Domenico Guzzo
Storico dell'età contemporanea, saggista, formatore, docente, documentarista.
Docente di "Violenza Politica e Terrorismo", di "Storia Internazionale dell'età contemporanea" (Corso di Laurea in Scienze Internazionali e Diplomatiche, Università di Bologna - Campus di Forlì), del Laboratorio di Documentazione Storico-Sociale (Corso di Laurea in Sociologia, Università di Bologna - Campus di Forlì)
Direttore dell'Istituto per la Storia della Resistenza e dell'età contemporanea di Forlì-Cesena
Consigliere scientifico e coordinatore delle attività di ricerca e formazione della Fondazione Roberto Ruffilli
Direttore del Portale didattico www.ladigacivile.eu
Membre Associé del Laboratorio LUHCIE dell'Università Grenoble Alpes
Tutor didattico
Docente di "Violenza Politica e Terrorismo", di "Storia Internazionale dell'età contemporanea" (Corso di Laurea in Scienze Internazionali e Diplomatiche, Università di Bologna - Campus di Forlì), del Laboratorio di Documentazione Storico-Sociale (Corso di Laurea in Sociologia, Università di Bologna - Campus di Forlì)
Direttore dell'Istituto per la Storia della Resistenza e dell'età contemporanea di Forlì-Cesena
Consigliere scientifico e coordinatore delle attività di ricerca e formazione della Fondazione Roberto Ruffilli
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Papers by Domenico Guzzo
Va in effetti detto come, venute meno le pressioni e le gabbie ideologiche sostenute dalla temperie della guerra fredda, la comunità degli studiosi italiani abbia finalmente preso l’impegno d’iniziare a rischiarare – con rigore metodologico – tali processi e tali relazioni neglette.
Il percorso monografico che s’intende qui presentare tenta di fornire un piccolo contributo in questa direzione, focalizzandosi sugli ambienti, i brodi di coltura e le vasche di esercizio (le cosiddette “corruttele”), di alcune emblematiche espressioni della corruzione (concepita nella sua accezione più larga di “necrosi”) nella storia contemporanea d’Italia, senza lesinare alcuni “sguardi allo specchio”, mediati dal mondo transalpino, autentico confratello latino.
Va in effetti detto come, venute meno le pressioni e le gabbie ideologiche sostenute dalla temperie della guerra fredda, la comunità degli studiosi italiani abbia finalmente preso l’impegno d’iniziare a rischiarare – con rigore metodologico – tali processi e tali relazioni neglette.
Il percorso monografico che s’intende qui presentare tenta di fornire un piccolo contributo in questa direzione, focalizzandosi sugli ambienti, i brodi di coltura e le vasche di esercizio (le cosiddette “corruttele”), di alcune emblematiche espressioni della corruzione (concepita nella sua accezione più larga di “necrosi”) nella storia contemporanea d’Italia, senza lesinare alcuni “sguardi allo specchio”, mediati dal mondo transalpino, autentico confratello latino.
primissimo dopoguerra esprime tutte le peculiarità della
piazza romagnola rispetto all’emergere nazionale del fenomeno
fascista. Vi si nota, innanzitutto, la particolare capacità
di resilienza delle famiglie ideologico-partitiche prebelliche,
che si associa alla contestuale difficoltà di radicamento
dei fasci locali (fondati a Cesena e Forlì solo tra il febbraio
e il marzo 1921, ma rimasti poi a lungo ancillari alle
squadre ravennati e bolognesi). E questo a totale dispetto
dell’origine forlivese di Benito Mussolini. Un secondo punto
di distinzione è rappresentato dalla straordinaria tenuta
dell’egemonia repubblicana sui centri maggiori della provincia:
una supremazia che, pur tra mille contraddizioni,
continuerà addirittura sino alle elezioni politiche del 1924.
