un semplice rigonfiamento. La loro linea di galleggiamento era alta, con un pescaggio di circa un metro e mezzo.
sulla banchina gli schiavi stavano lavorando alle operazioni di
scarico merci; da cartagine erano arrivate grosse derrate alimentari fra cui molta frutta che in sardegna non si poteva coltivare
per via di un divieto imposto dai punici. su un’altra banchina del
porto venivano accatastate un gran numero di anfore, sistemate
per tipologia e contenuto. La maggior parte conteneva vino e
olio, mentre la rimanente prodotti agricoli e salse di pesce.
in quel pomeriggio assolato, Mussumbal e attumbal cercavano di aprirsi un varco in quella moltitudine di persone eccitate
che avevano invaso il porto e attumbal rischiò di vedersi la
gamba maciullata dalla ruota di una carretta se non fosse stato
per la prontezza del fratello che riuscì ad acciuffarlo per la
tunica portandolo verso di sé.
i gemelli vi si erano recati nella speranza di incontrare
qualche conoscente che, sbarcato dalle navi, potesse dar loro
qualche notizia fresca e attendibile sulle intenzioni di cartagine. a un tratto videro materializzarsi il viso di bacu, un loro
compagno di adolescenza.
– Vecchia pellaccia! – disse attumbal andandogli incontro. –
da quando ti dedichi alla navigazione d’altura non ti si vede più!
– coppia di malandrini! – rispose bacu contento di quell’incontro. – siete venuti anche voi a far festa al porto? o nel
frattempo siete diventati mercanti?
Mussumbal, dopo un caloroso abbraccio, gli disse: – Per
festeggiare il nostro incontro ci meritiamo una bevuta tutti e
tre assieme! Ma di vino buono, ho qui del carignano che hanno
appena scaricato dalle navi.
neanche detto, ecco i tre amici attorno a un tavolo a bere,
raccontare e parlare del viaggio, del mare, dei compagni marinai, fino ai fatti di questi giorni.
sempre sorridente bacu raccontò di aver fatto un buon viaggio, tranne nell’ultimo tratto all’altezza di Sulci fino a Cornus
per via del cambio repentino di vento che li aveva costretti a
bordeggiare procedendo di bolina e cambiare spesso l’inclinazione della rotta, con successive virate di prua. Procedendo a
zig-zag la nave poteva faticosamente avanzare contro il vento,
lungo le diagonali dei bordi stringendo il vento stesso. Questo
– aggiunse bacu – ha causato un ritardo all’arrivo di mezza
giornata, sconquassando lo stomaco di due mozzi inesperti che
hanno reso la nave maleodorante.
– Hai per caso con te una delle tue magnifiche pipe, Bacu?
– disse Mussumbal frugando in un recesso della sua tunica.
Questi cavò fuori una pipa intagliata nella radica di ginepro.
bacu si era fatto una certa nomea nell’arte di costruire le
pipe, approfittando delle lunghe giornate di navigazione, e a
quella che teneva in mano aveva dato la forma della testa di
un cane.
– Per la barba di bes! – esclamò Mussumbal.
– è davvero notevole! normalmente da una pipa così ci
ricavo l’equivalente di due libbre di farina – affermò annuendo
col capo bacu. – Ma a te, in virtù della nostra vecchia amicizia,
la voglio regalare – disse porgendogliela.
Mussumbal ammutolì, non aspettandosi un siffatto gesto
e abbracciandolo calorosamente gli diede un’infinità di pacche
sulla schiena. Mentre il vino gonfiava le vene e rendeva fluida
la lingua, fu inevitabile che i discorsi andarono a cadere sulla
situazione di cornus. bacu riprese il discorso: – gran brutto
affare che i romani abbiano posato i loro occhi rapaci su queste
contrade. da quando ho messo piede a terra, non sento vociferare d’altro. Pare che stavolta il rischio sia reale!
– dici bene amico caro – rispose Mussumbal facendosi
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Pietro Scanu
serio in viso. – solo l’arrivo delle vostre navi ha portato dei
nuovi argomenti sulla bocca della gente, ma la paura corre ormai
dappertutto, è diventata qualcosa di palpabile.
E approfittando dell’argomento, questi proseguì incalzando:
– dimmi un po’, e a cartagine che aria tira?
L’amico rispose bofonchiando: – tutta un’altra musica, ve
lo posso garantire! da quando Magone, il fratello di annibale,
ha riportato in patria la notizia della batosta inflitta ai romani
negli agri di canne in Puglia, è festa continua! La fama dei barcidi è alle stelle e la speranza è che presto possa essere inflitto il
colpo mortale a Roma, ponendo fine a questa seconda dannata
guerra punica. oltre al timore di imbatterci nelle tempeste in
mare, si è aggiunto quello di incrociare qualche nave da guerra
romana, pronta a requisire il carico nella migliore delle ipotesi.
Ma non è improbabile che a noi marinai ci possano mandare a
ingrassare le murene sul fondo del mare. a cartagine si guarda con nostalgia ai tempi in cui la sardegna era il maggiore
fornitore di grano. Questo pesa non poco ai potenti della città
che hanno dovuto inventarsi nuovo territori di semina per far
fronte alle richieste degli eserciti.
– credo – disse in conclusione – che cartagine non possa
tollerare ancora per molto tempo questo sopruso e passi quindi
alle vie di fatto per rientrare in possesso dell’isola.
i visi dei gemelli che si illuminavano sempre più davano
a intendere il comune sentire anti romano, ma nel loro interno
continuavano a percorrere la difficile strada dei doppiogiochisti. Era infatti arte antica quella di dare a intendere una cosa a
chi ti sta innanzi e invece sfruttarne le confidenze per andare a
riferirle da un’altra parte.
La doppiezza, l’ambiguità, l’ipocrisia erano qualità che i
gemelli non avevano mai praticato, ma davanti alle richieste
della madre, che aveva inculcato nei loro animi quell’odio acerrimo verso i romani, non avevano esitato a mettersi in gioco.
E questo a rischio della loro stessa vita. a cornus era risaputo
che chi avesse tramato contro ampsicora e fosse stato scoperto,
sarebbe andato incontro a un terribile castigo. Questo consisteva nell’avere i quattro arti incatenati ad altrettanti cavalli che,
lanciati al galoppo, avrebbero squartato i malcapitati.
Mentre i tre amici si apprestavano a concludere la discussione, la loro attenzione fu catturata dai movimenti attorno alle
tre navi alla fonda. infatti da queste, a piccoli gruppi, scendevano veloci sagome dalle scialuppe: erano i marinai che, con
l’avvicinarsi della sera, conclusero le operazioni di bordo.
scendevano a terra per pernottare.
da alcune baracche sulla loro sinistra iniziava a levarsi un
fumo denso di legna non ben asciutta. bacu, con un luccichio
negli occhi, proruppe: – Vedete, quelle baracche son quanto
di meglio io possa chiedere per passare all’asciutto la nottata.
Quando i miei compagni metteranno piede sulla terraferma
dalle scialuppe, potremo festeggiare tutti assieme intorno a
quei fuochi, mettendo finalmente mano ai coltelli per dare una
degna accoglienza a quei grassi maiali che stanno arrostendo!
ringraziando bes, mi è capitato l’ultimo turno di guardia per
controllare le navi – continuò – e così potrò mangiare con tutta
calma.
infatti, era buona regola, una volta sbarcati, che tra l’equipaggio si decidessero dei turni di guardia alle navi. E questo
perché si potesse intervenire con tempestività qualora, in seguito
a mutate condizioni del mare, vi fosse la necessità di rinforzare
o cambiare gli ormeggi.
i colori del paesaggio marino stemperavano rapidamente
annunciando il tramonto e una bruma salmastra si avvicinava
a terra.
«bisogna scegliere fra due persone che sono nel tuo destino!» era solita ripetere Jezbel ai figli, prosaicando sulla
necessità di approfittare di qualunque occasione per acquisire
informazioni.
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– Potete essere dei nostri, – disse bacu – se vorrete! si
farà festa assieme stasera.
Attumbal, fissandolo in viso, rispose: – Sei molto cortese,
ma nostra madre se non avrà presto nostre notizie si preoccuperà, e una discreta distanza ci separa ancora dalla nostra dimora.
è il caso che ci muoviamo – disse rivolgendosi a Mussumbal.
salutarono l’amico riproponendosi di vedersi un’altra volta,
e presero la strada di casa.
Li videro arrancare verso la collina di cornus, simili a due
agnelli che dopo essersi allontanati dal gregge vi fanno ritorno
contenti, come attratti da un richiamo misterioso. Parlavano
poco fra loro per risparmiare fiato.
non senza apprensione, quel pomeriggio Jezbel era andata
nella sua bottega, col cuore all’impazzata, ma forte della soffiata
che cleon fosse un informatore.
i due si conoscevano a malapena e quando la donna entrò
e lo salutò, egli sollevando lo sguardo cominciò a fissarla.
Passarono svariati attimi prima che l’artigiano dicesse una sola
parola. Ma proprio quando Jezbel stava per raggiungere l’apice
dell’imbarazzo, cleon le chiese a quale oggetto fosse interessata.
durante questi pochi attimi, Jezbel rimase affascinata dalle
mani dell’artigiano intente a realizzare con l’argilla un bruciaprofumi a forma di testa femminile.
Jezbel si lasciò trasportare da quei movimenti sensuali
poi prese a passeggiare tra i manufatti esposti con lo scopo di
spostare l’attenzione dell’uomo verso di sé.
dopo essersi assicurata che all’interno del locale fossero
soli e che nessuno stava per entrarvi, la donna iniziò un discorso
improntato principalmente sulle sue disgrazie senza nascondere
il suo odio verso i punici. tali argomentazioni smossero i cardini
dietro cui si trincerava l’artigiano che non ebbe poi difficoltà ad
abbassare completamente le sue difese quando Jezbel pronunciò
i nomi delle persone che l’avevano indirizzata da lui.
L’iniziale e comprensibile imbarazzo, misto a diffidenza,
andava dissolvendosi fra i due man mano che il discorso prendeva dei risvolti operativi. Fra le varie possibilità che andavano
delineandosi, per poter far arrivare con sicurezza le notizie ai
romani, escogitarono un sistema alquanto ingegnoso: si trattava
di sfruttare l’attività di fornarina di Jezbel. L’astuto stratagemma consisteva più precisamente nello sfruttare la pintadera
per un uso che andava oltre la classica decorazione del pane:
si sarebbero apposti sulle focacce dei segni, apparentemente
insignificanti. In pratica, a ciascun segno sarebbe corrisposto
un determinato avviso, decodificato da romani esperti. I due
cospiratori scoppiarono in una fragorosa risata e si complimentarono a vicenda per la trovata geniale. chi, infatti, avrebbe mai
giunti a casa non trovarono la madre e si spaventarono
all’idea che la donna fosse stata rapita. La paura cessò quando
la videro tranquilla nel cortile intenta a cardare del lino.
– non vi ho sentiti arrivare – disse la donna sorridente
che si alzò subito per andargli incontro. Li vide pallidi e stranamente turbati.
sapeva in cuor suo che l’unico difetto che da madre non
sarebbe stata in grado di correggere, sarebbe stato proprio la
debolezza e, vedendoli in quello stato, fece finta di niente e aggiunse: – Pelandroni, dove vi eravate cacciati fino a quest’ora?
Ho delle buone notizie da darvi.
i due, rincuorati nel vederla, stettero al gioco e dissero: –
Anche noi madre abbiamo delle novità.
si sedettero intorno al tavolo e, tra un cucchiaio di zuppa e
l’altro, Jezbel iniziò a raccontare di come avesse preso contatti
diretti con Cleon. Quest’ultimo era abbastanza famoso in città
come vasaro e proprio grazie alla sua attività poteva permettersi
frequenti spostamenti nei vari mercati senza dare nell’occhio e
incontrare gli emissari romani, con la scusa di dover piazzare
nel mercato i suoi manufatti.
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La battaglia di Cornus
fatto caso a una semplice focaccia capace invece di trasmettere
delle informazioni?
si trattava di sperimentare quel metodo al più presto per
poter così favorire il potente apparato bellico romano.
– tieni – disse cleon allungando un bruciaprofumi a Jezbel. – ti voglio fare dono di questo oggetto. E le fece notare
che la base non era cava come quelli che di solito utilizzava per
mandare messaggi cifrati ai romani.
– Quando li invio – riprese Cleon in tono confidenziale –
ho sempre paura che lungo il viaggio possano cadere rivelando
il loro prezioso contenuto.
Ella, alzandosi dal banchetto, si aggiustò il mantello e
rispose: – Le focacce non corrono quel pericolo. al limite,
se si dovessero sbriciolare, si possono sempre mangiare e non
resterebbe alcuna prova. a questa affermazione seguirono i
saluti e la promessa di rivedersi quanto prima con buone nuove.
una mente agile e disinvolta come quella di Jezbel, corroborata dall’orgoglio, era capace di entrare facilmente in sintonia
con l’interlocutore.
i gemelli stettero, per tutta la durata del racconto, in religioso silenzio, grattandosi di tanto in tanto le nocche delle mani
per stemperare la tensione che andavano accumulando.
Jezbel, di contro, si dimostrò soddisfatta dal modo in cui
si erano mossi i figli, riuscendo a catturare delle informazioni,
non salienti ma pur sempre interessanti.
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Pietro Scanu
iii
In quei giorni di inizio aprile, Iosto e Narna, approfittando del
tiepido sole primaverile, si impadronirono di un po’ di intimità,
rifugiandosi ai piedi della cascata “del gobbo impietrito”. Legati
i cavalli a un tronco di leccio si diressero, mano nella mano,
verso il laghetto che le acque avevano scavato nella trachite.
Quel curioso nome dato alla cascata, ben nascosta nel folto
della foresta di baddedra, era nato da un’antica leggenda. si
narrava che la sporgenza rocciosa dalle sembianze di un gobbo,
situata sul versante destro della cascata, derivasse dal sortilegio
perpetrato da una ninfa permalosa a carico di uno sfortunato
essere deforme. La ninfa era solita frequentare quel luogo
nascosto per potersi rinfrescare in piena libertà. Un legnaiolo
gobbo scoprì casualmente il rifugio della ninfa e, catturato dalla
sua bellezza, prese a frequentare segretamente il luogo. La sera
faceva rientro nella sua abitazione e lavorava alacremente alla
scultura sull’onta delle immagini e delle sensazioni accumulate
durante la giornata. in pochi giorni prese corpo una scultura
simile alla ninfa, frutto del desiderio del gobbo di poter un
giorno giacere al suo fianco e, se non con la ninfa in persona,
almeno con la sua immagine. Ma per quanto si sforzasse di
ricordare l’espressione estatica della ninfa quando si immergeva nelle acque, non gli riusciva di riprodurre nel legno tale
ricordo. decise quindi di trasportare quel ciocco di legno alla
cascata e scolpire lì i particolari. Prese posto in un cantuccio
nascosto e aspettò l’arrivo della ninfa. com’era sua abitudine,
appena arrivata si spogliò e iniziò a concedersi ai piaceri che le
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
procuravano le minuscole goccioline d’acqua vaporizzate dalla
cascata. il gobbo iniziò l’opera incisoria cercando di fugare il
rumore prodotto dal legno scolpito, ma un colpo dato più forte
lo tradì. La ninfa, allertata, lo vide mentre invano cercava di
nascondere dietro di sé il manufatto. adirata dal furto delle
proprie sembianze, per punire l’oltraggio, tramutò all’istante il
malcapitato in una roccia, condannandolo così alla visione della
ninfa in maniera inumana. a vederlo sembrava che piangesse
in continuazione perché lo gocce d’acqua che arrivavano dalla
cascata gli scorrevano sul viso come lacrime.
in questo luogo ameno erano soliti rifugiarsi i due amanti
quando volevano stare soli e lontani dalle indiscrezioni della gente.
Passeggiavano e giocavano a rincorrersi, proprio come due
giovani innamorati e desiderosi. narna aveva i capelli scarmigliati e in atto di giocosa sfida gli diceva: – Dai, cosa aspetti a
prendermi e ad abbracciarmi?
Ed era quella la sua felicità, si sentiva desiderata e sapeva
di piacere al suo giovane amore.
Poi non perdeva più tempo e d’un tratto, con estrema generosità, si spogliava. Dopo averlo amato per ore, correva al
laghetto per sciacquarsi il viso e riversare dell’acqua sul capo di
iosto. il giovane era perfetto per lei, non la deludeva in niente.
un giorno le aveva fatto toccare il cielo con un dito dicendole:
– un grande amore si manifesta tutto nei primi momenti, poi
si altera, si corrompe.
Era inevitabile che lui l’avrebbe cambiata, plasmandola in
un’altra persona rispetto a quella che era, per via dell’egoismo,
delle rivalse, delle piccole lotte che si instaurano in una coppia.
La situazione politica che si era creata dopo l’arrivo dei
romani aveva in qualche modo influenzato anche il rapporto fra
i due giovani. Si frequentavano da circa un anno e fino ad allora
la voglia di conoscersi non aveva avuto soste; ogni momento
era buono per farsi delle domande, per scavare dentro gli animi
e spogliarsi di tutte le intimità.
una strana bramosia li aveva pervasi. ora invece cercavano di esorcizzare il presente non rivolgendosi più domande,
chiedendosi però nel proprio intimo se valesse ancora la pena
progettare un futuro assieme.
narna aveva da poco compiuto sedici anni, resa provocante
da un seno forse eccessivo, non riusciva a nascondere i bronci
tipicamente femminili. Entrambi non riuscivano a capacitarsi
di come tutte le loro spontaneità potessero d’un tratto finire,
per giunta a causa di un mutamento improvviso della scena
politica. Lo spettro della schiavitù e la deportazione a roma,
nella migliore delle ipotesi, pesavano sul loro capo come una
montagna.
La loro tranquillità era ormai un ricordo così come per tutti
gli abitanti di tharros, othoca e il loro circondario. una furba
volpe stava insidiando un ricco pollaio, i cui componenti non
avevano mai conosciuto pericoli reali, essendo cresciuti fino a
quel momento nell’agio e nell’opulenza.
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i sufeti di tharros e othoca avevano un gran bel daffare,
intenti quotidianamente nell’organizzare riunioni su riunioni per
cercare di elaborare un piano che li potesse mettere in salvo
da quest’enorme minaccia. Vennero consultati abili strateghi,
si celebrarono suntuosi sacrifici agli dei, si ascoltarono oracoli
d’ogni tipo, ma si convenne infine sulla necessità, perorata
da ampsicora, che fosse indispensabile l’aiuto della potente
cartagine.
il 10 delle idi d’aprile si tenne a cornus l’importante adunata delle massime personalità della regione per elaborare una
strategia comune. nell’aula gremita del senato cornuense erano
convenute anche la delegazione di tharros, rappresentata dal
nobile annone, e quella di othoca rappresentata da abdacal.
Entrambi i nobili avevano ricevuto l’incarico direttamente dai
sufeti delle loro città.
Questi, di solito due per città, erano i magistrati supremi,
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
giudici eletti fra l’aristocrazia locale; duravano in carica un
anno e, oltre ad amministrare la giustizia, avevano il compito
di presiedere il senato.
Le proposte si andavano alternando alle invettive contro i
romani all’interno dell’assemblea, durante la quale ampsicora
faceva fatica a mantenere la calma, tanto l’iracondia dilagava
tra i presenti. Ebbene, anche in quell’occasione, il principe di
cornus dimostrò tutta la sua maestria nel contenere le teste
calde, indirizzando le valenze positive emergenti dall’assemblea
verso un progetto concreto.
Fu data preminenza all’organizzazione di un esercito che
potesse frapporsi alle mire espansionistiche romane, composto
sia dalle truppe di stanza nella regione, ma anche, e questa era
una grande novità, dal popolo.
in quel momento non ci si poteva permettere il lusso di
tagliar fuori, com’era sempre successo, gli adulti validi in
battaglia.
– Fino ad oggi il nostro esercito è stato caratterizzato dalla
presenza mercenaria; ora, in considerazione del pericolo imminente, non è più possibile – rimarcò ampsicora. – bisogna
fare delle liste d’arruolamento che comprendano la popolazione
attiva!
Per questo suo parere, venne acclamato più volte dall’assemblea che avvertiva tale insidia, dimostrandosi pronta a offrire
il proprio contributo.
Poi ampsicora riprese la parola e dopo aver dichiarato l’ulteriore necessità di richiedere aiuto alle popolazioni dell’interno,
s’aggrottarono le sopracciglia della maggior parte degli astanti.
infatti il rapporto con tali popolazioni era controverso. alcuni,
come ampsicora, s’erano arricchiti con il commercio e la loro
frequentazione, altri avevano subìto i danni delle loro scorrerie e
mal sopportavano l’idea di vederseli al fianco. Vennero lanciate
accuse dai presenti nei loro confronti, qualcuno gridava: – Ladri! – e ancora – Sono degli infingardi! Dei briganti fannulloni!
s’era acceso un nuovo focolaio che rischiava di compromettere l’esito dell’incontro. Fu allora che ampsicora, afferrando
il braccio di uno dei convenuti rivolto verso l’alto, lo mostrò
ai presenti e disse: – Questo braccio può essere tranciato nella
battaglia, ma se ne avrà al fianco un altro, sarà più improbabile.
con questo chiaro esempio ampsicora riuscì ancora una
volta a riportare il silenzio nella sala e a fugare i timori sulla
loro lealtà, spezzando una lancia a favore dei sardi pelliti. Questi
avevano assunto tale nome dal caratteristico indumento indossato
fatto di pelli denominato “mastruca” in quanto aveva la possibilità
d’esser rivoltato a seconda delle stagioni. Le pelli di pecora o capra venivano poste dalla parte del vello d’inverno, per assicurare
il calore, invertendole poi in estate per favorire la traspirazione.
il piglio deciso di ampsicora aveva convinto la maggior
parte dei presenti, tra cui anche le menti più perplesse che capirono l’importanza del fattore numerico nell’affrontare in campo
aperto i romani. Ecco perché si era fatta ormai imprescindibile
la richiesta d’aiuto da far pervenire al senato cartaginese. tale
richiesta, nella fattispecie, doveva comprendere i seguenti rinforzi: soldati, armi, cavalli e, possibilmente, elefanti.
brusii e commenti vari si andavano a diffondere fra i vari
gruppi presenti in aula, rappresentativi delle diverse fazioni.
Erano la fisiologica manifestazione di una dialettica democratica, che discuteva le problematiche sollevate. ampsicora, da
buon padrone di casa, rispettò i tempi di tale confronto interno,
richiamando la loro attenzione quando vide annuire col capo i
rappresentanti di tharros e othoca.
a questo punto chiese cosa pensassero e se fosse stato
saggio o meno da parte sua chiedere l’aiuto dei pelliti, esortandoli a esprimere il loro consenso o il diniego con alzata di
mani. il consenso fu pressoché unanime assegnando la vittoria
all’alleanza.
si poneva ora il problema di chi potesse essere all’altezza
di guidare la coalizione anti romana. risolsero il tutto alla stes-
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Pietro Scanu
sa maniera. Le braccia si protesero all’unisono verso il cielo
quando nell’aula riecheggiò il nome di ampsicora, il quale fu
acclamato duce supremo con pieni poteri decisionali e operativi,
in quella che ormai si profilava all’orizzonte come una guerra
per la libertà e l’indipendenza da Roma.
si procedette quindi alla designazione dei delegati da inviare a cartagine. improvvisamente, sul viso di vari convenuti,
apparve chiaramente delineata una maschera di paura: alcuni
digrignavano i denti, altri importunavano maldestramente la
barba, altri ancora presero a tossire nervosamente. in ballo
c’era qualcosa di non poco conto e di assolutamente nuovo per
la stragrande maggioranza dei presenti: la traversata in mare
aperto del Mediterraneo!
Molti vivevano e lucravano dagli scambi fra le due sponde,
ma pochissimi si erano avventurati fra le mille insidie di tali
viaggi. ora però, al punto in cui ci si trovava, certamente non
si potevano accettare defezioni all’incarico.
uno dopo l’altro, la lista dei designati si allungava, fra
bisbigli e sommessi singulti. Quand’ebbero terminato, ampsicora elencò i notabili prescelti, seguiti dal nome della città o
del territorio che avrebbero rappresentato. con una sorpresa
finale, che conferì ancora maggior prestigio alla delegazione:
il nome di iosto.
Pareva che tutte le bocche presenti in sala fossero state
cucite, dal silenzio che si era creato; l’attenzione di tutti si
concentrò sulla sagoma dell’ultimo nominato.
il giovane trasecolò e, dopo aver levato entusiasticamente
la mano per l’elezione del padre, se ne stava in un cantuccio
con le braccia conserte, trovandosi inaspettatamente al centro
dell’attenzione.
non se l’aspettava proprio una simile decisione da parte del
padre, né riusciva a capirne la vera valenza, ma fece ugualmente
buon viso a cattivo gioco. a malapena aveva affrontato in passato delle piccole traversate, sempre in compagnia degli amici,
per raggiungere via mare Tharros, ma aveva sempre rifiutato i
ripetuti inviti che riceveva per le battute di pesca.
L’elemento in cui sentiva di poter stare perfettamente a
suo agio era da sempre la terra. iosto spiccicò a stento alcune
roche parole di ringraziamento rivolte alla figura del padre per
l’onore concessogli. Questi contraccambiò orgoglioso, mentre
i convenuti inneggiavano i loro nomi.
La folla abbandonò il senato non prima di essersi avvicinata a salutare ampsicora e iosto, che d’un tratto si trovarono
soli e in silenzio. il padre sapeva di aver forzato la mano con il
figlio, non avendolo minimamente contattato preventivamente
sull’argomento.
ampsicora reputava l’audacia una forza capace di innalzare
l’animo al di sopra dei turbamenti e delle emozioni che poteva
suscitare la vista di un grande pericolo; una forza in grado di
assicurare la calma nei momenti difficili, tale da permettere
l’uso della ragione davanti alle difficoltà. Così egli pensava che
l’abitudine ai pericoli minori avrebbe rafforzato il coraggio di
iosto, preparandolo a esporsi a quelli più grossi.
Passando un braccio intorno ai fianchi del figlio, Ampsicora
lo indirizzò verso l’uscita.
Mentre scendevano i gradini che dal senato portavano
alla strada gli disse: – Figliolo, ti prego di non volermene, non
sopporto quell’aria corrucciata che mi presenti. capisco il tuo
stato d’animo ma per quanto possa sembrarti strano l’ho fatto
per il tuo bene. infatti solo chi è capace di osservare gli ordini
sarà in grado d’essere un buon comandante. E tu lo sarai!
Pronunciando quelle parole il tono della voce fece trasparire la forte emozione che stava provando, e strinse ancora
più forte a sé iosto, ma senza guardarlo negli occhi. terminò
dicendo: – ricordati che il bene o il male che la sorte ci destina,
non ci toccano in misura della loro grandezza ma della nostra
suscettibilità. Sii forte dunque, i tempi lo esigono, ma non di
meno tuo padre.
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Pietro Scanu
Il contegno di cui s’era avvolto Iosto fino a quell’istante,
con un broncio puerile stampato in viso, si sciolse come neve
al sole e, staccandosi dolcemente dalla stretta del padre, gli si
parò innanzi dicendogli: – Padre vi seguirò ovunque!
cittadini in combattenti capaci di attaccare e sapersi difendere.
in termini un tantino differenti si poneva la questione per i cavalieri, in quanto era vero che molti di essi sapevano cavalcare,
alcuni anche in modo egregio, ma non erano capaci di utilizzare
al contempo le armi d’offesa.
tutte queste problematiche logistiche legate all’addestramento delle schiere vennero affidate agli ufficiali dei vari distretti, che designarono i subalterni capaci di instradare, a seconda
delle varie capacità, le persone nei vari ranghi. Si vennero formando quindi truppe a cavallo, arcieri, frombolieri, fanti e gregari. Si radunarono in tempi ravvicinati affinché tutti riuscissero
a ottenere i rudimenti teorico-pratici per maneggiare una spada
durante il combattimento e utilizzare lo scudo per difendersi.
Le piccole spianate fuori dai centri abitati si trasformarono così
in palestre a cielo aperto dove i più si esercitavano, strappando
il tempo dedicato normalmente ai propri lavori. non era infrequente notare, alla periferia dei centri di raccolta, serpentine
umane che si recavano, a piedi o a cavallo, a prendere coscienza
dell’arte della guerra. un unico sentire li aveva portati a confezionarsi o a farsi confezionare una spada di legno personalizzata
con cui apprendere i rudimenti dai maestri d’armi, in attesa che
fossero consegnate le vere spade metalliche.
divisi per gruppi, aspettavano pazientemente di utilizzare
le proprie mani, per quell’uso da neofiti guerrieri, così diverso
da quello normalmente espresso nelle piccole imbarcazioni a
remi, nel modellare la creta o la pasta vitrea, nel bestiame o nei
campi. Insomma un’infinità di mestieri che andavano a confluire
in un esercizio, quello delle armi, assolutamente dissimile dalle
normali mansioni che il loro quotidiano assorbiva.
in una primavera ormai avviata, dove i campi prorompevano di profumi e colori sgargianti, questa varietà umana in
movimento contribuiva ad arricchire lo spettacolo della natura.
Il colore dei loro abiti, il loro fischiettare che andava a sovrapporsi al garrire delle rondini, i loro dialoghi nei vari dialetti
La tattica abituale di ampsicora di ricorrere alle situazioni
a forte impatto emotivo per forgiare il figliolo dava i frutti desiderati. come dal crogiolo esce il ferro arroventato e diventa
malleabile al fabbro che, colpo dopo colpo, lo plasma a suo
desiderio, così succedeva al giovane iosto. nelle contrade, nei
borghi, nei villaggi ci si accingeva, senza perdere tempo, a stilare le liste di persone che potevano essere arruolate nell’esercito.
ovunque l’entusiasmo andava a ingrossare l’elenco degli armati
disposti a combattere per la libertà.
Vi fu, a dire il vero, anche una parte di persone che, prese
dalla paura e dalla vigliaccheria, si diedero alla latitanza. Ma
con il passare dei giorni la consistenza numerica prendeva
sempre più corpo, quanto più si era coscienti del minor tempo
a disposizione.
L’altro problema pratico che si poneva di fronte alle schiere che si andavano formando era quello di dare a questi neoarruolati dei rudimenti sul come maneggiare le armi e sul come
comportarsi in battaglia.
Era senz’altro un problema non da poco visto che la gran
parte d’essi sapeva usare solo un coltello o uno spiedo per
arrostire. alcuni sapevano tirare bene con l’arco, altri erano
abili con le lance, ma solo a scopi venatori. La loro esperienza
si fermava alla lotta contro un cinghiale, un cervo, un muflone
ma non certo per affrontare in campo aperto un soldato romano.
I piccoli scontri che si erano verificati in quei territori erano sempre stati risolti dai mercenari, ma in rapporto al mutato
quadro espansionista di roma, tali forze da sole non potevano
di certo bastare. Queste milizie puniche di stanza nella regione
potevano costituire un valido aiuto nel trasformare dei semplici
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Pietro Scanu
costituivano il contrappunto al ronzio di api e calabroni della
circostante campagna.
talvolta per gli spostamenti utilizzavano dei carri che, trainati da buoi, cavalli o asini, divenivano allegri trasmigratori musicali perché vi si intonavano canti e filastrocche accompagnati
spesso dalle launeddas, che avevano un potenziale taumaturgico
capace di lenire i gravi pensieri del momento.
inutile sottolineare che in un tale clima di mobilitazione,
gli anziani tornavano a somigliare ai giovinastri, e questi ultimi
assumevano talvolta i tratti seri degli adulti.
ognuno di essi aveva a casa qualcuno da proteggere – una
madre, un padre, una sorella, dei fratelli, dei parenti – dal
rapace artiglio romano.
il fumo che si levava dalle fucine andava a occupare gli
spazi limitrofi in rapporto agli aumentati ritmi lavorativi di
fusione e preparazione delle armi.
Furono spostate ampie schiere di schiavi, impiegate precedentemente nel lavoro dei campi, per indirizzarle all’estrazione
di minerali ferrosi dalle miniere.
Anche a Iosto venne affidato un contingente di uomini da
preparare e addestrare. con molta pazienza e sagacia cercò di
instaurare inizialmente un rapporto confidenziale, per passare
poi all’affinamento tecnico militare. Il suo era un gruppo abbastanza numeroso, contava all’incirca un centinaio di unità, con
una fascia d’età compresa fra i sedici e i trent’anni.
tutti scelti e opportunamente scremati da parte dei fedelissimi di ampsicora, per spianare la strada all’arduo compito
del signorotto. Provenivano per la maggior parte dalle famiglie
abbienti dei latifondi vicini. tutti molto motivati e orgogliosi di
far parte del gruppo destinato al figlio del principe.
il lavoro scorreva per il meglio, per iosto, assistito da una
decina di soldati effettivi che lo coadiuvavano. aveva senz’altro
più rogne dal versante femminile di cui facevano parte le due
donne più importanti della sua vita: la madre Ellissa e l’amata
narna. La prima alla notizia della sua spedizione a cartagine
andò su tutte le furie, vedendosi estromessa dal ruolo di madre,
attaccando duramente ampsicora per non averla consultata e
non averle chiesto un parere. con tale motivazione prendeva
continuamente da parte il figlio, rovesciandogli addosso montagne di frottole sul padre, cercando in questo modo di ripagarsi
del torto subito.
si può ben capire lo stato d’animo nel quale si trovava
iosto combattuto fra i due genitori. come se non bastasse, narna non aveva creduto minimamente alla versione raccontatale
dall’amato e soprattutto sul suo presunto ruolo passivo nella
vicenda. Era fermamente convinta dell’esatto contrario e cioè
che fosse stato iosto a chiedere esplicitamente al padre di essere
mandato a cartagine.
a nulla, almeno per il momento, erano serviti i tentativi di
riappacificazione messi in atto da Iosto. Purtroppo il solo sentore
di un viaggio aveva messo in totale subbuglio la testa di narna,
che a parole aveva sempre vantato lo stile di vita dell’amato,
godendo dei pochi momenti che riusciva a dedicarle, ma ora che
l’avrebbe perso per non si sa quanto tempo, si era materializzato
in lei lo spettro della lontananza.
Questo le rodeva dentro in ogni momento, e si ritrovava
a digrignare i denti, facendo mille smorfie e pensando fra sé:
bene, bene, lo cucino io il signorino. Ma poi dopo un attimo,
si lasciava andare a singhiozzi e pianti a dirotto. E quando gli
occhi trovavano un po’ di pace, pensava: “resisto, ce la faccio,
ce la devo fare”.
con vera veemenza sfuggiva all’amato, cercando un inutile
riscatto, negandogli persino la propria visione.
Quando iosto era libero dagli impegni legati alla formazione dei militi, preparava in fretta la bardatura del suo cavallo e
lo spronava in direzione del porto.
Era un cavallo di razza berbera a cui teneva molto, regalatogli dal nonno Hanno. aveva una testa forte, la fronte
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bombata con due orecchie piccole e appuntite; il collo aveva
un’attaccatura larga e tonda, sormontato da una folta criniera.
il manto era fulvo pezzato, la coda corta come piaceva a iosto.
Accorreva al fischio del proprio padrone, bestia intelligente, riuscendo a capire alla perfezione il suo stato d’animo,
lo assecondava in pieno regalandogli forti emozioni. al porto
iosto cercava un’evasione dai cupi pensieri che in quei giorni
lo attanagliavano. La fresca brezza marina e il viso cordiale e
sorridente dei carpentieri erano la giusta amalgama di cui aveva
bisogno.
era fatto meno forte e alcuni uomini fissavano con decisi colpi
di martello sottili placche di piombo allo scafo tramite piccoli
chiodi in rame dalla testa larga. dacran prese a spiegargli come
le lamine andassero giustapposte l’una sull’altra nella direzione
di scorrimento dell’acqua sullo scafo: al bordo anteriore di
quella appena fissata andava a sovrapporsi il bordo posteriore
della successiva. in tal modo la parte esterna della carena risultava priva di ostacoli allo scorrimento dell’acqua. Ma un altro
tipo di martellamento faceva vibrare le tempie di iosto, era il
battito accelerato legato al pensiero che ogni tanto l’assaliva:
narna. L’avrebbe rivista prima della partenza? avrebbe potuto
accarezzare i suoi morbidi capelli, stringendola fra le braccia?
Vedendolo palesemente sovrappensiero, dacran lo invitò a
sedersi con lui sopra un comodo cumulo di cordami di sparto,
mettendolo al corrente che la nave non sarebbe stata pronta
prima di un’altra settimana. Era quello il tempo necessario
per terminare l’opera di rivestimento con le lamine di piombo, onde garantire alla nave la difesa dalla teredine xilofaga.
Questo temibile mollusco marino, spiegava dacran, era capace
di scavare lunghe gallerie nei legni sommersi della nave. L’azione deteriorante da questo causata poteva spingersi al punto
da indebolire la struttura dell’imbarcazione fino a farla cedere.
– un semplice vermetto acquatico è capace di tutto ciò? –
chiese stupito iosto.
– Già! – rispose il capo mastro. – Ecco perché oltre l’impermeabilizzazione per rendere stagna la nave bisogna proteggerla
con una corazza metallica.
invero, la corazza che proteggeva il cuore di iosto dava
dei segni di cedimento a seguito della strategia utilizzata da
narna nei suoi confronti. Questa infatti lo trattava male con la
speranza che lui non partisse. il tormento si era impadronito
di iosto, il quale cercava una soluzione idonea alla situazione,
con l’unico risultato di avvilupparsi incessantemente intorno agli
stessi pensieri, senza peraltro arrivare mai a un punto fermo.
al bacino di carenaggio fremevano i lavori per il rimessaggio della nave che sarebbe andata ad aggiungersi alle altre
tre già presenti in rada, aventi il compito di trasportare la delegazione sarda davanti al senato cartaginese. s’intratteneva
per ore con le maestranze, facendosi descrivere con dovizia di
particolari le varie tecniche e i segreti con i quali lavoravano
sugli scafi. Dacran, il capo cantiere, di costituzione esile ma dal
piglio deciso, esigeva il massimo dai suoi uomini, non esitando
a infliggere punizioni corporali dal carattere plateale quando
i subalterni peccavano in qualcosa. sapeva bene che dal loro
lavoro dipendevano le vite di coloro che avevano l’ardire di
affrontare i vari umori dei flutti marini.
Erano intenti a curare i chimenti, ossia gli spazi di giunzione presenti sul fasciame che costituiva il rivestimento esterno
dello scafo. a piccoli gruppi lavoravano al calafataggio e con
la massima cura realizzavano l’impermeabilizzazione colando
della resina nelle fessure e stendendo poi, sopra le giunzioni,
dei rotoli di fibra vegetale, impregnati anch’essi di resina. E
dacran si dimostrava scrupolosissimo in questa pratica poiché
da essa dipendeva la sicurezza durante la navigazione. con
un cenno della mano fece capire a iosto di seguirlo e questi,
senza proferir parola, lo seguì con sempre crescente curiosità
verso la poppa della nave. Qui l’odore intenso delle resine si
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Qualcosa lo scavava dentro come la teredine, ma aveva un
diverso nome, era l’innamoramento di cui avvertiva la presenza,
provando per intero le pene dell’amore.
appena una legione, la iX. sostanzialmente, ciò che gli premeva
di più, era tenere sotto controllo le truppe senza che scoppiassero malumori, fino a passare il testimone al suo successore.
La pinguedine che l’avvolgeva trovava il suo giusto spazio al
pomeriggio, quando poteva abbandonarsi ai piaceri delle terme,
che da buon patrizio aveva presso la propria dimora. dedicava
volentieri molto del suo tempo libero alla figlia Domitilla di
nove anni, alla quale aveva dato il nomignolo gentile di uccellino. L’aveva affidata alle cure di una nutrice greca che le
aveva raccontato le prime fiabe proprio nella sua lingua madre.
Mamulla sperava d’essere a roma per l’anno successivo, così
al compimento del decimo compleanno l’avrebbe fidanzata
nell’urbe, con un futuro sposo scelto da lui. Ma, in breve tempo, ricevette dal senato capitolino una notizia che gli provocò
non pochi grattacapi. infatti, roma assillata da annibale non
poté inviare alcunché al pretore, anzi lo invitava ad assumere
iniziative volte a reperire in loco le risorse per i soldati.
Mamulla, all’indomani della notizia, convocò i reggenti
delle città amiche di Roma in Sardegna per comunicargli la
duplice imposizione fiscale per far fronte alle nuove esigenze.
Possiamo ben immaginare come vennero accolte queste nuove
inique richieste di grano da parte dei sardi.
Il malumore dilagava ovunque e molte città decisero di
passare apertamente dalla parte di ampsicora.
altro amore univa i gemelli alla madre, di tipo diverso ma
foriero di mille potenzialità.
Lasciati da parte remi e scalmi, i due fratelli si adoperavano, anch’essi richiamati sulla terraferma, nell’esercizio delle
armi. non da meno, divenivano dei veri campioni nel far incetta
d’indiscrezioni, non vedendo l’ora di tornare a casa per riferirle,
davanti a un bel focolare, alla madre.
E per ogni servizio reso, i romani ricompensavano in sonanti sesterzi i cospiratori che, grazie ai pani contraffatti dalla
anomala pintadera, rendevano parecchio.
Jezbel però sottolineava ai figli come fosse lei a utilizzare
il denaro e non viceversa. difatti non s’era venduta ai romani
per i soldi ma in virtù di un ideale e non per vizio.
– L’avrei fatto anche senza il bisogno di una paga, – disse ai
ragazzi – ma considero tale remunero un indennizzo ai mancati
introiti per la perdita di vostro padre.
i gemelli annuivano e si galvanizzavano ancor più nel
pescare notizie.
Fra queste giunse al cospetto del pretore aulo cornelio
Mamulla a Karales, l’importante ambasceria che i sardi s’apprestavano a presentare a cartagine. il vecchio pretore era in
Sardegna già da due anni, e ormai si fregava le mani al solo
pensiero che il suo mandato fosse già al termine. E ciò non gli
dispiaceva minimamente poiché in sardegna s’era arricchito
abbastanza e all’orizzonte si prospettava una guerra dagli esiti
alquanto incerti. tanto più ora che era venuto a conoscenza della
richiesta d’aiuto che i rivoltosi volevano inviare a cartagine. E
come dedicava poco tempo alla cura della propria persona, così
si limitò a inviare al senato romano la notizia, ma soprattutto la
richiesta di grano e denaro per le truppe di stanza in sardegna,
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iV
arrivò maggio e iosto si trovava sempre più preso dal vortice
della partenza, comportandosi come quegli innamorati che
passano più tempo a occuparsi della passione che li attanaglia
che della persona amata.
I suoi goffi e maldestri tentativi di riappacificazione con
narna avevano avuto come unico risultato quello di far chiudere
a riccio la ragazza. giovane e piena di speranza, non s’accontentava di esistere ma desiderava fare dei progressi. ciò che aveva
vissuto con iosto era diventato impercettibilmente parte di se
stessa, e l’incubo di perderlo la teneva crudelmente sveglia la
notte. a differenza di qualche sua amica, convinta che il bene
ricevuto dall’amato la costringesse ad accettare anche il male
che le poteva provocare, narna era quanto mai decisa a tenerlo sulle spine. Persino quella mattina che Iosto, approfittando
della solita visita di Narna al fiume per sciacquare i panni, le
si avvicinò di soppiatto con un cestinetto di fragole selvatiche
colte per lei, appena s’accorse che il braccio desideroso di richiamarla dalle sue faccende era quello di iosto, non si lasciò
sopraffare dall’emozione. abbozzando un malinconico sorriso,
mandò a gambe per aria e con il sedere in ammollo nel fiume il
malcapitato, con due sonori ceffoni, scatenando l’ilarità delle
altre lavandaie.
