Luigi Pirandello

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Luigi Pirandello (1867-1936)

 Chiavi di lettura: relativismo gnoseologico, dualismo vita-forma (Tilgher), frantumazione dell’io,


causalità, umorismo, forestiere di vita
 Vita come pupazzata di marionette, mercantessa di vetri colorati
 Filosofia del lontano
 Follia: nausea dell’anima
 Conoscenza morta, cioè è arrivata allo stadio finale del processo, bloccata nella forma
 Lanternoni: grandi verità (patria, famiglia, onore, virtù, bellezza, sentimenti comuni astratti)
 Lanternini: interpretazione soggettiva dei lanternoni
 Metateatro: teatro in fieri, in divenire. Il dramma moderno dell’uomo, abbattimento del sipario,
scena costruita, coinvolgimento del pubblico

Vita
Nasce il 28 giugno 1867 a Girgenti (vecchio nome di Agrigento) da una famiglia di agiata borghesia (il padre
dirigeva alcune miniere di zolfo prese in affitto). Frequentò prima l’università di Palermo, poi quella di
Roma ed infine si sposto in Germana all’università di Bonn.
Si stabilì definitivamente a Roma nel 1892, dedicandosi interamente alla letteratura. Nel 1893 scrisse il suo
primo romanzo L’esclusa. Sposò Maria Antonietta Portulano. Intraprese la carriera di insegnante all’Istituto
Superiore di Magistero di Roma.
Nel 1903 un allagamento nella miniera di zolfo del padre provocò il dissesto economico dell’intera famiglia,
e ciò ebbe conseguenze drammatiche nella vita dello scrittore. La moglie, infatti, il cui equilibrio psicologico
era già fragile, ebbe una crisi che la portò alla follia. La convivenza con la donna, ossessionata da una
patologica gelosia, divenne per Pirandello un tormento continuo, che può essere visto come l’inizio della sua
concezione della famiglia come “trappola” che imprigiona e soffoca l’uomo.
Con la perdita delle rendite Pirandello fu costretto ad intensificare la sua attività da scrittore di novelle e
romanzi, lavorando anche nell’industria cinematografica. Anche l’esperienza di Pirandello, così come quella
degli altri scrittori del Novecento, fu segnata dalla declassazione sociale, dal passaggio da una vita di agio
borghese ad una condizione caratterizzata da disagi economici e frustrazioni.
Dal 1910 Pirandello ebbe il primo contatto col mondo teatrale, con la rappresentazione di due atti unici,
Lumìe di Sicilia e La morsa. Dal 1915 la sua produzione teatrale si intensificò.
Erano anche gli anni della guerra. Pirandello, in nome delle sue convinzioni patriottiche, aveva visto con
favore l’intervento, ma la guerra incise dolorosamente la sua vita: il figlio Stefano, partito volontario, fu
subito fatto prigioniero dagli Austriaci, e il padre si adoperò con ogni mezzo, ma invano, per la sua
liberazione. In conseguenza del fatto la malattia mentale della moglie si aggravò, tanto che lo scrittore fu
costretto a farla ricoverare in una casa di cura, dove la donna restò fino alla morte.
Dal 1920 il teatro di Pirandello divenne di ampio successo e dal 1922 si dedicò interamente ad esso,
diventando, qualche anno dopo, direttore del Teatro d’Arte a Roma.
L’esperienza del teatro fu resa possibile grazie anche al finanziamento dello Stato. Pirandello, nel 1924, si
era iscritto al partito fascista, e questo gli servì per ottenere appoggi da parte del regime. Da un lato vedeva
nel fascismo una garanzia di ordine e genuina energia vitale, che spazzava via le forme fasulle e soffocanti
dell’Italia postunitaria. Ben presto però dovette rendersi conto del carattere di vuota esteriorità del regime e,
pur evitando ogni forma di rottura o dissenso, accentuò il suo distacco animato da disprezzo. D’altronde il
regime fascista era un esempio evidente della falsità del meccanismo sociale.
Nel 1934 gli venne assegnato il premio Nobel per la Letteratura.
Morì di polmonite il 10 dicembre 1936.