In siffatta situazione, il fascismo locale si ritroverà privo
– almeno fino a quando, nel 1926, un decreto prefettizio
scioglierà l’Associazione combattenti di Forlì e decreterà il
confino milanese del suo presidente, il repubblicano Aldo
Spallicci – di una effettiva legittimazione rispetto all’eredità
della “trincea” e della “Vittoria”. Va detto, infine, come,
nella vecchia provincia forlivese, l’innesco della violenza
politica insistette solo tangenzialmente sulla “questione
agraria” o sul mito della “ondata bolscevica”, concentrandosi
piuttosto su una competizione armata di idee esclusive
di Rivoluzione, volte a determinare istanze locali di un nuovo
“potere costituente”, da erigere sulle rovine di un marcescente
“ordine costituito” liberal-monarchico. In termini
essenziali, si trattò dunque di uno scontro dai connotati
fortemente figurativi, tra una Rivoluzione Rossa (nelle sue
258
Le origini del fascismo in Emilia-Romagna 1919-1922
due accezioni, socialista e comunista) e una Rivoluzione
Repubblicana; mentre sullo sfondo lontano, iniziavano a
farsi sentire gli echi della sedicente Rivoluzione fascista.
Da qui anche il dato eccezionale di una violenza politica di
scarsa produttività materiale (il numero delle spedizioni armate,
delle devastazioni, dei feriti e dei morti, tra il 1919 e
il 1922, resta tra i più bassi del Paese, malgrado l’altissima
politicizzazione del territorio e la diffusa propensione popolare
alla rivolta e allo scontro fisico), che si caratterizza
invece per l’elevata carica simbolico-dimostrativa, nel quadro
della quale l’affermazione del principio ideologico prevalse
sulla rideterminazione degli assetti socioeconomici.
1973 – operazione di terrorismo internazionale ascrivibile
al più generale scontro arabo-israeliano che, con i suoi 34
morti e 15 feriti, investe la penisola solo per ragioni di congiuntura
logistica –, l’attentato contro il treno Italicus resta la più grave strage “domestica” degli interi anni Settanta, ovvero del decennio più tormentato dalla violenza politica nella storia dell’Italia repubblicana.
Malgrado si tratti anche dell’ultimo clamoroso atto di quella
atroce dinamica anticostituzionale – apertasi con la bomba di
piazza Fontana e la seguente “intentona” di Junio Valerio Borghese
– che al massacro indiscriminato accompagnava la prefigurazione
putchista (pur fra mille rilievi, il cosiddetto Golpe
Bianco era stato predisposto per il 10 agosto 1974), la vicenda
di San Benedetto Val di Sambro ha scontato sin da subito un
grave deficit di attenzione pubblica, riverberatosi poi in inconcludenze
giudiziarie e marginalizzazioni storiografiche. E, al di
là di peculiari debolezze “endogene” nella promozione memoriale,
una delle ragioni fondamentali di tale derubricazione sta sicuramente nella «liminalità ontologica» – l’essere di confine in
termini temporali e fenomenologici – della strage dell’Italicus,
la cui orribile occorrenza si ritrova schiacciata nel passaggio
epocale tra fase eversiva (strategia della tensione) e sovversiva
(attacco al cuore dello Stato) della violenza terroristica collateralmente
iscritta nel lungo Sessantotto italiano.
within a smaller pseudo-State named Repubblica Sociale Italiana (RSI)
subject to Nazi occupation in northern Italy – gave the “historical” antifascists the status of “founding fathers” of democratic Italy. A much more thorny and ambiguous situation, was faced by those who had decided, or had been forced, to break with Mussolini after the Ordine Grandi reversals (25 July 1943) and the Armistice (8 September 1943). This was especially complex for the “blackshirt” elite, composed by men who had pursued careers up to the top of the regime’s hierarchy at the totalitarian turning point of late 1930s (pro-Hitler, racist, anti-Semitic, imperialist, belligerent), contributing to legitimate those “irrevocable decisions” on authoritarian censorship, social eugenics, war and persecution. Having fallen in a matter of weeks, for various reasons, from top positions in the Axis system to the status of “traitorous enemies” of the RSI, these seriously compromised figures were turned into a composite diaspora of “humanitarian refugees” – as they had often been sentenced to death in absentia – who staged daring escapes from the only intact and neutral institutions at the country’s legal borders: the Vatican and, primarily, Switzerland.
