Programma Italiano
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profondamente diviso sotto il punto di vista linguistico, economico e culturale. per poter governare l'italia
si decise per una modalità centralizzata, che accentra tutti i poteri nelle mani del governo estendo le
leggi del regno di sardegna, quindi lo statuto albertino, in tutte le nuove regioni italiane. Si venne a
creare così un divario tra il nord, che si avviava verso un processo di industrializzazione, e il sud. Nel
meridione, infatti, sopravviveva ancora un sistema di privilegi aristocratici di natura feudale, che
avevano impedito la formazione di una classe borghese e il conseguente sviluppo economico -
commerciale. quando il governo post unitario estese le sue misure fino ad allora assente come la leva
obbligatoria o la tassa sul macinato, si diffuse un con malcontento tra la popolazione meridionale, che
si tradusse poi in un fenomeno definito brigantaggio. I valori che dominano tra la classe borghese,
come l'intraprendenza, dal punto di vista ideologico e filosofico si traducono in una corrente denominata
positivismo il quale , come l'illuminismo, esalta la ragione e la fiducia nel progresso. L'interesse primario
di questo movimento è la realtà, con i suoi fenomeni e le sue leggi, che l'intellettuale si propone di
conoscere alla luce del progresso scientifico. nel 1850 il naturalista inglese charles darwin pubblicó
l'origine delle specie in cui esponeva la propria teoria dell' evoluzionismo: secondo darwin, in natura gli
individui sono in competizione tra di loro per sopravvivere; quindi e la natura stessa ao operare una
selezione, eliminando via via gli individui più deboli e garantendo la sopravvivenza a chi meglio si adatta
all'ambiente circostante. Inoltre, la diffusione dell'istruzione e il miglioramento delle condizioni di vita
fanno aumentare il numero di lettori. aumenta, di conseguenza, il numero degli scrittori che vivono
soltanto scrivendo, facendo diventare l’arte un mestiere in tutti i sensi.
NATURALISMO FRANCESE Il naturalismo è un movimento letterario che nasce in Francia a fine 800,
con l'obiettivo di descrivere il contesto in cui l'autore scrive e soprattutto le condizioni sociali
dell'epoca. il naturalismo francese si basa sull'osservazione diretta della realtà, che lo scrittore analizza
in modo impersonale, per denunciare tutte le ingiustizie della società. Alla base del movimento c'è una
conciliazione tra la dimensione scientifica e quella antropologica. Emile zola, nel suo romanzo saggio
“romanzo sperimentale"' teorizza un'idea di letteratura come esperimento, introducendo la figura dello
scrittore - scienziato. Zolá quindi trasferisce nella letteratura i principi della scienza contemporanea,
quali la medicina sperimentale, il determinismo e il concetto di evoluzione naturale di darwin. Zola
applica il metodo della fisiologia e cura lo studio degli organismi viventi ai fini medici allo studio del
pensiero e dei comportamenti umani. ma zola intuisce che l'atteggiamento degli uomini dipende anche
dal contesto economico e sociale in cui vivono. Dal punto di vista narrativo, il romanzo naturalista
presenta tre aspetti fondamentali:
1) il canone dell'impersonalità, secondo cui l'autore non deve intervenire più per commentare le
vicende o per formulare opinioni su personaggi. .
2) in secondo luogo, il protagonista non è un eroe che il lettore tende ad imitare, ma una persona
comune, spesso un fallito o un inetto, cioè un personaggio che ruota attorno al nulla e in cui il lettore
tende a non immedesimarsi.
3) infine, nei romanzi troviamo un ritmo lento, ripetitivo e circolare in cui prevale la descrizione.
Nel romanzo naturalista vengono rappresentati personaggi di tutte le classi sociali, con l'entrata in
scena del proletariato urbano. Dietro ai romanzi naturalisti si nasconde un intento etico: gli autori
sperano che, attraverso la loro arte, si possa contribuire al miglioramento della società. Essi, con i loro
romanzi, vogliono illustrare le difficoltà in cui vivono le classi sociali più basse affinché le classi dirigenti
possano intervenire , per porvi rimedio.
VERISMO Il verismo è una corrente letteraria che si sviluppa in italia negli anni sessanta e settanta
dell'ottocento e rappresenta il versante italiano del naturalismo francese. uno dei suoi massimi
esponenti, insieme ovviamente a verga, fu luigi capuana che viene considerato come il teorico del
verismo. tuttavia, nonostante l’influenza del naturalismo francese sul verismo sia evidente, i due
movimenti presentano anche delle divergenze: infatti i mentre la narrativa del naturalismo descrive
spesso gli ambienti del proletariato urbano, quella verista si rivolge più che altro agli ambienti rurali;
inoltre, gu scrittori veristi non attribuiscono quel valore politico che è invece molto comune negli scrittori
francesi.
VERGA Giovanni Verga nasce a Catania nel 1840 da una famiglia benestante di idee liberali. Compie i
primi studi presso la scuola privata di Antonio Abate, letterato e patriota coinvolto in prima persona nei
moti del ’48. Verga cresce quindi circondato da una cultura romantica e patriottica. Nel 1858 si iscrive
alla facoltà di legge dell’Università di Catania, ma abbandona gli studi dopo soli tre anni per dedicarsi
all’attività letteraria. All’arrivo di Giuseppe Garibaldi in Sicilia si arruola nella Guardia Nazionale e rimane
in servizio fino al 1864. In quegli anni scrive e pubblica alcuni romanzi di contenuto patriottico, come I
carbonari della montagna, Sulle lagune in cui ripropone il binomio amore e patria delle Ultime lettere di
Jacopo Ortis e collabora con numerose riviste politiche e letterarie. Con il passare degli anni la chiusura
provinciale dell’ambiente siciliano si fa soffocante per Verga, che comincia a frequentare la città di
Firenze, allora capitale d’Italia. Verga però si sente sempre più soffocato dal senso di colpa dovuto al
distacco dalla famiglia ma capisce che se vuole affermarsi come intellettuale deve riuscire a superare
la nostalgia per la famiglia e vivere nel centro della vita politica e sociale. A Firenze conosce Luigi
Capuana, che con Verga divenne teorico del Verismo italiano. Durante il soggiorno fiorentino, Verga
pubblica due romanzi (Una Peccatrice e Storia di una capinera) che hanno come protagoniste delle
donne travolte dalla passione di cui Verga cerca di analizzarne la psicologia, rimanendo sempre attento
ai gusti del pubblico. Tre anni dopo si trasferisce a Milano, dove rimarrà per circa venti anni. Ed è proprio
in questi anni che, grazie a Salvatore Farina, Verga entra a contatto con gli ambienti letterari, come i
salotti milanesi. Dopo l’incontro con gli esponenti della Scapigliatura milanese, però, si manifesta in lui
una certa avversione nei confronti della società borghese e un sempre maggiore interesse per la vita
“vera” degli uomini di più umile condizione. Infatti, dopo aver pubblicato una serie di romanzi, tra cui Eva,
Eros e Tigre reale, incentrati sulla vita dei salotti borghesi, nella produzione letteraria di Verga si inizia ad
intravedere un punto di svolta. Nel 1874, infatti, Verga pubblica Nedda, che è invece la storia di una
donna che raccoglie olive: lo scrittore sta quindi iniziando a spostare il proprio interesse verso il mondo
popolare siciliano. Nel frattempo Verga amplia i suoi orizzonti culturali: legge gli autori realisti francesi
ed entra in contatto con il positivismo. In questo contesto nasce il suo progetto di un ciclo di cinque
romanzi ambientati in Sicilia, il cui tema di fondo è il risvolto negativo del progresso, le sventure dei
“vinti” travolti dalla “lotta per la vita”. Ma quel pubblico che aveva accolto con entusiasmo le vicende
eccitanti di opere come Storia di una capinera, rimane delusa: le storie dei contadini o pescatori
risultano infatti sgradevoli. Nel 1893 Verga ritorna definitivamente in Sicilia e rinuncia quasi del tutto alla
letteratura in questi ultimi anni della sua vita. Assume un atteggiamento di sfiducia nei confronti del
genere umano, mosso principalmente da egoismo e interesse personale. E sono proprio queste idee che
lo accompagnano fino alla morte nel 1922.
OPERE Nella produzione letteraria di verga si possono trovare diverse stagioni narrative, che ovviamente
risentono delle vicende personali dell’autore e dal pubblico a cui si rivolgevano. Le due fasi più rilevanti
della sua attività letteraria sono sicuramente quella pre-verista e quella verista. Gli scritti giovanili di
verga, appartenenti al periodo precedente al soggiorno fiorentino, sono fondati sugli ideali patriottici e
sul modello dei romanzi storici. I romanzi I carbonari della montagna e Sulle lagune raccontano
entrambi episodi di insurrezione, nel primo caso in Calabria, nel secondo caso a Venezia. Durante il
soggiorno a Firenze abbandona questo genere di romanzo per dedicarsi a romanzi di intrattenimento,
come Storia di una capinera, in cui si narra la storia di una donna che, costretta alla vita monastica, è
impazzita per amore. Quindi prevale il tema dell’amore inteso come passione travolgente. Durante il
soggiorno a Milano, invece, nella sua produzione letteraria avviene una svolta decisiva, dovuta
sicuramente all’influenza della Scapigliatura. Nei primi romanzi scritti in questo periodo, cioè il cosiddetto
ciclo mondato, composto da Eva, Tigre Reale ed Eros, i personaggi maschili al centro dell’opera si
scontrano contro la realtà misera e corrotta della società moderna e ne escono sconfitti. Un esempio è
appunto il romanzo Eva, che narra la storia di un artista siciliano che, arrivato a Firenze, si innamora di
una ballerina di nome Eva. La donna, per amore, lascia la sua professione per vivere con lui in condizioni
di miseria. Ma naturalmente i problemi economici iniziano a gravare sulla coppia e i due finiscono per
separarsi. Eva ritorna alla sua vita lussuosa da ballerina mentre l’artista, che si era venduto ai gusti del
pubblico pur di guadagnare da vivere, si ritrova a vivere il resto della sua vita all’insegna dell’infelicità. In
questo romanzo domina quindi una visione sconfortante della società moderna, in cui l’arte viene
sottoposta alla mercificazione; una società in cui, per potersi realizzare, bisogna rinunciare ai propri
ideali di vita e accettare dei compromessi. Anche in Tigre Reale ed Eros, come in Eva, l’autore descrive
con lucidità e distacco l’ambiente aristocratico-borghese e questi romanzi possono essere considerati
come una sorta di documento sulla società contemporanea. La vera novità di questo ciclo di romanzi
sta nella scelta dell’autore di alternare diversi punti di vista nella narrazione delle vicende e questa
modalità narrativa può essere considerata come un preludio dell’eclissi del narratore.
Contemporaneamente al ciclo mondano, Verga pubblica anche Nedda, un romanzo che narra la storia
di una giovane donna, rimasta orfana, che lavora come raccoglitrice di olive. Dopo una breve relazione
con un contadino, Janu, Nedda rimane incinta ma Janu muore in un incidente, lasciando sola la povera
ragazza la cui figlia, debole e malata, muore di stenti poco dopo la sua nascita. Per la prima volta Verga
sceglie l’ambientazione siciliana e narra di personaggi rusticani, contadini. Allo stesso tempo però, Verga
fa anche un passo indietro, in quanto il narratore è onnisciente e si sovrappone quindi alla vicenda
narrata. L’attività letteraria di Verga viene poi influenzata da fatti storici e culturali, tra cui spicca lo
scoppio della questione meridionale, evidenziata a livello letterario da una serie di saggi come Inchiesta
in Sicilia o le Lettere Meridionali. Da questo momento, con il ciclo di novelle Vita nei Campi e le Novelle
Rusticane, Verga privilegia l’ambientazione siciliana, con tutte le sue convenzioni sociali. Questo ritorno
alle origini non assume però un tono nostalgico, ma segna solamente l’adesione di Verga ad una nuova
poetica, che mira a denunciare i mali della società, che colpiscono prevalentemente la classe operaia.
POETICA I punti fondamentali della poetica di Verga ci vengono esposti dall’autore stesso in una lettera
indirizzata a Salvatore Farina, che corrisponde alla prefazione alla novella L’amante di Gramigna. La
poetica di verga si basa su tre presupposti: il Determinismo, il canone dell’impersonalità e il realismo
linguistico e stilistico. Il Verismo di Verga presenta sia dei punti in comune con il Naturalismo, ma
anche delle divergenze. In primo luogo, la sua poetica ha un’impostazione positivista, cioè si fonda
sull’idea che si possono conoscere solo i fatti oggettivi e verificabili tramite l’analisi scientifica. Verga
riprende quindi la teoria dell’Evoluzionismo di Darwin, secondo cui nella natura vige la legge del più
forte e applica questa teoria anche nella società, sostenendo quindi che i deboli verranno sempre
sopraffatti dai più forti. Per quanto riguarda il determinismo, il Verismo si fonda sul presupposto che gli
atteggiamenti e, di conseguenza, le scelte dell’essere umano siano fortemente condizionate, non solo
dai fattori ereditari, ma anche dal contesto storico e sociale. A differenza di Zola, però, Verga privilegia
l’osservazione rispetto alla sperimentazione, ponendo la sua attenzione sugli effetti negativi del
progresso sulla società italiana, in particolare Verga si concentra sulla condizione delle classi popolari.
Egli sceglie, infatti, come sfondo la realtà rurale e arretrata della campagna siciliana e sposta
l’attenzione del lettore sui meccanismi che condizionano le scelte dei personaggi. Altra differenza con il
naturalismo è che, mentre i naturalisti pensano di poter modificare la società con le loro indagini, nei
romanzi di Verga prevalgono il pessimismo e il fatalismo, quindi la convinzione che a nessuno è dato
evadere da questa condizione umana. Il romanzo per Verga ha unicamente una funzione di denuncia:
l’autore ha il compito di riportare la realtà con oggettività, come se fosse una fotografia. Alla base del
pensiero di Verga c’è una concezione pessimistica della realtà, secondo cui la vita è mossa da un cieco
meccanismo ed è vista come una dura lotta per la sopravvivenza in cui i più forti sopraffanno i più
deboli. Verga spiega questo con la metafora dell’ostrica nella novella Fantasticheria: quando l’ostrica
si stacca dallo scoglio, cade preda di pericoli e finisce tra le mani del palombaro. Come conseguenza è
impossibile elevarsi, sia economicamente sia socialmente. I Malavoglia dell’omonimo romanzo cercano
di abbandonare la loro condizione di pescatori per diventare commercianti, ma falliscono
drammaticamente. Gesualdo Motta, dopo essersi arricchito, tenta di unirsi all’aristocrazia ma riceve solo
odio e disprezzo.
STILE Se, in linea con il naturalismo francese, l’autore si deve comportare come uno scienziato che
fotografa la realtà senza l’intromissione dei propri sentimenti, allora i testi si devono raccontare da sé.
Per far parlare i fatti, l’autore azzera il proprio punto di vista, quindi si eclissa. Ad esempio, nei
Malavoglia il punto di vista è quello del popolo incolto di Aci Trezza in cui sono ambientati i fatti. Per
quanto riguarda, invece, le sue scelte linguistiche, nella Prefazione al ciclo dei Vinti, Verga annuncia la
volontà di voler far rispecchiare il linguaggio dei personaggi con l’ambiente rappresentato. Quindi la
forma di parlare cambia a seconda dell’ambientazione sociale.
VITA DEI CAMPI La prima opera verista è la raccolta Vita dei campi, pubblicata nel 1880 e comprende
otto novelle, tra cui Rosso Malpelo, L’amante di Gramigna, Fantasticheria, Cavalleria rusticana, La
Lupa, Jeli il pastore. In esse l’autore descrive, sullo sfondo della campagna siciliana, storie di passioni,
miseria, soprusi e sfruttamento. Le novelle L’amante di Gramigna e Fantasticheria, sono considerate le
due novelle-manifesto del verismo. La prima, narra la storia di una ragazza che abbandona la ricca
casa paterna e il fidanzato per seguire il brigante Gramigna e poi vivere in miseria vicino al carcere in
cui è stato rinchiuso. La seconda, introduttiva ai Malavoglia, per i personaggi e gli ambienti narrati, è in
forma di lettera a una ricca ed elegante signora che trascorre due giorni tra i pescatori di Aci Trezza ma,
ne fugge annoiata dopo due giorni. Non riesce a comprendere come si possa vivere in quel mondo
chiuso e lo scrittore spiega come sia possibile con la “morale dell’ostrica”: solo se si resta attaccati agli
affetti familiari, come l’ostrica allo scoglio, e si accetta di vivere nelle condizioni cui il destino ci ha fatti
nascere, si può condurre un’esistenza serena e non essere divorati dal mondo esterno. Lo scrittore,
inoltre, paragona la vita degli abitanti di Aci-Trezza a quella delle formiche, cioè sono abituati a vedere i
loro sforzi vanificati, ma sono sempre spinti a ricostruire la propria vita.
La letteratura diventa, quindi, una sorta di documento e, per raggiungere questo obiettivo, Verga si serve
di fonti e dati oggettivi. Ad esempio, per la scrittura di Rosso Malpelo, Verga ha preso spunto
dall’Inchiesta in Sicilia, un saggio che raccontava le condizioni disumane in cui i ragazzini di giovane età
erano costretti a lavorare nelle zolfatare della Sicilia. Alle testimonianze oggettive, Verga aggiunge
anche gli aspetti emotivi e psicologici.
I MALAVOGLIA I Malavoglia è il romanzo in cui l’autore riesce a esprimere al meglio la poetica del
Verismo. Si tratta del racconto delle sventure di una famiglia di pescatori siciliani negli anni successivi
all’Unità d’Italia. I Malavoglia viene pubblicato nel 1881 dall’editore Treves e fa parte del ciclo dei Vinti,
cioè una raccolta di romanzi (I Malavoglia, La duchessa di Leyra, Mastro Don Gesualdo, L’Onorevole
Scipioni e L’Uomo di Lusso) che raffigurano la lotta per la vita che si estende per tutto il genere umano. I
Malavoglia è composto da quindici capitoli e racconta le vicende della famiglia Toscano, ironicamente
soprannominata “Malavoglia”, una famiglia di pescatori del piccolo paese siciliano di Aci Trezza.
La famiglia Toscano è composta da padron "Ntoni, dal figlio Bastianazzo, dalla nuora Maruzza (detta la
Longa), e dai nipoti Ntoni, Luca, Mena, Alessi e Lia. Contrariamente al soprannome che portano, i
Malavoglia sono grandi lavoratori, pescatori da più generazioni, proprietari di una casa, la casa del
nespolo», e di una barca, la Provvidenza. Per preparare la dote a Mena e sopperire all'assenza di 'Ntoni,
che deve partire per il servizio militare, padron 'Ntoni decide di tentare la via del commercio e acquista
un carico di lupini indebitandosi con l'usuraio zio Crocifisso. I lupini sono però avariati e si perdono in
mare in una tempesta che colpisce la Provvidenza, su cui erano trasportati. Nel naufragio trova la morte
Bastianazzo. Il debito contratto con zio Crocifisso e la morte di Bastianazzo segnano l'inizio della rovina
della famiglia. Quando Ntoni torna dal servizio militare, deve andare a lavorare "a giornata" insieme al
nonno per guadagnare i soldi necessari a ripagare il debito e a riparare la barca. Contestualmente,
un'altra disgrazia colpisce i Malavoglia: Luca, chiamato alle armi, muore nella battaglia di Lissa,
nell'Adriatico. Inoltre la Provvidenza, appena restaurata, viene sfasciata da una tempesta. La parabola
discendente della famiglia è accelerata da un lato dall'onestà di padron ‘Ntoni, che sceglie di pagare il
debito pur avendo la possibilità legale di non farlo, dall'altro dalla disonestà di Silvestro il segretario
comunale), che per sbarazzarsi di "Ntoni, suo rivale nell'amore per Barbara, decide di far cadere in
miseria la famiglia, che sarà costretta a lasciare la casa del nespolo. Negli ultimi cinque capitoli del
romanzo domina la figura del giovane Ntoni che, dopo aver conosciuto la grande città ed essere rimasto
affascinato dal progresso, parte per Trieste. Ritorna povero com'era partito e non riesce più a
riconoscersi nel sistema di valori in cui è cresciuto, si rifiuta di lavorare e si fa mantenere da Santuzza, la
proprietaria dell'osteria. Cacciato dalla donna, cerca guadagni facili dandosi al contrabbando. Dopo
aver accoltellato il brigadiere Michele, che lo aveva sorpreso in uno dei suoi traffici illeciti, viene
processato. Il processo è anche occasione di disonore per la sorella Lia: l'avvocato, infatti, per difendere
"Ntoni menziona la relazione extraconiugale tra Michele e Lia e giustifica il gesto di 'Ntoni come atto di
difesa dell'onore familiare. Lia per la vergogna fugge a Catania; a Catania muore solo e abbandonato in
un grande ospedale il vecchio padron "Ntoni.
Nei Malavoglia Verga non si basa direttamente sull’osservazione del borgo di Aci Trezza per darci un’idea
della Sicilia, ma si basa sui ricordi e sui documenti della sua terra per costruire un tipico esempio di vita
popolare siciliana, che non assume però un tono nostalgico, ma rimane un oggettivo documento
sociale.
Per quanto riguarda i personaggi, è presente una contrapposizione tra due gruppi di personaggi: da un
lato abbiamo la famiglia Toscano con la loro onestà e valori morali, di cui è esempio Padron ‘Ntoni che,
pur di pagare il suo debito, vende la casa del nespolo. Dall’altro lato abbiamo, invece, il popolo di Aci
Trezza, che deridono l’uomo, definendolo “minchione”, per aver pagato un debito che avrebbe potuto
non pagare. Il narratore nel romanzo dei Malavoglia è la voce del popolo, la voce corale dei membri
della comunità del villaggio. La lingua gioca un ruolo fondamentale; il linguaggio del narratore deve
infatti corrispondere a quello usato nei dialoghi. Verga decide però di non utilizzare il vero e proprio
dialetto siciliano, ma decide di creare una lingua artificiale, partendo dalla lingua italiana e
arricchendola con elementi tratti dalla cultura siciliana; vengono, infatti, utilizzate spesso espressioni
dialettali o modi di dire che vengono uniti alla lingua italiana.
ROSSO MALPELO Rosso Malpelo fa parte delle otto novelle della raccolta Vita dei Campi e segna il
massimo esempio della poetica verista di Verga. L’autore rappresenta alla perfezione una fotografia
delle condizioni dei lavoratori e dello sfruttamento minorile nella Sicilia a lui contemporanea. Rosso
Malpelo è un ragazzo di cui quasi tutti ignorano il vero nome, al punto che persino la mamma lo ha quasi
dimenticato. Tutti, infatti, lo chiamavano Malpelo per via dei suoi capelli rossi, stando alle credenze
popolari sono indice di cattiveria. Trascurato e maltrattato da tutti, madre e sorella comprese, Malpelo
trova conforto solo nel padre, che lo difende spesso, con cui lavora presso una cava di rena. Le cose
precipitano quando l’uomo, Mastro Misciu detto Bestia, accetta di abbattere un pilastro considerato
ormai inutile. Si tratta di un incarico molto pericoloso, accettato solo per bisogno di denaro, che finisce
con il costargli la vita malgrado gli sforzi compiuti dal figlio per liberarlo dalle macerie. Il lutto segna
profondamente Malpelo, che decide di meritarsi definitivamente la nomina dovuta al suo aspetto e
inizia effettivamente a comportarsi in modo cattivo con tutti e ad avere comportamenti violenti di vario
tipo arrivando anche a picchiare il vecchio asino (grigio), per sfogare la sua rabbia. La sua solitudine
fatta solo di duro lavoro, però, non è destinata a durare, perché alla cava arriva Ranocchio: un ragazzo
con un femore lussato molto gracile e inesperto. Tra i due nasce uno strano legame: Malpelo maltratta il
nuovo arrivato e si rivolge spesso a lui in modo violento ma, d’altro canto, fa di tutto per proteggerlo
dandogli il proprio cibo e svolgendo al suo posto le mansioni più pesanti. Il tempo trascorre in questo
modo fino a che il cadavere di Mastro Misciu non viene ritrovato consentendo al ragazzo di recuperare
almeno gli attrezzi da lavoro del padre, che decide di tenere come ricordo, insieme alle sue scarpe e agli
abiti che indossava il giorno della sua morte. La scia di morti, però, non è finita: anche l’asino che Malpelo
usava picchiare muore di stenti e il suo cadavere viene divorato dai cani. Malpelo porta Ranocchio ad
osservare questa scena per dargli una lezione di vita, ma Ranocchio non vivrà mai la vita a cui Malpelo
lo sta preparando: egli, infatti, si ammala e Malpelo fa appena in tempo per andare a trovarlo prima che
muoia. Ora Malpelo è definitivamente solo. La madre e la sorella sono andate a vivere altrove e a lui non
resta che lavorare nella cava dove le giornate sono talmente dure da spingere addirittura un evaso, che
lì aveva trovato un impiego e un rifugio, a cercare una soluzione migliore. Senza nessuno che si prende
cura di lui, il ragazzo accetta di svolgere le mansioni più ingrate e rischiose al punto che un giorno,
portando con sé gli attrezzi del padre, scompare durante un’esplorazione del sottosuolo alla ricerca di
un pozzo. Inghiottito dalla terra Malpelo scompare lasciando ai ragazzi una pesante eredità: la paura
che il suo fantasma si aggiri per la cava.
