Furet
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La Rivoluzione francese ha avuto spesso a che fare con la teoria delle élites. Un sommovimento
che, nei suoi documenti e nel suo dettato costituzionale, pretende di istituire la trasparenza
dell'universalità non può non sollecitare, negli osservatori che si ispirano ad un metodo di analisi
"realistico", la tentazione neomachiavellica di scavare dietro la magniloquente parvenza delle
affermazioni dottrinali per giungere al cuore della fenomenologia politica. La "legge ferrea
dell'oligarchia", sistemazione operata da Michels della teoria della classe politica di Gaetano
Mosca, non ha dunque perso l'occasione di misurarsi con l'89 e con le sue conseguenze: si pensi agli
scritti dello stesso Mosca, debitore nei confronti di Taine, e di quelli di Guglielmo Ferrero. La
storiografia "marxista", d'altra parte, codificando nel XX secolo la natura borghese della
Rivoluzione francese, ha evidenziato, non senza alcune difficoltà di ordine teorico, che la storia è il
teatro delle lotte tra le classi e che l'impalcatura statale è in qualche misura il riflesso
sovrastrutturale degli interessi storici della classe di volta in volta dominante. Le élite della
storiografia "marxista" (anche essa "realistica" davanti all'unanimismo liberale) sono innanzitutto
sociali, sono cioè cospicue e variegate minoranze che la successione storica dei rapporti di
produzione nel corso del tempo favorisce o fa declinare: così era per l'aristocrazia, così è per la
borghesia. A ciò si aggiunga che la storiografia "marxista" per eccellenza, quella che ha prodotto i
risultati più importanti e talora irreversibili sul piano della ricerca e della ricostruzione, vale a dire
la storiografia francese dei Mathiez, Lefebvre e Soboul, ha un netto e fiero partito preso a favore
della marmorea tradizione giacobina: la Rivoluzione francese non è cioè solo l'evento sociale che
permette di leggere gran parte della storia del mondo contemporaneo, è anche un evento
grandiosamente patriottico e nazionale che fa della vicenda rivoluzionaria francese una sorta di
paradigma politico privilegiato. Il "marxismo " di Lenin e la sua valutazione del giacobinismo non
possono che confortare una simile tesi.
La polemica contro la Rivoluzione francese come rivoluzione borghese può essere fatta cominciare
con gli studi di Alfred Cobban negli anni cinquanta e con quelli di George Taylor negli anni
sessanta: si dissolve, almeno nel breve periodo della surenchère rivoluzionaria, il grande rilievo
attribuito alle classi e compaiono nuovamente, come alla fine del XIX secolo nella teoria politica, le
élite. E questo l'inizio della storiografia cosiddetta " revisionista ", un termine usato per troppe cose
senza alcun rapporto tra loro, dal lessico delle relazioni internazionali alla Bernstein-Debatte, dalla
Rivoluzione francese al genocidio nei lager nazisti: per quel che riguarda
la Rivoluzione, l'esponente più noto del "revisionismo" storiografico è appunto Francois Furet,
studioso nato nel 1927, con un passato "marxista" negli anni della guerra fredda e con un
curriculum attento alle tematiche (soprattutto la lunga durata e il concetto di mentalità, oltre il più
spericolato "inconscio collettivo") della storiografia delle "Annales", al cui interno Furet ha
affrontato, cosa inconsueta per la scuola di Bloch e di Febvre, la storia delle idee e la storia politica.
