Capitolo 5 italiano
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Capitolo 5 italiano
Petrarca nacque ad Arezzo il 20 luglio 1304 da una famiglia fiorentina borghese; nel 1312 fu costretto a
trasferirsi ad Avignone, al seguito del padre, guelfo di parte bianca. A 16 anni intraprese studi giuridici, ma
la sua vocazione letteraria era già inarrestabile nel 1326 e nella sua formazione si delineano 2 tendenze
fondamentali: il culto dei classici ed un’intensa spiritualità cristiana. La lingua con cui scriveva di solito era il
latino, ma parallelamente praticava anche la poesia lirica volgare e raccolse tutti i motivi della sua poesia
attorno ad un’unica immagine femminile a cui diede il nome di Laura, di cui l’incontro avvenne nel 1327. La
vita del giovane Petrarca, oltre che dalla poesia e dall’amore, era occupata anche dall’esigenza della
sicurezza materiale, del bisogno degli agi e della tranquillità. Per risolvere i problemi economici, nel 1330
prese gli ordini minori che consentivano di accedere a cariche e rendite lucrose. Al bisogno di sicurezza
materiale si contrapponeva una curiosità inesausta di conoscere, che lo spingeva a viaggiare; ogni viaggio
era occasione di arricchire la propria cultura e questi gli diedero anche modo di stringere amicizia con
diversi letterati europei e italiani. A questa irrequietudine si contrapponeva il bisogno di chiudersi
nell’interiorità e di approfondire la conoscenza di sé; tendenza che si concretò nel ritiro a Valchiusa, qui il
poeta amava rifugiarsi lontano dalle preoccupazioni quotidiane dedicandosi alla lettura dei classici, alla
scrittura e alla meditazione. Proprio da questo otium nacque gran parte delle sue opere e Valchiusa
divenne per lui il simbolo di un’attività spirituale indipendente. Tuttavia, l’attività letteraria non derivava
solo dall’allontanamento dalle attività pratiche, non mirava solo all’elevazione e all’affinamento dello
spirito, ma vi era in lui un bisogno di gloria e di onori. Tale desiderio fu appagato dall’incoronazione poetica
avvenuta a Roma nel 1341, ma dopo questo avvenimento, Petrarca ebbe una crisi religiosa che si tradusse
in un tortuoso processo interiore senza alcuno sbocco risolutivo, in si alternavano l’ansia di purificazione e il
risorgere ineliminabile di interessi mondano. Emerge quel continuo oscillare della sua personalità, che non
riesce mai ad acquietarsi; in secondo luogo, l’esercizio letterario è anche strumento di impegno politico e
civile. Petrarca sente vivamente i grandi problemi del suo tempo e mira ad incidervi; egli usa il suo prestigio
ed eloquenza per perorare il ritorno del papa a Roma, per bollare la corruzione della Curia avignonese ed
incitare la Chiesa a recuperare la sua purezza originaria, rivolge appelli all’imperatore Carlo IV di Boemia
perché scenda in Italia a ristabilire l’autorità imperiale. Soprattutto si entusiasma per il tentativo di Cola di
Rienzo che sogna di riportare la città alla grandezza antica, facendola centro di una rinnovata cristianità.
L’insofferenza per la corruzione della Curia avignonese giunge al limite di rottura nel 1347: Petrarca lascia
Avignone e tra il 1348 e 1351 soggiorna in Italia stabilendosi prima a Milano e poi a Venezia, ed infine a
Arquà nei colli Euganei dove trascorre gli ultimi anni. Muore nella notte fra il 18 e 19 luglio del 1374, la
leggenda lo vuole chino su un codice del suo amato Virgilio. Petrarca rappresenta la figura di intellettuale
nuova rispetto a quelli del 200, non è più un intellettuale comunale, legato ad un preciso ambiente
cittadino, ma è un intellettuale cosmopolita e ciò si manifesta nella sua perpetua ansia di viaggiare
(evidente la differenza con Dante, che non pensava ad altro se non tornare all’ovile). In Petrarca è semmai
significativa la scelta italiana, in nome di un ideale non più municipale, ma nazionale. In secondo luogo
Petrarca non è più intellettuale cittadino che partecipa alla vita politica, ma è un intellettuale cortigiano che
accetta la nuova istituzione della signoria e sceglie di sostenerla con il suo prestigio e autorevolezza di
grande intellettuale. Tuttavia resta geloso della sua autonomia di intellettuale, e per questo rifiuta incarichi
che lo vincolerebbero troppo; con i vari signori non ha veri rapporti istituzionali, resta un illustre ospite. I
privilegi di cui Petrarca può godere si spiegano con il prestigio che ha assunto la letteratura, che viene
considerata come la più alta manifestazione dello spirito umano, l’humanitas. Il letterato è colui che fa
rivivere il mondo antico, a cui si guarda sempre più con riverenza come modello della vita spirituale e di
quella civile; dall’altro lato è colui che assicura l’immortalità della fama presso i posteri. Petrarca è un
interprete consapevole, per lui nelle lettere si compendiano i più alti valori umani e ostenta disprezzo per
un sapere tecnico e scientifico, per le arti meccaniche. Le lettere invece sono veramente utili e costruttive
perché riconducono alla meditazione e alla riflessione interiore e perché portano alla vera conoscenza di sé
e confortano l’animo. Petrarca ha, quindi, un’idea altissima della dignità del poeta.