Il narratore di Rosso Malpelo corrisponde alla voce di tutto il popolo, un coro, il punto di vista della
comunità. A parlare è, infatti, la voce del pregiudizio che presenta una spiegazione irrazionale come
perfettamente logica. In questo modo, il lettore va oltre ciò che il narratore popolare dice, ed è indotto a
svelare la falsità e le assurdità di ciò che viene raccontato.
Come altri personaggi di Verga, anche Malpelo è vittima di una serie di sventure. Per Malpelo la vita si
configura come un’eterna lotta alla sopravvivenza in cui dominano il male e l’ingiustizia. Malpelo è
privo di speranze ed è proprio per questo che decide di non ribellarsi contro le ingiustizie che subisce,
perché gli sembrano inevitabili. In Malpelo quindi è evidente un pessimismo assoluto e senza uscita,
che lo porta ad affermare che se non fosse mai nato sarebbe stato meglio.
PREFAZIONE AI MALAVOGLIA La Prefazione ai Malavoglia è un vero e proprio manifesto della poetica di
Giovanni Verga, incentrata sul principio di oggettività e di impersonalità della scrittura. Contiene anche
l’annuncio dei volumi che avrebbero dovuto seguire I Malavoglia nel Ciclo dei vinti: Mastro-don
Gesualdo; La duchessa di Leyra; L’onorevole Scipioni; L’uomo di lusso. Nella prima parte del testo, Verga
espone la sua visione del progresso e lo fa ricorrendo alla metafora della fiumana. Paragona il
progresso a una fiumana, cioè all’ampia corrente di un fiume in piena, che, se da un lato, in termini
generali, determina lo sviluppo, dall’altro lato, cioè dal punto di vista individuale, come il fiume in piena,
travolge molte vittime umane nel suo cammino, sconfitte per motivi diversi a seconda della classe
sociale di appartenenza. Giovanni Verga nella Prefazione ai Malavoglia dichiara di analizzare il
comportamento umano nei diversi ambienti sociali, a partire da quello dei pescatori (ne I Malavoglia),
per poi soffermarsi sull’ambiente del muratore arricchito e diventato borghese (in Mastro-don
Gesualdo) e infine, salendo nella scala sociale, arrivare al mondo degli aristocratici con la duchessa di
Leyra (di cui scriverà solo le prime pagine), L’onorevole Scipioni e L’uomo di lusso (che rimangono un
progetto non realizzato). Tutti costoro, dichiara l’autore, indipendentemente dalla classe sociale di
appartenenza, sono dei vinti, ossia degli sconfitti.
CAPITOLO XV Padron ‘Ntoni è ormai vecchio e malato, ma Mena e Alessi non vogliono portarlo in
ospedale e farlo morire lontano da casa sua. Comprendendo la situazione padron ‘Ntoni chiede ad Alfio
Mosca, che è ritornato in paese, di portarlo in ospedale in un momento in cui i due nipoti sono assenti.
Alessi si sposa con la Nunziata, che amava sin da ragazzino e riscatta la casa del nespolo, pur a prezzo
di durissimi sacrifici. Compare Mosca chiede dunque la mano di Mena, ormai ventiseienne, la quale
rifiuta in quanto sostiene di non poter più maritarsi dopo le disgrazie della famiglia. Mena infatti si
rifugerà in soffitta "come le casseruole vecchie" e si preoccuperà solamente di allevare i figli di Nunziata
e Alessi. Lia ha seguito la brutta strada del fratello 'Ntoni, in quanto è stata avvistata da Alfio sull'uscio di
un postribolo. Alessi e Nunziata riescono ad acquistare la "casa del nespolo" e comunicano tale notizia al
nonno morente, il quale concede loro un ultimo sorriso. Una sera, infine, il vagabondo 'Ntoni ritorna dopo
tanti anni alla "casa del nespolo" per avere informazioni della famiglia che ha abbandonato. I fratelli,
nonostante lo considerino ormai un estraneo, lo invitano a restare, ma il giovane spiega che deve
andarsene perché non può più stare in quella casa piena di brutti ricordi. Così, dopo aver dato un'ultima
malinconica occhiata al paese natale, 'Ntoni ritorna alla sua vita sregolata.
MASTRO DON GESUALDO Mastro Don Gesualdo è il secondo romanzo del Ciclo dei Vinti: è composto da 21
capitoli riuniti in quattro parti, che ripercorrono i momenti salienti della vita del muratore Gesualdo
Motta. La vicenda si svolge tra il 1820 e il 1848 ed è ambientata in Sicilia, tra il comune di Vizzini, vicino
Catania, e Palermo. Nell'isola, ancora sotto il dominio borbonico, due mondi sono in crescente conflitto:
l'aristocrazia tardo feudale in declino e il ceto della borghesia terriera e imprenditoriale, che,
progressivamente più ricca e influente, punta ad acquisire le proprietà delle famiglie latifondiste in
rovina. Sullo sfondo di questo cruciale cambiamento storico il romanzo racconta l'ascesa economica e
sociale di Gesualdo Motta, un muratore con un grande fiuto per gli affari. Partendo dalla semplice
condizione di manovale, Gesualdo riesce a diventare prima «capomastro» e poi proprietario terriero:
accumula enormi ricchezze (la «roba»), fino ad aggiudicarsi appalti di opere pubbliche e ottenere il
controllo della produzione agricola di un territorio sconfinato. Per riscattarsi anche sul piano sociale,
Gesualdo non esita a lasciare la sua domestica, Diodata, da cui ha avuto due figli, per sposare
l'aristocratica Bianca Trao, appartenente a una nobile famiglia decaduta e costretta a nozze di
convenienza per coprire la relazione che ha intrecciato con il cugino Ninì. Dal matrimonio con Bianca
nasce Isabella (probabilmente concepita dalla donna nella precedente relazione), che viene educata
con tutti gli agi e le attenzioni, ma ripaga il padre fuggendo di casa con il cugino Corrado La Gurna.
Viene perciò indotta anche lei dalla famiglia a un matrimonio di convenienza con il duca di Leyra, un
nobile palermitano squattrinato, che la sposa principalmente per la sua ricca dote. Dopo la morte della
moglie, Gesualdo, consumato dalle delusioni della vita e martoriato da un cancro, si trasferisce a
Palermo nella casa del genero, ma la figlia si vergogna di lui, gli mostra freddezza e lo abbandona alle
cure della servitù. Ritrovatosi solo e vedendo i suoi beni confiscati in seguito alle spese esorbitanti del
genero, assiste al tramonto del le sue illusioni e si rende conto che la «roba» accumulata nel col so di
tutta la sua vita si è polverizzata nel nulla. Si accorge di pagare un prezzo altissimo per aver rinnegato i
valori umani e aver dato al denaro la priorità sulla vita e così muore solo, in una stanza vuota, tra
l'indifferenza dei servitori.Mastro-don Gesualdo presenta un narratore che si mimetizza con il mondo
rappresentato e narra i fatti assumendo la prospettiva corale dei suoi personaggi. L'ambiente sociale
che fa da sfondo alla vicenda non è, però, come lo era nei Malavoglia, un contesto omogeneo: la
cittadina in cui vive il protagonista, Vizzini, è abitata da uomini di ogni estrazione sociale. La narrazione
del "coro" uniforme della comunità di Trezza lascia perciò il posto in questo nuovo romanzo alle differenti
voci dei personaggi, che parlano ognuno con il proprio linguaggio e il proprio stile. La voce sguaiata
della popolana Speranza (la sorella del protagonista, considerata rozza e volgare) 'intreccia così a
quella altera di Bianca Trao, nobile decaduta, con conseguenze significative sul piano linguistico:
l'italiano parlato, segnato dai calchi dialettali dei contadini, si alterna all'italiano colto e mondano dei
salotti nobiliari, in una narrazione polifonica che si fonda sulla molteplicità dei linguaggi. Mastro-don
Gesualdo, un vinto della borghesia in ascesa, ossessionato dal denaro e dalla ricchezza, travolto dalla
sua stessa ambizione. La peculiarità di mastro-don Gesualdo, custodita nel senso stesso del suo nome,
è di avere un'identità sociale ambigua, in un certo senso sdoppiata. Il nome è formato infatti da due
appellativi contrapposti, che esprimono la contraddittorietà del suo status sociale: "mastro" è il
manovale di origine popolana e "don" è un epiteto che si usa davanti ai nomi dei nobili. I due termini
esprimono perciò due identità distanti e inconciliabili, che invece il protagonista tenta, invano, di riunire
in sé attraverso la sua storia. Tale tentativo non è privo di conseguenze e si rivela alla fine fallimentare:
il percorso di ascesa sociale e di affermazione nel mondo degli affari costringe infatti Gesualdo a
tagliare i ponti con la famiglia d'origine, i cui membri sono da lui considerati volgari, inetti e fannulloni.
Deve interrompere anche la sua relazione sentimentale con Diodata, «fedele come un cane», per
prendere una moglie che sia all'altezza delle sue ambizioni. Gesualdo sacrifica così tutti gli affetti,
spazzati via dalla spinta all'affermazione di sé e dalla passione per la «roba»: nonostante ciò egli non
apparterrà mai al mondo aristocratico della moglie e della figlia, che addirittura si vergognano di lui. Le
scene finali del romanzo custodiscono il senso ultimo della caduta di Gesualdo, morto solo e infelice,
vinto dall'illusione del progresso. Nei suoi ultimi istanti anche i domestici, non meno dei familiari,
mostrano con i loro comportamenti. L’isolamento a cui si è condannato Gesualdo: sono infastiditi perché
devono servire e accudire un uomo appartenente alla loro stessa classe sociale e ne osservano con
distacco le atroci sofferenze, senza rispetto neppure per il suo cadavere.
CAPITOLO V Il brano racconta gli ultimi momenti di vita di Gesualdo e corrisponde alle pagine
conclusive del romanzo. L'episodio è marcatamente diviso in due parti, ciascuna dominata da un
diverso punto di vista narrativo:
1. Nella prima parte Gesualdo si trova nel palazzo del genero, il duca di Leyra, e sta vivendo la dolorosa
agonia che lo porterà alla morte. E tormentato da una serie di pensieri angoscianti e di rimorsi. Prima di
tutto gli aspetti economici, la disperazione per le proprietà perdute a causa del genero e la
preoccupazione della salvaguardia della roba ancora rimasta; poi il rimorso nei confronti di Diodata e
dei figli avuti da lei e del tutto ignorati. Appena prende coscienza dell'ineluttabilità della propria morte, si
rassegna e fa in modo di «morire da buon cristiano», cercando, troppo tardivamente, di dare valore a
quella dimensione affettiva scartata nel corso di tutta la vita. Sotto il peso di una fragilità mai provata
sino a quel momento, si abbandona a effusioni emotive con la figlia che non ricambia il suo affetto.
Fino a questo punto il racconto è focalizzato sul punto di vista di Gesualdo;
2. Nella seconda parte domina invece la prospettiva narrativa di don Leopoldo, il servo alle cui cure è
stato affidato, e degli altri servi del palazzo. Gli ultimi giorni di vita di Gesualdo e la sua morte sono
descritti dal punto di vista di Leopoldo che, controvoglia, lo accudisce. Nella battuta finale pronunciata
da un domestico di fronte al corpo privo di vita di Gesualdo («E roba di famiglia. Adesso bisogna
avvertire la cameriera della signora duchessa») rimane solo il formalismo dell'etichetta aristocratica.
Gesualdo, chiamato con l'appellativo «roba», viene cancellato e spazzato via dalla stessa logica cinica e
materiale per la quale ha vissuto.
DECADENTISMO Nel maggio del 1883 sulla rivista parigina “le chat noir” Verlaine pubblicava il
sonetto “Langueur” in cui affermava di identificarsi con quella atmosfera di stanchezza che aveva
caratterizzato il periodo di decadenza dell’impero romano quando gli artisti, incapaci ormai di forti
passioni, si erano dedicati a raffinate ma inutili esercitazioni letterarie. Con questo sonetto, Verlaine
interpretava lo stato d’animo degli artisti del suo tempo, il senso della fine della società dell’800 con una
sorta di compiacimento autodistruttivo. La critica del tempo utilizzò con un’accezione negativa il
termine decadentismo per definire il movimento letterario di cui Verlaine era l’esponente ma quel
gruppo di intellettuali lo accettò positivamente ritenendolo adatto alla loro superiorità spirituale. Con il
termine Decadentismo oggi s’intende una grande corrente culturale che si colloca tra gli ultimi Venti
anni dell’Ottocento e i primi anni del Novecento. Esso appare come l’insieme di manifestazioni artistiche
e letterarie molto diverse tra loro ma che hanno tutte un filo conduttore che coincide con una
particolare visione della realtà. Gli artisti decadenti rifiutano la visione positivistica della realtà, l’idea
che questa possa essere spiegata e conosciuta attraverso la scienza, l’idea che il progresso possa
sconfiggere i mali che affliggono l’umanità. L’artista decadente, al contrario, ritiene che la ragione e la
scienza non possano offrire la vera conoscenza del reale perché l’essenza di quest’ultimo è al di là delle
cose e ad essa si può giungere soltanto verso un approccio irrazionale. Proprio la scoperta
dell’inconscio da parte di Freud è il dato fondamentale della cultura decadente. Se la realtà non può
essere conosciuta attraverso gli strumenti della ragione e della scienza, per i decadenti i mezzi per
indagarla sono irrazionali in quanto permettono di vedere l’ignoto e il mistero che è al di là
dell’apparenza delle cose. Strumenti privilegiati diventano la malattia, la follia, la nevrosi, il delirio,
l’allucinazione (uso dell’assenzio, poeti maledetti), il panismo, le epifanie, l’arte. I temi della letteratura
decadente sono fortemente influenzati da questa visione della realtà, in particolare la nevrosi e la
malattia sono quasi sempre una costante in quanto sono la metafora di una condizione storica, di un
momento di profonda crisi delle certezze che coinvolge gli uomini di questo tempo. Si afferma, così, il
gusto per tutto ciò che è corrotto (palazzo in rovina) (città simbolo Venezia “morte a Venezia”) ma
anche per la morte, in quanto il nulla attrae irresistibilmente. Accanto a questo fascino esercitato dalla
malattia e dalla morte vi sono, però, tendenze opposte come il vitalismo e il superomismo che, a ben
guardare, sono la risposta per cercare di sconfiggere il senso di stanchezza che investe l’uomo in questo
momento storico, una sorta di maschera per nascondere i dubbi e le certezze. Abbiamo così, varie
tipologie di eroe decadente: L’artista maledetto che sceglie deliberatamente il male e si compiace della
sua vita sregolata; L’esteta, cioè l’uomo che vuole fare della propria vita un’opera d’arte, sostituendo alle
leggi morali la legge del bello e che ha bisogno del superfluo più che del necessario; L’inetto, che non
riesce a partecipare alla vita che pulsa intorno a lui a causa dell’inettitudine, di questa malattia
dell’anima, che corrode la sua volontà (è consapevole di non vivere ma non riesce a smuoversi da
questa situazione) egli si rifugia nelle sue fantasie, sogna l’azione ma non ne è capace, preferisce più
vivere, il vedersi vivere, vorrebbe provare forti passioni ma si sente inaridito; La donna fatale, dominatrice
dell’uomo, perversa, al suo fascino nessuno può sfuggire, porta alla follia e alla distruzione l’uomo. Infine
abbiamo il fanciullino e il superuomo, le due facce della stessa medaglia come ha scritto il critico
Salinari, anch’essi espressione di questo approccio irrazionale, mistico alla realtà. Questa crisi della
coscienza, questo rifiuto della realtà, queste tematiche negative, sono dovute anche al moderno
assetto capitalistico e industriale che porta allo sconvolgimento delle forme di vita tradizionali e a una
rapida trasformazione della società e della cultura. Inoltre è possibile cogliere in questo periodo storico
una crisi di sovrapproduzione che genera rovina e miseria, una riduzione dei rapporti umani a rapporti
tra merci, alla presenza di conflitti di classe che scaturiscono dalla presenza del proletariato urbano. La
società di massa di fine Ottocento è caratterizzata quindi, da processi di omologazione che generano
nell’individuo, in particolare nell’artista, il rifiuto del mondo esterno e il conseguente rinchiudersi nel
proprio Io. In questo clima si assiste a un declassamento dell’intellettuale e alla mercificazione dell’arte
in quanto nella logica del mercato anche l’arte è sottoposta alle leggi del capitalismo. L'artista, come
scrive Baudelaire, “ha perso l’aureola” cioè la sua sacralità che gli garantiva il prestigio sociale dal
momento che la società è dominata da altri valori. A questa logica l’artista si ribella e decide di
indirizzare le sue opere a una cerchia ristretta di iniziati (quindi non un pubblico comune). Se la poesia è
dunque rivelazione del mistero e dell’assoluto, la parola poetica non può più essere strumento di una
comunicazione razionale ma assume un valore evocativo e allusivo attraverso forme simboliche. Da qui
ne scaturisce il carattere aristocratico dell’arte decadente che si rifiuta di farsi portavoce degli ideali
del suo tempo, che si svincola da ogni finalità pratica e utilitaristica dell’arte, che si oppone alla cultura
di massa, ai prodotti fatti “in serie”. Si viene a creare così una vera e propria frattura tra intellettuale e
società.
PASCOLI Giovanni Pascoli nasce il 31 dicembre 1855 a San Mauro di Romagna: suo padre, Ruggero,
amministra come fattore la tenuta La Torre del principe Alessandro Torlonia, mentre la madre accudisce
i dieci figli. Per decisione dei genitori, che volevano che ai figli fosse impartita una buona istruzione, entra
con i fratelli nel collegio dei padri Scolopi a Urbino. E il primo motivo di turbamento di giovanni, cui però
seguiranno eventi ben più gravi. Il 10 agosto 1867, infatti, il padre viene assassinato. La famiglia, costretta
immediatamente a ritirarsi in una piccola casa di proprietà materna, nutre precisi sospetti sul colpevole
e accusa colui che subentra alla vittima nel ruolo di amministratore. Ma l'inchiesta procede in modo
poco limpido, tra omertà e umiliazioni, e non produce alcun risultato concreto, cosicché il poeta e i suoi
cari riportano non solo il dolore del lutto, ma anche un'irrimediabile senso di ingiustizia. La morte del
padre, per di più, non è l'unico lutto della famiglia: nel novembre 1868 muore la sorella maggiore
Margherita, seguita un mese dopo dalla madre e nel 1871 dal fratello Luigi. Nonostante tutto, Giovanni
conclude il liceo e, ottenuta una borsa di studio, si iscrive alla facoltà di Lettere dell'Università di Bologna.
La città apre a Pascoli due porte: quella dell'istruzione accademica e quella della politica. Segue le lezioni
di docenti prestigiosi, soprattutto il poeta Giosuè Carducci che rappresenta sicuramente un modello
per il giovane. Pascoli entra poi in contatto con Andrea Costa, militante anarchico-socialista:
anarchismo e socialismo sono infatti molto diffusi negli ambienti accademici di quegli anni: studenti e
intellettuali rifiutano la società borghese e capitalistica, denunciando i soprusi. Vittima lui stesso
dell'ingiustizia, Pascoli resta affascinato da questa ideologia: partecipa a diverse manifestazioni. Anche
la vita bolognese non è, però, priva di ostacoli: la frequenza irregolare delle lezioni e la partecipazione a
una protesta contro il ministro dell'Istruzione provocano la sospensione del sussidio. La conseguente
difficoltà economica e la morte del fratello maggiore Giacomo, che aveva assunto il ruolo di
capofamiglia, costringono nuovamente il poeta alla miseria. Nel 1879 viene arrestato per aver contestato
la condanna all'ergastolo di Passannante, che aveva attentato alla vita del re, e trascorre in carcere
quasi quattro mesi. Assolto anche grazie alla testimonianza di Carducci, quando esce di prigione è
terribilmente provato: soffre di depressione ed elabora propositi suicidi. Spinto da Carducci, Pascoli
riesce a ottenere la borsa di studio e riesce a laurearsi. Intraprende, così, la carriera da insegnante,
scegliendo un cammino opposto rispetto a D’Annunzio, che invece incarna il modello d’intellettuale
mondano che esalta la sua immagine pubblica, mentre Pascoli rappresenta sicuramente un modello di
intellettuale più riservato e appartato. Con il trasferimento a Livorno, il poeta porta a vivere con sé le
sorelle del «nido» Ida e Maria: si fa strada così il tentativo di ricostruire il «nido» familiare,
drammaticamente distrutto con la morte del padre. Ciò è da un lato fonte di consolazione, dall'altro
instaura una situazione nevrotica: il rapporto fra i tre fratelli è viziato da una sorta di reciproco controllo
sulla vita sentimentale altrui, come se la devozione ai familiari morti impedisse ai membri rimasti di
costruirsi una prospettiva di vita futura. Pascoli, assumendo un ruolo patriarcale, da una parte vede in
Maria e Ida figlie da proteggere, dall'altro proietta sulla prima un'immagine materna e sulla seconda
una nuziale di moglie ideale. Il 1895 riserva un altro trauma per Pascoli: il matrimonio della sorella Ida,
vissuto dal poeta come un tradimento della comunità familiare. Da questo momento, caduta ogni
illusione, la poesia diviene l'unica ragione di vita di Pascoli. Dopo una serie di grandi successi ottiene un
incarico straordinario presso l'Università di Bologna. Pascoli è però presto costretto a rinunciarvi, gravato
da nuovi problemi familiari e anche, probabilmente, perché incapace di sostenere la pressione di una
docenza presso l'università del suo vecchio maestro. Nelle ultime raccolte Pascoli approda alla retorica
nazionalistica ed è proprio il socialismo umanitario a costituirsi come base per il suo nazionalismo. Ne
è un chiaro esempio il discorso La grande proletaria s'è mossa, l'entusiastica adesione alla Guerra di
Libia nel 1911, che viene giustificata non come atto di aggressione, ma di tutela di un popolo povero e
bisognoso come quello italiano.
POETICA La concezione pascoliana del mondo, della natura e della condizione umana parte dalla
constatazione di uno stato di precarietà e di sofferenza dell'uomo sia come individuo sia sul piano
collettivo: una condizione che spinge il più delle volte l'essere umano a provocare dolore ai propri simili.
