Ali Aniello

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XX.

CARLO ALIANELLO

DI UNA GUERRA FORSE D’UNA GUERRA CIVILE


Carlo Alianello nacque a Roma il 20 marzo del 1901. Di origini lucane, il
padre era potentino e il nonno di Missanello, ha dedicato la maggior parte della
sua opera alla rilettura del Risorgimento italiano, trovando nella Basilicata fine
ottocentesca lo scenario ideale della triste guerra civile consumatasi nel Sud
all’indomani dell’Unità. La sua vicinanza agli ambienti del cattolicesimo integra-
lista ha spesso condizionato la lettura della sua opera, che è stata tacciata di
superficialità e forzature, di simpatie
«neoborboniche» e di uso mirato delle
fonti. Certo ad Alianello è mancata
una visione serena della storiografia -
si pensi alla vis polemica della
Conquista del Sud - è mancato forse
anche un preciso inquadramento delle
fonti, un’attenzione corretta e rigoro-
sa alle origini di certi fenomeni o alle
conseguenze delle scelte politiche
degli stessi meridionali, ma alla luce
delle ultime analisi storiografiche – ci
si riferisce, in particolare, al volume
di Claudia Petraccone, Le due civiltà.
Settentrionali e meridionali nella storia
d’Italia43 - bisogna ammettere che lo
scrittore aveva intuito assai bene come
l’unità d’Italia rappresentasse un nodo
essenziale per la storia del mezzogior- (da PALESTINA, Il brigantaggio in immagini, Rionero
1985)
no. Alianello avvertiva appunto come
tante voci storiografiche e «interessate», preoccupate di altro, avessero trascurato
un’analisi non ideologizzata della storia del Regno delle Due Sicilie; è pur vero
che la sua rimase più la ricostruzione di un romanziere dalla voce enfatica e for-
temente ideologica, che quella di un filologo o di uno storico interessato a riper-
correre correttamente i fatti. In ogni caso utile, quella verve polemica è servita a
ridare vigore agli studi meridionalistici. Nella raccolta La conquista del Sud
(1972) si affacciava proprio l’istanza di letture neutrali:

43 Bari, Laterza, 2000.

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Bè, questa anamnesi, questo racconto dei sintomi e dei mali, i valo-
rosi tecnici della Cassa [del Mezzogiorno], del CIPE e via dicendo, non
potranno studiarsela mai; perché una storia vera, una storia sincera del-
l’antico Reame non c’è.
Resta invece quella leggenda che sarebbe la storia ufficiale come
l’han costruita per conto proprio o per conto altrui: col rosso, con l’azzurro
Savoia, col nero, in un’ibrida mescolanza di martelli, squadre e compassi
massonici, piumetti di bersaglieri, berretti frigi, fiaccole. E chi l’ha
costruita sono stati politicanti e studiosi del Nord e del Sud, in nome del-
l’unità del progresso, della rivoluzione, del Re, del Duce. Non tutti insie-
me, si capisce, né tutti con la medesima voce, ma un po’ per volta, in
armonica disarmonia.

LA STORIA DALLA PARTE DEI VINTI


Dopo un saggio sul teatro di Maeterlink (1928), Alianello esordisce con il
romanzo L’Alfiere (1943), dove si racconta, dal punto di vista di un ufficiale bor-
bonico rimasto fedele all’esercito di Franceschiello, la guerra e le sollevazioni
popolari fomentate dallo sbarco dei Mille in Sicilia. La firma dell’armistizio getta
lo sconforto tra i soldati che stanno per prendere Garibaldi:

