Hoenen, A Oxford

Scarica in formato pdf o txt
Scarica in formato pdf o txt
Sei sulla pagina 1di 161

MAARTEN J.F.

Mi HOENEN

A OXFORD:
DIBATTITI TEOLOGICI
nel tardo Medioevo
EREDITA MEDIEVALE

L5TgM ^ Jaca Book


A OXFORD:
DIBATTITI TEOLOGICI NEL TAEDO MEDIOEVO

Il presente volume si ricollega ad altri già apparsi in questa collana che ricostrui­
scono e fanno seguire le vicende della teologia e del dibattito culturale che con­
cerne l’università di Oxford, nel Medioevo centro di pensiero teologico per im­
portanza secondo solo a Parigi. I lavori di James McEvoy e di Joël Biard trovano
qui un prolungamento, che si spinge a considerare le diverse problematiche füo-
sofico-teologiche vive nell’università inglese nel corso di tutto il Trecento e in
parte del Quattrocento. In questo periodo lo sviluppo della ricerca dei maestri
di Oxford si rende sempre più caratteristico e diversificato rispetto alle tradizio­
ni dei grandi maestri parigini. L’autore dà saggio di questa crescente originalità
concentrandosi su tre plessi tematici: 1) il rapporto tra conoscenza concettuale e
realtà che ebbe im ruolo centrale nei dibattiti suUa qualità delle idee e degli attri­
buti divini e vide partecipi maestri come Guglielmo de la Mare, Riccardo
Knapwell, Duns Scoto, Tommaso di Sutton, Ockham, Adamo Wodeham,
Roberto Holcot, Giovanni Wyclif e Giovanni Kenningham; 2) l’appHcazione dei
metodi semantici alla teologia, all’interno della discussione suUa prescienza divi­
na sviluppatasi con il contributo, oltre che di Scoto e Ockham, di Tommaso
Bradwardine e Tommaso Buckingham; 3) l’elaborazione da parte della inquie­
tante figura di Giovanni Wyclif di fondamenti metafisici finalizzati a un’esegesi
delle Scritture di tipo letterale, e la critica che questi stessi principi si attirano da
parte di Kenningham e di Tommaso di Waiden. In particolare la polemica tra
Wyclif e Kenningham è l’avvio del dibattito quattrocentesco fra nominalisti e
realisti. Un periodo irto di dispute sottilissime, rese essenziali nella ricostruzione
di Hoenen che mira a rendere evidente la grande tensione tra la realtà della fede
e i linguaggi che si impegnano ad articolarne la comprensione.

M aarten J.F.M. H oenen attualm ente lavora e insegna presso il De Wulf-


Mansioncentrum per lo studio della filosofia antica e m edievale nella Università
Cattolica di Lovanio (Leuven, B elgio) ed è segretario gen era le della Società
Internationale per lo Studio della Filosofia Medievale (SIEPM). Coordina l’edizione
critica deirOp&To. Omnia di Marsilio dilnghen. Tra le sue molteplici pubblicazioni
ricordiamo: Marsilius of Inghen: Divine Knowledge in late Medieval Thought
(Brill, Leiden 1993) e Spéculum phüosophiae medii aevi: die Handschriften-
sammlimg des Dominikaners Georg Schwartz {Grüner, Amsterdam 1994).

ISBN 88-16-43321-3

€ 13,50 9 n 8 1 6 4332'
Maarten J.F.M. Hoenen
A OXFORD:
DIBATTITI TEOLOGICI
NEL TARDO MEDIOEVO

L5TeM // Jaca Book


©2003
Editoriale Jaca Book SpA, Milano
tutti i diritti riservati

prima edizione italiana


marzo 2003

traduzione dall’olandese
Claudia Di Palermo

copertina e grafica
Ufficio grafico Jaca Book

in copertina
Maestro dell’Annunciazione di Aix,
Libri in una nicchia,
particolare dalla lunetta del profeta Isaia, 1443-45,
in L. Castelfranchi Vegas,
Italia e Fiandra nella pittura del Quattrocento,
Jaca Book, Milano 1983

Fotocomposizione e impaginazione:
Linotipia Jo.type, Pero (Mi)

ISBN 88-16-43321-3

Per informazioni suUe opere pubblicate e in programma


ci si può rivolgere a Editoriale Jaca Book SpA - Servizio Lettori
Via V. Gioberti 7, 20123 Milano, tel. 02/48561520-29, fax 02/48193361
e-maE: [email protected]; sito internet: www.jacabook.it
I n d ic e

Editoriale 7

Capitolo primo
La teologia a Oxford: quadro storico 11
1. Introduzione 11
1.1. Il contesto istituzionale 13
1.2. L’università, carattere e influssi 14
2. Sviluppi storici 16
2.1. L’influsso di Parigi 17
2.2. Nascita e affermazione della teologia inglese 17
2.3. L’epoca di Wyclif 19
2.4. La fine della scolastica medievale 20
3. L’ambiente intellettuale 21
3.1. La teologia come scienza 21
3.2. La tensione tra filosofia e teologia 22
3.3. La fede e la ragione umana 23
4. I temi centrali di questo libro 24
4.1. Concetto e realtà 24
4.2. Semantica e teologia 25
4.3. Teologia e metafisica 25

1
Indice

5. Storiografia 23
5.1. L’università 26
5.2. Studi contenutistici 26

Capitolo secondo
Concetto e realtà.
Il discorso teologico su Dio 29
1. Introduzione 29
1.1. Il clima storico 29
1.2. Il contributo inglese 30
2. Francescani e domenicani 31
2.1. Guglielmo de la Mare OFM 32
2.1.2. La critica a Tommaso 34
2.1.2.1. Le idee divine 34
2.1.2.2. Idea ed essenza 35
2.1.2.3. Le ripercussioni 36
2.1.2.4. La natura degli angeli 37
2.2. Riccardo Knapwell OP 38
2.2.1. Idea e creatura 38
2.2.2. La distinzione tra concetto e realtà 38
2.2.2.1. Lo sfondo tomistico 39
2.2.2.2. Predicati essenziali 39
2.3. Il passaggio a una nuova fase del dibattito 41
3. Pro e contro la distinzione formale 42
3.1. Duns Scoto OFM 42
3.1.1. Gli attributi divini 42
3.1.2. L’obiettività del conoscere 43
3.1.3. Tra unità e molteplicità 44
3.2. Tommaso di Sutton OP 45
3.2.1. Enti reali e razionali 46
3.3. Guglielmo di Ockham OFM 47
3.3.1. Gli universali 48
3.3.2. La dottrina degli attributi 49
3.4. Adamo Wodeham OFM 50
Indice

3.4.1. L’unità divina 51


3.5. Roberto Holcot OP 52
3.5.1. Teologia e logica 52
3.6. Il passaggio all’ultima fase del dibattito
a Oxford 53
4. La distinzione formale come errore 54
4.1. Giovanni Wyclif 54
4.2. Giovanni Kenningham OCABM 56
4.2.1. La critica a Platone e asant’Agostino 57

Capitolo terzo
Semantica e teologia.
Il problema del sapere divino 59
1. Introduzione 59
1.1. Gli sviluppi storici 61
2. Tommaso d’Aquino 62
2.1. Forza e debolezza della posizione tomistica 63
2.2. I primi dibattiti 63
3. Duns Scoto 64
3.1. L’influsso di Scoto 65
3.2. La critica a Tommaso 66
3.3. Roberto Cowton 67
3.4. Soluzioni insoddisfacenti 67
4. Guglielmo di Ockham 68
4.1. La critica a Scoto 69
4.2. La perfezione divina e il linguaggio umano 70
4.3. La modalità del conoscere 71
4.4. La certezza della conoscenza 72
4.5. La variabilità della conoscenza 73
4.5.1. La caratteristica della teologia a Oxford 74
4.6. Questioni semantiche 74
4.6.1. Roberto Holcot 75
4.6.2. Adamo Wodeham 76
4.6.2.1. La critica a Wodeham 79

3
Indice

5. Tommaso Bradwardine 79
5.1. I tre libri del D e causa D ei 80
5.1.1. La natura divina 80
5.1.2. La grazia divina e l’arbitrio umano 81
5.1.3. Contingenza e libertà 81
5.1.3.1. Determinismo o libertà? 82
5.2. Le due questioni centrali 82
5.2.1. La modalità della conoscenza divina 83
5.2.2. La contingenza del futuro 85
5.2.2.1. La libertà umana 85
5.2.2.2. Necessità reale e necessità
proposizionale 86
5.3. L’ambiguità di Bradwardine 86
6. Tommaso Buckingham 87
6.1. Strategie semantiche 87
6.1.1. Il presupposto è la libertà umana 87
6.1.2. «Bradwardine limita la Hbertà divina» 88
6.1.3. La modalità della conoscenza divina 89
6.1.4. «Bradwardine difende un determinismo
assoluto» 90
6.1.5. L’unione di libertà e necessità 90
7. Dio o l’uomo? 91

Capitolo quarto
Teologia e metafìsica.
L’ermeneutica di Giovanni Wyclif 93
1. Introduzione 93
2. Giovanni Wyclif 95
2.1. Le Scritture come Parola di Dio 95
2.2. La critica 96
2.2.1. Guglielmo Woodford OFM 97
2.2.2. Giovanni Kenningham OCARM 98
3 . 1 principi dell’ermeneutica 99
3.1. La conoscenza delle Scritture 100
Indice

3.1.1. Unità delle Scritture 101


3.1.2. Codici lacunosi 101
3.1.3. La critica ai nominalisti 102
3.1.4. Il significato proprio delle parole 103
3.2. I cinque significati delle Scritture 104
3.2.1. Ispirazione neoplatonica 106
3.3. Regole per una corretta lettura delleScritture 106
3.3.1. La giusta disposizione 108
3.4. I principi metafisici dell’esegesi 110
3.4.1. Le idee divine 111
3.4.1.1. Sostenitori e oppositori 112
3.4.2. Gli universali 113
3.4.3. L’unità complessiva 115
3.4.4. La presenza eterna 116
3.4.5. La contraddizione come rivelazione 117
4. Giovanni Kenningham 118
4.1. La lingua delle Scritture 119
4.2. La critica alla metafisica di Wyclif 121
4.3. La critica al linguaggio di Wyclif 123
4.4. Kenningham d o cto r signorum 124
5. Tommaso Netter di Walden 126
5.1. La qualità dell’oggetto conoscitivo divino 126
5.1.1. Wyclif platonico 127
5.2. Il significato del verbo «essere» 128
6. Conclusione 129

Bibliografia 131
A. Fonti primarie 131
B. Studi e testi citati 136
C. Bibliografia secondaria 137