La visione del mondo


Alla base della visione del mondo pirandelliana vi è una concezione vitalistica: la realtà tutta è “vita”,
“perpetuo movimento vitale”, inteso come eterno divenire, incessante trasformazione da uno stato all’altro,
“flusso continuo”. Tutto ciò che si stacca da questo flusso, e assume “forma” distinta e individuale, si
irrigidisce e comincia a morire. Così avviene all’identità dell’uomo. Noi tendiamo a fissarci in una realtà che
noi stessi ci diamo, in una personalità che vogliamo coerente e unitaria. In realtà questa personalità è
un’illusione. Non solo noi stessi, però, ci fissiamo in una “forma”. Anche gli altri, con cui viviamo in società,
vedendoci ciascuno secondo la sua prospettiva particolare ci danno determinate “forme”. Noi crediamo di
essere “uno” per noi stessi e per gli altri, mentre siamo tanti individui diversi, a seconda della visione di chi
ci guarda. Ad esempio, un individuo può crearsi di sé stesso l’immagine del buon padre di famiglia, mentre
gli altri magari lo fissano senza rimedio nel ruolo dell’adultero. Ciascuna di queste forme è una costruzione
fittizia, una “maschera” che noi stessi ci imponiamo e che ci impone il contesto sociale. Sotto questa
maschera non c’è un volto definito: non c’è “nessuno”, o meglio vi è un fluire indistinto di incoerente di stati
in perenne trasformazione. Pirandello fu influenzato dalle teorie dello psicologo francese Alfred Binet sulle
alterazioni della personalità, ed era convinto che nell’uomo coesistessero più persone, ignote a lui stesso, che
possono emergere inaspettatamente; condusse quindi una critica al concetto di identità personale.
La crisi dell’idea di identità e di persona risente evidentemente dei grandi processi in atto nella società
contemporanea, dove si muovono forze che tendono proprio alla frantumazione e alla negazione
dell’individuo: l’instaurarsi del capitale monopolistico, l’espandersi della grande industria e dell’uso delle
macchine, la creazione di sterminati apparati burocratici, il formarsi delle grandi metropoli moderne. L’idea
classica dell’individuo creatore del proprio destino e dominatore del proprio mondo, dalla personalità
inconfondibile e coerente, ora tramonta: l’individuo non conta più, l’io si indebolisce, perde la sua identità.
La presa di coscienza di ciò suscita nei personaggi pirandelliani smarrimento e dolore. L’avvertire di non
essere “nessuno” genera un senso di angoscia e solitudine. Viceversa l’individuo soffre anche ad essere
fissato dagli altri in “forme” in cui non può riconoscersi. L’uomo si esamina dall’esterno nel compiere gli atti
abitudinali che gli impone la sua maschera, e che appaiono assurdi.
Queste forme sono sentite come “trappola”, come un “carcere” in cui l’individuo lotta invano per liberarsi.
La società appare a Pirandello come un’“enorme pupazzata”, una costruzione artificiosa e fittizia, che isola
l’uomo, lo irrigidisce e lo porta alla morte anche se egli continua apparentemente a vivere. Alla base di tutta
l’opera pirandelliana si può percepire un bisogno disperato di autenticità, di spontaneità vitale. L’istituto in
cui si manifesta per eccellenza la trappola della forma è la famiglia, con le sue tensioni segrete, gli odi, i
rancori. L’altra trappola è quella economica, costituita dalla condizione sociale e dal lavoro: gli eroi
pirandelliani sono prigionieri di lavori monotoni e sforzanti, di un’organizzazione gerarchica e oppressiva.
Per Pirandello è la società in quanto tale ad essere condannabile.
L’unica via di salvezza che si dà agli eroi pirandelliani è la fuga nell’irrazionale: nell’immaginazione che
trasporta verso un altrove fantastico (Il treno ha fischiato), oppure nella follia (Enrico IV o Uno, nessuno e
centomila). Il rifiuto della vita sociale dà luogo ad una figura ricorrente: il “forestiere della vita”, colui che ha
capito i meccanismi alla base della società e si isola, osservano gli altri vivere le loro vite con un
atteggiamento umoristico e di pietà. Pirandello definisce ciò come “filosofia del lontano”: contemplare la
realtà da un’infinita distanza, in modo da vedere in una prospettiva straniata tutto ciò che l’abitudine ci fa
considerare come “normale”.
La realtà non si può fissare in schemi, non può essere ordinata. Il reale è multiforme. Caratteristico della
visione pirandelliana è dunque un radicale relativismo conoscitivo: non si dà una verità oggettiva fissata una
volta per tutte. Ognuno ha la sua verità, che nasce dal modo soggettivo di vedere le cose. Ne deriva
un’incomunicabilità tra gli uomini, perché ciascuno fa riferimento alla realtà com’è per lui e non sa come la
vedono gli altri.