Ora i soldati s’eran divisi in due file e andavano cauti sparando


dalle finestre che s’aprivano e tonavano: fucilate ne sbottavano da ogni
parte e fumo e strida. Qualche casa presa d’assalto ardeva. Dietro una
persiana chiusa una voce fievole, arrocchita dalla commozione o dall’or-
rore gridò: «Viva u’ re!». Due, tre soldati alzarono il viso all’aria per cer-
care donde venisse la voce; un’altra rispose più in là e una terza più avan-
ti ancora. E i cacciatori son già sulla piazza spazzando ogni cosa avanti a
sé con un urlio di allegrezza e già s’addensano agli occhi delle strade che
portano al cuore di Palermo, pronti a precipitarsi innanzi… Preso l’ab-
biamo a Garibaldi! Che da via delle Pentite si paran davanti in gran
corsa degli ufficiali del Re, con le braccia levate che sembran semafori.
«Ferma! Ferma! Alto! Cessate il fuoco!». «Che c’è? Perché?».[…]
Un capitano si toglie il chepì con una manata e lo scaraventa a sbat-
ter sul lastrico della piazza, un tenente volta le spalle d’improvviso e via, via
dal quel sentore d’intrigo, mordendosi un pugno.[…] «Armistizio, capite! E
firmato adesso adesso quando noi già s’era a Palermo! Neppure un’ora fa! A
noi ci legano le mani e Garibaldi trionfa!».

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L’Alfiere è il romanzo della fedeltà, di un’educazione tradita dai fatti della
Storia, di un singolo che assiste impotente alla sconfitta dei suoi ideali e quindi
alla caduta del sé:

Pino ricade a sedere sulla sedia. In verità di tutto quel che gli
turbinava in testa e gli bruciava dentro altro non sentiva che una stan-
chezza tremenda. E l’abbattimento che lo spossava era uniforme e torbi-
do come un puro travaglio fisi-
co… che era spavento, sì; ma
non di loro, di quelli che erano
usciti, ma del mondo, delle cose
di tutti gli uomini, degli odi e
degli inganni… A questo erava-
mo giunti! E il baratro gli parve
immenso. Non aveva mai
immaginato veramente, con
certa coscienza, che le sorti del
Regno napoletano, e magari nep-
pure di quello, ma dell’animo
suo, di quella costruzione che
forse era più sentimentale che
ragionata, Re, bandiera, onor
militare, terra dei padri, che
erano i piloni su cui s’appoggiava
la sua onestà, la sua umanità
anzi, potessero crollare a un trat-
to così…Tutto il mondo cadeva,
tutto quello che il mondo aveva
per lui di santo, di buono, di
degno…e chi avrebbe mai potu-
to sospettarlo? E perché lui,
Pino, non s’ era presa la cura di
vedere, di chiedere di conoscere? Quei pensieri eran come istinti per lui,
eran parte della sua carne, che finché sta bene e non ti duole tu non hai
coscienza d’ averla e fa l’ufficio suo e non te ne curi…; e al fragor di quel
crollo l’animo suo non raccapricciava. E Pino pensò che così fosse caduta
anche la sua ragione d’essere. Tutto il mondo, quel suo mondo aveva
contro, anche don Celestino- don Celestino!- e non poteva non perire.

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UNA SCOMODA EREDITÀ
Tra L’Alfiere e L’Eredità della Priora (1963) Alianello ha pubblicato Soldati
del Re (1952), ambientato nel mezzogiorno dei moti del 1848, Maria e i fratelli
(1955), romanzo di ispirazione cattolica come il successivo Nascita di Eva (1966).
Dopo il grande successo dell’Eredità della Priora, cui ha fatto seguito una sorta di
diario Lo scrittore o della solitudine (1970), Alianello è tornato ai temi meridionali
con La Conquista del Sud (1972) e L’inghippo (1972). L’Eredità della Priora è
ambientato nella Potenza postunitaria tra piemontesi e briganti. Un romanzo in
cui s’intrecciano più voci, in cui il dato più rilevante è il tradimento, tema già
noto e affrontato da diversi punti di vista:

Fino a un certo punto li capisco; i piemontesi, dico. S’erano ridotti


all’osso, al filo, alla fame, con la loro guerra del ’59. E che, Napoleone
fosse venuto gratis? Nizza, Savoia e rimborso spese, che sono bei quattrini.
A ognuno la sua parte. E quelli che hanno pensato di rimettersi in forza
con oro napoletano. Napoli, è ricca, cioè era ricca. Ma hanno scialato,
hanno dato a cani e porci, hanno fatto, mò nce vò il puttanizio. E chi ha
avuto ha avuto. Mi sapete dire dove è finito l’oro del Banco di Napoli,
quattrocento milioni di ducatoni, belli belli? Spese di guerra. Però essen-
doché la guerra è finita e l’hanno fatta tutte a spese nostre, sti soldi dove si
sono nascosti? A Torino? Ma quelli so più pezzenti. Più disperati ’n canna
di prima, che hanno perfino alzate le tasse e ci hanno regalato questa
bella imposta di guerra, nuova nuova…Rivoletti, rivoletti, fiumicelli,
fiumicelli … troppe bocche da tacitare, troppe coscienze da rappezzare…
E così la finanza napoletana era citata tra le più prospere d’Europa, s’è
andata a fa fottere. Per questo Re Francesco ha perduto la guerra; proibito
spendere… Non ci stanno cannoni di nuovo modello? I fucili sono ferrac-
ci? Gli ufficiali per mangiare e mantenere la famiglia devono fare i
camorristi? Tutto, purché le casse dello stato siano piene. Un tornese, ch’è
un tornese, non ne doveva uscire. Eppoi arriva Garibaldi e ti fotte tutt’e
cose, perché non c’è un fucile, un cannone, un ufficiale integro… E questo
ve lo dice un liberale, liberale vero; appunto perché è un liberale; demo-
cratico, che se ne fotte dei Re, e dei Savoia soprattutto.

L’Unità è stata costruita dalle illusioni dei letterati. Lo scontro con la buro-
crazia piemontese ha determinato un trauma di difficile assorbimento sia per le
classi sociali più basse sia tra i borghesi:

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«Il fatto è», disse don Enrico Maffei, «che sotto i borboni noi ci cre-
devamo davvero fratelli. E per questa fratellanza abbiamo rischiato la
forca, l’ergastolo, le galere. Non vi sapevamo ancora e non potevamo sup-
porre, neanche io lo pensavo, che una monarchia ne valesse
un’altra…Poesia, poesia, ’a verità, l’Italia unita l’hanno voluta i letterati.
Libertà, eguaglianza, fraternità. Guardatevi intorno e ditemi dove stan-
no. Voi siete venuti qua come dentro l’ Africa selvaggia senza sapere niente
e ancora v’ostinate a non voler sapere niente. E avete stabilito che siamo
inferiori a voi, soltanto perché siamo differenti. Nego. Ma a qualcuno può
fare comodo pensarlo, a qualcuno dei nostri persino. Embè …il fratello
che fa? Stende la mano al fratello. Avreste dovuto venire qua a portarci
lavoro, istruzione, progresso… Non siete quelli che ci hanno redenti dalla
barbarie borbonica? Almeno aveste portato la giustizia! E invece ve la
siete sbrigata con quattro gendarmi e quattro avventurieri. In questo
campo i borboni sapevano fare meglio. Diamo merito al merito. Il guaio è
che adesso la frittata è fatta e come si rimedia più? Ci avete fatto fessi… e
così sia. Ma se si potesse tornare indietro e ricominciare da capo…patti
chiari e amicizia lunga…Altrimenti non entrereste più con tanta facilità
nel Regno di Napoli. E questo tenetevelo bene a mente. Ora, come ora, vi
dobbiamo chiamare fratelli a forza e… se no, cosa saremmo noi? Noi,
galantuomini liberali?»

Ma i meridionali hanno i loro difetti, i loro vizi, sono alla fine facilmente
governabili e manovrabili perché non costituiscono una vera entità civile.