Indice dei nomi 149


E d it o r ia l e

Il saggio di Maarten Hoenen che presentiamo contribui­


sce, con altri volumi già apparsi in «Eredità Medievale», a
definire i percorsi dell’elaborazione teologica dei maestri
che si formarono o insegnarono a Oxford e che, progressi­
vamente, fecero di questo luogo un centro partecipe dei di­
battiti vivi nell’ambiente più internazionale di Parigi e insie­
me volto a conquistare una propria identità di indirizzo.
James McEvoy ci ha mostrato gli «inizi», dominati dalla
personalità intellettuale di Roberto Grossatesta, gli entusiasmi
e le resistenze nei confronti delle novità provenienti da Parigi.
Olivier Boulnois e Joël Biard hanno evidenziato l’originalità
forte di due grandi pensatori che, anche se in misura diversa,
sono radicati nell’ambiente delle scuole di Oxford: rispettiva­
mente Giovanni Duns Scoto e Guglielmo di Ockham.
Queste ricerche, che la critica ha mostrato di apprezzare,
ora trovano un prolungamento, che si spinge a considerare
le diverse questioni fÜosofico-teologiche sollevate e trattate
nell’università inglese nel corso di tutto il Trecento e in par­
te del Quattrocento.
In questo periodo la speculazione dei teologi di Oxford
pare concentrarsi su alcuni temi che conferiscono alle di­
scussioni e alle soluzioni un carattere distinto rispetto alle
Editoriale

tradizioni dei grandi maestri parigini dell’ultima parte del


secolo XIII. Hoenen illustra ü rafforzarsi di questo carattere
inseguendo alcune direttrici ben selezionate. Sarebbe diffi­
cile, diversamente, dominare un campo così ampio e com­
plesso di storia intellettuale e di fede vissuta. Non è esage­
rato dire che, nonostante il crescente moltiplicarsi di inte­
resse e di studi particolari, si è ancora molto lontani dall’a­
vere idee tanto chiare su questo periodo da tentarne una
sintesi.
L’autore, quindi, giustamente sceglie di puntare su alcuni
dibattiti emergenti, di grande implicazione. Uno è il momen­
to in cui si riflette, con molto impegno di energie sul piano
gnoseologico e metafisico, sui rapporti tra conoscenza concet­
tuale e realtà; tale riflessione, nel periodo 1277-1372, ebbe un
ruolo centrale nella discussione teologica suHa qualità delle
idee in Dio e sugli attributi divini e vide confrontarsi maestri
come Guglielmo de la Mare, Riccardo KnapweH, Duns Sco­
to, Tommaso di Sutton, Ockham, Adamo Wodeham, Rober­
to Holcot, Giovanni Wyclif e Giovanni Kenningham.
Un altro momento è quello dell’utilizzazione, introdotta
da Ockham e praticata con tutta una serie di variazioni da
altri maestri oxoniensi, di regole logiche nell’analisi della sa­
pienza divina. Un esempio di questa metodologia si dà nella
discussione, molto vivace e prolungata, suUa prescienza di­
vina che si svolge nel periodo 1277-1345 con l’intervento e i
contributi, oltre che di Scoto e Ockham, di Tommaso
Bradwardine e di Tommaso Buckingham.
Infine, la ricostruzione di Hoenen, spostandosi nella secon­
da metà del secolo XTV, si focalizza suU’elaborazione da parte
della inquietante figura di Giovanni Wyclif di una metafisica,
che rappresenta una sorta di infrastruttura per giustificare
un’esegesi letterale delle Scritture, e sulla critica che a questa
metafisica rivolgono Kenningham e Tommaso di Walden.
In particolare, la discussione tra le posizioni di Wyclif e
Editoriale

K e n n in g h a m fu l ’av v io d e l c o n fro n to q u a ttro c e n te sc o fra


n o m in alisti e realisti.
Le dispute sottilissime, di cui il periodo è irto, sono ri­
condotte dall’Hoenen all’essenzialità delle tesi in gioco e
mostrate nella continua tensione tra la realtà storica della fe­
de e l’invenzione e l’applicazione di linguaggi e strumenti di
analisi molto raffinati che pur ne tentano la comprensione e
l’articolazione in sapere.

I n o s B iffi e C o st a n t e M a r a b e l l i
Capitolo primo
L a te o lo g ia a O x fo rd : q u a d ro s to ric o

l. In tro d u z io n e

Anche chi non ha sfogliato che poche opere sull’argo­


mento si rende immediatamente conto di quale sia la diffe­
renza tra la teologia del tardo Medioevo e quella contempo­
ranea: la grande uniformità nell’impostazione delle disserta­
zioni teologiche e neU’elaborazione dei temi trattati. La mag­
gior parte degli scritti è costituita da commenti ai classici,
come la Bibbia e le Sentenze di Pietro Lombardo, o da di­
spute orali adattate per la pubblicazione. Il metodo seguito
in tali opere è analitico e razionale: utilizzando i concetti
mutuati dalla fÜosofia, si esponevano i temi da trattare e ve­
nivano risolte le questioni sollevate in quel contesto. L’aspet­
to retorico era di importanza secondaria: l’intento era quello
di convincere non ricorrendo a metafore o a xin linguaggio
forbito, bensì all’analisi razionale e añe capacità intellettive.
L’uniformità d’impostazione e di metodo, che affondava
le sue radici nell’insegnamento universitario, portò a una
tensione fra tradizione e innovazione che rese la scolastica
medievale allo stesso tempo conservatrice e progressista.
Dal momento che venivano studiati sempre gli stessi testi di
base, vi era una grande uniformità nelle questioni dibattute.

11
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

Analizzando i commenti alle S entenze del periodo 1250-


1500 si nota che di regola venivano discussi sempre gli stessi
temi nello stesso ordine. Da qui nacque una tradizione
estremamente compatta, ancor più rafforzata dal fatto che
nei commenti gli autori utilizzavano le opere di predecessori
e contemporanei. Ciò poteva spingersi fino al punto che nei
loro commenti alle S entenze alcuni autori non si basavano
suUe S entenze stesse, ma sull’opera di un collega, un feno­
meno che attualmente viene indicato come lectura secu n du m
alium e che in particolare si affermò a partire dalla seconda
metà del Trecento (Trapp 1956).
Il fatto che gH autori si ispirassero così tanto gli uni agli
altri e cercassero di uniformalrsi tra loro - cosa a cui erano
addirittura obbligati per statuto (Winkelmann 1886, 21) -
portò anche a un fenomeno del tutto diverso, che contrasta­
va con l’impronta tradizionale: le interpretazioni e le teorie
proposte da un teologo venivano da un altro criticate e sot­
toposte a un esame approfondito. Questa pratica trovò una
forma istituzionalizzata nelle dispute oraH, una parte obbli­
gatoria del corso di studi, in cui il futuro m agister si esercita­
va a giudicare in modo critico e a trovare controargomenta-
zioni alle tesi presentate. Molto di ciò che veniva evidenziato
nelle dispute veniva successivamente incluso nei commenti,
come si deduce da vari manoscritti giunti fino a noi, in cui a
margine del commento elaborato dal m agister è annotata
l’aggiunta di alcune parti tratte da dispute (Michalski 1999,
158). In questo modo il tradizionalismo scolastico procede­
va di pari passo con la tendenza ambiziosa del giovane m agi­
ster alla critica verso i contemporanei e alla ricerca di una
interpretazione personale dei classici, che caratterizzarono
fortemente l’esercizio della teologia soprattutto nella prima
metà del Trecento. Entro i confini definiti del corpus di testi
fondamentali, si cercava di volta in volta di dare un’espres­
sione personale e attuale al patrimonio tradizionale.

12
La teologia a Oxford: quadro storico

La teologia medievale si presta perciò perfettamente a


iHi’indagine storica dello sviluppo e della dinamica di deter­
minati pensieri teologici. Sullo sfondo del corpus definito di
testi che venivano riletti ogni volta, è possibüe individuare
con relativa facilità la nascita di nuove idee; e dal momento
che gH autori includono continui rimandi aU’opera altrui, si
criticano a vicenda o cercano punti di contatto, tali idee pos­
sono essere seguite e analizzate nella loro evoluzione storica.

1.1. Il con testo istituzionale

Il teologo medievale non lavorava isolatamente, nella so­


litudine del suo studio, ma era membro di una comunità in­
tellettuale governata da regole scritte e non scritte. Questa
comunità era formata in primo luogo dall’università o scuo­
la presso cui il teologo studiava o insegnava. La maggior
parte delle opere teologiche in nostro possesso del Tre e
Quattrocento sono derivate daU’insegnamento. Commenta­
re la Bibbia e le S entenze di Pietro Lombardo, così come te­
nere le dispute, era parte del curriculum di studi di ogni
università, anche a Oxford.
Sebbene a grandi linee l’impostazione dell’insegnamento
nelle diverse università fosse identica, esistevano tuttavia
differenze significative nella durata degli studi, nel percorso
da seguire e nei libri studiati. Per l’insegnamento della logi­
ca, ad esempio, nelle scuole inglesi venivano usati testi di­
versi dal resto dell’Europa. A Oxford e Cambridge si legge­
vano soprattutto l’anonima L ogica cum sit nostra e le In tro­
du ction es di Guglielmo di Shyreswood, mentre dall’altra
parte della Manica venivano studiati principalmente Ü Trac­
tatus di Pietro Ispano e la L ogica di Lamberto d’Auxerre
(Pinborg 1979, Libera 1982).
Si può inoltre constatare che, nel corso del quattordice­
simo secolo, nei commenti di Oxford alle Sentenze viene da­

13
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

to sempre maggiore risalto alla tradizione inglese. Inizial­


mente venivano citati soprattutto autori parigini, come mo­
strano le opere di Duns Scoto e Guglielmo di Ockham, per
cui Tommaso d’Aquino ed Enrico di Gand erano importan­
ti interlocutori. Ma a partire dal terzo decennio l’accento si
spostò in gran parte sulle fonti inglesi, come Scoto,
Ockham, Gualtiero Chatton, Adamo Wodeham e Roberto
Holcot. Così a Oxford nacque una tradizione adattata al
proprio contesto istituzionale, riscontrabile anche nella for­
ma e nell’impostazione dei commenti alle S entenze (Courte-
nay 1978 e 1987).
Accanto al contesto istituzionale in senso stretto, era si­
gnificativo anche il contesto più ampio, determinato dal ca­
so, come la presenza di biblioteche ben fornite. In quest’ul­
timo campo ebbero un ruolo importante gli Ordini mendi­
canti che, grazie ai frequenti scambi di studenti, spesso sta­
biliti per statuto, poterono acquisire importanti manoscritti
per le loro biblioteche. Tuttavia esistevano anche grandi col­
lezioni private, come quella di Riccardo di Bury, vescovo di
Durham e protettore del teologo Tommaso Bradwardine di
Oxford. L’impressionante erudizione di Bradwardine deri­
vava con grande probabilità dai manoscritti raccolti in que­
sta biblioteca (Courtenay 1987, 133-137).

