Luigi Pirandello
Luigi Pirandello
Luigi Pirandello
Vita
Nasce il 28 giugno 1867 a Girgenti (vecchio nome di Agrigento) da una famiglia di agiata borghesia (il padre
dirigeva alcune miniere di zolfo prese in affitto). Frequentò prima l’università di Palermo, poi quella di
Roma ed infine si sposto in Germana all’università di Bonn.
Si stabilì definitivamente a Roma nel 1892, dedicandosi interamente alla letteratura. Nel 1893 scrisse il suo
primo romanzo L’esclusa. Sposò Maria Antonietta Portulano. Intraprese la carriera di insegnante all’Istituto
Superiore di Magistero di Roma.
Nel 1903 un allagamento nella miniera di zolfo del padre provocò il dissesto economico dell’intera famiglia,
e ciò ebbe conseguenze drammatiche nella vita dello scrittore. La moglie, infatti, il cui equilibrio psicologico
era già fragile, ebbe una crisi che la portò alla follia. La convivenza con la donna, ossessionata da una
patologica gelosia, divenne per Pirandello un tormento continuo, che può essere visto come l’inizio della sua
concezione della famiglia come “trappola” che imprigiona e soffoca l’uomo.
Con la perdita delle rendite Pirandello fu costretto ad intensificare la sua attività da scrittore di novelle e
romanzi, lavorando anche nell’industria cinematografica. Anche l’esperienza di Pirandello, così come quella
degli altri scrittori del Novecento, fu segnata dalla declassazione sociale, dal passaggio da una vita di agio
borghese ad una condizione caratterizzata da disagi economici e frustrazioni.
Dal 1910 Pirandello ebbe il primo contatto col mondo teatrale, con la rappresentazione di due atti unici,
Lumìe di Sicilia e La morsa. Dal 1915 la sua produzione teatrale si intensificò.
Erano anche gli anni della guerra. Pirandello, in nome delle sue convinzioni patriottiche, aveva visto con
favore l’intervento, ma la guerra incise dolorosamente la sua vita: il figlio Stefano, partito volontario, fu
subito fatto prigioniero dagli Austriaci, e il padre si adoperò con ogni mezzo, ma invano, per la sua
liberazione. In conseguenza del fatto la malattia mentale della moglie si aggravò, tanto che lo scrittore fu
costretto a farla ricoverare in una casa di cura, dove la donna restò fino alla morte.
Dal 1920 il teatro di Pirandello divenne di ampio successo e dal 1922 si dedicò interamente ad esso,
diventando, qualche anno dopo, direttore del Teatro d’Arte a Roma.
L’esperienza del teatro fu resa possibile grazie anche al finanziamento dello Stato. Pirandello, nel 1924, si
era iscritto al partito fascista, e questo gli servì per ottenere appoggi da parte del regime. Da un lato vedeva
nel fascismo una garanzia di ordine e genuina energia vitale, che spazzava via le forme fasulle e soffocanti
dell’Italia postunitaria. Ben presto però dovette rendersi conto del carattere di vuota esteriorità del regime e,
pur evitando ogni forma di rottura o dissenso, accentuò il suo distacco animato da disprezzo. D’altronde il
regime fascista era un esempio evidente della falsità del meccanismo sociale.
Nel 1934 gli venne assegnato il premio Nobel per la Letteratura.
Morì di polmonite il 10 dicembre 1936.
La poetica
L’umorismo è il testo chiave per comprendere l’universo pirandelliano. L’opera d’arte, secondo Pirandello, è
capace di cogliere e smascherare le contraddizioni del reale. Di qui nasce il “sentimento del contrario”, che è
il tratto caratterizzante l’umorismo per Pirandello. Lo scrittore propone un esempio: se vedo una vecchia
signora con i capelli tinti e tutta imbellettata, avverto che è il contrario di ciò che una vecchia signora
dovrebbe essere. Questo “avvertimento del contrario” è il comico. Ma se interviene la riflessione e
suggerisce che quella signora soffre e si mostra in quel modo solo per trattenere l’amore del marito più
giovane, non posso più solo ridere: dall’”avvertimento del contrario”, cioè dal comico, passo al “sentimento”
del contrario, cioè all’atteggiamento umoristico. Se si coglie il ridicolo di una persona, di un fatto, se ne
individua anche l’umana sofferenza, e lo si guarda con pietà. In una realtà multiforme, tragico e comico
vanno sempre insieme.