Purtroppo alcuni innamorati vedono i difetti dei loro amati
solo dopo che l’idillio finisce… E Iosto non voleva capire che
narna non sapeva perdonare. un vento salmastro di libeccio
s’andava rinforzando, quella mattina di maggio, scompiglian52
Pietro Scanu
do le nuvole in cielo e sospingendo iosto giù verso il porto,
rendendogli la tunica ancor più attillata. aveva deciso di andare a piedi e presto lasciò la via maestra per addentrarsi in
una mulattiera che fiancheggiava la scogliera. Il fragore delle
onde che andavano a infrangersi lungo la battigia gli arrivava
accompagnato da goccioline nebulizzate, obbligandolo a passare
spesso la manica della tunica sul viso. scendendo sul terreno
calcareo, voltava di tanto in tanto lo sguardo verso terra, attratto
dai colori della gariga.
In quel periodo, ai colori azzurroviolacei delle infiorescenze del rosmarino selvatico si andavano alternando sfumature
gialle dell’elicriso e su quell’incanto di colori e profumi s’andavano adoprando stuoli d’insetti. i gruccioni che ne facevano
incetta, volando bassi sui fiori, erano arrivati da poco dall’Africa
sulle coste sarde. avevano bisogno d’energie per rinfrancarsi
del lungo volo affrontato, prima di incominciare a scavare lunghe gallerie nel terreno per costruire i loro nidi.
iosto nel vederli non poté fare a meno di pensare che da
lì a pochi giorni sarebbe toccata anche a lui quella traversata,
ma in senso inverso.
Era abbastanza provato fisicamente dalle esercitazioni per
la chiamata alle armi, ma quella camminata l’aveva ritemprato
e nel giro di poco tempo si ritrovò sul molo di cornus. Questo,
incrostato di sale, riluceva come un tappeto di seta sul quale
l’andirivieni prodotto dagli scaricatori con il loro calpestio
disegnava bislacchi disegni.
Superò l’intera lunghezza di una nave affiancata al molo sui
parabordi per raggiungere un gruppetto di uomini che discuteva
animatamente. Fra questi, shefatim il navarca, svettava per
altezza dal resto del gruppo degli ufficiali subalterni e, mentre
il libeccio gli scarmigliava i capelli, s’accalorava nel cercare
di far capire agli uditori quale fosse la severità che regnava
nell’ambiente della marina militare cartaginese. E a supporto
53
La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
delle sue tesi raccontò la storia del pilota Peloro. costui guidava
la flotta cartaginese nella direzione dello stretto di Messina, con
l’intento di attraversarlo. soltanto quando si giunge in prossimità si capisce che è praticabile e che lo si può attraversare,
mentre a distanza appare come un tratto di costa continuo o al
limite un golfo.
anche annibale ebbe questa impressione, e convintosi
dell’assenza di qualunque accesso in quel tratto di costa, prese
Peloro per uno sprovveduto che voleva mettere a repentaglio
l’incolumità dell’intera flotta. Per tale ragione lo fece mettere
a morte, salvo poi ricredersi una volta raggiunto lo stretto sulla
reale esistenza del passaggio. Preso atto della buona fede di
Peloro e del suo valore, poté onorarlo con un degno sepolcro
e una statua in sua memoria, dando a quel capo il nome dello
sfortunato pilota.
– Questo – disse shefatim – per farvi capire in che modo
gli ammiragli di cartagine trattavano il pur minimo sospetto di
imperizia da parte dei loro piloti.
Sulla scia dei commenti sollevati dagli ufficiali subalterni
apparve iosto, che aveva una certa premura di parlare col proprio comandante per saperne di più sulle modalità dei preparativi. appena uno del gruppo lo scorse s’affrettò a dire: – Ehi
shefatim, sbaglio o quello che s’avvicina è il giovane che presto
si unirà a noi nella traversata?
Smettendo di parlottare, si voltarono con il riso a fior di
labbra verso il nuovo arrivato.
shefatim, sollevando la mano, salutò iosto e gli chiese con
voce stentorea: – sei sempre dello stesso avviso di unirti a noi?
il loro sarcasmo derivava dalla nota riluttanza di iosto
verso il mare. Ma egli rispose: – sa bene comandante, fosse
per me ne avrei fatto volentieri a meno, ma gli ordini non si
discutono, si eseguono! – e proseguì: – Mi premeva sapere se
ci sono novità sulla data della partenza.
iosto aveva sentito parlare spesso di quell’uomo e delle sue
gesta, ma non aveva ancora avuto modo di intrattenersi con lui.
in effetti shefatim si faceva sempre conoscere per la sua fama
che gli derivava soprattutto dall’essere stato un combattente al
fianco dell’ammiraglio cartaginese Annone di Bagrada, nella
celebre battaglia delle isole Egadi contro i romani. L’avvenimento risaliva a ventisei anni prima, quando il 10 marzo del
241 a.C. il venticinquenne ufficiale di marina Shefatim era al
comando di una delle duecento navi cartaginesi, che si frapponevano alle duecento quinqueremi comandate da caio Lutazio
catulo. il pretesto dello scontro era il controllo della sicilia,
ma in realtà vi era in ballo ben altro: l’egemonia completa del
Mediterraneo da parte di una delle due potenze.
54
cartagine in quel periodo spadroneggiava sui mari, grazie alle sofisticate tecniche di costruzione delle navi. Era loro
infatti l’invenzione delle quadriremi e quinqueremi, potenti
imbarcazioni i cui singoli pezzi lignei avevano sui bordi lettere
dell’alfabeto fenicio. Pezzi che venivano prefabbricati separatamente e successivamente assemblati dai carpentieri grazie
proprio alle lettere.
La prua era dotata del terribile rostro, che altro non era se
non una punta di bronzo variamente sagomata, preparato per
spaccare il fianco delle navi nemiche. Questa tecnica, abbinata
all’alto grado di preparazione degli ammiragli cartaginesi facenti
parte della aristocrazia, consegnava a cartagine il controllo dei
mari, al contrario di roma dimostratasi viceversa imbattibile
a terra.
Ma in quella terribile battaglia, di cui shefatim portava ancora le cicatrici, venne utilizzato un marchingegno che permise
ai comandanti navali romani di infliggere una pesante sconfitta
alla flotta cartaginese.
Le navi romane vennero dotate del corvo, un dispositivo
che era costituito da una passerella alla cui estremità era stato
fissato un rampino. Proprio la sua forma adunca ricordava il
55
La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
becco di un corvo. I romani avevano già utilizzato con successo
quest’espediente, lanciandolo sulla coperta delle navi nemiche,
una volta affiancate, le immobilizzavano permettendo quindi ai
fanti di marina di irrompere sulla nave nemica. si dava così
inizio al combattimento corpo a corpo, dove i romani sapevano
dare il meglio di sé.
La disciplina imposta dall’ammiraglio Lutazio, unita al
suo valore e determinazione, prevalsero alle Egadi quando divennero il teatro di un combattimento spietato e terrificante. I
romani colarono a picco cinquanta navi cartaginesi, e ne fecero
prigioniere settanta con tutto l’equipaggio.
I cartaginesi affondarono trenta quinqueremi e inflissero
pesanti danni ad altre cinquanta. dopo che questi si arresero, fu
concordato un armistizio fra le due potenze, destinando la sicilia
occidentale a roma, più un indennizzo da parte di cartagine
stabilito in 3.200 talenti, da spalmarsi nei dieci anni successivi.
così si concluse la Prima guerra punica.
io. infatti, se un cavaliere muore in battaglia il suo corpo cade
a terra, e può ben sperare che qualcuno raccolga le sue ossa e
le seppellisca; il marinaio invero le poggia sui flutti sperando
che questi siano clementi con i suoi resti. La vostra presenza,
comandante, rappresenta un mito per chi vi è subalterno e la
clemenza può esorcizzare le paure di chi vi deve seguire. il
tendere la mano è un modo gentile e sorridere di gusto può
rendere più sopportabile qualunque prova!
La cicatrice di shefatim pareva avere nel suo interno mille
vipere che si contorcevano, ma egli non fiatò, si limitò a piazzargli le fiammeggianti pupille sul suo sguardo. “Ma come?”
pensò. “Il comandante di flotta, che dalle Egadi era riuscito a
riportare indenne la sua nave e gran parte di quelle assegnategli
fino a Cartagine ricevendo grandi onori, doveva sentirsi dire ora
ciò che era meglio? Per la barba di bes! Fosse successo quando ancora mi trovavo sotto le armi avrei ridotto la schiena di
quell’insolente in un cumulo di carne dolente e sanguinolenta.”
Ma ora, certo, il contesto imponeva che la sua condotta fosse
rivolta verso l’offensore evitandone la capitolazione.
Pensò quindi che il giusto castigo fosse quello di privarlo
della sua compagnia, e disse a Iosto: – La nave affiancata alla
banchina è l’ultima delle quattro che sta ultimando le operazioni di carico dell’acqua. Non appena soffierà il vento giusto
salperemo, tenetevi pronto.
Voltò quindi le spalle a iosto e s’intrufolò nuovamente fra i
suoi compagni. iosto mostrava di crescere in coraggio e iniziativa, ma in quell’occasione si dimostrò come quei gatti viziati,
un po’ isterici e attaccabrighe, al limite dell’insolenza che non
si lasciano intimorire da un’autorità. Aveva accumulato tanta di
quella tensione in quei mesi da apparire come una corda di cetra,
pronto a scattare per un nonnulla, e di ciò ne aveva appena dato
la dimostrazione, non conoscendo bene quale fosse lo spessore
e l’alto grado di preparazione di un navarca cartaginese.
Quando shefatim narrava gli avvenimenti legati a quella
battaglia, la cicatrice che dallo zigomo sinistro gli correva lungo la guancia fino al trago si contraeva divenendo ancora più
mostruosa. Era la tensione che riemergeva a tutto campo nel
rievocare quei momenti drammatici. i suoi luogotenenti sarebbero rimasti chissà quanto ad ascoltare le sue imprese, dalle
quali trasudavano audacia, ardimento, temerarietà.
rivolgendosi ancora a iosto disse: – non mi verrai a dire
che hai fretta di partire?
E detto ciò, si scoprì il torace voltandosi lentamente affinché fossero ben visibili le molte cicatrici che tempestavano
il suo corpo, e proseguendo: – Qui troverai la mappa che ci
guiderà nel nostro viaggio, l’ho già preparata.
a tale vista i suoi luogotenenti trasalirono, ma iosto non si
tirò indietro sentendosi sfidato e così rispose: – Comandante, è
risaputo che non vi è alcuno che teme la morte come il marina56
57
La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
shefatim aveva lasciato la marina militare cartaginese qualche anno prima, ritirandosi a vita privata, dopo aver rifiutato un
alto incarico propostogli per riconoscenza dal senato cartaginese
e il dono di una sontuosa villa. chiese invece per controvalore
una nave da carico con la quale poter solcare i mari inseguendo
la vita in mare. sapeva leggere e scrivere in maniera corretta
ma, a differenza degli altri piloti che annotavano su tavolette o
pelli d’animale essiccate schizzi sulla rotta, preferiva sfruttare
la sua formidabile memoria, facendo riferimento alla sua mappa mentale. Era questa che produceva una sicura sequenza di
riferimenti nella navigazione sia d’altura che sotto costa, fatta
di un’alternanza di porti, secche e scogli affioranti, punti per
il rifornimento dell’acqua, estuari di fiumi, e tutti nell’ordine
esatto lungo la tratta da cartagine a cornus e viceversa. Queste
ultime erano le rotte preferite da shefatim, in quanto, oltre a
essere particolarmente redditizie, riuscivano a trasmettergli un
non so che di familiare, nonostante non avesse una vera famiglia
e quindi non potesse riconoscere certe sensazioni.
confronti travalica qualunque immaginazione. Quello che ti ho
proposto era inevitabile, e se avessi potuto farlo sarei andato
di persona. Ma come ben sai, una mia assenza potrebbe far
precipitare le cose a cornus. dovrai trattare tu con i senatori
cartaginesi descrivendo in modo onesto e sincero il rischio che
altrimenti corriamo. E se saprai farti ascoltare il nostro paese
sarà salvo, e te ne saremo tutti grati. In te, figlio mio, ripongo
grandi speranze.
iosto cercò di scaricare lo stato di eccitazione nervosa posizionando e riposizionando la seggiola e rispose: – se partire
equivale un po’ a morire, preferisco farlo nella ricerca della
libertà, non soccombendo all’inedia. Non ho mai avuto paura
della volontà degli dei come in questo periodo, ma il terrore
della schiavitù fa sì che possa riuscire a sovrastarla.
Più i giorni passavano, e più Ellissa cercava di viziare il
figlio, non facendogli mancare a tavola manicaretti sfiziosi e
prelibatezze di ogni tipo, tanto da suscitare l’ilarità di Ampsicora
che un giorno disse: – iosto, come ben sai il nome che porti lo
scelse tua madre e significa ‘amico di Astarte’. Continuando
così ti farà diventare presto anche amico di Bes…
con quella sottile ironia ampsicora si riferiva alla consuetudine di raffigurare il dio con la pancia pingue. La madre
non prese di buon grado la battuta e, dopo aver fulminato con
lo sguardo il marito, s’alzò dalla tavola in silenzio.
ampsicora non si sentì toccato e rivolgendosi nuovamente
al figlio continuò: – Non mi sono mai illuso che la decisione che ho preso per te potesse essere condivisa anche da tua
madre. Per quanto cerchi di inimicarmi il tuo affetto, è bene
che tu sappia che la benevolenza e la stima che nutro nei tuoi
58
anche i gemelli sembravano agitati da forte emozione mentre, giocando a fare i buoni soldatini, seguivano le direttive che
gli venivano impartite, anche se si stavano preparando a passare
nelle schiere nemiche non appena vi fosse stata l’opportunità.
apparivano un tantino contrariati del fatto che, per quanto
si dessero da fare su e giù per le banchine del porto, non riuscivano a trovare bacu, proprio ora che s’era sparsa la notizia
dell’imminente partenza delle navi. Per loro era di notevole
importanza conoscere la composizione della delegazione.
L’avevano cercato ovunque, al bacino di carenaggio, nei
capannoni dei materiali e in quelli limitrofi al porto, ma di
bacu nemmeno l’ombra. ricevevano sempre la stessa risposta
negativa da parte dei lavoratori del porto: nessuno l’aveva visto.
– Questa proprio non ci voleva! – bisbigliavano tra di loro.
– in un momento così critico in cui i romani vogliono conoscere
l’entità e la composizione del gruppo di legati che ha ricevuto
l’incarico di recarsi a cartagine.
il pomeriggio seguente, quando ormai avevano perso tutte
le speranze e non contavano più di vederlo prima della partenza
59
La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
delle navi, mentre facevano un giro di ricognizione al porto, lo
trovarono seduto su una cassa fra alcune barche tirate a secco.
Era intento a intrecciare dei cordami con la canapa che
sarebbero stati utilizzati a bordo per le sartie, mentre i cordami prodotti con lo sparto non venivano utilizzati in asciutto,
in quanto si rivelavano più resistenti nell’acqua. Mentre gli si
avvicinavano, i gemelli furono colpiti da un forte odore di uova
marce proveniente dal fondo delle barche lasciate lì vicino e
non risciacquate bene dai residui. E per quanto fossero abituati
a sentire odori di un certo tipo, il tanfo li colse di sorpresa e
non poterono fare a meno di palesare una plateale smorfia di
disgusto. bacu, che ormai li aveva a una trentina di piedi, nel
sollevare lo sguardo dal lavoro in cui era immerso, si accorse
dei loro visi schifati. Fu questo il pretesto per farlo esplodere in una risata sonora, e dire: – Vuoi vedere che da quando
frequentate i campi che olezzano di sterco di buoi e pecore vi
siete fatti il naso fino?
i due erano arrivati a breve distanza dall’amico e stavano
quasi per fronteggiarlo, quando un raggio di sole deviato dalla
superficie del mare li abbagliò in pieno viso, facendoli arrestare.
bacu, che continuava a sogghignare, continuò: – che razza di
coraggio vanno incutendovi i vostri istruttori, se indietreggiate
alla vista di un marinaio disarmato?
a quel punto Mussumbal gli replicò: – da gran scorfano
quale sei riesci perfettamente a mimetizzarti quando non ti vuoi
far trovare.
E bacu: – Quanta premura! Qualcuno si interessa a me?
Mi avete per caso cercato?
attumbal fece in modo da non dargli troppa importanza e
disse: – non ci serviva alcun servigio da parte tua, ma a dire
il vero ci sarebbe dispiaciuto non salutarti visto che ormai la
partenza è imminente!
a quel punto bacu esibì quel sorrisone che lo faceva essere
così unico, e aggiunse: – anche a me sarebbe dispiaciuto partire
senza salutare il mio nipotino nato i giorni scorsi. ringrazio
bes che sia nato prima della partenza, e così mi sono recato
al villaggio di curcuria per salutarlo. andiamo a festeggiare
davanti a un bicchiere di buon vino nero!
così la comitiva si diresse verso la mescita più vicina dove
s’apprestavano a far baldoria. E mentre la sbornia prendeva
spessore, i due infingardi riuscirono a strappargli le notizie
necessarie per poterle trasmettere ai romani.
60
La bonaccia che imperava sulle coste occidentali in quei
giorni subì un mutamento con l’ingresso di correnti fresche che
arrivavano dal nord. Era il cambiamento che tutti aspettavano
per la partenza, i venti spiravano finalmente dal quadrante giusto
per spingere le navi col vento in poppa.
A una a una le navi venivano affiancate al molo e gli equipaggi prendevano rapidamente posto a bordo.
c’erano tutti sul molo a salutare i passeggeri: familiari,
amici, conoscenti e gente semplice che si sentiva di augurare
una buona traversata a chi era stato destinato a portare a termine un’importante missione. Persino il gran sacerdote ras,
che giorni prima s’era dato un gran daffare immolando vittime
sacrificali con i riti purificatori rivolti al buon esito del viaggio, non aveva voluto far mancare la sua presenza al porto.
stazionava con una decina dei suoi assistenti nelle immediate
vicinanze di ampsicora, dal quale era separato da un nutrito
numero di senatori.
iosto, imbrancato nel mezzo di quelle eminenze, si era
posto al fianco del drappello dei valorosi delegati. Ampsicora
e i senatori, approfittando del tempo residuo, continuavano
a elargire consigli alla delegazione per far presa sul senato
cartaginese.
Un tantino più in là, defilata sulla destra, stava Ellissa,
colta da una logorrea irrefrenabile, che tempestava le sue ancelle con tono saccente sulle leggende legate ai mostri marini.
61
La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
Le giovani, mentre annuivano passivamente, si scambiavano di
continuo occhiate e commenti sull’avvenenza dei marinai che
passavano innanzi.
Ellissa aveva fatto confezionare per il viaggio del figlio
alcune tuniche nuove di lana ovina rosso porpora e arricchite
sui bordi e sulle maniche da decorazioni floreali. Inoltre, per il
freddo della sera, dei mantelli impreziositi da fibule d’oro. Ma
iosto cercava ben altro calore per il gelo che asserragliava il
suo cuore. ogni tanto si metteva sulla punta dei piedi, invano,
alla ricerca del viso di narna. E quel suo gesto spontaneo di far
capolino lo esponeva all’ilarità degli amici, che si sbellicavano
a mimare quei suoi gesti effeminati, ammiccandolo di continuo.
Le prime due navi terminarono le operazioni di carico, ed
ecco pronta la passerella che avrebbe dovuto portare a bordo
anche iosto. Era la terza nave alla quale il giovane era stato
destinato e, dopo un vortice di abbracci affettuosi e commossi,
eccolo soffermarsi fra le braccia di Ellissa. Questa a dire il
vero cercò di trattenerlo il più possibile e, dopo averlo baciato
sulla fronte, gli mise al collo un amuleto d’oro a forma di croce
ansata.
il padre fu l’ultimo ad accompagnarlo alla passerella e con
gli occhi lucidi lo abbracciò dicendogli: – La vittoria, la vittoria,
pensa a lei soltanto.
Le braccia, i visi, le sagome di chi restava sul porto svanivano lentamente agli occhi di chi prendeva il largo, facendo
spazio al profumo di mare aperto che viepiù s’impadroniva del
loro olfatto.
un groppo in gola infastidiva iosto il quale, per cercare
di trattenere le lacrime, guardava in alto verso i gabbiani che
seguivano la nave.
sola di Malu Entu, iosto ricevette i saluti di bordo da parte del
comandante della sua nave. Questi, staccandosi dal governale
posto a poppa sul fianco sinistro, e costituito da un remo dotato
di ampie pale asimmetriche con spalla concava, fiancheggiando
il castello si portò a prua dove attaccato allo stralle si trovava
iosto. il comandante, più grande di una ventina d’anni, l’aveva
quasi raggiunto, ma il giovane, immerso nei suoi pensieri, non
se n’era minimamente accorto.
– salve iosto! – disse quando era a circa dieci passi. come
se si fosse destato all’improvviso, il giovane trasalì nell’udire
quella voce vicina. – non era mia intenzione farti rizzare i capelli, tantomeno rubarti al tuo magico isolamento – proseguì.
– Ma tra i miei compiti c’è anche quello di sapere se va tutto
bene e se eventualmente ti serve qualcosa. – arish! – disse
iosto, visibilmente rincuorato dalla sua vista – sei stato il mio
primo comandante, colui che mi ha ospitato sulla sua nave nella
mia prima traversata a tharros. sapessi com’ero felice quando
mio padre mi ha messo al corrente che avrei navigato con te!
– sono onorato dalle tue parole, – disse arish – e visto
che sei riuscito a serbare un buon ricordo a distanza di almeno
sei anni, mi sento ancora più in dovere di farti star bene anche
in questo viaggio.
– Mi sembrano così lontani quei tempi – disse iosto. – allora ero spensierato, ma oggi, come ben sai, aleggia su cornus
la paura.
– suvvia! – rispose arish. – nulla è perduto e quello che
ti tormenta dentro è legato al fatto di non poterti considerare
coraggioso perché non ti sei mai trovato in pericolo. nella
mia vita, di pericoli, soprattutto in mare, ne ho corsi molti ma
t’assicuro che nel nostro intimo abbiamo risorse inaspettate che
attendono solo di esser messe alla prova.
altri cinque notabili erano imbarcati sulla nave e avendo
visto che il comandante aveva rotto il ghiaccio con iosto, si
avvicinarono.
shefatim guidava il convoglio dalla prima nave in cui si
trovava, e in quella mattina priva di nubi iniziò la navigazione a
vista lungo la fascia costiera. Quando giunsero all’altezza dell’i62
63
La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
– comandante, – irruppe uno di loro – scusate se vi rubiamo alla compagnia di iosto, ma quali sono i nostri programmi
visto che a terra nessuno li ha voluti svelare?
arish, poggiandosi al capione scolpito a forma di testa di
cavallo, iniziò a spiegare con piglio deciso: – abbiamo motivo
di credere che a cornus esista una rete ben organizzata di spie,
ben pagate da roma e sempre pronte a inviare messaggi aggiornati sui nostri movimenti. sappiamo, dalla rete dei nostri informatori, che l’ammiraglio Tito Otacilio al comando della flotta
romana di stanza in sicilia pattuglia costantemente il litorale
sardo. il nostro intento è quello di non trovarci nelle condizioni
di dover ingaggiare battaglia con le navi da guerra romane. Per
fare ciò, abbiamo sparso in giro false notizie che ci vedrebbero
stazionare alcuni giorni a tharros nell’attesa di altri delegati.
In realtà tra un’ora getteremo le ancore alla fonda della rada di
Tharros e soltanto una nave attraccherà al porto per caricare i
dieci delegati che ci stanno già aspettando. Dopodiché Shefatim
darà il segnale per prendere immediatamente il largo, affinché
i romani non abbiano il tempo di organizzarsi sbarrandoci la
strada verso cartagine.
il volto compiaciuto degli uditori ben si sposava con il gagliardo spumeggiare delle onde bianchicce sotto la chiglia della
nave, foriero di tante speranze sul buon esito della missione.
un vento leggero ma costante tendeva i vari ferzi di tela
con cui era assemblata la grande vela quadra, senza forzare le
ralinghe che la tenevano lateralmente.
il gruppetto si spostò sul ponte, dalla prua al castello di
poppa, su invito del comandante che li precedeva. nel frattempo
la fresca brezza mattutina e la simpatica compagnia avevano
stemperato quel groppo alla gola di iosto, rendendolo meno teso.
– Venite, – disse il comandante – vi mostro dove
alloggeremo.
E nel dire ciò sparì dentro al castello. una volta che tutto il
codazzo l’ebbe raggiunto, proseguì: – Qui normalmente l’equi-
paggio trova riparo e in quell’angolo sulla destra c’è la mensa
con le suppellettili della cucina che, come potete notare, sono
ben disposte e ordinate. ciò diventa fondamentale per poterle
trovare subito in caso di necessità. Molti oggetti devono essere
disposti sulla nave in poco spazio e questo rende assolutamente
indispensabile l’ordine con il quale li si ripone.
Mentre il comandante terminava la descrizione sottocoperta degli interni, arrivò un marinaio a informarli che si era
giunti davanti al porto di tharros. risaliti sul ponte di coperta,
ebbero il tempo di vedere l’oculo della quarta nave, l’ultima,
piegare decisamente verso il porto con un’andatura di traverso. il comandante diede ordine all’equipaggio, una ventina di
uomini in tutto, di ammainare le vele e di calare l’ancora nella
rada. così fecero anche gli altri gauloi, ossia le altre navi da
trasporto. non vi fu bisogno di scandagliare il fondale, poiché
arish conosceva a menadito quella costa e posizionò la nave in
maniera tale da non correre il rischio di incagliarsi su qualche
secca. Quelle navi onerarie, con una larghezza che era la quarta
parte della lunghezza, si dimostravano assai manovrabili anche
in presenza di tempeste grazie a un casotto di rotta per il pilota
posizionato nella parte prodiera della nave.
E proprio verso il casotto si diresse velocemente arish
per riuscire solo qualche attimo dopo con un recipiente pieno
d’acqua. gli ospiti lo raggiunsero incuriositi.
– Venite! – disse il comandante compiaciuto. – Vi voglio
svelare un segreto e spiegarvi a cosa potrebbe servire questo
contenitore con dentro dell’acqua e un pezzo di sughero con
uno gnomo infisso sopra che vi galleggia.
guardatisi l’un l’altro in faccia gli astanti non seppero
dare risposta, e per bocca di iosto chiesero di quale diavoleria
si trattasse. arish, sul divertito, continuò: – si tratta di uno
stratagemma utile nell’orientamento. infatti, l’ombra più corta
proiettata dallo gnomo rappresenta il nord mentre l’espediente di
metterlo a galleggiare ammortizza i vari movimenti della nave.
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
il comandante dimostrava così di essere anche un ottimo intrattenitore, colmando il tempo che durante la navigazione tende
talvolta a dilatarsi a dismisura. gli ospiti dimostrarono di gradire
le sue dettagliate descrizioni sui trucchi della navigazione.
intanto, annone, abdacal e gli altri delegati furono presi a
bordo a tharros, e in breve ecco riapparire il mascone di prua
alla vista delle tre navi, che tutte assieme ripresero a veleggiare
verso sud.
– Ma come fa shefatim a tenere stabilmente la direzione?
– domandò iosto incuriosito.
– Vedi, una volta rilevata l’Orsa Minore sul fianco sinistro
di prua, la difficoltà maggiore per un pilota è proprio mantenere la rotta giusta. occorre grande esperienza poiché, oltre a
correggere eventuali errori che il timoniere potrebbe compiere,
bisogna conoscere bene le correnti marine di superficie e lo
scarroccio che influiscono sulla direzione. Per quanto riguarda
le prime, in questo periodo sono abbastanza deboli, stasera
per esempio incidono sulla deriva al traverso, leggermente di
prua. Per lo scarroccio invece, a un comandante esperto come
shefatim, in una notte luminosa come questa, basta guardare
la scia della nave.
– uomo di grande esperienza – disse iosto.
– sì, ma non mi è simpatico – aggiunse il pilota. – Parlare
di comandanti dello spessore di Shefatim significa abbracciare
il loro mito e non scrollarselo mai di dosso. Le sue imprese
non sono meno note del suo carattere burbero, ma noi marinai
vorremmo diventare tutti come lui. abbiamo senz’altro diversi
parametri per valutarlo, ma torno a ribadire che stiamo parlando
di un mito vivente. Per farti capire le sue abilità, ti racconto un
episodio fra tanti: quello di quando ha evitato un inseguimento
da parte di tre navi romane. accortosi, lungo una rotta per le
miniere di rame iberiche, di essere inseguito dai romani, è riuscito a fargli credere che la direzione seguita fosse quella giusta,
invece li ha portati a incagliarsi su un dedalo di secche antistanti
il litorale, mentre la sua nave non si è fatta neanche un graffio.
detto ciò, si avviarono verso il castello per un salutare
riposo, vista la giornata impegnativa che li attendeva.
All’alba erano già svegli e appoggiati ai parapetti della nave
per vedere sorgere il sole dal mare. Era una particolarità che
la navigazione d’altura regalava, e per loro, abituati a vederlo
nascere dai monti, assolutamente imperdibile. Con una velocità
di navigazione costante sui tre nodi, verso metà mattina, il ma-
giunsero alle isole davanti a sulki quando il sole indugiava ancora qualche attimo prima di sparire completamente
all’orizzonte.
iosto e arish dopo la cena s’erano posizionati a poppa dietro il castello su una comoda montagnetta di cordami di sparto.
da quella posizione il pilota poteva dare ordini al timoniere e
allo stesso tempo dialogare con l’ospite mentre gli altri delegati
si erano già ritirati a riposare.
– Fumi? – domandò il pilota a iosto, mentre si accendeva
la pipa.
– Ho provato alcune volte ma non ci vado matto.
nel frattempo a Venere, prima stella che comparve nella
calotta celeste, si aggiunse la compagnia delle altre stelle e la
sagoma delle altre navi iniziava a svanire.
Era il momento giusto per accendere a poppa il lume che
avrebbe consentito alla nave che li seguiva di poterla tenere a
vista, così come anche loro avrebbero seguito il lume acceso
dalla nave che li precedeva. una luna pallida e striminzita di
alcuni spicchi conferiva alla distesa marina leggermente increspata un luccichio argenteo.
– oramai, – disse il pilota – le costellazioni sono alte e
grazie a questo cielo sgombro da nuvole Shefatim potrà guidare
il convoglio nella notte senza indugi. La stella fenicia che vedi
brillare nel piccolo carro, là sulla destra della via lattea, ci dà
la sicurezza della direzione.
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
rinaio posto sulla coffa, la piattaforma fissata verso la sommità
dell’albero della prima nave come vedetta, scorse la terra.
compito principale di shefatim era ora quello di individuare quale tratto di costa fosse stato raggiunto per poter proseguire
verso cartagine con una navigazione di cabotaggio. il suo sapere
nautico gli fece riconoscere il tratto di litorale un po’ al di sotto
di Hippo acra e così, sicuro della posizione, puntò deciso a
sud verso cartagine.
Davanti alla foce del fiume Bagadras, Arish fece chiamare
iosto che si godeva sulla coperta il tepore del sole africano in
compagnia degli altri designati.
– caro iosto, oramai questa traversata volge al termine,
presto saremo in vista di capo gamart e subito dopo scorgeremo
la metropoli di cartagine. Per te che ancora non la conosci, l’impatto sarà notevole! Cartagine la regina, Cartagine con la sua
estensione di ventitré miglia, cartagine e le sue mille seduzioni,
dolci come il miele e pericolose come il veleno della vipera! tuo
padre s’è raccomandato che ti proteggessi in viaggio, e questo
l’ho potuto fare in mare, ma ora che metterai piede a terra sarai
tu e solo tu che dovrai badare a te stesso. da noi in sardegna
non ci sono serpenti velenosi, ma qui abbondano e non sempre
strisciano ma, intendi bene, camminano su due piedi.
iosto ringraziò commosso, sapendo d’essere stimato da
arish che si era sempre mostrato sincero con lui.
i visitatori che si avvicinavano per la prima volta a cartagine restavano affascinati dal colpo d’occhio che offriva.
L’imponenza delle sue fortificazioni, la grandiosità dei
porti, degli arsenali, dei magazzini, degli apparati della marina,
incutevano un’immediata sensazione di potenza.
cartagine li accolse nel primo dei suoi due porti, quello
commerciale; l’altro, quello militare di cui aveva sempre sentito parlare iosto dal nonno, riusciva ad ammirarlo dall’alto
del castello. ad esso vi si poteva accedere una volta superato
il civile; aveva forma circolare e costituiva il vanto della marineria cartaginese. al centro risaltava un isolotto ovale su cui si
trovava l’ammiragliato, strutturato in modo da accogliere nel
piano basso gli impianti necessari per il carenaggio e l’ormeggio
delle navi militari.
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ormeggiate le navi in porto e abbassate le vele, furono
calate le passerelle da cui sbarcarono rapidamente i delegati.
informati del loro arrivo, trovarono ad attenderli sulla banchina
un gruppo di nobili cartaginesi incaricati dal senato di adempiere agli obblighi di foresteria verso la delegazione. Era in uso
a cartagine includere nel concetto di amicizia anche quello di
ospitalità. Era persino invalsa l’abitudine, quando si riceveva
un ospite, di tagliare un dado in due parti, una metà la si dava
all’ospite che, casomai si fosse ripresentato dal padrone di casa,
poteva esibirla venendo nuovamente accolto con cordialità.
L’altra parte del dado veniva conservata nella famiglia quale
pegno dell’ospitalità contratta. A Iosto fu assegnata per il ricetto
la famiglia di Eshmunamas, un potente nobile. Questi, quando
venne presentato a iosto, ebbe subito una buona impressione del
giovane. un po’ tarchiato, naso adunco, dalla dialettica sciolta
e incisiva, il cartaginese, approcciandosi a iosto, lo chiamò
“cucciolo shardana”. Questo nomignolo fu particolarmente
gradito poiché Iosto, fin da ragazzo, aveva fissato nella sua
mente i racconti che gli faceva ampsicora sulle gesta eroiche di
quei guerrieri che combatterono al fianco dei faraoni egiziani.
nel momento in cui iosto si congedava da arish, comparve
il comandante shefatim con il suo codazzo di subalterni. dallo
sguardo trapelava tutta la sua alterigia e la sua superbia e, voltandosi verso iosto, disse: – benvenuto a cartagine, benvenuto
a casa mia!
E fece seguire il tutto da una macabra risata. Iosto non fiatò,
limitandosi a seguire la sagoma che si allontanava. arish intanto
pensò fra sé: “Potente bes, tutto ciò non lascia presagire nulla
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
di buono, l’ha preso di mira e solo gli dei conoscono come potrà
andare a finire. Shefatim ha un carattere che ai primi movimenti
di collera non sta ad ascoltare né ragioni, né rimostranze, abbandonandosi in maniera turpe a estreme violenze”. Ma serbando
per sé siffatti pensieri, arish si limitò a dire: – stai alla larga
da quell’uomo, ha conoscenze influenti in città.
– cercherò di seguire il tuo consiglio, – disse il giovane –
ma non ho tempo da perdere con lui.
– che bes ti protegga! – gli disse arish nell’atto di salutarlo, dirigendosi poi velocemente verso la nave per immergersi
nelle attività di scarico delle derrate alimentari provenienti dalla
sardegna, al seguito della delegazione.
shefatim si allontanava velocemente, bofonchiando in mezzo al suo codazzo quando, a un certo punto, afferrò il braccio di
abzebaal, il suo luogotenente, dicendogli: – Pensaci tu a dare
una lezione al moccioso!
– ci penso io – gli rispose con piglio deciso l’altro.
Mentre Eshmunamas con il suo seguito di servi fece cenno
a iosto di seguirlo, si avviarono tra la folla di portuali, mercanti
di frutta, fabbricanti di tappeti e stoffe, funai e miriadi di servi
che si accalcavano quotidianamente sui moli. greci statuari,
etruschi, egizi dalla carnagione color ebano, numidi, biondi celti
si mescolavano fra i locali, riflesso di una società aperta e tollerante. a cartagine infatti questi immigrati potevano diventare
artigiani, commercianti e mantenere la propria identità, sotto
l’egida protettiva dello stato. La comunità greca, per esempio,
aveva ottenuto la facoltà di erigere in città un tempio dedicato
a demetra, dea dell’agricoltura.
il lento incedere di Eshmunamas veniva accompagnato dai
saluti reverenziali che tanti cittadini gli rivolgevano lungo le
strade parallele alla riva, nel quartiere che costeggiava il mare
e che conduceva alla sua dimora. E mentre procedevano verso
la collina di byrsa, iosto non poté fare a meno di notare la larghezza delle strade che servivano le abitazioni, in genere sui tre
metri, ma in alcuni tratti potevano tranquillamente raggiungere i
sei o anche i sette metri. rimase colpito anche dall’altezza delle
abitazioni: ve ne erano persino a sei piani. ammirando le varie
curiosità, proseguirono in un dedalo di strade la cui pianta aveva
assunto ora un aspetto a scacchiera con intersezioni ortogonali.
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La sardegna, invece, iniziava a essere sempre più lontana
nella mente di Iosto, e Narna dal suo cuore. Quella città iniziava
a circolargli nelle vene come una droga che inesorabilmente lo
portava in una dimensione talmente pregnante da fargli dimenticare tutto il resto.
La collinetta di byrsa aveva abitazioni molto belle, e di
lì la vista poteva spaziare a sazietà sulla distesa sottostante le
abitazioni bianche di calce, degradanti verso l’azzurro del mare
e della sua riva nel quartiere di Magone.
spostando leggermente lo sguardo a destra, iosto vide
spiccare le collinette di douimes e dermec e, sullo sfondo, la
baia del Kram. Ma oramai si era giunti alla casa di Eshmunamas, il quale esortò l’ospite a varcare le possenti ante in legno
del portale d’ingresso. superate queste, si ritrovarono in un
vestibolo lungo circa sei metri dove un bel fresco contrastava
con l’afa esterna del mezzogiorno.
in quegli attimi l’attenzione di iosto fu catturata da un disegno sul pavimento dell’ingresso, composto da piccole tessere
di marmo bianco raffiguranti un triangolo con la base rivolta
verso la porta sormontato da un cerchio; fra i due era stesa una
breve linea orizzontale. il tutto ricordava un corpicino da cui
fuoriuscivano delle braccia corte. iosto conosceva bene quel
segno, era quello della dea tanit, ma non capiva perché si trovasse proprio in quel punto. non osò chiedere nulla al padrone
di casa, ma la risposta l’ebbe i giorni seguenti quando, visitando
altre abitazioni, vide nel grigio del pavimento dell’ingresso lo
stesso simbolo: era il loro modo per propiziarsi la dea.
Procedettero in quella frescura verso la corte interna di
71
La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
forma quadrangolare dove gli venne incontro l’unico figlio di
Eshmunamas. orfano di madre da alcuni anni, era un giovane esile di quasi ventiquattro anni che portava al naso un nezem d’oro.
– Il cucciolo Shardana è finalmente arrivato – disse il padre
presentando iosto a naghid.
i due giovani fecero subito amicizia e dalla corte si spostarono nel locale dove li attendeva il pranzo.
tanta era la fretta reciproca di conoscere le diverse abitudini di vita che i due giovani trangugiarono rapidamente i cibi per
poi sparire, attraverso una scala, al piano superiore nella stanza
dove avrebbe soggiornato iosto. Questi mise al corrente l’amico
delle difficili vicissitudini nelle quali si erano trovati a Cornus.
E delle speranze che riponevano nel senato cartaginese per un
aiuto armato. E siccome il senato li avrebbe potuti ricevere solo
dopo alcuni giorni, naghid propose a iosto di seguirlo in una
visita alla città. Il giovane accettò con entusiasmo la proposta
e i due si riversarono per le strade.
– Per prima cosa ti mostrerò il tempio e il santuario, a
gloria del signore baal Hammon, posto sulla collina di byrsa
– disse naghid mentre accelerava il passo. – iosto, affrettati! –
provò a esortarlo, ma il giovane fin dal suo arrivo a Cartagine
era rimasto estasiato dalla bellezza delle donne cartaginesi.
continuava a guardarle come se fossero apparizioni eteree
e, d’altro canto, erano considerate le più belle del mondo, neanche a paragone con le romane. E questo soprattutto perché
una volta che le donne entravano a far parte della vita sociale ed
economica di cartagine, prestavano un’attenzione particolare al
loro aspetto esteriore. usavano depilarsi, per il trucco del viso
e per la tintura dei capelli utilizzavano soprattutto il colore rosa
e quello blu. il ritmo bilanciato dei loro passi per le vie metteva
in risalto i loro tratti sinuosi, soprattutto ora che si avvicinava
l’estate e utilizzavano scollature vertiginose adornate con ogni
genere di monili. La raffinatezza aumentava con l’aumentare del
rango sociale di appartenenza esprimendosi con il bisogno del
lusso e dell’effimero, a differenza di Cornus dove si lottava per
il vivere quotidiano e le persone agiate erano davvero poche.
dunque, la gara fra le donne per il portamento, nell’esibire le
loro ricchezze e la loro affabilità, la spigliatezza si fondevano
nelle strade fra il rumoreggiare della folla, facendo da cornice
alla ricca metropoli.
naghid, vedendo iosto sempre più imbambolato, gli si
rivolse con tono di scherno: – continuando così ti farai venire
il torcicollo a forza di seguirle con lo sguardo!
– il fatto è – gli rispose l’ospite – che sono una più bella
dell’altra a prescindere dall’età, e non saprei proprio quale
scegliere.
Per dirla tutta, iosto era in preda a un riequilibrio interiore
per l’eccessiva stimolazione sensoriale, soprattutto visiva, di
tipo erotico. Questa sovreccitazione divertiva molto naghid,
che gli disse: – Più tardi, ti metterò al corrente di una sorpresa
che ho in serbo per te.
sorridendo, iosto gli rispose: – suvvia, se si tratta di donne
t’avverto che non riesco ad aspettare, non tenermi sui carboni
ardenti!
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nel frattempo, dopo aver svoltato un caseggiato, si trovarono davanti all’imponente sagoma del tempio di baal Hammon.
iosto, abituato alle dimensioni contenute dei templi di Melquart
e astarte a tharros, che pur gli sembravano mastodontici, nel
vedere gli enormi massi squadrati del tempio, i colonnati, i
vasti cortili interni, rimase esterrefatto. Era viepiù frastornato,
le tempie gli battevano forte, si sentiva mancare il fiato e trascinava i piedi vistosamente. Un senso di irrealtà lo opprimeva
e il timore di perdere i sensi era sempre più incombente. il
tempio era impreziosito per di più da una statua del dio dalle
dimensioni ciclopiche, con le braccia distese in avanti e le mani
tese a indicare il punto dove le vittime sacrificali dovevano
essere bruciate.
73
La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
nel vedere quest’ultima, strabuzzò gli occhi e si dovette
appoggiare all’amico in preda a un forte malessere e a un palese disagio. naghid dovette accompagnarlo in tutta fretta fuori
dall’edificio.
si sedettero all’esterno ai piedi di una gradinata, all’ombra
di un boschetto di cipressi, mentre intorno a loro proseguiva
incessante l’andirivieni di sacerdoti scalzi, avvolti da vesti
candide e fedeli che reggevano spesso fra le mani ex-voto che
dovevano essere consegnati nel tempio.
iosto rimase in silenzio per una serie interminabile di attimi
mentre l’amico, non volendo forzare la mano, faceva dei segni
sulla polvere con un bastoncino. Pian piano riprese colorito e
dopo alcune inspirazioni profonde interrogò Naghid sul significato dei segni che tracciava. Fu subito accontentato da naghid,
il quale spiegò che si trattava di conti su alcune forniture che
stavano per arrivargli dall’oriente. infatti, sia lui che il padre
commerciavano con le coste del Mar rosso e del golfo Persico.
