Romualdi. Perchè Non Esiste Una Cultura Di Destra
Romualdi. Perchè Non Esiste Una Cultura Di Destra
Romualdi. Perchè Non Esiste Una Cultura Di Destra
A. Romualdi
Uno dei motivi che più ricorrono sulla nostra stampa e nelle conversazioni del nostro
ambiente è la condanna del massiccio allineamento a sinistra della cultura italiana. Questa
condanna viene formulata in tono un po’ addolorato, un po’ sorpreso, quasi fosse innaturale
che la cultura si trovi ormai schierata da quella parte mentre a destra si incontra un vuoto
quasi completo.
Di solito si cerca di rendersi ragione di questo stato di cose con spiegazioni a buon mercato,
quel tipo di spiegazioni che servono a tranquillizzare se stessi e permettono di restare alla
superficie delle cose. Si dice — ad esempio — che la cultura è a sinistra perché là si trova la
maggior quantità di danaro, di case editrici, di mezzi di propaganda. Si dice anche che
basterebbe che il vento cambiasse perché molti « impegnati a sinistra » rivedessero il loro
engagèment. In tutto questo c’è del vero. Una cultura, o meglio, la base di lancio di cui una
cultura ha bisogno, è anche organizzazione, danaro, propaganda. È indubbio che lo
schiacciante predominio delle edizioni d’indirizzo marxista, del cinema socialcomunista,
invita engagèment anche molti che — in clima diverso — sarebbero rimasti neutrali.
Ma ciò non deve farci dimenticare la vera causa del predominio dell’egemonìa ideologica
della Sinistra. Esso risiede nel fatto che là esistono le condizioni per una cultura, esiste una
concezione unitaria della vita materialistica, democratica, umanitaria, progressista. Questa
visione del mondo e della vita può assumere sfumature diverse, può diventare radicalismo e
comunismo, neoilluminismo e scientismo a sfondo psicoanalizzante, marxismo militante e
cristianesimo positivo d’estrazione « sociale ». Ma sempre ci si trova di fronte ad una visione
unitaria dell’uomo, dei fini della storia e della società.
Da questa comune concezione trae origine una massiccia produzione saggistica, storica,
letteraria che può esser meschina e scadente, ma ha una sua logica, una sua intima coerenza.
Questa logica, questa coerenza esercitano un fascino sempre crescente sulle persone colte.
Non è un mistero per nessuno il fatto che un gran numero di docenti medii ed universitari è
comunistizzato, e che la comunistizzazione del corpo insegnante dilaga con impressionante
rapidità. E, tra i giovani che hanno l’abitudine di leggere, gli orientamenti di sinistra
guadagnano terreno a vista d’occhio.
Dalla parte della Destra nulla di questo. Ci si aggira in un’atmosfera deprimente fatta di
conservatorismo spicciolo e di perbenismo borghese. Si leggono articoli in cui si chiede che la
cultura tenga maggior conto dei « valori patriottici », della « morale » il tutto in una pittoresca
confusione delle idee e dei linguaggi. A sinistra si sa bene quel che si vuole. Sia che si parli
della nazionalizzazione dell’energia elettrica o dell’urbanistica, della storia d’Italia o della
psicoanalisi, sempre si lavora a un fine determinato, alla diffusione di una certa mentalità, di
una certa concezione della vita.
A destra si brancola nell’incertezza, nell’imprecisione ideologica. Si è « patriottico-
risorgimentali » e si ignorano i foschi aspetti democratici e massonici che coesistettero nel
Risorgimento con l’idea unitaria. Oppure si è per un « liberalismo nazionale » e si dimentica
che il mercantilismo liberale e il nazionalismo libertario hanno contribuito potentemente a
distruggere l’ordine europeo. O, ancora, si parla di « stato nazionale del lavoro » e si
dimentica che una repubblica italiana fondata sul lavoro che l’abbiamo già - purtroppo — e
che ridurre in questi termini la nostra alternativa significa soltanto abbassarsi al rango di
socialdemocratici di complemento.