OPERE RELIGIOSO-MORALI
La produzione lirica del poeta può essere divisa in 2 gruppi di opere, quelle religioso-morali e quelle
umanistiche. Per capire la visione del mondo su cui Petrarca fonda tutta la sua attività, è utile partire da due
opere di polemica filosofica: le invectivae contra medicum quendam e De sui ipsius et multorum ignorantia;
in queste esprime il suo fastidio per la filosofia scolastica. Per lui la vera filosofia è quella che mira a
comprendere l’uomo ed ad indicargli la via dell’autentica felicità e della salvezza. Petrarca guarda
all’insegnamento di sant’Agostino che aveva proclamato che la verità abita nell’interiorità dell’uomo. C’è
una grande differenza tra Dante e Petrarca; il primo poneva alla base della sua visione del mondo la
filosofia scolastico-aristotelica e da essa traeva l’incontrollabile fede di un ordine perfetto che racchiudesse
tutte le manifestazioni della realtà, nel secondo la fede dantesca è venuta meno, perciò egli rinuncia ad
affrontare il mondo esterno nella sua concretezza e nella molteplicità dei suoi aspetti e si rinchiude
esclusivamente nella contemplazione del proprio io.
Questo continuo esame di coscienza si traduce nelle due opere di meditazione religiosa e morale. La più
importante è il Secretum, concepito nel 1342-1343, nell’epoca in cui aveva toccato il culmine della crisi
religiosa, ma ripreso successivamente probabilmente nel 1353.L’opera è strutturata come un dialogo tra
Petrarca stesso e Agostino, questo dialogo si svolge in 3 giorni alla presenza di una donna bellissima,
figurazione della verità. Nel dialogo lo scrittore si sdoppia in due personaggi che sono proiezione alla sua
interiorità inqueta e lacerata, Agostino, invece, rappresenta la coscienza che fruga nell’anima del poeta che
rappresenta la fragilità del peccatore, disposto ad imparare ma anche riluttante a staccarsi dalle lusinghe
mondane e dai beni. Nel primo libro Agostino rimprovera a Francesco la sua debolezza della volontà; nel
secondo passa in rassegna i 7 peccati capitali e si sofferma su quello che più affligge Francesco, l’accidia; nel
terzo libro vengono esaminate le 2 colpe più gravi: il desiderio di gloria terrena e l’amore per Laura. Per
Francesco si tratta di inclinazioni innocenti ma per Agostino sono passioni basse. Il dialogo si conclude
quando tutte le contraddizioni del poeta restano aperte: Francesco riconosce di non poter cambiar vita e
che non può vincere la sua natura, dal suo orizzonte sono escluse le soluzioni definitive. Il dissidio sempre
aperto, tra il richiamo all’ascesi e gli allettamenti della vita mondana, fanno di Petrarca il rappresentante
emblematico di un’età di trapasso che vede il disgregarsi della spiritualità medievale, ma che è ancora
lontana dall’assestarsi entro i confini della civiltà umanistica-rinascimentale. Il latino dell’opera è limpido,
armonioso e strutturato sintatticamente sull’esempio dei classici e nella forma letteraria si trova quella
catarsi che sul piano morale appare irraggiungibile. Questa tendenza alla conciliazione tra cultura classica e
spiritualità cristiana è confermata nelle altre opere di questa categoria, come il De vita solitaria, in cui si
esalta la solitudine, tema caro all’ascetismo cristiano, ma che per Petrarca deve essere rallegrata delle
bellezze della natura, dalla conversazione con pochi ed eletti amici e dalla presenza dei libri. La solitudine
può essere fonte di purificazione interiore ma anche di elevazione dell’animo; tra cultura classica e
religiosità cristiana non vi è più, per il poeta, alcun contrasto. In questa esaltazione della solitudine si
conciliano così l’ideale cristiano della rinuncia ai piaceri mondani e quello classico dell’otium letterario; per
queste posizioni di Petrarca si è parlato si umanesimo cristiano.