Nel saggio, Pirandello afferma che l’umorismo si trova nella letteratura di tutti i tempi, ma in realtà la
definizione che egli propone si adegua perfettamente all’arte contemporanea. Si tratta di un’arte piena di
dissonanze, in cui ogni pensiero genera sempre contemporaneamente il suo opposto. Un’arte critica che
tende a scomporre la realtà e far emergere incoerenze e contrasti. Le opere di Pirandello sono tutti testi
“umoristici”, in cui riso e serietà sono sempre mescolati.
Il fu Mattia Pascal
Il romanzo, diviso in 18 capitoli, inizia a vicenda conclusa e narra la storia in prima persona. A parlare infatti
è il protagonista Mattia Pascal, un giovane che vive a Miragno, un paesino ligure, e appartiene a una famiglia
benestante. Alla morte del padre, egli ha ereditato una discreta somma di denaro. Denaro che un
amministratore disonesto di nome Batta Malagna ha mal gestito e dissolto, arricchendosi alle spalle della
famiglia Pascal fino a ridurla sul lastrico. Mattia, infatti, per vivere è costretto a lavorare nella Biblioteca
Boccamazza, lavoro che mal sopporta. Inoltre, vive costantemente in lite con la moglie Romilda e con la
suocera che lo disprezza, così, un bel giorno, decide di partire per iniziare una nuova vita. Arrivato a
Montecarlo, vince alla roulette una grande somma di denaro e pensa che le cose possano migliorare, volendo
fare ritorno a casa.
Sulla via del ritorno, in treno, sfogliando un giornale, legge del suicidio di un uomo nel suo paese: tra lo
stupore e la sorpresa scopre che si tratta del "proprio" suicidio. Per uno strano gioco del caso, il corpo in
avanzato stato di putrefazione ritrovato nella gora di un mulino era stato, infatti, riconosciuto come suo da
sua moglie e sua suocera. Approfittando dell’occasione ghiotta, decide di cambiare la propria identità e, una
volta per tutte vivere una nuova vita libera e svincolata da ogni convenzione e prigione sociale. Cambia
nome, da ora si farà chiamare Adriano Meis, e affitta una casa a Roma. Quando, innamoratosi della figlia del
padrone della nuova casa, però, scopre di non poterla sposare, capisce che senza documenti, non può vivere
libero come sperava. E così, ancora, quando subisce un furto e non lo può denunziare, o quando subisce
offese che non può vendicare. Decide allora di morire per la seconda volta, e rinascere come Mattia Pascal.
Inscena quindi il suicidio di Adriano Meis lasciando su un ponte il suo cappello, il bastone e un biglietto e
torna alla propria vita a Miragno.
Una volta rientrato in paese, però, scopre che la moglie si è risposata ed ha avuto dei figli con il suo amico,
non c’è più posto per Mattia nella sua vita. Torna a lavorare quindi nella biblioteca Boccamazza e, di tanto in
tanto, porta fiori alla propria tomba. Al concludersi del romanzo e della vicenda, il fu Mattia Pascal decide di
raccontare gli strani casi della sua esistenza, e lo fa in un libro destinato ad esser letto cinquant’anni dopo la
sua “terza, ultima e definitiva morte".
La trappola
La Trappola è tratta da “Novelle per un anno”, di Luigi Pirandello. Fu pubblicata sul Corriere della sera il 23
maggio 1912 e nel volume La Trappola nel 1915.
Essa si articola come un colloquio interiore di un uomo, Fabrizio, certo che l’esistenza sia una Trappola,
perché porta sempre alla morte. L’essere umano è diviso tra la vita e l’apparenza, cioè la forma. La forma è
un concetto basilare in Pirandello, poiché l’uomo, secondo lui, non è mai sé stesso, ma si sforza di
interpretare sempre una parte. Per Fabrizio, le donne sono il congegno diabolico del destino, perché
attraggono l’uomo spingendolo a riprodursi e a procreare altri sventurati che saranno in ogni caso in
Trappola. Per Fabrizio, infatti, ogni genitore è il carnefice dell’individuo che genera e che sostiene di amare,
perché lo condanna a morte. Il racconto non presenta quasi andamento narrativo, intreccio o personaggi. Si
tratta di un monologo di un individuo anonimo, che confessa ad un interlocutore indeterminato i propri
pensieri. Il testo è molto importante, perché qui Pirandello sintetizza alcuni temi essenziali, alla base di tutta
la sua opera narrativa e drammatica. Si afferma l’inconsistenza della persona, una costruzione artificiale, una
realtà che noi stessi ci diamo e che maschera una realtà più profonda.