1.2. L università, carattere e in flussi

La ‘particolarità’ del contesto in cui lavoravano i filosofi


e i teologi, in cui i loro scritti vedevano la luce e venivano
trasmessi, era il sistema ‘aperto’. Il mondo deU’università
non era fine a se stesso, poiché nell’ambito della cultura me­
dievale i legami tra i diversi centri intellettuali erano troppo
stretti. Tuttavia, ciascuna università aveva un carattere indi­
viduale, determinato dalla propria storia e dagli studiosi che
vi lavoravano. Tale carattere poteva cambiare, a seconda dei

14
La teologia a Oxford: quadro storico

tempi, e poteva anche essere più marcato in un periodo


piuttosto che in un altro. L’università di Oxford ebbe un
volto chiaramente riconoscibile e ben differenziato da Parigi
nella prima metà del Trecento. Anche in seguito Oxford
continuò a distinguersi dalle altre università, in particolare
per l’impianto delle opere teologiche e filosofiche e per i te­
mi in esse trattati. Ciò giustifica la nostra impresa di voler
esaminare separatamente la teologia a Oxford.
Ma uno studio sullo sviluppo del pensiero a Oxford ri­
veste anche un’importanza storica più ampia. La teologia in­
glese lasciò una chiara impronta sulla teologia e sulla füoso-
fia tardomedievaH. Il metodo teologico basato suUa logica e
sulla semantica che fiorì a partire dagli anni 1320 per opera
di Ockham, Wodeham, Holcot e altri, venne introdotto da­
gli anni 1340 in poi anche nel continente, dove portò a un
rinnovamento della teologia, non solo nelle università, ma
anche negli studia degli Ordini religiosi. Nei documenti re­
lativi alla controversia sul metodo {W egestreit) quattrocente­
sca sono soprattutto i pensatori ingles; ad essere considerati
le figure più importanti della via m oderna, e spiccano di
nuovo i nomi di Ockham, Wodeham e Holcot. Il filosofo
Giovanni de Nova Domo parla a questo proposito di una
paterna traditio, che si era allontanata da Aristotele e che
aveva come rappresentante principale Guglielmo di
Ockham. Egli critica la logica sostenuta in questa tradizione
e considera i suoi difensori come ep icu ri litterales (Kaluza
1986).
Anche gli stessi pensatori di Oxford erano fermamente
convinti che in quella università fosse stata creata una parti­
colare tradizione nel campo della logica e della sua applica­
zione alla teologia. Giovanni Lutterel sostenne l’utilizzo del­
la logica nella teologia, che gli avversari consideravano tipi­
camente inglese (Hoffman 1998, 133), e un provvedimento
della facoltà delle Arti del 1408 parlava di una m itis scien -

15
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

tiae logicalis subtilitas, che faceva eccellere Oxford su tutte


le altre università.
Non bisogna considerare questa tradizione logica come
precorritrice del nominalismo e della via m oderna, nel modo
in cui si delinearono nel Quattrocento: era troppo complessa
e multiforme per esserlo. Anche le teorie realistiche di Gual­
tiero Burleigh e Giovanni Wyclif, infatti, derivavano da que­
sta tradizione logica. Le opere di Giovanni Wyclif, che a
Oxford causarono aspre controversie specie dopo il 1370,
ebbero diffusione anche sul continente a partire dalla fine del
Trecento e lì acquistarono un ruolo importante come pilastro
spirituale del cosiddetto movimento hussita. Nel Quattro-
cento i capi di questo movimento, Giovanni Hus e Gerolamo
di Praga, furono espressamente etichettati come w yclifista e e
realistae. I teologi di Oxford hanno dunque contribuito alla
nascita di correnti totalmente diverse nel resto dell’Europa:
non solo tradizioni nominalistiche, ma anche realistiche.
L’immagine che nel Quattrocento si aveva dell’unità dot­
trinale di pensatori come Ockham e Wodeham, Wyclif e
Hus era accentuata dai dibattiti dell’epoca tra sostenitori
della via m oderna e della via antiqua e dall’interesse a ciò
connesso per le tradizioni scolastiche. Per questo venivano
considerati come appartenenti a una sola tradizione pensa­
tori in realtà indipendenti e che non avevano mai aderito a
una ‘scuola’. Le tradizioni scolastiche mancavano al tempo
di Ockham e Wyclif: essi apparterranno alla cultura intellet­
tuale del Quattrocento.

2 . S v il u p p i st o r ic i

Volendo schematizzare gli sviluppi salienti dell’attività


universitaria a Oxford nel tardo Medioevo, bisogna consi­
derare in linea generale che, dopo aver subito inizialmente

16
La teologia a Oxford: quadro storico

l’influsso di Parigi, dal secondo decennio del Trecento la


teologia prese una sua strada. Questa evoluzione durò fino
alla seconda metà del Quattrocento, dopo di che diminuì
l’interesse per il pensiero scolastico fino ad allora dominante
e acquisì un sempre maggiore risalto la teologia pratica. A l­
l’interno di questa evoluzione possono essere identificati al­
meno quattro periodi differenti, ognuno dei quali ha carat­
terizzato in un modo diverso il volto di Oxford (Courtenay
1987, Catto 1984, Catto & Evans 1992).

2,1. in flusso d i Parigi

All’inizio del Trecento la teologia parigina era ancor


sempre più importante e prestigiosa di quella di Oxford,
Per questo motivo molti studenti di Oxford si recavano a
Parigi per una parte della loro formazione e per apprendere
la teologia parigina. In questo modo teologi parigini come
Tommaso d’Aquino ed Enrico di Gand esercitarono un
grande influsso sul pensiero di Oxford, come risulta dai te­
mi trattati in quel periodo - solitamente in modo critico -
nell’università inglese: gli attributi divini, le idee divine e la
condizione à^Vìesse essen tia e (Little & Pelster 1934). I con­
tatti con Parigi avvenivano perlopiù tramite teologi france­
scani, come Duns Scoto, Roberto Cowton e Guglielmo
d’Alnwick. Duns Scoto, ad esempio, commentò le S entenze
di Lombardo non solo a Oxford, ma anche a Parigi {Repor­
tata P arisiensia). Nel secondo decennio del Trecento i rap­
porti con il continente si allentarono e Oxford cominciò
uno sviluppo autonomo che portò a una grande fioritura.

2.2. Nascita e afferm azione della teolo gia in glese

L’evoluzione autonoma nella teologia si manifestò su due


fronti: il metodo applicato e la forma degli scritti. Il metodo

17
A Oxford; dibattiti teologici nel tardo Medioevo

applicato nella teologia dal 1315 fu una conseguenza dello


sviluppo nell’ambito della logica medievale e va quindi
compreso a partire da tale svÜuppo. Oxford aveva subito
molto meno di Parigi l’influsso tardoduecentesco del modi­
smo e si continuava a sostenere il terminismo, così come si
era formato all’inizio del Duecento, secondo cui le parole
vanno studiate nel contesto delle proposizioni. Le parole
non hanno un significato indipendente e perciò non posso­
no essere analizzate separatamente, come allora voleva ü
modismo; esse devono ñ loro significato al posto che occu­
pano all’interno della frase. Così per il terminismo l’accento
era posto sulla verità della proposizione e non sul contenuto
dei termini. Ciò rese possibile un nuovo sviluppo nella teo­
logia. Il linguaggio teologico non veniva più studiato per il
suo contenuto, ma in base alla sua verità: quali affermazioni
sono vere, quali non lo sono.
Questo sviluppo ebbe anche una conseguenza impor­
tante per la forma degli scritti teologici. Le questioni teolo­
giche erano separate in una serie di proposizioni, che veni­
vano analizzate ad una ad una per verificarne la verità. Uno
dei primi esempi è costituito dai N otabilia quedam M agistri
R ichardi cam assale p ro m ateria d e con tin gen cia e t p rescien cia
dei, scritti intorno al 1317 (Synan 1982, 38-43). Ma in que­
sto periodo si verificarono dei cambiamenti nella forma e
nella tipologia degli scritti anche sotto altri aspetti. Il nu­
mero delle q u a estion es q u od lib eta les e q u a estion es disputa­
tae diminuì gradualmente dopo il 1320 e scomparve quasi
del tutto dopo il 1335 (Courtenay 1987, 45). L’accento si
spostò principalmente sui commenti alle Sentenze, che co­
minciarono ad assumere una forma del tutto diversa, si di­
staccarono cioè maggiormente dall’opera di Pietro Lom­
bardo e si concentrarono in special modo sul primo libro.
L’insieme divenne meno voluminoso, il numero delle quae­
stion es si ridusse, ma le qu a estion es stesse divennero più

18
La teologia a Oxford: quadro storico

lunghe. In alcuni casi cambiò anche l’ordine tradizionale


dei temi trattati. Roberto Holcot investigò la prescienza di­
vina non nel primo libro insieme alla trattazione degli attri­
buti divini, bensì nel secondo come parte della dottrina
della creazione (Streveler & Tachau 1995, 112-195). Così i
commenti scritti a Oxford in questo periodo differivano da
quelli parigini, che generalmente mantenevano la forma del
primo Trecento.

2.3. L epoca d i W yclif

Con ñ fiorire di altre facoltà di teologia, la posizione di


Oxford come centro della scienza venne a trovarsi sotto
pressione e l’università perse ñ ruolo guida che si era con­
quistata nel periodo precedente. Il nominalismo lasciò il po­
sto al realismo (Conti 1990). L’interesse per l’analisi del lin­
guaggio teologico rimase, ma essa veniva praticata a partire
dal realismo metafisico. La cosa singolare è che in quest’e­
poca non fu pubblicato quasi nessun commento alle S en ten ­
ze. Wyclif, ad esempio, incorporò il materiale del suo com­
mento alle S entenze nella Summa d e en te, un’opera struttu­
rata in maniera del tutto differente (Catto & Evans 1992,
179). Anche lo stile degli scritti teologici era cambiato: veni­
vano pubblicati sempre più trattati su un unico tema speci­
fico, non più concepiti come commenti a un testo già esi­
stente. Sebbene questi scritti trattassero spesso di problemi
attuali, il fatto insolito è che di regola non veniva citato qua­
si nessun autore contemporaneo, bensì solo pensatori fino
aña seconda metà del Trecento, con la sola eccezione di Wy­
clif, le cui concezioni furono a lungo al centro del dibattito.
In questo periodo diminuì anche l’attenzione per la teologia
scolastica speculativa e l’accento si spostò sulla pratica pa­
storale, Si cercava di divulgare ü sapere teologico, per que­
sto l ’attenzione fu rivolta principalmente alle Scritture e di­

19
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

v e n n e c e n tra le la q u e stio n e se le S c rittu re p o te ss e ro e ssere


tra d o tte n e lla lin g u a d e l p o p o lo .

2.4. La fi n e della scolastica m ed ieva le

In questo periodo proseguivano e la discussione sull’o­


pera di Wyclif e lo sforzo di arrivare a una forma pratica di
teologia. Anche gli argomenti utilizzati negli scritti teologici
erano molto meno scolastici e si riservava sempre più atten­
zione alla pratica pastorale, fatto che tra l’altro risulta evi­
dente dalla grande quantità di commenti alle Scritture. In
queste opere l’accento era posto soprattutto sui testi che ri­
vestivano un’importanza liturgica. Eppure la scolastica tra­
dizionale non scomparve del tutto; si continuavano a legge­
re le S entenze di Pietro Lombardo e si notava anche una
chiara influenza del pensiero di Duns Scoto. Inoltre riscuo­
tevano ancora interesse gli universalia e i problemi relativi a
essere [esse) ed essenza {essentia). Uno dei primissimi esem­
pi del (rinnovato) interesse per la scolastica tradizionale è il
commento alle S entenze di Tommaso Claxton, che risale al
1411 e porta chiaramente l’impronta del pensiero di Tom­
maso d’Aquino (Riva 1989). In generale, però, in questo pe­
riodo vi era un minore interesse per la teologia. Sempre più
studenti sceglievano di dedicarsi al diritto, che meglio si ac­
cordava alle nuove esigenze sociali e offriva perciò prospet­
tive migliori per una carriera di successo. Cambiava anche il
pubblico a cui i teologi si rivolgevano, una tendenza che era
cominciata già nella seconda metà del Trecento. Non si la­
vorava più solamente per una cerchia ristretta di accademi­
ci, ma anche per un pubblico sempre più vasto di profani e
per questo si adottava in misura sempre crescente la lingua
popolare. Così a Oxford si concluse il periodo della scolasti­
ca medievale.