Ora è necessario affrontare il rapporto di Petrarca con il mondo classico. Il confronto con Dante può essere
chiarificatore; il poeta della Commedia aveva un vero e proprio culto per i classici ma il suo atteggiamento è
di verso da quello di Petrarca poiché Dante, come tutta la cultura medievale, non avendo coscienza della
frattura esistente tra il mondo moderno e quello a lui contemporaneo, poteva adottare temi della cultura
classica adottandoli alla propria visione della realtà. Petrarca invece ha piena coscienza del distacco ed è
per questo che non assimila più il mondo antico al presente; nasce da qui l’attività filologica di Petrarca.
La filologia è la scienza che ha come fine la ricostruzione dei testi letterari nella loro forma più vicina
all’originale, emendandoli da errori di trascrizione e deformazioni varie. Petrarca è un vero precursore di
questa attività e sente la curiosità di conoscere anche quegli autori e opere che la cultura medievale aveva
lasciato ai margini, perciò, durante i suoi viaggi, fruga nelle antiche biblioteche in cerca di quei testi. La
rivendicazione che ha per i classici si estende anche alla correttezza dei manoscritti che hanno trasmesso le
opere; perciò, compie un accurato lavoro di confronto tra quelli che può consultare e, grazie alla sua fitta
rete di corrispondenti italiani ed europei, mette in circolo il suo lavoro nella cultura contemporanea. La
coscienza del distacco è all’origine dell’atteggiamento con cui Petrarca si rapporta agli scrittori classici, in
essi egli scorge un modello insuperabile di sapienza, di magnanimità nell’azione, di perfezione stilistica;
perciò guarda ad essi con un misto di venerazione e di struggente nostalgia perché sente quanto quel
modello sia lontano dalla realtà contemporanea. Questo culto dei classici informa tutte le raccolte
epistolari di Petrarca. Lo scrittore riordinò, raccolse e rielaborò le sue lettere in prosa latina, indirizzate di
norma ad altri intellettuali suoi amici, a grandi signori o dignitari ecclesiastici. Ne risultano 24 libri di
epistole Familiari e 17 Senili, a parte si collocano le lettere Sine nomine, così chiamate perché non viene
indicato il nome del destinatario, in quanto contengono un’aspra polemica contro la corruzione della Chiesa
contemporanea. Al di fuori di queste ordinate raccolte si trovano le Varie rintracciate e riunite da amici e
collaboratori. Le lettere erano dei veri e propri componimenti letterari molto elaborati e, nella
rielaborazione, Petrarca sottopone il materiale ad un’ulteriore rielaborazione, togliendo ogni riferimento
troppo preciso a fatti o persone, sostituendoli con pseudonimi o frasi classicheggianti. La conseguenza è che
le lettere sono trasfigurazione letteraria della realtà e mediante questa, Petrarca vuole fissare un’immagine
ideale del letterato e del dotto, immagine che costituirà il modello ideale per secoli. Gli elementi che la
compongono sono: la fede in una cultura disinteressata; il fastidio per le attività pratiche e gli affari
quotidiani; il sogno idilliaco di un’esistenza quieta ed appartata dedicata ai libri. Se da un lato gli epistolari
forniscono la chiave per capire gli aspetti fondamentali della personalità di Petrarca, dall’altro sono anche
utili per capire il suo gusto letterario che è sottinteso nella sua opera. La legge che presiede la composizione
di queste pagine è quella della selezione e dell’idealizzazione, che sono anche i principi costitutivi del
classicismo. Torna ad imporsi nell’opera latina del poeta quella rigorosa separazione di stili che era propria
della cultura greca e latina, e che il Medioevo con Dante aveva ribaltato. Con Petrarca tutta la zona della
realtà, quella bassa e quotidiana, viene di nuovo esclusa dalla letteratura, dove si trovava diritto di
cittadinanza solo ciò che è più nobile ed elevato; anche in questo Petrarca anticipa il gusto che sarà del
Rinascimento e, non sarà un caso, se nel 500 il petrarchismo, l’imitazione di Petrarca, sarà un aspetto
dominante. Tuttavia, si colgono nelle epistole latine le irrequietudini che costituiscono la sostanza della
psicologia petrarchesca, e che erano alla base dell’accanita ricerca interiore delle opere religiose. Anche qui
il poeta è spesso chino su se steso, a scandagliare contraddizioni, oscillazioni, debolezze, tormenti.