Nel 1965-66 esce un libro destinato, anche per il brillante taglio narrativo, a notevole fortuna: si
tratta della Révolution Francaise di Furet e di Denis Richet. La Rivoluzione vi figura come un
evento messo in moto da un'élite che attraversa i tre ordini della società (tra i quali non vi è dunque
rivoluzionario conflitto di classe, ma osmosi riformatrice in taluni settori di essi), un'élite i cui primi
vagiti si potevano già udire nel '500 e che nel secolo delle Lumières si è a lungo addestrata per
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cogliere i maturi frutti politici del grandioso lavoro modernizzatore: è indubbio, però, che il Terzo
Stato ne rappresenta il cuore, tanto è vero che l'abate Sieyès e il conte di Mirabeau si fecero
eleggere entrambi nel Terzo. Questa élite sembrerebbe già essere pienamente egemone ed infatti
l'Antico Regime è già moribondo o morto nel 1787: la monarchia, dal canto suo, non è più assoluta
di fatto, ma solo di diritto. Le Lumières, del resto, hanno avuto una grandissima importanza: hanno
unificato l'élite su basi culturali e creato, intorno alle battaglie di tale élite, una potente macchina di
consenso. Il signilicato vero di tutto il processo, in ultima analisi, è solidamente inscritto nella lunga
spinta liberale che si è avuta tra il 1750 ed il 1850: il Terrore, questa nuova e furibonda Saint-
Barthélemy, è, dentro questo processo, una semplice parentesi, uno slittamento (dérapage). Una
domanda sorge ora spontanea:
perché è stata necessaria una rivoluzione se l'avversario era già in stato comatoso? Furet e Richet
non rispondono esplicitamente, ma, contro ogni interpretazione unitaria, sostengono che le
rivoluzioni, nell'89, furono essenzialmente tre. Vi è la rivoluzione degli avvocati e degli intellettuali
che fa del Terzo Stato l'Assemblea Nazionale, creando e imponendo una nuova sovranità: è questa
la rivoluzione "riformista" di Sieyès e grazie a essa la nazione sostituisce il diritto divino. Viene poi
destituito Necker ed inizia la rivoluzione "parigina", necessaria perché ciò che resta dell'Antico
Regime - più forma che sostanza - non vuole riconoscere politicamente e giuridicamente la nuova
sovranità: è questa l'ora degli artigiani del Faubourg Saint-Antoine e della caduta della Bastiglia. La
borghesia cittadina si sostituisce all'autorità regia e fonda la democrazia municipale attraverso una
rivoluzione decentratrice che non è condotta dalla nobiltà e dai suoi Stati provinciali, ma dall'élite
cittadina e dai suoi comuni. Si afferma il
programma di Montesquieu, ma senza moderazione, senza rispetto per la tradizione e grazie ad un
soggetto sociale assai diverso dall'aristocrazia illuminata. La terza rivoluzione si ha quando la
marea contadina, sino a dilagare in modo incontenibile, chiede insistentemente udienza alle élite
che sinora hanno controllato la Rivoluzione. E la fine effettiva del feudalesimo: la proprietà
sostituisce il privilegio ed i diritti dell'uomo vengono solennemente proclamati. A ben vedere, lo
slittamento comincia già nell'89. Le forze popolari sfuggono al controllo delle élite e impongono
soluzioni sempre più avanzate. Lo stesso decentramento, grande patrimonio liberale, favorisce la
"generale anarchia urbana". La Costituente non può che fallire. Per molteplici ragioni: la situazione
finanziaria, i complotti contro-rivoluzionari, la Costituzione civile del clero, le divisioni interne alle
élite, la fuga del re, la guerra, la mobilitazione, la situazione finanziaria ulteriormente aggravata
dalla guerra. Nasce il patriottismo ed è una seconda rivoluzione: emergono i sanculotti ed il 10
agosto 1792, con la presa delle Tuileries, si ha la costituzione della Comune insurrezionale di
Parigi. E a questo punto che si ha anche lo "slittamento" vero e proprio, la Rivoluzione che esce dai
propri binari. Che accade? Ci si allontana da una qualsivoglia certezza legale: la pressione popolare
sulla rappresentanza nazionale devia la Rivoluzione. Ecco dunque chiarito il mistero dello
"slittamento": è causato dall'irruzione della "massa", dall'irruzione di ciò che disorganicamente e
disordinatamente si contrappone alle élite, che è altro da esse. I sanculotti stessi sono condizionati
dalle mentalità del passato che riemergono in questi momenti di anarchia: essi, come i loro antenati
urbani e rurali, vogliono l'eguaglianza (o meglio, una non eccessiva ricchezza altrui) e la vendetta
sociale. La ghigliottina rappresenta al meglio il loro elementare programma politico. Il 2 giugno
1793 si ha la loro rivoluzione e si ha anche, come aveva già intuito Michelet, un colpo durissimo
per il parlamentarismo: il 2 giugno è la prova generale di Fruttidoro e di Brumaio. Finisce con i
Girondini " l'era della speranza felice": comincia con i Montagnardi "l'ora del dolore e della morte".
