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La questione delle ragioni della filosofia è sempre stata posta dai filosofi.

Per Leo Strauss, la


questione è stata al centro del dibattito sin dalle origini del pensiero filosofico. Se c’è, ad
esempio, un intento che accomuna i “Dialoghi” di Platone è quello di giustificare la filosofia,
dopo la morte di Socrate, dinanzi alla città. Gli ateniesi misero a morte Socrate, quindi
Platone intende giustificare il sapere filosofico dinanzi al tribunale della città, della cultura
mitica precedente alla filosofia, quella che aveva messo a morte Socrate, accusandolo di
corrompere i giovani e di introdurre nuove divinità: queste nuove divinità erano il sapere
filosofico. Socrate corrompeva i giovani, cioè li convertiva rispetto alla cultura tradizionale,
alla cultura mitica. La cultura tradizionale ateniese si stava difendendo da una nuova forma
culturale: la filosofia. Platone, dunque, si pone il problema di giustificare la filosofia rispetto a
questa cultura. Come ci spiega Leo Strauss, i filosofi medievali sono chiamati anche loro a
giustificare la filosofia. Ma rispetto a quale tribunale devono giustificare la filosofia i filosofi
medievali? Rispetto alla rivelazione religiosa. Se abbiamo la rivelazione, la quale ci dice qual
è la verità e cosa bisogna fare per essere felici, non su questa terra, ma per avere la
beatitudine (cioè la felicità ultraterrena), a cosa serve la filosofia? Quindi i filosofi medievali
devono giustificare la propria attività (perché la filosofia?) dinanzi alla rivelazione. Questi
autori non si chiedono “È possibile la filosofia?”. Essi vogliono giustificare la filosofia, la
quale si dà, non è messa in discussione, ma si chiedono “È utile?”, “Che scopo ha?”,
“Perché la filosofia?”, “Qual è il fine della filosofia, se abbiamo la tradizione mitico-religiosa,
oppure la rivelazione delle grandi religioni?”. Un mutamento epocale si consuma nella
Modernità, durante la quale si assiste a quella che viene definita Rivoluzione scientifica. Per
conoscere l’ente, la cosa, dovrò misurarlo nel suo effettivo muoversi, nelle sue relazioni, nel
suo esistere. Nessuna doxa, nessuna opinione, nessuna sensazione, nessuna intuizione,
nessuna pura conoscenza logica, potrà condurci alla conoscenza dell’ente. L’ente è
conoscibile solo sulla base di ipotesi, che possono essere verificate matematicamente,
attraverso l’esperimento (delle ipotesi che trovano una formalizzazione matematica e di cui
si deve dare riscontro attraverso l’esperimento). Non si dà vera esperienza, vera
conoscenza della natura, del mondo e, quindi, anche dell’uomo senza che si raggiunga fuori
dalla verifica sperimentale. Come scrive un grande filosofo contemporaneo, Massimo
Cacciari: “La scienza della natura diventa scientiam facere solo attraverso
l’esperienza-esperimento”; è impossibile senza strumenti costruiti ed elaborati a questo
scopo (l’esperienza in sé non ci dice altro che empirismo semplice, serve una
strumentazione; io posso guardare la Luna quanto voglio, ma senza il cannocchiale di
Galileo non vedrò la superficie lunare), adeguati a pervenire ad un risultato sicuro.
L’esperimento è un elemento inaudito, che ha una sua strumentazione tecnica; non è che la
logica non ci serva, non è che la sensazione non ci sia, ma è tutto incardinato nella forma
dell’esperimento. Ciò che alla fine appare come l’oggetto reale è il factum (ciò che è fatto), il
factum è fatto da qualcosa, dall’esperimento. Il corpo cade, questo è un fatto, perché stiamo
osservando questa precisa situazione tenendo presente un’ipotesi: “ma che cosa succede
se faccio cadere una penna?” La penna cade, ma senza tutto questo contorno il fatto non
esiste. L’esperienza è sensata in quanto lo scienziato interroga la natura, fa delle ipotesi e
verifica se queste siano vere oppure no, cioè se abbiano riscontro nell’esperimento; lo
scienziato produce il fatto oggettivo, cioè sperimentabile. L’esperienza è sensata in quando
l’ipotesi dello scienziato è costruita matematicamente (ha una sua formalizzazione), e in
quanto il risultato dell’esperimento è esprimibile matematicamente, questo fanno all’origine
della modernità. Le due discipline fondamentali all’origine della scienza moderna sono la
matematica e la fisica, la quale è intesa in senso matematico. Da questi esperimenti gli
scienziati elaborano le leggi, che sono le ipotesi che vengono verificate ed elaborate; queste
leggi, in base a cui i corpi reali si muovono nello spazio e si relazionano tra di loro, sono
esprimibili e devono essere esprimibili, per essere leggi, matematicamente. Solo il metodo
sperimentale conduce ad evidenze. Qui lo spazio della filosofia dov’è? Galileo è uno
spartiacque fondamentale tra il prima e il dopo, impone una discontinuità. A questo punto la
domanda è: “che bisogno vi è della filosofia?”. L’imporsi della Rivoluzione scientifica,
l’imporsi della forma del sapere scientifico come la forma del sapere vero (cioè è vera
conoscenza ciò che risponde alla forma del sapere scientifico, ciò che assume la forma del
sapere scientifico), della scienza come modello della conoscenza autentica e fondata, fa sì
che la filosofia non debba giustificarsi più né nei confronti del sapere mitico tradizionale della
città, né della rivelazione, perché la forma di conoscenza per eccellenza è la scienza, quindi