L’ideale classico si concentra anche nell’Africa, un poema epico in esametri latini, concepito a Valchiusa nel
1338 o nel 1339 e ripreso più volte ma non terminato. Argomento dell’opera è la seconda guerra punica; i
modelli sono naturalmente latini: la materia è ricavata dalle Storie di Livio, ma i moduli narrativi e stilistici,
episodi e caratteri sono ispirati all’Eneide virgiliana. Il proposito che muove il poema è esaltare la gloria e la
grandezza di Roma, ma accanto agli intenti epici compaiono altri motivi. In definitiva, come nelle opere di
meditazione religioso-morale si afferma umanisticamente la fede nei valori della cultura e della bellezza
formale, così, inversamente e complementarmente, i mesti accenti del pessimismo ascetico medievale
risuonano in quelle opere che sono ispirati agli ideali del classicismo. Le due tendenze sono in Petrarca
sempre compresenza. Questa compresenza si può verificare anche in altre opere latine.
Il De viris illustribus è un’opera per così dire storica, una raccolta di biografie di illustri personaggi romani
concepita contemporaneamente all’Africa. Anche quest’opera è animata dall’intento di celebrare la
grandezza di Roma, ma anche qui troviamo gli stessi spunti pessimistici sulla fugacità della gloria e sulla
miseria della condizione umana. Inoltre, il racconto storico si tinge spesso di colori soggettivi, perché lo
scrittore proietta nei personaggi le sue inquietudini e i suoi dubbi.
IL CANZONIERE
Benché convinto che la lingua letteraria per eccellenza sia il latino, Petrarca s’impegna altresì sul versante
del volgare, cercando di elevarlo alla dignità formale dell’espressione classica. Da questo impegno nasce il
Canzoniere, di cui gli studiosi sono riusciti a ricostruire ben 9 redazioni successive della raccolta; la
sistemazione definitiva risale all’ultimo anno di vita del poeta, il 1374, ed è contenuta nel manoscritto
Vaticano 3195. Il titolo che il poeta pone sul manoscritto definitivo è Rerum vulgarium fragmenta, in cui si
può cogliere la punta di sufficienza che il poeta ostentava nei confronti delle sue liriche in volgare. L’opera
si suole anche designare con la formula Rime sparse, oppure come Canzoniere. Esso è costituito da 366
componimenti, in massima parte si tratta di sonetti (317), ma anche di canzoni, ballate, sestine. La materia
quasi esclusiva del Canzoniere è costituita dall’amore del poeta per una donna, chiamata Laura, incontrata
nel 1327. Nel libro si percorre il diagramma di una passione tutta umana e terrena, che non esclude
l’aspetto sensuale; è un amore tormentato e inappagato e gli stati d’animo del poeta riflettono un continuo
oscillare tra poli opposti, senza mai una soluzione definitiva: ora il poeta tesse attorno alla donna complesse
architetture d’immagine; ora contempla l’immagine della donna e si nutre di vane speranze; ora lamenta la
sua crudeltà e indifferenza; talvolta, si protende verso la liberazione e la pace interiore, elevando la sua
preghiera a dio, ma nonostante tutto la forza della passione lo riprende e lo domina. Questa vicenda ha una
svolta con la morte di Laura (1348); in tal modo il Canzoniere risulta diviso in due parti, le rime in vita e le
rime in morte. Alla morte della donna il mondo sembra scolorire, farsi vuoto e squallido; ma non per
questo la passione si estingue. Il poeta si volge indietro con desolato rimpianto verso un tempo che non
può ritornare, nel sogno Laura appare più bella e meno altera, più mite e compassionevole ma, dopo il
lungo vaneggiar, il poeta sente il peso del peccato e il desiderio di una purificazione; guarda con angoscia il
trascorrere del tempo, la vita che fugge e non si arresta e avvicina l’ora della morte. La morte non è vista
come un porto tranquillo, ma un dubbioso passo, per cui il poeta vorrebbe rivolgersi verso qualcosa di più
saldo e duraturo: il cielo. Il libro si conclude con una canzone di preghiera alla Vergine in cui il poeta
esprime un desiderio di superare ogni conflitto, di trovare la pace; ed è proprio la parola pace ad essere