A considerable amount of ink has been shed on the reasons that led
Switzerland (who run the perilous risk of barricaded neutrality in the midst of Stated controlled by Nazifascism) to act as a refuge for dissidents from the Axis, while maintaining close economic ties with the two dictatorships. Moreover, many studies have assessed the anthropological and political path of Italian fuoriuscitismo, grafted onto the “democratic laboratory” that liberal Swiss hospitality offered European post-war destinies. Nevertheless, the ambiguous and tormented relationship of this particular group of last minute “renegades” – moved by opportunism, necessity or voluntary rehabilitation – with the “Second Risorgimento” (as two prestigious anti-fascist refugees, Ettore Janni and Luigi Einaudi, defined the fight for the democratic rebirth of the Italian nation), has remained substantially overshadowed by the dazzling profiles of the more coherent and topical Resistance figures.
Yet, this may not only throw light on Bern’s actual stance about the
Axis’ southern front, namely the RSI (through the management of the
Alpine border), but also articulate and restore its problematic complexity
to the form taken by the Italian Republic’s new institutional and moral
course in the Cold War context, between authoritarian legacies and
pluralistic modernity. This exile and political reconfiguration process – from which some of the greatest figures of democratic Italy were to emerge – being intersected with the remnants of the small “Swiss Fascism” adventure , the reactionary demands of “Helvetian spiritualism” , the embryonic drives of the Western anti-communist, the revival of liberal and Christian democratic ideologies from the ashes of “black” corporatism, the “justificatory” minimizations and psychological rationalizations used to excuse a personal involvement within the Steel Pact , the desperate necessity to save a national spirit from the slaughterhouse of Mussolinian chauvinism.
Three of the many Swiss experiences can shed considerable light on
the fundamental attributes of the Italian elite’s belated and controversial
transition beyond Fascism: those of Amintore Fanfani, Giuseppe
Bastianini and Dino Alfieri.
segno concettuale – come tra l’uscita del film Il Boom (regia di Vittorio De Sica su sceneggiatura di Cesare Zavattini) e il chiudersi del
“miracolo economico” italiano nel 1963, appena avanti che la prima congiuntura recessiva del dopoguerra (un balzo improvviso di
inflazione e disoccupazione, associato ad una cospicua perdita di redditività industriale) venisse a spezzare le magnifiche sorti e
progressive dettate dall’impressionante impennata di PIL e fattori produttivi registratesi dal 1957.
Difatti, se già La Dolce Vita di Federico Fellini (1960) e Il Sorpasso di Dino Risi (1962) avevano osato strumentalizzare tutta
l’abbacinante luce della nascente società dei consumi, per evidenziare i crescenti coni d’ombra di una folata modernizzatrice
largamente diseguale, troppo fideistica e al fondo incontrollata, tra le pellicole coeve al “miracolo” è solo Il Boom ad incaricarsi di un
processo ad alzo zero, privo di qualsiasi attenuante emozionale o di tragica fatalità: non c’è alcuna ottundente contorsione sentimentale
(interpretata dall’irrisolto paparazzo Marcello/ Mastroianni) o popolana euforia godereccia (trasfigurata dallo scomposto menefreghismo
edonista di Bruno Cortona/Vittorio Gassman) a giustificare in qualche modo il fascino discreto di un miracolo materialistico, che pareva
germinare proprio per redimere le miserie, i dolori, gli strascichi della guerra. Nel Giovanni Alberti di Alberto Sordi, invece, ogni
possibile “variabile” vitalistica ha ormai ceduto il passo alla mera “costante” della tigna, della feroce voluttà di uno status sociale che
non ha più legami organici con l’economia reale o la nobiltà d’animo, perché completamente sussunto dall’eterea consistenza
dell’apparenza oltremodo benestante, peraltro stereotipata dalle iconografie mass-mediali del self made man, arrivato e dunque
“giustamente” invidiato.
Terminato il processo, Il Boom emette la sua sentenza: il vero miracolo è stato affare elitario, non della massa che – parafrasando
quanto verseggerà un decennio più tardi Lucio Dalla – è stata solo «per un attimo innalzata ad un ruolo difficile da mantenere» per poi
essere «lasciata cadere, a piangere e a urlare», scoprendosi infine meno povera, ma sicuramente più superficiale e rancorosa.