«Questo, signor generale, è il vertice supremo, il motore, l’essenza


medesima dell’animo meridionale: l’invidia. La gente dice: neh, perché
quello sì e io no? Fossi più fesso io? Impossibile; neanche pensarlo…sicco-
me l’invidia si sposa con la vanità. E non pensavo al lavoro, al sacrifizio,
magari alla fortuna. Nossignore: chiunque si alzi li fa fessi e quindi deve
essere abbassato. Ferdinando II, che era Re, quando per via del progresso
l’hanno pensato come uomo, non semidio, uno dei loro, come tutti quan-
ti, essendo re, faceva fessi tutti. Questi s’era napolizzato ’o veramente. E
perciò invidiò il Filangeri che egli aveva salvato la Sicilia ed era uomo di
salvargli anche mò tutto il Regno, e lo mise da parte umiliandolo…
Questo re nuovo, Vittorio Emanuele, forestiero è, non è di casa nostra,
epperciò non se ne sentono offesi…ancora. Perché, se il forestiero fatica e
guadagna, non porta colpa. La mamma e la natura l’hanno fatto per

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questo; è un faticante nato, magari in veste di re o di gran signore.
Condannato al lavoro; ché se poi gli vada bene o male sono affari suoi.
Ma un napoletano fortunato è un oltraggio patente, insopportabile.
Epperciò Napoli non ha mai avuto un re di razza napoletana».

Le pagine più intense del romanzo sono quelle dedicate al brigantaggio.


Nello sceneggiato televisivo, proposto al pubblico alla fine degli anni Settanta con
la colonna sonora di Eugenio Bennato e i Musica Nova, fu proprio la vicenda dei
briganti ad appassionare il pubblico. Il brigantaggio vi appare sotto la veste di rivol-
ta contadina e di adesione alla dinastia dei Borbone delegittimata dalla guerra e
dalla storia. Ma la reazione piemontese fu spietata; senza distinzioni furono messi a
morte veri o falsi che fossero tutti quelli che appena sembravano briganti:

Cinque teste che parevano pupazzi infarinati di gesso, con gli occhi
sbarrati e la bocca aperta, e a qualcuno gli pendeva la lingua. I corpi non
c’erano; di sicuro gli avevano buttati ad ardere nelle fiamme della casa
[…]. «Sono briganti?» chiese Gerardo, anche lui con un bisbiglio. «Che
briganti? Quelli sparano e si nascondono. Questi sono poveri cafoni che ci
si sono ritrovati in mezzo. Forse gli abitanti della casa. Guardateme sti
facce se so facce di briganti».
Una era la casa canuta d’un vecchio, ma vecchio antico, un pugno
di rughe aperto su quattro denti gialli, due facce innocue di zappaterra,
dove i lineamenti s’erano alterati e rilasciati insieme, ché forse neppure
quella mamma che li aveva fatti li avrebbe riconosciuti, ma sopra si stava
ancora, straziata e fissa, la pietà d’uno sbigottimento pauroso e candido.
Quelle facce chiedevano ancora: «Proprio a me? E perché?» Le altre due
dovevano essere teste di ragazzi e il maggiore non aveva superato i quin-
dici anni. Ci stava la paura su tutti quei visi, come le mosche nere e pol-
pute che ci passeggiavano sopra. Il più piccolo, proprio un ragazzetto,
pareva che ridesse, ma era una contrazione dei muscoli tagliati al collo
quando lui forse viveva ancora e pativa la morte.

Nel romanzo la parte meno riuscita e meno convincente è proprio quella


linguistica. Alianello cerca di prestare ai suoi personaggi un liguaggio verisimile:
ne esce fuori un balbettio dialettale più vicino a un generico napoletano che al
potentino o ad altri dialetti lucani. Un linguaggio che invece di renderli più reali,
più vividi e drammatici, dà a questi personaggi il colpo di grazia, li ridicolizza. La
tensione dell’intreccio insomma si scontra con la debolezza dello stile.

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