la filosofia deve giustificarsi di fronte al tribunale della scienza. L’istanza egemonica
fondamentale del mondo moderno, ovvero la scienza, pone costantemente la filosofia di
fronte al problema della propria ragion d’essere. Nel mondo antico, episteme indicava sia la
filosofia, sia la scienza, e nel sistema aristotelico, che è quello che per secoli ha dominato
l’Occidente, si distinguevano fisica e metafisica, che erano due forme di conoscenza
adeguate a due ambiti della realtà: il mondo sublunare, imperfetto, e il mondo celeste, che
era il mondo degli astri e degli esseri perfetti; dunque, fisica e metafisica erano due forme di
sapere che entravano in relazione. Erano due differenti ambiti di sapere anche per il
Medioevo, il quale eredita un modello cosmologico che è quello aristotelico. Qui non si tratta
più di due ambiti diversi del sapere che si devono incontrare e scontrare; nella modernità è
nella stessa conoscenza della natura, in quanto fisica matematica, che si pone il problema
filosofico, il problema metafisico, è nella stessa scienza (la fisica matematicamente fondata)
che si pone il problema filosofico, è nella stessa conoscenza certa e fondata della scienza,
matematicamente costruita, che si annida la possibilità di pensare uno spazio per la filosofia.
I filosofi moderni sono stati anche grandi scienziati e grandi matematici, proprio perché era
nella scienza che si poneva il problema filosofico (Cartesio, Leibnitz). Per Galileo, per la
scienza moderna, la veridicità delle mie asserzioni dipende dalla veridicità dei miei
strumenti, e questa veridicità può essere provata solo grazie all’esperimento; è
nell’esperimento che io so se lo strumento è accurato, e solo se lo strumento è accurato è
vero il mio risultato. Quindi c’è un accordo che si realizza tra l’ipotesi che lo scienziato pone
alla base della sua indagine, la costruzione dello strumento che serve per fare l’esperimento,
l’esperimento e la risposta; si deve realizzare un accordo per arrivare ad una conoscenza.
Tutto questo con la risposta della natura: io interrogo la natura, attraverso l’esperimento, e la
natura mi risponde e mi dà dei dati, dei fatti, che sono il risultato dell’esperimento. Questo
accordo non può essere fondato a priori, ma sarà solo l’esperimento-esperienza a
dimostrare che tutto ciò si accordi. Dov’è lo spazio della filosofia qui? La domanda del
filosofo che si annida qui è: “cosa rende possibile questo accordo?”. È solo se c’è un’unità
tra il logos della forma matematica e il logos della natura che tutto questo si regge, ma
questo lo scienziato non lo sa, questo è un presupposto della scienza. Lo scienziato può
conoscere la natura perché essa si rivela nei termini matematici che sono comprensibili dalla
mente: è questo il fondamento dell’esperimento. Come può pretendere la matematica di
valere come il linguaggio della natura? L’accordo tra il linguaggio matematico e quello che
accade nella natura è un problema filosofico; allo scienziato interessa capire come funzioni,
non il presupposto di come lui capisce come funzioni. Il funzionamento della legge di gravità
è un fatto, è un’impresa della nostra mente, ma perché la nostra mente ne sia capace resta
una domanda a cui la scienza della natura non può rispondere, perché è il presupposto della
scienza; qualsiasi risposta dia la scienza della natura, si basa su quel presupposto. Che
cosa fa certa la mente di poter essere rivelatrice della sostanza delle cose? Perché la nostra
mente attraverso l’indagine scientifica arriva a dei risultati che hanno riscontro in natura? La
filosofia è chiamata a dare fondazione rigorosa del potere effettuale della scienza moderna,
cioè la scienza ha potere, è potere sulla natura; è questo il dato che ci danno gli scienziati:
con la scienza conosciamo la natura. Quindi gli scienziati producono questa forma di sapere,
i filosofi si chiedono “com’è possibile tutto questo?”. Come fa la scienza della natura ad
essere certa che la legge che lei stabilisce abbia a che fare con la verità del mondo? Che
corrispondenza c’è tra la legge di gravità e quello che accade nel mondo? Il come di questa
relazione, che funziona, ce lo danno gli scienziati, ma lo scienziato deve farsi filosofo per
rispondere al perché funzioni. Cioè, la filosofia può prevenire quell’errore (in cui cade
anch’essa) di pensare che ciò che pensa sia la realtà; l’errore in cui ogni sapere può
incorrere, cioè presumere che le proprie idee siano conformi alla realtà che c’è là fuori. La
conoscenza umana in sé, non del singolo, può cadere nell’errore di presumere che quello
che lei conosce sia immediatamente quello che sta fuori da sé. Com’è possibile che il
linguaggio matematico, il linguaggio formale della matematica, sia conforme a ciò che è fuori
dal pensiero e in che modo? Quindi la modernità presuppone una metafisica della scienza,
cioè la scienza al suo interno ha un problema metafisico che va risolto, ed è qui lo spazio
della filosofia (infatti Cartesio, Leibnitz, Spinoza, Kant, Pascal sono grandi scienziati e grandi
filosofi, anzi la loro filosofia si sviluppa proprio dai problemi scientifici). Se nei grandi sistemi
del razionalismo moderno, si ha un problema che è quello dell’accordo tra l’ordine del
pensiero e l’ordine delle cose, la domanda è: “perché funziona la scienza?”.