Era da quei luoghi che arrivavano l’incenso, vari aromi, le droghe, la gomma e soprattutto perle e pietre preziose. Fra queste
ultime non vi era che l’imbarazzo della scelta per appagare i
bisogni del lusso e i capricci del gusto. Vari tipi di diaspro,
nero, rosso, giallo, verde, ametiste, rubini, turchesi e smeraldi.
anche lui, come tutti i giovani dell’aristocrazia cartaginese,
aveva ricevuto una preparazione dal punto di vista culturale
imperfetta, in quanto improntata soprattutto sullo studio dei
numeri e l’obbligo di tenere un registro dei conti. imparavano
a leggere e scrivere trascurando volutamente le scienze umanistiche poiché non erano direttamente legate al commercio;
all’opposto di quanto invece accadeva in grecia dove veniva
dato ampio spazio alla filosofia.
a cartagine, per farla breve, scarseggiavano gli uomini
dotti. avevano una grande passione per l’agricoltura, che era
per loro un esercizio volontario, un utile intrattenimento. ne
avevano persino fatto oggetto di studio, perfezionando gli aspetti
teorici con le loro osservazioni, arrivando a stendere vari trattati
sulla materia.
iosto ringraziò l’amico per la pazienza e le attenzioni che
gli stava dedicando e, rimettendosi in piedi, voleva dimostrare
d’essersi ripreso. così i due continuarono a percorrere le vie
che dalla sommità del quartiere di Byrsa, ove era il tempio di
baal-ammon, si dipanavano in discesa verso il quartiere della
Malga dove c’era il mercato. rivoli d’acqua ai bordi delle
strade prendevano sempre più velocità nella loro corsa verso il
basso, e le abitazioni che si aprivano su quelle strade pubbliche
avevano la soglia rialzata proprio per evitare contaminazioni
dall’esterno. L’idea di naghid di far visitare all’amico i mercati
aveva riportato il sorriso e il buonumore sul viso di iosto.
74
in mezzo a quella frenesia, nel ribollire della folla, mille
trattative venivano condotte contemporaneamente e altrettanti
oggetti cambiavano di mano. L’aria era impregnata degli aromi
provenienti dalle spezie vendute in grandi sacchi dall’imboccatura aperta. Iosto spizzicava un po’ qua un po’ là, quando i
mercanti erano distratti, gradendo soprattutto delle grosse olive
nere in salamoia.
in quel trambusto non fu di certo facile per loro avvedersi
del fatto che due uomini, dal capo coperto con un velo che scendeva fino alle spalle, avevano preso a seguirli fin da quando erano all’interno del tempio. il loro agire disinvolto non impensierì
minimamente i due giovani che continuarono a gozzovigliare nel
suk fino al tramonto. A quel punto, scrollandosi dalle tuniche
un po’ della polvere che quel brulicare umano aveva prodotto,
imboccarono una larga strada diretti al tempio di astarte, dove
si trovava la sorpresa per iosto.
Quando furono vicini al tempio, naghid spiegò all’ospite
che soltanto giacendo con una sacerdotessa del tempio si poteva
rendere gradita alla dea la sua presenza a cartagine. infatti,
proprio in quel tempio veniva perpetrata la prostituzione sacra
75
La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
da un nutrito stuolo di sacerdotesse, che avevano votato la propria vita e il proprio corpo alla dea. sulle scalinate prospicienti
il tempio vi era un andirivieni di stranieri che transitavano,
frammisti a servi del tempio ieruduli. Questi ultimi, parte della
servitù templare, ottemperavano a tutte quelle mansioni che
occorrevano nel tempio, come pulire o sorvegliare.
Facendosi carico delle cure del tempio, potevano acquistare
la libertà, diventando liberti della dea che avevano servito.
iosto non stava più in sé dalla contentezza, e l’amico riuscì
a trattenerlo a stento mentre aspettavano che una sacerdotessa
in veste candida terminasse di parlare con un’altra donna all’interno di una camera.
– Vedi quella donna che parla con la sacerdotessa? – gli
chiese naghid. – è una di quelle donne nubili che vengono al
tempio per raccogliere il denaro occorrente per la dote nuziale.
si chiama infatti prostituzione sacra prenuziale. oltraggiando la
propria pudicizia nel nome della dea a cui si appellano, queste
sperano nella misericordia della stessa affinché faccia trovare
loro un compagno.
– Per me non fa differenza alcuna – rispose iosto. – Purché
sia carina!
– Qui sono tutte carine, – replicò naghir – ciò che fa la
differenza è la raffinatezza con cui si esprimono e Clea, la sacerdotessa che aspettiamo, è senz’altro la migliore.
incensi dai profumi intensi avviluppavano con i loro fumi
corridoi e stanze, conferendo al tutto una dimensione onirica.
Quando si fu liberata, clea li accolse con un tono di voce suadente, al pari di quella che si narrava avessero le sirene. nel
presentargli l’amico come cucciolo shardana, naghid si allontanò dai due, dicendo a iosto che sarebbe passato a riprenderlo
l’indomani. nell’andare via, non s’accorse nemmeno che i due
misteriosi personaggi, dai quali erano stati seguiti per tutta la
giornata, s’erano acquattati nei pressi del tempio.
Iosto intanto, si rilassava in un bagno purificatore dalle
mille essenze, e annusava forte i vapori conturbanti che si levavano per l’aria. tutt’intorno a lui ciotole dalle diverse forme
poggiate su meravigliosi tappeti fungevano da lumi, e da questi
si diffondevano flebili luci che conferivano un aspetto irreale
a tutto il contesto.
clea, che si era momentaneamente assentata, comparve
all’improvviso con un mestolino e, sedutasi vicino a lui, si
divertì a fargli cadere l’acqua sulla testa e sul torace.
iosto, spostandosi sull’alcova, prese a raccontarle un po’
della sua vita e nel mentre clea gli fece capire che ogni palmo
della sua pelle poteva trasmettere sensazioni scuotenti. si aprivano per lui orizzonti mai esplorati e dopo iniziali tentennamenti
seguiva alla perfezione clea.
nel cielo stellato di cartagine le costellazioni si alternavano, con il progredire della notte, così pure l’orientamento
spaziale dei due amanti.
iosto, provato dalla fatica e dalle emozioni della giornata,
fece appena in tempo a ripensare alle parole del padre, prima
di cadere in un sonno profondo: “ricordati, la vittoria!”.
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Proprio allora i due loschi uomini entrarono in azione.
irruppero nella stanza e clea, che li vide per prima, fece appena in tempo a gettare un urlo prima di ritrovarsi la lama di
un coltello puntata alla gola. iosto, svegliato di soprassalto
dall’urlo della sacerdotessa, vide solo per un attimo la sagoma
di uno dei due mentre gli rifilava una randellata in piena fronte
e poi, cadendo bocconi a terra senza un gemito, il nulla. La
sacerdotessa fu legata e imbavagliata e la stessa sorte spettò a
lui, con la differenza che fu portato via dentro un sacco.
Quando l’indomani naghid si presentò al tempio per prendere l’amico, venne accolto dalla sacerdotessa appena liberata
dalle sue ancelle. Questa, con toni concitati e ancora spaventata,
gesticolava con le braccia levate al cielo, maledicendo quei
profanatori sacrileghi. naghir impallidì all’istante dopo che gli
77
La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
raccontarono i fatti nel dettaglio. Era una gran brutta storia e
il pensiero della sorte assegnata all’amico prese a tormentarlo
dalle viscere.
– che astarte fulmini i profanatori! – continuava a dire con
tono giaculatorio clea, anche nel salutare naghir. a quest’ultimo, presero a tremare le gambe al solo pensiero di come poter
raccontare tutto al padre, proprio ora che i due magistrati sufeti
stavano per incontrare la delegazione.
correndo per non pensare, iniziò a percorrere tutta una
serie di scorciatoie che gli consentirono di arrivare nel giro
di poco tempo davanti al portone di casa. ansimante e pallido
come la morte, raccontò tutto al padre che lo ascoltò attonito
in silenzio.
– Dobbiamo fare presto, figlio mio, se non vogliamo che
l’onta del disonore ci colga! raduna i servi e sparpagliali per la
città a caccia di informazioni, poi vai immediatamente al porto
e informa dell’accaduto il comandante arish.
“Che figura, che figura!” andava ripetendo fra sé il padrone
di casa, camminando in continuazione. “che guaio!” bofonchiava nei pochi momenti in cui riusciva a star fermo. naghir
prese un cavallo e si diresse al porto, dove mise al corrente del
rapimento l’esterrefatto arish.
– Lascia che mi sieda un attimo, – disse il capitano – ne
ho bisogno!
Questi, dopo aver riflettuto un po’, espresse la volontà di
coinvolgere l’ammiraglio shefatim in tutta questa faccenda.
– giurerei – proseguì – che quell’uomo ha deciso di far pagare caro l’affronto che iosto gli ha procurato. Vogliano gli dei
che al nostro amico non sia stato torto un capello. comunque,
prima di fasciarsi la testa bisogna avercela rotta e noi possiamo
ancora fare qualcosa! Ho dei buoni addentellati qui in città e
ora li andrò a trovare.
si salutarono riproponendosi di tenersi a stretto contatto
per qualunque novità. dopo un po’ arish scese dalla nave di-
rigendosi verso i bassifondi del porto e imboccò l’ingresso di
una taverna dov’era certo di trovare un uomo di sua fiducia. Un
tanfo nauseabondo di vino rancido regnava in quel luogo e in un
gruppo di uomini seduti a un tavolo scorse il marinaio abdesmun.
Quest’ultimo, come lo vide, scattò in piedi e gli andò
incontro. – comandante, avete forse bisogno dei miei servigi?
– salve abdesmun, lo sai che non posso fare a meno di
te, vecchia spugna!
– Vi trovo in forma, comandante, che genere di favore vi
occorre?
– tu sei stato alle strette dipendenze di shefatim oltre che
alle mie, e conosci i posti dove è solito trafficare. Pago bene,
ma mi devi trovare una persona che penso sia stata rapita per
volontà di Shefatim.
– conosco bene questo genere di scherzetti dell’ammiraglio
– disse sorridendo il marinaio e son sicuro che ci metteremo
d’accordo!
– trovami un giovane sardo di nome iosto, e ti saprò lautamente ricompensare.
– d’accordo, mi metto subito alla ricerca e nel pomeriggio
cercherò di farvi avere le notizie richieste.
Arish, che aveva preso a braccetto il marinaio affinché
nessuno sentisse i discorsi, liberò dalla presa quest’ultimo e
s’allontanò frettolosamente dopo averlo salutato.
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iosto intanto, ancora indolenzito, stava riverso sul pavimento di un piccolo locale, in cui arrivava una fioca luce da
una piccola apertura sul distante soffitto. “Son caduto nella rete
come un tonno” pensava. “cosa vorranno da me?”
non era più legato, e cominciò a tastare le pareti che lo
circondavano in cerca di qualche varco, ma i suoi tentativi fallirono miseramente, e a quel punto si mise seduto immerso nei
suoi pensieri. il pomeriggio arrivò presto e così pure abdesmun
a riferire al comandante.
79
La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
– Per la barba di bes! – disse il marinaio entrato nel castello
della nave al cospetto di arish. – L’ammiraglio shefatim ha
pensato bene di vantarsi con i suoi ufficiali di voler impartire
una lezione al giovane malcapitato. Lo vuol tenere segregato per
impedirgli di presenziare alla delegazione in senato. Per tanit
misericordiosa, ha deciso di non fargli alcun male, ma solo di
coprirlo di ridicolo agli occhi della delegazione.
– gli dei siano ringraziati – disse arish. – sei riuscito a
sapere dove lo tengono?
– certamente, si tratta di una bicocca situata in periferia e
controllata da due tangheri.
– benissimo, stasera al calar del sole entreremo in azione
per liberarlo e tu ci guiderai al sito!
Venere iniziava a far capolino nel cielo quando una decina
di uomini si diresse in maniera disinvolta verso la periferia ovest
di cartagine, al comando di arish. abdesmun, appena giunsero
a un isolato di distanza, indicò il luogo in cui era rinchiuso iosto
e si allontanò alla svelta. i vari componenti del gruppo, dopo
essersi messi sul viso un drappo per non essere riconosciuti,
entrarono in azione in maniera fulminea. Forzato l’ingresso
silenziosamente, piombarono sui due carcerieri che tentarono
invano di estrarre i pugnali, ma furono rapidamente disarmati
e spediti a suon di randellate nel mondo dei sogni.
iosto, appena vide aprire le imposte, ebbe molta paura per
la propria vita, ma non appena riconobbe arish che gli andava
incontro, capì di essere in salvo. gli saltò al collo dicendogli:
– non sai quanto sia contento di rivederti, arish.
– ti capisco, ma ti avevo avvertito di stare attento a non
pestare la coda a qualche serpente.
– Perdonami, sono stato proprio uno sprovveduto – rispose
quasi in lacrime iosto.
– ricordati bene che vivere è come andare per mare, se non
sai nuotare rischi di affogare! E ora leviamoci di qui, dobbiamo
rientrare da Eshmunamas e naghid che sono in pena per te.
Quando i due lo rividero sano e salvo promisero solennemente di ringraziare BaalAmmon con consistenti sacrifici.
– abbiamo tenuto all’oscuro di tutto la delegazione, – disse
il padrone di casa – e stasera stessa ti condurremo in una nostra
tenuta in campagna dove sarai al sicuro da brutti scherzi fino al
giorno dell’incontro al senato.
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La grande luna africana si stagliava alta nel cielo mentre su
un calesse iosto veniva condotto al sicuro dall’amico naghid.
nel senato cartaginese si discuteva in quei giorni di importanti
problematiche che avevano portato anche a duri scontri verbali
fra opposte fazioni. tale situazione s’era venuta a creare dopo
l’arrivo della notizia che in spagna i romani avevano conseguito
una serie di importanti vittorie. Prima di ciò, l’assemblea senatoria aveva deciso, sulla scia della vittoria di canne da parte di
annibale, raccontata in patria dal fratello Magone, di inviare
in italia a supporto del barcide quattromila cavalieri numidi,
quaranta elefanti e cinquecento talenti d’argento. Ma proprio
la notizia del prevalere dei romani in spagna aveva sollevato in
Senato nuove discussioni sulla necessità dei rinforzi ad Annibale
o sull’intervento in spagna per fronteggiare i cedimenti.
Fu deciso infine, a larga maggioranza, di perorare la causa
spagnola e quindi di inviare i rinforzi in quella regione.
Risolti questi importanti problemi, venne finalmente il
giorno in cui la delegazione sarda fu ricevuta al senato. iosto
rientrò appositamente dal suo rifugio in campagna e insieme ai
suoi compatrioti si presentò nell’aula gremita. davanti ai due
massimi magistrati che dirimevano l’assemblea, prese la parola
il nobile annone di tharros per descrivere in maniera dettagliata la situazione in sardegna, rimarcando che il contingente
dell’esercito romano presente nell’isola era composto dalla nona
legione e da un’armata di alleati lievemente superiore alla legione stessa. inoltre, il pretore romano che aveva retto l’incarico
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
per due anni, aulo cornelio Mamulla, si accingeva a lasciare
in breve tempo la provincia, poiché era a fine mandato. Questo
avrebbe comportato l’arrivo in sardegna di un nuovo pretore
che sarebbe stato senza ombra di dubbio meno esperto del
precedente. a quel punto iosto si fece avanti e fattosi coraggio
raccontò all’assemblea del diffuso malcontento che circolava
fra le popolazioni sarde vessate da continue tasse, soprattutto
con l’ultima richiesta di grano imposta da roma. a questi fatti
andava aggiunta l’assurda offerta di aderire al gruppo delle
città socie, ma in realtà con la prospettiva di divenire schiavi.
– da ciò la nostra richiesta di aiuto al senato cartaginese,
affinché si schieri in battaglia al nostro fianco per rigettare sui
propri lidi l’invasore romano.
L’accorato appello rivolto all’assemblea creò forti perplessità fra gli astanti, che per bocca del magistrato più anziano si
riservò di dare una risposta definitiva l’indomani, dopo aver
discusso a fondo la questione.
La sardegna era stata per secoli il granaio di cartagine e la
sua perdita da parte di un colpo di mano dei romani venne fatta
risaltare da vari partiti all’interno del senato. Per contro, altre
fazioni avevano enormi interessi in spagna, legati com’erano
alle sue miniere di stagno e soprattutto argento.
– senza dimenticare – disse a gran voce un senatore – le
cave di marmi preziosi e lo stesso alabastro di cui è ricoperto
il nostro senato.
insomma, l’occasione era ghiotta per cercare di riappropriarsi della sardegna ma esistevano forti sacche di resistenza
opposte da senatori che puntavano invece sul territorio iberico.
non restava altra strada che rimettere ai voti le determinazioni e,
seppur di una manciata di mani, prevalse la linea di intervenire
su entrambi i fronti. i due supremi magistrati che detenevano la
presidenza presero atto della decisione e iniziarono ad annotare
gli estremi su un enorme librone dai fogli in papiro. Questi
magistrati elettivi, che guidavano lo stato, avevano incarico
annuale, appartenevano alle famiglie dell’oligarchia cittadina e
dovevano dimostrare di possedere un certo reddito per aspirare
all’elezione. davanti alla delegazione sarda fu resa pubblica la
decisione sovrana del senato: in spagna sarebbe stato inviato
il generale Magone barca, fratello di annibale, con millecinquecento cavalieri, dodicimila fanti, venti elefanti e una scorta
navale composta da sessanta navi da guerra. in sardegna invece
sarebbe stato inviato il generale asdrubale detto il calvo con un
contingente di poco al di sotto di quello destinato alla spagna.
i delegati sardi esultarono di gioia all’annuncio, e ringraziarono calorosamente il senato per l’aiuto concessogli. Quindi,
a distanza di due lune, l’esercito cartaginese sarebbe dovuto
sbarcare in sardegna.
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Pieni di gioia e di nuove speranze i delegati si apprestavano
a partire, ma una bonaccia che imperversava da alcuni giorni
toglieva qualunque possibilità alle navi di iniziare la rotta. Iosto
dunque dovette rassegnarsi a continuare il suo soggiorno campagnolo, al riparo da insidie, fino a nuovo ordine.
naghir era radiante per il fatto che il suo amico fosse costretto a rinviare la partenza e gli propose di visitare i dintorni
di cartagine. Partirono a cavallo il giorno dopo, attraversando
bellissimi orti carichi di varie verdure alternati a ricchi frutteti,
oliveti e vigne, diretti verso l’Herm, il deserto. canali irrigui
fiancheggiavano la strada che percorrevano, garantendo un apporto ottimale d’acqua. ricchi pascoli ricoperti di erba verde
accoglievano al pascolo bovini e ovini, e in altre tenute i cavalli
s’impennavano e sgroppavano in piena libertà.
ogni tanto scorgevano delle case di campagna ottimamente
disposte, con facciate di stucchi e grandi magazzini alle spalle
ricchi di derrate alimentari d’ogni tipo. tutto ciò raccontava
dell’opulenza che regnava in quella regione dove i cartaginesi
avevano investito in maniera sistematica. il cielo carico di azzurro era diverso da quello sardo e li accompagnava nel loro
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
galoppare ora che il verde iniziava a diradare e iniziavano a
incontrare carovane di dromedari provenienti dal deserto. si
fermarono a una fonte per far abbeverare i cavalli e iosto approfittò per chiedere all’amico se mancasse molto alla meta. –
no, – gli rispose naghir – siamo quasi arrivati a casa del mio
amico carovaniere Himilk che ci fornirà i dromedari per fare
un giro nel deserto. Sarà anche l’occasione per te, dopo averne
visti tanti, di poterne montare uno.
dopo mezzo miglio giunsero presso l’abitazione di Himilk,
il quale li accolse festoso nella corte. dopo i saluti di rito, lo
misero al corrente del desiderio di far vedere all’ospite l’Herm.
arrivata l’ora di cena, Himilk offrì loro dell’agnello cotto in
otri di terracotta sotto le ceneri e datteri in abbondanza.
– dove lo condurrai? – chiese Himilk a naghid.
– all’oasi di nagada.
Mentre il tramonto si tingeva di riflessi rosa, i tre si salutarono e andarono a riposare. Prima di prendere sonno iosto
fece all’amico una domanda che si portava dentro da tutta la
giornata: – cosa può avere di così particolare un luogo che per
sua stessa definizione è sterile e vi si trova solo sabbia?
– Posso solo dirti che lo considero il luogo più adatto a te,
dopo che hai vissuto in maniera così intensa queste giornate.
– Ho capito, mi vuoi tenere sui carboni ardenti senza volermi rispondere – disse iosto, e tacquero.
all’enigma di come facessero a salire su quegli alti animali,
quale stratagemma utilizzassero per issarsi sulla groppa. naghir
disse che potevano essere paragonati a delle piccole navi fatte
per attraversare il deserto. Bevevano a sufficienza per riempire
la sacca sulla schiena non una goccia di più né una di meno e
poi rimanevano anche dieci giorni senza bere. iosto salì sulla
sella posta dietro la groppa, e Himilk fece appena in tempo a
dirgli di tenersi forte altrimenti l’animale l’avrebbe catapultato
in avanti risollevandosi. Presa la loro scorta di viveri e acqua
si diressero a sud dopo aver salutato il cammelliere.
costeggiarono un piccolo lago salato e poi si diressero su
una pista che solcava basse dune con radi cespugli. La testa
pelosa e il collo lungo delle bestie fendevano l’aria e oscillavano come la prua di una nave. La sabbia diveniva più rossa
e le dune più alte, rendendo la pista impercettibile: iniziava il
vero deserto.
– non sembra d’essere su un mare dorato? – domandò
Naghir. – In questa realtà non vi è nulla che possa essere
considerato immutabile. dune mobili travalicano ogni giorno
valli intere, persino le poche rocce che vi si trovano vengono
continuamente trasformate dall’azione di venti, che irrompono
in queste pianure, talvolta burrascosi. Le sabbie s’avviluppano
in densi turbini bollenti rendendo impossibile il passaggio a
chiunque, a meno che non ci si voglia accecare o riempire i
polmoni di arena.
– La stessa arena – lo interruppe iosto – che arriva anche
in Sardegna trasportata dai venti che soffiano da sud.
– davvero? – replicò il cartaginese.
– sì, arriva impalpabile come il talco, rossiccia, e quando
il temporale la scarica a terra, colora qualunque cosa trovi sul
suo cammino.
Naghid aggiunse: – Presto l’aria fresca e pura lascerà il
posto a una calura sempre maggiore prodotta dal disco solare
che s’innalza nel cielo. dobbiamo coprirci alla svelta con i veli.
si svegliarono con il primo canto degli uccelli, e dopo
un’abbondante colazione si diressero verso il luogo dove Himilk
teneva i dromedari. ne scelse due belli robusti e, presa la fune
assicurata a un anello in ferro che attraversava la narice sinistra
di un animale, si avvicinò a iosto. con una piccola verga che
aveva in mano invitò il dromedario a piegarsi con piccoli colpi
sulle ginocchia anteriori. sulle prime l’ospite restò di stucco
nel vedere il dromedario flettersi sulle zampe anteriori per poi
racchiudere le posteriori e stazionare al suolo. Era la risposta
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
ricoperti dei veli di lana bianca, lasciarono soltanto gli
occhi scoperti per potersi inebriare di luce e spazio. Mentre
avanzavano fra le dune, solitudini si alternavano ad altre solitudini, il silenzio era assoluto e ormai non si sentiva neanche il
ronzio di una mosca in quel luogo dove c’era soltanto qualche
serpente. Infinita era la varietà delle dune, sia per forma che
per dimensioni. Le più appariscenti si presentavano allungate,
di forma ricurva, con la punta affilata e la cresta inarcata. Altre
avevano la forma di mezzaluna, più alta al centro che ai lati.
Erano le barcane, capaci di spostarsi anche di 60 braccia in un
anno sotto l’azione del vento. La sabbia di cui si componevano
era molto instabile e scivolando sulla superficie produceva un
sussurro difficile da percepire. In alcuni casi questo evento
prendeva la consistenza di un rombo, che i nomadi del deserto
solevano chiamare “il tamburo delle sabbie”.
i dromedari tenevano il passo sempre uguale e grazie ai
larghi zoccoli riuscivano a non affondare nella sabbia, capaci
inoltre di non emettere alcun suono nell’imprimere le loro orme.
In quell’immensità s’imparava presto ad ascoltare il silenzio e a
fare i conti con se stessi; da quella magnificenza si veniva rapiti,
non vi era scampo. Era un viaggio dove l’anima si spogliava
completamente dei pesi, dei bagagli che quotidianamente l’appesantiscono. il tempo indugiava su ogni granello di sabbia e
l’eternità evaporava, goccia dopo goccia, incalzata dall’arsura
che assorbiva tutta l’umidità.
una benevola indifferenza aleggiava in quei momenti sul
deserto, capace di mitigare le inquietudini del giorno che stavano
vivendo e i rimpianti dei giorni passati.
L’anelito incontenibile che li spingeva a proseguire fu rotto
dall’urlo di gioia di iosto che dai colori ocra delle dune vide
stagliarsi netto il verde dell’oasi. Persino il suo animale emise
un lungo bramito avendo intuito la possibilità di poter bere.
un tripudio di lussureggianti palme li accolse, intervallate
da acacie e tamerici.
Inoltrandosi in quell’ombra vivificante arrivarono alle
sponde di un laghetto che rifletteva le loro immagini come uno
specchio. in quel grembo accogliente dell’oasi, fu appena necessario un cenno d’assenso fra i due per liberarsi degli abiti e
immergersi in quelle placide acque.
ritrovarono entrambi quelle sensazioni piacevoli di quando si crogiolavano nel liquido amniotico della propria madre,
incontrando il piacere di una nuova nascita quando ne uscirono. rigenerati, affrontarono il viaggio di ritorno scambiandosi
vicendevolmente le loro esperienze giovanili.
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il giorno dopo, giunse un marinaio ad avvertire iosto che
la bonaccia era terminata e le navi potevano finalmente salpare.
Eshmunamas andò sino all’uscio della sua abitazione in
compagnia dei due giovani per prendere congedo da iosto, esaltando l’affiatamento fra i due. Egli era rimasto positivamente
colpito dalla dignità del comportamento del cornuense mista a
un grande senso d’umiltà.
– ieri ho sacrificato per te un agnello al grande baalammon – gli disse. – Possano essere con te gli dei accompagnandoti favorevolmente alla tua terra, cucciolo di shardana,
per sconfiggere i nemici romani.
iosto ringraziò commosso della calorosa accoglienza e
s’accomiatò da Eshmunamas, mentre veniva accompagnato al
porto da naghid e da alcuni robusti servi.
giunti al porto, si accorsero che solo due navi attendevano
e il navarca arish, scendendo dalla passerella di una di esse, li
informò che le altre navi al comando di shefatim avevano preso
il largo per un’altra destinazione.
– che strano! – sogghignò naghir. all’udire siffatta esclamazione gli altri due scoppiarono in una fragorosa risata.
– svelto iosto, – disse il capitano – saluta il tuo amico che
presto isseremo le vele.
naghid, una volta rimasto solo con l’amico, tirò fuori da
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
una sacca che s’era portato appresso due doni per iosto. uno era
un rasoio in bronzo di forma rettangolare, aveva un corpo sottile
e lungo, con il manico modellato a forma di collo di cigno, le
cui ali erano protese fino al corpo del rasoio. In quest’ultimo
era inciso Melquart, raffigurato imberbe, paludato in un’ampia
tunica a larghe pieghe, che teneva la mano destra sollevata in
segno d’adorazione e reggeva nel palmo della sinistra una patera. un albero di palma decorava l’altro lato. L’altro omaggio
era un uovo di struzzo sul quale era stata dipinta una maschera
apotropaica; spiccavano il contorno del viso, da cui erano state
escluse le orecchie, e i grandi occhi segnati in nero. il naso, la
bocca, le gote e il mento erano dipinti di rosso.
– sono per te, – gli disse naghir porgendoglieli – così ti
porterai in sardegna un po’ di noi.
Lunghi rivoli salati solcavano il viso di iosto e non era di
certo il salmastro del porto che gli si era condensato…
– riesci sempre a stupirmi, – balbettò iosto – ma vedrai
che mi rifarò la prossima volta che ci vedremo, in questa vita
o in un’altra.
Poi vide l’amico estrarre da una piccola tasca della tunica
alcuni oggetti, piegandosi successivamente verso terra. aveva
poggiato un dado su un sasso e vi infieriva con un piccolo
coltello, fintanto che non si ruppe in due. – Tieni, è la nostra
usanza – esclamò prendendo il pugno destro di iosto e serrandolo con l’oggetto.
Detto ciò, si voltò e si mise a correre gridando a perdifiato: – odio gli addii!
E scomparve dietro una montagnola di cordami. a iosto
non rimase altro da fare che prendere le sue sacche e salire
sulla passerella che l’avrebbe condotto a bordo. nel far ciò, uno
strano senso di vuoto l’accompagnava, mentre nella sua mente
scorrevano le immagini di quel soggiorno. Le esperienze che
aveva vissuto lo avevano sicuramente cambiato e, cercando di
capacitarsene, prendeva coscienza di non essere più lo stesso.
solo l’impeto dei delegati che appena lo videro l’attorniarono,
riuscì a strapparlo da una vena malinconica che si stava insinuando nel profondo.
arish lo prese sottobraccio e invitò tutti a seguirlo nel
castello.
– dobbiamo festeggiare con questo nettare appena caricato
– proruppe.
E sebbene a cartagine vigesse il divieto di bere per i nocchieri, il capitano non si voleva far scappare l’occasione per
degustare il rinomato vino cartaginese che arrivava da Megara,
prodotto con uve molto mature lasciate esposte al sole per alcuni
giorni prima della fermentazione.
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a ostia approdava dopo sei giorni di navigazione la quinqueremi che aveva trasportato dalla sardegna il vecchio pretore
aulo cornelio Mamulla. Questi fece frustare a sangue i cavalli
affinché lo portassero a riferire in senato il più presto possibile.
Sudava come un forsennato, copiosi rivoli sul viso gli conflui
vano ai lati delle mascelle per finire poi, dopo un breve volo,
sulla tunica.
il cielo, quella mattina di inizio giugno, era lievemente
velato e il fresco prodotto dalla corsa sul veloce carro non bastava a dare sollievo al pretore preso dall’ansia di raccontare
la gravità del momento. Già, perché come ebbe modo di fare
non molto tempo dopo davanti a degli esterrefatti senatori, la
situazione in sardegna era sul ciglio di un baratro.
Alcuni avvenimenti inaspettati che si erano verificati quasi
contemporaneamente richiedevano un attento esame da parte
della curia romana, affinché non venisse messo in gioco lo stesso
possesso della provincia da parte di roma.
Mamulla iniziò a elencare gli avvenimenti ponendo, con
tono concitato, al primo posto il fatto che il suo successore
sull’isola, il pretore Quinto Muzio scevola, fosse caduto malato
subito dopo il suo arrivo. Descrisse le precarie condizioni fisiche
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
del collega, in preda a febbri scuotenti e talmente debilitanti da
costringerlo a restare inchiodato a letto.
– Quelle terre – disse – sono diventate oramai malsane a
seguito dei disboscamenti dissennati operati nei tempi passati
dai cartaginesi, soprattutto per sfruttare la semina nell’isola.
gli incendi hanno trasformato intere aree in paludi, divenute
poi con l’infiltrazione del mare altamente insalubri. Scevola ha
avuto in sorte l’influenza negativa di tale situazione. Solo gli
dei possono sapere quando riuscirà a riprendersi, tornando a
essere nuovamente efficiente. A ciò s’aggiunga che le ultime
richieste fatte ai sardi, di contribuire con cospicue elargizioni
in grano per avallare gli sforzi di roma contro annibale, sono
state accettate malvolentieri da molte città, dove ormai cova il
malcontento in maniera palese.
Le crescenti defezioni di tali città preannunciano una chiara
evoluzione verso un’aperta ribellione e i contingenti presenti
sull’isola, necessari in tempo di pace, sarebbero assolutamente
inadeguati in caso di estese sommosse. appariva inoltre altamente verosimile l’ipotesi che il senato cartaginese potesse
dare un contributo in soldati alla richiesta pervenutagli da
parte della delegazione delle città ostili a Roma. Nonostante
la minaccia rappresentata da annibale, che dopo la vittoria di
canne spadroneggiava a sud di roma facendo passare dalla sua
parte varie popolazioni italiche, il senato dell’urbe si mostrò
affatto disposto a perdere la sua provincia. decretò quindi un
intervento militare volto alla salvaguardia di un territorio dimostratosi importantissimo per via dei suoi proventi. diede perciò
incarico al pretore urbano Quinto Fulvio Flacco di arruolare
la legione, da destinarsi all’insurrezione in sardegna. restava
inoltre l’incognita del condottiero al quale affidare il comando
dell’esercito. Fulvio Flacco aveva avuto un mandato in bianco
da parte del senato sulla nomina di tale figura.
guita a roma in simili situazioni, ma dettata dagli avvenimenti
incombenti e dalla carenza a roma di magistrati quasi tutti impegnati nella guerra contro annibale. il pretore Flacco era un
uomo pratico e pensò subito a un suo amico dal nome altisonante
a roma: l’ex console tito Manlio torquato.
chi era dunque codesto privato cittadino che in passato
s’era ammantato oltre che di gloria sui campi di battaglia anche
d’una corazza di tremenda integerrimità? Scuro di carnagione,
aveva i tratti del viso addolciti, sovrastati da folte ciglia e altrettanti riccioli, proveniva da una delle più prestigiose e illustri
famiglie capitoline.
Vantava fra i suoi avi personaggi che avevano contribuito in
maniera determinante alla costituzione della res publica romana.
L’appellativo di torquato gli derivava dal bisnonno che nella
battaglia contro i galli del 361 a.c., affrontando un guerriero
di enorme corporatura, si comportò da autentico romano armato di astuzia e riflessione. Ricorrendo a tali doti in un crudele
duello, al contrario della forza brutale utilizzata dal gallo, riuscì
ad uccidere quest’ultimo e a impossessarsi di una sua collana,
il torques dei latini, e se la mise al collo ancora grondante di
sangue come trofeo. non meno famoso fu l’episodio nel quale
uccise un figlio, reo di non aver osservato le consegne impartitegli nella guerra contro i latini, coprendosi di valore in una
scaramuccia, ma scatenando la battaglia.
L’eco di tale gesto crudele echeggia ancora a roma come
esempio di ferreo legame alla disciplina e agli interessi della
patria, al di sopra di qualunque affetto. La folgorante carriera
di tito incominciò vent’anni prima quando da console fu inviato
in sardegna a sedare un’altra ribellione e, guarda caso, anche
quella volta fomentata dai cartaginesi.
in quell’occasione, il 10 marzo del 235, copertosi di gloria
sui campi di battaglia, celebrò il trionfo sfilando a Roma sulla
biga del vincitore ammantato di porpora bordata d’oro.
Fu una vittoria assoluta al punto che a roma fu chiuso
Era un evento eccezionale, fuori dalla normale prassi se90
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
il tempio di giano. tale evento capitava raramente, e stava a
significare per i romani che avevano raggiunto la pace in ogni
luogo e che non vi era alcun teatro di guerra. La sua fama si
rafforzò ulteriormente quando a Roma, dopo la sconfitta di
canne, si presentò cartalone, luogotenente di annibale con
una rappresentanza di dieci soldati romani fatti prigionieri. Era
solo una sparuta rappresentanza dei circa ventimila catturati da
annibale in conseguenza della disfatta romana, e imploravano
la loro liberazione e quella dei loro sventurati commilitoni alle
condizioni imposte da annibale. nonostante l’umiliazione vissuta presso il senato romano dalla sconfitta, non fu permesso a
cartalone di parlare nella curia, anzi gli fu ordinato di allontanarsi immediatamente dall’urbe, pena la morte. solo al portavoce dei soldati romani fu concesso di esporre ai senatori quale
fosse l’entità del riscatto e le condizioni richieste dal Barcide e,
una volta terminata l’esposizione, gli chiesero di allontanarsi
dall’aula affinché i senatori potessero discutere del caso.
si crearono immediatamente due fronti: uno propenso a
cedere e pagare, un altro reticente alle proposte. di quest’ultimo partito si fece promotore tito Manlio che, senza usare
sotterfugi, accusò apertamente di vigliaccheria i soldati che si
arresero ai cartaginesi.
improntò la sua arringa sull’episodio legato al mancato
sostegno da parte loro del generale Publio sempronio tuditano.
Questi, benché accerchiato, riuscì a eludere con grande astuzia
la sorveglianza riparando a canosa. il mattino seguente il resto
delle truppe, totalmente privo di dignità, si arrese al nemico
senza ingaggiare battaglia.
– Per tali motivi, – disse tito – essendosi macchiati di
codardia davanti al popolo di Roma non meritano alcuna pietà.
Faccia pure annibale di questi rinnegati ciò che vuole! è necessario dare un esempio di ciò che si chiede a un soldato romano,
fedeltà assoluta, dovesse essere necessario immolare la propria
vita per difendere le insegne della propria patria! tale discorso
infervorò i senatori titubanti che avevano rispolverato i costumi
tramandati dai padri fondatori della città.
Queste le premesse per capire chi si celava sotto questo
ferreo personaggio, mai pronto al compromesso bensì capace
di dare il massimo anche nei momenti difficili.
E fu così anche quando, potendo continuare da libero
cittadino a godere degli agi che la vita gli offriva, non esitò a
rimettersi in gioco avendo come destinazione ancora una volta la
sardegna. d’altronde, quell’isola l’aveva nel cuore, e un tremito
l’attraversò dalla testa ai piedi allorché Quinto Fulvio Flacco,
mentre si trovavano nel calidarium delle terme, lo mise al corrente del suo desiderio di rimandarlo sull’isola. tito Manlio
sudava in quell’ambiente saturo di vapore, dove le sagome si
distinguevano appena e le gocce d’acqua gli scorrevano sul bel
corpo atletico, forgiato dall’esercizio militare. bella burla gli
aveva giocato il pretore urbano nell’informarlo proprio in quel
luogo quasi onirico, dove era più facile riesumare una folla di
ricordi risalenti a vent’anni prima. sapeva bene l’amico quanto
tito Manlio fosse stato profondamente colpito dalla sardegna.
su cosa quindi Fulvio Flacco basava l’assenso da parte
dell’ex console sulla sua totale abnegazione verso la patria o
sull’infatuazione verso la Sardegna? Difficile dirlo, ma mentre
questi dava il beneplacito al suo utilizzo, rendendosi da subito
disponibile, nella sua mente continuavano a scorrere immagini
risalenti alla sua esperienza in sardegna. Piano piano prendevano corpo i colori, i profumi, in una parola i ricordi di quel soggiorno. compreso quell’amore verso actilia Pomptilla, breve
ma intensissimo. una passione consumata fra le dune sabbiose
di nora quando le labbra della nobile romana bruciavano più del
sole. si conobbero a Karales, dove le fu presentata da amici comuni. Lui appena trentenne e lei nove anni più giovane, furono
attratti da un vero colpo di fulmine. Ma dopo un breve periodo a
Karales, tito Manlio dovette seguire da vicino le azioni militari
allontanandosi quindi dal capoluogo e rendendo così più difficile
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
la loro frequentazione. Egli sentiva forte il desiderio di quella
compagna e cercava di farlo comprendere ad actilia in mille
modi. Non trovando continuità, il loro rapporto cominciò presto
a incrinarsi, nonostante il condottiero cercasse di coprire l’amata
di mille premure e attenzioni. La corteggiatissima kalaritana fu
pervasa da uno stato di diffidenza, di gelosia e da una vera e
propria paura di essere abbandonata. arrivò persino a pensare
che tito volesse sfruttare la situazione a proprio vantaggio,
frequentandola solo per il suo personale piacere. i loro ultimi
incontri furono caratterizzati dalla preminenza degli umori di
actilia e dall’emergere del suo amor proprio. da ciò ne derivò
un risultato dettato da un infinito numero di incertezze che andò
a frapporsi fra i due. La rottura giunse inevitabile per mano di
actilia, convinta che fosse meglio rinunciare quando ormai era
rimasto poco o niente da salvare in una passione per lei negletta.
Manlio, per consolarsi dei mali del cuore verso i quali
nulla poteva la ragione, si gettò anima e corpo nelle operazioni
militari. Immerso nella realtà fisica del paesaggio, riusciva a
destreggiarsi alla perfezione nelle sempreverdi foreste sarde,
fatte di lecci e querce, dove svettavano arcaiche costruzioni megalitiche. I nuraghi, caratterizzati da possanza e monumentalità,
erano disseminati a migliaia nel territorio sardo, di destinazione
plurima, fungevano da fortezze, da templi, o da semplici abitazioni. tito Manlio, ebbe modo di visitarne svariati e sempre lo
colmavano di stupore per la grandiosità, l’originalità e l’unicità.
rimase particolarmente colpito dalla fortezza di barumini, dove
ebbe l’occasione di soggiornare nelle capanne del villaggio di
forma circolare, costruite con massi di dimensioni più contenute,
con copertura leggera straminea.
Echi di ataviche presenze aleggiavano in quei luoghi, ed
egli cercava di intercettarle. La leggenda di pregresse frequentazioni da parte di esseri dal fisico esageratamente sviluppato
contribuiva a circondarli ancor più di mistero.
spesso, nelle immediate vicinanze dei nuraghi, erano si-
tuate quelle che venivano chiamate le tombe dei giganti. una
mattina tito Manlio ordinò a un suo centurione di ispezionare
l’interno di una di esse con lo scopo di accertare se vi fossero
stati sepolti dei ciclopi. L’ufficiale Crispolus non si entusiasmò
affatto all’idea di doversi intrufolare nei segreti legati all’ade.
Ma gli ordini andavano rispettati, prese con sé due soldati e
insieme si diressero controvoglia verso il monumento funerario.
rasentarono la camera funeraria, lunga una quindicina di
metri e ricoperta esternamente da un tumulo di sassi disposti
in modo da rassomigliare alla chiglia di una nave rovesciata.
si trovarono quindi nell’esedra di fronte al monumento che si
presentava delimitata da lastre di pietra di dimensioni ciclopiche conficcate nel terreno, quasi a simboleggiare le corna di
un enorme toro. al centro di quel semicerchio si trovava una
gigantesca stele granitica alta circa quattro metri, sormontata
da una cornice rotondeggiante e alla cui base si trovava una
piccola apertura chiusa da un masso. nel centro dell’esedra
erano posizionati dei cippi conici di basalto, i betili.
crispolus accarezzò uno di quelli quasi a farsi coraggio
e a imbonirsi gli dei che vegliavano su quel sito, ordinando
contemporaneamente al soldato iuno di accendere le torce. si
trattava a qual punto di spostare il masso posto all’entrata, compito che venne svolto dall’altro soldato galerio. Erano pronti
a varcare quella porticina che collegava il mondo dei vivi con
quello dell’oltretomba. “se il corpo di un essere umano era
così grande da richiedere un’inumazione di siffatte dimensioni,
doveva essere davvero invincibile” pensava tra sé crispolus.
I due soldati si trovavano già all’interno della Tomba
quando finalmente anche il centurione li raggiunse reggendo la
sua torcia. Dal soffitto alto due metri iniziò a turbinare sopra
le loro teste un insolito movimento d’aria, che per poco non li
gettò nel panico per la profanazione attuata. galerio spinse allora
la sua torcia in alto sino al massimo della lunghezza del suo
braccio, quasi a voler scacciare qualche demone risvegliatosi.
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Pietro Scanu
Ma si accorse che in quel modo stavano soltanto disturbando
nugoli di pipistrelli che avevano trovato riparo in quel luogo.
Procedettero verso il fondo senza trovare tibie né omeri spropositati, ma solo centinaia di crani e ossa sparse dalle normali
dimensioni. si trattava quindi solo di un ossario dove erano stati
tumulati semplici esseri umani.
rincuorati dalla scoperta riferirono quanto visto a tito
Manlio e crispolus gli disse con enfasi: – è probabile che se
qualche ciclope è circolato in queste regioni è finito impietrito
su qualche altura, poiché non v’è traccia di sepoltura in queste
tombe di giganti!
i boschi nella pianura limitrofa a Karales erano compenetrati da una ricca macchia fatta soprattutto di lentisco, ginepro
e cisto. E proprio di quest’ultimo tito Manlio serbava un
particolare ricordo olfattivo, in quanto era solito prenderne dei
piccoli rametti e strofinarli tra le dita per sentirne il profumo
e viaggiare con la mente fra i ricordi. Verso l’interno dell’isola nella Barbagia, i boschi divenivano più fitti, con rare vie
di comunicazione. Qui le indomite popolazioni dell’interno,
nel loro dignitoso isolamento, avevano resistito agli attacchi
cartaginesi prima e romani poi. tra questi ultimi, il console
Marco Pomponio Matone nel 231 a.c. arrivò a utilizzare cani
addestrati alla caccia all’uomo per stanare gli indigeni dai loro
nascondigli. Ma il senato romano, non approvando i selvaggi
metodi del console, gli negò il trionfo per le strade di roma
nonostante fosse riuscito a sedare i focolai di rivolta.