Questa dolorosa percezione, che accompagnerà Pascoli per tutta la sua esistenza, è alla base delle
radicale perplessità che egli, pur formatosi in un clima positivista, nutre da subito nei confronti delle
certezze offerte dalla scienza. Né Pascoli riesce a trovare conforto nella religione. Pascoli è convinto che
il cosmo è pervaso di energia vitale in perenne mutamento; ciò genera nel poeta due sentimenti
opposti: da una parte la percezione di incertezza e di angoscia dell'uomo di fronte al tutto (da cui
deriverà la costante ricerca di un rifugio, di un «nido»), dall'altra l'impulso a negare le gerarchie fra gli
esseri viventi, che sono accomunati dal medesimo destino. In questo quadro la riflessione sulla morte
ha una funzione fondamentale; infatti, la morte, per Pascoli, costituisce una certezza assoluta: ciò è
causa di un dolore esistenziale che non può essere negato in alcun modo, ma offre un movente
essenziale per cogliere la dinamicità della vita, da fondare su valori quali la solidarietà e la fratellanza
universali. Il pensiero di Pascoli si incontra, per questo aspetto, con il messaggio della Ginestra
leopardiana. Per Pascoli, la poesia ha il compito di sondare il mistero che si cela dietro le cose. Solo la
poesia, per Pascoli, può andare oltre i limiti della conoscenza sensibile, ma può far questo solo se riesce
a recuperare un linguaggio originario che consenta di esprimere le cose come se esse si offrissero per la
prima volta allo sguardo, come una scoperta meravigliosa. Tale concezione è illustrata compiutamente
nel saggio Il fanciullino . Qui l'autore sostiene che la poesia dipende da una voce interiore di bambino,
che alberga dentro ognuno di noi, ma che solo il poeta sa ascoltare. Pascoli, dunque, assegna alla
poesia un valore superiore a quello delle altre discipline, compresa la scienza, innanzitutto per il suo
carattere irrazionale, che ne fa un linguaggio universale; in secondo luogo perché essa rende visibile il
bene del mondo. Alla base della poetica pascoliana c’è la concezione che se la scienza positivista
fornisce ipotesi sulla realtà, solo la poesia può interpretarla. Come chiarisce Il fanciullino (pubblicato
sulla rivista Marzocco), la poesia è l'unico modo di dare voce alle cose, perché da una parte può
spingersi al di là delle distinzioni tra gli esseri (per cui può dare parola tanto a un uomo quanto a un
essere animale o vegetale), dall'altra si può affacciare oltre i limiti degli esseri viventi (la morte, ma
anche la condizione prenatale). Solo la poesia, in sostanza, può sondare il mistero, svolgendo una
funzione conoscitiva. Per riuscire in questo compito, la poesia deve, innanzitutto, liberarsi dei normali
vincoli comunicativi e della logica che governano il pensiero razionale: deve, cioè, adottare uno sguardo
assoluto e innocente, come quello colmo di stupore di un bambino. Si tratta di un pensiero che procede
per immagini, non pone confini netti tra realtà e sogno e che si concentra sui particolari. Pascoli
distingue tre fasi del rapporto tra uomo e fanciullo interiore: durante l'infanzia, il bambino è in perfetta
comunione d'intenti con il fanciullo, mentre in età adulta si verifica l'allontanamento. Questa si distingue
in età giovanile, ribelle e quindi ancora meno affine al fanciullino, ed età matura, che invece è più
disposta a prestargli ascolto. Pascoli si sofferma sul proprio rapporto con il fanciullo interiore, che dice di
non aver mai abbandonato , tanto da continuare ancora a conversarci. Rivolgendosi direttamente a lui,
riconosce come egli sia in grado di cogliere la verità a un livello più profondo di quello raggiungibile
attraverso i ragionamenti razionali degli adulti. Viene poi identificato il fanciullino con l'infanzia
dell'umanità, a sua volta contrassegnata da un costante stupore nei confronti del mondo. Proprio per
esprimere tale meraviglia i nostri antenati articolano le prime parole. Assecondando il medesimo istinto
dei primi uomini,i bambini fin da neonati comunicano le loro impressioni attraverso cantilene e suoni
onomatopeici, che riproducono i rumori uditi in natura.
MYRICAE La raccolta è composta tra 1877 e 1900. Il Titolo riprende una citazione di Virgilio (libro IV
delle Bucoliche), tamerici= è una pianta: rimanda all’umiltà e all’attenzione alle piccole cose: non si
parla di grandi eventi ma di quotidianità mentre d’Annunzio, autore contemporaneo, no. Dal punto di
vista stilistico, l’elemento di novità principale è il Fonosimbolismo: valorizza l'aspetto fonico delle parole
(allitterazioni che esprimono un rumore). Myricae è caratterizzato da uno sfondo campestre, dunque in
profondo rapporto con la natura e con un tempo ciclico, quello delle stagioni, che dovrebbe garantire
all'uomo la felicità di un'esistenza in rapporto con il mondo circostante. La natura è intrinsecamente
buona, come Pascoli dirà nella Prefazione della raccolta, smentendo Leopardi. Eppure Myricae al
contrario presenta uno scenario costantemente minacciato dalla presenza incombente della morte. Il
motivo della morte assume assoluta centralità per la vicenda familiare del poeta a partire dall'omicidio
del padre. Un altro tema molto presente in Myricae è quello della memoria, che ha spesso una funzione
consolatoria, ma essa evidenzia anche che la felicità non può mai essere colta nella dimensione del
presente, ma, al limite, in quella del passato. L'ombra dell'omicidio paterno è sempre in agguato a
turbare la rievocazione del tempo trascorso, a confermare che l'intervento della malvagità umana può
sempre infrangere la bontà.
LAVANDARE In un paesaggio autunnale, il poeta passeggia tra i campi e osserva un campo arato solo in
parte che suggerisce una sensazione di incompletezza, e un aratro dimenticato che ispira una
sensazione di abbandono espressa dal canto triste della lavandaie. La prima terzina presenta il
paesaggio attraverso la vista (il «campo mezzo grigio e mezzo nero»); la seconda vi inserisce il suono (lo
«sciabordare» e il canto delle lavandaie); la quartina è invece quasi la " definizione" di tale suono (Pascoli
sceglie infatti di riportare direttamente nel testo i versi di un canto popolare). Ma il canto, che denota la
presenza umana, contiene a propria volta l'immagine iniziale del paesaggio («'aratro»): il componimento
si chiude perciò in una sorta di struttura circolare. Alla presentazione visiva e uditiva della realtà si
sovrappongono immagini simboliche: vengono in primo piano i sentimenti (w. 9-10), che, come evocano
le parole del Canto e l'immagine dell'aratro abbandonato, sono sentimenti negativi: abbandono,
separazione, solitudine dolorosa.
ARANO Il componimento descrive una scena di campagna all'alba. Nella prima strofa si traccia l'aspetto
del paesaggio attraverso elementi visivi: un campo, il rosso delle foglie, la nebbia. Nella seconda,
introdotta dal verbo «arano», l'attenzione si sposta dal paesaggio al lavoro degli uomini, di cui
riecheggiano nell'aria i suoni («grida», v. 4; «ribatte», v. 5); i gesti descritti, lenti, sono compiuti da soggetti
indefiniti: «uno» (v. 4), «altri» (v. 5), «un» (v. 5). A questa indeterminatezza si oppone, nella terza strofa,
l'esplicitazione di due soggetti: «il passero» (v. 7) e «il pettirosso» (v. 9); inaspettatamente, il punto di vista
diviene quello degli uccelli, che spiano la scena campestre, descritta attraverso elementi della vista e
dell'udito. L'opposizione tra uomini e uccelli, attorno alla quale è costruito il componimento, si ritrova in
qualche modo in quella tra l'uomo e Il fanciullino: gli uccelli, come il fanciullo, rappresentano un modo di
vedere la natura con immediatezza e sguardo puro. La descrizione della realtà rurale, motivo caro a
Pascoli, assume subito di un valore simbolico e nasconde una riflessione sulla condizione degli uomini.
IL GELSOMINO NOTTURNO Nel Gelsomino notturno Pascoli racconta la prima notte di nozze dell'amico
Gabriele Briganti collocandola in un paesaggio naturale ricco di elementi simbolici, che rimandano da
una parte ai concetti positivi di amore sensuale e famiglia, dall'altra a quelli negativi di morte ed
esclusione. L'attacco con la congiunzione «E» dà l'idea che la poesia prosegua un discorso più ampio,
soffermandosi sul momento conclusivo della lunga giornata di matrimonio, quando i neo sposi si ritirano
finalmente nella loro nuova casa. La prima strofa introduce quindi il fiore che dà il titolo al
componimento, i gelsomini notturni, che, nelle sere d'estate, «si aprono» per essere fecondati. Ma a
questa immagine di vitalità il poeta fa subito seguire il ricordo luttuoso dei suoi cari defunti e
l'immagine mortuaria delle falene, «le farfalle crepuscolari» associate, dalla tradizione popolare, alle
anime dei morti che vagano di notte. La seconda strofa introduce il tema della famiglia, simboleggiata
dall'immagine del nido. Ai nidi degli uccelli viene paragonata la casa degli sposi che il poeta osserva da
fuori. Ma anche in questo caso c'è un contrasto: nei nidi i piccoli già dormono, mentre nella casa ci si
scambiano ancora parole, sussurrate in un'atmosfera carica di attesa. Nella terza strofa Pascoli esplicita
l'analogia tra la fecondazione dei fiori e il primo rapporto che sta per consumarsi tra gli sposi:
l'attrazione sessuale tra i due è infatti simboleggiata dal profumo che esala dai gelsomini, simile
all'odore di fragole «rosse» (colore legato all'idea di amore passionale). Nell'ultimo verso tuttavia riaffiora
l'idea della morte, mediante l'immagine dell'erba che continua a crescere sulle «fosse» in cui sono sepolti
i suoi cari. La strofa successiva contrappone invece un' ape rimasta fuori dall'alveare, perché già pieno,
e l'immagine metaforica della costellazione delle Pleiadi assimilata a una chiocciola con le sue stelle
pulcini. L'ape è qui metafora del poeta stesso, che si sente impossibilitato a formare una propria
famiglia. La chiocciola è al contrario immagine della maternità e anticipa la gravidanza con cui si
conclude la prima notte di noia dei due giovani sposi. Le strofe quinta e sesta sono infine occupate dal
parallelismo tra l'impollinazione del fiore e il rapporto sessuale tra i due sposi: la quinta è ancora
ambientata di notte e suggerisce velatamente, con il ricorso al puntini sospensivi, il consumarsi del
rapporto; l'ultima invece descrive l'alba della mattina successiva, quando i petali del gelsomino risultano
sgualciti, per l'avvenuta fecondazione, mentre nell’urna», metafora dell'utero della donna, ha inizio la
nuova gravidanza. Il riferimento iniziale alla memoria dei cari defunti (v. 2) rimanda subito al trauma
infantile della perdita dei genitori, che condiziona Pascoli per tutta la sua vita adulta impedendogli di
formare una propria famiglia, per il rispetto che egli deve alla memoria dei genitori morti e per il
conseguente forte legame con i familiari sopravvissuti. Per questo il poeta osserva la casa da fuori,
paragonandosi metaforicamente all'ape «ritardataria» esclusa dall'alveare.
GABRIELE D’ANNUNZIO Gabriele D’Annunzio ebbe una vita intensa, alla costante ricerca del
lusso e, per questo, risultò come un esibizionista, attirando l’attenzione del pubblico per i suoi gusti
raffinati, il lusso ostentato, gli scandali ma anche per le imprese audaci e gesti plateali. La ricerca del
denaro era, per lui, essenziale e questo aspetto si riflette nella sua produzione letteraria nell’andare
incontro ai gusti del pubblico. Gabriele D’Annunzio nasce a Pescara nel 1863 da una famiglia più che
benestante. Già dai primi studi mostra subito un grande interesse per la letteratura e fu proprio suo
padre a rendersi conto del suo talento. Si trasferisce a Roma ai tempi dell’università, iscrivendosi alla
Facoltà di Lettere ma non termina gli studi e il periodo romano sarà soprattutto un periodo di lavoro
giornalistico, vita mondana, frequentazione di salotti letterari e aristocratici ma anche di grandi amori e
di grandi tradimenti. Pubblica i suoi primi romanzi in questo periodo iniziando a teorizzare una prima
idea di estetismo di cui D’Annunzio diventa il più grande rappresentante in Italia. La vita che conduce a
Roma lo vede coinvolto in diversi scandali, uno dei primi la fuga d’amore con l’aristocratica Maria di
Gallese, che diventerà poi sua moglie. Questo matrimonio, per D’Annunzio, rappresenta un’opportunità
per acquisire ulteriore notorietà. Da questa unione nasceranno tre figli ma, nonostante ciò, l’autore
continuava a intraprendere relazioni extraconiugali, tra le quali la più intensa è sicuramente quella con
Barbara Leoni e fu proprio lei ad ispirare molte delle opere di questi anni, tra cui il Piacere. La vita che
conduce a Roma lo sommerge di debiti e per scappare ai creditori comincia un periodo di spostamenti
per la Penisola: giunto a Venezia conoscerà colei che diventerà il grande amore della sua vita, l’attrice
Eleonora Duse. Con lei D'Annunzio viaggerà e scriverà tantissimo, ispirato dalla donna. Questo è anche il
periodo in cui, leggendo Nietzsche, D'Annunzio arriva a fare suo il concetto di superuomo: abbandona
così la figura del dandy che vive in funzione della bellezza, teorizzando invece un individuo che si afferma
attraverso l’azione, l’eroismo e la forza. Non a caso, a questi anni (1897-98) risale anche il suo primo
impegno politico, presentandosi all’elezioni come deputato dell’estrema destra nel 1897, per passare poi
nel 1900 alla Sinistra. Nel 1910 Gabriele D’Annunzio fugge in Francia per sfuggire ai creditori, ai debiti ed
evitare di finire in carcere. Nel 1915 torna in Italia, le denunce a suo carico vengono ritirate perché riesce a
pagare tutti i suoi debiti. D’Annunzio inizia una lunga tournée oratoria a favore dell’interventismo per
l’entrata in guerra dell’Italia. Partecipa attivamente alla guerra in qualità di aviatore arruolandosi come
volontario all’età di 53 anni. Nel 1916 subisce un grave trauma all’occhio destro, che determinerà la
perdita parziale della vista. In questo stato compone una delle sue opere più innovative, il Notturno. In
seguito al conflitto mondiale, e con l’ascesa di Mussolini, D’Annunzio si ritira dalla vita politica e passa gli
ultimi anni sulla villa sul lago di Garda, in quello che diventerà il Vittoriale degli Italiani, un complesso di
edifici, vie, piazze, con un teatro all'aperto, giardini e corsi d'acqua. Il Vittoriale fu costruito come
commemorazione della "vita inimitabile" del poeta-soldato e come un riflesso della sua personalità
eccentrica e sopra le righe. Con il passare degli anni il Vittoriale si trasforma in una prigione dorata:
l’autore continua a celebrare sé stesso, mettendo in scena i soliti scandali che sembrano ormai studiati
a tavolino, rimanendo intrappolato in un personaggio che lui stesso ha creato.
Nella produzione letteraria di D’Annunzio si possono distinguere diverse fasi, tra cui le principali sono
l’estetismo, una seconda fase in cui viene tracciata la figura di superuomo e, infine, la fase notturna.
Esistono, tuttavia, delle tematiche comuni a tutte le sue fasi letterarie, quali il tema della morte, del
disfacimento e della malattia. Predomina, inoltre, una sensibilità di tipo decadente, cioè la percezione
della crisi d’identità del soggetto e dell’intellettuale che, nella società a lui contemporanea, erano
collocati ai margini della società ed erano alla costante ricerca di un ruolo da attribuire all’arte e alla
poesia. La produzione letteraria di D’Annunzio rientra quindi nel Decadentismo, un movimento di rottura
con la società, con l’arte ufficiale classica o romantica: si avverte cioè un grande bisogno di allontanarsi
dalla massa borghese e anzi di scandalizzarla, e di rompere anche con le tradizioni letterarie passate.
Una delle varianti interne al Decadentismo è l’estetismo, che egli considera come una possibile
soluzione alla crisi dell’uomo e dell’artista. Così, D’Annunzio oppone all’inciviltà della società borghese il
culto della bellezza in ogni sua manifestazione. L’arte diventa, così, una sfera autonoma e indipendente
dalla realtà economica, politica e sociale. L’artista vive in una dimensione privilegiata, pura e
incontaminata. Ben presto, tuttavia, che questa figura di esteta e questa concezione dell’arte non
costituiscono una soluzione efficace alla crisi: infatti l’intellettuale, chiuso nella sua bolla, non ha alcuna
possibilità concreta di agire per opporsi alla degradazione.
IL PIACERE Testimonianza di questa crisi è il romanzo “Il Piacere”, opera in cui D’Annunzio esalta sì questa
visione della vita, ma ne traccia anche i limiti. Il romanzo viene poi riunito con altri due romanzi in un
ciclo denominato “Il romanzi della rosa”, in cui la rosa diventa simbolo dell’amore sensuale. Questo
romanzo rimane ancora particolarmente legato alla narrativa verista: viene, infatti, specificato il tempo
in cui si svolge l’azione, cioè l’ultimo giorno dell’anno e il luogo, cioè Roma. L’autore analizza le
personalità ambigue dei personaggi, delle loro pulsioni. Il protagonista del romanzo è Andrea Sperelli,
che incarna perfettamente la figura dell’esteta. Andrea è un giovane aristocratico appartenente ad una
nobile famiglia, dal carattere snob. Vive circondato da oggetti raffinati, immerso nel lusso e appare,
quindi, come l’alter ego dell’autore. Tuttavia, Sperelli è un uomo debole, è insicuro ed è incapace di
prendere decisioni. Egli è attratto contemporaneamente da due donne, che rappresentano i due aspetti
opposti dell’amore: Elena Muti è l’incarnazione della donna fatale, sensuale, che conduce alla perdizione
e Maria Ferres, una donna innocente e casta, simbolo di un sentimento puro che, invece, può salvare.
Questa opposizione è, però, solo apparente, in quanto per Maria, come per Elena, prova unicamente un
sentimento fisico, di seduzione. Infatti, quando Maria capisce le reali intenzioni del protagonista, lo
abbandona. La vicenda narra sostanzialmente del fallimento del protagonista, la sua inadeguatezza di
fronte alla società moderna e la sua incapacità di ricoprire un ruolo al suo interno. Con questo romanzo,
quindi, D’Annunzio prende le distanze dall’estetismo, giungendo alla consapevolezza che anche la figura
dell’esteta è destinata a fallire.
‘LA SACRA MARIA E LA PROFANA ELENA’ In questo brano Andrea Sperelli ripensa ad entrambe le donne di
cui si era innamorato: Maria Ferres, in cui il protagonista aveva inizialmente intravisto la possibilità di
avere un sentimento puro, in grado di allontanarlo dalla corruzione. Gradualmente, tuttavia, egli si rende
conto che quell’amore non è altro che una nuova passione, diversa, ma non meno morbosa e sensuale.
La seconda donna è Elena Muti, con cui aveva intrapreso già dal principio una relazione fortemente
passionale. La vicenda è ambientata in una stanza piena di ricordi per il protagonista, in quanto è stata
teatro dei suoi incontri con Elena. La stanza viene descritta come un ambiente pieno di arredi e di opere
d’arte di carattere religioso. In effetti, è proprio un quadro che rappresenta la Vergine ad evocare, nella
sua mente, l’immagine della casta Maria. Subito dopo, questa volta attraverso la somiglianza delle voci,
compare nella sua mente anche l’immagine di Elena. Le due donne si sovrappongono così e Andrea
finisce per trascinare anche Maria nelle fantasie lussuriose che erano, di solito, riservate a Elena.
SUPERUOMO In seguito alla fase della bontà, a partire dagli anni novanta del 900, D’Annunzio scopre il
pensiero del filosofo Nietzsche, che esaltava lo spirito di lotta contro ogni autocommiserazione e senso
di colpa, reinterpretandolo e facendo propria la figura del “superuomo”. D’Annunzio elabora, così, una
nuova idea di intellettuale, che non è più l’artista isolato nel proprio mondo raffinato, ma l’eroe che
affronta direttamente il presente e lo modifica. Il superuomo ancora guarda alla bellezza come ideale
assoluto, ma sceglie di immergersi nella realtà, trasformandola con le proprie azioni. Nel superuomo
convivono, dunque, forza e bellezza. Il superuomo ha, poi, anche un ruolo politico: egli deve condurre
l’Italia al suo destino di dominatrice del mondo. Il superuomo è, naturalmente, un aristocratico e, come
tale, disprezza sia la plebe che lo Stato fondato su principi democratici, sostenendo che l’arroganza
della plebe è tanto grande quanto la viltà di coloro che la assecondano. Egli è convinto che il mondo
sia la rappresentazione del pensiero di pochi uomini superiori e, pertanto, pensa che debba nascere un
nuovo reame fondato sulla forza e che solo pochi uomini superiori riusciranno a prendere il potere e
governare le masse. La caratteristica fondamentale del superuomo dannunziano è, tuttavia, il
velleitarismo, cioè la sproporzione tra i suoi obiettivi e le forze per raggiungerli, fra il desiderio e la realtà
e la sua incapacità di autolimitarsi. Una prima idea di superuomo compare nel romanzo “Il Trionfo
della morte” e vede la sua completa realizzazione nei romanzi “Le vergini delle rocce” e “Il Fuoco”.
IL TRIONFO DELLA MORTE Questo romanzo, fortemente autobiografico, gira attorno alle vicende di
Giorgio Aurispa, discendente da una nobile famiglia abruzzese a cui lo zio ha lasciato in eredità tutti i
suoi averi. Giorgio intreccia una relazione, puramente passionale, con Ippolita Sanzio, che per lui decide
di lasciare il marito. Il romanzo narra il tentativo dei due di recuperare una vita sana, lontana dalla
ormai degenerata e rassegnata Roma. Giorgio è, però, fondamentalmente un inetto, destinato ad
essere fiacco, oppresso, titubante. Per rimediare a questa debolezza egli sogna, invano, di diventare un
uomo sicuro, energico e forte, capace di piegare il mondo alla propria volontà. Per tutto il corso del
romanzo prevale un’atmosfera lugubre, è ricco di simboli e immagini che rimandano alla morte. Inoltre
il romanzo si pare e si chiude circolarmente con una scena di un suicidio: si apre con il suicidio dello zio
e si chiude con il suicidio di Giorgio. Si può quindi definire come un romanzo simbolico, in cui oggetti,
fatti e particolari rimandano alle angosce del protagonista.
LE VERGINI DELLE ROCCE Il romanzo vertice della fase superomistica è, tuttavia, Le vergini delle Rocce,
pubblicato nel 1896 e che, originariamente doveva essere il primo di una trilogia, poi mai completata. E’
proprio il protagonista, Claudio Cantelmo, a raccontare in prima persona, la propria storia: egli, in
opposizione alla realtà politica e sociale che lo circonda, vuole incarnare il prototipo perfetto di
superuomo. Decide così di lasciare Roma e tornare alla propria terra d’origine, in cerca della donna che
possa dar vita, insieme a lui, ad un nuovo superuomo: fa visita ai Montaga, una nobile famiglia in
decadenza e decide di voler sposare una tra le tre sorelle. Sceglie che la sorella prediletta è Anatolia,
che già all’apparenza sembrava una donna maestosa e forte. Tuttavia, è proprio Anatolia a rifiutare la
proposta per potersi prendere cura del padre malato, della madre folle e dei suoi fratelli su cui
incombe lo stesso destino. In questo romanzo prende forma la vera e propria figura del superuomo,
con una personalità forte, sicura. Il superuomo, tuttavia, non nega l’estetismo, ma lo ingloba in sé:
Claudio, infatti, vive guidato dal criterio della bellezza ma, al culto della bellezza, si associa una
personalità energica e potente. A questa volontà si oppone, però, la realtà culturale, sociale e politica in
cui vive, un clima di degradazione. Secondo D’Annunzio la città di Roma rappresenta proprio il
principale esempio di degradazione. Spetta allora al superuomo ricondurre non solo Roma, ma l’Italia
intera, alla sua antica potenza e al dominio sul mondo. Tuttavia al grandioso progetto del protagonista,
si oppone la semplice e squallida quotidianità, con Anatolia che rifiuta la sua proposta per prendersi
cura della famiglia. Tema centrale dell’opera è quindi questa opposizione tra il vigore del superuomo e
la triste realtà che lo circonda. D’Annunzio, quindi, oltre che teorizzare la figura del superuomo, ne
registra anche l’impossibilità di agire concretamente sulla realtà. Simbolo di questo decadimento è il
giardino in cui si rifugiano le donne, che le imprigiona e costituisce una sorta di labirinto., con siepi
incolte e mura cadenti.
IL FUOCO A distanza di qualche anno dalla pubblicazione delle Vergini delle rocce, D’Annunzio pubblica
un nuovo romanzo, Il Fuoco. Questo romanzo può definirsi, a tratti, autobiografico, in quanto l’autore
trae ispirazione dalla propria vita sentimentale, in particolare dalla relazione con Eleonora Duse. Il
romanzo, ambientato a Venezia, descrive infatti l’ambigua relazione tra il giovane scrittore Stelio
Effrena e Foscarina, donna matura ma che conserva ancora il suo fascino, che per Stelio nutre un
sentimento possessivo e geloso. Nonostante ciò, sarà lei stessa a decidere di lasciarlo, comprendendo
che la loro relazione rappresenta un ostacolo alla realizzazione dei sogni del protagonista. Stelio Effrena
è una nuova e diversa incarnazione del superuomo. E’ una figura forte e solare, spinto da un desiderio
indomabile di gloria e piacere. Ma soprattutto, è un artista che vuole agire concretamente per mezzo
della sua parola. Questo aspetto rappresenta un essenziale punto di svolta: Stelio non è più disgustato
dalla volgarità delle masse, ma, anzi, vuole comunicare con loro, trasmettere loro la bellezza. La
bellezza non è quindi un valore privilegiato, riservato ad un’elite, ma deve essere per tutti. Nel romanzo
c’è un personaggio, Richard Wagner, che incarna alla perfezione questa nuova figura dell’artista, che,
con la sua parola, incita il popolo ad agire.
