Ali Aniello
Ali Aniello
Ali Aniello
CARLO ALIANELLO
143
Bè, questa anamnesi, questo racconto dei sintomi e dei mali, i valo-
rosi tecnici della Cassa [del Mezzogiorno], del CIPE e via dicendo, non
potranno studiarsela mai; perché una storia vera, una storia sincera del-
l’antico Reame non c’è.
Resta invece quella leggenda che sarebbe la storia ufficiale come
l’han costruita per conto proprio o per conto altrui: col rosso, con l’azzurro
Savoia, col nero, in un’ibrida mescolanza di martelli, squadre e compassi
massonici, piumetti di bersaglieri, berretti frigi, fiaccole. E chi l’ha
costruita sono stati politicanti e studiosi del Nord e del Sud, in nome del-
l’unità del progresso, della rivoluzione, del Re, del Duce. Non tutti insie-
me, si capisce, né tutti con la medesima voce, ma un po’ per volta, in
armonica disarmonia.
144
L’Alfiere è il romanzo della fedeltà, di un’educazione tradita dai fatti della
Storia, di un singolo che assiste impotente alla sconfitta dei suoi ideali e quindi
alla caduta del sé:
Pino ricade a sedere sulla sedia. In verità di tutto quel che gli
turbinava in testa e gli bruciava dentro altro non sentiva che una stan-
chezza tremenda. E l’abbattimento che lo spossava era uniforme e torbi-
do come un puro travaglio fisi-
co… che era spavento, sì; ma
non di loro, di quelli che erano
usciti, ma del mondo, delle cose
di tutti gli uomini, degli odi e
degli inganni… A questo erava-
mo giunti! E il baratro gli parve
immenso. Non aveva mai
immaginato veramente, con
certa coscienza, che le sorti del
Regno napoletano, e magari nep-
pure di quello, ma dell’animo
suo, di quella costruzione che
forse era più sentimentale che
ragionata, Re, bandiera, onor
militare, terra dei padri, che
erano i piloni su cui s’appoggiava
la sua onestà, la sua umanità
anzi, potessero crollare a un trat-
to così…Tutto il mondo cadeva,
tutto quello che il mondo aveva
per lui di santo, di buono, di
degno…e chi avrebbe mai potu-
to sospettarlo? E perché lui,
Pino, non s’ era presa la cura di
vedere, di chiedere di conoscere? Quei pensieri eran come istinti per lui,
eran parte della sua carne, che finché sta bene e non ti duole tu non hai
coscienza d’ averla e fa l’ufficio suo e non te ne curi…; e al fragor di quel
crollo l’animo suo non raccapricciava. E Pino pensò che così fosse caduta
anche la sua ragione d’essere. Tutto il mondo, quel suo mondo aveva
contro, anche don Celestino- don Celestino!- e non poteva non perire.
145
UNA SCOMODA EREDITÀ
Tra L’Alfiere e L’Eredità della Priora (1963) Alianello ha pubblicato Soldati
del Re (1952), ambientato nel mezzogiorno dei moti del 1848, Maria e i fratelli
(1955), romanzo di ispirazione cattolica come il successivo Nascita di Eva (1966).
Dopo il grande successo dell’Eredità della Priora, cui ha fatto seguito una sorta di
diario Lo scrittore o della solitudine (1970), Alianello è tornato ai temi meridionali
con La Conquista del Sud (1972) e L’inghippo (1972). L’Eredità della Priora è
ambientato nella Potenza postunitaria tra piemontesi e briganti. Un romanzo in
cui s’intrecciano più voci, in cui il dato più rilevante è il tradimento, tema già
noto e affrontato da diversi punti di vista:
L’Unità è stata costruita dalle illusioni dei letterati. Lo scontro con la buro-
crazia piemontese ha determinato un trauma di difficile assorbimento sia per le
classi sociali più basse sia tra i borghesi:
146
«Il fatto è», disse don Enrico Maffei, «che sotto i borboni noi ci cre-
devamo davvero fratelli. E per questa fratellanza abbiamo rischiato la
forca, l’ergastolo, le galere. Non vi sapevamo ancora e non potevamo sup-
porre, neanche io lo pensavo, che una monarchia ne valesse
un’altra…Poesia, poesia, ’a verità, l’Italia unita l’hanno voluta i letterati.
Libertà, eguaglianza, fraternità. Guardatevi intorno e ditemi dove stan-
no. Voi siete venuti qua come dentro l’ Africa selvaggia senza sapere niente
e ancora v’ostinate a non voler sapere niente. E avete stabilito che siamo
inferiori a voi, soltanto perché siamo differenti. Nego. Ma a qualcuno può
fare comodo pensarlo, a qualcuno dei nostri persino. Embè …il fratello
che fa? Stende la mano al fratello. Avreste dovuto venire qua a portarci
lavoro, istruzione, progresso… Non siete quelli che ci hanno redenti dalla
barbarie borbonica? Almeno aveste portato la giustizia! E invece ve la
siete sbrigata con quattro gendarmi e quattro avventurieri. In questo
campo i borboni sapevano fare meglio. Diamo merito al merito. Il guaio è
che adesso la frittata è fatta e come si rimedia più? Ci avete fatto fessi… e
così sia. Ma se si potesse tornare indietro e ricominciare da capo…patti
chiari e amicizia lunga…Altrimenti non entrereste più con tanta facilità
nel Regno di Napoli. E questo tenetevelo bene a mente. Ora, come ora, vi
dobbiamo chiamare fratelli a forza e… se no, cosa saremmo noi? Noi,
galantuomini liberali?»
Ma i meridionali hanno i loro difetti, i loro vizi, sono alla fine facilmente
governabili e manovrabili perché non costituiscono una vera entità civile.
147
questo; è un faticante nato, magari in veste di re o di gran signore.
Condannato al lavoro; ché se poi gli vada bene o male sono affari suoi.
Ma un napoletano fortunato è un oltraggio patente, insopportabile.
Epperciò Napoli non ha mai avuto un re di razza napoletana».
Cinque teste che parevano pupazzi infarinati di gesso, con gli occhi
sbarrati e la bocca aperta, e a qualcuno gli pendeva la lingua. I corpi non
c’erano; di sicuro gli avevano buttati ad ardere nelle fiamme della casa
[…]. «Sono briganti?» chiese Gerardo, anche lui con un bisbiglio. «Che
briganti? Quelli sparano e si nascondono. Questi sono poveri cafoni che ci
si sono ritrovati in mezzo. Forse gli abitanti della casa. Guardateme sti
facce se so facce di briganti».
Una era la casa canuta d’un vecchio, ma vecchio antico, un pugno
di rughe aperto su quattro denti gialli, due facce innocue di zappaterra,
dove i lineamenti s’erano alterati e rilasciati insieme, ché forse neppure
quella mamma che li aveva fatti li avrebbe riconosciuti, ma sopra si stava
ancora, straziata e fissa, la pietà d’uno sbigottimento pauroso e candido.
Quelle facce chiedevano ancora: «Proprio a me? E perché?» Le altre due
dovevano essere teste di ragazzi e il maggiore non aveva superato i quin-
dici anni. Ci stava la paura su tutti quei visi, come le mosche nere e pol-
pute che ci passeggiavano sopra. Il più piccolo, proprio un ragazzetto,
pareva che ridesse, ma era una contrazione dei muscoli tagliati al collo
quando lui forse viveva ancora e pativa la morte.
148