Taranto, Turi, Metaponto, Eraclea e svariate altre città erano
passati dalla parte di annibale.
territori questi utilizzati normalmente da roma per approvvigionarsi di legionari ma, essendo passati al nemico, non
potevano essere più utilizzati per tale compito.
impresa impegnativa quindi per il pretore Flacco, che tuttavia non si scoraggiò minimamente, anzi si prefisse lo scopo
di creare per l’occasione un’apposita legione costituita non da
4.200 fanti e 300 cavalieri come di norma, bensì da una più
robusta con 5.000 legionari e 400 cavalieri.
dopo l’assenso dato da tito Manlio a Quinto Fulvio Flacco,
quest’ultimo si mise subito all’opera per fornire al condottiero
un contingente sufficiente, sia di fanti che di cavalieri, da inviare
in sardegna. il compito non si presentava facile però, poiché,
dopo la sconfitta dell’anno prima a Canne, vi era stata un’ampia defezione di popolazioni abitanti nell’italia meridionale. i
sanniti, i bruzzii, i sabatini, gli apuli, e persino gli abitanti di
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intanto le due navi che trasportavano la delegazione di ritorno da cartagine, sospinte da un libeccio sostenuto, poterono
rapidamente giungere al porto di cornus.
L’accoglienza che venne riservata ai delegati da parte del
senato e della popolazione tutta fu veramente indescrivibile.
iosto poté riabbracciare i genitori, che durante la sua assenza
con il passare dei giorni apparivano sempre più tesi e litigiosi,
e ora finalmente sereni e affettuosi.
L’annuncio della buona riuscita della missione si diffuse
rapidamente in ogni angolo delle città interessate e nei territori
limitrofi. Fu grande festa per svariati giorni, poiché la popolazione si sentì rincuorata dal promesso appoggio da parte di
Cartagine e quindi più fiduciosa sul futuro. Il fumo degli arrosti
riempiva l’aria, confondendosi talvolta con quello proveniente
dai templi in cui si celebravano riti sacrificali di ringraziamento
agli dei.
Mentre iosto si trovava a cartagine, narna, in un giorno
di quelli in cui la malinconia s’era fatta sentire più del solito,
s’era recata dalla bithia oratanda. Voleva delucidazioni sulla
sua relazione ed eventualmente un nuovo filtro d’amore. Mentre
si accingeva a entrare nella spelonca in cui abitava la vecchia,
andò a sbattere violentemente sulla spalla di Jezbel che proprio
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
in quell’istante usciva sovrappensiero. Fra le due ci fu uno
scambio di invettive ma il tutto finì rapidamente.
dopo aver salutato oratanda, la giovane le si sedette di
fronte e, con fare scherzoso, le chiese se si era appiccicato
qualche demone alla donna che l’aveva preceduta. L’indovina
la guardò fissa negli occhi con un’espressione che tutto poteva
voler significare tranne che lì si scherzasse.
Fattasi seria anche narna, le chiese quali auspici potesse
farle adesso che iosto era tornato. La megera si alzò e andò
diritta a prendere da uno scaffale malconcio una piccola anfora
da cui trasse una manciata di foglie secche. Le frantumò fra le
sue mani ossute e dopo essersele messe in bocca iniziò a masticarle lentamente con i pochi denti che le erano rimasti. Erano
foglie miste di giuschiamo nero, datura e belladonna, capaci
di conferire uno stato di estasi in mani esperte come le sue,
ma pericolosissime se assunte nelle dosi sbagliate. a lei stessa
capitò d’essersi intossicata da un fungo allucinatorio dal quale
si salvò dopo vari giorni di dolori atroci. non mancavano dal
suo scaffale anche olio di ginepro e foglie di peonia e di rosa
selvatica che andavano a completare il suo corredo in grado di
conferirle poteri di contatto con spiriti, capacità di visione a
distanza e volo magico. Non aveva neppure finito di ingurgitare
il bolo delle foglie che narna la vide scossa da potenti fremiti,
le si dilatarono le pupille, la voce prima flebile divenne sempre
più querula, mentre l’aria intorno andava riempiendosi di un
acre odore d’urina.
– anche questa… anche questa! – andava ripetendo in
maniera quasi ossessiva la sciamana, in un equilibrio precario
sulla seggiola su cui era seduta. biascicò ancora un po’ frasi
sconnesse e poi, dopo un ampio sbadiglio, cercò con tremuli
movimenti delle mani, di acciuffare una brocca sul tavolo per
versarsi dell’acqua.
– Lascia che ti aiuti – le disse narna.
Ma quella, spostando le mani della giovane, intimò con
tono perentorio di stare ferma. altri attimi pesanti passarono
in un silenzio irreale fin quando la vecchia, stropicciandosi gli
occhi, proferì: – non è possibile!
narna, presa alla sprovvista, iniziò a tremare come una
foglia di canna al vento, ma nonostante ciò si fece coraggio e
chiese: – cosa non è possibile?
E dall’altra si sentì rispondere: – Ho avuto la stessa visione
avuta pocanzi per la persona che ti ha preceduta, soltanto che
ora ho visto un cervo, mentre prima erano due.
– spiegati meglio! – incalzò la giovane.
L’altra, stirandosi alcuni lunghi peli che aveva nel mento,
proseguì: – non mi era mai capitato di avere due visioni così
simili l’una appresso all’altra. Ho visto i cervi alla ricerca di una
fonte dove abbeverarsi in una mattina in cui la bruma confondeva i contorni delle cose e il sole non riusciva a filtrare fra i rami
del bosco. Ebbene, questi animali giungono a una prima fonte
ai piedi di un colle, ma la pozza getta acqua rossa densa come
il sangue. dopo vario peregrinare, incontrano un’altra fonte ai
piedi di un secondo colle, ma anche questa si presenta come la
precedente, e poi una terza, una quarta, fino alla settima. La
scena è sempre la stessa: sette colli sotto i quali sgorgano sette
fonti che gettano acqua sanguinolenta e rendono impossibile ai
cervi il rifocillarsi! Infine questi stramazzano al suolo esausti.
non è proprio ciò che si dice un buon presagio! – terminò
questa, omettendo il fatto che Jezbel l’aveva interrogata sulla
sorte dei gemelli, con gli stessi risultati.
narna, avviluppata in una cupa mestizia, non osò chiedere
a Oratanta un ulteriore filtro amoroso per Iosto e pagato il dovuto andò via, rimuginando sulla strada del ritorno sulla sorte
che attendeva l’amato.
Questo, nel frattempo, era diventato un idolo per i suoi
amici, che s’erano fatti raccontare fino alla nausea i fatti accaduti durante il viaggio. Persino la madre passava pomeriggi
interi a farsi raccontare di quella lontana terra, dove l’opulenza,
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
l’arte e l’amore per le belle cose erano connotati inscindibili.
Ellissa si dimostrava avida di sapere come apparivano le donne
cartaginesi e quali fossero le loro abitudini. iosto si divertiva a
vedere il luccichio negli occhi della madre, tanto che li faceva
apparire più chiari del solito. Pomeriggi ameni di metà giugno
nei quali il giovane faceva a gara con il frinire delle cicale nel
patio della loro casa.
Però egli, appena poteva, volava col pensiero a cercare
i ricordi di quando clea gli aveva reso possibile abbracciare
quelle sensazioni così forti e uniche. aveva preferito non raccontare a nessuno del suo rapimento a cartagine, relegandolo a
un segreto fra arish e lui. non voleva minimamente intaccare
quel clima gioioso di benemerenza che si era creato intorno a
lui. Un mezzo segreto, in realtà: Ampsicora aveva incaricato
Arish di tener d’occhio il giovane, affidandogli una consistente
cifra in danaro qualora ve ne fosse stato bisogno e così accadde.
ora iosto poteva essere guardato come il degno successore del
principe di cornus.
da alcuna autorità. Alcuni erano combattenti valorosi, altri si
dimostravano inquieti, attaccabrighe e insolenti, senza la pazienza tipica del guerriero né tantomeno si preoccupavano di
acquisirla. Era fondamentale non farli cadere preda della noia, e
impartirgli una rigida disciplina utile durante il combattimento.
in tutti quegli animi aleggiava la ferma consapevolezza di
voler dare il proprio contributo affinché le loro terre, le loro
donne, i loro averi non fossero proprietà di Roma.
Ecco quindi intervenire ancora una volta iosto, che si
prodigò nel fargli capire che la tolleranza e la sopportazione
erano doti che non cozzavano affatto con l’audacia e l’ambizione della vittoria, ma andavano semmai a completare un vero
combattente. Era parsimonioso nel parlare, centellinava una ad
una le frasi, lo si vedeva aggirarsi per il campo già dalla mattina
presto, informandosi, e interrogando continuamente le persone
che arrivavano dai vari villaggi.
– Ho intenzione di lavorare con voi! – questa sembrava
la frase magica che incuteva in essi un entusiasmo fuori dalla
norma e apriva i loro cuori. – sapete bene fratelli che cartagine
ha abbracciato la nostra causa, promettendoci l’invio delle sue
truppe! Esse si schiereranno presto al nostro fianco, vogliamo
forse essere da meno a quei valorosi guerrieri sul campo di
battaglia? Può essere nostra aspirazione mostrare audacia e
coraggio o abbassare le nostre teste alla falce romana come
spighe marce?
Queste erano le argomentazioni che iosto andava ripetendo
nei vari gruppi del campo, ma ciò che colpiva di più gli uomini
era senz’altro la sua semplicità. Essendo accampati nel suo
territorio, si era fatto carico di onorare il concetto di ospitalità
verso quelle genti, controllando meticolosamente che al campo
non mancasse mai nulla.
Le vettovaglie per il campo venivano da cornus, vista
anche l’ottima annata nella raccolta del grano e gli abbondanti
allevamenti della zona capaci di fornire carne a sufficienza.
durante la sua assenza ampsicora si era speso molto alla
ricerca di proseliti che potessero dare il loro contributo per la libertà, e visitando i centri limitrofi ricevette una grande adesione
da parte delle persone. iniziò così a radunare i guerrieri che pian
piano arrivavano in un grande pianoro, posto due miglia a sud
di Cornus subito al di sotto della gola del fiume Pischinappiu,
unico accesso a sud della città. Si intendeva, in questo modo,
porre le basi di quell’esercito locale che, sommato a quello
cartaginese, avrebbe potuto affrontare i romani. in quel campo
vi si potevano distinguere eutychiani, diaghesbei, gidillitiani,
numisiriani, aconites e ancora patulcii e uddadharitani; raggruppati per etnie iniziavano a fraternizzare fra loro, esercitandosi
in lotte, tiro con l’arco e combattimenti armati. Gli ufficiali di
stanza a cornus avevano avuto l’incarico di inquadrare anche
quegli uomini, la cui maggioranza non si lasciava intimorire
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
ampsicora si dimostrava molto soddisfatto dell’andamento
delle cose e del fervore dimostrato dal figlio, faceva solo delle
veloci sortite al campo per far sentire la sua presenza, ma senza
sovrapporsi né tantomeno interferire in ciò che egregiamente
stava facendo iosto. il principe di cornus cercava di concentrarsi soprattutto sul viaggio che avrebbe dovuto affrontare verso
l’interno per incontrare i pelliti.
lama di un coltello affilatissima, da cui dobbiamo levarci con
il numero minore di danni. La coalizione attende oramai con
ansia la notizia che annuncia il loro assenso!
L’altro gli rispose: – Mi lusinga essere il tuo beniamino,
anche se ciò nel tempo ha attirato su di me invidie e inimicizie,
ma diciamo anche che sono orgoglioso di tale predilezione e
come sempre cercherò di essere all’altezza della situazione!
conosciamo bene il carattere degli indomiti guerrieri pelliti.
Sicuramente non ci verrà richiesto di presentarci carichi di ogni
genere di doni, o di inoltrare le offerte di alleanza in maniera
sontuosa! Non ci sarà bisogno di alcun corteggiamento, aspettano solo di far emergere le loro capacità contro le avide orde
che ci insidiano. Muoviamoci alla svelta, affinché si estenda e
avviluppi anche loro la ventata d’ardore che ci anima.
Musica per le orecchie di ampsicora, che ebbe l’ultima
parola: – Fra tre giorni saremo pronti per la partenza, il tempo
di preparare qualche provvista per il viaggio e assicurarci che
nel campo di raccolta delle truppe le cose vengano impostate
nel modo giusto!
Viaggio arduo, pieno d’incognite, ma suffragato dalla nota
ostilità dei pelliti nei confronti di Roma, che faceva presumere
un buon margine di possibilità affinché accettassero di allearsi.
Valeva quindi la pena dirigersi verso quei territori impervi,
anche se ciò avrebbe comportato il distacco dalla sua cittadina
per almeno tre settimane. Egli rimuginava nella sua mente chi,
nel gruppo dei suoi stretti collaboratori, fosse più adatto ad
accompagnarlo. baalquim, abdezbel, asher e abdmelquart,
furono i quattro nomi su cui ricadde la sua scelta: tutti uomini
di comprovata lealtà e suoi fidi consiglieri. Asher, in particolare, era da sempre il suo braccio destro. di madre greca aveva
i tratti del viso talmente armonici e delicati da apparire quasi
statuario. di qualche anno più piccolo di ampsicora, aveva
condiviso con lui varie controversie legate all’amministrazione
locale, contribuendo in maniera equilibrata alla loro risoluzione,
diventando così un punto di riferimento costante. Fu convocato
dal principe per essere messo a conoscenza delle sue volontà e
questi, ponendogli la mano destra sulla spalla, gli disse: – Potevi forse mancare da questa missione? il tuo sguardo deciso e
la tua sagacia mi sono stati di gran conforto in varie occasioni
e te ne sono riconoscente. ci resta l’ultimo e decisivo passo
per cercare di creare una forza d’urto capace di spazzare via
i nostri nemici. Quante volte abbiamo ballato e cantato con i
popoli dell’interno? ci hanno sempre accolto da fratelli. Persino varie delle loro donne si sono accasate da noi e viceversa.
Penso che percepiscano oramai anche loro che ci troviamo sulla
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Proprio in quel luogo, intanto, s’erano radunate alcune
migliaia di persone e risultava fondamentale il modo di amministrarle, in quanto anche da ciò sarebbe scaturito il loro
successivo comportamento in battaglia. dopo i buoni risultati
ottenuti da parte degli ufficiali di Cornus nel cercare di preparare
gli abitanti della città e dei sobborghi, si trattava ora di rendere
il più omogenea possibile quella massa di guerrieri.
Era una fase davvero delicata e nonostante ad ampsicora
dispiacesse molto doversi spostare in quei frangenti, per lui
era giunto il momento improcrastinabile di andare alla ricerca
di rinforzi. Lo confortavano molto la bravura dei suoi ufficiali
e la dedizione di iosto, e intendeva quindi dedicargli il tempo
che mancava alla partenza.
Voleva informarli di alcuni aspetti pratici a cui teneva molto
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
e, per fare ciò, convocò sia il figlio che gli ufficiali a Cornus.
Nella sala dove si teneva l’enclave, Iosto gli stava al fianco, e
in maniera decisa iniziò subito a snocciolare tutta una serie di
provvedimenti che riteneva importanti: – gli uomini e i guerrieri
che stanno confluendo alla periferia di Cornus costituiscono
forza vitale per la nostra lotta e motivo d’orgoglio per la fiducia
che ripongono in noi! Ma non vi sognate di far accedere queste
masse alla città di Cornus. Con la scusa della vicinanza, non
voglio che la nostra città diventi sede di gozzoviglie e bivacchi
davanti alla case delle meretrici! Badate bene, dovrà essere per
voi la principale preoccupazione, quella di non far mancare
vettovaglie e suppellettili, ma esigo l’intransigenza più assoluta
nel mantenere l’ordine nel campo. cercate di stare sempre in
mezzo agli uomini, si devono sentire un tutt’uno con voi. Fate
in modo che i vari gruppi mangino assieme, l’amalgama deve
essere una delle mete da raggiungere, sentirsi una grande famiglia il risultato finale. E se mischiando i vari gruppi dovesse
sorgere qualche discussione, lasciate pure che la risolvano a
suon di pugni, servirà magari a creare amicizie durature, quando
si saranno calmati gli animi. ricordatevi bene che iosto, durante la mia assenza, è colui che mi rappresenta e se qualcuno
non osserverà i suoi ordini ne risponderà personalmente a me!
Possano gli dei vegliare sul campo!
provata per la sua mancanza, e attendeva ansiosa il momento
in cui l’avrebbe cinto al collo con le sue braccia. Ma nella sua
mente aveva pesato non poco la visione di oratanda, anche se
non era perfettamente chiaro il significato. Bisognava ricercare un’armonia che si era rotta, rinunciando a una parte di se
stessa e mandando dei segnali all’amato, facendogli capire che
ci teneva. Ma le contingenze del momento non l’aiutavano, in
quanto iosto s’era gettato con tutte le sue forze nella gestione
del campo, passandovi tutte le giornate dall’alba al tramonto.
“dove poterlo incontrare quindi?” si domandava continuamente la ragazza mentre il tempo, inesorabilmente, passava.
talvolta si dirigeva da sola oltre il porto verso la spiaggetta
dell’arco, cercando conforto e consolazione interiore in quei
luoghi. il nome di quella caletta derivava dalla presenza di un
arco naturale scavato dal vento nella roccia calcarea e dall’azione erosiva dei mari. Quante volte s’erano rincorsi su quella
spiaggia candida, e ansimanti s’erano abbandonati a terra fra
miriadi di granelli!
ora, sola, camminava lentamente ai piedi della battigia,
guardando quelle languide carezze che la risacca del mare dava
instancabilmente alla riva. talvolta si chinava incuriosita da
qualche strano oggetto depositato dal mare, prendendolo fra le
mani e rigirandolo, quasi a scoprire il suo mistero. nella maggioranza dei casi erano oggetti inanimati, conchiglie, frammenti
di corallo o uova di gattuccio che narna riponeva con cura in
un pezzo di tela grezza.
Ma si sa che i ricordi non sempre aiutano, e quando s’accorgeva che questi prendevano troppo il sopravvento, iniziava
a correre allontanandosi alla svelta da quei luoghi.
Fintanto che iosto era rimasto fuori cornus, narna riteneva
d’essere nel giusto ad aver trattato freddamente il signorino ma
ora, essendo trascorso un po’ di tempo dal suo rientro, iniziava
a soffrire del fatto che lui non si fosse fatto minimamente vivo.
Anche le amiche giù al fiume cominciavano a sbeffeggiarla!
– com’è che il signorino non ti ha fatto più sorpresine? –
diceva una. – Forse il viaggio gli ha fatto perdere la memoria!
– faceva eco un’altra.
E lei, cupa in viso, non rispondeva. sì, era vero, lei non
l’aveva atteso al porto, non gli aveva dimostrato di essere
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105
La battaglia di Cornus
V
giunse anche il giorno della partenza di ampsicora verso l’interno dell’isola, preannunciato da un insolito nervosismo di
Ellissa. infatti, mentre attorno al signore tutti si prodigavano
nell’affanno dei preparativi, dall’ultimo dei servitori della famiglia sino a iosto, lei no. andava avanti e indietro cercandosi un
daffare che puntualmente si risolveva in un nulla di fatto. non
riusciva a concentrarsi in ciò che faceva, e quindi lasciava le
cose a metà senza essere di nessun aiuto pratico, la sua mente
era in completa balia del suo cuore.
Viveva nel panico più assoluto, cercando di celarlo in
maniera maldestra perché ampsicora, da che stavano insieme,
non si era spostato da cornus per un numero di giorni così elevato come stava per fare. Il viaggio del figlio l’aveva provata e
adesso che ancora non si era ripresa, ecco il marito in partenza!
Egli osservava la fragilità di Ellissa ed era felice perché
reputava quelle manifestazioni dei gesti d’amore nei suoi confronti. Ecco quindi che in una tiepida mattina di metà giugno
ampsicora strinse a sé Ellissa dicendole: – Mi mancherai!
Lei ricambiò stringendolo il più che poteva, mentre caldi
rivoli le solcavano il viso. Poi, rivolgendosi a iosto, disse: –
Vigila su tua madre figliolo e sostienila.
così dicendo spronò il cavallo e andò a raggiungere i suoi
fidi che l’aspettavano poco distanti. Partirono senza clamori,
all’improvviso, così aveva deciso ampsicora. E sebbene la loro
partenza fu notata apparentemente solo dai cani che latravano
al passaggio, la notizia si diffuse rapidamente.
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Pietro Scanu
Intanto, mentre Annibale a sud di Roma cercava di fiaccare la resistenza romana togliendo alleati e innescando nuovi
focolai di guerra, tito Manlio torquato sul ramo meridionale
del delta del tevere, nel porto di ostia, coordinava le operazioni d’imbarco delle sue truppe. ciò poteva avvenire in tutta
serenità in quanto Annibale disponeva di esigue forze terrestri
e non poteva contare su una flotta capace di sbarrare la fuoriuscita dal tevere delle navi da guerra romane. L’azione del
condottiero barcide, non potendo cingere d’assedio roma,
era rivolta più alla defezione degli alleati dell’urbe, cercando
di privarla del serbatoio pressoché inestinguibile di soldati e
contemporaneamente, proprio in quel mese, strinse un’alleanza
militare con Filippo V di Macedonia per rafforzare l’azione a
tenaglia sulla città.
Quinto Fulvio Flacco era stato di parola e il suo sforzo per
arruolare un’altra legione da inviare in sardegna, rafforzando
quella già presente, ebbe buon esito.
consegnando l’imperium a Tito Manlio, gli affidò la XVIIIa
legione e il contingente di truppe alleate, pronte ad affrontare
le 212 miglia nautiche che separavano da Karales, da percorrere, con mare buono, in cinque giorni e altrettante notti di
navigazione. a cornus i due gemelli attumbal e Mussumbal si
prodigavano nel cercare notizie attendibili sul viaggio di ampsicora e dei giorni che sarebbe stato distante dagli insediamenti.
Trovato un numero sufficiente di informazioni, ci pensò poi la
madre, come sempre, a inviarle con il metodo della pintatera
al pretore Quinto Muzio scevola a Karales.
dopo cinque giorni di marcia fra boschi e selve, usufruendo di un buon fresco sotto il fogliame ombroso, ampsicora e il
drappello che lo seguiva attraversarono la catena montuosa del
Monteferro giungendo in un territorio di altipiani e al primo
grosso villaggio. Fino ad allora avevano incrociato soltanto
dei piccoli insediamenti, nei quali riuscirono a convincere un
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
buon numero di uomini. si trovavano nel territorio dei troes
e vennero accolti dal capo ithor. Questi, che li attendeva davanti alla grande capanna del consilio, stava ritto, in piedi, e
teneva con la mano sinistra il bastone-scettro rinforzato con
borchie di metallo. in testa aveva un copricapo a calottina
crestato in tessuto di lana nero e vestiva una tunica in lana
nera d’orbace sovrapposta a un’altra tunica in lino. da quella
in orbace sporgeva una fascia in lana rossa dalle estremità
frangiate, simbolo del suo status sociale. sul petto, accolto in
una bandoliera a tracolla di cuoio lavorato, spiccava il pugnale
in bronzo a elsa gammata. Infine, sulle spalle, portava un
mantello d’orbace nero con i bordi rossi. dopo gli abbracci di
rito, pregò gli ospiti di accomodarsi all’interno dove si erano
già riuniti gli anziani.
– ampsicora, – gli disse ithor – la situazione è davvero
così grave che sei dovuto venire a farci visita?
– sarei venuto volentieri a barattare tori o cavalli e purtroppo non mi sarei mai immaginato, invece, di raggiungervi
per chiedere il vostro aiuto. i romani hanno avuto la faccia tosta
di venire a Cornus per chiederci di aderire al gruppo delle città
loro amiche. In realtà, ci hanno chiesto una resa incondizionata,
minacciando la guerra qualora non avessimo accettato.
– dunque, – disse ithor – non ci lasciano altra scelta se
non quella delle armi!
– Proprio così, – proseguì il cornuense – e intendo spingermi fino a Macopsissa per coinvolgere anche gli iolei e gli
ilienses in una grande fratellanza contro gli invasori. Ho già
mobilitato gli uomini validi di cornus e di tutto il circondario,
radunandoli alla periferia di cornus. se riuscissimo ad avere
un buon seguito dalle popolazioni dell’interno, potremmo unire
queste forze a quelle promesse da cartagine e marciare così
verso Karales, covo degli invasori.
– sai quanto le nostre popolazioni siano inclini a restare nei
dintorni delle loro abitazioni? – si sentì rispondere dal capo –
Ma queste argomentazioni sapranno risvegliare qualunque testa
di legno dal suo torpore.
– avrai tutto l’appoggio che chiedi, fratello ampsicora, ed
essendo la vigilia della grande festa del solstizio d’estate sarete
nostri ospiti questi giorni. domani una grande massa di persone
arriverà dal circondario, raggruppandosi intorno al pozzo sacro
per i riti propiziatori, sarà quindi anche una buona occasione
per mettere al corrente la popolazione dei rischi che corriamo!
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il villaggio di Logherras dove abitavano i troes era noto
per la presenza di un grosso nuraghe a torre centrale con quattro nuraghi più piccoli intorno, il tutto circondato da una cinta
muraria imponente con quattro bastioni circolari agli angoli.
La fortezza nuragica accoglieva nella torre centrale l’edificio
di culto dedicato alla potente divinità della terra, Demetra,
protettrice delle messi.
al termine della riunione, ampsicora e il suo seguito
furono accompagnati da Ithor a rendere omaggio alla divinità
nella torre centrale del nuraghe. Prima di entrare, il capo fece
dono a ognuno degli ospiti di un bruciaprofumi con la tipica
testa femminile, procedendo avanti a tutti nel lungo corridoio
dell’edificio. Un odore acre si sprigionava dalle fiaccole che
illuminavano il percorso e, di tanto in tanto, incontravano delle
nicchie laterali dove stavano i custodi dell’edificio. Giunti nella vasta sala centrale, depositarono nelle nicchie laterali, che
fungevano da deposito votivo, le monete e i bruciaprofumi con
funzione dedicatoria. uno alla volta si incamminarono su una
stretta scala che portava al piano superiore, dove si trovava il
sacello. giunsero quindi in un ambiente più piccolo di quello
del piano inferiore, caratterizzato dalla presenza di una statua
della divinità posta a ridosso della parete di fondo e illuminata
da un’apertura alle spalle. resi i doverosi omaggi alla statua,
tornarono all’aperto proteggendosi gli occhi dalla forte luce
emessa dal disco solare. nella vasta coorte all’ombra dei ba109
La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
stioni erano stati approntati vari fuochi dove, infilzati per metà,
si arrostivano gli agnelli, spandendo nell’aria un appetitoso
profumo. Mentre furono invitati a sedersi a una grande tavolata,
videro uscire da uno dei nuraghi minori dayme, la moglie di
Ithor, accompagnata dalla figlia Gitimel.
avanzavano lentamente con al seguito le serve, con il
capo coperto da un cappello di paglia intrecciata a tesa larga.
Nel loro fiero incedere colpiva la quasi totale immobilità dei
copricapo utilizzati per riparare la pelle dal sole sulla testa già
coperta da un velo di lino. La figlia aveva lunghi capelli neri
divisi in quattro ciocche ritorte che le ricadevano sul petto.
Entrambe indossavano due lunghe tuniche sovrapposte: la
superiore di morbida lana color ruggine e quella sottostante in
fine lino, più lunga e con una balza plissettata. Solo la madre
portava sulle spalle un ampio mantello orbace color ruggine,
con scollo e bordo superiore impreziositi da nappe di fili di
lana color blu. Quando furono vicine al tavolo, ampsicora
andò a salutarle.
– è sempre un onore averti ospite fra noi – disse quasi
sussurrando dayme. – Ma come mai iosto non è con te?
Scortandola fino al fianco del marito, Ampsicora spiegò che
il giovane era rimasto a cornus, per tenere il comando al suo
posto e preparare le truppe allo scontro con i romani. al sentire
tali notizie la figlia Gitimel aggrottò le ciglia diventando scura
in viso. Fin da piccola nutriva dei sentimenti d’affetto verso
iosto, e ogni occasione era buona per poterlo rincontrare. La
madre sapeva bene tutto ciò e la sua domanda non era quindi
del tutto priva di interesse.
Quella sera vennero accesi molti falò nel villaggio e intorno
vi si fecero riti propiziatori e l’eco dei canti e dei balli, che
giungeva fino alla capanna dove era alloggiato Ampsicora, gli
rendeva difficile riposare. Passò la notte quasi insonne.
L’indomani, asheri non vedendolo andò a cercarlo e lo
trovò profondamente assopito. Lo svegliò e gli disse: – il giorno
più lungo dell’anno è giunto e ithor ci invita a raggiungerlo al
pozzo sacro.
Quest’ultimo si trovava a circa due miglia dal villaggio e
ampsicora, con il suo seguito, prese i cavalli per raggiungere
il sito. Lungo il tragitto incontrarono colonne di pellegrini
che si recavano alla fonte sacra. Lenti buoi trascinavano carri
stracolmi di persone inseguiti dai ragazzini che cercavano di
salirvi alla ricerca di un posticino, calessi trainati da focosi
cavalli cercavano dei varchi tra la folla. Molti portavano con
sé degli exvoto per la divinità delle acque, in genere stoviglie
di vario tipo come piatti o vasi che contenevano miele, latte,
olio, miscele aromatiche e infusi vari.
La festa del solstizio era sentita molto fra la popolazione,
incantata dal fenomeno del sole che, per alcuni giorni, sorge e
tramonta sempre nella stessa posizione.
Arrivavano dalle località più disparate dell’interno e molti
di loro furono raggiunti ancora in viaggio dalla notizia, rimbalzata di bocca in bocca, della levata alle armi contro i romani.
nei vari capannelli che si formavano lungo il tragitto non si
parlava d’altro e anche intorno al santuario era diventato l’argomento principale. i cornuensi giunsero al tempio a pozzo
mentre la sacerdotessa officiava uno dei tanti riti previsti per la
giornata. Ella indugiava sul vestibolo affiancata da due ancelle
che tenevano in mano piatti con focacce e ciambelle, dando
l’impressione di aspettare un’ispirazione divina per dare il via.
a un suo cenno, il terzetto iniziò a scendere lo scalone
monumentale che conduceva alla stanza sotterranea dove sgorgava la fonte sacra. tale stanza era sovrastata da una falsa
cupola con al centro un foro che consentiva ai raggi della luna
di raggiungere il fondo del pozzo, quando essa raggiungeva la
sua massima inclinazione rispetto al tempio.
L’orientamento astronomico permetteva inoltre al sole di
attraversare la scalinata d’accesso nel giorno del solstizio estivo,
riflettendosi nella fonte. Mentre scendevano, a un certo punto
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
le tre figure sparirono, decretando così il passaggio dalla luce
alle tenebre.
La costruzione sotterranea era rivolta a rappresentare
simbolicamente l’organo genitale femminile e la gradinata
costituiva la via d’accesso che permetteva l’entrata o l’uscita
dalla dimensione ultraterrena: l’utero della grande madre terra,
caratterizzato dalla presenza del liquido amniotico della vena
sorgiva. La sacerdotessa, proponendosi come mallevadrice
verso le divinità, eseguiva i riti di purificazione nella fonte e
solo dopo averli svolti poteva tornare alla luce a nuova vita.
una volta raggiunto l’esterno, aspergeva gli astanti con l’acqua presa nella fonte e contenuta in ciotole rette dalle ancelle.
solo i pellegrini che si trovavano nelle immediate vicinanze
del tempio potevano avvalersi di tale benedizione, per gli altri
più distanti non raggiunti dall’acqua si imponeva una nuova
partecipazione al rito successivo. tutt’intorno al tempio era
un continuo andirivieni, i pellegrini affollavano la vasta corte
ellittica fatta di porticati e vani rotondi destinati ai commercianti, ai contadini e ai pastori.
Era possibile quindi acquistare e barattare vari alimenti che
andavano a sollazzare i presenti, rendendoli allegri trasmigratori della benemerenza divina. ithor, accompagnato dalla sua
famiglia, invitò i cornuensi a seguirlo all’interno di un ampio
ambiente circolare provvisto tutt’attorno di sedili in pietra. ad
attenderli vi era una folta assemblea di capi locali che, dopo
aver assaporato delle ciambelle di formaggio fresco offerte
dagli amministratori dei beni del tempio, fu ben lieta di ascoltare le parole di ampsicora. in quel luogo, capace di unire in
un’unica lingua e religione i sardi, si sentiva forte il senso di
fratellanza, e al principe non fu difficile esporre quei sentimenti
di indignazione verso gli invasori. L’adesione fu unanime e la
mobilitazione pure. intanto, fuori, le celebrazioni proseguivano
accompagnate da danze, canti e ricchi banchetti, e una volta
terminata l’assemblea gli ospiti furono accompagnati in una
grande capanna di proprietà di un dignitario, affinché potessero
assaporare le bontà locali. Al termine del pasto si spostarono
dalla zona delle abitazioni dei custodi e dei dignitari civili e
religiosi, a un’arena vicina in cui si disputavano delle lotte. Vi
erano quelle a carattere pugilatorio e quelle in cui si cercava di
atterrare prima l’avversario per poi immobilizzarlo. E proprio
in quest’ultima disciplina si volle cimentare baalquim, uno dei
fidi di Ampsicora, dopo avergli chiesto il permesso, contro un
energumeno alto quasi due metri.
– ammiro il tuo spirito d’iniziativa, – gli disse ithor – ma
sei proprio sicuro di voler rischiare di tornare a casa con le
ossa rotte?
– sa il fatto suo… – replicò il capo dei cornuensi – La sua
ambizione ha bisogno di riprove!
La discesa nell’arena di baalquim fu salutata dal pubblico
con una sonora acclamazione. In realtà più diretta al biasimo
verso lo sfidante, che tutti davano già per perdente.
“Mi scherniscano pure” pensava fra sé il cornuense, mentre
si denudava il torace di fronte al colosso che si sfilava una folta
pelle di capra.
– non ti darò neppure il tempo di sudare – lo derideva
quest’ultimo, iniziando a girargli attorno. alto appena i due terzi
dell’indigeno, lo sfidante gli stava a debita distanza rispettando
la supremazia corporale, ma studiando il punto dove colpirlo
cogliendo un suo attimo di disattenzione. riuscì a sfuggire a un
paio di tentativi portati dall’avversario di stringerlo a tenaglia,
divincolandosi come un’anguilla. il pubblico gli gridava di essere un codardo e di combattere, ma lui, impassibile, continuava
a girare intorno approfittando del suo fisico asciutto ed elastico
a differenza di quella lenta montagna di muscoli.
sapeva bene che se si fosse fatto afferrare l’avrebbe spiaccicato al suolo trasformandolo in una polpetta sanguinolenta,
sordo alle continue sollecitazioni che gli venivano lanciate in
faccia: – Fatti sotto se hai coraggio… non hai fegato… – pren-
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
deva tempo e giocava apertamente sull’impazienza aspettando
un attimo di imprudenza.
Questo arrivò quando il colosso volse il capo verso la
direzione dalla quale provenivano i raggi solari. colpito in
pieno viso dalla luce abbagliante, non ebbe il tempo di capire
a cosa mirasse il balzo improvviso del suo avversario il quale,
lesto, lo agguantò con un braccio al collo e con la forza della
sua spinta riuscì a spostarne il baricentro all’indietro. caddero
pesantemente a terra e nonostante le grandi braccia cercassero
di afferrarlo, baalquim non mollava la presa; anzi, con un colpo
di reni, si proiettò sul torace dell’avversario, con il suo peso
riuscì ad attaccarne al suolo il dorso e quindi a decretare la sua
vittoria. L’apparente presunzione di voler affrontare una forza
ben maggiore di lui si tramutò in un atto di valore e il pubblico
lo sottolineò con un fragoroso applauso.
La mattina successiva altri capi locali erano giunti nel
luogo delle assemblee e di nuovo ampsicora parlò: – in tutte
le case dei miei avi è stato insegnato che si deve obbedienza e
sottomissione alle divinità, verso gli umani dobbiamo esprimere
tolleranza e rispetto. Ma se qualcuno vorrà calpestare questi
principi arrogandosi per presunta supremazia il diritto di negarci
la libertà, ci troverà pronti con le armi in mano! Questa terra ci
appartiene come è già appartenuta ai nostri padri, non vi illudiate
che i romani cerchino di depredare i nostri territori lasciando
indenni i vostri. La loro bramosia è tale che neanche voi potrete
dormire sonni tranquilli. dobbiamo agire ora, e alla svelta, non
c’è neppure il tempo materiale di addestrare e armare al meglio
i vostri giovani. La difesa sarà affidata a qualunque arma con
la quale si abbia un po’ di dimestichezza, possa essere un arco,
una spada o una lancia, a piedi o a cavallo.
L’argomento era fin troppo chiaro per non essere capito,
ma ciò nonostante erano diversi i visi perplessi fra gli intervenuti. E di tali resistenze si fece carico Honori, un anziano capo
che si rivolse all’assemblea in questo modo: – Fare di tutto per
scongiurare un pericolo è cosa saggia e doverosa, l’abbiamo
sempre fatto cercando di tenere saldamente in nostro possesso
i nostri territori. Le incursioni a sorpresa sono state l’arma
che ci ha consentito di attaccare i romani con buon margine di
sicurezza, ma una cosa è la gualdana e ben altra è affrontare
il nemico in campo aperto come ci proponi tu ampsicora. Qui
intorno a noi, ogni anfratto, ogni cespuglio, ogni roccia, tutela la
nostra sicurezza e a loro possiamo ricorrere in caso di pericolo.
tra quegli anziani capi molti non conoscevano direttamente
il cornuense, non l’avevano mai visto in volto, misconoscevano
la sua voce, non avevano mai avuto occasione di avere degli
scambi commerciali con lui e quindi l’idea che si erano fatti
era soprattutto in rapporto a quello che si raccontava in giro.
nonostante ora fosse lì e potessero apprezzare la sua veemenza,
lo spirito indomito che sprizzava dalle sue pupille, la risolutezza
e la sincerità dei suoi discorsi, continuavano a pensare che la
spedizione fosse onorevole, ma le proposte troppo imprudenti
e azzardate. ampsicora, d’altro canto, non s’era illuso che
chiunque lo ascoltasse potesse rimanere folgorato dalle sue
capacità oratorie; tendeva invece a confrontarsi con chi non era
d’accordo con lui cercando di dissiparne i timori, accettando
umilmente qualunque consiglio pratico gli venisse suggerito.
La sua forza risiedeva nella ferma convinzione che l’appoggio
cartaginese sarebbe stato l’elemento cardine nello scontro, che
avrebbe pesato massicciamente sull’esito finale e quindi un’occasione da non perdere.
Ma, improvvisamente e a sorpresa chiese la parola ithor:
– Quest’uomo – disse riferendosi ad ampsicora – non è venuto
tra noi per realizzare i suoi sogni velleitari di potere mascherandoli con ideali liberali, né tantomeno spinto da un’ambizione
spropositata. neppure ci vuol spingere ad azioni impulsive
sfruttando le nostre paure. Egli è semplicemente uno di noi che
ha già toccato con mano la cupidigia romana ponendo davanti
ai nostri occhi la prospettiva comune che ci attende. Perciò,
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
da domani, io sarò al fianco di Ampsicora e lo accompagnerò
da Menor, capo degli iolei, e da orkoco, capo degli ilienses.
Questo discorso fu una gradita sorpresa per ampsicora,
che ringraziò calorosamente il prezioso alleato, dimostratosi
capace di spianare le eventuali sacche di resistenza che si potevano presentare.
Ma un fatto preoccupante accadde quella notte al villaggio
dove gli ospiti approfittavano di un buon sonno ristoratore.
Qualcuno si era introdotto nel recinto dove erano custoditi
i cavalli dei cornuensi e aveva rubato la puledra di adbelzbel.
Fuasheri al mattino s’accorse dell’accaduto e, incredulo, non
riusciva a capacitarsi di un tale gesto.
ciò che lo lasciava perplesso non era il furto in sé, prescindendo dal valore reale del cavallo, quanto lo sfregio verso
i cornuensi e la loro missione.
gli episodi di abigeato non erano infrequenti, per quanto
vi fossero pene molto severe, ma stavolta era stato mandato un
messaggio di dissenso aperto.
ithor non perse tempo e sguinzagliò i migliori uomini
alla ricerca della bestia. Questi rientrarono sul far della sera
trascinando due uomini legati e il cavallo, sano e salvo, che
fortunatamente era stato trovato al pascolo nei terreni degli
imputati, i quali però si proclamavano innocenti. La tradizione
imponeva di sottoporli al rituale dell’ordalia che consisteva nel
presentare al giudizio divino i presunti colpevoli.
i due furono condotti al pozzo sacro innanzi a tutta l’assemblea degli anziani per essere immersi uno per volta nella
fonte sacra. se al temine della prova avessero mostrato un
indebolimento delle loro forze o una perdita della vista, la loro
colpevolezza sarebbe stata palese, in quanto puniti dalla divinità.
Se invece avessero presentato delle buone condizioni fisiche sarebbe stata decretata la loro innocenza. il primo superò indenne
la prova, mentre il secondo, quando uscì dalla scalinata, si mise
la mano sul viso, come se volesse proteggersi dai raggi solari.
barcollava, e quell’andamento, che in un primo tempo
indusse perplessità visto il suo protrarsi, non lasciò dubbi e gli
anziani iniziarono a inveire. Data la gravità del gesto compiuto,
serviva una punizione esemplare e ithor ordinò che fosse condotto via e buttato giù da un’alta rupe nelle vicinanze, tristemente
conosciuta con l’appellativo di “orrido delle ossa bianche”.
– È la fine che merita – disse il capo. – Un simile gesto che
ha gettato discredito sulla nostra ospitalità non meritava altro,
scusateci ancora fratelli della costa!
ampsicora e il suo seguito, dopo aver vissuto dei comprensibili momenti di scoramento, parvero più uniti e risoluti
che mai, forti ormai anche delle promesse di ithor che aveva
garantito l’alleanza nella marcia verso Marcopsissa, territorio
conosciuto per la presenza di abbondanti fonti d’acqua sorgiva
e densamente popolato.
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contemporaneamente a Karales le passerelle delle navi
vibravano al passaggio dei legionari intenti nelle operazioni di
sbarco. Per molti di loro fu un vero sollievo mettere piede a
terra poiché il mare grosso dal quale erano stati accompagnati
per quasi tutti i sei giorni della traversata del tirreno, li aveva
totalmente sconquassati.
tito Manlio fu accolto festosamente da Marco Licinio,
luogotenente del pretore Quinto Muzio scevola.
– Ave Tito, le divinità vi sono state propizie nella traversata?
– abbastanza, abbiamo perso solo qualche cavallo che
s’era imbizzarrito costringendoci a disfarcene, mentre svariati
legionari hanno provato il mal di mare per via di grosse onde.
E il pretore come sta?
– non me ne parlare tito, le febbri continuano a divorarlo, non gli danno tregua e la sera quando s’accentuano spesso
vaneggia. ti aspettava con molta ansia, questa rivolta, in concomitanza del suo malessere, proprio non ci voleva e lo tormenta
non poco. E tu che notizie mi porti dall’urbe?