l’ultima della canzone. Il poeta nel raccogliere le sue poesie si preoccupa di ordinarle in un’architettura
unitaria: il Canzoniere vuole offrirsi come un libro compiuto. Sarebbe sbagliato interpretarlo come
confessione diretta di vicende autobiografiche poiché sarebbe un modo di leggere moderno, che
risulterebbe inadeguato alla sottile e intellettualistica tessitura della lirica medievale e la poesia di Petrarca
è pur sempre un prodotto della cultura medievale; ma comunque il discorso non cambierebbe di molto per
la cultura classicistica e cortigiana del rinascimento. Quindi, va considerata come una trasfigurazione
letteraria, come una costruzione ideale, esemplare, che segue determinati codici, e quindi allontana e
sfuma la realtà da cui prende le mosse. E’ vero che Laura è molto più umana delle remote e inattingibili
immagini femminili degli stilnovisti e di Dante, poiché rientra in una psicologia più viva e mossa; tuttavia, è
ben lontana da avere concretezza corposa di un personaggio reale. Compaiono spesso nel Canzoniere
notazioni riferite alla sua bellezza fisica, ma la sua figura resta evanescente, i vari particolare su cui il poeta
insiste, non compongono un’immagine definita, ma rispondono ad un formulario tradizionale. L’immagine
complessiva di Laura è il vago profilo di una bella donna bionda, che si stagli adi regola su un ridente sfondo
naturale. Anche il paesaggio non si
delinea nell’urgenza materiale e sensibile delle sue forme, colori, profumi, e risulta anch’esso da elementi
estremamente stilizzati: elementi che compongono l’immagine del locus amoenus. Un’analoga mancanza
di concretezza realistica presentano le situazioni e gli episodi in cui si articola la vicenda amorosa:
apparizioni di Laura, saluti e sguardi negati o concessi, sospiri: sono tutte situazioni codificate dalla lirica
precedente, dalla Provenza Toscana stilnovistica. La natura si assottiglia in uno stilizzato arabesco, e la
privata vicenda amorosa sfuma in una vaga sequenza di situazioni stereotipate, cos’ è quasi del tutto
assente dalla poesia del Canzoniere il mondo della storia contemporanea con i suoi conflitti, quel mondo
che si imponeva con violenta immediatezza nella Commedia. L’orizzonte della poesia, che con il poema
dantesco si era allargato ad abbracciare il reale in tutte le sue manifestazioni, torna a restringersi entro i
limiti di un’esperienza squisitamente soggettiva e privata. Leggendo il Canzoniere si ha l’impressione che la
realtà esterna non esista, se non come remota e pallida memoria.
La sua poesia va letta come lucida analisi della coscienza. La tormentata esperienza d’amore è assunta
come simbolo di un’esperienza più vasta, sentimentale, intellettuale e religiosa insieme; il tema amoroso
non è che l’occasione per concentrare intorno ad un nucleo stabile l’accanita esplorazione interiore. Anche
nel Canzoniere si impone in piena evidenza quel dissidio interiore che era stato analizzato nel Secretum; ciò
che caratterizza la spiritualità di Petrarca è un bisogno di assoluto, di eterno. In contrasto con queste
aspirazioni, egli sente con angoscia la labilità di tutte le sue cose umane: tutti i piaceri e le gioie che gli
uomini inseguono affannosamente sono illusioni effimere. La gloria, che Petrarca stesso desidera, è una
cosa vana, che non appaga e che si dilegua subito; da questa delusione deriva al poeta una continua
inquietudine, un senso di inappagamento perpetuo. Deluso dalla vita terrena vorrebbe rivolgersi al cielo,
abbandonare ogni vanità e condurre una vita assolutamente pura; perciò il Canzoniere vorrebbe offrirsi,
secondo il modello medievale della conversione, come la vicenda di un’anima che si libera delle impurità
umane e si innalza a Dio. Ma il Canzoniere non è la Commedia: il viaggio dell’anima non può concludersi, e il
dissidio interiore al termine del libro non trova una soluzione, mentre Dante scrive la sua opera quando è
già uscito fuor del pelago a la riva, Petrarca scrive la sua quando è ancora immerso nelle acque tempestose.