La poetica
L’umorismo è il testo chiave per comprendere l’universo pirandelliano. L’opera d’arte, secondo Pirandello, è
capace di cogliere e smascherare le contraddizioni del reale. Di qui nasce il “sentimento del contrario”, che è
il tratto caratterizzante l’umorismo per Pirandello. Lo scrittore propone un esempio: se vedo una vecchia
signora con i capelli tinti e tutta imbellettata, avverto che è il contrario di ciò che una vecchia signora
dovrebbe essere. Questo “avvertimento del contrario” è il comico. Ma se interviene la riflessione e
suggerisce che quella signora soffre e si mostra in quel modo solo per trattenere l’amore del marito più
giovane, non posso più solo ridere: dall’”avvertimento del contrario”, cioè dal comico, passo al “sentimento”
del contrario, cioè all’atteggiamento umoristico. Se si coglie il ridicolo di una persona, di un fatto, se ne
individua anche l’umana sofferenza, e lo si guarda con pietà. In una realtà multiforme, tragico e comico
vanno sempre insieme.
Nel saggio, Pirandello afferma che l’umorismo si trova nella letteratura di tutti i tempi, ma in realtà la
definizione che egli propone si adegua perfettamente all’arte contemporanea. Si tratta di un’arte piena di
dissonanze, in cui ogni pensiero genera sempre contemporaneamente il suo opposto. Un’arte critica che
tende a scomporre la realtà e far emergere incoerenze e contrasti. Le opere di Pirandello sono tutti testi
“umoristici”, in cui riso e serietà sono sempre mescolati.

Il fu Mattia Pascal
Il romanzo, diviso in 18 capitoli, inizia a vicenda conclusa e narra la storia in prima persona. A parlare infatti
è il protagonista Mattia Pascal, un giovane che vive a Miragno, un paesino ligure, e appartiene a una famiglia
benestante. Alla morte del padre, egli ha ereditato una discreta somma di denaro. Denaro che un
amministratore disonesto di nome Batta Malagna ha mal gestito e dissolto, arricchendosi alle spalle della
famiglia Pascal fino a ridurla sul lastrico. Mattia, infatti, per vivere è costretto a lavorare nella Biblioteca
Boccamazza, lavoro che mal sopporta. Inoltre, vive costantemente in lite con la moglie Romilda e con la
suocera che lo disprezza, così, un bel giorno, decide di partire per iniziare una nuova vita. Arrivato a
Montecarlo, vince alla roulette una grande somma di denaro e pensa che le cose possano migliorare, volendo
fare ritorno a casa.
Sulla via del ritorno, in treno, sfogliando un giornale, legge del suicidio di un uomo nel suo paese: tra lo
stupore e la sorpresa scopre che si tratta del "proprio" suicidio. Per uno strano gioco del caso, il corpo in
avanzato stato di putrefazione ritrovato nella gora di un mulino era stato, infatti, riconosciuto come suo da
sua moglie e sua suocera. Approfittando dell’occasione ghiotta, decide di cambiare la propria identità e, una
volta per tutte vivere una nuova vita libera e svincolata da ogni convenzione e prigione sociale. Cambia
nome, da ora si farà chiamare Adriano Meis, e affitta una casa a Roma. Quando, innamoratosi della figlia del
padrone della nuova casa, però, scopre di non poterla sposare, capisce che senza documenti, non può vivere
libero come sperava. E così, ancora, quando subisce un furto e non lo può denunziare, o quando subisce
offese che non può vendicare. Decide allora di morire per la seconda volta, e rinascere come Mattia Pascal.
Inscena quindi il suicidio di Adriano Meis lasciando su un ponte il suo cappello, il bastone e un biglietto e
torna alla propria vita a Miragno.
Una volta rientrato in paese, però, scopre che la moglie si è risposata ed ha avuto dei figli con il suo amico,
non c’è più posto per Mattia nella sua vita. Torna a lavorare quindi nella biblioteca Boccamazza e, di tanto in
tanto, porta fiori alla propria tomba. Al concludersi del romanzo e della vicenda, il fu Mattia Pascal decide di
raccontare gli strani casi della sua esistenza, e lo fa in un libro destinato ad esser letto cinquant’anni dopo la
sua “terza, ultima e definitiva morte".