IL TEATRO Mantenere un buon rapporto con il suo pubblico è stato sempre fondamentale per
D’Annunzio e il teatro diventa lo strumento privilegiato attraverso cui lui può agire concretamente nella
realtà, diffondere le proprie idee e guidare il popolo. Fondamentale in questo contesto è l’incontro con
Eleonora Duse, una famosissima attrice. La produzione teatrale dannunziana condivide gli stessi temi
della sua produzione letteraria, quindi il contrasto tra amore puro e passionale, l’arte e la bellezza e
l’immersione dell’uomo nella natura. Anche nel teatro dannunziano si assiste, inoltre, allo scontro tra gli
ideali superomistici e una realtà ostile, che spesso li rende vani, impedendone la realizzazione.
LAUDI Il progetto delle Laudi nasce, nel 1899, in un momento di intensa ispirazione poetica, che
D’Annunzio definì “fiume di poesia”. Inizialmente avrebbe dovuto comprendere sette libri intitolati come
le sette Pleiadi, cioè la costellazione di riferimento per i marinai. L’autore ne terminò solo i primi cinque:
Maia, Elettra, Alcyone, Merope e Asterope. Il titolo completo, Laudi del cielo della terra del mare e degli
eroi, esprime a pieno l’ammirazione dell’autore per tutti gli aspetti del reale. Il primo volume, Maia, si
apre e si chiude con un riferimento alla figura di Ulisse, celebrando l’eroico navigatore, guidato
unicamente dal desiderio di andare oltre i limiti umani e che non ha paura di morire.I primi due canti
contengono una celebrazione della vita in tutti i suoi aspetti, in una inebriante immersione nel mondo
della natura. Dal quarto canto inizia il viaggio, che diventa l'occasione per far rivivere un passato
mitico ed eroico, per inneggiare a una vita sublime e titanica, gioiosa e in piena comunione con la
natura e il cosmo. Il viaggio si conclude, nel canto XIX, con l'approdo al Deserto, dove il poeta trova la
Felicità e compone per lei un «canto novello». Ma nel frattempo il ricordo del passato aveva provocato
la visione della modernità, delle «città terribili», della vile meschina e avvilente che vi si conduce.
Tuttavia la realtà moderna non è solo questo. Accanto al "'mostri?, nelle metropoli moderne si trova
anche la possibilità di un riscatto, proprio recuperando i valori di quel passato glorioso e mitico.
ALCYONE Nel terzo libro delle Laudi il poeta si immerge ora nella natura per contemplarla e rigenerarsi.
In realtà sappiamo che le poesie di Alcyone furono scritte negli stessi anni delle altre raccolte, e ciò
conferma la capacità di D'Annunzio di lavorare. rare contemporaneamente su più registri, in questo
caso quelli eroico-civile e lirico. Il volume comprende ottantotto poesie, non composte originariamente
secondo un disegno preciso, ma poi riunite in una struttura organica, una specie di poema-canzoniere
unitario in cui D'Annunzio ripercorre con la memoria i suoi soggiorni in Toscana durante la stagione
estiva. La raccolta si presenta come una sorta di diario in versi in cui si possono distinguere diversi
scenari geografici (Settignano, dove il poeta acquistò la villa della Capponcina, la Versilia) e diversi
momenti,D'Annunzio va oltre la registrazione di dati biografici ed episodici che trasforma in un discorso
assoluto, atemporale, mitico, il quale trasfigura e rende eterna la concreta occasione compositiva. Il
tempo rappresentato non è, dunque, quello reale, ma quello ciclico del mito, nel quale l'estate
rappresenta il momento euforico dell'esaltazione e della vita.
LA PIOGGIA NEL PINETO La poesia, una delle più celebri di D'Annunzio, fu composta nell'estate del 1902.
Alle soglie di un bosco, sul litorale marino, il poeta e la donna amata, Ermione, ascoltano il rumore
prodotto dalla pioggia sulle foglie: è una specie di sinfonia, che li inebria a da cui si lasciano
completamente assorbire, fino a trasformarsi essi stessi in elementi vegetali. Lo spunto della poesia è
la passeggiata nel bosco di due amanti. Mentre attraversano la selva in un giorno di pioggia, il poeta e
la donna progressivamente si fondono, fino a identificarsi, con i fenomeni naturali. Nella prima strofa la
pioggia cade sui diversi elementi del bosco, ma anche sulle mani, sui vestiti, sui pensieri dei due,
mentre i volti sono già «silvani»; Nella seconda strofa, oltre alla pioggia altri elementi naturali si
manifestano attraverso i suoni (il canto delle cicale, il fruscio degli alberi): in questo contesto naturale
si avvia la metamorfosi. Nella terza strofa, nuovo e più ampio spazio è lasciato alla sinfonia creata
dalla pioggia, che non viene solo descritta, ma quasi riprodotta attraverso il suono e il ritmo delle
parole; Nella quarta strofa, l'assimilazione tra uomo e natura si realizza completamente. La lirica è
interamente giocata sul senso dell'udito: la pioggia si sente, non si vede, fin dall'incipit. Le gocce
creano una vera e propria sinfonia, con "voci" diverse a seconda delle foglie e delle piante su cui
cadono, che diventano «strumenti» suonati dalle sue «innumerevoli dita»; una sinfonia che dialoga e si
fonde con le "voci" delle cicale (una sorta di coro) e della rana (che invece canta da sola). Per
riprodurre questa sinfonia, le parole perdono il loro valore denotativo e prevale invece la loro carica
connotativa e musicale: vengono cioè usate dal poeta come se fossero note di un fraseggio musicale.
II componimento descrive un completo annúllamento dell'uomo e della donna nella natura, di una
loro totale osmosi con l'elemento vegetale. I due personaggi si abbandonano all'ascolto della pioggia e
man mano perdono i loro contorni di creature umane, subendo una metamorfosi che li confonde con
la vita arborea.
ITALO SVEVO Italo Svevo (pseudonimo dell’autore, il cui vero nome è Ettore Schmitz) nacque
nel 1861 a Trieste, al tempo ancora territorio dell’impero asburgico, da un’agiata famiglia borghese. Il
padre Francesco, era un commerciante di origine ebraica, la madre Allegra Moravia era anch’essa di
origine ebraica. Fu sin da subito indirizzato a conseguire la carriera commerciale, prima in un collegio
in Germania, poi ritornato a Trieste all'Istituto superiore per il Commercio. Nel mentre però, si dedicava
ad appassionate letture di scrittori tedeschi. Politicamente era vicino alle posizioni irredentiste e
socialiste e difatti collaborò con il giornale triestino “l’Indipendente”, di orientamento liberal-nazionale
irredentista. In seguito ad un investimento industriale sbagliato, il padre fallì e Svevo subì un
declassamento, passando dall’agio borghese ad una condizione di ristrettezza economica. Fu costretto
a cercar lavoro, per lungo tempo lavorò nella Banca Union di Vienna,ma questo lavoro impiegatizio lo
opprimeva, è per questo che cercava un’evasione nella letteratura classica e dei grandi narratori
francesi dell’800. Nel frattempo si dedicò alle prime prove narrative e progettò il suo primo romanzo,
Una Vita. Nel 1895, muore la madre, al suo capezzale incontra una cugina, Livia Veneziani, molto più
giovane di lui e di cui si innamora. Ben presto i due si sposano ed hanno una figlia, Letizia. Il Matrimonio
segnò un’importante svolta per Svevo, in primo luogo perché diventa quella figura virile, padre di
famiglia e poi poiché era riuscito a mutare radicalmente la sua condizione sociale, in quanto la
famiglia Veneziani era una famiglia di facoltosi imprenditori proprietari di una fabbrica alla quale
Svevo entrò a far parte,abbandonando l’impiego in banca. Da piccolo borghese, si ritrova nel mondo
dell’alta borghesia e dunque da intellettuale si trasforma in grande dirigente d’industria, che con i
numerosi viaggi che compirà entrerà a contatto con un mondo borghese in cui l’unica cosa che
contava erano gli affari e il profitto. Divenuto anch’egli uomo di affari, lasciò l’attività letteraria. Per 25
anni Svevo non pubblica nulla, continuando però a scrivere, giorno per giorno. Gli interessi culturali in
generale, e più specificamente letterari, non erano dunque spenti, ma semplicemente in attesa di
un’occasione che permettesse loro di riaffiorare.Un incontro importante che lo segnò particolarmente
nella ripresa letteraria, è quello con James Joyce, esule dall’Irlanda, insegnava a Trieste, Svevo prese
da lui lezioni di inglese, lingua necessaria ai suoi numerosi viaggi. Tra di loro nacque una meravigliosa
amicizia, i due sottoposero al giudizio dell’altro le proprie opere e ciò incoraggiò Svevo a proseguire
nell’attività letteraria. Inoltre anche l’incontro con la psicoanalisi fu un evento fondamentale, che
avvenne quando il cognato si sottopose ad una terapia dallo stesso Freud. E’ con la guerra, che vide
Svevo libero da incombenze pratiche (la fabbrica dei Veneziani era stata requisita dalle autorità
austriache), che egli poté riprendere l’attività intellettuale. In questi anni concepisce la coscienza di
Zeno, che però non suscitò alcuna risonanza. Svevo mandò il romanzo all’amico Joyce a cui piacque
particolarmente e che si adoperò per imporlo all'attenzione dei letterati francesi.
LA SUA FORMAZIONE CULTURALE L’esperienza letteraria di Italo Svevo nasce in un ambiente del tutto
particolare, quello di Trieste ancora sotto l’Impero austriaco, città di confine in cui convergono tre civiltà,
italiana, tedesca e slava, città ricca di popoli e culture diverse. L’ambiente in cui opera gli permette di
avere una prospettiva più ampia di quella di tanti scrittori italiani. Anche all’ambiente triestino, dominato
dal successo economico e, quindi, da una visione degli uomini e delle cose concreta e spregiudicata,
Svevo deve il carattere antiletterario della sua opera e lo sguardo acuto e disincantato con cui la vita
viene ricondotta a valori come salute, affari, amore. Sin dagli anni giovanili, fu affascinato dal pensiero
irrazionale di Schopenhauer, il quale riconosceva la rinuncia alla volontà di vivere come unico modo per
metter fine al dolore e alla sofferenza dell'animo umano. Leggendo i testi di Nietzsche comprende che
l'uomo non doveva essere concepito come una singola e salda entità bensì come una moltitudine di
sfaccettature che convivono contemporaneamente all'interno della medesima persona. Un altro grande
punto di riferimento fu lo scienziato Charles Darwin, che con la teoria dell'Evoluzione della Specie lo
indusse a presentare il comportamento dei suoi personaggi come il risultato di leggi naturali che non
dipendono dalla volontà del singolo individuo ma dal frutto del contesto storico e culturale in cui
vivevano. Problematico fu il rapporto con la psicanalisi, lo appassionavano gli studi di Freud in quanto
erano mirati a conoscere le tortuosità della psiche, ma non riteneva la psicanalisi valida come terapia,
solo come puro strumento conoscitivo. Svevo si rivela soprattutto maestro nell’introspezione
psicologica del personaggio, di cui sa indagare in modo particolare i meccanismi di difesa e le strategie
di autoinganno messi in atto per far fronte alle frustrazioni dell’esistenza. Il personaggio sveviano più che
agire riflette, ma questo riflettere si rivela uno strumento deviante: una valvola di sfogo per i desideri
insoddisfatti e inconfessati.
TEMI E PERSONAGGI Diversamente da D’Annunzio, che nei suoi romanzi rappresenta eroi, uomini forti e
coraggiosi, quindi il superuomo, Svevo mette al centro dei propri romanzi l’uomo ordinario, comune,
l’antieroe che vive la sua grigia vita ordinaria aspirando a qualcosa di più ma non avendo la forza
necessaria per raggiungere i propri obiettivi. Egli cade preda dei propri limiti, della propria
inadeguatezza e della paura. La figura dell’inetto incarna la visione che Svevo ha dell’uomo nel contesto
storico, economico e sociale di fine 800. Questi personaggi riflettono la crisi che in questi anni colpisce la
figura dell’intellettuale, il cui ruolo viene messo in discussione. I personaggi di Svevo esprimono, quindi, il
crollo dei valori e delle certezze, la perdita di individualità del singolo. Non a caso, i protagonisti dei suoi
primi due romanzi sono, anche se in modo diverso, due intellettuali che rinunciano ad agire nella
realtà. La chiave di lettura dell’analisi che Svevo fa dei suoi personaggi è l’ironia, un atteggiamento di
distacco, che conferisce alle sue opere leggerezza e perfino comicità. L’ironia serve per svelare alibi,
segreti, meccanismi inconsci, illumina aspetti nascosti. Altro tema ricorrente nell’opera di Svevo è quello
del contrasto tra salute e malattia. Con malattia Svevo non intende una condizione di malessere fisico,
ma una condizione di perenne passività, una condizione interiore che si manifesta come disagio
esistenziale, e che non è curabile perché la vita stessa è malattia. L’unica cura possibile, secondo Italo
Svevo, parrebbe essere quella esplosiva della visione conclusiva, in cui un gigantesco ordigno causerà
una “catastrofe inaudita” che azzererà tutto il pianeta, facendolo tornare alla forma di nebulosa.
UNA VITA Svevo pubblica questo romanzo a sue spese da un editore, che gli consiglia di intitolarlo “Una
vita” al posto di “un inetto”, il romanzo però riscattò davvero poca attenzione nel pubblico e nella critica.
La storia narra di Alfonso Nitti, che lascia il proprio paese per lavorare a Trieste, dopo che la morte del
padre ha lasciato la famiglia in uno stato di povertà. Si impiega presso la banca Maller, ma il lavoro gli
appare arido e insoddisfacente, nutre una passione molto più profonda per la cultura letteraria. Un
giorno viene invitato ad una festa dal capo e conosce Macario, un giovane brillante e sicuro di sé nel
quale trova un modello. Alla festa ha l’occasione di conoscere anche Annetta, figlia del capo, e decide di
corteggiarla, anche se non la ama. A questo punto, sposandola, avrebbe potuto cambiare radicalmente
la propria vita. Ma Alfonso, preso da un’angoscia inspiegabile fugge a Trieste, e scopre che la madre è
gravemente ammalata. La morte della madre lo porta a rinunciare alla “lotta per la vita” e ad accettare
la contemplazione. Quando torna a Firenze, Alfonso scopre che Annetta sta per sposarsi con Macario, al
protagonista viene affidata una mansione meno importante in un altro ufficio e i suoi tentativi di
riottenere il favore della famiglia Maller sortisce l’effetto opposto. Alfonso, vittima della sua inettitudine e
incapace di affrontare la situazione, si suicida.
Svevo pubblicò il romanzo a proprie spese dopo il rifiuto dell’editore Treves, che aveva intuito
l’insuccesso: il protagonista, figura di antieroe assolutamente incapace di cogliere le occasioni per
affermarsi (Un inetto era il titolo iniziale), non poteva incontrare i gusti del pubblico del tempo. L’eroe
romantico era figura affascinante anche e soprattutto nella sconfitta, che sapeva affrontare con
coraggio e grandezza. L’inetto sveviano è invece un individuo negato per la lotta, goffo e ridicolo,
incapace di dominare la vita, perennemente frustrato e scontento; non ha alcuna dote fuori del comune,
è anzi individuo marginale e disadattato. Alfonso è spesso distratto sul lavoro, lento, disordinato, è il
ritratto dell’inefficienza; impacciato nei rapporti interpersonali, non sa cogliere le occasioni che gli si
presentano e si lascia così sfuggire la possibilità di sposare Annetta e di promuovere la propria posizione
sociale. La vicenda si svolge senza grandi colpi di scena, perché tutte le vicende sono filtrate attraverso
la lettura che ne dà il protagonista, hanno valore solo per le conseguenze che suscitano nel suo animo.Al
centro della narrazione viene posta, quindi, la sfera della coscienza, che però nell’inetto non si rivela
strumento di conoscenza, ma strategia di autoinganno per contraffare la realtà. Incapace di imporsi o
anche solo di difendersi nel mondo reale, Alfonso si rifugia nel sogno a occhi aperti, immaginando
scenari in cui rifarsi delle frustrazioni subite. Al di sotto della coscienza si rivela tuttavia l’anima del
personaggio, che consiste in una cieca volontà di vita e affermazione, destinata a rimanere inappagata.
LA relazione con Annetta rappresenta per il protagonista uno strumento per migliorare la propria
posizione sociale, uno strumento di rivalsa. Alfonso però non ha le forze e la capacità di lottare per
affermarsi e, per questo, fugge dalla realtà. Ed è proprio questo il motivo che lo porta a suicidarsi. Si
ergono di fronte a lui degli antagonisti: Maller, incarnazione della figura del padre possente e terribile, e
Macario acerrimo rivale che possiede tutte quelle caratteristiche mancanti ad Alfonso, la sicurezza che
lo rende adatto alla vita. Se il punto di vista del personaggio è dominante in Una vita, non è però l'unico,
di frequente si introduce nel narrato la voce del narratore che pur non essendo più un narratore
onnisciente, interviene ugualmente nei punti chiavi a giudicare un azioni e a smascherare autoinganni e
alibi costruiti dall'eroe. Questa operazione di correzione e giudizio assume le vesti di un vero e proprio
processo alle menzogne, alle doppiezze e alle costruzioni fittizie; il romanzo si regge tutto su questa
opposizione di due punti di vista antagonisti, che rivela l’atteggiamento critico dell'autore verso il suo
personaggio.
SENILITA’ Il secondo romanzo di Svevo, “Senilità” esce nel 1898 ed incorre in un insuccesso peggiore di
quello precedente; si compone di 14 capitoli, come Una Vita presenta una narrazione in terza persona
che ruota attorno alle vicende di un protagonista inetto.
La vicenda vede protagonista Emilio Brentani, un 35enne che vive di un modesto impiego a Trieste e
gode di una certa reputazione in ambito cittadino in quanto scrisse un romanzo anni prima. Vive la vita
con prudenza e lontano dai piaceri con Amalia la sorella, che lo accudisce come una madre e l’amico
Stefano Balli, scultore e uomo dalla personalità forte. L’insoddisfazione per la sua esistenza vuota e
mediocre spinge Emilio a cercare il godimento nell’avventura con Angiolina, una ragazza del popolo.
Egli, spinto anche dall’amico si propone di divertirsi senza impegnarsi ma finisce per innamorarsi
perdutamente di lei idealizzandola in una creatura angelica. La scoperta della vera natura di Angiolina,
che ha numerosi amanti scatena la sua gelosia, ma egli non riesce a distaccarsi da lei ed un primo
tentativo di separazione infatti, si sente privato di quella grande energia vitale che era riuscito ad
ottenere da quel rapporto che definisce “gioventù”. Quando poi il possesso fisico arriva finalmente però,
lo lascia insoddisfatto, perché non ha avuto la figura ideale che ama ma la donna reale, di carne che
disprezza insieme alla sua volgarità e rozzezza. Intanto Angiolina si innamora di Stefano dopo che la
chiama come modella per una scultura e ciò causa l’estrema gelosia di Emilio. Parallelamente il fascino
di Stefano attira anche un’altra donna Amalia (la sorella), lei si innamora perdutamente per appagare il
grigiore della sua vita però non osa rivelare i suoi sentimenti e Stefano rimane solo un sogno. Emilio
accortosene allontana l’amico da casa sua ma in tal modo distrugge la vita della sorella. Amalia cerca
rifugio nell’etere, indebolendo il suo corpo e finendo, poi, per ammalarsi di polmonite. Emilio lascia il
capezzale di Amalia morente, per recarsi all’appuntamento con Angiolina, deciso ad abbandonarla
definitivamente e a dedicarsi tutto alla sorella. Emilio, però, si lascia trasportare dall’ira e la insulta
violentemente. Quando torna scopre che Amalia era morta e ciò lo fa rinchiudere nel guscio della sua
“senilità” guardando alla sua avventura come un vecchio alla sua gioventù.
Il primo titolo di Svevo era “il Carnevale di Emilio”, innanzitutto perché la vicenda si consuma durante il
periodo del carnevale e poi perché la relazione tra Emilio e Angiolina analogamente al carnevale
simboleggiava un breve momento di felicità per poi ritornare alla squallida vita di sempre, come nel
caso del carnevale momento di gioia immensa che però prima o poi deve finire e deve riportarci
all’esistenza consueta. Rispetto al precedente romanzo, non vi è un quadro sociale, non si affrontano
problemi di natura sociale il racconto si concentra sui 4 personaggi. Di conseguenza i fatti esteriori, la
descrizione di ambienti fisici e sociali in Senilità hanno poco rilievo: è la dimensione psicologica che
l’autore si preoccupa in primo luogo di indagare. Dal punto di vista sociale Emilio Brentani è un piccolo
borghese e al tempo stesso è un intellettuale. Dal punto di vista psicologico è un debole, un inetto che ha
paura di affrontare la realtà e per questo si è costruito un sistema protettivo ad hoc che gli dona
un’esistenza calma e sicura ma che implica assenza di godimento. Nonostante il sistema protettivo,
rimane in lui un desiderio irrefrenabile che deve essere appagato e trova conforto in Angiolina che per
lui diventa simbolo di pienezza vitale. Assapora con lei per la prima volta il piacere e lo fa entrare a
contatto con il mondo esterno, è proprio la relazione con questa che mette in luce la sua inettitudine ad
affrontare la realtà. L’amore irrompe in queste vite grigie e apatiche sconvolgendole. Per Emilio e Amalia
che mai si sono aperti alla vita, l’esperienza dell’amore significa vivere all’improvviso una giovinezza mai
conosciuta. I due partner, Stefano e Angiolina, rappresentano tutto ciò che ai protagonisti manca. Tutto il
romanzo è costruito sull’opposizione tra perdenti, Emilio e Amalia, e i vincenti, cioè Angiolina e Stefano.
Tuttavia, dato che tutto è filtrato dalla coscienza del protagonista, anche le immagini forti e vitali di
Stefano e Angiolina non coincidono con la realtà. Non è il narratore a presentarli come creature positive,
ma è Emilio a vederle così. Emilio incarna infatti l'impotenza sociale del piccolo borghese incapace di
affrontare la realtà all’esterno del nido domestico. Emilio per questo si appoggia all’amico Balli. I due
personaggi incarnano due risposte diverse ma complementari alla stessa crisi dell’individuo: Emilio
rappresenta il chiudersi vittimistico nella sconfitta e nell’impotenza, Balli rappresenta il tentativo di
rovesciare l’impotenza in onnipotenza, mascherando la debolezza con l’ostentazione della forza
dominatrice.
Svevo assume un atteggiamento prettamente critico nei confronti di Emilio. Esso si manifesta in piena
evidenza attraverso i procedimenti impiegati per costruire il discorso narrativo. Il romanzo è focalizzato
quasi totalmente sul protagonista, i fatti sono filtrati sistematicamente attraverso la sua coscienza e
sono presentati come li vede lui. Ma poiché Emilio è il portatore di una coscienza falsa, in cui si costruisce
su maschere e autoinganni, la rende inattendibile. Questa inattendibilità viene denunciata da Svevo
attraverso tre procedimenti narrativi:
1) la voce del narratore interviene a smentire e correggere la prospettiva del protagonista, a
smascherare i suoi autoinganni, nel romanzo si presentano così due prospettive.
2) Spesso però, dinanzi alle menzogne più evidenti di Emilio, il narratore tace: basta il contrasto che si
viene a creare tra le mistificazioni di quest’ultimo e la realtà oggettiva.
3) Il terzo procedimento da Svevo è la semplice registrazione del suo linguaggio. Il linguaggio di Emilio
appare stereotipato, pieno di espressioni enfatiche, melodrammatiche, ad effetto e al tempo stesso
banali. Bisogna stare attenti a non attribuire allo scrittore stesso uno stile del genere; in questi casi egli
mima abilmente il linguaggio caratteristico del suo personaggio, che è lo specchio della sua cultura,
ideologia e psicologia.
LA COSCIENZA DI ZENO “La Coscienza di Zeno” è il terzo romanzo di Svevo, pubblicato nel 1923 dopo 25
anni di silenzio, durante i quali Svevo non cessa mai di scrivere, e appare ben differente dai due
precedenti. Quegli anni furono cruciali non solo nell’evoluzione interiore dello scrittore, ma anche per le
trasformazioni radicali nell’assetto della società europea, nelle concezioni del mondo, nelle correnti
letterarie e artistiche (prima guerra mondiale). Già dal titolo del romanzo si può comprendere come il
vero protagonista non sia Zeno Cosini, ma piuttosto la sua coscienza. Il protagonista de La coscienza di
Zeno è Zeno Cosini, un ricco triestino che per liberarsi dal vizio del fumo si sottopone a una cura
psicanalitica che consiste nel mettere per iscritto la propria vita. Tuttavia, dopo sei mesi di cura, Zeno
interrompe la terapia e lo psicanalista, per vendicarsi, decide di pubblicare le pagine che Zeno gli ha
mandato. Al testo del memoriale si aggiunge infine una sorta di diario di Zeno, in cui questi spiega il suo
abbandono della terapia e si dichiara sicuro della propria guarigione, avvenuta non per merito della
psicoanalisi, ma solo per la ritrovata stabilità economica.