Trionfa la "forza delle cose" di Saint-Just e i Giacobini non sono più un'élite modernizzatrice, ma
un gruppo politico, abile sì nella manovra parlamentare, ma prigioniero delle arcaiche passioni del
popolo. La Rivoluzione non è più veramente tale: è una caotica rivolta. Il Terrore, paradossalmente,
è l'ultima forma possibile di ordine, è l'unico mezzo idoneo a canalizzare l'autodistruttiva anarchia
popolare. Il grande Terrore, quello esercitato dopo il 22 pratile, fa sparire di fatto le società
popolari, isola lo stesso Comitato di salute pubblica e annienta progressivamente l'autonomia delle
oscure forze della miseria e dell'ira: l'esercito rivoluzionario vince, la patria non è più in pericolo, la
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dittatura di Robespierre non ha più ragione di esistere e cade con pochi rimpianti. Termidoro è
arrivato. E evidente - al di là del ricorso ai grandi classici come Lamartine, Michelet e Jaurès - che
Furet e Richet fanno propria ed utilizzano in modo assai personale l'autonomia delle forze popolari
rintracciata negli studi di Lefebvre, che ha esplorato la mentalità rivoluzionaria e l'anticapitalismo
nella rivoluzione borghese; negli studi di Guérin, che ha visto la rivoluzione permanente nell'89-'94
e in quelli di Soboul, senza i quali si saprebbe assai meno sui sanculotti. E precisamente questa
autonomia ciò che "slitta" e che provoca la deviazione: il dérapage, tuttavia, sussiste solo in
rapporto al programma illuministico e riformatore delle élite e non in rapporto alla meccanica e alla
dinamica del processo rivoluzionario. All'interno di questo regna una continuità "a scatti", un
succedersi movimentato e drammatico di cause ed effetti che è perfettamente individuato da Furet e
Richet. Le "classi" aurorali (il Vorproletariat) di Lefebvre, Guérin e Soboul si apparentano alle
"masse" di Taine e alla "folla" di Le Bon, ma continuano a procedere nel loro movimento "in
permanenza".
Nel 1971 Furet interviene nuovamente, sulle "Annales", con un saggio dal titolo Le catéchisme
révolutionnaire, una risposta alle critiche suscitate dal libro che aveva scritto con Richet. La
storiografia neogiacobina viene ora sottoposta ad un attacco frontale e tutti i suoi punti deboli
vengono spietatamente presi di mira: l'89 non è, per Furet, animato da un integralismo " borghese",
il giacobino non può essere considerato la forma finalmente trovata del rivoluzionario perennis, la
monarchia assoluta, soprattutto, non è il comitato di affari dell'aristocrazia. Marx stesso viene
ampiamente utilizzato per mettere in difficoltà gli epigoni della storiografia "marxista"
neogiacobina, sempre pronta ad accusare gli avversari di spirito antinazionale e definita da Furet
una vulgata " lénino-populiste". Il fatto è che dopo il '17 si è installato un télescopage permanente
tra l'89 e la rivoluzione d'Ottobre nella coscienza dei rivoluzionari russi (ivi compresi i critici come
Trockij, che non esiteranno a parlare di Termidoro) e poi, da Mathiez a Soboul, nella pratica
storiografica francese. Domina, secondo Furet, la tirannia di un sociologismo scolastico che non
solo vede lotta di classe tra borghesi ed aristocratici (parzialmente unificati, invece, in un'élite
riformatrice), ma addirittura un'inspiegabile lotta di classe "interborghese " tra Girondini e
Montagnardi.