Al di sotto di essa vi è una pluralità di stati di coscienza. La realtà però è vita, è un flusso continuo, e
assumere una precisa personalità individuale significa distaccarsi da questa vita, fissarsi in una forma e
morire. Ogni condizione individuale è una trappola che ci imprigiona, staccandoci dal flusso vitale. Dunque
è significativo che la trappola della novella si concretizza nel rapporto uomo-donna, che genera la società.
La patente
Il giudice D'Andrea è una persona molto ordinata e svolge con precisione e puntualità il suo lavoro. Non
lascia mai in sospeso le pratiche; però questa volta ne ha una che giace da una settimana sulla scrivania
perché si tratta di un caso che lo lascia molto perplesso. Un uomo, di nome Chiàrchiaro, è considerato un
iettatore da tutto il paese. Un giorno, vede due giovani che, nei suoi confronti fanno, un atto osceno di
scongiuro per proteggersi dalla iella; per questo l’uomo ha sporto querela per diffamazione nei loro
confronti.
Il giudice D’Andrea è convinto che non sarà possibile eliminare la superstizione che circonda Chiàrchiaro e
siccome prevede che la causa sarà persa, ritiene che sia più opportuno ritirare la querela, anche perché il
paese non aspetta altro di vedere l’uomo condannato.
Dopo una lunga riflessione, il giudice decide di far chiamare il querelante nel suo ufficio per convincerlo a
ritirare la querela, perché alla fine lo avrebbe penalizzato ancor di più, dato che il giudice non avrebbe mai
potuto incriminare i due ragazzi querelati per un fatto così banale e alla fine la fama di iettatore di
Chiàrchiaro si sarebbe ancor di più diffusa, ottenendo così l'effetto contrario di quello desiderato.
Quando arriva nell'ufficio, Chiàrchiaro si presenta con il tipico aspetto da iettatore e ammette addirittura di
esserlo; il giudice meravigliato gli chiede perché inizialmente abbia querelato i ragazzi che lo ritenevano un
portatore di sfortuna, se poi egli si ritiene di esserlo; nella risposta Chiàrchiaro chiarisce la sua intenzione:
chiede al giudice di istruire al più presto il processo: perdendo la causa, egli sarà considerato ufficialmente
uno portatore di sfortuna e chiederà così che gli sia rilasciata la patente di iettatore. In questo modo potrà
guadagnarsi da vivere: si metterà davanti ai negozi, nelle prossimità delle case da gioco, vicino alle industrie
i cui i proprietari lo pagheranno perché se ne vada; così, egli potrà riscattarsi anche dalla sottile malvagità
della gente che fino ad ora lo ha sempre scansato.
La carriola
Il protagonista di questa novella è un illustre avvocato e professore di diritto. È un uomo stimato e rispettato,
al quale tutto il paese di residenza si rivolge per consigli e suggerimenti. Tutto ha inizio in treno, di ritorno
da un viaggio di lavoro. Il treno simboleggia il desiderio di voler cambiare vita. Durante questo viaggio,
dunque, l'uomo si rende conto che la vita che ha condotto fino a quel momento non gli appartiene. Non si
riconosce più nel suo corpo, nel suo aspetto, nel suo ruolo di avvocato, marito e padre. Si rende conto che la
sua vita scorre velocemente e lui assiste passivamente. Si sente estraneo alla sua vita. Tuttavia fa ritorno a
casa e per l'ennesima volta riapre la porta di casa pronto a rivestire il ruolo di padre e marito perfetto.
L'apertura della porta di casa rappresenta il ritorno alla vita che gli viene imposta dalla società e dalla
famiglia. La famiglia e la società considerano l'avvocato come un uomo perfetto, incapace di commettere
errori. L'avvocato, quindi, per non rovinare le aspettative è costretto a rivestire il ruolo dell'uomo perfetto.
Questo ruolo, però, opprime e soffoca l'avvocato, infatti, ogni giorno ripete un rito. Questo rito è l'unico
modo per sentirsi vivo. Se questo rito venisse scoperto comprometterebbe la sua vita e la sua carriera fatta di
perfezione. Ogni giorno, dopo essersi assicurato di non essere osservato da nessuno, prende le due zampe
della sua cagnolina e gli fa fare la carriola. Questo è l'unico svago che l'avvocato si permette. La carriola,
quindi, rappresenta la follia e la voglia di evasione dal carcere dell'esistenza.