Il romanzo è scandito in otto capitoli. Nel primo (Prefazione) il Dottor S. annuncia di avere deciso di
pubblicare per vendetta i quaderni del suo paziente Zeno Cosini, per avere interrotto la terapia
psicanalitica. Nel secondo (Preambolo) la parola passa a Zeno, che ci dice di non poter recuperare la
sua infanzia, ormai troppo lontana nella memoria. Nel terzo (Il fumo) Zeno illustra i numerosi e vani
tentativi di smettere di fumare. Nel capitolo La morte di mio padre invece Zeno torna indietro alla sua
giovinezza e al difficile rapporto col padre che, in punto di morte, gli dà uno schiaffo (che poteva anche
essere una carezza), che Zeno interpreta come ultima punizione del padre nei suoi confronti. Nel
capitolo La storia del mio matrimonio si parla della frequentazione di Zeno con la famiglia Malfenti e le
quattro sorelle Ada, Augusta, Alberta e Anna. Zeno è innamorato della bellissima Ada, ma l’impossibilità
di questo amore lo induce a ripiegare verso Alberta e infine, quasi senza rendersene conto, verso la
meno bella Augusta, che però si rivela una moglie modello, dotata di quella concretezza e quella salute
di cui Zeno si sente privo. Questo tormento continuo porta Zeno, marito felice, a instaurare un rapporto
clandestino con Carla, di cui si racconta nel capitolo La moglie e l’amante. Nel capitolo Storia di
un’associazione commerciale Zeno ci conduce all’interno del suo mondo lavorativo e ci racconta il suo
rapporto con Guido Speier, marito di Ada, la cui abilità nel lavoro e la cui fortuna in tutte le cose della vita
fanno da contraltare ai continui fallimenti di Zeno. Tuttavia Guido si rivelerà alla fine più fragile di quello
che sembrava e le improvvise difficoltà lo porteranno al suicidio. Nell’ultimo capitolo, Psico-analisi, la
narrazione torna al presente e Zeno annuncia la sua decisione di abbandonare la cura, criticando il
metodo psicanalitico del medico e dichiarando di essere guarito dalla sua malattia grazie a una serie di
successi commerciali favoriti dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale.
Una delle principali novità ne La Coscienza di Zeno, è il trattamento del tempo. Il tempo usato da Svevo è
un tempo misto, che non presenta gli eventi in maniera cronologica lineare ma in un tempo soggettivo
in cui il tempo del vissuto (il passato) riaffiora continuamente intrecciandosi con il tempo del racconto (il
presente). La narrazione va continuamente avanti e indietro nel tempo, segue la memoria del
protagonista che si sforza per obbedire al proprio psicoanalista. Altra novità rispetto ai romanzi
precedenti riguarda il narratore: le vicende sono infatti narrate in prima persona. Tuttavia lo stesso Zeno,
in varie occasioni, ammette di non essere stato completamente sincero, neanche con sé stesso. La
narrazione risulta, pertanto, inattendibile, in quanto Zeno distorce, manipola il racconto per costruire una
buona immagine di sé. Addirittura nel romanzo si possono riconoscere due voci dello stesso
personaggio: da una parte Zeno personaggio, che agisce nelle vicende narrate e Zeno narratore, che
ormai anziano racconta il suo passato.
Zeno è un inetto che si differenzia da Alfonso Nitti e Emilio Brentani perché non è più appartenente alla
borghesia impiegatizia bensì alla ricca borghesia commerciale. Egli vive una gioventù oziosa,
cambiando facoltà universitarie senza raggiungere mai una laurea, e senza mai dedicarsi ad un'attività
seria. Il padre non ha la minima stima per il figlio e nel testamento lo consegna in tutela al fidato
amministratore Olivi. I rapporti del figlio con il padre sono complicati: pur amandolo sinceramente, Zeno,
con il suo ozio e la sua inconcludenza negli studi, non fa che procurargli amarezza e delusione rivelando
inconsci impulsi ostili ed aggressivi. Quando è sul letto di morte, il padre lascia cadere uno schiaffo sul
viso del figlio e Zeno resta nel dubbio angoscioso se il gesto sia il prodotto dell’incoscienza dell’agonia o
scaturisca da una deliberata intenzione punitiva e cerca quindi di costruirsi alibi e giustificazioni per
pacificare la propria coscienza. Privato della figura paterna, Zeno va in cerca di una figura sostitutiva e la
trova in Giovanni Malfenti, uomo d’affari che incarna l’immagine tipica del borghese.
Nella Prefazione, il Dottor S. informa il lettore riguardo l’antipatia che il protagonista nutre nei confronti
della psicoanalisi. I dubbi di Svevo derivano dall’esperienza del cognato che, dopo due anni di sedute a
Vienna con Freud in persona, fece ritorno a Trieste in condizioni ancora peggiori, congedato addirittura
come “incurabile” dal padre della psicanalisi. Tutti i riferimenti alle teorie e alle tecniche utilizzate da
Freud all’interno dell’opera sono sempre accompagnati da un’ironia che svela le posizioni diffidenti e
critiche dell’autore. Il romanzo La coscienza di Zeno è percorso dal tema della malattia di Zeno, che si
può identificare con la sua inettitudine, con il suo non saper stare al mondo. Questo porta Zeno a
sottoporsi alla psicanalisi, che è il motivo della scrittura stessa del romanzo. Ripercorrendo le vicende
della propria vita, il medico spera che Zeno riporti a galla il trauma che ha determinato la sua malattia,
ma la cura sembra non aver effetto e Zeno l’abbandona. Interessante però il fatto che non appena
abbandoni la cura Zeno si dica guarito, grazie ad un inaspettato successo commerciale. Nelle ultime
pagine del libro, Zeno profetizza l'apocalisse, un’enorme esplosione che distruggerà il mondo. La
malattia di Svevo allora può essere paragonata alla malattia del mondo, una civiltà malata la cui unica
via d’uscita è l’annientamento totale. La peculiarità di Zeno rispetto ai personaggi dei precedenti
romanzi di Svevo è il distacco umoristico: mentre si autoanalizza Zeno tende a sfuggire dalla serietà di
questa analisi, a non prendersi troppo sul serio. Zeno capisce che ogni serietà non è altro che un'illusione
e preferisce presentarsi come un personaggio comico, mantenendo il sorriso anche nelle situazioni più
drammatiche.
IL FUMO Questo capitolo della Coscienza di Zeno riguarda il vizio del fumo del protagonista, una
dipendenza sviluppata fin da ragazzino e sempre combattuta senza successo. Zeno ricorda la sua prima
sigaretta fumata da adolescente, inizialmente rubando i soldi al padre poi, dopo essere stato scoperto,
fumando i suoi sigari avanzati. A vent’anni Zeno si accorge di odiare il fumo e si ammala, ma nonostante
la malattia decide di fumare un’ultima sigaretta; ed è qui che si evidenzia per la prima volta la vera
malattia psicoanalitica del protagonista. Inizialmente Il fumo è per Zeno una reazione al rapporto con il
padre, poi si allarga a forma di difesa verso la realtà circostante e il mondo intero. In tal senso, ogni
tentativo di smettere di fumare non è che uno stimolo ulteriore al desiderio. Da qui nascono i continui e
vani tentativi di smettere di fumare, perché, come ammette Zeno, “quella malattia mi procurò il
secondo dei miei disturbi: lo sforzo di liberarmi dal primo”. Le giornate di Zeno finiscono "coll’essere
piene di sigarette e di propositi di non fumare più”. La malattia del fumo si rivela essere in realtà un'altra
"malattia della volontà", cioè l’incapacità di Zeno di perseguire un fine, e riflette il senso di vuoto nella
sua vita, scaturito dall'impossibilità di affrontare l’esistenza e il mondo. Ed è proprio questa l’inettitudine.
L’inettitudine di Zeno riflette una dimensione più profonda della riflessione di Svevo sull’uomo, che verrà
rivelata solo nella conclusione del romanzo: la malattia del protagonista è comune in realtà a tutti gli
uomini che vivono nella società contemporanea, alienante e contraddittoria. Il solo modo possibile per
affrontarla è mantenere un distacco ironico. Ed è proprio l’ironia la risorsa conoscitiva centrale nel
capitolo sul fumo: la distanza, sottilmente percepibile, tra ciò che Zeno dice e ciò che il lettore capisce è
cruciale per decifrare la sua "malattia". Lo si vede bene nell’episodio del ricovero di Zeno in clinica per
smettere di fumare. Zeno si fa rinchiudere volontariamente ma, una volta in clinica, decide di scappare,
corrompendo l’infermiera Giovanna con una bottiglia di cognac e una promessa di rapporto sessuale.
L’intera vicenda viene narrata con intenti comici, ma rileva le dipendenze e le ossessioni dell’uomo
moderno, caratterizzato da un profondo senso di solitudine di fronte a un mondo malato, egoista e
contraddittorio.
AUGUSTA E LA MALATTIA Il capitolo sesto de La coscienza di Zeno, dal titolo La moglie e l’amante, si apre
con una riflessione del protagonista riguardo il suo matrimonio con Augusta. Zeno, fidanzatosi con
Augusta per ripiego, senza alcuna convinzione, una volta sposato si ricrede, riconoscendo in lei ciò che
più desidera: la salute. Le regole di comportamento di Augusta sono semplici ma essenziali, prima tra
tutte vivere contenti di ciò che si ha, senza tormentarsi sul significato dell'esistenza. La donna non è
turbata dai mutamenti. anzi li assorbe in sé ottusamente e la sua «salute» consiste nel chiudersi nelle
abitudini del rassicurante mondo familiare, prodiga di cure e affetto per le persone che le stanno
intorno e fiduciosa, per quanto riguarda l'esterno, nelle istituzioni e nelle autorità che garantiscono
l'ordine. Anche Zeno agli inizi della vita matrimoniale avverte questa soddisfazione, ma ora che è
vecchio, ripensando alla «salute» della moglie, nutre il dubbio che sia illusoria e la vede come una
malattia. Dunque a distanza di anni Zeno presenta una descrizione distaccata e ironica della moglie,
rendendosi conto che è Augusta ad aver bisogno delle cure per vivere, non lui. Nella conclusione del
romanzo ritorna questa opposizione salute-malattia e Zeno dirà che solo gli animali possono godere di
una vera salute, perché si adeguano ai bisogni elementari.
LA PSICANALISI Psico-analisi, ultimo capitolo de La coscienza di Zeno, si presenta come un diario e riporta
le annotazioni di quattro giorni : 3 maggio 1915, 15 maggio 1915, 26 giugno 1915 e 24 marzo 1916. Il periodo
di questi episodi è quello poco prima e subito dopo l’entrata in guerra dell’Italia. Nella conclusione del
racconto Zeno ha sospeso la terapia e rifiuta e condanna con disprezzo la psicoanalisi che non gli ha
arrecato alcun beneficio ed è anzi stata fonte di nuove malattie dell’animo. Al termine del romanzo
Svevo, tramite il personaggio di Zeno, fa un'amara riflessione sulla condizione esistenziale dell’uomo.
Attraverso il protagonista che si dichiara completamente sano, Svevo rivela che la malattia interiore
che affliggeva Zeno è una condizione comune a tutta l’umanità, è congenita in quanto insita nella civiltà
dell’epoca che il progresso da una parte ha migliorato ma dall’altra ha irrimediabilmente compromesso.
Il progresso è in realtà per l’uomo un falso progresso, è solo degenerazione e malattia, dovuti alla
continua ricerca di qualcosa che la sete di denaro e potere e il desiderio di possesso non possono dare.
La pagina che chiude il romanzo è famosa in quanto anticipatrice della moderna visione della fine del
mondo per mano umana. La scena è apocalittica: l’uomo in possesso di un “esplosivo incomparabile”,
che colloca al centro della terra, finirà per portare la terra alla catastrofe. “Ci sarà un’esplosione
enorme.. e la terra, ritornata alla forma di nebulosa, errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie”.
PIRANDELLO Luigi Pirandello nasce nel 1867 vicino Agrigento. Pirandello cresce in un clima di forte
disillusione per le aspettative disattese del Risorgimento, di cui i genitori erano stati sostenitori. Nel 1887 si
iscrive alla Facoltà di Lettere a Roma. Pirandello, come Svevo, compie alcuni studi in Germania Nel 1903
ci furono due eventi che segnarono particolarmente la sua vita:
• la miniera di zolfo dei genitori si allaga e la famiglia cade in rovina;
• inizia a manifestarsi la malattia mentale della moglie che la costringerà a vivere in una casa di cura
fino alla morte.
Dissesto economico, follia e prigione familiare diventano allora temi centrali delle sue opere. Le
difficoltà economiche lo portano a intensificare l’attività di scrittore e nascono i suoi romanzi più famosi.
In questo periodo ha inizio anche l’attività teatrale, con opere sia in siciliano che in italiano, spesso
derivate dalle novelle. I romanzi di Pirandello ottengono grande diffusione in Italia, ma con il teatro avrà
successo internazionale. Otterrà un Premio Nobel nel 1934. Nel frattempo aveva riunito le sue novelle
nella raccolta Novelle per un anno e aveva dato alle stampe nel 1926 il suo ultimo romanzo: Uno,
nessuno e centomila. Muore nel 1936 a Roma. Iscriversi al partito fascista fu una scelta opportunistica e
non ideologica. Pirandello si iscrive al partito nel 1924. Il fatto naturalmente suscitò molte polemiche
contro l’autore, accusato di aver compiuto una scelta opportunistica per trovare finanziamenti per la
propria compagnia teatrale. Ma ci sono anche altri motivi, tra i quali il suo innato gusto dell’andare
controcorrente, ma anche per il sogno di favorire così la nascita di un teatro di stato, protetto e
sovvenzionato dal regime. La vita familiare di Pirandello non fu serena, soprattutto a causa della
personalità prevaricatrice ed autoritaria del padre e dall'idea della famiglia come "trappola", e non
"nido" come è invece percepita da Pascoli. Egli si sente profondamente diverso dal padre, per il modo di
pensare e di concepire la vita.
Pirandello si forma in Sicilia e primi contatti in ambito letterario li ebbe con l’opera dei veristi suoi ma via
via si allontanò dal pensiero verista perché aveva un’altra visione della vita. In particolare egli rifiutava di
esaminare le vicende umane con le regole imposte dal criterio dell'impersonalità, piuttosto preferiva
scavare nella psiche umana per scoprire la fragilità e l'incoerenza che il razionalismo positivistico non
era stato in grado di cogliere. Alla base della poetica di Pirandello c’è un vitalismo, l’idea che la realtà
sia un «perpetuo movimento vitale». La realtà è un flusso continuo, in cui tutte le cose si trasformano e
si separano le une dalle altre. Ma ciò che si separa dal flusso si irrigidisce, diventando individuo, e così
facendo inizia a morire. Così succede agli uomini, che tendono a staccarsi dalla vita e dal suo fluire per
cristallizzarsi in individui, dotati di una propria personalità e identità personali. Questa identità è però
qualcosa di rigido che l’uomo si autoimpone, sforzandosi di essere coerente. L’uomo all’interno della
società vive una continua lotta contro la forma, le costrizioni e le maschere che la società gli impone,
che lo rendono estraneo a sé stesso e agli altri. Anche gli altri, le persone che ci stanno attorno, ci
attribuiscono forme diverse. Ognuno di noi è tanti individui diversi, tante quante sono le persone che lo
guardano. Queste sono delle costruzioni fittizie, che l’autore paragona a maschere che ciascuno di noi
indossa perché ci sono imposte dal contesto sociale. Nel ‘900 l’individuo non conta più nulla, perde la
sua identità. Nei personaggi pirandelliani vi è la consapevolezza di non essere “nessuno” e questo
provoca un senso di dolore e smarrimento. L’individuo soffre anche perché sa che gli altri lo vedono in
“forme” nelle quali non può riconoscersi. Queste forme sono viste come “trappole” in cui l’individuo cerca
di lottare invano. Pirandello la società appare come un’enorme pupazzata, una costruzione artificiosa
che isola l’uomo dalla vita.
→ La prima trappola che ingabbia l’uomo è la famiglia. Pirandello riesce a cogliere il carattere
opprimente e il grigiore avvilente della famiglia, le sue tensioni segrete, gli odi, i rancori, le ipocrisie e le
menzogne che in essa vivono.
→ L'altra «trappola» è quella economica, il lavoro, soprattutto i lavori monotoni e frustranti, frutto di
un'organizzazione gerarchica oppressiva.
Secondo Pirandello, solo l'estraniazione, il distacco e la follia possono strappare la maschera che
opprime l'uomo e liberarlo dalle costrizioni che la società gli impone, ma poi chi cerca di vivere una vita
meno falsa viene relegato ai margini della società e tacciato come un pazzo. Dunque liberarsi dalla
costrizione della «forma» conduce ad una vita più autentica ma anche infinitamente più dolorosa.
L’uomo che «ha capito il giuoco», che ha preso coscienza del carattere fittizio del meccanismo sociale,
che si isola dalla società, si esclude guardando vivere gli altri dall'esterno della vita e dall'alto della sua
superiore consapevolezza. Il «forestiere della vita» rifiuta di assumere la sua «parte», osserva gli uomini
imprigionati dalla «trappola» con un atteggiamento «umoristico», di pietà. Il tipico personaggio
pirandelliano è l'esatto contrario dell'eroe dannunziano. Appartiene solitamente al ceto borghese e si
porta dentro un senso di frustrazione e di vuoto; ha scarsa considerazione di sé stesso, non è ben sicuro
del suo ruolo nella società e non ha una meta certa verso cui orientare la propria vita, perché attraversa
una crisi d'identità e vive in uno stato di perenne frustrazione. Spesso è tormentato da tic nervosi o
difetti fisici, espressione di sofferenza interiore dovuta alla necessità di vivere nelle trappole delle
convenzioni sociali.
L’UMORISMO Il saggio L’Umorismo costituisce la chiave di lettura dell’opera di Pirandello. Il saggio è diviso
in due parti:
-La prima parte, di carattere storico, ci fornisce una spiegazione dell’etimologia del termine umorismo,
che deriva dalla terminologia della medicina tradizionale con cui si indicavano dei fluidi corporei che
determinano il carattere di un individuo.
-nella seconda parte l’autore interpreta l’umorismo come modo di comprendere la realtà, che va oltre
le apparenze. Immaginiamo di osservare una situazione strana o una persona buffa. Capiamo subito
che quello che stiamo osservando non è come dovrebbe essere, è anzi il «contrario» di come dovrebbe
essere. Per esempio, una donna anziana truccata da giovane. La nostra prima reazione, immediata e
superficiale (che Pirandello chiama «avvertimento del contrario»), sarà quella di ridere per lo spettacolo
comico, ridicolo che abbiamo davanti agli occhi; oppure, in altri casi, potremo irritarsi e arrabbiarci per
uno spettacolo odioso. Ma se invece di reagire istintivamente, ci soffermeremo a «riflettere» sulle cause
di quella scena grottesca, se cercheremo di comprendere il punto di vista della persona ridicola o
odiosa, allora non potremo più ridere o arrabbiarci, perché avremo intuito la sofferenza, il dolore, la storia
che stanno dietro quello spettacolo esteriore. In altri termini, la «riflessione» ci fa andare oltre le
apparenze, ci fa vedere le ragioni che stanno oltre la maschera grottesca. Così passeremo dal
semplicistico «avvertimento del contrario» al più profondo e veritiero «sentimento del contrario», ed è
questa la caratteristica fondamentale dell'umorismo.
NOVELLE Pirandello lavorò alla novellistica per tutta la sua vita, ma fu nel 1922 che riorganizzò tutti i libri di
novelle nella raccolta “Novelle per un anno” (comprende 24 volumi per 15 novelle ciascuno, per un totale
di 360 novelle che equivale all’incirca ai giorni di un anno. La suddivisione delle novelle in questo modo
sembrerebbe indicare che c’è un ordine, in realtà non si conosce ancora il criterio secondo cui le ha
disposte e l’unico criterio è la mancanza di criterio. Nella raccolta mescola racconti antichi e recenti,
racconti di ambientazione romana e siciliana.
CIAULA SCOPRE LA LUNA Ambientata in una miniera di zolfo siciliana, la novella racconta di Ciàula, un
giovane uomo che vi lavora al servizio di zi’ Scarda. Per terminare il carico del giorno, zi’ Scarda e Ciàula
si fermano a lavorare tutta la notte. Non è il lavoro in miniera a spaventare Ciàula, né la sua fatica né il
buio delle sue gallerie. Quello che lo terrorizza è il buio del cielo notturno, e lo fa dal giorno in cui in
miniera è scoppiata la mina che ha ucciso il figlio di zi’ Scarda e ha colpito quest’ultimo a un occhio.
Quella notte, uscito all’improvviso dalla cava, Ciàula è rimasto atterrito dalla notte nera, punteggiata di
stelle che non riuscivano a diffondere alcuna luce, e aveva iniziato a tremare. Impaurito per il buio che lo
attenderà una volta portato il carico fuori dalla miniera, Ciàula si avvia tentennante con il suo carico di
zolfo sulle spalle, ma man mano che si avvicina all’uscita dalla miniera si rende conto che là fuori
qualcosa emana una strana luce. Sbalordito, una volta riemerso lascia cadere il sacco e vi si siede
sopra, sconvolto e commosso dalla bellezza luminosa della luna, finalmente scoperta.
IL TRENO HA FISCHIATO Belluca è un uomo modesto. Lavora come contabile, con rigore e rispetto. È un
uomo scrupoloso, mite, umile; puntuale, sottomesso e sempre servizievole. La sua vita scorre monotona
tra la routine domestica e la carriera lavorativa. I suoi colleghi e il capoufficio non hanno molta stima o
particolare considerazione di lui, e anche la sua famiglia sembra non valorizzarlo affatto. Se la situazione
lavorativa è sempre deludente e umiliante, quella familiare è a dir poco complessa: sua moglie, sua
suocera e la sorella della suocera, sono tutte non vedenti e vivono nella sua casa, insieme alle 2 figlie
vedove con i loro 7 bambini. Belluca è ora ricoverato in un ospedale psichiatrico. Ha avuto un brutto
crollo e un giorno che sembrava essere un giorno qualunque, sul posto di lavoro si è letteralmente
scagliato contro il proprio capoufficio inveendo contro di lui. Tra le grida sconclusionate di Belluca si ode
uno strano verso: il fischio del treno. È lo stesso che l’uomo continua a ripetere di averlo sentito nella
notte e che lo ha trascinato via lontano. Il fischio di quel treno nel cuore della notte spalanca per Belluca
prospettive nuove e mai esplorate e lo mette di fronte alla totale mancanza di evasione e leggerezza
nella sua vita. Il protagonista comprende l’importanza, di tanto in tanto, di concedersi dei momenti di
libertà e evasione da tutto, fosse anche nel mondo del sogno e della fantasia. Il treno, simbolo del
viaggio, allude alla riscoperta e all’evasione. In questo caso, più che di un’evasione fisica si tratta di
un’evasione mentale, dalla sua quotidianità, dalla sua coscienza grazie al fischio del treno; questo lo
ritroviamo attraverso espliciti riferimenti nel testo: si risveglia dalla vita da somaro (come quello di
Rosso Malpelo), cioè subisce maltrattamenti verbali dai colleghi. (vv 28- 33); si rende conto che esiste il
mondo esterno. (vv 138-143); Belluca si ripromette di evadere dalla realtà ogni tanto, ma accettando e
restando alla sua condizione da impiegato (come Il Fu Mattia Pascal); è impossibile liberarsi dalla sua
condizione di impiegato.