Successivamente la questione muta radicalmente, perché a partire da Kant non è più la
filosofia che fonda la scienza; Kant si pone una domanda, quale? La domanda kantiana è:
“È possibile la metafisica come scienza?”. Chiedersi se è possibile la metafisica, cioè la
filosofia, come scienza, che cosa significa? Nei grandi sistemi filosofici della modernità, il
problema della filosofia si pone all’interno della scienza, come fondazione della scienza
stessa, la domanda di Kant è: “È possibile la metafisica come scienza?”; questa domanda è
radicalmente diversa rispetto a quello che è stato detto prima, perché? Perché adesso la
filosofia è posta dinanzi ad un tribunale diverso, cioè quello della scienza. Prima il problema
filosofico era all’interno della scienza, adesso il problema è che la filosofia o è scienza
oppure non è nulla, o almeno bisogna capire che cos’è; prima c’era la scienza, e all’interno
della scienza il problema metafisico-filosofico, ora, invece, da una parte c’è la metafisica e
da un’altra la scienza. Per chiedersi se sia possibile la metafisica come scienza, si dà un
criterio di giudizio, che è la scienza: la scienza giudica la filosofia, è quello il tribunale; prima,
invece, era all’interno della scienza che si poneva la domanda sulla fondazione, era la
filosofia che doveva cercare di fondare la scienza. I ruoli tradizionali si rovesciano: non è più
l’ambito del metafisico che fonda la scienza, ma è l’ambito scientifico che può concedere o
meno cittadinanza alla filosofia. Nei sistemi moderni era la filosofia che doveva fondare la
scienza, ora è la filosofia che arriva davanti al tribunale, e il giudice è la scienza. È la
filosofia che deve giustificarsi davanti al tribunale della scienza, deve giustificarsi in quanto
scienza, cioè deve dimostrare di essere possibile come scienza, deve valere in quanto
Wissenschaft. A questo grande progetto darà voce Kant, nella “Critica della ragion pura”, nel
“Prolegomeni ad ogni metafisica futura che vorrà presentarsi come scienza” e, soprattutto,
nel testo fondamentale che sono i “Primi principi metafisici della natura”, cercando di
dimostrare l’indispensabilità di una nuova metafisica, che non è più la metafisica
tradizionale. Per Kant la metafisica, la filosofia, nel suo essere critica della ragione, esprime
il presupposto in base a cui la scienza già opera, cioè la filosofia ricerca all’interno della
stessa conoscenza scientifica i suoi presupposti filosofico-metafisici. Però che cosa
aggiunge questo alla scienza? Tutto questo che valore ha dinanzi al tribunale della scienza?