20
La teologia a Oxford: quadro storico

3 . L ’a m b ie n t e in t e l l e t t u a l e

Se si cerca di cogliere sotto un unico aspetto gli sviluppi


storici schematizzati finora, il tema comune pare senz’altro
essere quello della crescente scientifizzazione e della succes­
siva reazione critica. Ovviamente è possibile citare anche
una serie di numerosi altri aspetti, come il rapporto tra fede
e sapere, la struttura uniforme dell’attività scientifica o l’ab­
binamento della scienza all’insegnamento. Ma tutti questi
aspetti sono riconducibili alla tendenza e all’esigenza dei
teologi tardomedievali di penetrare la loro fede in maniera
razionale.

3.1. La teologia co m e scienza

La tendenza alla scientifizzazione si manifestò già nel do­


dicesimo secolo con l’applicazione di concetti logici e gram­
maticali e l’adozione di metodi geometrici e grammaticali
nella teologia. Nel tredicesimo secolo acquistò sempre mag­
giore importanza l’ideale scientifico di Aristotele e nell’uni­
versità la teologia si conquistò un posto stabile come scien­
za, cosa che portò a un’impostazione della teologia forte­
mente determinata dall’insegnamento: a partire dalla metà
del Duecento i commenti alle S entenze divennero il canale
più importante per la trasmissione della tradizione teologi­
ca. Si cercò di arrivare a un linguaggio scientifico uniforme,
che fosse valido per tutte le scienze, sia per la teologia che
per la fisica e la metafisica. Lfn confronto tra la prova dell’e­
sistenza di Dio molto elaborata da un punto di vista siste­
matico nel D e p rim o p rin cip io di Duns Scoto e quella conte­
nuta nel P roslogion di Anseimo mostra il progresso della ri­
flessione teologica nel periodo compreso tra il dodicesimo e
il quattordicesimo secolo.

21
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

3.2. La ten sio n e tra filo so fia e teologia

Questo alto livello di riflessione non rappresentava


un’eccezione: ciascun teologo aveva un’approfondita prepa­
razione in logica acquisita tramite gli studi presso la facoltà
delle Arti o negli studia del suo Ordine. Ma questo sviluppo
aveva anche un rovescio della medaglia: a causa dell’appli­
cazione sistematica della fñosofia nella teologia e della sem­
pre maggiore specializzazione delle tecniche logiche e se­
mantiche che venivano utilizzate, gradualmente si affermò
una sempre maggiore consapevolezza della differenza tra la
scienza filosofica e quella teologica. La filosofia giungeva ad
altre conclusioni rispetto alla teologia, se si atteneva alle rigi­
de regole della sua scienza. L’oggetto delle due scienze era
differente e con esso anche i metodi e i risultati che poteva­
no essere raggiunti.
Tale tendenza a separare la filosofia e la teologia non era
però generale; esisteva anche una corrente contraria, che sot­
tolineava l’unità di filosofia e teologia, e in ciò si ispirava ge­
neralmente alla metafisica neoplatonica, come mostra l’opera
di Giovanni Wyclif. La tensione tra queste due correnti si fe­
ce sentire soprattutto dalla seconda metà del Trecento in poi
e diede il via al dibattito sul rapporto tra filosofia e teologia
così come verrà condotto in tutta Europa nel Cinquecento,
l’epoca dell’umanesimo e della riforma. In quel periodo tra
alcuni pensatori prese piede l’idea che la teologia fosse più
una scienza pratica che non teorica e che la sua ispirazione
andasse ricercata nella retorica piuttosto che nella logica. La
scolastica in quanto metodo continuò ad esistere, specie nelle
università, che rispetto alla struttura del curriculum erano
conservative e rimasero ancorate ancora per molto tempo alle
tradizioni più antiche. Ma essa perse la sua influenza sulla
cultura intellettuale del nuovo tempo, molto meno legata all’i­
stituto dell’università di quanto non lo fosse stata in passato.

22
La teologia a Oxford: quadro storico

3 3 . La fede e la ragione umana

Sebbene in questa esposizione la razionalità della teolo­


gia venga considerata una caratteristica importante della
scolastica medievale, ciò non vuol dire che tutti i teologi
avessero una concezione unanime in materia, al contrario: la
base comune della riflessione teologica era sì formata dalla
Sacra Scrittura e dalla Tradizione, ma le opinioni discorda­
vano sul modo in cui queste auctoritates dovessero essere in­
terpretate e su quale delle due fosse la più importante. Su
questo punto la scolastica medievale non si differenziava da
qualunque altro periodo della storia del cristianesimo. Tut­
tavia più importanti e più specificamente appartenenti al ca­
rattere proprio del pensiero tardomedievale erano le diffe­
renze che derivavano dal tentativo di penetrare il patrimo­
nio della fede con i mezzi della ragione umana. A questo
proposito si poneva la questione fin dove potesse e dovesse
spingersi la mente umana. Come pietra di paragone valeva­
no i misteri della fede della divina trinità e dell’incarnazio­
ne. Molti teologi erano dell’opinione che in questo caso non
si potesse andare oltre una descrizione ‘ragionevole’ di ciò
che insegnava la fede, ma Wyclif affermò che essi potevano
essere decifrati per mezzo della ragione umana. Oltre a ciò
venne ogni volta messa in discussione la qualità dei concetti
utilizzati per parlare di Dio. A questo proposito le opinioni
erano divise tra pensatori come Tommaso di Sutton, che
considerava tali concetti come prodotti della ragione uma­
na, e pensatori al pari di Scoto, secondo cui essi rispondeva­
no a caratteristiche proprie all’essenza divina. Riflettendo su
tali questioni il teologo entrava nel campo della metafisica;
doveva approfondire il rapporto tra essere e pensiero e i
confini della conoscenza umana, scegliendo così n o len s v o ­
len s un punto di vista in una serie di dibattiti che da lungo
tempo caratterizzavano l’attività filosofica. Qui si divisero

23
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

gli spiriti teologici e nacquero i grandi contrasti che contras­


segnarono il panorama della scolastica medievale.

4. I TEMI CENTRALI DI QUESTO LIBRO

La filosofia e la teologia sono strettamente connesse dal


punto di vista metodologico. Ciò vale per quasi tutti i campi
della teologia, sia pure in diversa misura. Il legame si evi­
denzia laddove il tema trattato costringe ñ teologo ad adot­
tare un preciso punto di vista metodologico. Nella dottrina
della pratica pastorale questo legame non ha dunque quasi
alcuna parte, mentre è molto più evidente nella dottrina su
Dio e nella dottrina sulla creazione. Se si vuole comprende­
re lo sfondo metodologico della teologia e quindi i diversi
aspetti del processo di scientifizzazione e penetrazione ra­
zionale del patrimonio teologico, ciò non può avvenire in
abstracto, bensì solo analizzando i dibattiti durante i quali
venivano discusse tematiche metodologiche.
Al centro di questa pubblicazione vi è l’evoluzione teolo­
gica presso l’università di Oxford. Lo spazio a disposizione
rende necessaria una scelta: i capitoli che seguono si limita­
no perciò solo ad alcune tematiche, che tuttavia sono state
centrali sufficientemente a lungo per fornire allo spettatore
moderno la comprensione degli svñuppi storici della teolo­
gia nella Oxford tardomedievale. Si tratta nello specifico dei
seguenti tre argomenti:

4.1. C oncetto e realtà

La discussione sul rapporto tra concetto e realtà ebbe un


ruolo centrale nei dibattiti sulla qualità delle idee divine e
degli attributi divini condotti nel periodo 1277-1372. I più
importanti partecipanti alla discussione furono Guglielmo

24
La teologia a Oxford: quadro storico

de la Mare, Eiccardo Knapwell, Duns Scoto, Tommaso di


Sutton, Guglielmo di Ockham, Adamo Wodeham, Roberto
Holcot, Giovanni Wyclif e Giovanni Kenningham.

4.2. Sem antica e teologia

L’appHcazione dei metodi semantici nella teologia, come


appena descritto, può essere ben illustrata dalla discussione
suUa prescienza divina del periodo 1277-1345. A questo
proposito saranno centrali le concezioni di Duns Scoto, Gu­
glielmo di Ockham, Tommaso Bradwardine e Tommaso
Buckingham.

4.3. Teologia e m etafisica

Giovanni Wyclif sviluppò nella sua opera i fondamenti


metafisici per un’esegesi che potesse tenere conto del testo
letterale delle Scritture. Le concezioni di Wyclif furono cri­
ticate da Giovanni Kenningham (1372) e Tommaso Netter
di Walden (1422). La discussione tra Giovanni Wyclif e
Giovanni Kenningham rappresentò l’avvio al dibattito quat­
trocentesco fra nominalisti e realisti.

Prima di approfondire queste tre tematiche, vogliamo


concludere questa introduzione con una breve panoramica
sulla storiografia della teologia a Oxford, che può servire
per orientarsi nella grande quantità di fonti sull’argomento.

5 . S t o r io g r a f ia

L’università di Oxford interessa già da lungo tempo la ri­


cerca moderna, cosa che ha portato a una vasta documenta­
zione sull’università, i suoi teologi e filosofi. E quasi impos­

25
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

sibile avere una visione d’insieme sul numero delle pubbli­


cazioni (Cordeaux & Merry 1968). All’interno di questa
enorme quantità si possono distinguere almeno due tipoio-1
gie di studi.

J.i. U università

In primo luogo vi sono gli studi storici che trattano degli |


aspetti istituzionali e pongono l’accento sull’organizzazione |
e sulla struttura dell’università, come il programma di studi, I
le varie funzioni presso l’università e il rapporto tra l’univer-1
sità e la città, i vescovi e il re (Green 1974, Leff 1968, Cob- ;
ban 1988 e 1999). Essi fanno luce suUe origini dell’univer- ì
sità neMa prima metà del dodicesimo secolo, suËa sua evolu­
zione a importante centro di studi nel tredicesimo e quattor­
dicesimo secolo e sull’avvento dell’umanesimo nel Quattro-
cento. A questo gruppo appartengono anche gH studi che
hanno come oggetto la storia dei singoli c o lleg es (College
1998), degli ordini religiosi (Sheehan 1984) e delle bibliote- ì
che per studenti e docenti (Parkes 1992). Una sintesi prov- ^
visoria si trova nella voluminosa H istory o f th è U niversity o j ]
O xford (Catto 1984, Catto & Evans 1992). Quest’opera in ■
più volumi analizza non solo gli aspetti istituzionali, ma an­
che i principali sviluppi nel campo della filosofìa e della teo- Í
logia.