Il treno ha fischiato
La novella racconta la storia di un contabile, Belluca. Egli ha un carattere molto mite, puntuale e dedito al
lavoro, sottomesso da tutti. Per descriverlo, lo scrittore adopera la metafora del somaro perché tante volte
egli veniva rimproverato e fatto sgobbare dai colleghi di lavoro senza pietà e per scherzo, con lo scopo di
vedere la sua reazione; egli non si era mai ribellato ed aveva sempre accettato le ingiustizie, anche le più
crudeli, senza dire una parola. Un giorno inizia a comportarsi in un modo non corrispondente al suo carattere
di sempre, tale da non sembrare più nemmeno lui: arriva in ritardo in ufficio e non svolge regolarmente il suo
lavoro. Quando il capo ufficio entra nella stanza per controllare il lavoro svolto, si accorge che egli non
aveva lavorato e, sorpreso, gliene chiede il motivo. Il contabile reagisce scagliandosi con violenza contro il
suo capo, ripetendo più volte, che un treno ha fischiato nella notte, portandolo in luoghi lontani come la
Siberia e il Congo. A questo punto viene creduto pazzo e ricoverato in un ospedale psichiatrico.
Giunto in ospedale, continua a parlare a tutti del treno; i suoi occhi hanno una luce particolare, simili a quelli
di un bambino felice, e dalla sua bocca escono frasi senza senso. La cosa suscita stupore. All’improvviso, un
vicino di casa che lo conosce inizia a gridare che Belluca non è impazzito ma che è necessario conoscere la
vita che egli è costretto a condurre, prima di esprimere un giudizio su di lui ed accusarlo di pazzia.
Infatti, egli vive in una situazione familiare disastrosa. La sua numerosa famiglia si compone di dodici
persone: la moglie, la suocera e la sorella della suocera, tutte e tre cieche; hanno bisogno continuamente di
essere servite e non fanno altro che strillare, dalla mattina alla sera. Oltre alle tre donne, in casa vivono due
figlie, vedove con quattro figli la prima e tre la seconda. Con lo scarso guadagno da impiegato, Belluca non è
in grado di sfamare tutte queste bocche, per cui si è dovuto procurare un secondo lavoro che svolge la sera,
fino a tardi che lo sfinisce e lo porta all’esaurimento.
Quando Belluca riceve la visita del suo amico, che lo informa che tutti lo credono affetto da follia, lui stesso
gli racconta di quella sera quando, essendo talmente stanco, da non riuscire a dormire, sente da lontano un
fischio di un treno e, quindi, la sua mente lo riporta indietro nel tempo quando anche lui conduceva una vita
“normale” a cui da tempo non pensava più; e quello che gli è successo è stato un ritorno al passato che lo ha
fatto evadere della vita misera che conduce.
Dimesso dall’ospedale, ritorna alla solita vita da contabile, si scusa con il capoufficio il quale, però, gli
concede, ogni tanto di pensare al treno che ha fischiato e di evadere, con l’immaginazione, verso paesi
lontani.
Enrico IV
In una villa della campagna umbra vive rinchiuso da vent’anni un uomo che, impazzito in seguito ad una
caduta da cavallo non accidentale durante una mascherata, si è fissato nella parte che interpretava, quella
dell’imperatore germanico Enrico IV. Da allora vive come se fosse in quella lontana vicenda storica,
assecondato da tutti quelli che lo circondano, che vengono pagati dal marchese Di Nolli per tenergli
compagnia. Dopo tanto tempo si introducono nella villa la donna che un tempo Enrico IV amava, Matilde,
con il suo amante Tito Belcredi, la figlia Frida con il fidanzato Di Nolli, e un dottore. Quest’ultimo,
mascherando Frida e sua madre com’era Matilde vent’anni prima, vuol provocare nel pazzo uno choc che lo
riconduca alla ragione. Ma Enrico IV rivela di essere rinsavito dodici anni dopo l’incidente e di essersi
chiuso nella pazzia a causa di una cattiva società e perché ormai non aveva più alcun contatto con il mondo e
tutti gli puntavano il dito contro chiamandolo pazzo. Durante la farsa organizzata dal dottore, Belcredi
interviene per difendere Frida, ma Enrico IV lo uccide con la sua spada. Così ora è veramente costretto a
fingersi pazzo, per non incorrere in pene giudiziarie.