Forse gli uomini colti non sono meno numerosi a destra che a sinistra. Se si considera che la
maggior parte dell’elettorato di destra è borghese, se ne deve dedurre che vi abbondano quelli
che han fatto gli studi superiori e dovrebbero aver contratto una certa « abitudine a leggere ».
Ma, mentre l’uomo di sinistra ha anche degli elementi di cultura di sinistra, e orecchia Marx,
Freud, Salvemini, l’uomo di destra difficilmente possiede una coscienza culturale di destra.
Egli non sospetta l’importanza di un Nietzsche nella critica della civiltà, non ha mai letto un
romanzo di Junger o di Drieu La Rochelle, ignora il « Tramonto dell’Occidente » né dubita
che la rivoluzione francese sia stata una grande pagina nella storia del progresso umano. Fin
che si rimane nella cultura egli è un bravo liberale, magari un po’ nazionalista e patriota. È
solo quando incomincia a parlare di politica che si differenzia: trova che Mussolini era un
brav’uomo e non voleva la guerra, e che i films di Pasolini sono « sporchi ».
Basta poco ad accorgersi che se a destra non c’è una cultura ciò accade perché manca una
vera idea della destra, una visione del mondo qualitativa, aristocratica, agonistica,
antidemocratica; una visione coerente al di sopra di certi interessi, di certe nostalgie e di certe
oleografie politiche.
Con queste affermazioni che, come tutte le affermazioni veritiere, scandalizzeranno più
d’uno, crediamo di aver posto il dito sulla piaga.
Che cosa dovrebbe propriamente significare « esser di Destra »?
Esser di Destra significa, in primo luogo, riconoscere il carattere sovvertitore dei movimenti
scaturiti dalla rivoluzione francese, siano essi il liberalismo, o la democrazia o il socialismo.
Esser di Destra significa, in secondo luogo, vedere la natura decadente dei miti razionalistici,
progressistici, materialistici che preparano l’avvento della civiltà plebea, il regno della
quantità, la tirannia delle masse anonime e mostruose.
Esser di Destra significa in terzo luogo concepire lo Stato come una totalità organica dove i
valori politici predominano sulle strutture economiche e dove il detto « a ciascuno il suo »
non significa uguaglianza, ma equa disuguaglianza qualitativa.
Infine, esser di Destra significa accettare come propria quella spiritualità aristocratica,
religiosa e guerriera che ha improntato di sé la civiltà europea, e — in nome di questa
spiritualità e dei suoi valori — accettare la lotta contro la decadenza dell’Europa.
È interessante vedere in che misura questa coscienza di destra sia affiorata nel pensiero
europeo contemporaneo. Esiste una tradizione antidemocratica che corre per tutto il secolo
XIX e che — nelle formulazioni del primo decennio del XX — prepara da vicino il fascismo.
La si può far cominciare con le Reflexions on the revolution in France in cui Burke, per
primo, smascherava la tragica farsa giacobina e ammoniva che « nessun paese può
sopravvivere a lungo senza un corpo aristocratico d’una specie o d’un’altra ».
In seguito, questa pubblicistica cercò di sostenere la Restaurazione con gli scritti dei romantici
tedeschi e dei reazionari francesi. Si pensi agli aforismi di Novalis, col loro reazionarismo
scintillante di novità e di rivoluzione («Burke hat ein re-volutionàres Buch gegen die
Revolution geschrieben»), alle suggestive e profetiche anticipazioni: «Ein grosses
Fehlerunserer Staaten ist, dass man den Staat zu wenig sieht... Liessen sich nicht Abzeichen
und Uniformen durchaus ein-ftihren?». Si pensi ad un Adam Muller, alla sua polemica contro
l’atomismo liberale di Adam Smith, la contrapposizione di una economia nazionale
all’economia liberale. Ad un Gentz, consigliere di Metternich e segretario del Congresso di
Vienna, ad un Gorres, a un Baader, allo stesso Schelling. Accanto a loro sta un Federico
Schlegel con i suoi molteplici interessi, la rivista Europa, manifesto del reazionarismo
europeo, l’esaltazione del Medioevo, i primi studi sulle origini indoeuropee, la polemica coi
liberali italiani sul patriottismo di Dante, patriota dell’« Impero » e non piccolo-nazionalista.