La selezione antologica che qui si propone è sta- ta operata secondo un criterio filologico volto a restituire un affresco del clima di sfaccettata - e spesso controversa, se non contraddittoria - conflittualità avvolgente l’imposizione del fascismo nella città mercuriale, terra d’origine del futuro Duce. Si è inteso porre in evidenzia l’evolvere del pensiero e delle posizioni dei principali attori socio-politici attivi nell’arena cittadina, attraverso il concretarsi dei tornanti e delle cesure storiche che marcano l’autoritaria normalizzazione post- bellica.
I primi due periranno nel primo disastro aereo dell'aviazione civile italiana (Verona, 2 agosto 1919), in un volo a/r da Milano a Venezia, organizzato da Tullo e pilotato da Luigi; Manlio morirà suicida nella notte del 25 luglio 1943, sconvolto dalla notizia della deposizione di Benito Mussolini dal comando del Paese.
In base alla legislazione vigente, risalente al “Codice Rocco” di epoca mussoliniana, sia il redattore Renzi che il direttore responsabile della testata, Guido Aristarco, si ritrovano accusati di «vilipendio delle forze armate» e finiscono in carcere, attendendo di venir processati da un tribunale militare. La loro pesante condanna – 8 mesi a Renzi e 4 ad Aristarco – fa però scoppiare una vasta mobilitazione d’opinione che spinge infine le autorità giudiziarie ad annullare, dopo quaranta giorni nel penitenziario di Peschiera del Garda, la pena; preparando altresì il terreno per una modifica in chiave de-fascistizzante del codice penale: nel 1957, infatti, verrà revocata la giurisdizione della magistratura militare sui reati di vilipendio.
Per curiosa concomitanza storica, Renzo Renzi e – con ben più alta esposizione mediatica – Guido Aristarco si ritrovano così a chiudere simbolicamente i postumi di quello stesso processo di demistificazione comunicazionale che li aveva visti sottoscrittori esattamente un decennio addietro e che aveva contribuito, fra le molteplici istanze di fronda e di critica eretica germinate sotto l’eccentrico cappello del dicastero Bottai all’Educazione Nazionale, a far cortocircuitare la pretesa monistica, esteriorizzante ed eugenetica della cultura fascista, proprio nella fase in cui il regime tentava lo scatto decisivo verso l’impianto totalitario.
In effetti Aristarco – che sin dai primissimi anni Cinquanta si era avvicinato a posizioni d’estetica “lukácsiana” e che aveva fondato “Cinema Nuovo” nel dicembre 1952 dopo esser stato “dimissionato” da caporedattore di “Cinema” per aver difeso la pellicola (tardo)neorealista Umberto D. dagli obliqui strali del già potentissimo Giulio Andreotti, in quel frangente sottosegretario della Presidenza del Consiglio con delega allo Spettacolo – era stato nel gennaio 1943 curatore con Fernaldo Di Giammatteo di un numero monografico speciale che aveva clamorosamente abiurato, dall’interno della koiné littoria, la mitopoiesi integralista di un «cinema in camicia nera».
In questo senso, il caso de L’Armata s’Agapò si pone come il completamento morale di una decennale campagna d’emancipazione della “settima arte” italiana – ben inteso, solo una delle molteplici, e spesso concorrenti, che ne hanno innervato la strutturazione teorica e compositiva lungo la prima metà del Novecento – volta a liberare l’autorialità registica ed attoriale dai catafalchi dell’e- pica e dell’escapismo (propri della produzione del Ventennio), mantenendola comunque capace di elaborare “politicamente” – senza riduzionismi veristi e cronache documentarie – la carne viva della coesistenza umana.
Il fascicolo d’inizio 1943 s’intitolava evocativamente Invito alle immagini ed apparteneva alla rivista “Pattuglia”, «mensile di politica arti lettere del Guf di Forlì», che in virtù di tale peculiare radicamento editoriale poteva godere di una straordinaria risonanza su scala nazionale. Non determinata solo dal muovere dalla “città del duce” – peraltro priva di sede universitaria – ma anche e soprattutto dalla capacità unica di agglutinare sinergicamente il forgiarsi intellettuale della “migliore gioventù” della nazione fascista selezionata dai Littoriali della Cultura e dell’Arte (istituiti nell’aprile 1934).