Già all’epoca di Kant la scienza è diventata il sapere essenziale e supremo, il solo vero
sapere; nella domanda: “È possibile la metafisica come scienza?”, quello che ci interessa
non è la risposta di Kant, ma la domanda, perché quando ci si pone questa domanda si
presuppone che la scienza sia il solo vero sapere. La domanda testimonia che: o la
metafisica saprà dimostrarsi scienza, oppure sarà un discorso vuoto, arbitrario, che parla di
pseudo-concetti, fantasie, “sogni di un visionario”, come dirà Kant. Kant fu criticato sin da
subito: gli idealisti, che volevano realizzare la filosofia kantiana, sono stati i primi grandi
critici di Kant, perché hanno portato avanti il suo sistema in direzioni molto diverse rispetto a
quelli che erano gli auspici kantiani; tra tutti, Hegel, con cui incontriamo la figura dell’ultimo
grande filosofo. Una delle opere principali di Hegel è “La scienza della logica”, quindi Hegel
cerca di dimostrare che la logica, dunque il sapere fondamentale, è scienza. L’ultimo grande
tentativo, naufragato, è quello degli idealisti: loro credono di essere ancora scienziati, ma
non lo sono. Siamo agli inizi dell’Ottocento e ormai la scienza ha subito un processo di
progresso per cui non si parla più di scienza, ma di scienze, le scoperte scientifiche si
susseguono, così come le loro applicazioni tecniche. I filosofi restano indietro rispetto a
questo: Kant è stato l’ultimo grande filosofo e scienziato, dopo Kant la scienza è diventata
un sapere complesso, specialistico, e i filosofi non stanno al passo. Quello di Hegel è l’ultimo
grande tentativo di costituire un sapere assoluto, una filosofia come scienza, filosofia nel
senso di metafisica, cioè di visione della totalità, spiegazione fondata della totalità. Il
tentativo hegeliano è destinato a naufragare. “La vera figura nella quale la verità esiste, può
essere soltanto il sistema scientifico di essa. Collaborare a che la filosofia si avvicini alla
forma della scienza - alla meta, raggiunta la quale, sia in grado di deporre il nome di amore
del sapere per essere vero sapere - ecco ciò ch'io mi sono proposto.” G.W.F. Hegel,
Fenomenologia dello spirito, Prefazione Quando nasce il metodo scientifico gli scienziati
sono anche filosofi; Cartesio, Galileo, Spinoza, Leibnitz, Pascal, sono grandi filosofi e grandi
scienziati. C’è ancora un problema nella scienza, quello della sua fondazione, che non si
pone fuori dalla scienza, si pone dentro la scienza. Con il progredire della scienza, ossia con
il suo impadronirsi del mondo occidentale, grazie ai suoi risultati, essa si afferma come
forma del sapere più alto; l'Occidente si rende conto che se si vuole sapere qualcosa che
permetta di dominare i processi della natura, bisogna rivolgersi agli scienziati. Così si
afferma la scienza, è un progressivo affermarsi; quando arriviamo ad Hegel il processo è
finito. Hegel dice che la filosofia si deve avvicinare alla forma della scienza, finalmente
deponendo il nome di amore per il sapere, diventando invece vero sapere, sapere effettivo;
la filosofia deve farsi scienza, è questo quello che auspica Hegel. L’hegelismo è l’ultimo
grande tentativo di dare vita a un sistema filosofico, che sia filosofico e scientifico, che
spieghi la totalità del reale, e che lo spieghi scientificamente; la logica deve diventare
scienza. La nostra epoca non è più quella della filosofia come amore della sapienza, ma è
l’epoca del sapere effettivo, ossia della scienza. Fichte scrive la “Dottrina della scienza”, ha
lavorato tutta la vita cercando di arrivare ad una dottrina della scienza, non una scienza
empirica, ma la scienza fondata, la scienza della totalità. La filosofia è una scienza? Kant e
Hegel se lo chiedevano già. Qui avviene la rottura, perché dopo Hegel assistiamo, nel 1830,
alla morte della filosofia; la filosofia va superata. O qualcosa si dà entro i criteri della
scienza, oppure è doxa, opinione: è questo il passaggio dal filosofèin al fare scientifico. Qui
avviene la crisi della filosofia, come crisi dei rapporti tra filosofia e scienza; la grande
impresa del sapere occidentale, che era scienza e filosofia, che all’inizio erano la stessa
cosa, arriva a un punto in cui scienza e filosofia si separano, la crisi della filosofia è la
separazione tra filosofia e scienza, dopo gli idealisti. Kant e gli idealisti pensavano di essere
ancora scienziati; quello di Hegel è un disperato tentativo di far sì che i filosofi fossero
ancora degli scienziati, che producessero una forma di sapere utile alla scienza. La crisi
invece si esprime come separazione tra filosofia e scienza. Il tentativo della filosofia di
fondare la verità della scienza fallisce: la filosofia è un sapere morto, la scienza non se ne fa
nulla della filosofia. Qui si apre la grande stagione post-hegeliana. Karl Marx scrive un’opera
intitolata “Miseria della filosofia”: la filosofia è finita, deve diventare “Critica dell’economia
politica”. Questa è la grande sfida, che viene raccolta da pensatori come Marx, Nietzsche e
Schopenhauer. Nietzsche non era un filosofo, lui voleva demolire la filosofia, questa è la
morte della filosofia. Nietzsche era un filologo, lui intitola una sua opera, che non ha mai
concluso, “Wir Philologen”, cioè “Noi filologi”. Kierkegaard era uno scrittore religioso.
Schopenhauer compie una critica radicale della filosofia, dell’idealismo di Hegel.

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