Uno, nessuno e centomila


Il romanzo ha per protagonista Vitangelo Moscarda, un uomo di mezza età semplice e senza grandi vizi, che
abita con la moglie Dida e che, grazie alla banca ereditata dal padre, può vivere di rendita. La sua
quotidianità scorre tranquilla fino a quando, un giorno, Vitangelo è davanti allo specchio per guardarsi una
narice che gli fa un po’ male, e sua moglie butta lì con un sorriso, con aria quasi distratta: “Credevo
guardassi da che parte ti pende”. Sì, perché a quanto pare il naso del suo Gengè non è dritto come lui aveva
sempre pensato, ma pendente a destra. La rivelazione segna per Moscarda un punto di non ritorno: se sua
moglie lo vede in un modo che a lui non era mai venuto in mente, è probabile che anche gli altri abbiano
un’altra idea di lui, anzi, centomila idee, tutte diverse fra loro e tutte diverse da quella che Moscarda ha di sé
stesso. Credeva di essere uno, insomma, e invece si ritrova a non sapere più niente di sé, non assomigliando
più a nessuno che conosca. Colto da un raptus sempre più furioso, ma al tempo stesso lucido, l’uomo si
separa allora dalla moglie, vende la banca del padre e litiga con i suoi soci d’affari, sfrattando intanto gli
inquilini di una sua vecchia casa con l’intenzione di investire in una dimora più grande, dove farli andare ad
abitare a loro insaputa per migliorare le loro condizioni, e perché non pensino più che Moscarda sia un
taccagno e un usuraio. Questa presa di coscienza così brusca e radicale lo porta ad allontanarsi da tutte “le
rabbie del mondo”, che a suo avviso sono i soldi, l’amore e la violenza, e a costruire un “ospizio di
mendicità” dove accogliere i poveri e i bisognosi: Moscarda stesso deciderà alla fine di vivere lì, rinunciando
a qualunque possedimento e rapporto sociale pur di ritrovare un contatto diretto, essenziale e pacifico con le
piccole cose intorno a sé.