Si pensi a un De Maistre, questo maestro della controrivoluzione che esaltava il boia come
simbolo dell’ordine virile e positivo, al visconte De Bonald, a Chateaubriand, grande scrittore
e politico reazionario, al radicalismo di un Donoso Cortes: « Vedo giungere il tempo delle
negazioni assolute e delle affermazioni sovrane ».
Peraltro, la critica puramente reazionaria aveva dei limiti ben evidenti nella chiusura a quelle
forze nazionali e borghesi che ambivano a fondare una nuova solidarietà di là dalle negazioni
illuministiche. Arndt, Jahn, Fichte, ma anche l’Hegel de La filosofia del diritto appartengono
all’orizzonte controrivoluzionario per la concezione nazional-solidaristica dello Stato, anche
se non ne condividono il dogmatismo legittimistico. La chiusura alle forze nazionali (anche là
dove, come in Germania, si trovano su posizioni antiliberali) è il limite della politica della
Santa Alleanza.
Crollato il sistema di Metternich, per la miopìa della concezione di fondo (combattere la
rivoluzione con la polizia, e restaurando una legalità settecentesca) la controrivoluzione si
divide in due rami: l’uno si attarda su posizioni meramente legittimistiche, confessionali,
destinate ad esser travolte, l’altro cerca nuove vie e una nuova logica. Carlyle polemizza
contro lo spirito dei tempi, l’utilitarismo manchesteriano (« non è che la città di Manchester
sia divenuta più ricca, è che sono diventato più ricchi alcuni degli individui meno simpatici
della città di Manchester »), l’umanitarismo di Giuseppe Mazzini (« cosa sono tutte queste
sciocchezze color di rosa? »). Egli cerca negli Eroi la chiave della storia e vede nella
democrazia un’eclissi temporanea dello spirito eroico.
Gobineau pubblica nel 1853 il memorabile Essai sur l’inegalité des races humaìnes
fondando l’idea di aristocrazia sui suoi fondamenti razziali. L’opera di Gobineau troverà una
continuazione negli scritti dei tedeschi Clauss, Gùnther, Rosenberg, del francese Vacher de
Lapouge, dell’inglese H. S. Chamberlain. Attraverso di essa il concetto di « stirpe »,
fondamentale per il nazionalismo, viene strappato all’arbitrarietà dei diversi miti nazionali e
ricondotto all’ideale nordico-indoeuropeo come misura oggettiva dell’ideale europeo.
Alla fine del secolo, la punta avanzata della Destra è nella polemica di Federico Nietzsche
contro la civilizzazione democratica. Nietzsche, ancor più di Carlyle e Gobineau, è il creatore
di una Destra modernamente « fascista », cui ha donato un linguaggio scintillante di negazioni
rivoluzionarie. Nietzschiano è lo scherno dell’avversario, la prontezza dell’attacco, la
rivoluzionaria temerità (« was falli, das soli man auch stossen »). La parola di Nietzsche sarà
raccolta in Italia da Mussolini e d’Annunzio, in Germania da Junger e Spengler, in Spagna da
Ortega y Gasset.
Intanto, anche all’interno del nazionalismo si è operato un «cambiamento di segno». Già nelle
formulazioni dei romantici tedeschi la nazione non era più la massa disarticolata, la giacobina
nation, ma la società standisch, coi suoi corpi sociali, le sue tradizioni, la sua nobiltà. Una
società — insegnava Federico Schlegel — è tanto più nazionale quanto più legata ai suoi
costumi, al suo sangue, alle sue classi dirigenti, che ne rappresentano la continuità nella storia.
Alla fine del secolo, una rielaborazione del nazionalismo nello spirito del conservatorismo è
compiuta. Maurras e Barrés in Francia, Oriani e Corradini in Italia, i pangermanisti e il
«movimento giovanile» in Germania, Kipling e Rhodes in Inghilterra, han conferito all’idea
nazionale una impronta tradizionalistica e autoritaria. Il nuovo nazionalismo è essenzialmente
un elemento dell’ordine.