Il dileggio fisico, lessicale e comportamentale – tirato fino al limite del demenziale – è in effetti la cifra distintiva di questa pellicola, che risponde in qualche modo al frustrato afflato progressista degli autori, ed al loro correlato bisogno di restituire alle élites dirigenti almeno una quota simbolica del fango in cui esse suppostamente hanno impaludato il Paese.
Va in effetti detto come, venute meno le pressioni e le gabbie ideologiche sostenute dalla temperie della guerra fredda, la comunità degli studiosi italiani abbia finalmente preso l’impegno d’iniziare a rischiarare – con rigore metodologico – tali processi e tali relazioni neglette.
Il percorso monografico che s’intende qui presentare tenta di fornire un piccolo contributo in questa direzione, focalizzandosi sugli ambienti, i brodi di coltura e le vasche di esercizio (le cosiddette “corruttele”), di alcune emblematiche espressioni della corruzione (concepita nella sua accezione più larga di “necrosi”) nella storia contemporanea d’Italia, senza lesinare alcuni “sguardi allo specchio”, mediati dal mondo transalpino, autentico confratello latino.
Va in effetti detto come, venute meno le pressioni e le gabbie ideologiche sostenute dalla temperie della guerra fredda, la comunità degli studiosi italiani abbia finalmente preso l’impegno d’iniziare a rischiarare – con rigore metodologico – tali processi e tali relazioni neglette.
Il percorso monografico che s’intende qui presentare tenta di fornire un piccolo contributo in questa direzione, focalizzandosi sugli ambienti, i brodi di coltura e le vasche di esercizio (le cosiddette “corruttele”), di alcune emblematiche espressioni della corruzione (concepita nella sua accezione più larga di “necrosi”) nella storia contemporanea d’Italia, senza lesinare alcuni “sguardi allo specchio”, mediati dal mondo transalpino, autentico confratello latino.
primissimo dopoguerra esprime tutte le peculiarità della
piazza romagnola rispetto all’emergere nazionale del fenomeno
fascista. Vi si nota, innanzitutto, la particolare capacità
di resilienza delle famiglie ideologico-partitiche prebelliche,
che si associa alla contestuale difficoltà di radicamento
dei fasci locali (fondati a Cesena e Forlì solo tra il febbraio
e il marzo 1921, ma rimasti poi a lungo ancillari alle
squadre ravennati e bolognesi). E questo a totale dispetto
dell’origine forlivese di Benito Mussolini. Un secondo punto
di distinzione è rappresentato dalla straordinaria tenuta
dell’egemonia repubblicana sui centri maggiori della provincia:
una supremazia che, pur tra mille contraddizioni,
continuerà addirittura sino alle elezioni politiche del 1924.
In siffatta situazione, il fascismo locale si ritroverà privo
– almeno fino a quando, nel 1926, un decreto prefettizio
scioglierà l’Associazione combattenti di Forlì e decreterà il
confino milanese del suo presidente, il repubblicano Aldo
Spallicci – di una effettiva legittimazione rispetto all’eredità
della “trincea” e della “Vittoria”. Va detto, infine, come,
nella vecchia provincia forlivese, l’innesco della violenza
politica insistette solo tangenzialmente sulla “questione
agraria” o sul mito della “ondata bolscevica”, concentrandosi
piuttosto su una competizione armata di idee esclusive
di Rivoluzione, volte a determinare istanze locali di un nuovo
“potere costituente”, da erigere sulle rovine di un marcescente
“ordine costituito” liberal-monarchico. In termini
essenziali, si trattò dunque di uno scontro dai connotati
fortemente figurativi, tra una Rivoluzione Rossa (nelle sue
258
Le origini del fascismo in Emilia-Romagna 1919-1922
due accezioni, socialista e comunista) e una Rivoluzione
Repubblicana; mentre sullo sfondo lontano, iniziavano a
farsi sentire gli echi della sedicente Rivoluzione fascista.
Da qui anche il dato eccezionale di una violenza politica di
scarsa produttività materiale (il numero delle spedizioni armate,
delle devastazioni, dei feriti e dei morti, tra il 1919 e
il 1922, resta tra i più bassi del Paese, malgrado l’altissima
politicizzazione del territorio e la diffusa propensione popolare
alla rivolta e allo scontro fisico), che si caratterizza
invece per l’elevata carica simbolico-dimostrativa, nel quadro
della quale l’affermazione del principio ideologico prevalse
sulla rideterminazione degli assetti socioeconomici.