La trappola
La Trappola è tratta da “Novelle per un anno”, di Luigi Pirandello. Fu pubblicata sul Corriere della sera il 23
maggio 1912 e nel volume La Trappola nel 1915.
Essa si articola come un colloquio interiore di un uomo, Fabrizio, certo che l’esistenza sia una Trappola,
perché porta sempre alla morte. L’essere umano è diviso tra la vita e l’apparenza, cioè la forma. La forma è
un concetto basilare in Pirandello, poiché l’uomo, secondo lui, non è mai sé stesso, ma si sforza di
interpretare sempre una parte. Per Fabrizio, le donne sono il congegno diabolico del destino, perché
attraggono l’uomo spingendolo a riprodursi e a procreare altri sventurati che saranno in ogni caso in
Trappola. Per Fabrizio, infatti, ogni genitore è il carnefice dell’individuo che genera e che sostiene di amare,
perché lo condanna a morte. Il racconto non presenta quasi andamento narrativo, intreccio o personaggi. Si
tratta di un monologo di un individuo anonimo, che confessa ad un interlocutore indeterminato i propri
pensieri. Il testo è molto importante, perché qui Pirandello sintetizza alcuni temi essenziali, alla base di tutta
la sua opera narrativa e drammatica. Si afferma l’inconsistenza della persona, una costruzione artificiale, una
realtà che noi stessi ci diamo e che maschera una realtà più profonda.
Al di sotto di essa vi è una pluralità di stati di coscienza. La realtà però è vita, è un flusso continuo, e
assumere una precisa personalità individuale significa distaccarsi da questa vita, fissarsi in una forma e
morire. Ogni condizione individuale è una trappola che ci imprigiona, staccandoci dal flusso vitale. Dunque
è significativo che la trappola della novella si concretizza nel rapporto uomo-donna, che genera la società.

La patente
Il giudice D'Andrea è una persona molto ordinata e svolge con precisione e puntualità il suo lavoro. Non
lascia mai in sospeso le pratiche; però questa volta ne ha una che giace da una settimana sulla scrivania
perché si tratta di un caso che lo lascia molto perplesso. Un uomo, di nome Chiàrchiaro, è considerato un
iettatore da tutto il paese. Un giorno, vede due giovani che, nei suoi confronti fanno, un atto osceno di
scongiuro per proteggersi dalla iella; per questo l’uomo ha sporto querela per diffamazione nei loro
confronti.
Il giudice D’Andrea è convinto che non sarà possibile eliminare la superstizione che circonda Chiàrchiaro e
siccome prevede che la causa sarà persa, ritiene che sia più opportuno ritirare la querela, anche perché il
paese non aspetta altro di vedere l’uomo condannato.
Dopo una lunga riflessione, il giudice decide di far chiamare il querelante nel suo ufficio per convincerlo a
ritirare la querela, perché alla fine lo avrebbe penalizzato ancor di più, dato che il giudice non avrebbe mai
potuto incriminare i due ragazzi querelati per un fatto così banale e alla fine la fama di iettatore di
Chiàrchiaro si sarebbe ancor di più diffusa, ottenendo così l'effetto contrario di quello desiderato.
Quando arriva nell'ufficio, Chiàrchiaro si presenta con il tipico aspetto da iettatore e ammette addirittura di
esserlo; il giudice meravigliato gli chiede perché inizialmente abbia querelato i ragazzi che lo ritenevano un
portatore di sfortuna, se poi egli si ritiene di esserlo; nella risposta Chiàrchiaro chiarisce la sua intenzione:
chiede al giudice di istruire al più presto il processo: perdendo la causa, egli sarà considerato ufficialmente
uno portatore di sfortuna e chiederà così che gli sia rilasciata la patente di iettatore. In questo modo potrà
guadagnarsi da vivere: si metterà davanti ai negozi, nelle prossimità delle case da gioco, vicino alle industrie
i cui i proprietari lo pagheranno perché se ne vada; così, egli potrà riscattarsi anche dalla sottile malvagità
della gente che fino ad ora lo ha sempre scansato.