Se il poeta è inappagato dall’umano, non può neppure trovare la pace e la liberazione in Dio, ma ciò
avviene perché il suo ideale autentico non è il semplice rifiuto del mondo, bensì la conciliazione del divino
e dell’umano. Quindi il dissidio di Petrarca non si apre tanto tra carne e spirito, ma tra una concezione
ascetica, che impone una rinuncia totale al mondo per trovare la pienezza e la beatitudine, e il sogno
impossibile di una conciliazione tra cielo e terra, che dia pieno valore alle cose umane. Alla luce di queste
considerazioni si può dire che il Canzoniere riflette non solo una crisi individuale, ma la crisi di un’epoca.
Poiché la materi della poesia petrarchesca è un groviglio di contraddizioni e di inquietudini, sarebbe lecito
aspettarsi che le tensioni si esprimessero in una forma tormentata e involuta. Invece la dizione poetica del
canzoniere è limpida ed equilibrata, i conflitti dell’animo non si riversano sulla pagina con il calore e la
violenza scomposta con cui nascono nell’intimo, ma devono passare attraverso un filtro. Petrarca ha un
concetto altissimo del decoro e della disciplina formali ed è colmo di ammirazione per i classici antichi, per
questo li tiene sempre presenti nello scrivere e si sforza anche nella sua poesia in volgare di riprodurne le
forme armoniose ed eleganti. La conseguenza è che i sentimenti del poeta si esprimono attraverso formule,
cadenze, immagini consacrate nella letteratura antica e, nel canzoniere, è possibile trovare una serie
innumerevole di reminiscenze letterarie, citazioni, soluzioni artistiche tratte da altri poeti. E proprio nel
calarsi entro formule fissate dalla tradizione letteraria, nel comporsi entro una rigorosa dizione del classico,
la sua tormentata esperienza interiore trova come una conferma e una consacrazione solenne e al tempo
stesso una purificazione. Alla stessa esigenza di chiarezza e decantazione risponde la cura della formale, un
assiduo lavoro di lima che il poeta applica ai suoi versi; in tal modo il dissidio interiore viene almeno fissato
in forme limpide ed equilibrate. Il poeta stesso dimostra di avere piena coscienza della funzione del
classicismo formale della sua poesia quando afferma che raggiungere il perfetto dominio della forma è per
lui l’unico modo per raggiungere il dominio di un mondo interiore inquieto e lacerato. Per conquistare
questo dominio è necessario un esercizio quasi ascetico di rinuncia. Nel poema dantesco aveva trovato la
più piena realizzazione la tendenza medievale degli stili, che rovesciava la separazione classica; Petrarca al
contrario torna ad operare nella realtà una rigorosissima selezione, escludendo dall’ambito della poesia
ogni aspetto concreto o umile della vita quotidiana. La matrice di questo diverso modo di accostarsi alla
realtà è da individuare nella crisi della coscienza petrarchesca; Dante poteva riversare nella poesia tutto il
reale nella molteplicità dei suoi aspetti perché possedeva un organico sistema concettuale, Petrarca non
possiede più questo sistema, anzi, rifiuta il sistema filosofico della Scolastica a cui Dante faceva riferimento.
Per lui l’unica realtà certa è l’interiorità, per questo Petrarca esclude dalla poesia tutte quelle presenze che
sa di non poter sistemare entro i termini di un inquadramento concettuale, l’unico dominio che gli è
consentito è quello formale, letterario, sui moti della propria anima. Il classicismo formale di Petrarca viene
ad essere diretta conseguenza della sua crisi spirituale, dalla sua impossibilità ad attingere a definitive
certezze, della sua rinuncia ad affrontare nella poesia il vasto mondo esterno e della sua concezione
esclusiva sul mondo interiore.