5.2. Studi con ten u tistici

In secondo luogo vi è una grande quantità di studi dedi­


cati principalmente all’aspetto contenutistico delle scienze
insegnate a Oxford. Inizialmente l’accento era posto sul no­
minalismo e suUo scetticismo della prima metà del Trecento,
considerati le cause della decadenza della scolastica (Iserloh
1936, Michalski 1999). A questo proposito era perlopiù

26
La teologia a Oxford: quadro storico

centrale il pensiero di Guglielmo di Ockham, considerato Ü


massimo esponente del nominalismo in seguito portato
avanti e radicalizzato da pensatori come Adamo Wodeham
e Roberto Holcot. Gli studi di Boehner (1958), Oberman
(1967), Courtenay (1978, 1987), Gelber (1981, 1983) e Ta­
chau (1988) hanno attenuato questo quadro. Il pensiero di
Ockham non è scettico e non significa la fine della scolasti­
ca, ma testimonia del crescente influsso della logica nella
teologia. Adamo Wodeham e Roberto Holcot sono pensato­
ri autonomi, non allievi di Ockham. Essi si discostano da
Ockham in diversi punti e non costituiscono una scuola. La
vita intellettuale a Oxford è pluriforme e l’ambizione indivi­
duale del singolo studioso ha un peso maggiore che non l’a­
desione a una particolare scuola. Una pietra miliare nella ri­
cerca è costituita da Courtenay 1987; quest’opera analizza
non solo gH aspetti istituzionali, ma studia anche gH svÜuppi
contenutistici in campo filosofico e teologico.
La seconda metà del Trecento è molto meno approfon­
dita e l’anaHsi è incentrata in particolare su Giovanni Wy­
clif. Tuttavia questa limitazione è in parte superata poiché
egli viene studiato a partire da discipline molto diverse, co­
me la filosofia, la teologia, la storia della Chiesa e la lettera­
tura. Importanti contributi sono quelli di Robson (1961),
Kenny (1986), Hudson & Wilks (1987), WiUcs (1994).
Il Quattrocento a Oxford è un’epoca di cambiamenti. I
manuaH offrono una panoramica degli sviluppi nel campo
deUa filosofia e della teologia, che si evolvono in senso meno
scolastico e più umanistico. Inoltre viene dedicata attenzio­
ne al sempre maggiore influsso della corona sui vertici del­
l’università, al crescente interesse per gli autori classici e alla
carriera degli studenti al termine dei loro studi (Green
1974, Catto & Evans 1992, Walsh 1994). Questo quadro ge­
nerale è arricchito da studi sui pensatori che hanno avuto
un ruolo importante neHa vita inteUettuale a Oxford. L’inte­

27
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

resse è rivolto soprattutto a Reginaldo Pecock (Green 1945,


Patrouch 1970, Scase 1996), Tommaso Netter di Walden
(Dubois 1978, Smith 1983), Tommaso Claxton (Grabmann
1941, Riva 1989) e Giovanni Colet (Chatterjee 1974, Kauf­
man 1982, Gleason 1989). In questi studi l’accento è posto
in particolar modo sugli aspetti storici, letterari e di politica
ecclesiastica. Manca però tuttora una sintesi degli sviluppi
filosofici e teologici.

28
Capitolo secondo
C oncetto e realtà.
Il d is c o r s o t e o l o g ic o su D io

1. I n t r o d u z io n e

La teologia parla di Dio e si occupa così come ogni altra


scienza del rapporto tra concetto e realtà. Nella logica que­
sto rapporto è stato investigato nei commenti aW hagoge di
Porfirio, nella trattazione della qualità dei concetti generali
o universali (Libera 1996). Nella metafisica il rapporto tra
concetto e realtà ha avuto un ruolo importante nella discus­
sione sulla pluralità delle forme (Zavalloni 1951, Schneider
1973). Nella teologia tale rapporto è stato evidenziato nella
trattazione degli attributi divini e delle idee divine (Hoenen
1993). In questo ambito il problema si faceva ancora più
pressante, dal momento che l’essere divino veniva conside­
rato assolutamente uno e non vi era dunque spazio per una
molteplicità di attributi e idee. Eppure riferendosi a Dio
l’uomo usa una grande varietà di nomi: lo chiama «sapien­
te», «giusto» ed «eterno».

1.1. I l clim a storico

Sebbene fosse già stata affrontata da sant’Agostino, tale


questione venne di nuovo alla ribalta agli inizi del Duecento

29
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

con la traduzione latina del Dalalat al-Ha’irin di Maimonide


(WoHson 1976, 350-352). In quest’opera, che trattava diffu­
samente della qualità dei nomi divini, Maimonide difendeva
l’assoluta unità di Dio: in Dio non esiste alcuna molteplicità.
Una delle prime reazioni a tale idea fu quella del giovane
Tommaso d’Aquino, che aggiunse al suo già completato
C om m ento d elle S entenze un articolo particolare, in cui af­
frontava la problematica posta da Maimonide (Lemaigre
1966, 223). Secondo Tommaso il fondamento della distinzio­
ne fra i nomi divini non può essere ricercato solo al di fuori
di Dio, nella creatività della mente umana; deve esistere an­
che all’interno di Dio stesso un qualcosa in base a cui l’uomo
può utilizzare questi diversi nomi (iSn d2 q l a3). In seguito
Tommaso si fece più cauto e sottolineò soprattutto l’unità di
Dio. Così nella Summa th eo logia e afferma che in Dio va ne­
gata ogni distinzione e che la differenza tra gli attributi equi­
vale ai modi distinti in cui la creatura finita parla del Dio in­
finito (IS q3 a3 adì). Venne così sollevato un problema che
avrebbe occupato gli animi fino alla fine del Medioevo.

1.2. I l con trib u to in glese

Il culmine della discussione fu raggiunto nella prima


metà del Trecento. I teologi inglesi fornirono un importante
contributo a questo dibattito, anche se il loro ambito di la­
voro non era limitato all’Inghilterra: Guglielmo de la Mare,
Riccardo Knapwell, Tommaso di Sutton, Duns Scoto, Gu­
glielmo di Ockham, Adamo Wodeham, Roberto Holcot,
Giovanni Wyclif, per citare i più importanti.
Se si considera lo svolgimento del dibattito, risulta evi­
dente il significato storico di questo contributo inglese. La
discussione ebbe un ruolo centrale alla fine del Quattrocen­
to nella disputa fra nominalisti e realisti. Nella celebre apo­
logia dei nominalisti parigini nell’anno 1474 i realisti furono

30
Concetto e realtà. Il discorso teologico su Dio

accu sati di collocare le distinzioni concettuali, come quella


tra l’essenza divina e le sue caratteristiche, nella natura stes­
sa di Dio, laddove i nominalisti - a loro dire - continuavano
a sostenere la semplicità divina (Ehrle 1925, 322). Degno di
nota è il numero di teologi che nel corso del dibattito furo­
no chiamati in causa: Ockham, Wodeham e Holcot come
rappresentanti del nominalismo, mentre Giovanni Wyclif fu
considerato un sostenitore del realismo. Il fatto che correnti
di pensiero che assunsero una propria configurazione solo
nel Quattrocento si richiamassero, come a proprio fonda­
mento, principalmente a teologi inglesi del Trecento, dimo­
stra chiaramente l’importanza del secolo quattordicesimo
per lo sviluppo della problematica.

2 . F r an cescan i e d o m e n ic a n i

Cjià nel tredicesimo secolo la questione del rapporto tra


concetto e realtà era collegata aña discussione tra diverse
correnti nella teologia. Il problema era al centro dei dibattiti
tra pensatori domenicani e francescani e si presentò per la
prima volta nella cosiddetta disputa sui C orrectoria aüa fine
del Duecento, incentrata sull’ortodossia delle concezioni di
Tommaso d’Aquino (Hòdl 1991, 1448). Guglielmo de la
Mare, il francescano che avviò il dibattito accusando di er­
rore in 118 punti le concezioni di Tommaso nel suo C orrec-
torium fra tris Thom ae, veniva dall’Inghilterra (Kraml 1998,
174). Lo stesso valevà per gli autori di tre delle repliche do­
menicane al suo trattato, tra cui Riccardo Knapwell, che
scrisse la prima replica nel C orrectorium corru p torii Quare
(Kelley 1982, 9).
I punti dibattuti in questa disputa sono alquanto diversi
e difficÜmente riconducibili a un comune denominatore,
l ’uttavia, attraverso uno studio più approfondito, è possibile

31
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

constatare che su alcuni punti centrali la questione del rap­


porto tra concetto e realtà rivestiva un’importanza notevole.
Non si trattava solo del già citato problema della moltepli­
cità di forme; si voleva anche stabilire se le distinzioni che
l’uomo opera tra le diverse essenze si ritrovano nella realtà
anche come distinzioni nelle idee divine e se la distinzione
concettuale tra gen u s e sp ecies risponde a una reale distin­
zione nell’individuo. In generale si può affermare che il
francescano Guglielmo de la Mare era del parere che le dif­
ferenze essenziali operate dal pensiero coincidessero con
differenze essenziali nella realtà reale. La distinzione fra i
predicati essenziali «essere vivente» e «dotato di ragione»
risponde secondo lui a una distinzione tra forme essenziali o
sostanziali nell’uomo ed entrambe le forme hanno anche
un’idea a sé nel pensiero divino. I domenicani invece discor­
davano su questo punto: a loro parere non esisteva un paral­
lelo univoco tra pensiero ed essere. Le differenze essenziali
operate dal pensiero non rispecchiano necessariamente dif­
ferenze essenziali nella realtà.

2.1. G uglielm o de la M are OFM

La questione non è però così semplice, il rapporto tra


Tommaso d’Aquino e Guglielmo de la Mare è complesso. Il
C orrectorium di Guglielmo de la Mare con le sue obiezioni
contro Tommaso fu redatto probabilmente nel 1277 (His-
sette 1997, 6). Nel suo precedente C om m ento d elle Sentenze
non si faceva ancora cenno a tale critica; Tommaso era la
fonte principale, accanto a Bonaventura e Peckham. Inoltre
Guglielmo vi difendeva concezioni affini a quelle di Tom­
maso, anche rispetto alla dottrina degli attributi divini e del­
le idee divine. Il fondamento della distinzione tra gli attribu­
ti non risiede in Dio, così affermava, ma nelle creature che
da Dio sono generate. Quando l’uomo parla di Dio, egli si

32
Concetto e realtà. Il discorso teologico su Dio

basa necessariamente sulla creazione (poiché non può cono­


scere Dio direttamente) e utilizza così le cose che vede come
segni creati delle perfezioni divine. Tuttavia in Dio queste
perfezioni non differiscono in alcun modo le une dalle altre.
Esse possono essere distinte sola ratione, cioè solo dal pen­
siero dell’uomo (iSn d2 q2; ISn d22 q2).
Ciò coincideva con quanto aveva affermato Tommaso
nella sua Summa th eologia e: in Dio stesso non esiste alcuna
distinzione (IS q3 a3 adì). Le distinzioni vengono attribuite
a Dio dall’uomo sulla base di differenze nella creazione. Qui
nulla faceva ancora supporre che, come poi nel C orrecto­
rium, Guglielmo si basasse su un parallelismo tra pensiero
ed essere, come fecero i francescani dopo di lui, ad esempio
Francesco de Mayronis, che sotto l’influsso di Scoto difen­
deva la concezione secondo cui la distinzione tra gli attribu­
ti divini ha un suo fondamento formale e obiettivo in Dio
(iSn d8). Solamente il concetto di form alitas, che Gugliel­
mo utilizzò nel suo C om m ento alle Sentenze per indicare
che gli attributi in Dio esistono secondo la loro propria for­
ma iform aliter), puntava in quella direzione (ISn d2 q2).
Lo stesso può essere affermato per la dottrina delle idee.
Anche a questo proposito Guglielmo non sosteneva ancora
il punto di vista che in seguito caratterizzerà scotisti come
Giovanni da Ripa (iCon d35 qu al), convinti che la distin­
zione tra le idee divine fosse formale e obiettiva. Egli restava
in linea con Tommaso d’Aquino: la differenza tra le idee
coincide con i diversi modi in cui l’essenza divina può esse­
re rappresentata dalla creatura. L’essenza divina stessa è as­
solutamente una, e in essa non è possibile trovare alcuna di­
stinzione (ISn d35 q3).
Tuttavia Guglielmo non seguiva interamente Tommaso:
egli criticava la sua concezione secondo cui universali come
«essere vivente» o «umanità» non hanno idee proprie. Se­
condo Tommaso, Dio non ha bisogno di avere idee di uni­

33
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

versali, poiché nel creare gli individui concreti è già presup­


posta la conoscenza degli universali a ciò connessi. Per
Tommaso le creature concrete sono il punto di riferimento
per la distinzione tra le idee (QdVer q3 a8 ad2). Ma Gu­
glielmo la pensava diversamente: il punto di riferimento non
è la realtà creata, bensì il pensiero. Nel loro essere {esse) gli
universalia sono uguali alle creature concrete, ma non nella
loro conoscibilità. Per questo bisogna supporre in Dio idee
separate delle universalità (ISn d35 q6). Guglielmo trattò
diffusamente quest’ultimo punto nel C orrectorium .