1973 – operazione di terrorismo internazionale ascrivibile
al più generale scontro arabo-israeliano che, con i suoi 34
morti e 15 feriti, investe la penisola solo per ragioni di congiuntura
logistica –, l’attentato contro il treno Italicus resta la più grave strage “domestica” degli interi anni Settanta, ovvero del decennio più tormentato dalla violenza politica nella storia dell’Italia repubblicana.
Malgrado si tratti anche dell’ultimo clamoroso atto di quella
atroce dinamica anticostituzionale – apertasi con la bomba di
piazza Fontana e la seguente “intentona” di Junio Valerio Borghese
– che al massacro indiscriminato accompagnava la prefigurazione
putchista (pur fra mille rilievi, il cosiddetto Golpe
Bianco era stato predisposto per il 10 agosto 1974), la vicenda
di San Benedetto Val di Sambro ha scontato sin da subito un
grave deficit di attenzione pubblica, riverberatosi poi in inconcludenze
giudiziarie e marginalizzazioni storiografiche. E, al di
là di peculiari debolezze “endogene” nella promozione memoriale,
una delle ragioni fondamentali di tale derubricazione sta sicuramente nella «liminalità ontologica» – l’essere di confine in
termini temporali e fenomenologici – della strage dell’Italicus,
la cui orribile occorrenza si ritrova schiacciata nel passaggio
epocale tra fase eversiva (strategia della tensione) e sovversiva
(attacco al cuore dello Stato) della violenza terroristica collateralmente
iscritta nel lungo Sessantotto italiano.
within a smaller pseudo-State named Repubblica Sociale Italiana (RSI)
subject to Nazi occupation in northern Italy – gave the “historical” antifascists the status of “founding fathers” of democratic Italy. A much more thorny and ambiguous situation, was faced by those who had decided, or had been forced, to break with Mussolini after the Ordine Grandi reversals (25 July 1943) and the Armistice (8 September 1943). This was especially complex for the “blackshirt” elite, composed by men who had pursued careers up to the top of the regime’s hierarchy at the totalitarian turning point of late 1930s (pro-Hitler, racist, anti-Semitic, imperialist, belligerent), contributing to legitimate those “irrevocable decisions” on authoritarian censorship, social eugenics, war and persecution. Having fallen in a matter of weeks, for various reasons, from top positions in the Axis system to the status of “traitorous enemies” of the RSI, these seriously compromised figures were turned into a composite diaspora of “humanitarian refugees” – as they had often been sentenced to death in absentia – who staged daring escapes from the only intact and neutral institutions at the country’s legal borders: the Vatican and, primarily, Switzerland.
A considerable amount of ink has been shed on the reasons that led
Switzerland (who run the perilous risk of barricaded neutrality in the midst of Stated controlled by Nazifascism) to act as a refuge for dissidents from the Axis, while maintaining close economic ties with the two dictatorships. Moreover, many studies have assessed the anthropological and political path of Italian fuoriuscitismo, grafted onto the “democratic laboratory” that liberal Swiss hospitality offered European post-war destinies. Nevertheless, the ambiguous and tormented relationship of this particular group of last minute “renegades” – moved by opportunism, necessity or voluntary rehabilitation – with the “Second Risorgimento” (as two prestigious anti-fascist refugees, Ettore Janni and Luigi Einaudi, defined the fight for the democratic rebirth of the Italian nation), has remained substantially overshadowed by the dazzling profiles of the more coherent and topical Resistance figures.
Yet, this may not only throw light on Bern’s actual stance about the
Axis’ southern front, namely the RSI (through the management of the
Alpine border), but also articulate and restore its problematic complexity
to the form taken by the Italian Republic’s new institutional and moral
course in the Cold War context, between authoritarian legacies and
pluralistic modernity. This exile and political reconfiguration process – from which some of the greatest figures of democratic Italy were to emerge – being intersected with the remnants of the small “Swiss Fascism” adventure , the reactionary demands of “Helvetian spiritualism” , the embryonic drives of the Western anti-communist, the revival of liberal and Christian democratic ideologies from the ashes of “black” corporatism, the “justificatory” minimizations and psychological rationalizations used to excuse a personal involvement within the Steel Pact , the desperate necessity to save a national spirit from the slaughterhouse of Mussolinian chauvinism.