Questo diverso modo di accostarsi al reale si riflette sulla lingua e sullo stile. Nella Commedia la molteplicità
si traduceva nelle molteplicità dei piani linguistici, la rigorosa selezione a cui Petrarca sottopone il reale si
traduce, invece, in una lingua che impiega un numero ristrettissimo di vocaboli; ma il linguaggio
petrarchesco è anche rigorosamente uniforme; pochi termini ammessi sono attinti tra quelli più piani e
generici. Contini ha parlato di unilinguismo. Nessuna parola spicca mai nel tessuto del discorso: esso tende
piuttosto a creare un tono medio, un’armonia d’insieme in cui nessun particolare predominio. Di qui nasce
l’impressione di levigatezza, semplicità, piana consapevolezza comunicata dai versi petrarcheschi. Come il
poeta stesso afferma, il suo lavoro di lima sui testi tende a far soavi e chiare le rime aspre e fosche. In
sintesi, la fisionomia complessiva del capolavoro petrarchesca risulta quella quasi miracolosa fusione di due
aspetti apparentemente antitetici; da un lato l’inquieta e tormentata visione di un’epoca di crisi e di
trapasso della civiltà; dall’altro un gusto poetico eminentemente classicistico. Questo secondo aspetto del
Canzoniere inaugura una tendenza destinata a dominare per molti secoli nella letteratura italiana, una
tendenza le cui caratteristiche salienti saranno un ideale di perfezione formale e di aulica dignità. Questo
gusto si affinerà soprattutto in età rinascimentale, tra 400 e 500, resterà vivo nell’età barocca e tornerà
pienamente in auge nel 700 e nel pieno 800 neoclassico. Ma in Petrarca sussiste pur sempre l’esigenza di
superare realmente i suoi dissidi, di comporli in una effettiva unità. Questa aspirazione si traduce
nell’intento di esprimere le sue esperienze non in opere di vasto disegno, organiche e conclusive. Per
concretare questi propositi sistematici, petrarca deve ricorrere a schemi costruttivi tipicamente medievali, il
poema allegorico con i Trionfi e l’enciclopedia morale con De remediis utriusque fortunae. Le due opere
furono iniziate probabilmente durante il soggiorno milanese (1353—61) e portate avanti sino alla
vecchiaia. Nel De remediis è scritto in latino e in prosa, all’interno dell’opera passa in rassegna tutti i mezzi
con cui l’uomo può resistere sia alle lusinghe della sorte favorevole, sia ai colpi di quella avversa; per far
questo, si fonda sulla sua personale esperienza. I Trionfi sono invece un poema in volgare costruito in
forma di visione, che rimanda nell’impianto, soluzioni narrative e nel metro al modello della Commedia. Il
poeta narra di assistere alla sfilata di varie figure allegoriche: Amore, Pudicizia, Morte, Fama, tempo,
Eternità, al cui seguito compaiono schiere di personaggi esemplari, tratti dal mito e dalla storia. Dietro alle
astratte strutture allegoriche si può scorgere il riflesso della vicenda personale del poeta. Anche i Trionfi,
come il Secretum e le Rime, vorrebbero offrire il diagramma di una conversione, di una rinuncia al mondo
per attingere alla salvezza e alla pace celeste. Ma, a quelle sue due opere, Petrarca intende abbandonare il
piano dell’esperienza soggettiva e individuale per innalzarsi, sul modello della Commedia, ad un piano
universale. Nonostante questa aspirazione ad un superamento delle contraddizioni e ad una soluzione
conclusiva, il poema non riesce a raggiungere il riposato porto della pace. Benché egli tenda alla salda
costruzione unitaria, non è poi in grado di costruire, perché gli manca quella sicura e organica visione del
mondo che stava alla base della Commedia e ne costituiva l’intima sostanza e la forza. Quindi la trama
concettuale dei trionfi non è animata dalla vitalità del poema dantesco e si riduce ad una serie di schemi
astratti, di simbologie intellettualistiche, soffocate da una minuta arida erudizione. Anche il movimento
narrativo e si traduce in una schematica addizione di episodi; anche i Trionfi, perciò, testimoniano
l’impossibilità da parte del poeta di giungere ad una sistemazione coerente e stabile delle sue
contraddizioni. Ed è significativo che il poema sia rimasto incompiuto.