2.1.2. La critica a Tommaso

Si ignora quale sia stata la causa precisa che ha spinto


Guglielmo a scrivere il C orrectorium . Ciò che si sa è che la
critica sfumata del C om m ento alle S entenze si era trasforma­
ta in violenta accusa. La teologia di Tommaso contiene erro­
ri e genera pericoli per la teologia, così sosteneva nel C orrec­
torium (Hoenen 1990, 45-46). L’opera metteva in discussio­
ne non l’applicazione della filosofia alla teologia, poiché an­
che lo stesso Guglielmo usava argomenti filosofici, ma i me­
todi seguiti e le fonti utilizzate (Kent 1995, 82-84). Egli af­
fermava ripetutamente che Tommaso aveva commesso erro­
ri in campo filosofico e che questi gli facevano commettere
errori nella teologia.

2.1.2.1. Le id ee d ivin e
Uno degli errori che Guglielmo sottolineava ogni volta
riguardava la concezione delle idee divine (Cor a4; ib a79;
ib a80; ib a81; ib a97). Per comprendere bene la critica di
Guglielmo dobbiamo prima di tutto analizzare brevemente
la concezione di Tommaso.
Tommaso considerava la distinzione tra le creature come
criterio per la distinzione tra le idee in Dio. L’essenza divina

34
Concetto e realtà. Il discorso teologico su Dio

è perfettamente una. Ma è anche infinita e contiene perciò


tutte le perfezioni che possono essere riprodotte dalle crea­
ture. Conoscendo la sua propria essenza, dunque, Dio co­
nosce tutte le possibili creature e sa in quale modo le creatu­
re possono partecipare alla sua essenza infinita (Geiger
1963, Boland 1996).
Se questa conoscenza riguarda le creature generate da
Dio, Tommaso parla di idee pratiche. Questo per lui era il
significato proprio del termine «idea», come sottolineò più
volte. Se invece si tratta solamente di possibili imitazioni, in­
dipendentemente dal fatto che esse possano esistere o me­
no, allora le idee sono teoriche. La molteplicità di idee esiste
così solo nel pensiero di Dio, non nell’essenza in quanto ta­
le. Le idee non precedono la conoscenza di Dio, bensì la se­
guono. Esse riguardano le creature in quanto queste ultime
vengono generate come sostanze individuali. Perciò Dio in
senso proprio, così afferma Tommaso, non ha idee separate
della materia, degli accidenti e del gen u s (ad esempio «esse­
re vivente»). L’idea della natura della creatura individuale è
sufficiente; tale idea contiene infatti tutto ciò che appartiene
alla creatura così com’è generata, non solo la materia e gli
accidenti, ma anche le caratteristiche generiche (1 S ql5;
iScG c53-54; QdVer q3 a8 ad2),

2.1.22. Idea ed essenza


l'ale posizione per Guglielmo era inaccettabile perché li­
mitava la potenza divina. Se Dio non ha idee pratiche degli
accidenti, allora gli accidenti non possono esistere indipen­
dentemente dal soggetto e la transustanziazione è impossibi­
le, il che è una conclusione eretica (Cor a4; ib aSO). Gugliel­
mo scelse dunque un’altra via: rigettò la distinzione tra idee
pratiche e teoriche definendola insensata. Le idee teoriche
divengono pratiche se abbinate alla volontà divina. Non per
questo cambia la natura dell’idea (ib aSl).

35
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

Inoltre egli utilizzò come criterio per la distinzione tra


le idee non la sostanza individuale della creatura, ma le es­
senze distinguibili pensando a tale sostanza. Tutto ciò che
può essere distinto dal pensiero divino come singola essen­
za, ha un’idea a sé stante in Dio. Il fondamento della distin­
zione risiede dunque nel pensiero divino, e non al di fuori
nelle creature. Perciò Dio ha idee separate della materia,
della forma e della composizione di entrambe. Dio ha an­
che idee a sé stanti dei generi, oltre che delle specie. Il g e ­
nus (essere vivente) ha infatti un’altra essenza rispetto alla
sp ecies (uomo), anche quando si tratta solo di un singolo
individuo (ib a80; ib aSl). L’uomo è come embrione solo
«essere vivente» prima di diventare un «essere vivente do­
tato di ragione» (ib a4).

2.1.23. Le ripercussioni
Le concezioni esposte da Guglielmo nel suo C orrecto­
rium ebbero una grande influenza, tra gli altri su Duns Sco­
to. Nei suoi R eportata Parisiensia Scoto criticò la distinzione
tomistica fra idee pratiche e teoriche e affermò che Dio ha
idee separate delle parti di una cosa (materia e forma) come
anche dell’insieme. Poiché la composizione di entrambe e
un ente a sé con una propria essenza, deve avere anche un’i­
dea a sé stante. Dio ha inoltre idee separate degli accidenti,
sia degli accidenti che esistono senza soggetto sia di quelli
retti da un soggetto (IKP d36 q4).
Duns Scoto conosceva la prima opera di Guglielmo de la
Mare. Nel suo commento alla M etafisica citò il C om m ento
alle S entenze del suo confratello (Etzkorn 1997, 478). A
quanto possiamo presumere, conosceva anche il C orrecto­
rium. Il capitolo generale dei francescani decise nel 1282
che la Summ a di Tommaso non poteva essere copiata, se
non comprendendo anche il C orrectorium . in ambiente
francescano venne assicurato l’influsso del C orrectorium ,

36
Concetto e realtà. Il discorso teologico su Dio

che si affermò come replica ufficiale a Tommaso (Roensch


1964, 15).

2.1.2.4. La natura d eg li ang


La questione del rapporto tra pensiero ed essere venne a
galla anche in altri punti della critica a Tommaso, e cioè ri­
spetto alla domanda se la distinzione tra. gen u s (il generale) e
differenza specifica (la caratteristica distintiva che definisce
ulteriormente il generale) esiste nella cosa in sé o solo nel
pensiero. L’argomento trattato era la natura degli angeli. Se­
condo Tommaso gli angeli non sono composti di materia (il
generale che viene definito) e forma (che definisce il genera­
le), perciò non vi è nulla nella natura degli angeli che ri­
sponda alla distinzione tra gen u s e differenza specifica (IS
q50 a2 adì).
Guglielmo de la Mare la pensava diversamente. A suo
parere non solo gli esseri terreni, ma anche gli angeli sono
composti da materia e forma, poiché altrimenti non si può
spiegare come gli angeli possano essere soggetti a qualcosa,
come la beatitudine o la dannazione. Essere soggetti a
qualcosa presuppone la presenza di una capacità passiva e
l’esistenza di una capacità passiva è indissolubilmente lega­
ta alla materia, che negli angeli non è estesa ma spirituale
(Cor aio).
A questa distinzione tra materia spirituale e forma corri­
sponde secondo Guglielmo de la Mare la distinzione tra g e ­
nus e differenza specifica, in cui l’aspetto generico è collega­
to alla materia e la differenza specifica alla forma. Insieme
determinano la natura specifica degli angeli. La distinzione
concettuale tra gen u s e differenza specifica ha dunque secon­
do Guglielmo de la Mare un fondamento reale nella distin­
zione tra materia e forma e non esiste solo nel pensiero uma­
no (ib a12). Con ciò Guglielmo de la Mare aveva di nuovo
evidenziato l’imperfezione della dottrina di Tommaso.

37
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

2.2. R iccardo K n a p w ell OP

La critica a Tommaso poté essere accettata in ambiente


francescano, ma presso i domenicani essa provocò una vio­
lenta reazione. La prima replica, Ü C orrectorium corruptorii
Quare, scritto nel 1279 da Riccardo Knapwell, difendeva il
pensiero di Tommaso (Kelley 1982, 18). Al centro vi erano i
punti confutati da Guglielmo de la Mare.

2.2.1. Idea e creatura

In linea con Tommaso, Riccardo Knapwell riteneva che


le creature generate da Dio come enti autonomi fossero il
criterio per la distinzione tra le idee. La materia non può
esistere a sé. Possedere una propria attualità è in contrad­
dizione con la potenzialità della materia. La materia non ha
dunque un’idea pratica a sé stante in Dio (CorQua a4). Lo
stesso vale per gli accidenti: essi possono esistere solo in
quanto retti da un soggetto. Dunque neanche questi hanno
idee pratiche separate in Dio. La conoscenza deüe idee se­
gue così la conoscenza delle creature. Le idee sono il modo
in cui Dio conosce la sua essenza come rappresentabile
dalle creature. La molteplicità non ha quindi alcun fonda­
mento nel pensiero stesso, ma solo in ciò a cui si pensa; la
creazione.

2.2.2. La distinzione tra concetto e realtà

Riccardo Knapwell era particolarmente critico sulla dot­


trina degli angeli di Guglielmo de la Mare. Egli definisce in­
venzione, frutto dell’incomprensione, il fatto che gli angeli -
oltre alla forma - contengano un qualcosa come la materia
spirituale. È impossibñe che la natura degli angeli possa es­
sere materiale. Il poter essere soggetti alla grazia o aña gloria

38
Concetto e realtà. Il discorso teologico su Dio

può facilmente essere chiarito in altro modo, ricorrendo alla


sola forma. In tal caso, infatti, si tratta di essere più o meno
perfetto e ciò è legato alla forma e al grado di essere a cui la
forma partecipa. L’angelo è quindi costituito da sola forma,
che partecipa in misura maggiore o minore all’essere. La di­
stinzione tra g en u s e differenza specifica che l’uomo fa rife­
rendosi agli angeli non ha dunque fondamento negli angeli
stessi, ma solo nel pensiero dell’uomo (CorQua alO; ib al2).