La carriola
Il protagonista di questa novella è un illustre avvocato e professore di diritto. È un uomo stimato e rispettato,
al quale tutto il paese di residenza si rivolge per consigli e suggerimenti. Tutto ha inizio in treno, di ritorno
da un viaggio di lavoro. Il treno simboleggia il desiderio di voler cambiare vita. Durante questo viaggio,
dunque, l'uomo si rende conto che la vita che ha condotto fino a quel momento non gli appartiene. Non si
riconosce più nel suo corpo, nel suo aspetto, nel suo ruolo di avvocato, marito e padre. Si rende conto che la
sua vita scorre velocemente e lui assiste passivamente. Si sente estraneo alla sua vita. Tuttavia fa ritorno a
casa e per l'ennesima volta riapre la porta di casa pronto a rivestire il ruolo di padre e marito perfetto.
L'apertura della porta di casa rappresenta il ritorno alla vita che gli viene imposta dalla società e dalla
famiglia. La famiglia e la società considerano l'avvocato come un uomo perfetto, incapace di commettere
errori. L'avvocato, quindi, per non rovinare le aspettative è costretto a rivestire il ruolo dell'uomo perfetto.
Questo ruolo, però, opprime e soffoca l'avvocato, infatti, ogni giorno ripete un rito. Questo rito è l'unico
modo per sentirsi vivo. Se questo rito venisse scoperto comprometterebbe la sua vita e la sua carriera fatta di
perfezione. Ogni giorno, dopo essersi assicurato di non essere osservato da nessuno, prende le due zampe
della sua cagnolina e gli fa fare la carriola. Questo è l'unico svago che l'avvocato si permette. La carriola,
quindi, rappresenta la follia e la voglia di evasione dal carcere dell'esistenza.

Il treno ha fischiato
La novella racconta la storia di un contabile, Belluca. Egli ha un carattere molto mite, puntuale e dedito al
lavoro, sottomesso da tutti. Per descriverlo, lo scrittore adopera la metafora del somaro perché tante volte
egli veniva rimproverato e fatto sgobbare dai colleghi di lavoro senza pietà e per scherzo, con lo scopo di
vedere la sua reazione; egli non si era mai ribellato ed aveva sempre accettato le ingiustizie, anche le più
crudeli, senza dire una parola. Un giorno inizia a comportarsi in un modo non corrispondente al suo carattere
di sempre, tale da non sembrare più nemmeno lui: arriva in ritardo in ufficio e non svolge regolarmente il suo
lavoro. Quando il capo ufficio entra nella stanza per controllare il lavoro svolto, si accorge che egli non
aveva lavorato e, sorpreso, gliene chiede il motivo. Il contabile reagisce scagliandosi con violenza contro il
suo capo, ripetendo più volte, che un treno ha fischiato nella notte, portandolo in luoghi lontani come la
Siberia e il Congo. A questo punto viene creduto pazzo e ricoverato in un ospedale psichiatrico.
Giunto in ospedale, continua a parlare a tutti del treno; i suoi occhi hanno una luce particolare, simili a quelli
di un bambino felice, e dalla sua bocca escono frasi senza senso. La cosa suscita stupore. All’improvviso, un
vicino di casa che lo conosce inizia a gridare che Belluca non è impazzito ma che è necessario conoscere la
vita che egli è costretto a condurre, prima di esprimere un giudizio su di lui ed accusarlo di pazzia.
Infatti, egli vive in una situazione familiare disastrosa. La sua numerosa famiglia si compone di dodici
persone: la moglie, la suocera e la sorella della suocera, tutte e tre cieche; hanno bisogno continuamente di
essere servite e non fanno altro che strillare, dalla mattina alla sera. Oltre alle tre donne, in casa vivono due
figlie, vedove con quattro figli la prima e tre la seconda. Con lo scarso guadagno da impiegato, Belluca non è
in grado di sfamare tutte queste bocche, per cui si è dovuto procurare un secondo lavoro che svolge la sera,
fino a tardi che lo sfinisce e lo porta all’esaurimento.
Quando Belluca riceve la visita del suo amico, che lo informa che tutti lo credono affetto da follia, lui stesso
gli racconta di quella sera quando, essendo talmente stanco, da non riuscire a dormire, sente da lontano un
fischio di un treno e, quindi, la sua mente lo riporta indietro nel tempo quando anche lui conduceva una vita
“normale” a cui da tempo non pensava più; e quello che gli è successo è stato un ritorno al passato che lo ha
fatto evadere della vita misera che conduce.
Dimesso dall’ospedale, ritorna alla solita vita da contabile, si scusa con il capoufficio il quale, però, gli
concede, ogni tanto di pensare al treno che ha fischiato e di evadere, con l’immaginazione, verso paesi
lontani.