Nel 1978 Furet pubblica un libro destinato a sollevare non poche polemiche, Penser la Révolution
francaise. La critica contro la storiografia neogiacobina si fa più serrata. La Rivoluzione dell'89 è
per Furet da tempo conclusa: l'hanno conclusa, con saggezza e moderazione, riprendendo cioè il
difficile lavoro delle élite illuministiche e dei costituenti, Jules Ferry e i padri fondatori della Terza
Repubblica, vale a dire gli uomini della democrazia liberale e del laicismo. Quel che ancora è
rimasto dello spirito rivoluzionario si inserisce nella logica oratoria ed epicizzante della
commemorazione: dal Danton di Aulard si è giunti al Robespierre di Mathiez, sino a che i
comunisti, in era staliniana, si sono appropriati del grande mito celebrativo. L'opera di Michelet,
che pure era stata spesso utilizzata nel volume del '65, viene sostituita da quella di Tocqueville. La
Rivoluzione è ora vista alla luce della centralizzazione amministrativa e del trionfo progressivo e
"democratico" dell'eguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Se tutto il processo centralizzatore-
egualitario comincia dunque con Richelieue attraversa imperterrito l'89, il '93, il '99, il '15, il 30, il
'48, che ci sta a fare la Rivoluzione? La risposta ora non fa più riferimento al dérapage sociale delle
masse messe in moto e rese rivoluzionarie dall'energia cinetica delle riforme, ma fa riferimento a
ciò che Marx definiva "l'illusione della politica". Che è successo? A un certo punto si è
autonomizzata la "parola" democratica e si è avuta la surenchère dell'idea sulla storia reale. Nella
Francia senza Stato dell' 87 si è insinuato, nel '93, uno Stato parzialmente illusorio sempre più
lontano dalla Francia. Il dérapage non c'è più: se c'è, non ha a che fare con l'esprit des institutions,
ma con la poussée de l'idéologie. Ed è così che, accanto a Tocqueville, si fa avanti anche lo storico
clericalmonarchico Augustin Cochin, il quale, all'inizio del Novecento, in linea con le
interpretazioni di Barruel e di Bonald, ha visto nella Rivoluzione la rottura del tessuto politico, la
vacanza dell'essenza del potere e la sostituzione di esso con l'antropomorfosi istituzionalizzata del
libero pensiero e della parola democratica. La storia reale, dunque, non conosce " slittamenti "
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dentro la lunga durata delle istituzioni: la Rivoluzione, invece, che pure ha fornito un sostegno
potentissimo alla continuità, è il prodotto di una storia in qualche misura "immaginaria", è il
prodotto cioè della nascita della moderna pubblica opinione.
Negli studi successivi, Furet continuerà ad interrogarsi, mentre si approssima la scadenza del
bicentenario del 1989, sulle ragioni per cui un complesso patrimonio rivoluzionario è diventato un
patrimonio nazionale da celebrare. Si cercano ancora le risposte nella vicenda storiografica. Dopo
Michelet e Marx, dopo Tocqueville e Cochin, è la volta di Quinet, letto in opposizione a Louis
Blanc e come precursore di Ferry: i dispotismi succedutisi all'89, per Quinet, non sono altro che un
ritorno dell'esprit autoritario e clericale dell'Antico Regime. Il dérapage non esiste proprio più: ciò
che non è continuità istituzionale con il passato, ciò che non è mito di fondazione e superfetazione
parossistica dell'illusione politica, è eterno ritorno di ciò che si contrappone all'ipotesi riformatrice
delle Lumières e delle élite che tentarono di realizzarne i valori. I muscolosi argomenti del
nazionalmarxismo neogiacobino sono stati messi in seria difficoltà, ma le enigmatiche differenze
storiche sono state spesso risolte in lancinanti determinazioni puramente mentali o in turbinose e
pur rassicuranti identità.