IL FU MATTIA PASCAL Il Fu Mattia Pascal (1904) è il primo capolavoro di Pirandello, ma all’epoca non
ottenne molto successo. Il libro di Pirandello racconta la storia di Mattia Pascal, che vive a Miragno, in
Liguria. Mentre si trova nella biblioteca della città, Mattia Pascal decide di raccontare la sua storia. Il
protagonista del romanzo racconta che in precedenza viveva insieme alla madre e al fratello Roberto in
condizioni agiate grazie al lavoro del padre, che investì soldi in proprietà. Dalla sua morte, avvenuta
quando Mattia aveva quattro anni e mezzo, si erano affidati a Malagna, il quale per pagare i debiti iniziò
a venderle, arricchendosi sfruttando l’ignoranza della madre. Mattia Pascal era stato perciò costretto a
cercare lavoro trovandolo presso la biblioteca. Mattia, successivamente, si sposa con una donna
chiamata Romilda e i due vivono insieme alla suocera. La famiglia e il lavoro rappresentano una
trappola per Mattia Pascal. La vita domestica, per i continui litigi con la moglie e con la suocera diventa
insostenibile per Mattia, che decide di fuggire dal paese ed emigrare in America. Si ferma a Montecarlo,
dove gioca d’azzardo al casinò per 12 giorni, andandosene con un bottino di 82 mila lire. Mentre in treno
escogita un modo per scappare dalla sua vita, legge il suo necrologio: la moglie e la suocera,
credendolo morto, lo avevano riconosciuto in un cadavere ritrovato in quei giorni. Mattia decide di
iniziare una nuova vita e sentendo due signori discutere sull’iconografia cristiana, ricava il nuovo nome:
Adriano Meis. Adriano getta via la fede e si inventa un nuovo passato. Decide di operarsi l’occhio
strabico e tagliare barba e capelli. Dopodiché, da Milano si trasferisce a Roma. Qui vive in affitto in una
camera ammobiliata. Stringe amicizia con l’affittuario, la figlia Adriana e l’altra donna in affitto. Presto si
accorge che non avere un passato lo costringe alle bugie: molti iniziano a fargli domande personali, alle
quali lui risponde con storie inventate.. Si innamora di Adriana e durante una seduta spiritica la bacia. La
vuole sposare ma non può, perché Adriano Meis non esiste. Sapendo di essere vivo per la morte ma
morto per la vita, decide di fingere un suicidio. Lascia un biglietto d’addio e torna al suo paese. Qui trova
la moglie risposata con Pomino, un suo amico, con una figlia. Decide di non prenderla in moglie ma di
lasciarla all’amico, fa due giri intorno al villaggio ma nessuno se ne accorge, poi si dirige verso la
biblioteca. Ogni tanto va al cimitero, dove lascia dei fiori per leggere la sua epigrafe.
Come abbiamo visto nel saggio L'umorismo, la messa in scena di situazioni oggettivamente comiche è
sempre accompagnata dall'insorgere dell'elemento riflessivo , che invita a considerare le stesse cose
sotto un altro punto di vista. Molti episodi del Fu Mattia Pascal sono esilaranti ma con la consapevolezza
che la comicità è solo un lato della medaglia , che dietro il ridicolo si cela un contenuto spesso straziante
, di miseria umana , di frustrazione. Un'avventura paradossale e esprime il suo pensiero sulla vita. La
strana vicenda del "fu" Mattia Pascal, che inscena per ben due volte la propria morte per sottrarsi alla
condizione di estraneo alla vita, viene esposta quando i fatti sono già avvenuti e Mattia affida le sue
memorie a un manoscritto. Attraverso questa retrospettiva, questo lungo flashback, il protagonista del
romanzo ripercorre le vicende relative al tentativo di sottrarsi a una condizione di vita alienante, nella
quale si era cacciato da inetto, e di costruirsi una nuova identità. Ma la vita non consente ritorni: egli
resta sospeso in una condizione di non vita, una specie di limbo, in attesa di non essere più,
definitivamente. Il romanzo, diviso in 18 capitoli, ha una struttura circolare, redatto in prima persona
sotto forma di diario. La scelta della narrazione in prima persona, fondata sulla soggettività, costituisce
un netto superamento della narrativa verista, impersonale e oggettiva, e induce il lettore a percepire
ogni evento come imprevedibile, frutto del caso. I temi principali del romanzo sono:
-La famiglia vista come nido o come prigione: mentre la famiglia in cui Mattia Pascal nasce è
rappresentata come un nido e un rifugio, minacciata dall'avidità dell'amministratore Malagna, la vita
coniugale con moglie e suocera è considerata una prigione soffocante, che lascia come unica
alternativa la fuga e l'evasione.
-L’inettitudine→Mattia Pascal confessa nella prima parte del romanzo che in gioventù era «inetto a
tutto»; egli aveva lasciato che la vita gli scivolasse addosso e non era stato capace di imporsi per
sposare la ragazza amata.
-Il doppio e la crisi d'identità→Mattia si configura come un anti-eroe, emarginato dalla vita, incapace di
capire chi sia realmente e di trovare sé stesso.
-La forma-trappola in cui la vita imprigiona gli individui: Mattia pascal assume una nuova identità
attraverso cui crede di poter vivere un'altra vita e diventare finalmente «artefice del suo nuovo destino».
Ma si tratta di un'illusione destinata al fallimento.
-La polemica contro il progresso→ nella città lombarda egli si interroga sulle conseguenze del
progresso, polemizzando contro la scienza e contro le macchine (in particolare contro il tram, da poco
introdotto in Italia).
CAPITOLO 8-9 “La costruzione della nuova identità e la sua crisi” Dopo un anno di vagabondaggio, era
arrivato un altro inverno e quasi non se ne era accorta tra gli svaghi dei viaggi e nell'ebbrezza della sua
nuova libertà. Si mise così a pensare in quale città si sarebbe convenuto di fissare dimora ma proprio
non ne aveva idea. Ma una casa sua avrebbe potuto averla? Adriano ora doveva considerare diverse
cose. Era libero, liberissimo ma lui poteva essere soltanto così, con la valigia in mano: oggi qua e domani
là. Fermo in un luogo, proprietario di una casa, eh allora: registri e tasse subito! E lo avrebbero iscritto
all'anagrafe? Sicuramente sì ma con un nome falso? E allora forse sarebbero partite indagini segrete
intorno a lui da parte della polizia... insomma, imbrogli! Questi erano i pensieri di Adriano che prevedeva
di non poter più avere una casa propria con i suoi oggetti. Nella trattoria che frequentava in quei giorni,
un signore si era dimostrato intenzionato a far amicizia con lui. I discorsi andarono bene fino a quando il
signore parlava di lui oppure di argomenti vaghi ma quando l'uomo volle che parlasse Adriano lui
rispose solo con brevi risposte per allontanarsi. Quel signore iniziò a raccontare storie inventate su
donne, facendo credere al suo nuovo amico che fossero realmente accadute, ma Adriano non ci cascò.
Adriano fece così una riflessione riguardo quell'uomo che ai suoi occhi appariva adesso ridicolo. <Perchè
dire certe menzogne?= Pensava Adriano. La ragione per cui quel signore raccontava bugie era perché
lui non aveva alcun bisogno di mentire, mentre invece Adriano era obbligato dalla necessità. Adriano
non avrebbe mai più potuto avere un amico, un vero amico con cui confidarsi e non avrebbe dunque
potuto raccontare a qualcuno di quel segreto, di quella vita senza nome e senza passato. Ora, questo
Adriano Meis che non aveva il coraggio di dir bugie, di cacciarsi in mezzo alla vita, che si appartava in
albergo, stanco di vedersi solo e che si rifugiava nei pensieri di Mattia Pascal...doveva ricominciare a
vivere!
LA LANTERNINOSOFIA Questa teoria corrisponde al rapporto tra uomo e mondo. Gli uomini rispetto alle
altre specie hanno il privilegio di “sentirsi vivere”. Essi lo usano come strumento di conoscenza del
mondo esterno, illudendosi di averne una conoscenza oggettiva. In realtà ognuno di noi ha un’idea
soggettiva del mondo esterno. Questo sentimento della vita è paragonabile a un lanternino (sapienza)
colorato, che ci portiamo appresso e che diffonde un chiarore debole che fa apparire minaccioso il buio.
Con questi lanternini noi alimentiamo i grandi lanternoni delle ideologie, che in determinati periodi della
vita cadono e ci lasciano vagare nel buio.
UNO STRAPPO NEL CIELO DI CARTA Nel brano Anselmo Paleari, proprietario della pensione romana presso
cui alloggia Adriano Meis, propone a quest’ultimo di andare ad assistere insieme alla rappresentazione
teatrale dell’Elettra di Sofocle in un teatrino di marionette. Questo diventa il punto di partenza da
Anselmo Paleari elabora un ragionamento interessante: egli si chiede che cosa succederebbe se nel
momento in cui Oreste sta vendicando la morte del padre (con l’aiuto della sorella Elettra, contro la
madre Clitemnestra e il nuovo marito Egisto) si aprisse uno strappo nel cielo di carta dello scenario,
ossia succedesse qualcosa che rivelerebbe la natura fittizia della rappresentazione. Adriano non trova
risposta, ma Paleari spiega che “Oreste rimarrebbe terribilmente sconcertato da questo buco nel cielo..
insomma diventerebbe Amleto”. Oreste è un eroe classico che nella vicenda non ha alcuna esitazione:
è sicuro di sé, di quello che deve fare mai una volta un ripensamento. Va dritto verso il suo scopo e non
esita ad assassinare la madre. Amleto, eroe moderno, come Oreste, sa che il padre è stato ucciso, ma,
preso da mille dubbi, non si decide mai a vendicarlo. Alla fine della tragedia, Amleto vendicherà il padre,
ma quasi costretto dagli eventi e non dalla sua ferrea volontà. Quindi l’uomo antico aveva delle certezze,
l’uomo moderno vive nel dubbio e nell’incertezza. Per questo qualora Oreste, sulla scena, vedesse aprirsi
un buon nel cielo perdere tutte le sue certezze che fino ad ora avevano caratterizzato la sua vita ed il suo
comportamento e diventerebbe un nuovo Amleto perché lacerato da dubbi, ed incapace di agire. La
carta che nel sipario simula il cielo sono le convenzioni,le norme e le istituzioni e qualora esso si
strappasse la recita si paralizzerebbe, come l’uomo moderno che non potrebbe vivere al di fuori della
perplessità e della convenzionale falsità che lo circonda. La vita si basa sull’illusione; la vita non è altro
che un inganno ed è sufficiente che si verifichi un incidente di poco conto, come lo “strappo del cielo”
per capire il vero senso dell’esistenza umana. Anche il teatrino è una metafora: le marionette
meccaniche recitano una parte senza rendersi conto di quello che fanno e se si scopre la vera realtà.
QUADERNI DI SERAFINO GUBBIO Pubblicato nel 1905, questo romanzo riprende la narrazione autodiegetica,
il romanzo infatti è costituito dal diario del protagonista, un operatore cinematografico. Serafino è un
uomo estraniato dalla vita, che contempla l'assurdo affannarsi degli uomini per inseguire illusioni che
essi credono realtà oggettive, ed è proprio il suo stare sempre dietro la macchina da presa, che registra
la vita, l’escamotage che gli permette di assumere questo distacco contemplativo. In questo romanzo la
tematica centrale è il problema della macchina (già affrontato da D’Annunzio in Maya), verso il quale
Pirandello prova una grande ostilità, poiché nel suo rifiuto per l'organizzazione razionale della società, la
macchina contribuisce solamente a rendere ulteriormente meccanico il vivere degli uomini. Il libro viene
scritto, infatti, in un periodo in cui il futurismo e il positivismo esaltano le macchine e la tecnologia come
fattori del progresso ed il miglioramento sociale. Pirandello, invece, ritiene la macchina colpevole di
mercificare la vita e la natura. La vicenda principale del romanzo è una tempestosa storia d’amore, con
al centro una donna fatale, l'attrice russa Varia Nestoroff, e si conclude con un finale tragico: il giovane
Aldo Nuti, innamorato geloso dell'attrice, mentre si gira una scena con una tigre, spara alla donna
anziché alla belva ed è sbranato da essa, nel frattempo Serafino continua girare meccanicamente la
manovella della macchina e resta muto per lo shock subito. L’afasia, ovvero il mutismo di cui rimane
vittima Serafino Gubbio dopo lo shock, è la metafora dell’alienazione e della riduzione dell’uomo a
semplice macchina.
UNO, NESSUNO E CENTOMILA Uno nessuno centomila, pubblicato nel 1926, è l’ultimo dei 7 romanzi di Luigi
Pirandello e rappresenta una sorta di testamento letterario dell’autore in quanto racchiude una sintesi
delle sue tematiche e della sua concezione dell’esistenza e dell’uomo. Un giorno a Vitangelo Moscarda,
il protagonista del romanzo, la moglie Dida fa osservare che il naso di lui pende verso destra e che,
come uomo, ha molti difetti. Da questa rivelazione casuale incomincia la meditazione sulla vita che
porta Vitangelo alla follia. Ciò che lo colpisce non è la rivelazione dei difetti, ma il fatto che egli per
vent’otto anni non è stato per la moglie e per gli altri, quello che lui credeva di essere e che ciascuno lo
ha visto a suo modo. Ed allora egli si mette a distruggere le forme o immagini che gli altri si sono fatti di
lui prendendo una serie di iniziative che gettano lo scompiglio nel suo ambiente, fino ad impegnare tutte
le sue ricchezze per la costruzione di un ospizio per mendicanti, dove finisce come ospite anch’egli. Egli
rifiuta le centomila forme che gli altri arbitrariamente gli attribuiscono, preferisce annullarsi come
persona, vive senza alcuna coscienza di essere, come una pianta o una pietra. Vitangelo Moscarda vede
frantumarsi in centomila aspetti la propria personalità, fino alla follia e all’autodistruzione. Il protagonista
Vitangelo è un inetto come il Pascal del Fu Mattia Pascal, però Moscarda a differenza di Pascal non si
adegua ad assistere passivamente a quella che definisce la “pupazzata” quotidiana che è la vita, ma va
alla ricerca di una soluzione che lo riscatti dalla condizione di inetto. Uno nessuno centomila ha una
conclusione positiva perché Vitangelo rifiuta la schiavitù della maschera e la trappola dell’identità,
arriva ad una soluzione utopica ma assurdamente positiva: annullare sè stessi immergendosi nella
natura, lontano dalla città, simbolo dell’alienazione e dell’artificialità: la sua condizione di profondo
malessere, legata al problema dell’identità, si conclude con una fuga dalla forma, ovvero dalla società,
per entrare nella natura vista come vita allo stato puro. Solo, povero, creduto pazzo da tutti, Vitangelo in
qualche modo ne esce vincitore: ora non è più costretto a essere qualcuno, può essere nessuno,
rifiutare ogni identità e rinnegare il suo stesso nome, abbandonarsi allo scorrere della vita vivendo senza
maschera. La narrazione, come nel Fu Mattia Pascal è retrospettiva (i fatti sono già accaduti nel
momento in cui viene narrata la storia) e condotta dal punto di vista soggettivo e parziale del
protagonista (narratore inattendibile).
NESSUN NOME Il brano riportato è il capitolo conclusivo del romanzo, ma il suo titolo - Non conclude - è
tipico della letteratura umoristica: sembra contraddire le convenzioni del genere perché indica una
prosecuzione nella vita silenziosa che sta oltre le ultime parole del narratore. Si è conclusa la storia del
protagonista, ormai uscito del tutto dalla società degli uomini; ma non si conclude la vita, che è puro
presente, puro esistere come le cose. Così, nelle ultime battute del libro, Vitangelo sembra finalmente
aver raggiunto una condizione di sereno distacco dal mondo, poiché ha slegato il proprio io da ogni
identità impostagli dall'esterno e si è del tutto annullato in quella natura che può osservare, con una
sensazione di pienezza, mentre passeggia di buon mattino per la campagna intorno all'ospizio (rr. 23-
46). Nel personaggio di Vitangelo Moscarda, Pirandello ha voluto mostrare una deliberata volontà di
auto annullamento, che attraverso esperienze ed «esperimenti» consapevoli e pianificati rinuncia un po'
per volta a tutti gli elementi che costituiscono l'uomo come individuo sociale. Mediante la negazione
sistematica delle false idee di sé, il protagonista approda all'anonimato e alla condizione di essere
realmente «nessuno». Come avviene spesso nelle opere pirandelliane, il lettore rimane incerto se si tratti
dell'ascesi verso una forma di santità e di comunione con la vita nella sua nuda essenzialità, oppure
della deriva patologica di una nevrosi schizofrenica e autodistruttiva. Indubbiamente l'immediatezza del
rapporto con la natura implica, nel caso di Moscarda, l'anonimato, la perdita dell'identità, e la
marginalità sociale. Agli occhi della gente, l'ultima apparizione pubblica di Vitangelo suscita «ilarità»: è il
tipico effetto prodotto dall' «avvertimento del contrario» perché si avverte un contrasto comico tra ciò
che è («mi videro comparire col berretto, gli zoccoli e il camiciotto turchino dell'ospizio», rr. 3-4) e ciò che
dovrebbe essere (il Vitangelo Moscarda noto a tutti, all'inizio del romanzo, come un rispettabile
banchiere). Ma il lettore, che ha ascoltato tutta la sua storia e compreso le ragioni che lo hanno
condotto fino a quel punto, non può ridere: egli sperimenta così il «sentimento del contrario», una più
profonda conoscenza dell'animo umano e delle sue più intime pulsioni.
IL TEATRO La produzione teatrale di Pirandello conta più di quaranta drammi, riordinati dallo stesso
autore nella raccolta Maschere nude. La sua innovazione teatrale fu la rottura con il teatro naturalistico
in voga a quell'epoca; esso proponeva drammi borghesi d'impianto realistico, e soprattutto la
rappresentazione di personaggi dalla personalità problematica, allo stesso tempo comici e tragici, che
lo scrittore smaschera e analizza mediante il potente strumento dell'umorismo. La sua produzione
teatrale si può dividere in tre fasi:
1) Il Teatro del Grottesco, in cui Pirandello si propone di portare all’esasperazione i caratteri del
dramma borghese (personaggi e temi appartenenti alla classe borghese, es. famiglia, onore e fedeltà),
mostrandone l'inconsistenza. Il grottesco, la forma che l’arte umoristica assume sulla scena (fusione di
comico e tragico), è abbinato alle tematiche più caratteristiche di Pirandello: contrasto vita-forma;
inconoscibilità della verità. Il teatro del grottesco, rappresenta situazioni di vita di tutti i giorni
dimostrandone la paradossalità e la contraddizione, approfondendo i temi della maschera e della
trappola. Appartengono a questa fase testi come Il Giuoco delle parti e Così è (se vi pare). Così è (se vi
pare) è una storia di un equivoco, di due verità che vengono presentate come ugualmente valide e per
lo spettatore non è possibile capire quale sia quella effettiva. La storia del signor Ponza e della signora
Frola, genero e nuora che entrano in conflitto sulla reale identità di un terzo personaggio che per il signor
Ponza è la sua seconda moglie, sposata dopo che la prima è morta mentre per la signora Frola è la sua
stessa figlia che il marito per la sua gelosia tiene in casa nascosta. Quando questa donna appare, ha il
volto velato e le chiedono chi sia e lei risponde che è quella che gli altri vogliono che lei sia. È proprio la
messa in scena del relativismo assoluto: non esistono verità assolute tutte le verità sono ugualmente
false ed ugualmente valide.
2) Il MetaTeatro, in cui sul palcoscenico teatrale viene portato in scena il meccanismo del teatro
stesso: è una strategia che consente di mostrare al pubblico gli artifici e i meccanismi teatrali. Pirandello
abolisce anche il concetto della quarta parete, cioè la parete trasparente che sta tra attori e pubblico.
Egli tende a coinvolgere il pubblico che non è più passivo. Questa fase, rappresentata dai testi Sei
personaggi in cerca d’autore (1921), Ciascuno a suo modo (1924), Questa sera si recita a soggetto
(1930), si caratterizza anche per la totale rottura delle convenzioni sceniche: viene abbattuta la
separazione fra personaggi e attori, fra scena e platea (gli attori entrano nella platea), fra attori e
pubblico (vengono coinvolti gli spettatori nella storia rappresentata). In Sei Personaggi in cerca
d’autore una compagnia sta provando il suo spettacolo quando, all’improvviso, entra un gruppo di
personaggi, che raccontano di essere stati rinnegati dal loro autore e chiedono di poter narrare la loro
storia.
3) Il Teatro del Mito l’oggetto dei drammi non è più la realtà della società borghese del tempo, ma
tutto viene inserito in un’atmosfera mitica e simbolica. Subentrano alla realtà sociale borghese
contemporanea elementi leggendari, simbolici, quindi l’immaginario si sostituisce al reale. Un esempio è
rappresentato da “I giganti della montagna”, dove il protagonista è il mago Cotrone (atmosfera
surreale non legata al contesto della società borghese del tempo). La villa del mago Cotrone è
l’ambiente in cui si svolge la vicenda. Quest’opera non fu conclusa da Pirandello, ma dal figlio Stefano.
In questa villa isolata giunge Ilse con una compagnia di attori. Essa vorrebbe rappresentare in questa
villa un’altra opera di Pirandello intitolata: “La favola del figlio cambiato”. Vuole rappresentarla lì perché
ha tentato invano di farlo dinanzi a un pubblico che però non l’ha gradita (il pubblico è diventato infatti
sordo e insensibile al mondo dell’arte), perciò chiede l’aiuto dei giganti. Essi sono tratti dal mito ma
hanno un valore simbolico, infatti simboleggiano il potere del tempo (quindi il regime fascista).Il tema
centrale è il rapporto difficile tra il teatro e il pubblico che non accetta le rappresentazioni teatrali
(questo avvenne realmente anche nella vita di Pirandello: egli con scarso successo aveva rappresentato
lo stesso testo “la favola del figlio cambiato” che l’attrice Ilse cerca invano di rappresentare dapprima
dinanzi a un pubblico ordinario e poi nella villa del mago Cotrone con l’aiuto dei giganti). È difficile
rappresentare opere teatrali sia perché il pubblico non le accetta, sia perché non c’è l’appoggio da
parte del potere politico, in questo caso i giganti (regime fascista). Tutte le difficoltà del teatro vengono
rappresentate con quest’opera dell’ultima fase di Pirandello, caratterizzata da un'atmosfera surreale e
immaginaria e un significato simbolico che riporta a una caratteristica tipica del decadentismo. Il
pubblico è indifferente e sordo alla poesia, bisogna lottare per rappresentare e per ottenere un sostegno
da parte dello stato (conflitto con la società industriale, quella della macchina, fortemente condannata
da Pirandello, e un’ostilità anche da parte del potere politico).
SEI PERSONAGGI IN CERCA D’AUTORE "Sei personaggi in cerca d'autore" è l'opera più celebre di Luigi
Pirandello e una delle più importanti nella drammaturgia del Novecento. Questo dramma teatrale
diventa uno strumento di riflessione sul rapporto tra finzione e realtà. Sin dall'inizio, il pubblico si trova in
una situazione inconsueta e straniante: il sipario è alzato, le luci sul palco sono accese, e uno alla volta
entrano gli attori di una compagnia guidata dal Capocomico. Essi devono provare una commedia di
Pirandello, "Il giuoco delle parti". Mentre attori e Capocomico iniziano le prove, dalla platea arrivano sei
misteriose figure vestite di nero, che si presentano come Personaggi, membri di una stessa famiglia: il
Padre, la Madre, la Figliastra, il Figlio, il Giovinetto e la Bambina. Questi personaggi raccontano agli attori
sconcertati di essere stati concepiti da un autore che non ha voluto dar loro compimento e trasporre il
loro dramma in forma artistica. Essi sono vivi, la loro storia è fissata per sempre, e sperano che il
Capocomico voglia rappresentare con la sua compagnia il loro dramma non scritto, la loro
«commedia da fare». Dopo molte spiegazioni e resistenze, i Personaggi convincono gli attori a
rappresentare la loro storia. Ma ne derivano scontri e incomprensioni tra i Personaggi e gli attori, perché
la storia è un «dramma doloroso» che potrebbe suscitare grave scandalo se messo in scena in forma
integrale. Il dramma racconta di un Padre e una Madre che avevano avuto un Figlio. La Madre si era
innamorata di un altro uomo, con il consenso ambiguo del Padre, e da questo amore erano nati tre figli:
la Figliastra, il Giovinetto e la Bambina. Morto l'altro uomo, la Madre cercava di sostentare i suoi figli con
lavori di sartoria, ma la sarta, Madama Pace, era una ruffiana che insidiava la Figliastra. Un giorno, il
Padre arriva come cliente nel salottino di Madama Pace e la scena incestuosa con la Figliastra è
interrotta dall'arrivo della Madre. Assillato dai sensi di colpa, il Padre accoglie tutta la famiglia in casa
sua, dove abitava solo col Figlio. La tensione tra il Figlio e i fratellastri culmina in tragedia con la morte
della Bambina, annegata nella vasca del giardino, e il suicidio del Giovinetto. I Personaggi insistono per
rappresentare integralmente le scene più traumatiche del loro dramma, ma gli attori vorrebbero
tagliare le scene più crude. Le discussioni e le polemiche sono continue, perché emerge che la «vita
autentica» non può essere rappresentata nella messinscena teatrale. La finzione cade del tutto alla
notizia che, come nella storia, la Bambina è annegata e il Giovinetto si è ucciso. I Personaggi spariscono,
lasciando gli attori allibiti, e fuori scena si sente l'amara risata della Figliastra. Scompare l'invisibile
quarta parete che separava e proteggeva il pubblico dalla vicenda che si svolge sul palco. Il teatro non
è più il luogo magico in cui si recita una commedia e prende corpo una finzione, ma è una povera realtà
quotidiana in cui si discute della «commedia da fare». E la gran macchina dell'illusione teatrale - attori,
interpretazione, trucchi, tecniche, travestimenti ecc.- mostra tutta la sua incapacità di comprendere e di
riprodurre il dramma vero della vita.