Ciàula scopre la luna


Ciaula è un povero minatore che lavora tutto il giorno sotto terra in una cava di zolfo, ritenuto dagli altri
incapace di capire e provare sentimenti umani. La vicenda è ambientata in Sicilia e Cacciagallina, colui che
sorveglia il lavoro dei minatori, quando doveva prendersi uno sfogo, se la prendeva con Zi’ Scarda.
Quest’ultimo se la prendeva con Ciaula. Un giorno Zi’ Scarda dice a Ciaula che avrebbero dovuto lavorare
tutta la notte, ma lui ha paura del buio. Ha paura del buio da quella volta che il figlio di Zi’ Scarda ebbe un
grave incidente in seguito allo scoppio di una mina. A quello scoppio tutti avevano smesso di lavorare ed
erano andati sul luogo dell’incidente, tutti tranne Ciaula, che atterrito era scappato a ripararsi in un antro noto
soltanto a lui. Nella fretta di andare là, gli si era spenta la lumiera che faceva luce e aveva cercato di trovare
l’uscita dalla galleria. In quel momento ebbe paura. Il lavoro con Zi’ Scarda cominciò e quella notte,
all’uscita dalla galleria vide la luna, o meglio la scopre perché non l’ha mai vista prima: la sua emozione è
così grande e intensa che scoppia a piangere. Ciaula rappresenta tutti gli uomini che, oppressi dall’oscurità
dell’angoscia, aspirano al chiarore delle certezze e che nella bellezza del mondo cercano il riscatto della loro
miseria.

Lo strappo nel cielo di carta


Mattia Pascal, il protagonista dell’omonimo romanzo, si è ormai stabilito a Roma, ha assunto un’identità
diversa, facendosi chiamare Adriano Meis ed abita in casa di un certo signor Paleari. Una sera, quest’ultimo
propone a Adriano (ex Mattia Pascal) di andare ad assistere insieme ad uno spettacolo in cui delle marionette
automatiche recitano l’Elettra. di Sofocle. Questa per Pirandello è l’occasione introdurre la tesi di fondo della
sua ideologia.
Adriano resta perplesso nel sapere che si ricorre a delle marionette meccaniche per rappresentare una
tragedia greca. Paluari continua esponendo un’eventualità e chiedendo a Adriano che cosa succederebbe se
nel momento in cui Oreste sta vendicando la morte del padre si aprisse uno strappo nel cielo di carta dello
scenario. Adriano non trova risposta, ma Paleari spiega che “Oreste rimarrebbe terribilmente sconcertato da
questo buco nel cielo... insomma diventerebbe Amleto”. In questa frase è racchiuso il concetto che Pirandello
ha della condizione umana. Oreste è il protagonista della tragedia di Sofocle spinto dalla sorella Elettra a
vendicare la morte del padre Agamennone e ad uccidere sia la madre infedele, Clitennestra, ed il suo amante.
Oreste è un eroe classico che nella vicenda non ha alcuna esitazione: è sicuro di sé, di quello che deve fare
mai una volta un ripensamento. Va dritto verso il suo scopo e non esita ad assassinare la madre. Amleto, eroe
moderno, come Oreste, sa che il padre è stato ucciso, ma, preso da mille dubbi, non si decide mai a
vendicarlo. Alla fine della tragedia, Amleto vendicherà il padre, ma quasi costretto dagli eventi e non dalla
sua ferrea volontà. Quindi l’uomo antico aveva delle certezze, l’uomo moderno vive nel dubbio e
nell’incertezza. Per questo qualora Oreste, sulla scena, vedesse aprirsi un buco nel cielo di carta, perderebbe
tutte le sue certezze che fino ad ora avevano caratterizzato la sua vita ed il suo comportamento e
diventerebbe un nuovo Amleto perché lacerato da dubbi, ed incapace di agire per eccesso di consapevolezza
critica.
La vita si basa sull’illusione non è altro che un inganno ed è sufficiente che si verifichi un incidente di poco
conto, come lo “strappo del cielo” per capire il vero senso dell’esistenza umana. Anche il teatrino è una
metafora: le marionette meccaniche recitano una parte senza rendersi conto di quello che fanno.