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
– sinceramente non mi aspettavo questo incarico in sardegna, quando Quinto Fulvio mi ha prospettato l’ipotesi, mi ha
preso alla sprovvista, ma roma come ben sai ha impiegato i
suoi migliori comandanti per cercare di tenere a bada annibale.
costui tergiversa a sud dell’urbe, rosicchiando fette di nostri
alleati e cercando di indebolirci con queste defezioni. Ma non
ha abbastanza uomini e gli mancano le macchine da guerra per
poter sperare di cingere d’assedio roma, nel tentativo di espugnarla. Ha persino stretto un’alleanza con quelle banderuole
dei greci, cercando di farci terra bruciata a est. il senato ha
ritenuto che in questo momento sia di fondamentale importanza
il nostro dominio sulla sardegna, la sua posizione è strategica
nell’attuale contrapposizione a cartagine, e i rifornimenti di
derrate alimentari non possono essere interrotti. Mi sono quindi
messo volentieri, da veterano, al servizio della patria, anche
se non ti nascondo che avrei preferito continuare a godermi le
delizie della campagna romana.
intanto, dalle pentaremi, la XViiia legione era sbarcata e
tito ordinò che venissero equipaggiati anche i fanti di mare, per
un loro utilizzo nell’entroterra. normalmente queste truppe si
trovavano a bordo delle navi romane, al pari dell’equipaggio e
dei rematori. avevano il compito di difendere la nave in occasione di scontri navali e di arrembaggi, e avevano in dotazione
dei pesanti scudi per difendersi in posizione statica da proiettili
di vario tipo provenienti dalle navi nemiche. Per essere utilizzati
sulla terraferma occorreva dotarli di scudi più leggeri, adatti in
un combattimento più dinamico.
in pratica tito Manlio non voleva rinunciare neanche a un
uomo, pur di ottenere la vittoria sui sardi.
acquartierate le truppe nelle caserme della iXa legione di
stanza in sardegna, si fece accompagnare subito dal pretore
scevola. Questi lo stava aspettando in un ambiente pervaso da
una luce fioca, standosene rannicchiato su un letto triclinare
poggiato su gambe in bronzo e arricchito da intarsi d’argento.
si era fatto sistemare dai propri servi un congruo numero di
cuscini affinché gli fosse consentita un’ottimale comodità. Dal
tavolo innanzi a lui, dove stazionava il vasellame per i cibi e le
bevande, acciuffava di tanto in tanto un grappolo d’uva. Quando
entrò tito Manlio, ordinò ai servi che lo stavano sventolando,
di lasciare la stanza, per restare solo in sua compagnia.
– tito, che piacere rivederti, è tanto che non ci si incontrava – gli disse con voce afflitta. – Non sai quanto mi abbia
fatto piacere sapere che avevano affidato proprio a te l’imperium
delle operazioni militari in sardegna. ricordo ancora quella
campagna che combattemmo assieme dieci anni fa contro i boi,
nei pressi del Po. c’era anche Quinto Fulvio Flacco a cercare di contrastare quella dannata tribù celtica che si alleò poi,
complicando ulteriormente le cose, con quella degli insubri.
Mi sembra ieri quando riuscimmo a sconfiggerli nei pressi di
talamone, costringendoli a ripiegare e chiedere aiuto ai galli.
Mi rode ancora il fegato al pensiero di come fummo costretti
a fermarci per le avverse condizioni meteorologiche e al successivo diffondersi di un’epidemia tra i legionari. Quello che
ci combinò il senato l’anno successivo fu uno scippo in piena
regola, dando il comando al console caio Flaminio nepote che
riuscì a sconfiggere i Galli sull’Oglio, quando oramai noi gli
avevamo fiaccato le forze!
– non ti fare il sangue amaro, Quinto Muzio, abbiamo
ancora davanti a noi delle possibilità per dimostrare il nostro
valore – gli rispose tito Manlio abbracciandolo.
– Parla per te, nobile amico, purtroppo non potrò essere
dei vostri quando piomberete addosso a quei ribelli. E giove
sa quanto ci terrei a impartire una sonora lezione a coloro che
hanno osato schierarsi apertamente contro roma. Mi hanno
riferito che stanno ammassando truppe alla periferia di cornus,
in attesa dei rinforzi chiesti a cartagine, e altri uomini reclutati
nell’interno dell’isola. costui, di nome ampsicora, è il principe
di cornus e capeggia la rivolta. Ha avuto l’impudenza di sbef-
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
feggiare i nostri ambasciatori che gli proponevano un’alleanza,
e ha preferito inviare il figlio Iosto a Cartagine per chiedere
aiuto al senato di quella città. Vari centri si sono uniti a lui,
come tharros e othoca e questa alleanza sarebbe ormai pronta
a marciare verso di noi.
– Le nostre legioni – gli rispose tito alzandosi dal banchetto
in cui si trovava e cominciando a passeggiare nella stanza – chiedono solo che la vittoria sia decisa onorevolmente con la prova
delle armi! Finora non ci siamo mai trovati innanzi un esercito
che in terra sarda ci abbia affrontato in campo aperto, non chiedo di meglio. chi è a capo delle truppe a cornus attualmente?
– il giovane iosto, appena ventenne – gli rispose il pretore
alternando colpi di tosse alle parole.
– tu, tito, conosci bene il territorio e le sessanta miglia
che ci separano dal covo degli insorti puoi coprirle facilmente
in quattro o cinque giorni. considerato che non conosciamo l’esatta consistenza dei rinforzi che stanno arrivando da cartagine,
converrà sfruttare la superiorità numerica del nostro esercito
per attaccarli subito e sbarazzarcene alla svelta per riportare
quanto prima la tua legione a roma. abbiamo saputo da fonti
certe che Ampsicora starà fuori dalla sua città almeno altri dieci
giorni. Quale miglior premio per la sua defezione che trovarla
al suo ritorno messa a ferro e fuoco?
– Parole sagge le tue Quinto, non vi è un attimo di tempo
da perdere, darò disposizione di recuperare le vettovaglie necessarie e, appena pronti, marceremo su cornus!
stato della giovane donna. incaricò quindi un suo attendente di
informarsi con discrezione se si fosse maritata o meno.
Dopo un paio d’ore il condottiero era già di ritorno, e
riferì che actilia aveva sposato un facoltoso mercante molto
più grande di lei. La giovane non andava certo per le spicce
quando si parlava di lusso e comodità. Il possidente la mise a
dimora in una sontuosa villa sul mare a nora con uno stuolo
di ancelle tutte a sua disposizione. a Karales, in occasione di
festeggiamenti di vario tipo, era sempre la più corteggiata.
godeva nell’essere adulata e per contro tollerava che il marito
frequentasse i postriboli di lusso della città.
Era un vizietto che il consorte aveva sempre avuto, ma
fin qui niente di grave, in quanto per molte mogli romane non
era affatto disdicevole che il proprio marito si accompagnasse
a delle donne di facili costumi; anzi addirittura alcune sue amiche matrone si preoccupavano in prima persona di trovare le
concubine per i loro consorti.
il fatto è che talvolta il vizio non va a braccetto con la borsa. Mentre il prezzo per una cameriera-meretrice in una delle
osterie di Karales poteva arrivare ai due sesterzi, si saliva a dieci
nelle piazze più frequentate, mentre nei lupanari di lusso che
il fedifrago sempronio era solito frequentare si arrivava anche
a cento. E destino volle che sempronio esalasse il suo ultimo
respiro, fulminato da un infarto, proprio fra le braccia di una
cortigiana. Questa, venne a sapere successivamente actilia,
aveva dilapidato completamente gli averi di sempronio. con
una tale sconvolgente notizia e con i segni sul viso e sul corpo
dell’involuzione senile, si apprestò ad affrontare la vedovanza.
a corto di fantasia, per gestire il fatto d’essere caduta in disgrazia, si mise a gestire una casa d’appuntamenti.
nonostante tutte queste notizie avessero fatto trasecolare
tito, l’uomo decise ugualmente di rivederla. Quello stesso
pomeriggio si recò in gran segreto nel postribolo, dove declinò
cortesemente le offerte che, in maniera abbastanza esplicita,
il tempo, passando fra le strade di Karales, sembrava
essersi fermato e le stagioni trascorse dall’ultimo soggiorno di
tito sembravano aver avuto la durata d’un solo giorno. Quei
luoghi, quegli odori, la stessa caserma che l’aveva accolto
l’ultima volta avevano improvvisamente fatto riemergere dai
confusi ricordi la passione sopita per actilia. in viaggio, più
volte, non aveva potuto fare a meno di chiedersi cosa ne fosse
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alcune meretrici dal seno scoperto gli avevano offerto; ma lui
chiedeva solo di actilia.
quindi davanti a te, puoi insultarmi, mi puoi ferire, ma accetta
il buon cuore d’essere venuto a omaggiarti.
Lei lo guardava con sospetto, con i suoi larghi occhi sul
viso tondo. Portava i capelli biondo cenere raccolti a nodo sopra
il capo, trattenuti da uno spillone fermacapelli in avorio, con le
orecchie scoperte arricchite da orecchini dal pendente a sfera
d’oro. Era ancora molto bella, con quei suoi gesti indolenti che
mandavano in estasi tito Manlio. Questi doveva essere abile nel
cercare di tenere viva la sua attenzione magari con un discorso
capace di persuaderla del fatto che si ritenesse fortunato a essere
tollerato, il tutto in maniera spontanea senza prevenzioni né
tantomeno ostinazioni. La sua aria di autorità l’aveva sempre
affascinata, ma ora più che mai non doveva utilizzare termini
o parole che fossero più grandi dei fatti.
urtare i suoi sentimenti in questa fase, o peggio controbattere a frasi di poco peso, significava darsi per sconfitti sin
dalle prime battute. La fiducia che gli stava accordando era un
bene prezioso che necessitava di grande prudenza e riserbo.
Decise quindi di parlare a cuore aperto, senza mezze verità che
imbarazzano chi le fa e non accontentano chi le riceve.
Ma, ancor prima che riuscisse a proferir parola, lei lo
anticipò chiedendogli: – sei qui per un’altra missione?
– sì, mi è stato ordinato di sedare la rivolta che divampa
nei territori di cornus! Quando tornai a roma la scorsa volta,
dopo aver raggiunto la vittoria, la gente mi acclamava per le
strade e le celebrazioni del trionfo assorbivano apparentemente
la mia mente, avevo raggiunto il mio scopo. Ma in mezzo a
quel clamore, provavo netta una condizione di vuoto interiore,
e il divincolarsi del mio cuore che chiedeva d’essere ascoltato.
Feci finta di niente, cercando di piegare la passione che provavo
per te con la ragione, prodigandomi nell’ostentare una grande
forza d’animo.
tali argomentazioni parevano mettere sempre più a suo
agio actilia, che si gingillava con un dito un ricciolino di
Lo accompagnarono in una stanza in cui era mollemente
sdraiata su un divano. alle pareti della stanza i dipinti osceni
illuminati dalle lucerne parevano prender vita, mossi dall’intensità variabile delle fiammelle. Non appena la sagoma del condottiero comparve sulla soglia, ella disse: – cosa vai cercando
da un incontro con me straniero? non vi è alcuna cifra che mi
possa comprare. non sono mai stata in vendita e non lo sarò
neanche in futuro!
– non vengo a proporti un comune mercimonio delle mie
virtù, né a saggiare le tue. Ho chiesto un colloquio con te per
il semplice bisogno di parlarti! – rispose lui.
actilia ascoltava e osservava il corpo dell’ospite senza
mai incrociare i suoi occhi, quel tono di voce le era familiare,
ma non riusciva a inquadrarlo perfettamente nei ricordi. d’un
tratto realizzò chi le stava innanzi. E, come una ragazzina colta
a rubare la marmellata in segreto, gli si rivolse con un tono di
sufficienza e di astio mal celato: – Sei forse stato mandato per
commutare una pena per il mio operato, o sei venuto spontaneamente? nel caso si tratti di quest’ultima ipotesi voglio
ricordarti che in un ruscello l’acqua che vi scorre non ha la
possibilità di passarvi una seconda volta! – pronunciando tali
parole lo fissava dritto nelle pupille! Ella aveva passato intere
notti insonni, nella vana ricerca di rimuovere dalla sua mente i
tratti del suo amante. E quando il tempo pareva essere riuscito
a stemperare quel desiderio distruttivo, ecco riemergere dalle
nebbie del passato proprio lui. il quale, prendendo l’iniziativa
di andare a sedersi su un banchetto rotondo dirimpetto a lei
dopo essersi spostato il mantello sulle spalle, replicò: – non
vi sono argini che possano tenere l’impeto di un cuore; e noi
umani, essendo dotati della capacità di movimento, possiamo
fungere da veicolo per cercare di seguire i suoi moti. Eccomi
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
capelli. In verità, tale dialogo aveva destato grande interesse
in un’altra persona che origliava di soppiatto dietro l’uscio.
ashera, una delle meretrici della casa, non si era persa una
battuta, ed essendo venuta a conoscenza dell’importante presenza del comandante romano, sgattaiolò all’esterno, eludendo
la sorveglianza di due soldati che stavano fuori di guardia. Le
premeva arrivare in tempi rapidi nei vicoli malfamati della
marina, paragonabili senza rischio di smentite alla suburra
romana, dove conosceva il padrone della più grande mescita
del quartiere. Melhut era punico e non aveva mai sopportato la
presenza romana in Sardegna; si teneva in contatto con la fitta
rete della resistenza e con tutta una serie di tagliagole che erano
del suo stesso orientamento.
Arrivata con il fiatone e il cuore in gola, Ashera si infilò
dietro il banco per informare Melhut della ghiotta notizia.
il comandante in campo delle truppe romane in una casa
d’appuntamenti con appena due soldati di scorta! non riusciva
a credere alle sue orecchie, non c’era un attimo di tempo da
perdere. Si ficcò in bocca due dita emettendo un acuto fischio
che riuscì a oltrepassare l’intero salone colmo di una variegata
ciurmaglia, arrivando alle orecchie di due brutti ceffi seduti a
tracannare vino e giocare con i dadi. I due uomini, udito il fischio, si alzarono di scatto, e terminarono di ingurgitare rapidamente il vino abboccato dei loro bicchieri per dirigersi a grandi
passi verso il vinattiere. nel far questo travolsero alcuni dei
presenti che ebbero la sfortuna di muoversi nel momento sbagliato sulla loro traiettoria. del tutto incuranti dei danni inferti
ai malcapitati, che si guardarono bene dal protestare, giunsero
anch’essi dietro il banco. Poche battute veloci per informarli,
ed eccoli già in strada pronti a seguire Ashera.
torto subito. si gustava invece l’umiliazione di cui s’ammantava
quell’uomo che aveva meritato gloria ed elogi, e ora metteva
a nudo le sue debolezze. Quella condotta apparentemente ridicola riusciva a intrigarla poiché aveva radici assai solide, ed
emergeva pian piano, più soave di mille carezze.
ascoltava in un silenzio eloquente e del quale aveva bisogno per approvare o condannare, con una fissità ipnotica nella
quale sprofondano varie specie di rettili.
cosa sia stato di preciso, se quella faccia sorpresa di actilia nel vedere entrare i sicari o l’improvviso cambiare d’intensità della luce prodotta dai lumi al passaggio di questi, con
precisione non lo si saprà mai. Ciò che di certo accadde è che
tito Manlio si scansò d’istinto dalla parte opposta dalla quale
proveniva un fendente.
L’aggressore, quasi certo di andare a segno, si sbilanciò
troppo in avanti, diventando facile bersaglio del romano che
gli fracassò sul capo una brocca d’acqua e andò a cadere ai
suoi piedi. E, prima di poter estrarre la sua daga, l’altro gli
fu addosso riuscendo a ferirlo con un pugnale all’avambraccio
sinistro. Ne seguì una colluttazione in cui finirono entrambi
avvinghiati rovinosamente a terra.
actilia seguiva impietrita lo svolgersi dei fatti rannicchiata
in un angolo della stanza, non riuscendo a capacitarsi di quanto
stesse accadendo.
dopo essere riuscito a divincolarsi dall’avversario, tito
estrasse la daga e la affondò con tanta foga nel torace del punico che emerse fra le sue scapole, lasciandolo inerte come un
manichino appeso a quella lama. il romano si diresse poi verso
actilia per appurare le sue condizioni ma mentre questa si levava
dall’angolo in cui si era rifugiata, si trovò sulla traiettoria del
pugnale che l’altro sicario aveva lanciato dopo essersi ripreso.
tito afferrò una panca, la scagliò su quest’ultimo che,
come ultima immagine, se la vide arrivare in pieno viso. Messi
fuori combattimento gli aggressori, tito si rivolse nuovamente
intanto actilia ascoltava i toni di quei sentimenti, allontanando da sé il timore che lui l’avesse potuta giudicare per
averla trovata in quel luogo o si volesse ripagare per qualche
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
verso actilia, restando però inorridito nel vedere la sua candida
veste inzuppata di sangue. Mentre la teneva sollevata sulle sue
braccia, la sventurata ebbe appena il tempo di sussurrare: –
noi… – ma non riuscì a terminare la frase.
i soldati di guardia arrivarono richiamati dagli schiamazzi
e seguiti dalle meretrici e da ashera, ma non poterono far altro
che restare attoniti davanti a quella scena straziante.
tito stringeva a sé quel corpo dinoccolato con il viso addolcito nei suoi lineamenti, gemendo e gridando: – Potenze del
cielo, perché?
ashera dalla disperazione prese a strapparsi i capelli.
Quella donna era diventata per loro come una seconda madre
e ora non rimaneva che prendersi cura, per l’ultima volta, di
quel corpo senza vita.
dove aveva sbagliato il comandante romano? Forse nell’aver dato retta a un ardore esagerato, tale da averlo spinto a
un’imprudenza, oppure nell’aver trascurato l’usanza romana
di porgere i dovuti onori alle divinità locali, implorando i loro
favori? o ancora, l’aver scelto male i soldati della scorta, riponendo la fiducia nelle persone sbagliate?
di fatto i tre andarono via quasi in punta di piedi a occhi
bassi come bambini colpevoli di aver commesso chissà quale
disdicevole danno.
bianca per qualunque operazione. tale gesto si dimostrò, oltre
che particolarmente gradito da parte dei senatori, anche foriero
di sagge decisioni. dominare l’emozione era la prima impresa
che Iosto dovette superare. Con modestia e cordialità iniziò a
chiedere il parere dei saggi presenti sul da farsi. Qualcuno consigliò di asserragliarsi al riparo delle potenti mura di cornus,
vista l’esiguità delle truppe rispetto alla superiorità numerica
dei romani, e aspettare i rinforzi di ampsicora e dei cartaginesi.
Poi, prese la parola ozbaal, il senatore più anziano: –
ascoltatemi, avete forse idea di quanto potremmo resistere
all’assedio romano? una volta chiusi in trappola, abbiamo la
certezza di resistere fino all’arrivo dei rinforzi? Questi potrebbero arrivare quando i romani avranno già fiaccato le nostre forze
e ridotto la città a un cumulo di rovine fumanti. Pensateci bene!
altri intervennero esprimendo pareri diversi, ma riprese
presto la parola ozbaal sempre più accigliato: – osservate cosa
accade in natura quando un predatore minaccia la tana di varie
specie animali: vi risulta forse che questi lo lascino avventare
su di essi intenti a far da scudo alle loro creature? o saggiamente lo attirano lontano mostrandosi deboli, distogliendo la sua
attenzione? Mi pare chiaro che si debba seguire quest’ultimo
esempio, non lasciando avvicinare i romani alla nostra città.
E siccome non disponiamo di forze sufficienti per fermarli in
campo aperto, li dobbiamo attirare in un luogo dove si possa
fronteggiarli prendendo tempo! Vedo, seduto davanti a me, sullo
scranno del padre, quel giovanotto che è riuscito a infiammare
i cuori dei nostri guerrieri con il suo esempio e la sua sagacia.
Sarà quindi lui, con il favore degli dei, a guidare le operazioni
militari volte ad attirare i romani nella gola di Pischinnappiu,
con l’intento di fermarli il più possibile!
iosto con voce ferma disse: – Mentre oggi venivo qui al
senato ho visto per le strade di cornus la gente nelle botteghe
e sull’uscio delle proprie case salutarmi. Farò tesoro di quei
visi fiduciosi nei miei confronti!
Intanto Iosto affinava la sua efficienza in campo affiancato
dai suoi amici, figli delle note famiglie preminenti, e dagli ufficiali di stanza. Quando arrivò la notizia, per bocca degli informatori, che i romani erano sbarcati a Karales e che si stavano
accingendo ad attraversare la piana del campidano per cercare
di espugnare cornus, una palpabile angoscia si diffuse fra le
popolazioni di quella zona. E fu proprio allora che iosto dovette
ricorrere alle sue più profonde qualità di spirito e armarsi di
ardimento e iniziativa. Per prima cosa convocò il senato dato
che il padre, in quel momento assente, gli aveva dato carta
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
Venne interrotto da un clamore assordante, che inondò
l’aula, prodotto da coloro che si erano messi ad applaudire
Iosto. Quando anche il vociare diminuì d’intensità, intervenne
nuovamente Ozbaal per sottolineare la necessità di depistare
gli informatori romani sul luogo esatto dove tener battaglia,
facendo credere loro di doverli affrontare in campo aperto senza
retrocedere tatticamente sul vallo difensivo di Pischinnappiu.
i ventagli che i servi gli muovevano sopra il capo. Manlio capì
l’antifona e preferì non insistere, si concentrò quindi nel degustare le prelibatezze servite da giovani schiavi di bella presenza
con corte tuniche dai colori sgargianti.
– Vedi, – gli disse il padrone di casa – se i punici si fossero occupati di commercio o di aromatizzare i vini, come
egregiamente ci hanno insegnato a fare con l’uva passa, non
ci troveremmo nella condizione di dovergli fare la guerra. Ma
ahimè insistono nel loro progetto di contenderci i territori e tu,
caro tito, dovrai rinunciare a pasti come questo e ammantarti
di frugalità.
rise il condottiero e poi risero assieme.
– Hanno rifiutato un’alleanza, che altro aggiungere… I miei
legionari, dal veterano al più giovane, sono pronti a sacrificarsi
per la patria vista la gravità del momento.
L’arrivo di una portata con mammelle di scrofa ripiene di
ricci di mare salati interruppe la conversazione.
L’iniziale pallore del pretore veniva stemperato dal vino
che gli arrossava le guance e proseguì: – dimmi in anticipo se
dovrò essere processato per aver fatto arricchire il fenicottero
lesso che stai per mangiare con datteri di cartagine! – risero
d’allegria schietta, continuando per tutto il resto della cena a
raccontare storie della loro giovinezza.
due giorni dopo l’esercito si lasciava alle spalle Karales,
guidato da tito Manlio, pronto ad attraversare la pianura del
campidano, territorio abitato dalle popolazioni mantenutesi fedeli a roma. nonostante quest’ultimo particolare, tito,
coadiuvato dal suo vice Publio Quintilio Pulcro, diede molta
importanza alla disposizione delle truppe in marcia. alla testa
della colonna avevano disposto un’avanguardia costituita da
ausiliari e dalla cavalleria, capaci di esplorare il terreno e di
poter ripiegare velocemente in caso di pericolo. Le salmerie e
le vettovaglie si trovavano al centro ben protette, rappresentando il punto nevralgico di un esercito in marcia. Potevano
tito Manlio intanto pregava a Karales nel tempio dedicato
al sardus Pater, pensando nel contempo alla sorte occorsa ad
actilia.
– dio sardo misericordioso, che hai preferito prendere la
vita di actilia, lasciandomi nella condizione di poter porgere ai
tuoi piedi quella che è la mia ambizione e il mio orgoglio, io ti
ringrazio! Hai voluto che le mie ossa non divenissero polvere
da mischiare alla terra, permettendomi di interpretare questa
clemenza come il segno che potrebbe esser questo il momento
giusto per affrontare i nostri nemici, prima che possano portare
le forze al massimo della loro potenza. i nostri ambasciatori gli
hanno parlato come ora io sto facendo con voi. con pacatezza
e mitezza, senza arroganza, gli abbiamo chiesto di unirsi a noi
in una solida alleanza, senza minacciarli di distruggere le loro
case e ridurre in schiavitù le loro famiglie. Le offerte che vi
presento possano essere il viatico verso la vostra benevolenza
e, a rischio di sembrarvi immodesto, vi chiedo di non farmi
mancare il vostro aiuto!
a cena, dal pretore scevola, tito cercava di esporre i punti
salienti da attuare prima della partenza. Ma la distanza che
separava il triclinare del pretore da quello dove stava lui era
quella interposta fra un uomo sano, pieno di grinta e uno stanco
e malato: un abisso! sulla terrazza posta a mezzogiorno sotto le
tende bianche di fronte all’incantevole golfo di Karales, scevola
l’ascoltava appena, annuiva per inerzia, quasi all’unisono con
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
rappresentare infatti l’obiettivo principale di eventuali nemici, e
una loro perdita avrebbe gettato nel caos la colonna, in quanto
i soldati, vedendosi privare degli alimenti, avrebbero abbandonato i ranghi per cercare di riprenderli.
Infine, la retroguardia fu affidata ai fanti di mare.
fossato rinforzato da un bastione posizionando la sua tenda in un
luogo dal quale potesse dominare l’intera area. Publio Quintilio
s’affannava e sbraitava come un forsennato affinché fossero
piantate vicino alla tenda del suo duce le tende degli ausiliari.
Poco distanti, dovevano trovare una sistemazione quelle degli
ufficiali più alti di grado. Pareva d’essere in un grande alveare,
dove le cure principali venivano dirette verso l’ape regina. i
legionari alloggiavano in prossimità dei propri ufficiali, lasciando un sufficiente margine dalle fortificazioni periferiche,
affinché fossero lontani dalle armi nemiche. Tito, nel disporre
l’accampamento, non si discostava nemmeno di una virgola dal
comportamento degli altri comandanti romani, predisponendolo
secondo le leggi della cosiddetta scienza augurale.
il castro aveva forma quadrata o rettangolare e aveva due
grandi strade principali: la praetoria e la principalis, che si intersecavano al centro. con somma soddisfazione, tutte le sere
il comandante romano vedeva costruire velocemente il campo.
Egli non rifuggiva né la fatica, né il lavoro, si muoveva in
continuazione da un’ala all’altra dell’insediamento seguendo le
varie fasi della costruzione, scendendo da cavallo qualora fosse
stato necessario un apporto nelle operazioni. gareggiava in
semplicità e tenacia con i soldati per i quali non vi era nulla di
più consolatorio che vedere il proprio generale condividere le
fatiche. si andava così conquistando sempre di più la loro stima
e dedizione. sapeva bene che la sua presenza attiva costituiva
un potentissimo incentivo per i subordinati, che amavano essere
vezzeggiati come da piccoli esultavano sulle ginocchia dei padri.
avevano percorso poche leghe, quando i soldati incolonnati
videro il loro comandante scartare da solo di lato e scendere dal
suo destriero. Publio Quintilio si aspettava quel gesto, che non
era dettato da alcun bisogno fisiologico, bensì da un’esigenza
interiore. individuato un cespuglio di cisto, cercò un rametto
che potesse servire per il suo scopo e lo recise. Quindi tornò
indietro sui suoi passi e, prima di rimontare in sella, sfregò
energicamente fra le dita le foglie. L’essenza profumata che ne
derivò fu catturata dalle avide coane nasali del condottiero, in
un’inspirazione che ai più parve interminabile.
Visibilmente appagato da ciò si rimise in sella gridando:
– Vittoria ai nostri vessilli!
un fremito roboante percorse l’intera schiera dei militi
romani, galvanizzati dal loro comandante. tito, nonostante
l’esercito si apprestasse ad attraversare un territorio amico in
cui sarebbe stato facile fare rifornimenti, ordinò che le scorte
di vettovaglie fossero sufficienti a nutrire le legioni, in piena
autonomia dal territorio. non poteva permettersi defezioni su
una marcia che aveva voluto a tappe forzate, e a tal proposito
ogni soldato portava a spalla sia il bagaglio personale che le
razioni di cibo necessarie per tre giorni. inoltre ciascuno di essi
aveva raggiunto un ottimo livello di automatismo tale da permettergli, a fine giornata, di piantare il campo. Ognuno di loro
conosceva a menadito quale fosse il suo compito in quello che
doveva tramutarsi in un luogo sicuro per trascorrervi la notte.
con grande puntiglio il comandante aveva redarguito i tribuni
militari affinché la castrametazione seguisse delle ferree regole
di sicurezza. tutt’attorno all’accampamento faceva scavare un
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La battaglia di Cornus
Vi
narna s’era recata alla caletta dell’arco per prendere delle patelle e, fra uno scoglio e l’altro, guardava la sua sagoma in quei
piccoli specchi d’acqua calma. Faceva scorrere il suo sguardo
sui suoi fianchi, riflessi fra mille luccichii argentei, fermandosi
sul suo bel ventre. si sedette su uno scoglio e iniziò ad accarezzarlo con infinita tenerezza pensando fra sé: “È qui dentro!”.
Era ormai di cinque mesi e aveva smesso di vomitare da
un pezzo. non aveva voluto ancora dirlo ai suoi genitori, ma
soprattutto non era ancora riuscita a parlare con iosto. “non
voglio odiarlo, lui è così preso dal cercare di difendere la nostra
libertà. Già,” sogghignò la ragazza “in cosa può aiutarmi il fatto
di essere liberi? La mia libertà consisteva nel rifiutarlo, senza
neppure salutarlo alla partenza! E poi la sorpresa, dopo pochi
giorni gli episodi di vomito, il ritardo di quelle cose lì e quindi
la certezza che non stavo più sola in questo corpo. Mi sono
sentita come una bestia azzoppata, d’un colpo perdevo la mia
autonomia e, ciò che è peggio, lo immagino sempre davanti a
me. Quest’idea mi faceva schiumare di rabbia, tanto più che lui
si trovava completamente fuori da tali tormenti. oratanda, sì,
oratanda sarebbe potuta essere la soluzione ai miei problemi.
recandomi da lei, mi sarei sbarazzata dell’ingombrante presenza. Inizialmente, non mi disgustava affatto l’idea di affidarmi
alle sue erbe caritatevoli, mi pareva anzi la giusta soluzione.
Ma il tempo passava e non riuscivo a decidermi. Mi sembrava
di aver cambiato l’odore della pelle e che quel languore interno
avrebbe potuto cambiare tutti i miei umori. Ma una sera vidi
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Pietro Scanu
dei cacciatori rientrare con delle grosse prede. una di queste
era una scrofa di cinghiale gravida. Quando l’appesero per
scuoiarla, vidi emergere dal suo ventre tre piccoli feti, così
ben formati da dover lasciare presagire che sarebbero dovuti
nascere di lì a poco. in quell’occasione mi sono detta: «non
sono una bestia», per quanto una vocina interna continuasse a
tediarmi dicendomi: «Lo facciamo andare via? no!». Mi dissi
fermamente, la mia libertà mi consente di tenerlo, lo voglio.
Non permetterò a nessuno di strapparmi quella che fino a prova
contraria è la mia creatura. improvvisamente quel disgusto che
mi tenevo appallottolato dietro la lingua, cominciò a svanire
come pure le nausee e i vomiti.”
immersa in tali pensieri, si chinò a prendere un po’ d’acqua
di mare, rinfrescandosi il viso e la nuca. La giornata s’andava
riscaldando e narna, coprendosi il capo con un telo bianco,
decise di rincasare.
nel campo vicino a cornus, dove si preparavano le truppe, continuavano ad arrivare drappelli di uomini dal territorio
e iosto ci teneva a dargli il benvenuto. s’intratteneva con loro
facendo volutamente cadere il discorso sull’equipaggiamento
che questi esibivano, in particolare sulle armi. sapeva infatti
quanto ne andassero orgogliosi!
– Queste corna di capra femmina che porto sull’elmo sono
appartenute a mio nonno – gli disse un aconites. un numirisiano gli mostrò invece con ardore lo scudo di legno rivestito
di pelle con al centro un umbrone appuntito di bronzo. dalla
parte interna dello scudo trovavano alloggio quattro piccole
spade in bronzo da utilizzare come scorta e soprattutto come
armi da lancio: erano stati forgiati dallo zio. E tanti, tanti altri
a vantare le capacità costruttive oltre che di se stessi, di nonni,
zii, padri e madri. Era dalle loro sapienti mani che avevano
preso forma gli elmi crestati in cuoio, arricchiti da paragole
e corna di varia provenienza, alcune lunghissime di antilopi
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
africane. gli schinieri di bronzo con fermi laterali in cuoio, e
ancora corpetti corazzati in cuoio a doppio spessore, lavorati
a strisce verticali con cuciture di rinforzo. talvolta sormontati
da ampi spallacci di cuoio rettangolari. iosto, in questo modo,
oltre che entrare in piena sintonia con loro, conosceva tutto un
mondo che fino ad allora l’aveva circondato ma sul quale non
si era mai soffermato.
Un mondo arcaico fatto di sapienze e manualità che si dispiegava ai suoi piedi, e andava ad arricchire il suo bagaglio di
conoscenze. Quando mai un guerriero uddadharitano gli avrebbe
svelato i segreti di costruzione del suo splendido arco di orniello
a sezione piatta con cordino in tendine d’animale? Mai.
ora, magicamente, queste barriere cadevano e il senso di
fratellanza poneva tutto in comune. Veniva omaggiato inoltre
con varie armi, come spade in bronzo con lama a foglia e costolatura centrale, oppure pugnali in bronzo a elsa gammata. ciò
che lo fece trasecolare fu l’omaggio di un guerriero diaghesbeo.
ne aveva sempre sentito parlare ma non aveva mai visto innanzi
a sé un bastone da lancio di quelle popolazioni. si narrava infatti delle capacità sorprendenti di quei bastoni angolati che, se
lanciati dalle loro abili mani, riuscivano a compiere un’orbita
parabolica andando a colpire bersagli posti a notevole distanza.
Quando prese in mano quel bastone in castagno, una profusa sudorazione gli bagnò il viso. Era il segno palese del suo
stato interiore, la scarica di adrenalina che gli aveva procurato
l’afferrare quell’oggetto che rappresentava un mito. tale arma,
l’amat, veniva usata anche in Egitto da truppe scelte dei faraoni
e ciò conferiva a tale oggetto un ulteriore valore aggiunto.
iosto avrebbe voluto asciugarsi la fronte dal sudore, ma non
osò farlo; finì invece per esprimersi un po’ goffamente rivolgendosi al diaghesbeo: – sei molto gentile a farmi un simile dono
ma mi servirebbe una vita intera per imparare a maneggiarlo!
L’altro, gettandogli un’occhiata bonaria, gli rispose: – L’arma consente anche un altro utilizzo oltre a quello di essere lanciata.
– davvero? E quale sarebbe?
– si può utilizzare come mazza da combattimento. grazie
alla sua angolatura permette di aggirare l’eventuale protezione
dell’avversario dando la possibilità di colpirlo dietro lo scudo.
non vi era alcuna presunzione da parte di quel giovane
dalle labbra sottili. riusciva a esprimersi a proprio agio, innanzi a iosto e ai suo i luogotenenti. non rientrava fra i suoi
interessi il volersi accaparrare le grazie di quell’uditorio o il
trovare un’occasione propizia per emergere, ma semplicemente
esprimeva con quello scintillio dei suoi occhi, la profonda gioia
d’essere lì.
E concluse dicendo: – Pensate, può essere anche usato infilandolo tra le gambe dell’avversario, e una volta che si riesce
ad agganciargli l’arto è facile farlo cadere a terra e finirlo!
con la testa inclinata sulla spalla sinistra, iosto ascoltava
quei racconti estasiato godendosi la carezzevole ombra prodotta
da un carrubo. si sentiva appagato e la consapevolezza di essere
al comando di quei guerrieri così diversi gli procurava uno stato
di euforia interiore difficile da descrivere.
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tutti gli uomini validi di cornus erano ormai radunati
in quei campi assieme alle truppe che si erano andate via via
formando con gli aiuti provenienti dai territori limitrofi. Quella posizione difensiva doveva sollevare cornus dall’impatto
distruttivo che i romani stavano per sferrare.
I reggimenti assecondavano ufficiali e subalterni negli
allenamenti quotidiani a cui venivano sottoposti. i romani non
dovevano minimamente sospettare che si stesse escogitando
qualcosa di veramente sorprendente nei loro confronti. nella gola di Pischinnappiu, a monte della pianura in cui si era
radunato l’esercito, si lavorava in gran segreto già da alcune
settimane per sbarrare l’accesso. Lungo i fianchi scoscesi della
gola, squadre di uomini scavavano con picconi per costruire
terrazzamenti e trincee da cui sarebbe stato facile scaricare di
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
tutto sul fondo valle in posizione di massima sicurezza. né
vi era risparmio di alcuna forza nelle squadre che con le asce
preparavano pali aguzzi da infiggere sul fondo di fosse che
venivano mimetizzate in superficie con delle frasche.
Giganteschi macigni vennero fatti ruzzolare fino al bordo
dei dirupi all’imboccatura della gola, pronti a dirompere verso
il basso. come pure enormi cumuli di massi di varia forma e
dimensione vennero convogliati, per essere lanciati come proiettili. camminamenti protetti ponevano in comunicazione varie
postazioni di lancio preparate con dei semicerchi costruiti con
muretti a secco di pietre arenarie.
La gola si estendeva per alcune miglia e non presentandosi
rettilinea ma caratterizzata da frequenti gomiti e strozzature, si
prestava ad essere ben difesa con quegli allestimenti. inoltre, la
strada che era stata costruita sul lato destro del fiume appariva
rialzata rispetto al letto dello stesso di alcuni metri. ora, in
questa stagione il fiume era in magra e nel canale di scorrimento vi si trovava solo una blanda corrente fluviale profonda al
massimo una spanna. Per evitare che tale spazio potesse servire
come ulteriore sito di passaggio delle truppe nemiche, al termine
della gola venne sbarrato il fiume in modo che la diga potesse
far salire il livello delle acque inondando in vari tratti anche la
strada. Quest’ultima, infine, era stata bloccata nel suo sbocco
verso Cornus da grandi tronchi, e a sua difesa diverse file di
pali aguzzi rivolti verso l’interno della gola.
una nuvoletta di polvere si avvicinava rapidamente al
campo, erano due informatori che arrivavano a spron battuto
con le ultime novità. Una volta legati i loro cavalli zuppi di
sudore, furono ricevuti da iosto che venne informato del fatto
che le avanguardie del nemico si trovavano ad appena due
giorni di marcia.
ultimate. – bene, – disse il giovane innanzi ai suoi luogotenenti
– ora sarà di fondamentale importanza far credere ai romani
che li si voglia affrontare in campo aperto. i nostri reparti andranno schierati tenendo al centro arcieri, lancieri, frombolieri
e guerrieri con i bastoni da lancio, come mi è stato suggerito
dall’esperienza degli ufficiali qui presenti. In questo modo
dovremmo cercare di tenere a distanza il grosso dell’esercito
nemico almeno la mattina. Se sarà necessario utilizzeremo anche
la cavalleria, disponendola ai due lati, per creare un diversivo
che dovrà dare il tempo al grosso della nostra fanteria di arretrare utilizzando la copertura offerta dalla macchia della zona,
fino alle postazioni del vallo. Se Baal sarà misericordioso con
noi, una volta asserragliati nelle nostre postazioni, potremmo
sperare di resistere fino all’arrivo di mio padre o dei rinforzi
cartaginesi!
da questo discorso si intuì che oramai le sorti della guerra
erano attaccate saldamente ai fili che le divinità si accingevano
a tirare a loro piacimento.
Fu convocato quindi tutto lo stato maggiore, e in quella
sede iosto seppe che le opere di difesa del vallo erano state ormai
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iosto non vedeva la madre da svariati giorni e decise di
andarla a trovare il mattino seguente. Quanto amari erano stati
quei giorni per Ellissa, dal momento in cui salutò ampsicora e
fu costretta a vedere iosto solo per brevi momenti. Lontana da
chi amava, si recava fugacemente al tempio per offrire sacrifici
alle divinità, soffermandosi il minimo indispensabile con il gran
sacerdote, per poi farsi accompagnare in una delle tenute alla
quale era particolarmente legata, Milia. chioma al vento, sul
calesse iniziava a sentire stemperato quel malumore che l’attanagliava al palazzo su a cornus. i profumi della campagna
estiva la introducevano in un’altra dimensione nella quale ella
si rifugiava. Viali alberati e bordure fiorite erano per lei dolci
percorsi nei quali mitigare le pene del cuore. amava circondarsi
dei pargoli dei fattori, talvolta prendeva in braccio una delle
più piccoline e la coccolava dicendole: – Vieni frutto d’amore!
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
Magari la piccola non aveva tanta confidenza con lei, e
allora arrossiva e scoppiava a piangere. Per consolarla aveva
una sua simpaticissima tecnica: s’avvicinava magari a un glicine
e, afferrati alcuni rametti, la si vedeva intenta a piegarli per
ricavarne una coroncina fiorita. Quindi lesta, s’avvicinava alla
piccina e gliela poggiava sul suo capo. tale gesto riusciva quasi
sempre a incuriosire anche la restante parte della combriccola
che s’industriava a inghirlandarsi con vari tipi di fronde, scatenando l’ilarità delle madri.
nel tardo pomeriggio, quando le ombre iniziavano ad
allungarsi e i bagliori s’attenuavano assieme ai tremolii delle
foglie, era solita recarsi al casolare e, spogliatasi degli abiti
impolverati, s’immergeva con tutta l’indolenza di cui era capace
in una grande tinozza di acqua tiepida.
al termine dell’abluzione si concedeva alle sapienti mani
delle sue ancelle per dei massaggi energici con oli profumati. –
suvvia, – le diceva con tono di dolce rimprovero sannica la più
anziana dello stuolo – non stia sempre a pensare a cose brutte!
Ellissa allora, gettando la testa all’indietro, sorrideva per
poi chiudere gli occhi lasciandosi andare alle carezze. La mattina
che le annunciarono l’imminente arrivo di iosto a Milia, corse
fuori dal casolare scalza, avendo appena il tempo di infilarsi una
tunica sulla sua schiena sottile, arrotolando le maniche alla bene
e meglio e lasciando le sue braccia sottili nude. un brivido di
piacere l’attraversava dalla testa ai piedi. il giovane saltò giù dal
cavallo ed ella lo colse di sorpresa alle spalle abbracciandolo.
– Madre, ruzzoleremo assieme a terra se non mollate la presa.
– sei il mio bambino e sei in buone mani – si sentì
rispondere.
– è da un po’ che le mie piccole chiappe si sono indurite…
– E ti sembra un buon motivo per farti desiderare?
iosto con fare vivo e un po’ brusco si divincolò proiettandosi a sedere su uno steccato vicino.
di colpo cambiò espressione lasciando la madre per un
istante a bocca aperta. abbassò le palpebre e guardando terra
disse con tono serio: – i romani sono a un giorno di marcia da
cornus! avrò dormito sì e no sette ore negli ultimi tre giorni
– e nel sollevare lo sguardo cercò di farle capire che teneva a
lei più di qualunque altra cosa al mondo.
– Era inevitabile figlio mio, prima o poi sarebbe accaduto
e ora dovrai dimostrare di che pasta sei fatto. Quando si cerca
un buon puledro per arrivare primi in una gara si sta attenti che
sprizzi energia e che abbia il fuoco nelle vene. così un popolo
non vuole un mansueto ma si affida a un capo che abbia la
forza e il temperamento per guidarlo alla vittoria. tuo padre
ha queste doti, ma in sua assenza sarai tu a guidare il popolo.
ricordati: buon sangue non mente! – così dicendo gli cinse i
fianchi e abbracciati si avviarono al casolare.
Ellissa fece mettere mano a quanto di meglio conteneva
la dispensa e fece imbandire la mensa nel patio all’aperto. iosto mostrò di apprezzare tutte le cure che la madre gli dava.
L’arrosto di selvaggina fu quello che piacque di più al giovane,
ma non da meno furono i formaggi accompagnati da un ottimo
vino rosso.
L’afa che si accentuava consigliò un meritato riposo all’ombra e al fresco della casa, e così la madre lo accompagnò
nel divano dell’atrio dove riuscì ad appisolarsi un paio d’ore.
svegliato dalla coda di un gatto che cercava di fargli le fusa,
scattò ritto nel tentativo di stiracchiarsi rapidamente ma per
poco non finì a terra. Rinvigorito, cercò subito la madre, che
nel frattempo era andata a sistemarsi sotto un carrubo facendosi
pettinare dalle sue ancelle.
– Madre mia, è venuto il momento che vi lasci.
Ella fece cessare le attività e gli si rivolse languidamente:
– ti ho portato in grembo per nove mesi e quando nascesti il
tuo primo urlo mi riempì di una gioia immensa. da ora, pensai,
dovrà iniziare a combattere in questa vita, conquistandosi un
suo spazio. Ebbene, sempre in quei momenti accusai il colpo
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
del distacco, non eri più in me. Quelle stesse sensazioni mi si
ripropongono in questi istanti. ti diedi il nome di iosto con la
speranza che potessi essere amico di astarte, l’aiuto di un dio
può servire più dell’aiuto di qualunque umano in questa vita.