GIUSEPPE UNGARETTI Giuseppe Ungaretti nasce ad Alessandria d’Egitto nel 1888, dove la
famiglia si era trasferita dopo l’assunzione del padre in una impresa edile impegnata nella costruzione
del Canale di Suez. In Egitto frequenta le scuole elementari e medie e comincia ad appassionarsi alla
letteratura. A 24 anni si reca a Parigi per perfezionare gli studi all’Università della Sorbona, dove segue le
lezioni del filosofo Henri Bergson, le cui riflessioni sul tempo e sulla memoria influenzeranno
profondamente la sua poetica. Tornato in Italia, nel 1914, Ungaretti vede il conflitto mondiale come
un’opportunità per ritrovare le proprie origini. Così, all’entrata in guerra dell’Italia nel 1915, Ungaretti, si
arruola come volontario ed è inviato a combattere sul Carso, dove comporrà le poesie della raccolta
“Porto sepolto”. Dopo la guerra, Ungaretti pubblica la seconda raccolta di poesie e nel 1921 torna in Italia,
dove aderisce al fascismo, nel quale vede la via per una possibile concordia politica e sociale, e ottiene
un impiego al Ministero degli Esteri. Lavora intensamente dal punto di vista letterario, ma anche di
riflessione spirituale, che lo porta a convertirsi alla religione cattolica. Prima pubblica “L’ALLEGRIA” e poi
“SENTIMENTO DEL TEMPO”. Nel 1936 si trasferisce in Brasile, dove insegna all’Università di San Paolo. In
questi anni dovrà sopportare la morte del figlio di nove anni, romperà con il fascismo e ritornerà in Italia
per insegnare all’Università di Roma. Nel dopoguerra pubblica la raccolta “IL DOLORE” e la sua fama
raggiunse l’apice. Muore a Milano nel 1970.
All’origine della poesia ungarettiana c’è la ricerca di un approdo definitivo ma irraggiungibile. Il poeta è
costretto a un viaggio eterno: è un nomade alla ricerca delle proprie radici e dell'originaria terra di
beatitudine, ma sempre pronto a nuove partenze. Si crea una tensione tra desiderio di radicamento e
sentimento di estraneità. La verità, però, si rivela continuamente sfuggente, sempre oltre le certezze che
si sono raggiunte e, per questo, il poeta è in continuo movimento. Il viaggio del poeta segue una duplice
direzione:
1) ORIZZONTALE, quello del poeta girovago, cioè il viaggio verso una meta ultima che non è
tanto un luogo quando una condizione di innocenza primigenia.
2) VERTICALE, quello del poeta palombaro, cioè la discesa alla scoperta dell’essenza, del
segreto dell’essere.
I testi sono sottoposti a continue revisioni e correzioni, nella ricerca di una forma ultima e definitiva
quasi inafferrabile, espressione dell’impossibilità di afferrare la verità, alla cui ricerca si deve dedicare il
poeta nello svolgere il suo mestiere.
L’ALLEGRIA Il nucleo originario di questa raccolta è formato dalle poesie contenute in Porto Sepolto, nate
dall’esperienza in trincea durante il primo conflitto mondiale. Il dolore e la crudeltà della guerra spingono
il poeta a riflettere sulla condizione umana e a cercare il senso dell’esistenza. Tuttavia, dal sentimento di
precarietà e dalla difficoltà più estrema scaturisce un prepotente desiderio di vivere, espresso
nell’ossimoro Allegria di naufragi. I titoli sono parte integrante della poesia e ne facilitano
l’interpretazione, in particolare:
1) Il porto sepolto: indica l’inabissarsi del poeta nelle profondità del reale per riportare alla luce il
“segreto”, cioè la verità.
2) Allegria di naufragi: con questo ossimoro Ungaretti esprime la sua spinta vitale ottimistica di
fronte alla situazione più estrema. Davanti al bestialità della guerra la reazione che nasce in lui è l’amore
per la vita e la riscoperta dell’essere umano.
I temi principali comuni alla maggior parte delle poesie contenute in questa raccolta sono:
-dimensione storica: solo nella concretezza della storia la poesia può trovare il senso
dell’esistenza e comunicarlo agli uomini
-guerra come occasione per conoscere la verità della condizione umana: versi che denunciano
l’orrore e la crudeltà. Le immagini belliche si alternano a immagini di fratellanza e speranza. In mezzo alla
morte si riscopre l’attaccamento alla vita e nasce un prepotente desiderio di vivere, che a tratti diviene
pulsione erotica (Lindoro di deserto, Tramonto)
-esilio e viaggio nell’immagine del poeta girovago, che a partire dall’esperienza biografica
dell’autore (I Fiumi), diviene poi l’espressione dello sradicamento esistenziale di tutti gli uomini.
La raccolta si presenta come un diario di guerra: ogni testo è corredato di data e luogo di
composizione.
IN MEMORIA: Nella prima edizione, del 1916, questa poesia è priva di titolo, assumendo così la funzione di
fare da premessa all’intera raccolta. Le diverse strofe scandiscono i diversi momenti della tragedia
personale dell'egiziano Moammed Sceab, suo amico e compagno di stanza a Parigi. Moammed Sceab è
un esule e immigrato in un Paese straniero, a cui tenta con tutte le sue forze di adattarsi, cambiando
anche il nome e perdendo così la sua identità. Questa perdita segna profondamente la sua figura,
sospesa tra le sue tradizioni natie e il nuovo mondo in cui si trova a vivere, che non riesce a interiorizzare.
Ciò che differenzia il poeta dall'amico è la possibilità di esprime questa crisi d'identità attraverso la
poesia, come viene evidenziato nella terza strofa. La poesia è articolata in tre parti: l’io lirico dapprima
tratteggia la condizione esistenziale di Moammed a Parigi, caratterizzata dall’impotenza, dalla perdita,
dal distacco e dall’incapacità di integrarsi in un’altra cultura, successivamente ricorda il funerale
dell’amico, che si svolge in un piccolo paesaggio urbano desolato e in disfacimento. Nell’ultima strofa,
infine, il poeta rende omaggio al ricordo di Moammed e affida alla poesia la funzione di eternare e
ricordare per sempre il suo amico.
VEGLIA: Una delle liriche più celebri di Ungaretti. Descrive la notte angosciosa passata dal poeta stesso in
trincea, accanto al cadavere di un compagno rimasto ucciso. A tu per tu con l’incarnazione stessa della
morte, l’autore sente nascere in sé un inedito attaccamento alla vita. Il tema della lirica è racchiuso nel
titolo: la veglia è sia il senso interminabile del tempo trascorso accanto al cadavere dilaniato del
compagno, sia l'atteggiamento di fraterna partecipazione a quello strazio, dunque la "veglia funebre". È
una poesia scritta al fronte l'antivigilia di Natale, composta da due strofe di diversa lunghezza. Nella
prima strofa dominano immagini di crudo realismo, che costringono il lettore a scontrarsi con i temi del
disfacimento e la morte. L’immagine della luna trasmette pace e serenità, in netto contrasto con
l’immagine di morte e violenza nella scena. Ungaretti, accanto al corpo del compagno deceduto, veglia
su di lui in silenzio (il silenzio è l’unico elemento che accomuna qui i due opposti, la vita e la morte) e
riscopre la bellezza della vita. Negli ultimi versi della prima strofa si viene a creare una contrapposizione
tra la tragedia della morte e il tema dell’amore, nell’intento di ricercare un valore positivo che contrasti
l’amarezza della fine di una vita. La guerra al poeta gli consente di cogliere il senso più profondo ed il
valore dell’esistenza: nella seconda strofa il poeta proclama di non essere “mai stato tanto attaccato
alla vita”.
FRATELLI: Prende il titolo nel 1931, ma appare come “soldato” già nel 1916. Qui appare il tema della guerra
che con la sua tragicità, la presenza della morte costante e incombente, spinge gli uomini a dover
sviluppare un senso di fratellanza, che nasce al di là di ogni ragione, delicato come una foglia che sta
spuntando ma allo stesso tempo forte contro l’inumanità della guerra. Scompare l’io poetico che si
camuffa in una voce unanime e corale che parla ai fratelli, termine chiave della poesia che ritorna alla
fine come unica parola. La fratellanza è l’unica difesa contro la condizione incerta e precaria dell’uomo,
al dolore e alla violenza., pur essendo fragile perché il poeta resta sorpreso dalla nascita spontanea di
un tale sentimento in quel contesto in cui la stessa aria è sofferente (“spasimante”). È proprio da questa
sofferenza che nasce la solidarietà anche tra nemici. Lo stesso nemico in questa poesia diviene fratello,
scompare la differenza fra essere che vivono la stessa disgrazia di cui tutti prendono coscienza o
almeno sono invitati a farlo. Un po’ come nella Ginestra di Leopardi si invitano gli uomini a trovare una
solida catena che li possa unire nella sofferenza per l’esistenza che sono costrette a vivere, alla ricerca di
una felicità che pare irraggiungibile, ma che è raggiungibile proprio quando ci si avvicina all’altro, ci si
unisce trovando una pace.
SOLDATI: Composta nel 1918, quando Ungaretti era impegnato sul fronte francese nelle trincee, la poesia
propone un parallelismo tra la condizione precaria dei soldati al fronte e quella delle foglie in autunno,
entrambi pronti a cadere, cioè a morire, in qualsiasi istante.
IL PORTO SEPOLTO Questa breve poesia porta il titolo della prima e omonima raccolta di Ungaretti,
pubblicata a Udine nel 1916. Il titolo del componimento è fondamentale per comprendere il senso della
poetica ungarettiana: il porto è infatti simbolo del viaggio introspettivo del poeta alla ricerca del
mistero dell’essere umano. La prima strofa definisce la poesia come discesa nelle profondità dell'essere
e della parola e la successiva riemersione. Inoltre il movimento di dispersione della prima strofa è in
contrasto con il «mi resta» della seconda: fare poesia significa condividere, rivelare agli altri il segreto,
ma nello stesso tempo far luce in sé. L'immagine del porto nascosto nelle profondità riprende un mito
antico, quello della discesa agli Inferi. Il topos, già virgiliano e poi dantesco, era molto diffuso nella lirica
moderna. Nella poesia ungarettiana il «porto sepolto» è un'immagine densa di significati: è «segreto» da
decifrare, abisso dell'animo umano ma anche stato innocente prima del tempo, purezza, approdo
definitivo. Scendere nell'abisso significa afferrare il segreto incontaminato delle cose; e allo stesso
tempo trovare la parola primordiale, innocente. L'immersione nelle acque (sottintese dall'immagine
stessa del porto sepolto nelle profondità del mare) ha un valore simbolico di purificazione rituale: lo
scavo nell'essere alla ricerca della parola pura conduce a una rigenerazione. A questo mistero si collega
anche una specifica funzione del poeta e della poesia, cioè quella del poeta palombaro: i versi devono
riportare alla luce e poi disperdere - cioè, diffondere tra gli uomini - ciò che il poeta ha scoperto nel
fondo del porto. La poesia e l'attività del poeta sono il compimento dell'illuminazione iniziale che ha
permesso la scoperta del mistero stesso.
EUGENIO MONTALE Eugenio Montale nacque a Genova nel 1896 da una famiglia borghese. La
sua prima formazione culturale fu da autodidatta e infatti da giovane studiò musica, canto e lesse
avidamente nella biblioteca di Genova senza l’insegnamento di nessuno. Nel 1916 scrisse uno dei suoi
capolavori, Meriggiare pallido e assorto; nel 1917, a soli 21 anni, mentre infuriava la Prima guerra
mondiale, Montale fu costretto ad arruolarsi e fu spedito al fronte. Nel 1925 pubblicò la sua prima
raccolta poetica, dal titolo Ossi di seppia, che raccoglieva poesie scritte nel decennio precedente. Ossi di
seppia fu stampata da Piero Gobetti, uno dei più grandi intellettuali italiani del Novecento, ma il libro fu
accolto in maniera piuttosto fredda. Nel 1927 si trasferì a Firenze per lavorare presso una casa editrice;
era un lavoro piuttosto modesto ma gli diede l'opportunità di conoscere intellettuali come Quasimodo.
Nel 1929 divenne direttore del “Gabinetto scientifico e letterario Vieusseux”, un'istituzione di grande
importanza culturale. A Firenze conobbe la scrittrice Drusilla Tanzi – già sposata – con la quale ebbe
una relazione che durò tutta la vita. Quando Drusilla rimase vedova, i due si sposarono e rimasero
insieme fino alla morte della donna, nel 1963. Contemporaneamente a Drusilla, Montale ebbe una
relazione anche con Irma Brandeis, una studiosa americana di letteratura italiana che divenne la più
importante ispiratrice delle sue poesie. Questa relazione continuò fino al 1938 quando la donna, di
origine ebraica, fu costretta a lasciare l'Italia. Nelle sue poesie Irma fu cantata col nome di Clizia.
Montale fu un intellettuale profondamente antifascista e nel 1925 firmò coraggiosamente il “Manifesto
degli intellettuali antifascisti”, promosso dal filosofo Benedetto Croce. Nel 1938 Montale pagò questo suo
impegno antifascista con il licenziamento dal Gabinetto Vieusseux. Durante la Seconda guerra
mondiale, nonostante Montale attraversasse un periodo di gravi difficoltà economiche e si procurava da
vivere con le traduzioni di testi stranieri, rischiò più volte la vita, nascondendo in casa sua intellettuali
ebrei, come Saba, e partigiani comunisti, come Bruno Sanguinetti i quali, senza di lui, sarebbero stati
deportati nei campi di sterminio. In questi anni Montale pubblicò opere di grande valore poetico, come
Le Occasioni. Dopo la guerra si trasferì a Milano dove lavorò per il “Corriere della sera” e divenne uno
degli intellettuali di punta della repubblica italiana. Qui conobbe una poetessa con la quale ebbe una
relazione d'amore che ispirò la raccolta Bufera e altro, pubblicata nel 1956. Nel 1967 fu nominato
senatore a vita e nel 1971 pubblicò la sua ultima raccolta poetica dal titolo Satura. Nel 1975 ricevette il
premio Nobel per la letteratura. Morì sempre a Milano nel 1981 all’età di 85 anni.
POETICA Al centro della produzione di Montale è la precaria e fragile condizione umana, schiacciata dal
disagio esistenziale e dal «male di vivere». Alla base di questo sentimento c'è, innanzitutto, un senso
personale d'esclusione, una costante percezione di estraneità all'ambiente circostante, ma c'è,
soprattutto, un disagio storico e culturale, che è quello dell'uomo e dell' intellettuale novecentesco,
disorientato dalla perdita di ogni certezza, privato di ruolo e scopo. Montale, tuttavia, per tutta la vita
cerca di compensare questo disagio attraverso la costante ricerca di risposte, nella speranza di trovare
una via di salvezza. La sua poesia è , dunque, uno «sguardo che fruga d'intorno», che «indaga”, nella
speranza di scoprire una verità che vada oltre i limiti della realtà conoscibile, fosse anche una verità
negativa. La poesia assume, quindi, per Montale, una duplice funzione:: storica e metafisica. Sul piano
storico, la poesia assume un valore etico, in quanto invita alla consapevolezza e alla conoscenza in
opposizione all'indifferenza e alla brutalità degli uomini (Montale assiste ad alcune delle più grandi
tragedie del Novecento: il fascismo, la Seconda guerra mondiale). Sul piano metafisico, invece, la poesia,
per Montale, mira a svelare la realtà più autentica della condizione umana (che è spesso una condizione
dolorosa e arida, nei componimenti simboleggiata dal paesaggio ligure) per trovare il segreto
dell'esistenza e individuare un varco che conduca alla salvezza (e saranno sempre figure femminili,
come Clizia, la Mosca, la Volpe, a essere investite di questa funzione salvifica). Caratteristica essenziale
del suo stile è che egli non esplicita i propri sentimenti, ma li esprime mediante oggetti concreti, luoghi o
figure che vengono caricati di un valore simbolico. Prende, così, forma la poetica del correlativo
oggettivo, ispirata dal poeta Thomas Stearns Eliot.
OSSI DI SEPPIA Ossi di seppia si presenta subito come un'opera anomala. Infatti, più che una raccolta di
poesie, appare come una biografia in versi: i componimenti, raccolti in sezioni, ricostruiscono il percorso
intellettuale e psicologico di un antieroe, segnato da un «senso d'inadattamento», ovvero dalla
percezione dolorosa di vivere separato, disgregato, espulso, in totale disarmonia con la realtà
circostante. Da qui il senso del titolo: gli "ossi" di seppia sono infatti i residui della parte calcarea di quei
molluschi, che il mare restituisce alla riva, prosciugati di vita, dopo le mareggiate. Si tratta, quindi, di un
oggetto dell'esperienza quotidiana, che richiama un paesaggio marino ed evoca un malessere senza
rimedio. L'intera raccolta è costruita sulla costante oscillazione di sentimenti antitetici di un io che, da
una parte, percepisce il «male di vivere» e la sensazione di non essere in armonia con una realtà
circostante che appare vuota, limitata, soffocante. Dall'altra, però, l'io rimane alla costante ricerca di una
speranza, della manifestazione di un «miracolo», rivelazione di una verità che vada oltre l'insensatezza
dell'apparenza. E’ dunque un percorso di ricerca amaro e doloroso, di chi è mosso dalla convinzione che
la vita abbia un senso che razionalmente ci sfugge, ma ritorna alla realtà quotidiana priva di quella
rivelazione esistenziale pur tanto sperata, cercata e forse intravista. Fa da sfondo ai componimenti
un'ambientazione costante che è il paesaggio ligure, aspro e brullo, inondato di luce, ostile e magnetico
insieme. Proprio in virtù della sua ambivalenza, questo scenario viene connotato come emblema della
condizione esistenziale e di questa continua oscillazione di sentimenti. Se da un lato, con la sua aridità e
secchezza, esprime la desolazione e il sentimento doloroso dell'esistenza, dall'altro rispecchia
l'atteggiamento «scabro ed essenziale» dell'individuo che resiste, che oppone alla propria condizione
dolorosa una forma di indifferenza, di sofferto distacco . L'immobilità e l'immutabilità del mare e del
paesaggio nelle ore assolate del «meriggio», lontani dal frastuono e dalla confusione delle città,
sembrano invece essere l'unico luogo che può custodire il mistero e divengono perciò emblema di
quella salvezza continuamente cercata. Il secondo componimento della raccolta è la poesia I Limoni, in
cui Montale polemizza con i «poeti laureati», e a loro oppone la sua poetica personale , che è fatta di
oggetti concreti, poveri, scabri e dimessi e che non è più in grado di proporre messaggi positivi, né
certezze di alcun tipo. La raccolta è dunque attraversata da un'ininterrotta riflessione sulla poesia e sul
ruolo che a essa è ormai riservato. Il libro può essere letto come una vera e propria replica ad Alcyone,
da cui Montale si distanzia. Come Alcyone, Ossi di seppia è concepito come un racconto in progressione
ed è dominato da atmosfere marine: il paesaggio però non è quello tirrenico, rigoglioso e vivo, ma porta
i segni di una scabrezza, sobrietà e corrosione assai distanti dall'estetismo e dal vitalismo panico di
D'Annunzio.
I LIMONI I limoni è, prima di tutto, una dichiarazione di poetica, che Montale rivolge con tono confidenziale
al lettore («Ascoltami», v. 1). Nella prima strofa il poeta contrappone il paesaggio dimesso della Liguria a
quello artificiale dei «poeti laureati». In questo modo, oppone la propria poesia a quella aulica (il
riferimento, in particolare, è a D'Annunzio, di cui riprende al v. 1 l' «Ascolta» d'apertura della Pioggia nel
pineto): se la seconda amava celebrare la natura con nomi di piante poco conosciute, egli preferisce,
piuttosto, cantare un paesaggio umile. Questo paesaggio non ha valore in quanto tale, ma la calma
dell'estate, l'azzurro del cielo e il profumo dei limoni creano un'atmosfera di sospensione e sembrano
preannunciare un evento miracoloso. E proprio in queste circostanze, infatti, che un elemento imprevisto
può sovvertire il flusso normale degli eventi: la scoperta di un errore nel corso naturale delle cose
(«sbaglio di Natura», v. 26) o di un punto in cui le leggi consuete non valgono più (il «punto morto del
mondo», «l'anello che non tiene», v.27), il riconoscimento del filo che, sbrogliato, conduce alla verità.
Tuttavia, a partire dal v. 34, le certezze si incrinano e il poeta realizza l'inganno: non c'è nessuna verità da
svelare, gli uomini s'illudono e scambiano per divinità ombre umane. Infine il paesaggio di campagna si
contrappone alla città, oppressa dalla pioggia, simbolo del disincanto ormai raggiunto. Eppure si
percepisce l'oscillazione (lasciata volutamente in sospeso) tra la caduta di ogni illusione e la proiezione
verso una possibile nuova epifania, di cui l'apparizione del giallo dei limoni in un cortile è segno
inequivocabile. La pianta di limoni che ci immette «nel mezzo di una verità» incarna quell'idea di varco e
di miracolo laico che Montale richiama tante volte negli Ossi. L'intera poesia è dunque giocata
sull'oscillazione tra la rivelazione di un segreto e il suo occultamento, in un gioco irrisolto tra illusione e
disincanto.Altro tema è l’oscillazione tra la ricerca di utilità per la poesia e la consapevolezza che ogni
ruolo al poeta è negato. Infatti, un altro tema centrale dell'intera raccolta, quello della riflessione sulla
funzione della poesia. II passaggio dall'io poetico («lo, per me») al noi («qui tocca anche a noi», v.20; «la
nostra parte di ricchezza», v. 20) eleva la riflessione montaliana oltre i confini del singolo: può essere
proprio la poesia il mezzo per cercare il segreto ultimo, e se, come all'uomo, alla poesia non è concessa
alcuna verità assoluta e le sono sottratti i grandi temi storici, civili e politici, le è comunque assegnata
una funzione privilegiata, che può aprire degli squarci improvvisi, come l'apparizione casuale e inattesa
dell'albero di limoni tiene aperta la strada della ricerca dell'«ultimo segreto» (v. 24) delle cose.
MERIGGIARE PALLIDO E ASSORTO Meriggiare pallido e assorto è una delle prime poesie di Montale, scritta
nel 1916 e contenuta nella raccolta Ossi di Seppia. Il paesaggio di cui parla è quello della Liguria estiva,
arsa dal sole, bruciata, arida. In questo paesaggio, gli unici suoni che si sentono sono il canto delle cicale
e le serpi che strisciano. L’ambientazione della poesia rappresenta la desolazione dell’esistenza umana
e i versi costituiscono un continuo rimando alla solitudine della condizione umana: muri e confini
invalicabili non hanno altro effetto che isolare ciascun individuo. Il tema del male di vivere, dominante in
Ossi di seppia e centrale in Meriggiare pallido e assorto, rappresenta un rovesciamento dell'Alcyone
dannunziano: il rapporto con la natura non è di fusione panica e celebrazione, ma è fatto di distanze,
incomunicabilità e rifiuto. Il poeta, di fronte al meriggio non prova alcuna serenità, ma prova solo
inquietudine. La sua condizione (e quella di ogni essere umano) è una condizione di prigionia, solitudine
e abbandono, di cui è impossibile liberarsi: il mare è lontano e irraggiungibile, la terra circoscritta da un
muro invalicabile. L’uomo è simile alle formiche rosse che osserva: costretto a vagare, in fila,
disperdendosi, senza avere effettivamente una meta, in un paesaggio ostile e con cui è impossibile
comunicare, che non può fornire alcuna risposta sul senso ultimo della propria vita. La musicalità aspra
che ne deriva (e che presenta echi dell’Inferno dantesco canto XIII) richiama il tema trattato. La
descrizione dell'ambiente durante l'assolato pomeriggio è circoscritta entro limiti molto angusti e a essa
si contrappone solo il «palpitare / lontano di scaglie di mare», ma è una visione distante e l'orizzonte
resta così limitato. Potente si fa qui dell'Infinito di Leopardi, evocato sì, ma per opposizione: se l'ostacolo
posto dalla siepe scatenava la forza dell'immaginazione, qui il muro impedisce la vista, costringendo l'io
a una retrazione. Significativo è, perciò, che l'immagine del muro chiuda, come ha aperto, il
componimento. La «muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia» esprime un senso di
impedimento definitivo: il muro si può solo costeggiare («seguitare», v. 16) e mai oltrepassare. La
prospettiva dell'uomo resta così obbligata al mondo dei particolari in cui rimane intrappolato: non gli è
permesso andare al di là del muro, non gli è consentito, cioè, di accedere alla comprensione di significati
più generali, che diano un senso alle singole esperienze vissute. L'azione sofferta di «seguitare una
muraglia», in un meriggio arso e desolato, diviene così emblema dell'insensatezza della vita e del suo
«travaglio». Non c'è dunque qui, come era invece nei Limoni, alcuno spiraglio aperto alla speranza.