Three of the many Swiss experiences can shed considerable light on
the fundamental attributes of the Italian elite’s belated and controversial
transition beyond Fascism: those of Amintore Fanfani, Giuseppe
Bastianini and Dino Alfieri.
segno concettuale – come tra l’uscita del film Il Boom (regia di Vittorio De Sica su sceneggiatura di Cesare Zavattini) e il chiudersi del
“miracolo economico” italiano nel 1963, appena avanti che la prima congiuntura recessiva del dopoguerra (un balzo improvviso di
inflazione e disoccupazione, associato ad una cospicua perdita di redditività industriale) venisse a spezzare le magnifiche sorti e
progressive dettate dall’impressionante impennata di PIL e fattori produttivi registratesi dal 1957.
Difatti, se già La Dolce Vita di Federico Fellini (1960) e Il Sorpasso di Dino Risi (1962) avevano osato strumentalizzare tutta
l’abbacinante luce della nascente società dei consumi, per evidenziare i crescenti coni d’ombra di una folata modernizzatrice
largamente diseguale, troppo fideistica e al fondo incontrollata, tra le pellicole coeve al “miracolo” è solo Il Boom ad incaricarsi di un
processo ad alzo zero, privo di qualsiasi attenuante emozionale o di tragica fatalità: non c’è alcuna ottundente contorsione sentimentale
(interpretata dall’irrisolto paparazzo Marcello/ Mastroianni) o popolana euforia godereccia (trasfigurata dallo scomposto menefreghismo
edonista di Bruno Cortona/Vittorio Gassman) a giustificare in qualche modo il fascino discreto di un miracolo materialistico, che pareva
germinare proprio per redimere le miserie, i dolori, gli strascichi della guerra. Nel Giovanni Alberti di Alberto Sordi, invece, ogni
possibile “variabile” vitalistica ha ormai ceduto il passo alla mera “costante” della tigna, della feroce voluttà di uno status sociale che
non ha più legami organici con l’economia reale o la nobiltà d’animo, perché completamente sussunto dall’eterea consistenza
dell’apparenza oltremodo benestante, peraltro stereotipata dalle iconografie mass-mediali del self made man, arrivato e dunque
“giustamente” invidiato.
Terminato il processo, Il Boom emette la sua sentenza: il vero miracolo è stato affare elitario, non della massa che – parafrasando
quanto verseggerà un decennio più tardi Lucio Dalla – è stata solo «per un attimo innalzata ad un ruolo difficile da mantenere» per poi
essere «lasciata cadere, a piangere e a urlare», scoprendosi infine meno povera, ma sicuramente più superficiale e rancorosa.
La selezione antologica che qui si propone è sta- ta operata secondo un criterio filologico volto a restituire un affresco del clima di sfaccettata - e spesso controversa, se non contraddittoria - conflittualità avvolgente l’imposizione del fascismo nella città mercuriale, terra d’origine del futuro Duce. Si è inteso porre in evidenzia l’evolvere del pensiero e delle posizioni dei principali attori socio-politici attivi nell’arena cittadina, attraverso il concretarsi dei tornanti e delle cesure storiche che marcano l’autoritaria normalizzazione post- bellica.
I primi due periranno nel primo disastro aereo dell'aviazione civile italiana (Verona, 2 agosto 1919), in un volo a/r da Milano a Venezia, organizzato da Tullo e pilotato da Luigi; Manlio morirà suicida nella notte del 25 luglio 1943, sconvolto dalla notizia della deposizione di Benito Mussolini dal comando del Paese.