Che esso t’accompagni in questa assurda guerra figlio mio!
nel dire ciò, le si era ingrossata la vena della fronte e ai lati
degli occhi le rughe apparivano più manifeste. segni ineluttabili
del processo di sfioritura al quale andava incontro.
Prima di lasciarsi andare troppo alla commozione, iosto
preferì tagliar corto con i saluti e si accomiatò dalla madre.
– La giusta paga per la nostra sagacia e la ferma volontà
che nostra madre ci ha saputo trasmettere.
– ti confesso – proseguì attumbal – che varie volte sono
stato tentato di lasciare, ma il tuo fervore mi è stato di grande
aiuto.
Mussumbal non poté trattenere una risata: – Pensa che
anche per me è stata la stessa identica cosa!
– Parrebbe quindi che la nostra matriarca ci abbia fatto
proprio identici? – e risero di gusto.
ad attenderlo al campo, la classica frenesia che precede
un giorno importante. Gli ufficiali davano gli ultimi consigli
ai reparti e i singoli si assicuravano che i paramenti dei cavalli
fossero a posto, o che non avessero allacciato gli schinieri troppo stretti, o ancora che nella faretra fosse contenuto il giusto
numero di frecce.
così, nell’abbondanza di militi ardimentosi convenuti nei
pressi di cornus, si trovavano anche i gemelli attumbal e Mussumbal che, circonfusi dall’aura di preparativi che aleggiava al
campo, s’andavano aggirando fra i vari gruppuscoli.
dimostravano anch’essi di darsi un gran daffare, ma nel
loro cuore c’era un unico intento: afferrare l’occasione propizia
per passare nel campo avversario. il loro grande desiderio era
di poter combattere al fianco dei romani, sposando appieno la
loro causa. E mentre si allontanavano da un gruppo di aconites,
Attumbal si rivolse al gemello e gli disse: – Domani finalmente
potremo essere liberi!
– credo di aver capito dove vuoi andare a parare – gli
rispose l’altro con un sorriso. – E vorresti lasciare tutti questi
bei soldatini a sbrogliarsela da soli?
– tempo mezza giornata e saranno carne da macello per le
daghe romane. noi intanto, potremo mettere a frutto tutti i nostri sacrifici guadagnandoci ciò per cui abbiamo lavorato tanto.
140
L’indomani iosto si posizionò sopra il nuraghe tradori con
tutto il suo stato maggiore. da quella posizione poteva spaziare
con la vista su un largo tratto di pianura e vedere come il nemico
si sarebbe disposto.
Fece posizionare i suoi uomini mettendo al centro arcieri,
frombolieri, lanciatori di giavellotti e bastoni, e ai lati la cavalleria. La fanteria pesante venne dislocata a una certa distanza,
circa due stadi, dalla prima linea. in tutto poteva contare su
circa cinquemila uomini.
A metà mattina improvvisamente si notarono delle strisce
polverose isolate che avanzavano nella pianura; successivamente
quelle colonne andavano unendosi, formando un’unica grande
nube di polvere.
Pareva si fosse materializzata una di quelle tempeste di
polvere che arrivavano dai deserti del nord africa, sospinte dai
venti caldi dei quadranti inferiori. I cornuensi, che fino ad allora
chiacchieravano producendo un grande brusio, ammutolirono.
a memoria dei presenti da quelle parti non s’era mai visto un
simile assembramento di uomini e di cavalli.
L’armata romana, forte delle sue legioni, dopo aver percorso
sessantadue miglia a tappe forzate in cinque giorni, e aver guadato il fiume Tirso e il rio Foghe, andava a disporsi sul campo.
ad accentuare la sensazione che quelle nuvole di polvere
portassero una terribile tempesta, fu la presenza di improvvisi
141
La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
luccichii prodotti dal riflesso del sole sulle loro corazze e sui
loro elmi.
stretti nella loro sciarpa rossa, avvolta intorno alla vita,
gli ufficiali superiori iniziarono a dirigersi nel punto in cui Tito
Manlio li aveva convocati. Quest’ultimo era stato ben informato
sull’esatta consistenza dell’esiguo contingente cornuense e riteneva di approfittare della superiorità numerica per sbarazzarsi
quanto prima degli insorti per poter puntare così su cornus ed
espugnarla.
Le piume sul suo cimiero s’agitavano come la frenesia
agitava il suo animo. Fece posizionare la fanteria leggera al
centro della formazione, assieme ai fanti di mare, armati per il
combattimento a distanza. dietro schierò la fanteria pesante e
ai due lati la cavalleria.
una volta che ebbero oltrepassato un grosso macchione,
presero a correre lesti come lepri, decisi a compiere un ampio
semicerchio per poter raggiungere le schiere romane.
Procedevano curiosamente a zig-zag come se fossero sotto un ipotetico tiro, calpestando o saltando nel loro incedere
asfodeli, ginestre e tutta la macchia del sottobosco che gli si
parava innanzi.
sbuffavano e grugnivano come cinghiali scatenati, inaugurando così la loro corsa verso la libertà.
solo dopo che tali manovre sembravano essere a buon punto, iosto, d’accordo con il suo stato maggiore, prese la decisione
di informare i militi sui loro progetti. i cavalieri avrebbero
dovuto legare ai destrieri le fascine di legna che erano state
approntate la sera prima, e i soldati, a un segnale convenuto,
avrebbero dovuto lasciare le loro posizioni per raggiungere
velocemente le postazioni nel vallo. L’espediente di avvertire
all’ultimo momento gli uomini era stato preso per abbassare
al minimo il rischio che i romani fossero informati per tempo
delle loro reali intenzioni, giocandosi il tutto per tutto al vallo.
La notizia fu accolta con clamore dagli uomini che si erano
demoralizzati nel vedere un esercito così grande. si sentirono
sollevati dopo che gli fu data la possibilità di ripararsi e non
essere sopraffatti in campo aperto. i due gemelli, alla notizia, si
guardarono sbigottiti e convennero che la loro defezione sarebbe
dovuta essere anticipata per avvertire i romani al più presto del
cambio di programma. Quindi, con la scusa di urinare, chiesero
al loro superiore di lasciare momentaneamente le posizioni.
Questi li lasciò andare.
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La cavalleria di cornus si preparava ad aumentare in maniera fittizia la propria consistenza con l’espediente delle fascine, pronta a partire al segnale, nel contempo tutto il potenziale
in uomini che poteva lanciare qualcosa venne fatto avanzare.
Il suono di un corno dette l’avvio ad un’infinita serie di parabole dirette verso i romani contenenti vario armamentario da
lancio. tempestate da frecce, ciottoli, giavellotti e bastoni le
prime file dei romani dovettero retrocedere dietro le testuggini
che avevano eretto le fila successive, per potersi proteggere.
allo stesso modo la cavalleria dovette indietreggiare per
portarsi fuori tiro. contemporaneamente, la fanteria cornuense
iniziò la manovra per portarsi al sicuro delle postazioni nel vallo.
Quindi a drappelli iniziò a sparire nei mille viottoli e scorciatoie
che attraversavano la selva che li separava dalla gola. Fu anche
il momento per lanciare al galoppo la cavalleria che si diresse
verso i romani. E i lanciatori, coperti dalla cortina provocata
dalla corsa, ebbero modo di darsela a gambe verso i ripari.
gli avversari, dopo un primo momento di sbandamento,
ricostituirono lo schieramento, ed essendo terminato il lancio
di proiettili, tito Manlio ordinò l’avanzata alla fanteria e contemporaneamente lanciò la metà degli squadroni di cavalleria di
entrambe le ali sul nemico che avanzava. La cavalleria romana
era formata da cittadini provenienti dalle famiglie più ricche,
provvisti di cotta a maglie metalliche con due piccole aperture
143
La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
alla radice della coscia per permettere agli stessi di montare a
cavallo. il beota, l’elmo piumato che portavano sul capo, gli
conferiva un aspetto austero, al loro fianco pendeva la daga e
in mano tenevano una robusta lancia.
E fu grande lo stupore quando, dirigendosi verso il nemico
in cerca dello scontro, s’accorsero che questo anziché ingaggiare
la battaglia sfuggiva lo scontro, innescando solo qualche breve
scaramuccia.
non meno sorpresi da questo comportamento rimasero tito
Manlio e i suoi ufficiali superiori che seguivano gli avvenimenti
con il massimo interesse. accadde poi qualcosa che fece strabuzzare gli occhi del comandante.
La cavalleria cornuense, liberatasi dalle fascine e intentato un falso scontro, voltava le spalle e si dirigeva da dov’era
partita. digrignando i denti come un mastino inferocito, tito
ordinò alla propria cavalleria di inseguirli al fine di capire le
intenzioni degli avversari i quali, anziché fermarsi nel campo
da dove erano partiti, proseguirono la loro corsa in direzione di
cornus. Quando l’immane polverone da loro provocato cessò, i
romani riuscirono ad agguantare alcuni manipoli delle retrovie
e una parte della cavalleria, prendendo atto della dissoluzione
dell’esercito che fino a poco prima avevano innanzi.
– Potente Zeus, – esclamò un centurione dalle proporzioni
taurine prossimo al comandante – sono scappati nella loro tana.
– Bene, – gli rispose Tito – vorrà dire che andremo a
stanarli a Cornus. Dobbiamo sfruttare la superiorità numerica
prima che possano beneficiare di rinforzi.
e Mussumbal! i cavalieri provenienti dai sette colli, vedendo
due persone vestite alla punica che si proiettavano verso di loro
pensarono a qualche macchinazione escogitata dal nemico e,
prima che potessero giungere a distanza da poter nuocere, li
bersagliarono con le lance. caddero entrambi in una pozza di
sangue, con un’espressione sul viso di sbigottimento e senza
avere il tempo di chiarire il loro gesto. Ebbero appena il tempo,
prima di chiudere gli occhi per sempre, di allungare il braccio
nella ricerca spasmodica uno dell’altro, stringendosi la mano
nella polvere.
ai centurioni venne dato l’ordine di ricompattare la colonna
e mandare uno squadrone di cavalleria in avanscoperta. Questo,
dopo circa un’ora, s’andava a infilare ignaro nella gola di Pischinnappiu con i risultati che possiamo ben immaginare. una
parte di essi, quelli che aprivano la colonna, andarono a sfracellarsi sul fondo delle fosse al cui interno erano stati approntati
i pali aguzzi, la restante parte venne fatta oggetto di un fitto
lancio di frecce e sassi vari. i pochi che scamparono corsero a
riferire l’accaduto ai loro superiori, che a loro volta descrissero i
particolari a tito Manlio. trasecolò il condottiero e, schiumando
di rabbia, capì in un attimo di quale astuzia fossero stati capaci
i suoi nemici. avrebbero costretto l’esercito a confrontarsi con
loro non in campo aperto né tantomeno a subire un assedio,
quanto invece a cercare di espugnare quel vallo. ordinò che si
montasse l’accampamento nella vallata di fronte all’imbocco
della gola e il giorno dopo avrebbero tentato l’impresa.
contemporaneamente, dalla parte sinistra dove era attestata la cavalleria alleata ai romani, sbucarono dalla bassa
macchia di cisto due uomini che agitavano talmente le braccia
da sembrare due forsennati. urlavano e si dimenavano avvicinandosi pericolosamente alle schiere nervose. non avrebbero
potuto fare sbaglio peggiore nella loro vita, i gemelli attumbal
La notte trascorse tranquilla, interrotta solo dai latrati di
qualche branco di cani randagi a cui qualcuno attribuisce la
capacità di percepire nell’aria l’odore di battaglia. A nessuna
delle due fazioni interessava intraprendere incursioni notturne
poiché reputavano fosse più importante riservare tutte le forze
allo scontro imminente. Era da poco sorto il sole quando io-
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
sto, rasentando un precipizio all’ingresso della gola, raggiunse
uno spuntone roccioso prominente la vallata dove stazionava
il nemico e, con grande stupore sia dei suoi che degli avversi,
si mise a urlare con tutto il fiato che aveva in gola: – Via dalle
terre dei nostri padri, via di qui! Prevaricatoriiiii! – il suo grido
rimbombò come un tuono in tutta la vallata e gli fece eco un
rumore roboante alle sue spalle, derivante dai suoi guerrieri che
battevano tutto ciò che avevano a portata di mano. tito Manlio
torquato ascoltava in silenzio, e nella sua mente iniziava a
cercare un cambio di strategia che gli permettesse di affrontare
nel modo giusto quell’intoppo. dette ordine agli esploratori di
vagliare la possibilità di aggirare quel passo o quantomeno di
poter arrivare sui fianchi del canalone per aggredire i nemici.
Dopo alcune ore tornarono trafelati, riferendo che l’asperità
del terreno e una vegetazione particolarmente intricata sconsigliavano l’aggiramento, a meno che non si volessero impiegare
parecchi giorni in una simile manovra.
Visto dall’alto delle rupi, l’esercito romano, disseminato in
quella vallata, pareva un nugolo di cavallette pronte ad avventarsi sul nemico. iosto, rivolgendosi a sinsinnio, uno dei suoi
amici d’infanzia, intento a guardare con lui quello spettacolo,
disse: – guarda quanti appetitosi bersagli, non hai che l’imbarazzo della scelta!
Ma quello non rise per la battuta, anzi sorvolò sul tono
ironico del compagno e, visibilmente preoccupato, rispose: –
speriamo di infrangere quest’enorme onda nella gola!
L’altro, guardandolo con solennità, replicò: – Mi risulta,
per bes, che tu sappia nuotare e tra poco penso che ne avrai
bisogno! in alternativa potresti avvicinarti a loro e, come recita un vecchio proverbio, provare a mettere un dito nella loro
bocca! Magari non mordono!
gli strateghi più interventisti si accaloravano nel ritenere
utile un attacco massiccio della cavalleria per creare una testa
di ponte all’uscita del passo, venendo però interrotti da altri,
che ritenevano tale manovra troppo avventata.
Una vena di nervosismo s’era insinuata fra quegli ufficiali,
ancora stizziti per la figura del giorno precedente.
dopo aver sentito varie opzioni, tito gli si rivolse con
queste parole: – è bene che si mettano a frutto tutte le nostre
esperienze, senza trascurarne alcuna, se non vogliamo che
questa circostanza si ritorca contro di noi. siamo in una situazione scomoda, ma la nostra superiorità numerica non è di
certo un particolare effimero. Non serve accalorarsi in questa
circostanza, i nostri padri non hanno sconfitto i Galli o gli altri
barbari scaldandosi il viso innanzi alla fiamma dei focolari,
o con il gioco degli astragali in qualche bettola. E neppure
saltellando sulla scacchiera del filotto incisa sul pavimento dei
fori cittadini. no, amici, e lo sapete bene. La calma è la virtù
dei forti, l’essere focosi appartiene alla nostra indole, ma ciò
non deve prendere il sopravvento. ci sia di supporto, ma vi
ricordo che la destrezza e la caparbietà devono essere le doti
che ci debbono guidare alla vittoria. il compito che dobbiamo
prefiggerci è quello di divellere gli sbarramenti posti all’uscita
della valle, creando una forza d’urto tale da portarci oltre le
linee nemiche per poter accerchiare i rivoltosi.
Vennero combinati i particolari della manovra e i generali,
rimessisi in capo gli elmi, si diressero verso i rispettivi corpi.
nella gola continuavano a riecheggiare improperi di vario tipo
rivolti verso i romani e i cornuensi non vedevano l’ora di aprire
le ostilità nei loro confronti.
Furono fatte schierare due compagnie di arcieri nelle immediate vicinanze dell’imbocco e altre due, provviste di frecce
impregnate di pece. a seguire, vennero fatte preparare alcune
batterie di astarti, legionari provvisti di giavellotti. dall’alto
delle insegne e dei vessilli, le aquile romane osservavano severe
intanto intorno a tito s’era radunato tutto lo stato maggiore
e venivano vagliate varie possibilità d’attacco.
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
gli avvenimenti, incuranti dell’afa che si andava intensificando,
da quando il levante si era rinforzato venendo giù dalla catena
del Montiferro. i legionari, robusti e ben saldi sulle gambe, si
andavano organizzando in formazioni a testuggine, affluendo a
decine dalle retrovie e incolonnandosi nel punto che i centurioni
gli indicavano. solo nell’ultima ora si potevano contare almeno
una cinquantina di quelle formazioni, che presero a convergere
verso il passo.
non era trascorso un altro battito cardiaco, che il sibilo
sinistro di un nugolo di dardi era già per aria alla ricerca di
bersagli da trafiggere. Alle prime grida di dolore, gli ufficiali
urlavano furiosi: – state giù, state giù!
E di nuovo un’altra scarica di frecce sibilava sinistramente,
ma stavolta lasciando scie luminose e fumanti al loro passaggio. La pece incendiata sulle frecce andava ad alimentare dei
focolai d’incendio nella macchia dei costoni e un odore acre si
diffondeva tutt’intorno portato dal vento. Molti cornuensi dovettero lasciare le loro postazioni impegnandosi in operazioni di
spegnimento, per evitare il propagarsi delle fiamme. E proprio
in quel frangente, i romani iniziarono un fitto lancio di ordigni
incendiari verso quegli sciagurati. Quelli che vennero colpiti
presero ad ardere come torce umane, emettendo urla disumane
si lanciavano negli orridi sotto di loro. La visibilità nella gola
si era ridotta di molto, tanto che i soldati di un fianco non riuscivano a vedere l’altro lato.
i cornuensi guardavano incuriositi le manovre.
– Guarda Harit – disse Iosto a uno dei suoi ufficiali, indicandogli quegli agglomerati di soldati – Hai mai visto niente
di simile?
– Sì, in Sicilia. I romani vanno fieri di questo espediente.
Fanno stringere i ranghi ai legionari, i quali si trovano spalla a
spalla nella formazione. come puoi vedere, i soldati della prima
fila utilizzano gli scudi davanti al petto, mentre tutte le file che
seguono li tengono sopra la testa proteggendo come un tetto la
formazione. è chiaro che tali aggregazioni richiedono un alto
coordinamento di tutto il gruppo che deve avanzare compatto.
– Davvero ingegnoso, e in quei fuochi preparano di già il
pranzo?
– no, – gli rispose serio Harit – non vorrei sbagliarmi ma
si tratta di qualcosa per niente piacevole.
– cosa?
– olio bollente da scagliare con gli onagri.
– che sarebbero?
– specie di catapulte capaci di lanciare orci ripieni di ciò
che ti ho appena detto.
– Per bes, fanno proprio sul serio!
– il dramma è che lo hanno sempre fatto!
non avevano ancora terminato la frase che si sentì nella
vallata il suono di un corno. Era il segnale che aveva fatto diffondere tito Manlio per dare inizio alla battaglia.
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Fu allora che si udì nuovamente il corno riecheggiare, dando il segnale alle legioni allineate di marciare all’interno della
gola. il passo sostenuto e cadenzato veniva dettato dai tamburi
e rintronava fra le pareti.
Il sole era già alto nel cielo e aveva raggiunto il suo massimo quando l’imbocco della gola iniziò ad affollarsi di testugo
che penetravano spedite nel sentiero della gola.
gli uomini che le componevano erano speranzosi in quanto
fino ad allora non vi era stata nessuna reazione da parte dei
sardi che continuavano a essere sottoposti a un continuo lancio di copertura. nella tipica formazione a testugo gli uomini
della prima fila scrutavano quello che potevano avere innanzi e
coperti dagli scudi non potevano vedere ciò che accadeva al di
sopra. Quelli poi che si trovavano al centro della formazione
avanzavano seguendo il movimento di chi li precedeva senza
rendersi conto di dove si andasse, come le pecore di un gregge.
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
oramai alcune centinaia di legionari si trovavano ad avanzare in quell’angusto budello giungendo al primo gomito dove
la larghezza andava a ridursi. Le truppe cornuensi che fino ad
allora avevano avuto un ruolo deliberatamente passivo, dando
la parvenza addirittura d’essere timorose, avevano solo seguito
alla lettera le istruzioni impartitegli di far arrivare a quel punto
le truppe nemiche. E una volta che queste vi arrivarono fecero
rotolare lungo i pendii scoscesi dei tronchi enormi che rovinarono a valle sulle gambe dei legionari.
Molti di loro, travolti in pieno, persero la vita in siffatto
modo e altri che diversamente apparivano contusi cercavano
riparo ai lati. altri ancora, cercarono di risalire i pendii aggrappandosi alle prominenze rocciose e a radici che spuntavano dagli
anfratti del terreno. Ma dai rifugi posti in alto si iniziò a scagliare
di sotto massi di tutte le dimensioni, che avanzando verso il basso
aumentavano la velocità, talvolta rimbalzavano più volte sulle rocce sottostanti per poi andare a cadere con gran fragore nel fondo
della gola. coloro che tentarono di sottrarsi a quella lapidazione
correndo in avanti, non più protetti dagli scudi, venivano centrati
dalle frecce che piovevano dall’alto. gli altri, nonostante fossero
uomini robusti, urlavano come belve private della possibilità di
combattere e massacrate all’interno di una fossa.
grande esercito. Quel barlume di sorte amica gli faceva levare
al cielo le mani e benedire baal, Melquart e tanit. La morte
che picchiava forte in prossimità delle loro abitazioni era stata
respinta. Quanto era accaduto non fece trattenere tito Manlio
da un gesto di stizza mentre era attorniato dai suoi ufficiali, e
andò a battere violentemente il pugno destro sul tavolo.
– si sbagliano di grosso se pensano di fermarci così! dico
bene? Eminenti strateghi, qui bisogna spremere le meningi per
stanare i ribelli. il numero di legionari che manca all’appello è
certo consistente ma le forze fresche di cui possiamo disporre
è ancora di gran lunga superiore al loro numero. Lo spettacolo
dei nostri uomini che sono scampati alla battaglia, laceri e sanguinanti, non è certo di buon esempio, e i portantini che sulla
loro tavola esibiranno i cadaveri estratti dalle frane, non sono
quel che si dice “un buon viatico”. Ma voi dovrete guardare
negli occhi i vostri uomini e riuscire a infondere in loro forza
d’animo! siete forse stati svezzati con latte di coniglio?
dopo che per un’ora altre schiere si andavano a sovrapporre alle salme inerti, tito Manlio, cupo in viso, dava l’ordine ai
suoi centurioni di richiamare le truppe. il tentativo era miseramente fallito e fra sé pensava: “Questa non ci voleva proprio!
è una gran rogna, quanto mi manca la cavalleria!”.
il poterla manovrare in campo aperto era stata sempre la sua
carta vincente. Ma qui, in questa dannata situazione, si era fatto
tutto tremendamente difficile, a iniziare dal recupero dei feriti e
delle salme. Grida di gioia e sberleffi di tutti i tipi provenivano
invece dalla parte opposta. gioivano i cornuensi, felici come
non mai di essere riusciti a fermare, almeno per il momento, un
150
il vento di levante, che aveva imperversato per tutto il giorno rendendo l’aria arroventata, aumentò a dismisura, sferzando
il campo romano con folate di intensità tale da far vibrare le
tende in maniera spaventosa, rendendosi necessario persino un
raddoppio degli ancoraggi a terra.
La flotta cartaginese, comandata da Asdrubale il Calvo,
era salpata dal porto militare di cartagine il giorno prima e
s’avvaleva anche dell’ausilio fornito dall’ammiraglio shefatim,
richiamato per l’occasione dal senato cartaginese.
dopo aver circumnavigato l’arcipelago della galite, venne investita da una burrasca di grandi proporzioni causata da
quello stesso levante che spazzava la sardegna. onde enormi
si abbattevano sui fianchi degli scafi costringendoli a deviare
la rotta di nord-ovest che doveva portarli verso la costa sarda,
per quella ovest-nord-ovest, puntando sulle baleari per ripararsi
dalla tempesta.
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
Quella stessa notte manipoli di soldati romani armati di
tutto punto cercarono di introdursi furtivamente nella gola per
prendere di sorpresa gli occupanti e, sebbene fossero riusciti a
eludere le sentinelle poste all’ingresso, giunti a metà percorso
si trovarono davanti a dei cani che i cornuensi avevano legato
a buona guardia del varco.
Questi, appena s’avvidero del pericolo, iniziarono ad abbaiare in maniera così decisa da destare le truppe poste sui
costoni, che non si persero certo in convenevoli e scaricarono
alla cieca nel canalone tutto quello che avevano a portata di
mano. alcuni lanciarono anche delle torce che illuminavano
il passaggio, rendendo più facile bersagliare con le frecce gli
sventurati soldati. in pochi riuscirono a retrocedere e raccontare
l’accaduto ai superiori.
La mattina seguente, era da poco sorto il sole quando
un’ombra saettava sugli spuntoni rocciosi posti all’ingresso della
gola e come il giorno precedente si posizionò nell’estrema appendice sospesa nel vuoto. Era Iosto che, come aveva già fatto,
iniziò a strillare a squarciagola: – andate via dalla nostra terra,
terra dei nostri padri, tornate da dove siete venuti!
re il sentiero della gola, un sinistro boato echeggiò in tutta la
valle. i sardi avevano fatto precipitare all’imbocco massi dalle
dimensioni ciclopiche che con un tonfo sordo andavano a chiudere l’accesso. chi rimase fuori dal vallo, ebbe la vista esclusa
da ciò che successe al suo interno ma ciò che poté sentire non
lo dimenticò a vita. impotenti, le legioni attestate nella vallata
assisterono con il loro comandante allo sterminio dei legionari
intrappolati che non poterono né avanzare e né retrocedere.
– Per Zeus! – urlò tito Manlio – è una situazione di estremo svantaggio e per di più rischiamo di venire imbottigliati dai
rinforzi che potrebbero arrivare ai ribelli – proseguì rivolgendosi
a un generale che stava vicino e che si era sfilato l’elmo dal capo.
Qualunque alto ufficiale aveva ben scolpito in mente l’episodio occorso ai romani nella seconda guerra contro i sanniti,
benché fossero passati più di cent’anni.
Per nulla impensierito da quelle esortazioni e dall’insuccesso della notte prima, tito Manlio radunò lo stato maggiore,
esortando gli ufficiali ancora una volta a un’azione più incisiva.
– gli dei ci aiutino – disse dando il segnale con il braccio
affinché il corno suonasse per dare l’avvio alle ostilità. Erano a
favore di vento e tutto ciò che lanciavano compiva una parabola
ben maggiore del giorno prima, arrivando oltre la metà della
gola. Volarono giavellotti, frecce e gli orci bollenti di pece fusa
che decimavano gli avversari. Ma questi venivano prontamente
sostituiti in modo da non lasciare varchi sguarniti.
Le testuggini iniziarono l’avanzata coperte da quei lanci, i
soldati parevano triplicare i loro sforzi nel cercare di sfondare
quella resistenza, e quando un gran numero si trovò a occupa152
in quell’occasione, nel 321 a.c., le legioni romane che
combattevano i sanniti erano comandate da due validi consoli:
tito Veturio calvinio e spurio Posturio albino.
i sanniti erano comandati dall’astuto gaio Ponzio tesesino
che riuscì con un tranello a imbottigliare l’esercito romano fra
due gole, bloccandolo senza vie d’uscita.
teresino era incerto sulla sorte da assegnare al nemico e
chiese consiglio all’anziano padre, gaio Erennio Ponzio, che
prospettò due alternative. La prima contemplava la possibilità di
rilasciare i soldati romani senza torcergli un capello, contando
così sulla gratitudine del senato romano. La seconda era basata
sull’annientamento di quelle truppe. trucidandole, roma non
si sarebbe potuta riarmare in tempi brevi, e i sanniti contando
sulla superiorità numerica avrebbero potuto sconfiggere definitivamente il nemico.
da questi consigli teresino estrapolò una soluzione che
rimase famosa. i legionari romani circondati, si guardavano l’un
l’altro cercando nel viso del compagno una soluzione, riuscendo
153
La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
solo a organizzare l’accampamento con gli automatismi di cui
erano padroni. a toglierli dalla situazione di stallo ci pensarono
i Sanniti che, rifiutate le condizioni proposte dagli ambasciatori
romani di pace equa, per ordine di teresino furono fatti passare
seminudi sotto un giogo.
Dapprima i consoli, seguiti dagli ufficiali e dai legionari.
se qualcuno osava ribellarsi o si permetteva di rispondere
agli insulti e agli sberleffi dei vincitori, veniva immediatamente
trucidato. tale ignominia fu conosciuta e ricordata con il nome
di “forche caudine”, a perenne memoria della vergogna che
dovette subire roma.
Per tito, condottiero di grande esperienza, venne il momento di prendere una drastica decisione. Era da poco sorta
l’alba, quando comparve davanti ai suoi generali e andò ad
affrontare insieme a loro, con estrema serietà, le problematiche
del momento. Le ingenti perdite subite, senza riuscire ad avanzare di un solo metro, erano un aspetto non trascurabile, ma
a questo se ne dovevano sommare degli altri che assumevano
un peso sempre maggiore. La cavalleria aspettava inutilizzata
nel campo. che dire poi delle vettovaglie che apparivano insufficienti a coprire le esigenze dell’esercito per altri giorni?
con l’aggravante di dover sfamare anche i prigionieri sardi.
Tematiche che vennero snocciolate dagli ufficiali una per una,
facendo propendere tito sulla decisione che pronunciò stentorea: – torniamo a Karales, togliamo l’assedio.
il fascino dell’azzardo non aveva mai fatto presa su di lui,
men che meno adesso con questa realtà dei fatti.
Preparò quindi la sua cassa con i materiali d’intendenza
e fece suonare i corni affinché si formasse la colonna per il
rientro. sarebbe morto pur di non venir meno alle aspettative
di roma e andò incontro a fronte alta ai mugugni di alcuni
ufficiali preoccupati di essere considerati codardi dal nemico.
Quel cambio di strategia, con l’ordine di indietreggiare, aveva
nella mente dell’esperto comandante il solo scopo di prendere
tempo e levarsi da quegli angusti spazi in cui il suo esercito non
aveva libertà di movimento. Voleva conoscere infatti l’esatta
consistenza dei rinforzi che ampsicora e asdrubale il calvo
avrebbero apportato e quindi potersi muovere di conseguenza.
notte amara per tito Manlio e le sue truppe. il buio piceo
li avvolse e alle loro orecchie giungevano ancora i lamenti degli sventurati soldati che, intrappolati sotto le frane nella gola,
chiedevano inutilmente aiuto.
Quella notte nessuno dormì, l’onta inflitta dai nemici di non
poter portare le barelle per recuperare i feriti né tantomeno le
salme dei defunti, gridava vendetta.
Il vento che continuava a soffiare rabbioso fra gli anfratti
rocciosi produceva un insieme di suoni lugubri che si andavano
a sommare agli ululati dei cani selvatici.
sebbene provocasse disagio e fosse molesto, il vento giocò
un ruolo fondamentale in quello scontro, anche se le due parti lo
ignoravano. infatti i rinforzi cartaginesi languivano a Minorca,
dove s’erano protetti dalla tempesta e riparavano i danni subiti
dagli alberi e le velature delle navi. il tormento assaliva tito
Manlio, conscio delle potenzialità cartaginesi, rappresentate
oltre che dagli uomini anche dai terribili elefanti. il pensiero
di dover stare in quella vallata, con il rischio di essere preso
fra due fuochi, lo opprimeva. in più non si conosceva il punto
esatto in cui tali rinforzi sarebbero potuti sbarcare, e il rischio
che attaccassero Karales, poiché era sguarnita, non lo si poteva
trascurare.
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Le rupi all’imboccatura del vallo brulicavano di cornuensi
che osservavano dapprima incuriositi e poi quasi increduli la
colonna romana che abbandonava la vallata.
Eccoli quindi abbracciarsi l’un l’altro e iosto gridava a
squarciagola: – Vittoria, vittoria, vanno via!
nonostante il pesante tributo di sangue pagato, avevano
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
raggiunto il loro scopo. La notizia della ritirata romana arrivò
subito a cornus, dove i cittadini si riversarono immediatamente
nelle strade per andare incontro ai reduci.
scene di giubilo e abbracci festosi accompagnavano il rientro di quei valorosi che si erano difesi tenacemente. La loro
colonna era seguita da quella più mesta dei caduti.
iosto raggiunse la sua dimora e nel cortile gli andò incontro, raggiante, Ellissa. dalle aperture poste al piano superiore,
le ancelle lanciavano boccioli e petali multicolori. – è proprio
vero! sei il mio eroe! – disse lei abbracciandolo. – Hai salvato
Cornus e i suoi abitanti, tuo padre toccherà il cielo con un dito
quando lo verrà a sapere. Sia ringraziato Melquart!
iosto, stanco e visibilmente frastornato, ebbe appena il
tempo di stringere fra le braccia la madre, che fu subito pressato
dalle richieste della folla radunatasi davanti casa e dovette salire
nel punto più alto delle mura perimetrali per essere acclamato.
Fu festa grande e tanti i banchetti che si organizzarono,
sia dentro le mura di cornus che fuori, nelle decine di accampamenti che accoglievano i guerrieri delle zone limitrofe. gai
suoni di launeddas, tamburi e corni allietavano i festeggiamenti.
tanto vino scorreva nei bicchieri, lo stesso che veniva offerto
e bevuto anche in casa di Jezbel in onore di attumbal e Mussumbal. i corpi dei gemelli erano stati resi alla madre, dopo
essere stati ritrovati da un gruppo di esploratori in posizione
decentrata rispetto ai luoghi degli scontri. in un primo tempo, i
loro compagni pensarono a una loro diserzione, vista la strana
sparizione, ma poi dopo averli trovati massacrati dai romani,
pensarono a un gesto eroico.
Lungo la strada, s’era appollaiata su un masso d’arenaria
narna e aspettava che passasse di lì iosto. si gustava la piacevolezza di un possibile ricongiungimento, quando improvvisamente vide la sua sagoma sopra il cavallo ornato da ghirlande
d’alloro e fiori di campo. Era attorniato dai suoi amici, che
facevano a gara per cavalcargli un po’ al fianco. Attimi interminabili trascorsero fintanto che non giunse esattamente di
fronte a lei. con uno slancio di entusiasmo lo chiamò a gran
voce cercando di attirare la sua attenzione e nonostante fosse
subissato dai complimenti e dai ringraziamenti, per un attimo,
un attimo soltanto incrociò il suo sguardo.
Proprio ora che le cose volgevano a suo favore era comparsa lei a rovinargli tutto, a calpestare le sue ambizioni. in
altri frangenti, sarebbe bastato spronare il cavallo e con fare
vigliacco si sarebbe lasciato alle spalle il problema.
Ma ora, attorniato dai suoi fidi e acclamato dalla folla,
qualunque bassa manovra avrebbe gettato su di lui un’ombra di
discredito. Quell’abboccamento andava saputo gestire affinché
non gli si ritorcesse contro, e allora profuse tutta la sua gentilezza quando narna, con il suo pancione, si avvicinò al cavallo:
– Porgo gli onori al mio signore, spero mi possa promettere un
incontro a breve!
– Perché no? – gli rispose, e a questo punto fu lesto Harit
a intromettersi con tono spavaldo, quasi a sfidare Iosto dicendo:
– il grande baal è testimone della promessa alla quale dovrai
prestar fede!
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Jezbel, pallida in viso, lavava i corpi dei due figli muta
come un sasso, rivestendoli con pietà infinita di una tunica
chiusa da numerosi bottoni in osso.
Erano venuti tutti i conoscenti, persino cleon il vasaro che
portava in dono delle doppie patere e alcune grosse coppe per
la libagione rituale.
Jezbel singhiozzava, e insieme a delle grosse borse che le si
erano formate sotto gli occhi, comunicava al mondo il suo dolore.
Era attorniata dalle vecchie del vicinato che cercavano di fare a
gara nel consolarla, ma in realtà per alcune di loro era soltanto
l’occasione giusta per mettere in mostra la propria sensibilità.
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
gesti lenti, pacati, muovevano le sue mani, e in quel mesto
compito riemergevano le cure e l’amore che aveva riservato loro
sin dalla nascita. Le sembrava tutto un orrido sogno dal quale,
attimo dopo attimo, sperava di potersi risvegliare.
non riusciva ancora a capacitarsi di come i suoi ragazzi,
eroi agli occhi di tutti, in realtà spie al soldo dei romani, fossero andati incontro a una così crudele fatalità. Nella sua mente,
intanto, tendevano ad assumere sempre più contorni definiti le
premonizioni di oratanda. La raccapricciante storia dei due
cervi che mentre cercavano di trovare sollievo dall’arsura che
li opprimeva, trovavano solo pozze rosse di sangue.
il suo irrefrenabile desiderio di vendetta s’era infranto
davanti a quei corpi che avevano ancora bisogno di lei prima
di intraprendere l’ultimo viaggio verso l’oscurità del sepolcro.
nella notte il contrasto fra i lamenti funebri e il vociare
dei festeggiamenti divenne ancora più stridente e il cuore di
Jezbel assumeva le sembianze di un orcio in cui l’odio aveva
decantato, con una domanda che la sua mente le riproponeva
in continuazione: “Perché vivo ancora?”.
La madre sopravanzò tutti per la veemenza e la forza con
la quale lanciò il proprio repertorio vascolare, lasciando attoniti
gli astanti.
il mattino successivo si presentò nella loro abitazione bacu,
e offrì il proprio aiuto per sistemarli su delle barelle di legno
e trasportarli in una delle necropoli denominate “campo degli
dei”. Per loro due venne scelta quella di Mussori nelle campagne di Pittinuri, poco distante da cornus, dove li attendeva la
camera buia e silenziosa, in cui geni e demoni erano stati scolpiti nella roccia da cleon per proteggere il loro sonno eterno.
un ultimo barlume di luce all’interno della camera del silenzio
e, dopo avervi deposto i corpi, cleon chiuse il piccolo varco
d’accesso con dei mattoni crudi cementati con malta di fango.
un ultimo rito spettava a Jezbel e ai convenuti per terminare la
cerimonia, ognuno prese la propria coppa, qualcuno le doppie
patere, qualcun altro gli unguentari e li lanciarono sul fondo
del corridoio, dove rovinarono fragorosamente.
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iosto in quei giorni viveva in un misto di eccitazione e
felicità irrefrenabile ma che, ogni sera pedissequamente, si
trasformava in un senso d’angoscia quando cercava di prender
sonno. il suo malcontento affondava le radici nelle sue responsabilità innanzi al comportamento che aveva avuto con Narna.
nel tentativo di nettarsi la coscienza, ripercorreva col pensiero
la storia con la giovinetta. un’avventura comune, come ce ne
sono tante. arrivò persino a pensare che fosse un vanto il non
provare verso di lei alcun desiderio. nella sua mente erano
ancora vive le immagini delle donne cartaginesi che ora rappresentavano per lui il modello cui agognare.
Risoluto più che mai nel porre fine a questo tormento che
lo angosciava, mandò a dire a narna che l’avrebbe aspettata il
pomeriggio seguente alla sorgente secca. Quest’ultimo era un
luogo ameno, che i due utilizzavano spesso per i loro incontri.
nel passato, era stato assiduamente frequentato, ma da quando la vena d’acqua s’era asciugata era caduto in disuso dalla
popolazione.
narna, come sempre, fu puntuale all’appuntamento. nel
suo viso vi si poteva leggere un’ansia estrema, a riprova delle
forti tensioni che aveva vissuto. iosto, nel vederla, non seppe
assumere quell’aria burbera che s’era riproposto. Fu colto da
una grande emozione nel rivedere quell’incantevole viso dai
grandi occhi, baciato in ogni minima parte chissà quante volte.
Lei lo guardava sorridente, era tanto bello per lei volergli bene.
Prese coraggio e disse con un sospiro d’esitazione: – sei felice?
un “no” deciso da parte di iosto avrebbe decretato la sua
felicità, rappresentando l’ammissione di una mancanza nella sua
vita, nonostante il favorevole successo militare.
Ma si limitò a dire: – il popolo mi ama.
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
narna, mordendosi per un attimo il labbro, continuò: – non
sei stato tu che m’hai sedotta? Purtroppo il rimprovero non gli
fece né caldo né freddo, sapeva fin troppo bene d’essersi sottratto volutamente a qualunque impegno con lei.
– Per fare all’amore bisogna essere in due e da parte mia
non c’è stata né violenza né tantomeno astuzia – biascicò, con
un senso d’amaro in bocca che sapeva di rancore.
Ella s’avvide appieno che iosto non sentiva nemmeno in
parte l’antica emozione e sfoderò quanto di più intimo i suoi
pensieri le dettarono: – infatti, la creatura che ora porto in
grembo è anche tua!
Egli, colto nel viso da un visibile rossore, in quanto la sua
responsabilità era stata evocata in maniera tangibile, cercò più
che poté di obliare tale situazione, in quanto il suo unico scopo
era quello di tener lontana dal suo destino quella presenza tanto
incomoda.
Fece quindi un gesto che gli parve persino magnanimo:
– Prendi, – disse allungandole un sacchetto con delle monete – ti serviranno quando andrai da oratanda per liberarti
dell’incomodo.
– che bestia orrenda sei diventato – disse narna volgendogli le spalle e correndo via in lacrime.
Ellissa e iosto lo attendevano nella corte della loro dimora
e, quando fece la sua comparsa, iosto gli andò incontro facendo
impennare il cavallo. Ma ampsicora, ben saldo sul destriero,
riuscì a calmarlo e a smontare. Finalmente poté riabbracciare
i suoi cari. stringendo iosto, gli scarmigliò amorevolmente i
riccioli dicendogli: – sono orgoglioso della tua forza d’animo
figliolo, grazie alla misericordia divina e al tuo coraggio Cornus e i suoi abitanti non sono sprofondati nella polvere sotto il
piede nemico.
– Avrei voluto, o padre, che voi foste stato al mio fianco
quando vedemmo i romani smontare l’accampamento per ritirarsi.
– Quando sono andato via da cornus, avevo sottovalutato
l’insidia rappresentata dalla mia assenza e quanta gola potesse
fare al nemico tale situazione. Ma non c’erano alternative e
non mi pento, visti i risultati, di aver contato su di te e sulla
maestria del senato.
– avessi visto, o padre, con quanta energia, con quanto
coraggio il nostro esercito si è battuto, sebbene in numero nettamente inferiore. non una defezione, un cedimento.
– Questi sono fatti che meritano di essere ricordati, e in
tuo onore, Iosto, farò coniare una moneta con l’effige del tuo
volto su un lato, mentre dall’altro vi sarà impressa la divinità
cara ai nostri alleati dell’interno, il sacro toro. Quando circolerà
questa moneta presenterà a tutti l’autorevolezza che meriti e il
debito di riconoscenza che abbiamo verso di te. nello stesso
tempo, chi l’osserverà nel palmo della propria mano non potrà
più scordare il sacrificio degli uomini che si sono immolati per
la nostra libertà e che tu hai avuto l’onore di comandare. Resta
ora da chiarire cosa possa essere occorso ai nostri alleati cartaginesi, visto che sarebbero dovuti essere già arrivati!
tre giorni dopo, mentre ampsicora faceva rientro, poté
ammirare le fortificazioni della città rimaste integre e maestose
come le aveva lasciate grazie all’audacia del figlio: fu per lui
un’enorme emozione. Era stato raggiunto il giorno prima da
una staffetta partita da cornus con la notizia della ritirata dei
romani. accompagnato dai principali capi delle tribù dell’interno – ilienses, iolei, troes, e i loro uomini al seguito – contava
oramai gli attimi che lo separavano dal riabbracciare i suoi cari.
Quasi all’ingresso della città, fu salutato dai corni che suonavano dalla cima delle torri. nugoli di soldati si sporgevano
dalle mura e gridavano: – Vittoria, vittoria, vittoria!
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nei giorni che seguirono, iosto continuò a raccontare al
padre tutti i momenti salienti della battaglia, deliziando con
questi anche Ellissa che rimaneva ad ascoltarlo estasiata.