2.2.2.1. Lo sfon d o tom istico


1^0 sfondo tomistico di questa esposizione era evidenzia­
to da un riferimento al De esse et essentia, in cui Tommaso
affermava che gen u s e differenza specifica si riferiscono
sempre a un’unica cosa e che la distinzione esiste solo nel
modo in cui essi si riferiscono a tale cosa. Se i due termini
non si riferissero alla stessa cosa non potrebbero mai essere
attribuiti ad essa e non potrebbero nemmeno essere inseriti
insieme nella definizione della sp ecies (En c2-3). La distin­
zione tra i due non è perciò fondata su una differenza tra
nature separate nella cosa, ma riguarda la diEerenza fra due
concetti che si riferiscono entrambi alla cosa. Se ci si riferi­
sce alla cosa da un punto di vista generale, allora si parla di
genus. Se invece si tratta di una caratteristica particolare, al­
lora si parla di differenza specifica. La distinzione fra gen u s
e differenza specifica non comporta quindi l’esistenza di
ima distinzione nella cosa, ma solo di una distinzione nel
modo in cui la cosa viene conosciuta e in cui ad essa ci si ri­
ferisce. Pertanto, da tale distinzione concettuale non si deve
mai dedurre che una siffatta distinzione esista nella realtà
(CorQua al2).

2.2.2.2. P redicati essenziali


Anche in altre opere Riccardo Knapwell ribadì la distin­
zione fondamentale tra pensiero ed essere. Si tratta dunque

39
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

di una posizione che per lui aveva grande importanza. Nella


sua celebre Q uaestio disputata d e unitate fo r m a e evidenziò
che differenza e identità nei predicati essenziali non avevano
alcuna conseguenza su differenza e identità nella realtà. In
due punti egli si espresse con la massima chiarezza in pro­
posito: in entrambi i casi si tratta di una risposta all’argo­
mento secondo cui in una sostanza esisterebbero più forme
sostanziali. Contro questa posizione Riccardo Knapwell di­
fese l’unità della forma sostanziale, come fece anche nel Cor­
rectoriu m corru p torii Quare.
L’argomento più interessante dei difensori della moltepli­
cità di forme sostanziali era il seguente: il predicato identico
«essere vivente» nella proposizione p i «l’uomo è un essere
vivente» e nella proposizione p2 «il cavallo è un essere vi­
vente» rimanda all’esistenza di un’anima sensitiva separata
nell’uomo, che coincide con l’anima sensitiva del cavallo e
quindi differisce dall’anima intellettiva, che esiste solo nel­
l’uomo e non nel cavallo. Nell’uomo esistono quindi più for­
me sostanziali, così concludevano gli oppositori (QdUn, 52).
Nella sua replica Knapwell argomentò che il predicato
«essere vivente» identico nelle proposizioni p i e p2 non
comporta affatto l’esistenza di una forma identica nel caval­
lo e nell’uomo. L’unità non va ricercata nella realtà a cui ri­
manda il predicato, ma nel modo in cui ci si riferisce a que­
sta realtà. L’unità è concettuale, non reale. Anche se nell’uo­
mo e nel cavallo esiste un’uguale forza (virtus) che può esse­
re indicata con Htermine «essere vivente», questa forza nel­
l’uomo è connessa alla forma specifica «uomo» e nel cavallo
alla forma specifica «cavallo», ma esse differiscono tra loro.
Solo non considerando la specificazione particolare di en­
trambe le forme ci si può riferire all’uomo e al cavallo con lo
stesso predicato «essere vivente» (ib 82).
Lo stesso tema ritornava in un secondo argomento utiliz­
zato dai difensori della molteplicità di forme sostanziali. Se,

40
Concetto e realtà. Il discorso teologico su Dio

come fa Knapwell, si sostiene la dottrina dell’unità della for­


ma sostanziale, allora l’intero ordine della realtà - che si
esprime nel nesso reciproco dei predicati - è una finzione
intellettuale. Le dieci categorie di Aristotele non hanno
dunque più alcun valore reale; non sono che meri prodotti
della mente umana (ib 55).
Knapwell replicò portando questo argomento ad absur­
dum. L’ordine dei predicati che possono essere detti di una
cosa non rimanda a un ordine di forme reali nella cosa. In­
fatti nessuno ipotizza che ogni possibile predicato abbia
una forma sostanziale separata. I predicati di luogo, tempo
e qualità danno espressione al modo in cui l ’uomo ordina
la realtà. Ma non ogni predicato corrisponde a una natura
a sé stante nella realtà. Pensiero ed essere hanno ognuno
una dinamica propria e non possono essere confusi tra loro
(ib 92).

2.3. Il passaggio a una nuova fa se d e l dibattito

Ñeñe prime discussioni tra domenicani e francescani il


problema del rapporto tra concetto e realtà non veniva trat­
tato indipendentemente, bensì all’interno di una serie di al­
tre questioni. In parte ciò era dovuto alla mancanza di una
terminologia specifica. Le diverse posizioni erano chiare,
come si è visto, ma i fautori della concezione per cui tra
pensiero ed essere vi era una coincidenza che andava garan­
tita nella riflessione filosofica non avevano ancora trovato
dei concetti definiti per esprimere la loro convinzione. Si
parlava di «essenze», ma era un concetto troppo generale
per poterlo usare a sostegno di una convinzione ben specifi­
ca. Le cose cambiarono con l’opera di Scoto e con la sua
nozione di distinzione formale ex natura rei. Si giunse così
alla seconda fase del dibattito.

41
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

3. P ro e c o n t r o l a d ist in z io n e f o r m a l e

3.1. D uns S coto OFM

L’opera di Scoto è estremamente varia e difficile da ri­


condurre a un denominatore comune. Nonostante questa
versatilità, si può tuttavia affermare che in misura importan­
te essa è caratterizzata dallo sforzo di arrivare a una adegua­
ta formulazione filosofica del fatto che l’uomo può parlare
in diversi modi deU’unità dell’essenza divina. Questa ricerca
avvenne in maniera tanto convincente che la questione da
lui sollevata continuò a caratterizzare la discussione per il re­
sto del tempo, anche se la sua replica incontrò più critici che
sostenitori (Grajewski 1944, Wetter 1967, Gelber 1981).

3.1.1. Gli attributi divini

La convinzione di Scoto è espressa in modo esemplare


nella sua trattazione degli attributi divini. Egli non era sod­
disfatto della soluzione tomistica, che a suo parere portava
solo a una dichiarazione soggettiva del fatto che l’uomo par­
lando di Dio utilizza più predicati. Essa infatti collega la
molteplicità dei predicati esclusivamente alla limitatezza
della ragione umana. Se l’uso di diversi predicati è sensato
ed essi non sono sinonimi, ma hanno ciascuno il proprio si­
gnificato - così sosteneva Scoto -, allora dev’esserci un fon­
damento oggettivo per questa molteplicità, non solo nella
mente umana, ma anche in ciò a cui tali predicati si riferi­
scono, cioè in Dio stesso. Questa distinzione non può met­
tere in pericolo l’unità di Dio, ma deve però rendere conto
della molteplicità dei predicati che possono essere attribuiti
a questa essenza. Non può pertanto essere una distinzione
reale, poiché ciò esiste solo per le cose distinte realmente.
Non può nemmeno essere razionale, poiché una distinzione

42
Concetto e realtà. Il discorso teologico su Dio

razionale esiste solo nella mente umana. La distinzione ri­


cercata dev’essere tra la distinzione reale e quella razionale.
Non può essere un prodotto della mente umana. Deve es­
serle precedente ed esistere nella cosa stessa. La distinzione
è perciò ex natura rei, ma senza intaccare l ’unità reale di ciò
a cui si riferisce (lO rd d8 p i q4).
Scoto non fu il primo ad evidenziare l ’importanza di una
simile distinzione. In ambiente francescano vari teologi ave­
vano fatto riflessioni analoghe. Anche Tommaso nella sua
opera giovanile utilizzò una distinzione vicina a quella ricer­
cata da Scoto. La differenza tra gli attributi in Dio non deri­
va solo dall’uomo che pensa a Dio {ex pa rte ratiocinantis),
così diceva Tommaso, ma esiste anche in Dio stesso {ex p ro ­
prietate ipsius rei), una posizione che egH in seguito avrebbe
abbandonato (iSn d2 q l a2).

3.1.2. L’obiettività del conoscere

Sebbene si potesse parlare di un precedente, in Scoto la


distinzione ex natura rei acquistò una posizione chiara in un
sistema metafisico complessivo. Le distinzioni che l’uomo
incontra quando riflette sulla realtà hanno un carattere ge­
nerale. Esse non sono il prodotto del pensiero umano, ma
sono obiettive. Ciascun pensiero che riflette sulla realtà deve
attenersi a queste distinzioni se non vuole cadere in con­
traddizione. Esse sono fondate suUe essenze o formalità del­
le cose e sono in quanto tali irriducibili. E come se formas­
sero gli atomi metafisici della realtà. La definizione di «sa­
pienza» è diversa da quella di «bontà»; ciò vale per l’uomo
così come per Dio. Per questo l ’affermazione «La sapienza
divina non è la bontà divina» è vera, chiunque sia a pensarla
o a pronunciarla (1 Ord dS p i q4).
La distinzione tra le definizioni o quiddità di «bontà» e
«sapienza» è assoluta e irriducibile, se si considera solo il

43
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

contenuto formale o concettuale. Se però «bontà» e «sa­


pienza» non vengono considerate da un punto di vista for­
male, come quiddità, ma in base alla modalità di esistenza,
allora la questione cambia. Esse in Dio esistono in modo in­
finito, dal momento che Dio è infinito. Infinito vuol dire
senza confini e privo di mancanze. Se in Dio le perfezioni
sono senza confini, esse sono allora identiche per quanto ri­
guarda la loro esistenza. Ciò significa che in Dio le diverse
quiddità possono essere predicate le une delle altre, sebbe­
ne non siano formalmente identiche (ib).
Ciò vale solo a proposito di Dio, in cui le perfezioni esi­
stono in modo infinito. Nelle perfezioni create ciò è impos­
sibile. Esse possono solamente coincidere in una terza cosa,
ad esempio nell’uomo concreto, che funge da portatore del­
le diverse perfezioni. Su questo punto secondo Scoto c’è
una differenza tra l’unità delle quiddità nel Dio infinito e
nella creatura finita. Le quiddità «essere vivente» e «dotato
di ragione» sono identiche in quanto entrambe possono es­
sere predicate deU’«uomo», Se considerate a sé, come quid­
dità astratte, la loro identità decade. In «essere vivente» non
vi è niente di «dotato di ragione». L’affermazione «L’uomo è
un essere vivente dotato di ragione» è vera, ma «Essere vi­
vente è dotato di ragione» no (ib).