In base alla legislazione vigente, risalente al “Codice Rocco” di epoca mussoliniana, sia il redattore Renzi che il direttore responsabile della testata, Guido Aristarco, si ritrovano accusati di «vilipendio delle forze armate» e finiscono in carcere, attendendo di venir processati da un tribunale militare. La loro pesante condanna – 8 mesi a Renzi e 4 ad Aristarco – fa però scoppiare una vasta mobilitazione d’opinione che spinge infine le autorità giudiziarie ad annullare, dopo quaranta giorni nel penitenziario di Peschiera del Garda, la pena; preparando altresì il terreno per una modifica in chiave de-fascistizzante del codice penale: nel 1957, infatti, verrà revocata la giurisdizione della magistratura militare sui reati di vilipendio.
Per curiosa concomitanza storica, Renzo Renzi e – con ben più alta esposizione mediatica – Guido Aristarco si ritrovano così a chiudere simbolicamente i postumi di quello stesso processo di demistificazione comunicazionale che li aveva visti sottoscrittori esattamente un decennio addietro e che aveva contribuito, fra le molteplici istanze di fronda e di critica eretica germinate sotto l’eccentrico cappello del dicastero Bottai all’Educazione Nazionale, a far cortocircuitare la pretesa monistica, esteriorizzante ed eugenetica della cultura fascista, proprio nella fase in cui il regime tentava lo scatto decisivo verso l’impianto totalitario.
In effetti Aristarco – che sin dai primissimi anni Cinquanta si era avvicinato a posizioni d’estetica “lukácsiana” e che aveva fondato “Cinema Nuovo” nel dicembre 1952 dopo esser stato “dimissionato” da caporedattore di “Cinema” per aver difeso la pellicola (tardo)neorealista Umberto D. dagli obliqui strali del già potentissimo Giulio Andreotti, in quel frangente sottosegretario della Presidenza del Consiglio con delega allo Spettacolo – era stato nel gennaio 1943 curatore con Fernaldo Di Giammatteo di un numero monografico speciale che aveva clamorosamente abiurato, dall’interno della koiné littoria, la mitopoiesi integralista di un «cinema in camicia nera».
In questo senso, il caso de L’Armata s’Agapò si pone come il completamento morale di una decennale campagna d’emancipazione della “settima arte” italiana – ben inteso, solo una delle molteplici, e spesso concorrenti, che ne hanno innervato la strutturazione teorica e compositiva lungo la prima metà del Novecento – volta a liberare l’autorialità registica ed attoriale dai catafalchi dell’e- pica e dell’escapismo (propri della produzione del Ventennio), mantenendola comunque capace di elaborare “politicamente” – senza riduzionismi veristi e cronache documentarie – la carne viva della coesistenza umana.
Il fascicolo d’inizio 1943 s’intitolava evocativamente Invito alle immagini ed apparteneva alla rivista “Pattuglia”, «mensile di politica arti lettere del Guf di Forlì», che in virtù di tale peculiare radicamento editoriale poteva godere di una straordinaria risonanza su scala nazionale. Non determinata solo dal muovere dalla “città del duce” – peraltro priva di sede universitaria – ma anche e soprattutto dalla capacità unica di agglutinare sinergicamente il forgiarsi intellettuale della “migliore gioventù” della nazione fascista selezionata dai Littoriali della Cultura e dell’Arte (istituiti nell’aprile 1934).
Il dileggio fisico, lessicale e comportamentale – tirato fino al limite del demenziale – è in effetti la cifra distintiva di questa pellicola, che risponde in qualche modo al frustrato afflato progressista degli autori, ed al loro correlato bisogno di restituire alle élites dirigenti almeno una quota simbolica del fango in cui esse suppostamente hanno impaludato il Paese.
Une analyse historique, sociologique et géopolitique au sujet de la "singularité italienne" dans le cadre de la campagne terroriste jihadiste en Europe.
A partire da questa esigenza conoscitiva, nell’autunno del 2013 le Camere del Lavoro Territoriali di Forlì e Cesena hanno deciso di approfondire il tema del rapporto dei giovani con il lavoro e il sindacato e l’Associazione Luciano Lama ha promosso la presente ricerca. L’obiettivo è quello di esplorare i comportamenti, le opinioni e gli atteggiamenti di una popolazione target di giovani tra i 18 e i 34 anni che vivono, lavorano e/o studiano nel territorio della provincia di Forlì-Cesena per cercare di decifrare come lavoro e sindacato vengono percepiti e rappresentati da chi è nato nell’ultimo scorcio del ventesimo secolo.