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
Nel frattempo, le pentere e gli altri scafi d’appoggio della
flotta cartaginese subivano a Minorca gli interventi di restauro
sui danni subiti nella tempesta. di certo i danni e le perdite
sarebbero stati maggiori senza l’esperienza e l’autorevolezza
del navarca shefatim. nessuno, infatti, meglio di lui avrebbe
saputo indirizzare fra le acque ribollenti della tempesta il convoglio verso le baleari.
Asdrubale il Calvo aveva all’incirca la sua stessa età ed
era suo amico fin dall’infanzia, quindi lo trattava con grande
confidenza: – Figlio di una gran conchiglia – così amava apostrofarlo, – se non fosse stato per la tua maestria ci saremmo
trovati sbattuti sulle coste spagnole, impiegheremo molto con
le riparazioni?
shefatim s’affrettò a rassicurarlo: – Penso che nel giro di
un paio di settimane dovremo venirne a capo.
Poi, però, lasciato solo pensò fra sé: “Questa tempesta è
capitata proprio a fagiolo. iosto è riuscito a prendersi gioco di
me, ma gli aiuti di cui ha bisogno glieli farò sognare. altro
che affrettare le riparazioni! Vedrà, vedrà!”. E si mise a ridere
di gusto.
I giorni seguenti Asdrubale approfittò della sosta per scegliere un contingente di frombolieri delle baleari: erano conosciuti con l’appellativo di “baliareis” ed erano ricercatissimi per
la loro specializzazione nell’uso delle fionde. Asdrubale restava
allibito ogni qualvolta li vedeva in azione, mentre facevano
vibrare l’aria al passaggio dei loro proiettili.
– a cosa si deve la vostra proverbiale mira? – chiese un
giorno a uno di loro.
– sono le nostre madri a imporci un particolare e costante
allenamento fin da quando siamo bambini. L’usanza consiste
nel fissare delle focacce su dei pali, e fintanto che non si riesce
a colpirle con i proiettili delle fionde non ci possiamo sfamare.
– ah, questa è buona – disse il condottiero cartaginese ridendo rumorosamente. – La fame è quindi il terribile espediente
che vi deve far aguzzare la mira! Ma dimmi, come mai ne possiedi una annodata in testa, una ai fianchi e un’altra in mano?
il giovane, alto e smilzo, proseguì: – abbiamo tre diversi
tipi di fionde di lunghezza diversa a seconda della distanza del
bersaglio che dobbiamo colpire. Le costruiamo intrecciando steli
di giunco o tendini di animali, e utilizziamo due tipi di proiettili, uno più grande in pietra scalpellinata, e uno più leggero di
forma fusiforme in piombo.
Ecco spiegato il motivo del perché asdrubale, affascinato
dalla potenza di questi soldati, li reclutava in grande numero.
avevano dell’incredibile le mosse studiate da shefatim per
rallentare, giorno dopo giorno, i lavori di ripristino delle navi.
S’inventava di tutto e nel modo più naturale, affinché non fosse
scoperto in tale losca attività. Trovava da ridire su tutto, sulle
tele mal cucite delle vele, le assi mal serrate degli scafi e persino
su alcune scalette che definì “traballanti”. Ma quando furono
trascorse abbondantemente le due settimane e una vedetta urlò
“Zefiro”, alla maniera greca, Asdrubale, che aspettava quel
vento da occidente per far ripartire la flotta, gridò: – Se domani
le navi non saranno pronte a salpare, prenderò cinquanta uomini
a caso e li farò distendere al posto delle traversine in legno che
sorreggono le navi nei bacini. Quindi farò passare le navi sui
loro corpi e il loro sacrificio di sangue verrà offerto agli dei
come viatico per la buona riuscita dell’impresa.
nulla poté shefatim su quelle parole, facendolo desistere
da altre macchinazioni. Ecco quindi, il giorno dopo, una dopo
l’altra, le navi cartaginesi si lasciarono alle spalle cala colarsega, dove avevano trovato riparo.
162
Dopo cinque giorni di navigazione la flotta si ritrovò, stavolta senza inconvenienti, davanti alla costa sarda in prossimità
di cornus. iosto era appena rientrato dalla tenuta di Milia, dove
aveva trascorso la notte quando, dalle torri di vedetta, s’udì il
suono dei corni che annunciavano l’avvistamento delle navi.
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
Il giovane corse a perdifiato su uno dei bastioni delle mura e,
ponendosi una mano sulla fronte per ripararsi dai raggi solari,
vide fin dove l’occhio giungeva, la sagoma delle navi. Sulla linea
dell’orizzonte queste sembravano sospese fra cielo e mare, quasi
a lievitare, diventando man mano sempre più grandi.
nel frattempo fu raggiunto dal padre e da due giovani ufficiali che lo accompagnavano. Sulle prime non s’accorse della
loro presenza, tanto era assorto dallo spettacolo. solo quando il
padre gli domandò: – impaziente? – si voltò e rispose: – baal è
stato misericordioso, s’avvicinano, che convoglio fenomenale!
Sono riusciti a evitare la flotta romana di Tito Octacilio che
avrà senz’altro tentato di sbarrargli il passo e così si potranno
finalmente unire a noi.
ampsicora aggiunse: – il nostro porto non ha la capienza
per poter ospitare tutte quelle navi e quindi si dirigeranno sicuramente verso la spiaggia di Pischinnappiu.
infatti videro piegare le loro prue sulla sinistra di cornus,
oltre il promontorio della balena. Quest’ultimo aveva preso quel
curioso nome dalla forma del suo profilo, rimarcata dalla presenza di una cavità nella roccia in corrispondenza dell’ipotetico
occhio dell’animale. inoltre, sul dorso, vi era un pozzo che dal
livello terrestre s’approfondava sotto, fino al mare dove era in
comunicazione con delle caverne sottomarine. Quando il mare
s’alzava per il forte maestrale, le onde s’infilavano a pressione nel
condotto del pozzo, creando una colonna d’acqua di riguardevole
altezza, che pareva mimasse lo sbuffo respiratorio dell’animale.
– Presto, – disse ampsicora – andiamogli incontro, è necessario avvertire annone a tharros e abdacal a othoca dell’arrivo
dei rinforzi in modo che si tengano pronti con i loro uomini.
Uno dei due ufficiali li lasciò per eseguire gli ordini e il
gruppetto si diresse a passo svelto verso le stalle.
di posizionare alla fonda le imbarcazioni innanzi alla foce del
Pischinnappiu. Cinque scafi per volta vennero fatti avvicinare
alla battigia, e da uno di questi si levò alto un urlo: – calate gli
scandagli! – era il navarca che aveva bisogno di tali strumenti
per vagliare la profondità dell’acqua e allineare parallelamente
alla riva gli scafi, senza correre il rischio d’arenarsi. A quel
punto vennero calate le passerelle e uomini e animali iniziarono
a sbarcare. su quella spiaggia dorata lambita dal mare cristallino
e lunga circa tre miglia, s’andavano organizzando fanti, cavalieri
e una ventina d’elefanti.
Ampsicora e Iosto, in compagnia dei notabili della città e
di quelli dell’interno, poterono finalmente porgere il benvenuto
ai naviganti. asdrubale raccontò della disavventura occorsa in
seguito al furtunale e di come furono costretti a riparare alle
baleari, causa poi del loro ritardo. allo stesso tempo furono
informati, dalla viva voce di iosto, del tentativo perpetrato dai
romani di assaltare cornus, in quel momento poco difesa.
shefatim, poco distante dal gruppo, ebbe modo d’udire
come iosto poté cavarsela anche senza il loro aiuto.
increspando gli occhi, si voltò un istante e fu allora che
incrociò lo sguardo radiante del giovane guerriero.
Questi fissò quelle torbide orbite che non lasciavano trasparire alcuna emozione. Persino le cicatrici sul viso stavano
immobili in preda a uno spasmo tensivo.
E mentre lo andava fissando, Iosto domandava a se stesso
quali sentimenti avesse in quel momento finché si sentì chiamare
da una voce che proveniva dalle passerelle, frammista al vociare
di guerrieri garamanti, edetani e baleari, che scendevano incessantemente dalle imbarcazioni. un nezem d’oro luccicava in
quel viso che insisteva nel chiamarlo a gran voce e, dopo pochi
attimi di esitazione, iosto riconobbe anche la voce: era naghid.
iosto ebbe appena il tempo di scusarsi con i cartaginesi
e iniziò a correre verso l’amico, mentre il padre che lo stava
osservando non capiva il perché di tanta fretta.
shefatim conosceva molto bene quel tratto di mare e consigliò ad Asdrubale, considerate le correnti e la scarsità d’onde,
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
– cucciolo shardana credevi che ti avrei lasciato solo a
combattere i romani?
Esterrefatto, iosto lo abbracciò provando a dire qualcosa,
ma dalle sue labbra uscirono poche sillabe: – Ma, ma, come
hai fatto?
– semplice! Hai forse scordato che i romani sono anche
nostri nemici? con le conoscenze che ha mio padre, e la
padronanza che ho nel cavalcare, non è stato difficile trovare un dignitario che desse l’assenso alla mia partenza come
cavaliere.
– E sia! – esclamò il cornuense. – abbiamo estrema necessità di cavalieri capaci come te! Soprattutto ora, dopo lo smacco
che abbiamo inferto ai romani alle porte di cornus!
– Vi hanno già attaccato? Cosa mi sono perso?
– consci del fatto che cornus era difesa da un numero
inferiore di uomini rispetto al loro esercito hanno tentato il
colpaccio. Ma grazie alla misericordia degli dei siamo riusciti a
fermarli in un vallo a poca distanza da cornus. sappiamo però
che si stanno riorganizzando a Karales e che torneranno presto
a farsi vivi, più incattiviti che mai.
squadrando dalla testa ai piedi l’amico e ammirando la sua
livrea iosto gli chiese: – sei forse cresciuto d’altezza durante
il periodo che non ci siamo visti?
– è solo l’effetto del pennacchio di crini candidi di cavallo
sull’elmo, che ha lo scopo di far apparire i guerrieri punici più
alti e imponenti.
detto ciò, aprì il mantello di porpora riccamente decorato,
fissato intorno al collo e chiuso da fibule per farlo ammirare
all’amico: – che ne dici allora di questa corazza di scaglie di
ferro a protezione del busto?
– Per bes, è davvero notevole – esclamò l’amico che lo
osservava divertito nel suo pavoneggiarsi, mentre lo vedeva
assestare le pterigi del sottocorazza color bianco. come bianco
era lo scudo di bronzo, che aveva poggiato a un sasso, ricoperto
in cuoio con al centro in rosso un occhio apotropaico, contro
le influenze maligne.
– Questa divisa – proseguì il punico – contraddistingue
il battaglione sacro, e anche mio padre ha avuto l’onore di
indossarla.
– d’accordo, si vede benissimo che si tratta di roba non
dozzinale, ma ti pregherei di interrompere le moine o qualcuno
penserà sul serio che mi stai corteggiando. Vieni con me, ti
voglio presentare a mio padre.
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Il gruppo più in là, dove c’era anche Ampsicora, era attonito alla vista di quelle bestie appena scese dalle navi che,
nonostante la loro mole, rispondevano agli ordini impartiti dai
loro istruttori. asdrubale descrisse le proverbiali doti degli elefanti, in particolare la capacità di sbaragliare qualunque esercito
gli si presentasse innanzi. alti quasi due metri e cinquanta, si
rinfrescavano muovendo continuamente i giganteschi padiglioni
auricolari.
– non mi vorrei trovare davanti alle loro zanne appuntite!
– disse ithor, il capo dei troes. a questi fece eco achetore, capo
degli ilienses, che chiese a cosa servisse quella specie di martello
di legno che tenevano in mano gli istruttori assieme al pungolo.
– in tante guerre – intervenne asdrubale – gli elefanti
hanno dato grande prova di forza e sono stati essenziali per la
vittoria, ma in alcuni casi è capitato che fossero stati innervositi
dal nemico diventando ingovernabili. in quella situazione di
disorientamento, arretravano travolgendo le nostre truppe. Ecco
perché si è reso necessario munire gli istruttori di una mazzuola
di legno da utilizzare, nella sciagurata ipotesi si rendessero ingovernabili, infiggendo con dei robusti colpi il pungolo, utilizzato
per dirigerlo, nel cranio fra le orecchie per abbatterli!
nel frattempo sopraggiunse iosto che chiamò in disparte
il padre per presentargli naghid.
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
– scusate padre se vi ho tratto dai vostri discorsi ma per
me è molto importante presentarvi il mio amico cartaginese.
– Lo è anche per me, o figlio, poiché sono doppiamente
onorato di conoscerlo. Primo perché ti ha così benevolmente
accolto a Cartagine e poi perché ha sfidato i flutti unendosi a
noi per combattere i romani! – disse ampsicora abbracciando
l’ospite.
Poi s’allontanò velocemente per predisporre gli accampamenti in cui accogliere i punici a ridosso delle dune sabbiose
della spiaggia. in quell’ubicazione sarebbero stati raggiunti e
supportati da generose vettovaglie provenienti da cornus.
lo misero al corrente dello scontro navale che si era svolto il
giorno prima al largo della costa di fronte a neapolis.
a Karales, tito Manlio era nuovamente ospite del pretore
scevola il quale mostrava di essere più preoccupato del suo stato
di salute che si stava aggravando che per l’esito del conflitto.
Sotto le bianche tende della sua terrazza mosse da un flebile
libeccio rispondeva ai discorsi costruttivi di tito improntati sul
motto: «Quando un ramo è basso bisogna abbassare il capo se
non si vuole andare a sbatterci contro», canticchiando delle nenie
con voce flebile: «Astri mattutini e dolci zeffiri, tappeti incontaminati, su cui camminate voi, o splendente giunone! severa
giustiziera! dispensatrice di consolazioni per chi stanco cerca
rifugio in voi. nei campi Elisi il riscatto al sacro pellegrinare
del dolore umano!».
oramai, vagava sempre più nell’onirico in preda a febbri
scuotenti, perdendo via via il contatto con il presente. tito
Manlio andava a trovarlo sempre meno, era una pena per lui
vederlo in quello stato. cercava invece d’essere concentrato su
ordini e strategie da impartire ai suoi generali. Lo si vedeva al
mattino con i capelli arruffati e sporchi di sudore correre ai bordi
del campo e confrontarsi con la dada contro i suoi più provetti
ufficiali. Era il modo che aveva per tenersi in forma e cercare
allo stesso tempo di lenire le tensioni che andava accumulando.
un giorno fu raggiunto da due capitani che, con piglio deciso,
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raddrizzando le reni e poggiandosi su una staccionata,
apprese dalla voce concitata di Mauro servio della favorevole
congiuntura occorsa all’ammiraglio tito octacilio. Questi,
mentre pattugliava le coste sarde, aveva scorto durante la notte
le lanterne di numerose imbarcazioni. Erano le navi cartaginesi
che, dopo aver fatto sbarcare i rinforzi, al comando di shefatim,
rientravano in patria.
Fatti oscurare sapientemente i propri lumi per non essere
visti dal nemico, fece seguire, a debita distanza, tale convoglio.
– Voglio che si senta appena lo scricchiolio dei remi e il
loro tonfo nell’acqua. nessun tamburo per battere il ritmo ai
vogatori, solo una voce attenuata che sovrasti appena l’ansimare
dei rematori nello sforzo. dobbiamo sfruttare il vantaggio della
sorpresa quando gli piomberemo addosso! – questo andava
ripetendo l’ammiraglio ai suoi subalterni, mentre lo sciabordio
dei flutti sullo scafo li accompagnava nell’inseguimento. Alle
prime luci dell’alba, quando il cielo iniziava a rischiarare,
dissipando le nebbie marine, dal gavone di prua della sua nave
dette l’ordine di lanciare all’attacco le quinqueremi.
shefatim era intento a gustare lo spettacolo che gli andava
offrendo una famiglia di delfini davanti alla chiglia della sua
imbarcazione, quando fu bruscamente attirato nella direzione da
cui proveniva il frastuono prodotto dalla flotta romana. Dopo
pochi attimi riuscì a scorgere la sagoma delle navi nemiche
che emergevano minacciose dalle nebbie. Erano oramai a una
distanza di tre stadi e, con i loro rostri e le passerelle, munite
del “corvo” per l’abbordaggio, non lasciavano presagire nulla
di buono.
Lo schieramento romano avanzava rapidamente verso il
fianco destro di quello punico e mentre Cartalone, l’ufficiale di
prua di shefatim, andava avanti e indietro per stabilire l’esatta
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
entità della presenza romana, Shefatim lo stratega non si lasciò
sfuggire un importante particolare: tito octacilio, forte della
supponenza di poter piombare sul nemico di sorpresa, era costretto a procedere verso levante, avendo perciò il sole di fronte.
Questo sminuiva di molto la precisione delle manovre e
il senso della tattica. Fintanto che il sole restava basso nel suo
nascere, shefatim poteva tenere a bada quel nugolo di vespe
inferocite che gli girava attorno.
una caterva di frecce e dardi incendiari fu lanciato all’indirizzo delle navi puniche, mentre il loro stratega ordinava alle
stesse di compiere repentini balzi in avanti.
gli uomini degli equipaggi si andavano riparando dietro le
carene delle imbarcazioni per proteggersi dalle parabole fumose
che preannunciavano l’arrivo dei colpi nemici.
Giunse anche il momento della collisione in cui alcuni scafi
punici furono sfondati, altri affiancati e abbordati dai fanti di
mare romani. – Più svelti, più svelti! – ordinava shefatim ai
suoi uomini sollecitando le manovre e soprattutto la disposizione
delle vele che dovevano andare a recepire la spinta del vento
che aumentava.
Gli assalitori videro sfilare davanti ai loro occhi parecchie
navi senza poterle né abbordare né catturare a causa della
velocità con cui filavano via. Sulla scena del combattimento
galleggiavano frecce, lance spezzate e i relitti fumanti delle
navi abbordate. sette caddero, con i relativi equipaggi, in
mano romana, ma shefatim e il resto del convoglio riuscirono
a prendere il largo.
– Finalmente una buona notizia! – esclamò tito Manlio
rivolgendosi ai capitani di mare e percorso da una vena di ottimismo. – spero proprio che le cose ora si possano mettere
nel verso giusto.
E aspettava dalle spie notizie esatte sulla reale entità delle
truppe nemiche.
Mentre gli eserciti s’andavano organizzando, quasi alla
stessa ora di un pomeriggio assolato in cui le cicale cercavano
di dare il meglio di sé con lo stridente suono del loro frinire,
due carrette uscivano da cornus da due porte diverse, con la
stessa meta: Macopsissa.
i lenti giri che compivano le ruote contrastavano con la
brusca accelerazione che avevano subìto le vite delle occupanti,
costrette dagli avvenimenti a lasciarsi alle spalle la città. Infatti
per Jezbel e narna, i luoghi un tempo a loro cari erano diventati
come il sale sulle ferite. Luoghi che avevano visto la loro felicità
e che ora s’erano trasformati in un immane pungolo pronto a
tormentarle di continuo. il padre di narna non era per niente
disposto ad allargare la famiglia con un illegittimo e l’unica
alternativa che aveva proposto alla figlia era stata quella di
vendere il nascituro. come possa averla presa la ragazza è facilmente immaginabile, che preferì accettare un passaggio verso
l’interno dell’isola offertogli dal cugino rafforzando l’ardente
desiderio di far venire alla luce il proprio figlio.
Mentre preparava i pochi bagagli per partire, si ripeteva
in continuazione: – Un posto dovrà pur esserci, un posto anche
per te, dove poter vivere, dove poter sperare d’essere felici e
poter gridare a squarciagola «siamo vivi!».
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Jezbel aveva deciso di seguire dayme, la sua vicina di
casa, dalla quale s’era lasciata convincere a lasciare quei luoghi. anche perché se i cornuensi avessero intuito che fosse una
spia al soldo dei romani, le avrebbero riservato una fine atroce.
dayme aveva trovato un buon ingaggio presso una famiglia
facoltosa, ed era convinta che una fornarina avrebbe trovato
facilmente impiego.
dopo un giorno di viaggio, entrambi i carri si fermarono
alla fonte del Memmere, lungo il cammino per Macopsissa, per
fare rifornimento d’acqua e dissetare le bestie.
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
Multiforme e imprevedibile, il mondo offre talvolta delle
concatenazioni assai curiose e, in rapporto a una di queste, pose
nuovamente l’una di fronte all’altra le due donne.
Mentre narna si rinfrescava dall’afa e dal gran caldo, le si
avvicinò Jezbel dicendole: – sei tu che incontrai da oratanda
tempo fa, ma senz’altro il tuo ventre non era abitato come ora,
o mi sbaglio?
nel riconoscerla, narna indugiò un attimo, poiché le era
sempre rimasto il dubbio della preveggenza con la quale le aveva
unite la bithia. – sono proprio io, e in seguito alla presenza della
creatura che porto nel ventre ho dovuto, ahimè, lasciare cornus.
– non ha un padre?
– oh sì, un padre ce l’ha, è vivo e vegeto ma ha altro a
cui pensare. E proprio per tale motivo, vista l’eccessiva distrazione, mio padre non ha gradito l’arrivo di una nuova bocca
da sfamare. Motivo per il quale, d’ora in poi, dovrò pensare io
ai bisogni di entrambi.
Mentre narna parlava, i pensieri di Jezbel tornavano indietro nel tempo, quando anche lei dovette lasciare cornus
gravida dei gemelli per cercar fortuna altrove. stava per vivere
nuovamente, dopo tanti anni, l’esperienza di lasciare cornus.
E anche stavolta, nonostante l’età più matura, si sentiva sprovveduta in rapporto ai fatti che il destino le propinava. Ebbene,
proprio ora che pareva annientata negli affetti, i racconti di
quella giovane donna che l’avevano profondamente toccata, le
diedero la spinta per reagire e farsi forza. Forse perché aveva
già percorso quell’esperienza, fu pervasa da un immenso senso
di tenerezza e, per dare un maggior spessore a tale sentimento,
pose una importante domanda a narna: – Quando ti vidi da
oratanda, volevi disfarti della creatura che porti in grembo?
– Proprio no, semmai avrei voluto che il mio uomo fosse
più attento a me. Ma quella megera mi ha rifilato una strana
visione senza sapermi dare una chiara spiegazione.
– attenta alle sue premonizioni, anche io non avevo capi-
to le sue parole, ma quando mi sono ritrovata i miei due figli
coperti dal rosso del loro sangue, ho ripensato alle sue parole
infauste. La saggezza che abbiamo è in balia della fortuna e non
da meno i nostri affetti e, sebbene la follia sia sempre pronta
a far capolino, a volte averne un pizzico può aiutarci nelle
disgrazie della vita! Puoi quindi prendermi per pazza, ragazza
mia, ma se tu lo vorrai da oggi io sarò pronta a occuparmi di
te e del nascituro!
nell’incavo di quegli occhi narna vide accendersi una calda
fiammella che poteva insperatamente rischiarare e intiepidire
quel buio che l’aveva avvolta. Fiotti di lacrime sgorgarono dai
suoi occhi, la vita le aveva tolto molto ma ora le elargiva ancora.
– tanit ti benedica! – le disse narna abbracciandola.
– ti voglio presentare alla mia amica – le rispose Jezbel
trattenendo le lacrime. Entrambe si diressero verso dayme, che
nel frattempo s’era assisa poco lontano ad ammirare le piccole
perle che si formavano sulla superficie dell’acqua, mentre questa
sgorgava dalla fonte.
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La battaglia di Cornus
Vii
dopo cinque giorni dall’arrivo dei cartaginesi era giunto il
momento di muovere le truppe. in quella mattina, insolitamente caratterizzata dal cielo coperto, ampsicora osservava
con iosto gli uomini raggruppati nella piana a sud di cornus.
Gli ufficiali, che si erano dati un gran daffare per inquadrare
gli uomini prima dello scontro con i romani, cercavano di fare
del loro meglio per bissare l’impresa con i rinforzi provenienti
dall’interno. Questi uomini, privi di addestramento e disciplina,
si mostravano armati nei modi più disparati: chi con l’arco, chi
con spade rudimentali, altri con attrezzi agricoli o semplicemente
con grossi randelli di legno. tutti desiderosi di partecipare alla
battaglia con un unico credo: vincere o morire.
Questo per poter riabbracciare i propri figli, le proprie
donne e rivedere le proprie terre da uomini liberi.
– guardate, padre, come sono nerboruti questi uomini, con
cosce grosse come tronchi di quercia e braccia robuste. Ma ho
anche visto come sono armati i romani e quale livello di affinità
hanno raggiunto in combattimento…
– so cosa vuoi dire – lo interruppe il padre. – guardati
attorno, questa è Cornus, con le sue fortificazioni, le strade,
le fonti e la terra coltivata. è come l’abbiamo voluta noi. noi
stessi siamo di Cornus, gli apparteniamo! I romani sono là! – e
indicò con l’indice destro la pianura del campidano. – Per baal
il grande, io farò combattere questi uomini con quanto hanno
di meglio: il loro cuore libero! sai come la penso riguardo ai
mercenari: belli da vedersi, bravi nel combattere, ma senza
174
Pietro Scanu
cuore. Sono stato già scottato una volta dalla loro ribellione e
quindi puoi ben capire che tipo di fiducia possa riporre in loro!
iosto annuì con un cenno della testa e seguì il padre spronando il cavallo verso l’accampamento dove erano attesi. Vedendoli arrivare, baalquim e asheri, che facevano parte del
consiglio degli strateghi di ampsicora, presero i cavalli e gli
andarono incontro. una volta vicini, ampsicora chiese loro: –
sono pronti gli uomini?
– non vedono l’ora che tu dia il segnale per la partenza –
rispose asheri.
– come avete avuto modo di udire ieri in senato è prevalsa
la linea di non dare tregua ai romani, e ora che sono giunti i
rinforzi saremo noi a stanarli a Karales – replicò ampsicora.
Un folto gruppo di donne e figli s’era radunato sui bastioni
e sulle pendici del colle di cornus per salutare i congiunti con
fragorose acclamazioni. Il campo era stato rifornito a sufficienza e
le scorte per la spedizione erano pronte, così che ampsicora poté
impartire gli ordini per formare la colonna e mettersi in marcia.
il campo si andava velocemente smobilitando e i vari capi
dell’interno, ithor, achetore, Honori, Menor, si davano un gran
daffare a far sciamare i loro uomini in drappelli.
asdrubale il calvo, che s’era attestato a ridosso delle dune
della vicina spiaggia, fece convergere i suoi uomini sulla strada
che da cornus portava a tharros. Qui annone teneva pronti i
suoi uomini e poco più a sud anche abdacal a othoca faceva
lo stesso.
iosto aveva percorso all’incirca tre miglia da cornus e
avanzava in quella fiumana di guerrieri alla ricerca del battaglione sacro di cartagine, dove si trovava l’amico naghid.
Mentre avanzava il ricordo struggente del saluto della madre e le sue parole gli tornavano in mente: «il mio cuore batte
insieme al tuo!» gli aveva gridato Ellissa mentre lui saliva in
groppa al cavallo.
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
accadde poi che iosto, voltatosi per un ultimo saluto, vide
nel volto della madre una lacrima silenziosa che le solcava il viso
e un’espressione di domanda. una domanda che non avrebbe
voluto aspettare un minuto, un giorno o settimane per avere una
risposta, ma avrebbe voluto sapere subito: «Quando torni?».
sovrappensiero, si sentì afferrare la spalla da una mano.
Era naghid, sorridente. Era stato lui a trovarlo per primo.
– condottiero shardana!
– grazie del complimento! noto che mi hai fatto salire di
grado, solo ieri mi chiamavi cucciolo… – replicò iosto.
– sai, mio padre è convinto che in questa guerra i sardi si
esporranno solo il tanto necessario per salvare il proprio onore
e non per imporre sull’isola un concetto di libertà!
– La libertà è un dono che ci hanno concesso gli dei, e
ritenersi paghi o peggio satolli quando si pensa di aver raggiunto egoisticamente l’onore, sarebbe la peggior offesa agli dei.
se fossimo certi di esentarci dal loro giudizio è probabile che
faremo meno di quello in cui siamo capaci, ma dal momento
che non è così, penso che neppure la paura della morte sottrarrà
valore al nostro combattere! alcune cose saranno sempre più
forti nel tempo: la coscienza d‘esserci abituati a essere sardi e
inseguire questo sogno condividendolo con altri significa aver
imparato a essere quel che siamo! – disse iosto, proseguendo a
cavalcare a fianco dell’amico.
poté avere l’esatta consistenza di ciò che avrebbe dovuto affrontare. tito decise di andare a trovare il governatore Quinto
Muzio, che passeggiava a piedi nudi nella sua terrazza. si era
convinto che le sue febbri avrebbero potuto trarre giovamento
da una simile pratica, e accolse quasi con fastidio il comandante.
Mentre si asciugava il sudore dalla faccia gli disse: – tito,
mi dicono che la barbarie avanza, la loro acredine li porta a
incendiare paesi e villaggi che incontrano sulla loro via! non
pensi sia venuta l’ora di intervenire?
E l’altro: – tentano di privarci degli aiuti alimentari che le
popolazioni alleate del campidano normalmente ci forniscono,
ma è fatica sprecata poiché il grosso della raccolta del grano
è già arrivato a Karales al sicuro. Ciò che mi interessa è che
avanzino ancora in campo aperto!
– Ma così facendo trasformeranno in un mucchio di mota
anche le mie terme preferite, le acque neapolitane – replicò
Muzio.
in tito s’andava sempre più affermando la convinzione che
ormai le sue frasi accendevano solo altra angoscia sul volto del
governatore. decise pertanto di tagliar corto: – conosco bene
quei luoghi e le validità che possono avere. Dopo aver riflettuto
a lungo, ho deciso di far accampare l’esercito a una sessantina
di chilometri da Karales, nell’ampia vallata che si trova appena
superate le terme.
– Hai pieni poteri, e roma si aspetta grandi cose da te!
– gli disse Quinto Muzio con il viso quasi amimico, mentre si
dirigeva verso un triclinare tornito.
– domani muoverò l’esercito e andrò a posizionarlo dove
ti ho descritto, le caratteristiche del terreno sono quelle ottimali
per far muovere la cavalleria a mio piacimento.
– che dire… – biascicò il pretore –talvolta mi scandalizzo
io stesso per gli eccessi che la malattia mi porta ad avere, ma
ti pregherei di tenermi compagnia stasera a cena.
in quella terrazza lo scintillio sornione del mare quasi ip-
dopo due giorni, i reggimenti della coalizione antiromana
poterono congiungersi a est di otocha in un unico grande esercito. al comando di ampsicora, asdrubale, annone, abdacal,
rispondeva un variegato esercito, con gli elefanti che andavano
a chiudere la lunga colonna con il loro lento passo.
a Karales, vi fu la concomitanza dell’arrivo della paga ai
soldati e delle notizie portate dalle spie a tito Manlio. tutti
rimasero soddisfatti: i primi incassarono le monete e il secondo
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
notizzava, ma tito con toni miti declinò cortesemente l’invito,
giustificando il diniego con i preparativi per l’indomani.
senza il peso di ingombranti salmerie e vettovagliamenti, il
giorno successivo prima del tramonto, tito Manlio comandava
ai suoi uomini di montare l’accampamento a circa tre miglia in
direzione nord dalle terme, sbarrando la strada sulla pianura
che collegava othoca a Karales.
uomini veniva spesso sormontato dal nitrito dei cavalli e dagli
squilli di tuba e di corni emessi dai cornicifer per inviare gli
ordini dei centurioni romani ai propri uomini, mentre i possenti
barriti prodotti dagli elefanti andavano a scuotere l’aria.
i giorni che seguirono, mentre si aspettava l’arrivo delle
truppe della coalizione sardo-punica, tito rimase sotto le bianche tende del campo al riparo della canicola d’agosto, circondato
dai suoi strateghi per escogitare una valida tattica da frapporre
all’avanzata del nemico.
Quand’ecco arrivare, per bocca del comandante di un’unità
di ricognizione, la tanto attesa notizia: le avanguardie dell’altro
esercito erano a mezza giornata di distanza.
Quasi contemporaneamente, anche ampsicora e gli altri
capi furono informati dell’esatta ubicazione dei romani e decisero di accamparsi a circa quattro miglia da questi.
Vi sono notti che passano alla svelta, come quella che precedette la battaglia, e altrettanto svelti furono i passi dei pastori
che allontanarono le loro greggi dalla piana teatro dello scontro.
Consci dell’imminente pericolo, i pastori approfittarono
fino all’ultimo di quel prezioso cibo per i loro armenti e, seppure
tenessero conservati nei loro indumenti le pungas, non volevano
di certo porre alla prova tali amuleti capaci per tradizione di
proteggerli da morte violenta.
La luminosità mattutina, che pian piano andava rischiarando il cielo notturno, prendeva sempre più consistenza e colse
entrambi gli schieramenti nell’inevitabile frenesia che precede
i grandi momenti.
Mentre esili vapori lasciavano l’umido terreno incalzati dai
raggi solari dell’aurora, la pianura si arricchiva di svariati suoni
provenienti dai due eserciti. Lo strepito di base prodotto dagli
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L’esercito di Manlio torquato aveva atteso pazientemente
per sei giorni l’arrivo della coalizione nel luogo scelto appositamente da lui, e aveva approfittato di quei giorni per far allenare
gli uomini. La coalizione sardo punica era galvanizzata dalla
presenza degli elefanti, seppure questi ne avessero rallentato
l’andatura e avevano percorso con grande determinazione sotto
il sole estivo sessantadue miglia.
L’ora cruciale della contrapposizione era giunta e i due
schieramenti si andavano disponendo sul campo.
dalla parte romana, sopra i vessilliferi che li sorreggevano,
svettavano le insegne con le aquile, riferimento visibile per ciascun legionario per stabilire con esattezza la sua unità. Inoltre
tali portainsegna non potevano passare inosservati, visto il loro
elmo fatto di un’impressionante pelliccia d’animale.
alcuni utilizzavano quella di leone, altri quella di lupo,
di orso o leopardo. di fatto, il compito di reggere le insegne
veniva affidato a legionari di comprovata esperienza, dotati di
particolare coraggio e schierati sempre nelle prime file.
i centurioni, in numero di sessanta per legione, entro le
loro corazze e gli spallacci rettangolari si distinguevano per
il pennacchio in crine di cavallo dipinto in grigio e rosso, sul
porta cresta dell’elmo. Questi si davano un gran daffare per
far disporre le legioni su quattro linee. infatti, tito aveva dato
ordine di schierare la fanteria al centro del campo di battaglia.
Questa era costituita per tradizione dai veliti, gli astati, i principes e i triarii. i più poveri e giovani fra gli arruolati costituivano i veliti, sempre in prima fila, erano la fanteria leggera di
roma. avevano al seguito alcuni giavellotti che utilizzavano
per attaccare battaglia, spostandosi velocemente sul campo po179
La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
tevano compiere incursioni verso il nemico per poi retrocedere
fra le fila degli astati quando si arrivava al corpo a corpo. Per
tale situazione erano pronti gli astati protetti da uno scudo che
superava il metro d’altezza e provvisto di umbone al centro;
inoltre avevano il terribile gladio capace di colpire sia di taglio
che di punta. Qualora gli astati non fossero riusciti a battere il
nemico indietreggiavano a loro volta attestandosi dietro l’altra
fila di fanteria pesante i principes. Questi avevano pressoché
la stessa armatura dei precedenti ma erano protetti da una
panoplia che pesava quindici chili. Vestivano tale armatura a
maglie sopra degli indumenti imbottiti. E, se anche questi non
avessero combattuto con successo, sarebbero retrocessi fra le
fila dei triari, l’estremo baluardo difensivo. A Roma, per tale
motivo, si era soliti dire in situazioni di difficoltà: «Trovarsi
ai triari!», simile all’altro modo di dire: «trovarsi con l’acqua
alla gola!». Questi legionari, erano rappresentati dai veterani,
ed erano soliti disporre le loro lunghe lance da urto, poggiandone la base a terra e la punta verso l’alto, dando la parvenza
di un’enorme palizzata. una volta scagliata la lancia, erano
soliti attaccare il nemico con la spada tratta. ai due lati della
fanteria tito, in sua difesa, aveva fatto schierare la cavalleria
che, seppure fosse di numero inferiore a quella della coalizione,
deteneva l’importante compito di sventare eventuali manovre
di aggiramento della fanteria. Venivano dalle classi abbienti di
roma e come segno di distinzione portavano un anello d’oro al
dito. inoltre, a completamento del tutto, lateralmente tra fanteria
e cavalleria vennero dispiegate due coorti di arcieri. anch’essi
solitamente venivano reclutati fra i plebei, ma per questa missione Manlio aveva sollecitato la presenza di arcieri di rodi,
cretesi e della Caria, molto efficienti e facilmente riconoscibili
per il loro abbigliamento orientale. Privi di cittadinanza romana,
provenivano da città alleate a Roma e sempre utilizzati come
unità di supporto alle legioni. Le loro tuniche lunghe sino alla
caviglia erano adorne di decorazioni e tinte di colori brillanti.
anche gli elmi erano curati con fregi e bassorilievi e tipica
forma a coppo conico.
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nello schieramento opposto, in quello della coalizione,
spiccavano in prima fila al centro del raggruppamento, i sardi
dell’interno, armati di scudo leggero e pugnale sul pettorale. Li
si poteva vedere organizzati in gruppi di arcieri, frombolieri e
guerrieri muniti di lancia.
Fra questi e il contingente dei frombolieri delle baleari che
stava sulla destra, spiccava nel punto di mezzo il bianco avorio
delle zanne dei pachidermi che, irrequieti, andavano sollevando
nervosamente la proboscide verso l’alto. alle loro spalle, sul
lato destro vi era la fanteria pesante cartaginese e, su quello
sinistro, inferiore numericamente, quella sarda. asdrubale
guidava l’eterogeneo contingente cartaginese fatto di mercenari che fra loro non condividevano né leggi, né linguaggio,
ma altamente preparati e pronti a dare il meglio di sé. si erano
disposti per reggimenti e comprendevano gli adirmachidi della
cirenaica, distinguibili per la loro veste volutamente rossa per
nascondere l’eventuale sangue delle ferite in combattimento.
armati di una robusta spada ricurva, chiamata falcata, erano
soliti rasarsi i capelli, lasciando solo una striscia centrale di
capelli che intrecciavano imitando un cimiero. schierati al loro
fianco un contingente di fanti libici di Thapsus, protetti da scudi
e schinieri, erano armati di un kopis, spada di forgia greca. Per
scaramanzia, non andavano mai in battaglia senza essersi prima
dipinti di rosso le braccia e le gambe.
Altre unità erano suddivise fra garamanti dell’oasi di Phazania, mauri e ancora tribù numidiche masaesili e massili. sulla
sinistra nella fanteria sarda, al comando di annone e adbacal,
erano confluite le armate di Tharros e Othoca, rinforzate da
ilienses, troes, aconites e altre unità pesanti in quantità minori
di diaghesbei, eutychiani e patulci.
181
La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
La notte precedente in pochi avevano dormito e iosto era
fra quelli che s’erano assopiti poco prima dell’alba. al mattino, impaziente ed eccitato, non volle dar retta al padre che lo
voleva al suo fianco fra la cavalleria sarda sul lato sinistro della
fanteria, ma preferì stare su quello destro insieme a naghid e
al battaglione sacro. Quest’ultimo stava in prima linea, seguito
dagli altri raggruppamenti cartaginesi fra cui spiccavano i numidi. Questi, orgogliosi di montare a pelo, senza gualdrappa,
guidavano i loro piccoli cavalli con una semplice fune adusa a
un collare. non meno agguerriti fra le popolazioni nordafricane
e con la pessima nomea di recidere i tendini dei polpacci ai nemici, condannandoli a una morte lenta e atroce, erano i getuli.
simili per armamento e tecnica di combattimento ai numidi,
avevano spada e due giavellotti, si discostavano invece per l’uso
della sella e per l’abitudine di condurre il cavallo con una verga
infilata nelle orecchie.
Infine, vi erano i cavalieri edetani o iberici, armati di spada
falcata e protetti da una corazza di scaglie di bronzo.
andavano orgogliosi dell’ornamento che ponevano sulla
fronte del cavallo, costituita da una rosetta in lana multicolore,
e avevano la consuetudine di imbrigliare il proprio animale.
faceva il cipiglio ai suoi strateghi, quasi a voler ricordare loro
la massima allerta.
richiamò a sé cassio duccio, il centurione di collegamento, affinché provvedesse a una buona guardia dell’accampamento che si erano lasciati alle spalle a circa due miglia, dove
peraltro erano custoditi i bagagli e con l’importante compito di
raccolta in caso di ritirata.
allorquando i due schieramenti giunsero a circa due stadi
l’uno dall’altro, fronteggiandosi, tito Manlio ordinò a Valerio
Iuno, il generale che gli cavalcava affianco, di aprire le ostilità. Questi, con una faccia neropelosa per la folta barba che
lo caratterizzava, galoppò via fino ad arrivare ai prior affinché
squillassero le tube dei cornicifer. raggiunti da quel suono
acuto, i veliti, senza neppure voltare il capo, avevano capito
che era giunto il loro momento e si mossero rapidamente.
Questi schermagliatori, giunti a distanza sufficiente, iniziarono la loro azione di disturbo con un fitto lancio di giavellotti,
con lo scopo di scompaginare le prime linee della coalizione.
Manlio osservava soddisfatto la partenza dei suoi e nel contempo
182
ampsicora, con sguardo limpido e luminoso, non aspettava
altro, e al grido di «tanit è con noi!» fece vibrare la sua prima
fila che, dopo aver parato bene l’ondata di pilum che s’erano
andati a conficcare con un tonfo sordo nei loro scudi, diede
origine con i frombolieri e i loro arcieri a un micidiale lancio
di proiettili.
– riportate indietro i veliti – ordinò Manlio.
Questi eseguirono l’ordine e fecero dietro-front rifugiandosi
oltre le linee dei triarii. E questo mentre gli astati, sorpresi da
quella gragnuola, si disponevano a testuggine onde evitare di
essere rapidamente decimati dal tiro nemico.
– non dategli tregua – gridò asdrubale dal suo destriero e
contemporaneamente con un cenno del braccio dette il via alla
carica degli elefanti. Questi, opportunamente pungolati, dettero
progressivamente sfogo di tutta la loro potenza mettendosi a
correre e sollevando un nugolo di polvere. tito Manlio, conscio della loro presenza, diede il segnale agli arcieri di iniziare
a bersagliare le bestie con dardi semplici, e con altri preparati
con pece calda, col duplice scopo di innervosirle e cercare di
colpire gli istruttori che, senza la protezione di una torretta,
potevano contare solamente sullo scudo.
annibale era arrivato in italia con elefanti più grandi, di
provenienza indiana, capaci di far alloggiare una comoda torretta
sulla groppa. con tale bardatura, gli arcieri potevano alloggiare
sui proboscidati e colpire dall’alto i nemici. tutti vantaggi che
183
La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
ebbe annibale, cavalcando il suo syrus, ultimo elefante a morire
in italia per via del clima rigido. Qui gli istruttori non ebbero
tali possibilità, poiché gli elefanti della foresta non avevano tali
caratteristiche. il suolo pareva tremare sotto l’urto del loro peso
e le terribili zanne saettavano minacciosamente in aria.
si accorsero dell’accaduto, sfogando la loro disapprovazione
con imprecazioni di vario tipo.
La loro forza d’urto poteva facilmente sbaragliare le schiere
romane, e approfittando di una tale evenienza, sulla loro scia
asdrubale avrebbe fatto insinuare la cavalleria per colpire alle
spalle gli avversari. avrebbe, poiché di fatto, quegli enormi
bestioni raggiunti dai dardi romani non rimasero nelle premesse. alcuni iniziarono a scartare di lato in maniera disordinata;
altri, centrati dai dardi infuocati, piroettavano selvaggiamente
dirigendosi verso le schiere sarde. tant’è che i loro conducenti
furono costretti ad abbatterli con un colpo secco, infiggendogli
il pungolo fra il cranio e la prima vertebra, e andando a concludere rovinosamente la loro corsa su un fianco.
tito Manlio, con uno squillo di tuba, fece adottare ai suoi
uomini un utile stratagemma con il quale riuscì a contenere
l’impeto degli elefanti che arrivò, con o senza istruttore sulla
groppa, alle loro fila.