Enrico IV
In una villa della campagna umbra vive rinchiuso da vent’anni un uomo che, impazzito in seguito ad una
caduta da cavallo non accidentale durante una mascherata, si è fissato nella parte che interpretava, quella
dell’imperatore germanico Enrico IV. Da allora vive come se fosse in quella lontana vicenda storica,
assecondato da tutti quelli che lo circondano, che vengono pagati dal marchese Di Nolli per tenergli
compagnia. Dopo tanto tempo si introducono nella villa la donna che un tempo Enrico IV amava, Matilde,
con il suo amante Tito Belcredi, la figlia Frida con il fidanzato Di Nolli, e un dottore. Quest’ultimo,
mascherando Frida e sua madre com’era Matilde vent’anni prima, vuol provocare nel pazzo uno choc che lo
riconduca alla ragione. Ma Enrico IV rivela di essere rinsavito dodici anni dopo l’incidente e di essersi
chiuso nella pazzia a causa di una cattiva società e perché ormai non aveva più alcun contatto con il mondo e
tutti gli puntavano il dito contro chiamandolo pazzo. Durante la farsa organizzata dal dottore, Belcredi
interviene per difendere Frida, ma Enrico IV lo uccide con la sua spada. Così ora è veramente costretto a
fingersi pazzo, per non incorrere in pene giudiziarie.

La signora Frola e il signor Ponza, suo genero


A Valdana si trasferiscono tre nuovi personaggi che improvvisamente catturano l’attenzione dell’intero
paese. Il signor Ponza, sua moglie e la signora Frola, sua suocera, non vivono insieme, ma occupano due
case diverse. Non solo, l’anziana signora non può accedere a casa del signor Ponza e per vedere sua figlia
deve accontentarsi di lasciarle dei bigliettini in un paniere calato dalla ringhiera.
Il narratore tenta di far chiarezza sul fatto, vissuto con inquietudine a Valdana, ricostruendo con attenzione le
tre successive dichiarazioni rilasciate alle signore del paese da parte della signora Frola e del signor Ponza.
La signora Frola, la prima a recarsi al cospetto delle donne, offre loro una prima giustificazione per il
comportamento apparentemente inaccettabile: l’uomo non è per niente crudele, è anzi amorevole e
innamorato della figlia, tanto da volerla "tutta per sé". Non si tratta di crudeltà, ma di "una specie di
malattia", su cui la donna non dice altro.
Non appena terminata la visita della signora Frola, anche il signor Ponza decide di fornire alle donne la sua
"doverosa dichiarazione". In preda all’agitazione, racconta che la signora Frola è in realtà impazzita dopo la
morte della figlia e che lui, per evitarle un dolore ulteriore, da quattro anni porta avanti una messa in scena:
la sua seconda moglie continua a fingersi, da lontano, figlia della donna, perché lei possa continuare a
illudersi che il lutto non sia mai esistito e sia il genero a impedirle di avere un contatto diretto con la figlia.
A questo punto prende nuovamente parola la signora Frola, chiarendo quanto prima taciuto: non è lei a
essere impazzita, ma suo genero, il signor Ponza, che crede che sua moglie sia morta da quattro anni e di
averla sostituita con una seconda. I parenti, preoccupati per lui, hanno acconsentito a questa messinscena:
l’intera famiglia ha celebrato un secondo matrimonio fittizio, la moglie finge d’essere un’altra donna, la
suocera si rassegna a poter vedere la figlia solo da lontano.
Stabilire chi dei due dica la verità è impossibile: la moglie del signor Ponza può parlare solo in presenza del
marito e non può che confermarne la versione, rendendo impossibile capire se stia mentendo per il suo bene
o se stia dicendo la verità.
L’unica cosa concessa al paese è rassegnarsi nel dilemma.

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