SPESSO IL MALE DI VIVERE HO INCONTRATO La lirica apre con l'affermazione: spesso, nel corso della sua
vita, il poeta ha «incontrato» il «male di vivere». Questo malessere esistenziale, così tante volte
(«Spesso», V. 1) patito, è definito da tre immagini: è un ruscello, il cui corso è bloccato da un ostacolo, è
una foglia secca, è un cavallo stremato. Espressa la condizione di malessere, si cerca poi una forma di
conforto, un «Bene» (v. 5) da poter opporre al «male»; l'unico antidoto possibile è, però, l'indifferenza,
una forma di distaccata noncuranza che, di nuovo, non è descritta, ma rappresentata da altre tre
immagini (la statua immobile nell'ora meridiana, una nuvola, un falco in alto nel cielo). Montale evoca
immagini e oggetti concreti per definire stati d'animo o concetti astratti. Nel componimento si affronta
uno dei temi portanti della raccolta e, più in generale, della poetica di Montale: quello del «male di
vivere», inteso come malessere esistenziale assoluto. Ma, almeno in questa prima fase della sua
produzione, Montale va ancora alla ricerca di consolazioni, che attenuino la condizione di sofferenza.
Esse possono essere soluzioni in positivo (la speranza di un miracolo) o in negativo, come qui, dove
l'unica forma di difesa che l'uomo ha è mantenere un atteggiamento di impassibilità.
NON CHIEDERCI LA PAROLA Montale esorta il lettore a non attribuire al poeta la capacità di fornire letture
rivelatrici sulla natura umana («Non chiederci la parola che squadri da ogni lato / l'animo nostro
informe», vv. 1-2) o messaggi risolutivi a nuovi mondi («Non domandarci la formula che mondi possa
aprirti», v. 9). Montale non ha alcuna certezza da dare, e la definizione propria e dei poeti a nome dei
quali sembra parlare - come se ne sentisse la responsabilità - può essere data solo "in negativo":
«Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».La struttura del
componimento veicola questa idea: alla prima e all'ultima strofa, contrassegnate dallo stesso incipit per
negazione, è affidata l'argomentazione del discorso. La quartina centrale, invece, introduce una pausa di
carattere riflessivo: il poeta prende le distanze non solo dal poeta vate, ma anche dall'uomo medio, colui
che procede sicuro di sé, in pace con sé stesso e con il mondo, senza vedere le ombre che lascia dietro
di sé, né il contesto «scalcinato» che lo circonda. A proprio nome, ma anche a nome degli altri scrittori
del suo tempo, Montale si rivolge direttamente al lettore: i poeti moderni sono immersi in un mondo
complesso che non riescono più a cogliere nella sua interezza e sentono il loro animo disorientato e
«informe» (v. 2); possono, perciò, solo offrire al lettore «qualche storta sillaba e secca come un ramo»
(v.10). L'unica conoscenza che hanno da trasmettere è dire ciò che non sono e ciò che non vogliono.
LE OCCASIONI La raccolta “Le occasioni” comprende le poesie composte a partire dal 1928. Rispetto agli
Ossi di seppia, dove prevale un unico paesaggio, quello ligure, nelle Occasioni l'ambientazione è
frammentaria e prevalentemente urbana. Non solo lo spazio delle Occasioni è frammentario, lo è
anche il tempo, che è discontinuo: a questo allude lo stesso titolo della raccolta, dove "occasioni" sono le
circostanze molteplici e casuali da cui nasce la poesia, definite dal poeta stesso «occasioni-spinta»; il
tempo nella raccolta non scorre dunque in maniera lineare, composto com'è da singole occasioni che
riportano la memoria a vivere precisi istanti di vita. Nelle Occasioni gli oggetti diventano il corrispettivo di
emozioni o stati d'animo ->poetica del "correlativo oggettivo". Quello che invece il libro prospetta è uno
scenario di degrado umano e civile in una società dominata dai totalitarismi. Sotteso ai testi è dunque
il senso di esclusione dell'intellettuale rispetto al regime: è come se Montale si rinchiudesse nella
roccaforte della letteratura e proponesse la cultura e la ragione come antidoti alla barbarie irrazionale.
L'unica forma di salvezza sembra essere la cultura, di cui è emblema il personaggio di Clizia, che
rimanda alla figura di Beatrice. Lo pseudonimo Clizia rimanda alla vicenda della ninfa amata dal dio
greco Apollo (che è dio del Sole e anche della poesia), narrata nelle Metamorfosi di Ovidio: Clizia, a
causa dell'abbandono da parte del dio, si trasforma in girasole, in modo da essere sempre rivolta verso
di lui. In Montale il nome di Clizia contiene perciò un'allusione al girasole e alla solarità. La memoria ha
una duplice funzione: sul piano privato preserva il vissuto personale ed è fondamentale per la
costruzione dell'identità, su quello pubblico è garante di quei valori essenziali che si perpetuano nel
tempo. Certo i ricordi affiorano in modo frammentario e non consentono di ricostruire un'immagine
lineare e organica del passato, né di stabilire una continuità con il presente.
NON RECIDERE FORBICE In questa lirica, risalente al novembre 1937, Montale riflette sul tema della
memoria, legandolo all'assenza della donna amata. Scandendo la riflessione in due momenti, il poeta
dapprima esprime il desiderio di ricordare il volto di Clizia, l'unica immagine a spiccare da un passato
che tende a confondersi nella nebbia fitta della dimenticanza; poi concretizza il tragico svanire della
memoria nell'immagine autunnale dell'albero che, potato da un freddo «colpo» d'accetta, lascia cadere
un «guscio di cicala» - ultima reliquia dell'estate, la bella stagione (meteorologica, ma anche
esistenziale) ormai irrimediabilmente trascorsa. Quindi, secondo Montale, pensare di essere felici
ancorandosi ai ricordi è un processo illusorio.
LA CASA DEL DOGANIERE Tornato dopo molti anni nella casa dei doganieri dov'era stato con la ragazza
amata, il poeta osserva questo edificio carico di ricordi: esso ora appare abbandonato e quindi privato
della presenza di lei. Questo senso di vuoto genera una meditazione sullo scorrere del tempo: l'io lirico
non riesce a trattenere i ricordi e li conserva solo a pezzi. Nell'ultima strofa, però, si apre a una timida
speranza: il poeta intravede proprio nella casa dei doganieri un possibile varco all'orizzonte, là dove
appare la luce, seppur tenue, di una petroliera. «Il varco è qui?» si domanda il poeta: la speranza che si
cela dietro questa domanda è se possa essere proprio questo il luogo in cui aspettare il miracolo tanto
atteso . Ma l'io lirico subito dopo vacilla perché si rende conto che non c’è nessun varco e l'uomo è
impotente. Negli ultimi due versi torna il tema dello scolorire della memoria e della distanza tra il poeta e
la donna amata: l'io afferma di non sapere chi dei due sia rimasto davvero se la donna morta, e dunque
assente, o il poeta, rimasto e quindi privo d'identità. Diversi sono i correlativi oggettivi che esprimono il
disorientamento conseguente allo scorrere del tempo e alla perdita della memoria: la bussola che gira
impazzita e non risponde più alla sua funzione di dare la direzione e i dadi, che non facendo più tornare
i conti , rappresentano la sfiducia in un futuro che si annuncia dominato dal caso. Tema centrale del
componimento è quello del confine: il primo è, innanzitutto, la casa dei doganieri, emblema del limite. La
casa segna infatti un confine tra il permanere (della casa) e il fluire (del tempo che la corrode), tra il
restare e lo scorrere. La casa, insieme alle memorie che evoca, si allontana e il poeta tiene solo «un
capo» del proprio passato, mentre l'altra estremità si riavvolge nella matassa di ciò che resta confuso o
indistinto. Vi è poi un altro confine dal forte significato allegorico: «l'orizzonte in fuga» che rimanda
all'idea di confine tra la rivelazione del senso, illuminato dalla luce della petroliera, e il buio. Il poeta si
chiede se il varco che permetta intravedere una verità, di cogliere anche solo per un attimo il senso che
sta dietro alla realtà delle cose, stia sulla linea dell'orizzonte. L'apparizione del senso è tuttavia istantanea
e fuggevole, avviene attraverso un bagliore, un' accensione improvvisa e passeggera. Montale si rivolge
ad Arletta (o Annetta) con un'amara constatazione: «Tu non ricordi», che viene ripetuta altre due volte
nel testo, nella seconda e nell'ultima strofa (vv. 10 e 21). Attraverso la ripetizione di questa locuzione, il
poeta pone al centro la donna, ma ne sottolinea anche la distanza, poiché Arletta, essendo morta, non
può condividere con lui i ricordi legati alla casa e al loro passato. nel “qui” dell'oscurità della casa (v. 16)
non si sentono più i respiri di Arletta; né la donna, assente sia fisicamente che mentalmente, può
partecipare al momento di solitudine che egli ora sta vivendo nella casa.
LA BUFERA E ALTRO Nel 1956 Montale è a Milano e pubblica la sua terza raccolta di poesie, La bufera e
altro. Gli anni tra il 1940 e il 1954 sono anni cruciali, densi di avvenimenti significativi sul piano storico e su
quello personale: l'orrore della guerra e il disorientamento del dopoguerra, l'adesione al Partito d'Azione
e il trasferimento a Milano per la nuova collaborazione con il «Corriere della Sera» 'intrecciano con la
morte della madre, con il distacco definitivo da Clizia e la malattia della «Mosca», sua futura moglie, e
con la conoscenza della giovane poetessa Maria Luisa Spaziani, chiamata nelle poesie la «Volpe». La
bufera e altro costituisce una sintesi dei primi due libri di Montale: l'aridità e la negatività dell'esistenza,
limitate alla sfera del singolo negli Ossi, divengono nella Bufera una condizione universale di sofferenza,
di cui guerra e distruzione sono l'allegoria; su tutta la raccolta domina perciò un'atmosfera apocalittica
e un'ambigua simbologia religiosa: Montale continua a essere alla ricerca di una forma di salvezza, ma
ormai, gli ideali di cultura e civiltà prospettati nelle Occasioni non possono più bastare. Il contesto,
d'altronde, è irrimediabilmente cambiato: l'ideale di una cultura umanistica coltivata nella Firenze degli
anni Trenta ha perso ormai ogni valore agli occhi del poeta drammaticamente travolto dalla "bufera"
della seconda guerra mondiale. Su uno sfondo storico segnato dal «rombo della guerra», Montale
recupera il motivo petrarchesco dell'amore sublimato e riprende la figura salvifica di Clizia, connotata
ora come donna-angelo: di fronte a un presente assurdo e disumano come quello della guerra, Clizia,
attraverso una serie di metafore, viene indicata ora come unica apportatrice di speranza e di salvezza.
Per essere un segno di speranza e di salvezza non basta più un ideale di cultura, occorre che la donna si
distacchi dalla terra e, come Cristo, soffra per tutti, si sacrifichi, si incontri con la morte. Così si consuma il
sacrificio di Clizia nella Primavera hitleriana. Alla scomparsa di Clizia corrisponde la comparsa di una
nuova musa ispiratrice, anche lei trasfigurata in animale: si tratta di Maria Luisa Spaziani nominata con
l'appellativo di «Volpe». Questa figura femminile, a cui è dedicata la è la nuova figura salvifica di
Montale. L'immagine che affiora è quella di una donna sensuale e dai tratti istintivi. Se Clizia è associata
al sole e alla luce, la «Volpe» nutre una predilezione per l'ombra. La sua presenza è spesso accomunata
al calore del fuoco. Nella Bufera, dunque, convivono temi e motivi contrastanti e apparentemente
distanti come l'amore sublimato, i mali della storia in una visione del mondo problematica che non
fornisce mai una soluzione univoca. In realtà, nella Bufera, il fascismo, la guerra, i dibattiti ideologici del
dopoguerra rappresentano per Montale delle parentesi tragiche ma passeggere. Tutto ciò che è storico,
dunque transitorio. L'attenzione di Montale è insomma focalizzata sulla condizione umana più che sugli
eventi storici.
PRIMAVERA HITLERIANA La prima scena è aperta da un turbine di falene e racconta dell’arrivo di Hitler a
firenze, accolto da Mussolini e dai soldati e festeggiato dai negozianti, che vogliono rendergli onore. La
primavera hitleriana è un ossimoro, non una primavera che porta vita, ma una primavera che porta
morte. Le falene che turbinano lungo le sponde dell'Arno, cadono a terra morte, arriva in città un freddo
notturno, ancora invernale, anche se l'estate è vicina. La città è in festa per l'arrivo di Hitler, tutti
partecipano, nessuno si accorge che è una festa di morte e nessuno è senza colpa. Nella seconda strofa
Montale denuncia la responsabilità morale di tutti, anche dell’uomo comune, di fronte alla tragedia.
Nessuno può dimostrarsi innocente e, soprattutto, nessuno può dire di non sapere. La prima parte terza
della strofa introduce un ricordo ed è una parte malinconica: racconta dell’addio e delle promesse
d’amore fatte tra Clizia e Montale la sera in cui Irma parte, la sera di San Giovanni, patrono di Firenze. In
quella occasione una stella cadente aveva attraversato il cielo, segno di una speranza per il futuro. Ma
tutto questo è stato distrutto da ciò che è accaduto. L'ultima esclamazione "Oh la piagata primavera è
pur festa se raggela in morte questa morte!" esprime una nuova speranza, perché la fredda primavera
può uccidere la morte che il "messo infernale" porta con sé. Clizia, custode fedele dell'amore, può
resistere e salvare tutti; e l'antica donna angelo, portatrice di salvezza, che rinasce. Forse il suono delle
sirene che salutavano i mostri di quella orrenda sera era già il suono vittorioso che annunciava l'alba di
un giorno pieno di vita per tutti. Clizia può svolgere una funzione salvifica per l’intera umanità, in quanto
simbolo di poesia e civiltà. Nella Primavera hitleriana il poeta prende atto che la cultura, l'antifascismo
elitario, la religione degli affetti e delle memorie, di fronte alla presenza di Hitler a Firenze, non bastano:
tutto viene travolto e ogni distinzione crolla e si confonde nella generale colpevolezza. Il «messo
infernale» che arriva nel mondo dei «miti carnefici che ancora ignorano il sangue» non solo minaccia,
ma danneggia tutti. Nel verso che dà avvio alla seconda parte del componimento Montale si chiede se
la tragica congiuntura storica possa spazzare via tutto quanto di positivo è stato fatto e vissuto «Tutto
per nulla, dunque?»; il dubbio che tutto possa essere cancellato non è tanto legato alla violenza che
incombe, ma al veleno di questo male che, come una pestilenza, intacca tutti. Nel delineare questo
scenario infernale il poeta introduce tuttavia, tra parentesi, la promessa di un riscatto futuro,
preannunciato dalla stella cadente vista nel momento dell'addio a Clizia e lo proietta, ancora una volta,
nella figura salvifica di Clizia. La donna diviene emblema di un riscatto universale, poiché non porta solo
la salvezza a coloro che sono simili a lei o a lei possono unirsi, ma sacrifica la propria esistenza «per
tutti», per il bene dell'umanità.
HO SCESO DANDOTI IL BRACCIO Ho sceso dandoti il braccio appartiene alla raccolta Satura. La poesia è
dedicata alla moglie, Drusilla Tanzi, compagna di una vita del poeta e soprannominata “Mosca”, a
causa della forte miopia e della conseguente necessità di occhiali molto spessi. Montale ricorda la sua
vita coniugale, allegoricamente simbolizzata dalla discesa delle scale e dal viaggio dell'esistenza, che,
sebbene sia stato lungo, al poeta appare breve, impressione colta dall’ossimoro al verso 3. Il poeta
avverte con drammaticità l’assenza della moglie nella sua vita: “non ci sei è il vuoto ad ogni gradino” (v.
2). Le piccole azioni quotidiane, “le coincidenze, le prenotazioni, | le trappole, gli scorni” (vv. 5-6)
sembrano ormai del tutto inutili, perché fanno parte di un realtà superficiale; quella più profonda non
tutti riescono a coglierla. Proprio la moglie di Montale riusciva ad accorgersi di questa profondità,
paradossalmente proprio grazie alla sua quasi totale cecità: “sapevo che di noi due | le sole vere
pupille, sebbene tanto offuscate, | erano le tue”. Da qui si evidenzia il ruolo di Drusilla Tanzi e il rilievo che
la sua assenza ha nella vita del poeta. Montale mette in luce l’aiuto reciproco che si portavano: la donna
(solo apparentemente debole e bisognosa di sostegno) mostrandogli la profondità della realtà, il poeta
sostenendola e aiutandola a scendere le scale.
ERMETISMO L'Ermetismo è una fra le correnti letterarie più importanti nel panorama letterario
italiano negli anni 30-40 del 900. Il termine ermetismo ha una specifica etimologia: deriva da Ermete (o
Mercurio), dio delle scienze occulte e misteriose, ed è stato usato per la prima volta, in senso
dispregiativo, dal critico Francesco Flora, che in uno scritto del 1936 intitolato La poesia ermetica ha
definito la nuova poesia del '900 appunto come "ermetica", ovvero come chiusa, oscura, misteriosa e di
difficile interpretazione e codificazione. Soprattutto nella società moderna, il poeta è sempre stato visto
come un individuo solitario, distaccato dalla realtà, simbolo di una certa emarginazione e di un certo
rifiuto o disprezzo nei confronti di un pubblico vasto. Questo è quanto accade alla poesia del primo
Novecento, in un periodo storico difficile e tormentato dalle esperienze negative delle guerre mondiali e
del fascismo. Il loro distacco dal regime si espresse rifiutandosi di unirsi al coro di chi inneggiava al
fascismo, affermando di voler comporre una poesia "pura", libera da qualsiasi legame con l'esterno,
autonoma, ricercando l'isolamento in un'arte raffinata, ma principalmente basata sull'incomunicabilità e
la solitudine. Per questo atteggiamento, si è detto che i poeti ermetici si erano rinchiusi in una torre
d'avorio, una critica questa al loro isolamento e al non fare mai riferimento alla realtà e alla società che
li circondava. È vero, infatti, che il loro apparente disimpegno era una forma di opposizione al regime
fascista, ma isolandosi nell'arte della parola, secondo i critici, essi "si salvano l'anima dalla
contaminazione dell'epoca fascista", e non fanno nulla per combattere il regime, non si espongono.
SALVATORE QUASIMODO Salvatore Quasimodo nasce a Modica (Ragusa) nel 1901. Durante l’infanzia
vaga da un paese all’altro della Sicilia orientale, perché il padre fa il capostazione. Nel 1908, il catastrofico
terremoto di Messina, cambia la vita del futuro poeta: il padre è incaricato di riorganizzare la stazione. In
questa città Quasimodo si diploma all’Istituto Tecnico e intanto pubblica poesie su alcune riviste
simboliste locali. Nel 1919 è a Roma, per studiare ingegneria. Frequenta anche corsi di Latino e Greco.
Lavora come disegnatore tecnico, magazziniere, geometra. Nel 1926, per lavoro, è a Reggio Calabria. Le
aspirazioni letterarie si facevano più urgenti ma, al tempo stesso, la costrizione del lavoro lo allontanava
dai suoi obiettivi. Una volta a Reggio, però, ritrova fiducia grazie a Salvatore Pugliatti, che lo spinge a
riprendere i versi scritti durante il periodo romano, e a lavorarci sopra. Nasceva in questo modo il primo
nucleo delle poesie di Acqua e terre. Nel 1029 lo scrittore Elio Vittorini, da poco suo cognato, lo invita a
Firenze; è l’occasione per farsi conoscere e sulla rivista «Solaria», il poeta siciliano pubblica Acque e terre
(Firenze, 1930). Nel 1931 va ad Imperia per lavorare al Genio Civile, e poi a Genova dove conosce Camillo
Sbarbaro. Quasimodo si dedica alla stesura di una seconda raccolta: Oboe sommerso (Firenze, 1932) con
cui il poeta dichiara di aver dato inizio all’Ermetismo in senso proprio. Nel 1934 si trasferisce a Milano: qui
lavora nel settore editoriale come segretario di Cesare Zavattini. Scrive Erato e Apollion, (Milano, 1936) con
la prefazione di Sergio Solmi: si conclude la fase ermetica della sua poesia: è una celebrazione di Apollo,
dio del sole e protettore delle Muse, e di Ulisse, l’esule per eccellenza. Nel 1938 la prima raccolta antologica
con prefazione di Oreste Macrì, uno dei critici più autorevoli della sua poesia. La Seconda Guerra Mondiale
è uno spartiacque. Quasimodo prosegue nella traduzione degli antichi (il Vangelo di Giovanni, l’Edipo Re,
Catullo…, ma anche poeti moderni). La raccolta Giorno dopo giorno (1947) segna un netto cambiamento
stilistico: la poesia si fa più impegnata, attenta alla società. Quasimodo, quasi a sorpresa, imponendosi su
poeti ritenuti più illustri, riceve nel 1959 il premio Nobel, «per la sua poetica lirica, che con ardente
classicità esprime le tragiche esperienze della vita dei nostri tempi». L’ultima raccolta è Dare e avere
(1966). Due anni dopo, nel 1968, fu colto da un malore mentre si trovava ad Amalfi e morì sull’auto che lo
portava d’urgenza a Napoli. Dopo la pubblicazione della raccolta Giorno dopo giorno, un’opera che è il
frutto proprio di quel passaggio attraverso la guerra si parlerà sempre di un primo Quasimodo ermetico e
di un secondo Quasimodo, appassionato ai temi civili e sinceramente impegnato a rinnovare l’uomo. In
verità, secondo molti critici questa seconda parte non rinnega la prima, ma semplicemente la completa:
l’obiettivo di fondo era per Quasimodo la comprensione dell’umano in ogni suo aspetto perché la poesia
«non valida per se stessa» ma per la sua «segreta missione di rinnovare l’uomo».
ALLE FRONDE DEI SALICI È una delle poesie più celebri di Quasimodo, che evoca qui l'esperienza della
Seconda guerra mondiale, talmente tragica da segnare per l'autore una svolta nella sua concezione
della letteratura, oltre che nella sua scrittura poetica. La lirica è formata da due parti. La prima (vv. 1-7) è
costituita da una lunga interrogativa retorica, in cui il poeta si domanda come sia possibile comporre
ancora versi, davanti a uno scenario storico così terribilmente disumanizzato; la seconda (v. 8-10)
fornisce la risposta, che in realtà era già contenuta nei versi precedenti: no, di fronte a tanto dolore anche
il poeta non può che restare ammutolito. Lo scenario che si mostra al posto a quello di un'umanità
devastata e soffocata (dal “piede straniero” che la opprime), sconvolta dagli orrori della guerra. Le
immagini che si susseguono sono laceranti: cadaveri abbandonati, bambini sofferenti e soli, madri che
hanno perso i figli, uccisi in modo atroce. A provocare tanto dolore, però, è stato l'uomo stesso: qui, in
particolare. re, la prospettiva è quella degli italiani che, dopo la caduta del Regime, vissero l'occupazione
tedesca (v. 2). Di fronte a questa catastrofe la poesia non può che rimanere in silenzio: lo strazio e il
sacrificio, non solo di adulti ma anche di bambini inermi, sono inesprimibili e di fronte alla devastazione la
poesia perde ogni valore, e rimane impotente. Ma il gesto di appendere le cetre può essere interpretato
anche come una protesta: il silenzio diventa allora per il poeta una ribellione. Davanti a questo scenario di
tragica desolazione il poeta sembra però non sentirsi più solo: fin dal primo verso il soggetto è plurale
(«potevamo»; e poi, «nostre»). All irrompere della storia, con i suoi eventi drammatici, corrisponde nel
poeta la riscoperta di una fratellanza e di una solidarietà fra gli uomini: il dolore non è più unicamente del
singolo, ma è un'esperienza corale, e proprio nella condivisione si può trovare una risorsa per sopportarlo.