Fece cambiare la disposizione a scacchiera dei legionari
disponendoli in colonna. con tale assetto s’andarono a costituire dei corridoi fra i vari manipoli dove i pachidermi s’insinuarono senza provocare gravi perdite. una volta superate le
linee vennero allontanati dai velites, che si trovavano dietro
ai triarii, che li bersagliarono con i giavellotti. Poi vennero
rapidamente allontanati i feriti e gli esanimi, che giacevano
orribilmente sfigurati, dal campo di battaglia permettendo
all’esercito di ricompattarsi, e assumendo nuovamente l’aspetto
a scacchiera.
Quando l’enorme polverone s’andò diradando, spinto dalla
brezza di libeccio che si era sollevata, gli uomini della coalizione
184
La giornata si stava scaldando e gli animi ancor di più.
oramai la parola passava a ciò che gli eserciti sarebbero stati
capaci di dimostrare.
Mentre avanzavano, i romani tentavano di intimorire gli
avversari con un forte rumoreggiamento provocato dalla percussione di spade e scudi. Ma gli altri, per tutta risposta, gli
andavano incontro con grida di vario tipo e urla animalesche,
fino a quando Ampsicora diede l’ordine alla cavalleria di farsi
avanti al trotto.
La fanteria giunse al contatto fisico e con gli scudi sollevati si entrò nel vivo della battaglia contornata dalla mischia
furibonda che ne derivò.
Per ben due volte i principes intervennero al fine di evitare
lo sfondamento della prima linea degli astati, incalzati dal tremendo impatto della coalizione. ithor e achetore si sgolavano
affinché i loro uomini scompaginassero le fila romane proprio
nel momento del cambio, ma questi ultimi eseguivano i movimenti in modo rapido e ben concertato.
Per quattro ore la battaglia infuriò con esiti incerti. La
fanteria pesante cartaginese, avvezza al combattimento contro
i romani, mostrava di tener testa a quell’esercito, mentre le
truppe di tharros, cornus e othoca, pur rinforzate dai sardi,
dopo aver esaurito l’iniziale energia d’urto, dimostravano segni
di cedimento.
– Forza, non dovete mollare! – gridava annone nel fragore
provocato dalle spade. Era importante non cedere alla fatica
mentre la temperatura continuava a salire e taluni incoscientemente avevano rinunciato persino all’elmo tanto stavano
sudando.
Le due cavallerie andarono a cozzare con le lance produ185
La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
cendo un suono simile a quello che si ode quando l’uragano
s’infila nel bosco e spezza in uno stesso istante migliaia di rami.
Lo scontro proseguì a colpi di spada, normalmente assestati
dal cavallo ma talvolta, quando i contendenti s’appiedavano,
anche a terra. i cavalieri numidi si distinsero ancora una volta
per la loro abilità, riuscendo a sterminare un gran numero di
avversari. E non da meno era il battaglione sacro, dove iosto si
batteva come un leone al fianco del suo amico Naghid.
i due avevano un’intesa a dir poco perfetta, incitandosi e
allertandosi a vicenda in caso di pericolo. stavano per portare
soccorso alla loro fanteria in difficoltà, quando Iosto, uscito
vittorioso da uno scontro con un avversario, venne colpito con
un fendente mentre questi capitolava a terra. La spada andò a
impattare sulla gamba destra che non era protetta dallo schiniere,
recidendogli l’arteria poplitea. in quel trambusto il giovane non
ci fece quasi caso e l’adrenalina che aveva in corpo lo sostenne
nell’incalzare altri nemici.
Finché naghid, accortosi, gli urlò: – Perdi sangue dalla
gamba destra!
Ma era troppo tardi. iosto ormai vedeva gli oggetti in maniera confusa e le forze che l’avevano sorretto sino ad allora
sul cavallo improvvisamente vennero meno.
stramazzò al suolo senza un gemito. Vedeva tutto offuscato
e riconobbe appena la sagoma dell’amico che prontamente era
sceso dal cavallo per porgergli aiuto. non s’avvide nemmeno
che la testa del suo amico volò a poca distanza da lui, recisa di
netto con un sibilo sinistro da una daga romana. aveva sete,
tanta sete, e in uno stato semiconfusionale vedeva intorno a sé
solo fontane che sprizzavano sangue!
Steso a terra, le sue funzioni vitali s’andavano affievolendo
sempre più, fino a quando si arrestarono del tutto.
cinque giorni di marcia. E nonostante questi ultimi cercassero
di battersi eroicamente, fra i loro reparti si crearono vistosi
cedimenti.
tanti più varchi si andavano a creare, quanto più i romani
approfittavano per infiltrarsi tra le fila nemiche e accerchiarle.
E mentre il polverone prodotto dallo scontro s’era fatto
visibile per gli abitanti di neapolis, distante circa otto miglia,
la morsa condotta dai soldati di tito Manlio andava a serrarsi
inesorabilmente sulle truppe isolane. Queste venivano decimate
con una velocità impressionante, e interi reparti oramai sfiniti
capitolavano davanti al nemico come il grano davanti al falcetto
del contadino. In realtà i legionari s’affaticavano non più nel
combattere quanto nel massacrare. E per quanto la controffensiva della cavalleria fosse ancora valida, lo scoramento s’andava
a infilare sempre più nell’animo di quei valorosi combattenti
isolani.
tito Manlio riuscì a individuare nella calca ampsicora che
duellava affiancato da Orkoco e da Menor, e ordinò a squarciagola a spurio arminio, il generale che gli era più appresso:
– Prendetelo, lo voglio vivo!
orkoco s’avvide in tempo che una cinquantina di cavalieri
s’erano già mossi verso di loro e almeno altrettanti s’apprestavano a seguirli. ampsicora si sentì afferrato per un braccio e
vide orkoco che lo esortava a seguirlo ai margini dello scontro.
Per quanto stupito di una siffatta scelta, decise di andargli dietro
traendosi appena in tempo dalla trappola tesagli dal nemico. da
un piccolo rialzo del terreno posto sul lato del luogo di battaglia,
si rese conto di quanto la battaglia fosse compromessa e di come
a quel punto fosse necessaria una ritirata.
il corno suonato da baalquim fu udito da tutti i guerrieri,
ma solo quelli baciati dalla fortuna riuscirono a trovare una via
di fuga.
La battaglia infuriava e la stanchezza si faceva dannatamente sentire, soprattutto sulle gambe dei sardi penalizzati da
186
In quel pomeriggio rovente, le unità della fanteria pesante
187
La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
della coalizione, per quanto avessero inferto pesanti perdite ai
romani, lasciarono sul terreno arido della pianura campidanese
una montagna di uomini.
La cavalleria sardo-punica non ebbe destino migliore, gli
scampati s’andavano ritrovando a drappelli nel luogo stabilito
preventivamente per un’eventuale ritirata. i romani, fatto insolito per la loro tattica militare, avevano rinunciato a inseguirli e
ciò era dovuto all’alto numero di prigionieri catturati. un buon
bottino di nemici da esibire a roma. con il valore aggiunto di
nomi quali: asdrubale il calvo, Magone di tharros, e adbacal
di othoca.
Ma tito Manlio era ossessionato dall’idea di catturare ampsicora vivo, per poterlo tradurre a roma in catene. Mancava
la preda più ambita, colui che aveva osato ribellarsi a roma
mettendosi a capo della coalizione.
un ghigno di soddisfazione lo pervase quando gli mostrarono il corpo esanime di iosto e, per fugare ogni dubbio sulla sua
reale identità, volle sentir ripetere da dieci diversi prigionieri
l’attestazione del riconoscimento.
alcuna pietà nei confronti del figliolo: – Me e solo me dovevate
prendere! – andava ripetendo a un cielo ricco di nuvole.
intanto gli si fecero intorno gli altri capi che cercavano in
tutti i modi di calmarlo.
– il nemico cerca in tutti i modi di destituirti dal compito
arduo che hai assunto – disse ithor nel maldestro tentativo di
catturare la sua attenzione.
E Honori aggiunse: – annuncia l’adunata, ampsicora, gli
uomini aspettano il tuo segnale per tornare a cornus e mettersi al sicuro. dobbiamo incolonnarci al più presto e prendere
vantaggio sui romani che non ci daranno tregua. con il fresco
della sera marceremo speditamente.
Ma non ottenne alcun risultato. una maschera amimica ingabbiava oramai ampsicora, che non rispondeva più ad alcuno.
Pensava solo a Iosto, al corpo del figliolo, laggiù da qualche
parte, che non poteva nemmeno stringere a sé.
Ellissa, prima di partire, glielo aveva affidato ma non era
riuscito a trattenerlo vicino a sé. reputava più giusto lasciargli la
sua autonomia, ma ora non era più possibile neppure recuperare
la salma. Lo esortavano in tutti i modi affinché salvasse Cornus
e i suoi abitanti. Già, e fra i suoi abitanti anche Ellissa, da informare, sostenendo l’impatto dei suoi grandi occhi, dicendole
che il suo ometto non c’era più. andava roteando nervosamente
fra le dita una moneta con l’effige di Iosto, quella che lui stesso
aveva voluto si coniasse per festeggiare l’ardua impresa del figlio per essersi contrapposto con successo ai romani, salvando
così cornus. rappresentava un modo per consegnare alla storia
quel gesto glorioso e rafforzare il passaggio delle consegne nel
comando della città, da padre a figlio. Ma gli dei, dopo avergli
fatto assaporare l’ebbrezza di quei momenti, gli somministravano l’amaro boccone di veder morire, contro natura, prima il
figlio. Ora che le sue aspettative erano state miseramente tarpate,
poteva solo stringere forte al petto quei pochi grammi di bronzo
freddo, con un’immagine consumata dall’averla troppo sfregata.
il principe di cornus, in compagnia dei capi dell’interno,
vedeva giungere i guerrieri trasfigurati dalla fatica e dalla sete.
alcuni, malconci sui destrieri, avevano avuto a malapena la
forza di trascinarsi fin lì e stramazzavano a terra senza avere più
fiato in gola. A capo chino cercavano un posticino all’ombra per
sfilarsi corazze, gambali e parastinchi. Nessuno aveva voglia di
parlare ma tanto meno il coraggio di rispondere alla domanda
che, sempre più nervosamente, andava ponendo ampsicora a
coloro che arrivavano: – avete visto iosto? avete sue notizie?
A un tratto comparve un ufficiale del battaglione sacro di
cartagine che, smontando da un cavallo terribilmente ferito vicino alla criniera, mise al corrente lo sventurato padre del destino
avverso. Piegato sulle ginocchia, con le braccia al cielo levò
il suo grido di dolore verso gli dei che non avevano mostrato
188
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La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
sentiva sempre più il battere del sangue alle tempie, e una
rabbia sorda a qualunque ragionamento costruttivo lo pervase.
Per tutto il viaggio di ritorno restò ammutolito scambiando
solo qualche fugace parola con ithor, nonostante egli si prodigasse continuamente nel tentativo di risollevare il morale del
condottiero.
di valido artigiano saprà aiutarti nel cercare di ricomporre i tuoi
pezzi, allontanando così da te lo scoramento.
– Jezbel cara, sei stata molto gentile ad accogliere la mia
richiesta nel venire a trovare un rottame quale sono diventato!
E la donna rispose: – non ho scordato la tua amorevole
presenza quando ho accompagnato i miei ragazzi nel loro ultimo
viaggio. Mi è stata di grande aiuto!
– Già, e ora mi potrai rendere il favore accompagnando
anche me al “campo degli dei”.
nonostante fosse distrutta nel suo intimo, Jezbel cercava di
tirare su il morale dell’amico in tutti i modi. E facendo luccicare
ancor più i suoi occhi, continuò: – ne abbiamo viste tante, ma
ancora la soddisfazione di veder rotolare i punici nella polvere
non l’abbiamo avuta e dobbiamo resistere. Porterò ogni giorno
delle offerte al tempio fintanto che non ti sarai ristabilito. Creerò
con le mie mani dei pani stupendi e li adornerò con la miglior
pintadera che posseggo.
Quindi, prima di accomiatarsi, gli asciugò il sudore che
dalla fronte scendeva in rivoli copiosi.
– È il caldo che m’opprime – andava giustificandosi lui
cercando di nascondere la forte emozione che gli aveva provocato il rivedere Jezbel.
Lo scoramento serpeggiava palese, sottolineato da alcune
fughe repentine poste in atto da guerrieri ormai folli di terrore.
sebbene quei comportamenti inneggiassero a un “rompete le
righe” generalizzato con il risultato finale di un “ognuno per
sé”, orkoco fu pronto a non lasciare degenerare le cose e anzi
esortò gli uomini affinché si potesse raggiungere quanto prima
cornus e lì tentare un’ultima resistenza. con i feriti disposti su
lettighe trainate dai cavalli, s’ingaggiò una gara contro il tempo
per non essere raggiunti dai romani.
nel campo di questi ultimi le grida di trionfo non si erano
ancora spente, quando tito Manlio dette ordine di dare una degna
sepoltura ai caduti prima del tramonto. Era stato scaltro a non
inseguire i nemici per finirli, sapeva che gli scampati erano solo
poche centinaia e che la partita finale doveva giocarsi a Cornus.
attese quindi per un giorno l’arrivo di viveri da Karales e
destinò un contingente di legionari come scorta ai prigionieri
verso il capoluogo, per dirigersi quindi a tappe forzate verso
cornus alla testa dei suoi uomini.
in quei giorni, Jezbel aveva fatto ritorno a cornus accogliendo la richiesta che le era stata inviata da cleon il vasaro,
il quale la supplicava di andare a trovarlo poiché era in punto
di morte. La malattia ai reni che da anni l’opprimeva gli aveva
lasciato oramai solo pochi giorni da vivere.
– amico caro, – gli disse nel rivederlo – possibile che sei
capace di presentarmi solo i tuoi cocci? Eh sì che la tua abilità
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La sera prima del loro rientro a cornus, gli scampati alla
battaglia con i romani s’erano radunati intorno ai fuochi, e i
loro visi apparivano ancor più grotteschi illuminati da quelle
fiammelle. Di tanti trepidanti momenti che avevano costellato
quell’amara guerra, pochi sorpassarono quella vigilia, che
rappresentava una circostanza di alta commozione. infatti,
nonostante i loro ranghi fossero stati decimati, molti di loro
il giorno dopo avrebbero potuto riabbracciare i propri cari.
E mentre nel podere dove s’erano fermati incominciavano i
preparativi per il pernottamento, nel loro animo serpeggiava
un’aria rabbiosa e scontenta.
191
La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
S’udivano ancora levarsi, ora di qua ora di là, imprecazioni
e grida infuriate ad accompagnare i racconti del vissuto durante
la battaglia. tutti sapevano bene che la ritirata era stata inevitabile ma aleggiava su di essi la vergogna di dover riconoscere
anche il fatto ch’era stato inevitabile pure il fuggire. serviva
dall’esterno una scossa, qualcosa che potesse sopraffare quella
sensazione di vergogna.
E ciò accadde incredibilmente quando videro ampsicora
che s’aggirava per i bivacchi fermandosi a parlare con gli uomini. si sarebbe detto che tutta quella massa fosse stata assalita
nell’intimo da quella presenza che gli andava ripetendo: – udite
fratelli, possiamo lasciare che l’onda distruttiva annienti anche
cornus e i suoi abitanti? Esiste un limite al suo raggio d’azione, c’è una roccia sulla quale andrà a infrangersi. Siamo noi
quella roccia!
E, come si sa, le tendenze che si manifestano in una persona
audace crescono sempre di intensità in una moltitudine.
nell’avvicinarsi al tetto natio, ampsicora aveva sviluppato
il senso di come, parimenti a quella forza fatale che via via cercava di schiacciarlo, nel suo intimo si accresceva e s’irrobustiva
la forza della vita che gli scorreva nelle vene.
andava su e giù scalzo e a dorso nudo cercando di raggiungere tutti gli uomini, talvolta si fermava per riprendere
fiato ma poi riprendeva con più veemenza: – In casa dei miei
genitori sono stato istruito a riconoscere la potenza degli dei che
ci comandano e a loro dobbiamo sottomissione e rispetto per
le prove a cui ci sottopongono. Quali possono essere le qualità
più gradite in noi umani dagli dei? senz’altro il coraggio della
sopportazione e il disprezzo della morte! il nostro posto è al di
sotto del volere degli dei, non si deve in alcun modo contendere
la loro autorità.
Mentre ithor lo raggiungeva per coprirlo con un mantello,
partì dagli uomini un fragoroso applauso che andò a contagiare
tutto il campo e il cui eco si diffuse per la campagna circostante.
sempre ithor lo invitò a raggiungere il bivacco dove si erano
radunati gli altri capi dell’interno. raggiuntili, orkoco rivolgendosi ad Ampsicora disse: – Ti ammiro per la capacità che
hai di riuscire a trasmettere i tuoi sentimenti a una moltitudine
d’uomini, amplificandoli a dismisura.
La sera andava a terminare e la notte indugiava ancora a
iniziare, annunciata però dai luccichii delle stelle sparsi qua e là
nel cielo. dietro le cime del Monteferro un bagliore simile a un
vasto incendio dilagava sempre più. Era il riverbero della luna
piena che sorgeva e reclamava il suo posto nella volta celeste.
reso rumoroso dal crepitio dei fuochi e dal vociare umano, quel grande bivacco si andava acquietando sempre più, e
il bagliore rossastro dei fuochi si stemperava a poco a poco
impallidendo.
192
il giorno seguente, sui campi bagnati dalla brina notturna,
furono radunati gli uomini e si riprese la marcia verso cornus.
nella cittadina s’aspettava con trepidazione l’arrivo di notizie
sull’esito della contesa e gli abitanti si riversarono sulle mura
in gran numero quando udirono i corni annunciare l’arrivo
dell’esercito. alcuni, lanciando grida concitate, gli andarono
incontro. anche Ellissa corse su per i bastioni e sulla sua bella
e ferma faccia traspariva appena la febbrile attesa che l’attanagliava nell’intimo. del subbuglio iniziale, con lo schiamazzo
dei cittadini che inneggiavano il rientro delle truppe, ben presto
rimase poco. infatti l’avanzare dei soldati veniva ora accompagnato da un silenzio irreale. s’era diffusa in un batter di ciglia la
notizia della disfatta, ed Ellissa, sempre avvolta da una profonda e irreprensibile convinzione che tutto sarebbe andato bene,
aggrottò gli occhi. Veder ingrandire la sagoma di ampsicora
mentre gli s’avvicinava fu per lei di grande conforto, ma non
bastava. cercava di individuare il viso di iosto.
riservò ad ampsicora un frugale abbraccio nell’andargli
incontro e gli chiese smaniosa: – dov’è iosto? come mai non
193
La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
è con te? Parla, parla alla svelta, non tenermi così in sospeso!
con la sua esperienza, ampsicora sapeva quale peso e tono
dare alle parole che stava per proferire, conscio peraltro degli
effetti che avrebbe causato.
– Ha versato il suo sangue per la libertà – disse.
nell’udire quelle parole, Ellissa sbiancò in viso e sentendosi mancare andò a rovinare con le ginocchia a terra, e
afferrandosi alle gambe del suo uomo gridò: – nooo! Quale
immane sventura si è abbattuta su di noi?
ampsicora avrebbe voluto dire qualcosa ma increspando
il viso lo raggrinzì in una smorfia di dolore e non riuscì ad
aggiungere altro. si limitò a rialzare Ellissa in lacrime e la
riaccompagnò a casa.
cora si levò la bandoliera a tracolla ove custodiva il suo pugnale
in bronzo a elsa gammata e lo poggiò a breve distanza da lui.
Non aveva trofei da offrire alle divinità, stavolta si presentava
lui personalmente innanzi a loro, e in segno di rispetto aveva
poggiato le proprie armi. inginocchiatosi, protese in avanti il
busto fino a toccare il marmo con i gomiti, e a capo chino iniziò
a pregare così: – Per la salvezza di questa città che amo, ho
intrapreso tale guerra, causando la perdita di molte vite, compresa quella di mio figlio! La mia audacia, il mio ardimento e
la mia iniziativa sono gli artefici di questi fatti. Consentite che
una zattera intraprenda il viaggio nel mare dei cieli facendo
giungere fino a voi il suo carico costituito dai miei errori!
il pomeriggio decise di andare al tempio per pregare di
persona le divinità. Voleva chiedere di cavar fuori Cornus, il
più presto possibile, da quella situazione senza scampo della
quale tutti, chi più chi meno, avevano sentore. Venne accolto
dal sommo sacerdote e, dopo essersi consultato con lui, fu
accompagnato verso l’ingresso del tempio: – Affinché Baal,
il misericordioso, possa ascoltare le tue suppliche – gli disse.
all’interno del tempio, ammantata di un grosso scialle,
Jezbel aveva appena terminato di offrire in dono i suoi pani alle
divinità, quando nell’uscire s’accorse dell’arrivo di Ampsicora.
Lesta come una volpe tornò rapidamente sui suoi passi, acquattandosi dietro una pila di ex-voto nei pressi del santa sanctorum.
da quel nascondiglio poteva veder bene l’intero ambiente del
tempio e quindi comportarsi di conseguenza, evitando soprattutto l’incontro diretto con il suo nemico di sempre. con passo
cadenzato, ampsicora s’andò a posizionare innanzi all’altare a
pochi passi da lei.
Questa collocazione non era stata premeditata e Jezbel
sentiva il suo cuore battere all’impazzata, cercando di ridurre
al minimo i respiri per non essere scoperta. a un tratto, ampsi194
Jezbel udiva appena quello che sommessamente e quasi
sottovoce andava biascicando commosso il condottiero, ma il
vederlo ai suoi piedi come per un sublime prodigio, fece rompere le dighe di contenzione di qualunque sua paura. col coraggio
di una leonessa, balzò fuori dal suo nascondiglio e afferrò con
piglio deciso il pugnale.
sorpreso da quei rumori inaspettati, ampsicora sollevando il busto, vide in viso Jezbel. dai suoi tratti traspariva una
tale espressione di odio e cattivo presagio che avrebbe potuto
oscurare il sole in una giornata priva di nubi.
Le si leggeva chiaramente tutto il dolore che aveva dovuto
sopportare da sola per anni, lontana da chi amava.
impegnando tutte le sue energie, e incanalandole sul braccio
destro che brandiva l’arma, proferì al suo nemico solo queste
poche parole: – Per baalquim – e così facendo piantò nel cuore
dell’odiato ampsicora la lama del pugnale.
Questi strabuzzò gli occhi e con un rantolo cadde a terra
bocconi, afferrando inutilmente il manico del pugnale.
Quale ambizione remota s’era appalesata! Quale immenso
potere l’aveva investita! colta da un turbine di emozioni che si
195
La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
era impossessato di lei, cercò di guadagnare l’uscita. giunta a
un’anta delle due grandi porte, sbirciò fuori e vide i guardiani
del tempio distanti, intenti a parlare di spalle. sgusciò lesta fuori
dal sacello, riuscendo a eludere la sorveglianza, guadagnando
velocemente la copertura di due grandi cespugli di lentischio
posti a poca distanza.
lucerne le disse: – So perché sei qui – e nel mentre la fissava
dalle orbite orrendamente incavate. – Fa’ presto allora e fallo
in maniera tale da non permettermi la benché minima possibilità
di ritorno!
Quasi sghignazzando si sentì rispondere: – La fiducia che
riponi in me non andrà delusa!
dopo aver dato ordine a un’ancella di porre un sacchetto di
monete nelle mani rinsecchite di oratanda, Ellissa s’accomiatò.
Rientrata furtivamente in città, riuscì a guadagnare la sua
camera e, ripensando alle parole dette a iosto, «il mio cuore batte
insieme al tuo», iniziò a indossare tutti i gioielli che possedeva.
sdraiatasi sul talamo prese a ingurgitare avidamente la porzione
e, chiudendo gli occhi, pensò solo di raggiungere rapidamente
i suoi cari nell’ade.
sollevando un braccio o inchinandosi a salutare, i guardiani
del tempio omaggiavano il passaggio di Mequim, sommo sacerdote. Questi, impensierito per il protrarsi a dismisura della
preghiera di ampsicora, non vedendolo, pensò di andargli incontro. Entrato nel sacello, nei pressi dell’altare-focolare, vide
la sagoma del guerriero riversa a terra. Pensò a un malessere
e, dopo essersi avvicinato, cercò di voltarlo. Ma, dopo esservi
riuscito, si ritrasse velocemente, gettando nel contempo un urlo.
non s’aspettava certo quella macabra scoperta.
– Quale destino avverso ci ha colpito! – balbettava. – Ha
voluto porgere agli dei il suo estremo sacrificio. S’è ucciso per
espiare chissà quali colpe commesse da lui o dai suoi avi! Non
avrei mai voluto che le cose andassero così! – e si commosse
al punto da non riuscire più a trattenere le lacrime.
La notizia si sparse per Cornus alla velocità della folgore.
il corpo esanime venne portato nel palazzo dove Ellissa, incespicando ripetutamente, andò incontro al suo uomo e, con le
mani tremanti, prese a carezzare il suo viso.
si ebbe appena il tempo di rendergli gli onori che meritava,
quand’ecco giungere il clamore delle truppe romane che davano
inizio all’assedio della città.
Quella sera stessa, approfittando della luna piena che rischiarava la notte, Ellissa riuscì a eludere la sorveglianza romana e si fece accompagnare da oratanda da due ancelle per
un percorso segreto.
Una volta raggiuntala, questa, illuminata da alcune flebili
196
il pendio scosceso che andava a cingere l’estremo baluardo
di cornus cercò di frapporsi alla bramosia romana e non da
meno fu l’ostinata opposizione prodotta dall’intera popolazione.
nessun biasimo dev’essere riversato su quei valorosi che
tentarono di difendersi con tutto quanto avevano a disposizione, foss’anco una lama da cucina per cercare di neutralizzare
l’usurpatore. Ma le cose andarono per il verso giusto solo ai
romani che, dopo tre giorni d’assedio, misero in scacco la città.
Quando entrò in città, Tito Manlio Torquato non s’aspettava certo d’essere informato, per voce di cassio ducio, che
ampsicora s’era tolto la vita. nell’apprendere tale avvenimento,
il condottiero si lasciò sfuggire un’esclamazione di disapprovazione: – Potenti Numi, mi togliete una grande possibilità!
sbaragliare i nemici senza il loro capo che sapore ha?
Ducio intervenne con tetra serietà: – Assaporare la gloria
è un dono divino che può essere servito in vario modo, mio
comandante. E, come ben sa, bisogna accettare le cose quali
sono e non come si vorrebbe che fossero!
197
La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
– Le sole conquiste che non lasciano amarezza nell’animo
sono quelle che si vincono combattendo faccia a faccia un valoroso nemico – ribatté burbero tito. – Qui corriamo il rischio
che si crei un mito! si può annientare un grande popolo ma non
si possono sradicare le sue credenze.
Detto ciò, si spinse con il cavallo fino alla sommità di un
bastione, da cui poter ammirare il panorama che si offriva ai
suoi occhi. di lì la vista poteva spaziare, a destra, sulle falesie
di Capo Nero fino all’estremità di Capo Caccia. A sinistra,
verso tharros oltre gli stagni, si ergevano le solenni scogliere
di capo Frasca. La fragranza marina mista alle essenze arboree gli s’infilava dritta su per le narici riuscendo a dargli una
sensazione da brivido.
assorto nel percepire quegli stimoli, venne raggiunto dal
generale Spurio Arminio che, strofinandosi le mani come un
ragazzino, disse: – è fatta, mio console, aspettiamo ora solo
un tuo ordine per radere al suolo la città.
– non lo faremo – disse con tono solenne Manlio, intendendo che, a dispetto di quanto veniva solitamente riservato a
una città ribelle, Cornus meritava altro. – È una roccaforte di
indubbio valore e senz’altro ci sarà di estrema utilità.
E continuò a rimanere ancora lì fermo per qualche attimo
guardandosi attorno.
tale danza pareva uno di quei giochi di bimba nei quali le piccole si divertono a prendere le prime vertigini.
– Ma come? come è possibile che innanzi alla rovina di
cornus tu ti diverta?
E Jezbel, radiosa, rispose: – è tanto che aspetto questo
momento! ampsicora ha ucciso il mio uomo, e anche i miei
figli si sono sacrificati per vendicare tale uccisione!
– Fammi capire – disse narna con gli occhi pieni di lacrime. – Hai impiegato tutta la tua vita per mantenere sempre
aperta quella ferita? La vendetta è un falso piacere, non ti
riporterà indietro le vite dei cari che hai perso! Ti ha condotto
a una cieca violenza attraverso attimi nei quali ti sei sentita
giustiziere, nei quali hai creduto che le tue sofferenze fossero
appagate. La vendetta spegne l’odio come l’acqua salata spegne
la sete. chiudi pure i tuoi occhi e continua a gioire girando.
Quando li riaprirai, io non ci sarò più, porterò altrove la mia
creatura. E allora, ti potresti accorgere di essere sola in una
landa devastata dal tuo odio.
Ma Jezbel pareva non ascoltarla più e continuava a roteare
battendo le mani.
Jezbel, nel rientrare a Macopsissa, mise al corrente narna
degli avvenimenti occorsi a cornus, omettendo volutamente
l’omicidio del suo nemico.
E fu sorprendente l’opposta reazione che ebbero le due
donne. narna, singhiozzando, andava ripetendo, mentre s’accarezzava l’enorme ventre: – oh dolce creatura, se avevi qualche
speranza di conoscere un giorno tuo padre, ora non l’hai più.
E i miei genitori qual sorte avranno subìto?
Ma a un certo punto rimase senza parole nell’osservare
Jezbel che, roteando le braccia intorno a sé, girava e rideva.
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La battaglia di Cornus
Verso Roma
Procedevano affiancati, Tito Manlio e il suo generale Spurio
arminio, tenendo al passo i cavalli. sopravanzavano una colonna
di ostaggi provenienti dalle città di Tharros e Othoca. Spurio
aveva una ferita sulla coscia sinistra che tardava a rimarginare
e gli procurava un fastidio ben visibile. La suppurazione era
sempre in agguato.
tito, con tono consolatorio, gli disse: – La nostra madrepatria è potente! Ma un tale appellativo esige degli oneri pesanti
a chi la serve. si deve dimostrare di essere all’altezza.
E l’altro: – Le azioni che abbiamo intrapreso hanno avuto
il giusto riconoscimento, abbiamo battuto ogni forza che ci si
era schierata contro e abbiamo raggiunto tutti gli obiettivi che
ci eravamo prefissati. Quello che ci ha tenuti uniti, mio duce,
è stato l’esempio del vostro agire. Mi ha sorpreso, vi debbo
confessare, come voi avete trattato quei miseri sufeti e quei
supplici nobili provenienti dalle città ribelli. La colonna di
ostaggi che abbiamo appena superato è la dimostrazione palese
della vostra clemenza!
– non mia, – lo interruppe tito – ma di roma! L’annientamento e la distruzione materiale delle città ribelli non avrebbero portato in questo caso a nulla. È stata ben più proficua la
promessa da parte di queste popolazioni di non ribellarsi più
all’autorità romana, con il vincolo di un solenne giuramento.
a garanzia di ciò sono stati inoltre costretti a consegnare in
ostaggio i cittadini più insigni. il diritto di guerra permette ai
vincitori di dominare i vinti a proprio piacimento! i sardi hanno
200
Pietro Scanu
voluto tentare la sorte in guerra, hanno combattuto lealmente
uscendone sconfitti. Questo li ha resi tributari di Roma, la
quale eserciterà il suo arbitrio e le imposizioni che riterrà di
applicare!
il giorno dopo, il condottiero veniva acclamato, nel suo
ingresso a Karales, dalle sue truppe al completo.
– Magnifico spettacolo quello offerto dalle tue truppe
nell’acclamarti – gli disse il pretore scevola accogliendolo con
un abbraccio che, nelle intenzioni doveva essere poderoso,
ma che in pratica lasciava trasparire le sue ormai flebili forze
fisiche. E continuando: – Per chi come noi si è fatto le ossa
combattendo nei più svariati campi di battaglia, quale migliore
ricompensa delle manifestazioni di stima e affetto di quegli
uomini che hai spremuto all’inverosimile durante il conflitto?
Uomini che, dal primo ufficiale all’ultimo pretoriano, hanno
saputo credere in te. Tale fiducia li ha resi incredibilmente
valorosi. sappiamo bene come alcuni nostri pari grado, al
contrario, non abbiano saputo infondere nelle truppe la giusta
carica, seminando una tale insicurezza che anche gli ufficiali, nel
segreto delle loro tende si lasciavano andare a pianti liberatori
e l’ingigantito pericolo faceva sì che in ogni angolo dell’accampamento si facessero testamenti. Vedo che arrossisci e non
voglio imbarazzarti ulteriormente. Presto sarai a roma ed essa
saprà ammantarti di giusta gloria!
Il tono malinconico e la sincerità dell’amico avevano
spiazzato tito Manlio che rispose: – ti ringrazio, amico caro!
come ben sai il trionfo che si riporta in un combattimento è in
rapporto al nemico che si batte. L’aver riportato una vittoria
sulle truppe sardo-puniche capeggiate dal valoroso principe
ampsicora, per la prima volta schierate in campo aperto,
assume per me un alto valore. Lascio qui due legioni affinché
l’eco delle gesta di quell’audace condottiero non inneschi altri
focolai di rivolta.
201
La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
ciò detto, seguirono i saluti di rito fra i due amici e il
console poté imbarcarsi alla volta di roma.
scHEda storica
il 20 agosto del 215 a.c. l’urbe festeggiava tito Manlio
torquato con un lungo corteo che dalla porta trionfale, in prossimità del Campo di Marte, procedeva sino al Campidoglio. I
trombettieri aprivano la sfilata seguiti da una serie di cartelli
indicanti il bottino dell’impresa e il numero dei prigionieri.
Venivano quindi i senatori che precedevano il cocchio del vincitore. Quest’ultimo era trainato da quattro splendidi cavalli e,
sopra di esso, tito appariva con il viso truccato di rosso a simboleggiare giove. Era abbigliato, come da tradizione, con una
tunica color porpora a bordatura dorata, e nella mano sinistra
stringeva un ramo d’alloro.
Un sudatissimo attendente al suo fianco aveva il compito
di reggergli una corona d’oro sul capo e di ripetergli una giaculatoria per tutto il tragitto: «ricordati di non essere un dio!».
«Uno Stato può spezzare,
o venire spezzato,
un popolo sopravviverà.»
theoDor heuS
202
La particolare disposizione nel Mediterraneo della sardegna, unita ad
altre caratteristiche dell’isola, quali un clima particolarmente temperato e le risorse naturali, hanno rappresentato da sempre un irresistibile
richiamo per varie popolazioni verso la sua colonizzazione.
Le due grandi potenze del Mediterraneo occidentale – roma e
cartagine – se la contesero per lungo tempo. nel 215 a.c. la sardegna era diventata provincia romana, sottratta a cartagine dodici anni
prima. Titio Livio, il maggior storico dell’età imperiale, descrive così
la situazione del periodo: «i sardi erano ormai stanchi del prolungarsi del dominio romano e poiché nell’anno precedente erano stati
governati duramente ed esosamente, oppressi da gravose tassazioni e
da inique prestazioni di grano, mancava solo un capo che prendesse
l’iniziativa e al quale potessero affidarsi tutto ciò che fu apportato
per particolare interessamento di un tale Hampsicora, ch’era allora
di gran lunga il più imminente per autorevolezza e per mezzi» (Livio
XXiii, 32 5-12).
contemporaneamente roma era tenuta sotto scacco da annibale
che, calato in italia con i suoi elefanti e attestatosi a sud della capitale, aspettava il momento favorevole per colpire mortalmente la sua
nemica. in terra sarda, l’equilibrio precario imposto dalla presenza
di una legione romana a Karales, non bastò certo a impedire il dilagare delle rivolte capeggiate dalle popolazioni dell’interno e sobillate
peraltro dalla continua presenza di spie e mercanti cartaginesi. Ecco
quindi emergere la figura di Ampsicora di Cornus, personaggio dotato di grande carisma e dalle indubbie capacità di comando. Seppe
organizzare intorno alla città di Cornus, posta in posizione strategica
al centro del versante occidentale dell’isola, una valida resistenza al
predominio romano. In tale progetto coinvolse il figlio Iosto e, tramite
un’ambasceria a cartagine, si fece inviare un esercito da unire poi
sapientemente ai sardi dell’interno e alle altre città ribelli.
203
La battaglia di Cornus
Pietro Scanu
La parabola del suo agire sarà costellata da alterne fortune sia
dal punto di vista militare che nella vita privata. Le sorti di cornus
saranno indissolubilmente legate al destino del suo condottiero, al
suo contrastare le mire espansionistiche di Roma, alla tragica fine di
iosto e al mistero del suo suicidio.
I luoghi del romanzo
204
cartagine fu la più fiorente e famosa delle colonie fenicie, fondata
dagli abitanti di Tiro verso la fine
del iX sec. a.c. sull’odierno golfo
di tunisi. Verso il Vi sec. a.c. divenne una potenza marinara e commerciale arrestando l’espansione
greca nel Mediterraneo occidentale. dopo la battaglia di alalia in
corsica (540 a.c. circa), combattuta fra i cartaginesi e gli etruschi
contro i focesi, cartagine ottenne
la sardegna, la sicilia orientale e
l’Iberia. La fortuna della cittàstato
fu in gran parte dovuta sua potente flotta. Nel periodo di massimo
splendore arrivò a contare 400.000
abitanti. Venne distrutta nel 146
a.c. da Publio cornelio scipione
in seguito alla terza guerra Punica.
cronologia
264-241 a.C. Prima guerra Punica. roma e cartagine combatterono
aspramente per 23 anni. Prevalse roma, che tolse a cartagine la
supremazia sul Mediterraneo.
241-237 a.C. Dopo le pesanti imposizioni inflitte da Roma, Cartagine si trovò finanziariamente al collasso e non potè pagare i suoi
mercenari. Questi, capeggiati da spello e Matho, si ribellarono in
africa e in sardegna. nell’isola i ribelli misero a morte bostarte,
comandante della guarnigione cartaginese.
235 a.C. il console tito Manlio torquato fu inviato in sardegna per
sedare dei focolai di rivolta innescati dai cartaginesi, riportando
una serie di vittorie. con il trattato fra cartagine e roma, la sardegna passa sotto la sfera d’influenza romana.
227 a.C. Proclamazione della provincia romana di sardegna e corsica.
218 a.C. inizio della seconda guerra Punica. cartagine cerca un
riscatto per la sconfitta subita e la perdita di importanti territori
quali la sicilia, la sardegna e la corsica. Fu inviato annibale
in italia con un grande esercito, rinforzato dalla presenza degli
elefanti. Valicate le Alpi, il condottiero punico infligge una serie
di pesanti sconfitte all’esercito romano: prima sul Ticino, poi sul
trebbia e sul trasimeno.
217 a.C. nomina del pretore a. cornelio Mamulla governatore della
sardegna.
216 a.C. Annibale dimostra grandi capacità di stratega, riuscendo
ad accerchiare i romani a canne. tale battaglia è ancora studiata
come esempio di vittoria totale. il senato di roma riceve dal
Pretore della sardegna la richiesta d’aiuto per i moti di ribellione
che avvampano nell’isola.
215 a.C. (primavera) un’ambasceria di principi sardi si reca a car205
La battaglia di Cornus
tagine per chiedere un intervento armato in sardegna. scambio di
consegne fra i pretori romani in sardegna, Mamulla cede i poteri
a Muzio scevola.
(giugno) tito Manlio torquato a capo di una legione viene mandato in sardegna per sedare la rivolta. Quest’ultima è capeggiata
da Ampsicora di Cornus, il quale si recherà dalle popolazioni del
Montiferru e del Marghine-goceano per chiedere il loro aiuto.
(luglio) Iosto, il figlio di Ampsicora, si scontra a breve distanza
da cornus con l’esercito romano, in assenza del padre e dei rinforzi cartaginesi. Questi ultimi, comandati da asdrubale il calvo,
vengono spinti da una tempesta sulle baleari, costringendoli a una
sosta forzata per le riparazioni.
(agosto) Scontro finale fra l’esercito sardopunico e quello romano nel Medio-campidano. dopo un aspro combattimento i sardi
vengono sconfitti e Iosto perde la vita sul campo di battaglia.
ampsicora con gli scampati fugge a cornus. Viene diffusa la
notizia del suicidio di ampsicora. cornus viene cinta d’assedio
dalle truppe di tito Manlio e dopo una valorosa resistenza cade
in mano romana.
La flotta cartaginese, mentre ritorna in patria, viene intercettata
da tito octacilio crasso che nello scontro riesce ad affondare
sette navi.
215-206 a.C. Permangono di stanza in sardegna due legioni romane
come baluardo contro eventuali nuove rivolte.
cornuS. La sua fondazione viene fatta risalire al Vi sec. a.c. quando
i fenici vi si insediarono. il sito aveva le caratteristiche richieste dai
Phoinikes per i loro insediamenti, posti alla foce di fiumi e protetti da
scogli antistanti il litorale. si estendeva per una dozzina di ettari su
un altipiano prospicente il mare ai piedi della catena del Montiferru.
Venne militarizzata da cartagine e dotata di possenti mura. Vi si
poteva accedere tramite tre accessi: uno a nord, uno a sud-est e un
altro a nord-ovest. L’area insediativa, posta sul pianoro di Campu ‘e
Corra, era collegata da uno stretto lembo di terra alla collinetta di
Corchinas. Sulla sommità di quest’ultima era stata collocata l’acropoli.
attualmente ricade nel territorio di cuglieri in provincia di oristano, fra le borgate marine di S’Archittu e Torre del Pozzo.
206
Pietro Scanu
ringraZiaMEnti
Per poter scrivere un’opera ambientata nella seconda guerra Punica
e in particolare a cornus, devo molto agli storici del passato più o
meno recente e agli studiosi del presente.
il prof. raimondo Zucca, oltre ad aver dato un enorme contributo
con i suoi saggi sull’argomento, ha superato se stesso con il saggio
“gvrvliS nova”, ove si scorge l’amore profondo che nutre per tale zona.
grazie, ben oltre il dovere formale, al prof. attilio Mastino, Magnifico Rettore dell’Università di Sassari che, oltre ad aver prodotto
un’enorme mole di studi sull’argomento, mi ha fornito indispensabili
consigli per la stesura del testo.
Profonda riconoscenza per i prof.ri aicha ben abed del Musée
Nationale du Bardo e abdel Majid Ennabli del Musée de Carthage
per il loro contributo.
ringrazio la soprintendenza per i beni archeologici delle provincie
di Cagliari e Oristano nella figura del dott. Marco Edoardo Minoia,
per la disponibilità e la gentilezza. La d.ssa Maria Grazia Mundula,
direttrice della biblioteca della soprintendenza, per avermi permesso
l’accesso alla consultazione dei testi con preziosi consigli e il dott.
salvatore cusseddu e la d.ssa donatella cocco del Museo archeologico di cagliari.
attestazione di riconoscenza va al dott. salvatore de Vincenzo,
archeologo e direttore degli scavi sull’acropoli di corchinas a cornus.
con ineffabile garbo mi ha fatto vivere gli emozionanti momenti degli
scavi sul sito arricchendoli con dovizia di particolari.
Menzione particolare merita il dott. andrea Loche, sindaco di
cuglieri, per l’impegno profuso nel cercare di donare a cornus il
prestigio che le compete. un grazie di cuore al caro amico dott.
tonino oppes, insigne giornalista e scrittore, per la maestria con la
quale mi ha saputo spronare nell’affrontare quest’impresa.
Infine, devo molto al contributo dalla casa editrice Condaghes per
la realizzazione di quest’opera.
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La battaglia di Cornus
In questa collana:
1) Antonello Pellegrino, Bronzo;
2) Antonio Diego Manca, La donna delle sette fonti;
3) Augusto Secchi, Vicolo Rosso;
4) Andrea Pala, L’isola dei Nur;
5) Gianfranco Pintore, Il grande inganno;
6) Pietro Scanu, La battaglia di Cornus.
Finito di stampare nel mese di febbraio 2012 dalla
Tipografia “Solter” – viale Monastir, km. 4,800 – 09122 Cagliari
Grafica ed elaborazione a cura di Sardinia MultiMedia – Cagliari
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