3.L3. Tra unità e molteplicità

Come risulta chiaro, la problematica delle diverse quid­


dità ex natura rei si trova tra due poli: quello dell’unità e
quello della molteplicità. Questa tensione era presente an­
che nella terminologia utilizzata da Scoto. A volte parlava di
una distinzione formale, a volte di non-identità formale. L’e­
voluzione dei suoi scritti mostra anche che egli a volte sotto­
lineava la distinzione, a volte l’unità; ciò soprattutto in rea­
zione alla critica che con la sua distinzione formale egli met­

44
Concetto e realtà. Il discorso teologico su Dio

teva in pericolo l’unità divina (Wetter 1967, 74; Gelber


1981, 101).
Tale critica a Oxford non era limitata ai domenicani, ma
veniva anche dalla sua stessa fazione francescana. I critici
francescani più famosi furono Ockham e Wodeham. Specie
la critica di quest’ultimo ebbe ripercussioni fuori da Ox­
ford; è dimostrabile l’influenza di Wodeham su Marsilio di
Inghen (Hoenen 1993, 56-61). Anche se dalla prospettiva
moderna è difficile immaginarselo, la critica nominalistica di
Ockham e Wodeham fu anticipata dagli attacchi dei tomisti
a Scoto. Entrambe le correnti si basavano sulla stessa pre­
messa filosofica e sulla stessa metodologia filosofica, giun­
gendo anche a un’analoga conclusione: la distinzione forma­
le implica una distinzione reale.

3.2. Tom maso d i Sutton OP

Per la critica tomistica può servire da esempio l’opera


più tarda di Tommaso di Sutton. Questo domenicano di
Oxford è autore di scritti polemici contro Duns Scoto e Ro­
berto Cowton, in cui difendeva la dottrina di Tommaso
d’Aquino. Anche nel suo terzo e quarto Q uodlibet, in cui
criticava Scoto, egli seguì la linea di Tommaso d’Aquino.
Nella dottrina degli attributi si riallacciò alla concezione
esposta da Tommaso nella Sum m a th eo lo gia e (Schneider
1977 e 1978).
Secondo Tommaso di Sutton la creazione di una distin­
zione tra attributi è una questione puramente umana. Se
non esistessero gH uomini non esisterebbero nemmeno di­
stinzioni tra gli attributi divini. La ragione umana è limitata
e per conoscere Dio si basa sulla creazione. L’uomo utilizza
le perfezioni che vi incontra per esprimere concettualmente
l’infinita perfezione di Dio. Ma la differenza tra le perfezio­
ni create non esiste in alcun modo in Dio. Se tuttavia, per

45
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

dare un fondamento oggettivo alla molteplicità dei predica­


ti, si ipotizza una distinzione in Dio, allora - così affermava
Sutton - si commettono errori madornali {erronea e t in tole­
rabilia) ql, 340).

3.2.1. Enti reali e razionali

Sutton giunse a questa conclusione inflessibile sulla base


di due argomenti, in seguito utilizzati anche da Ockham. Il
primo argomento è ontologico e afferma che la realtà è co­
stituita solo da due tipi di enti: reali e razionali. Ogni distin­
zione è perciò reale o razionale, senza vie di mezzo. Le di­
stinzioni fatte esclusivamente dal pensiero sono razionali; se
invece sono indipendenti dal pensiero, allora sono reali. Se
dunque gli attributi sono distinti ex natura rei, come sostie­
ne Scoto, allora sono necessariamente distinti in modo reale,
ognuno con un’essenza propria. In questo caso Dio non è
pili realmente uno, né coincide più con i suoi attributi, poi­
ché ciò che è formato da più cose realmente distinte non è
nessuna di tali cose. Dio allora non è più la sua sapienza e la
sua bontà, ma ha solamente parte in esse. Quest’ultima af­
fermazione è ovviamente assurda, perché come può il prin­
cipio primo infinito dipendere da un qualcosa di posteriore
e finito (3Q1 ql, 340)?
Il secondo argomento mostra la strategia semantica d
Sutton. Ciò che può essere detto delle cose, così sosteneva,
si applica anche alla distinzione tra tali cose. La distinzione
è infatti realmente identica alle cose. Se perciò in Dio esiste
la distinzione tra gli attributi e gli attributi in Dio sono infi­
niti, ne consegue che anche la distinzione tra gli attributi è
infinita, e quindi è impossibile che essi formino un’unità. In­
fatti in tal caso non sarebbe pensabile una distinzione più
grande. In questo modo la distinzione tra gli attributi divini
sarebbe in effetti più grande di qualunque altra distinzione

46
Concetto e realtà. Il discorso teologico su Dio

all’interno della creazione. Se si vogliono evitare queste con­


clusioni assurde, bisogna partire dal presupposto che la di­
stinzione tra gli attributi divini esista solo e unicamente nel­
la mente umana e non indichi in alcun modo una distinzio­
ne ex natura rei in Dio stesso (ib 341).
Sutton sapeva che l’uomo ha la tendenza a proiettare di­
stinzioni concettuali sulla realtà e per questo formulò la sua
tesi in modo ancor più generale, applicato ad altri esempi; la
distinzione tra gen u s e differenza specifica esiste solo a livel­
lo concettuale, non nella cosa (Schneider 1978, 54), E la dif­
ferenza tra «inizio» e «fine» nel punto che collega due por­
zioni di retta esiste solo nell’intelletto, non nel punto stesso
(3Q lql,345).

3.3. G uglielm o d i Ockham OFM

Alcuni anni dopo Ockham, nella sua critica a Scoto, si


fece guidare da considerazioni analoghe, È difficile stabilire
se sia stato influenzato direttamente da Sutton. Gli argo­
menti che compaiono in Sutton erano stati evidenziati an­
che da altri autori, ad esempio dall’anonimo del L iher pro-
pugnatorius (iSn d8 q5). La critica alla distinzione formale
era generale e rientrava nel dibattito sulla dottrina di Scoto,
che peraltro non era limitata a Oxford, ma aveva un ruolo
importante anche a Parigi. Nella sua discussione con Pietro
Roger, Francesco de Mayronis osservò che U dibattito sui
concetti formali {rationes fo rm a les) dominava in gran parte
la teologia del suo tempo (Barbet 1968, 23).
Se ci soffermiamo su Ockham è a causa della violenza
con cui criticò la distinzione e per il giudizio severo che
espresse contro i sostenitori di questa posizione. Egli restò
ancorato alla dicotomia fondamentale tra cosa {res) e con­
cetto {ratio) e non accettava alcuna distinzione formale né in
Dio né nel mondo creato, ad eccezione della trinità (2SL c2.

47
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

254). Ammettere tale distinzione, così sosteneva, porta a


una negazione dell’unità divina e a contraddizioni. Egli rim­
proverò ai sostenitori di questa dottrina una mancanza di
conoscenza logica.

3 . 3 . 1 . G li u n iv e rsa li

Ockham criticò la distinzione formale, così come l’aveva


formulata Scoto, soprattutto rispetto a due argomenti: la
dottrina degli universali e la dottrina degli attributi. Nella
prima Scoto introdusse la distinzione formale per preservare
la distinzione tra specie e individuo, come ad esempio la dif­
ferenza tra «uomo» e «quest’uomo». Secondo Scoto tale di­
stinzione non è puramente concettuale, ma ha nella cosa un
fondamento indipendente dal pensiero. La natura è identica
in tutti i singoli uomini, ma in ciascuno di essi viene perso­
nalizzata in modo differente da una particolare caratteristica
individuale {differentia individualis) (2 0 r d p l ql-6).
Questo per Ockham costituiva un grande problema: una
stessa cosa non può essere al contempo generale e particola­
re. Ed è proprio ciò che Scoto afferma quando sostiene che
la natura generale e la dijferen tia individualis coincidono
nell’individuo. Così facendo Scoto pecca contro le più ele­
mentari regole della logica. Tutti sono convinti, così prose­
gue Ockham, che se A è uguale a B e A è uguale a C, B è
uguale a C. E se A è uguale a B ma non a C, allora B non è
uguale a C. La conclusione è che Scoto, sostenendo che la
natura generale e la caratteristica individuale coincidono
nell’individuo, ma non sono uguali, fa un’affermazione as­
surda (ISL c l6 ,56).
Secondo Ockham la natura umana di un individuo è per
sé distinta dalla natura umana di un altro individuo. Non è
necessario supporre una dijferen tia individualis indipenden­
te dal pensiero (ib 54-55). Gli universali dei concetti non in­

48
Concetto e realtà. Il discorso teologico su Dio

dicano universali nella realtà. Questi universali esistono solo


al livello della significatio, non a quello del significatum (ib
cl4,48).

3.3.2. La dottrina degli attributi

La convinzione filosofica da cui Ockham partì per for­


mulare la sua critica alla dottrina degli universalia di Scoto
si fece sentire anche nel dibattito sugli attributi divini. C’è
una distinzione fondamentale tra l’ordine del pensiero e
l’ordine della realtà, così sosteneva Ockham. Se gli attributi
vengono concepiti come perfezioni in Dio, allora coincido­
no pienamente con l ’essenza divina e non si può parlare in
alcun modo di una molteplicità. Infatti l’essenza divina è
perfettamente una. Se invece vengono concepiti come pre­
dicati che l’uomo attribuisce a Dio, allora essi esistono come
concetti nella mente umana e possono tranquillamente esse­
re molteplici. La pluralità esiste nella mente umana e non in
Dio (iSn d2 q2, 61-62).
L’ordine del pensiero e quello della realtà, secondo
Ockham, hanno ognuno una propria dinamica e non posso­
no essere confusi tra loro. Tutto ciò che appartiene alla
realtà delle cose, ne mostra le caratteristiche. Se nel mondo
delle cose si riscontra una distinzione, allora essa è necessa­
riamente una distinzione tra cose. Supporre in Dio una tale
distinzione indipendente dal pensiero, implica dunque in
Dio una molteplicità di cose, che è in contrasto con l’unità
di Dio (ib ql, 14-15).
Come è noto, Ockham aveva modificato nel corso del
tempo la sua concezione della qualità ontologica dei concetti
umani. Inizialmente ad essi attribuiva solamente l’essere-co-
nosciuto o Tessere-razionale, in seguito li considerò come ca­
ratteristiche reali della mente. Questa differenza di concezio­
ne ebbe la sua ripercussione suUa dottrina degli attributi

49
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

(McCord Adams 1976, 24-25), e portò a conseguenze chel


possono essere facilmente mal interpretate. Se i concetti so- 5
no caratteristiche reali della mente, allora essi sono realmen-1
te distinti e di conseguenza gli attributi divini sono realmente 1
differenti, non in Dio, ma nella mente umana. Nei Quodlibe-à
ta S eptem , una delle sue opere accademiche più tarde, egli f
sostenne inoltre che gH attributi differiscono come nomi at- ?
tributivi al contempo realmente e razionalmente: realmente!
perché ogni attributo come singolo atto conoscitivo è unaa
realtà neHa mente; razionalmente perché ogni attributo ha i
una diversa definizione. «Differenze razionali», allora, non
significa più differenze in base aHa qualità ontologica di ente -
conosciuto (come da lui sostenuto in precedenza), ma in ba­
se aUa ratio espressa daU’atto conoscitivo (3Q1 q2 , 209).
Nel periodo successivo a Ockham si vede chiaramente
che ñ dibattito a Oxford non era più coUegato alla disputa
tra domenicani e francescani. Nel corso del quattordicesimo
secolo perse il suo legame originario con i due Ordini; sia da
parte dei domenicani che dei francescani continuavano a ve­
nire nuove repliche alla distinzione formale di Scoto. A que­
sto proposito meritano un’attenzione particolare due teolo­
gi; Adamo Wodeham e Roberto Holcot, entrambi importan­
ti per una giusta comprensione degH sviluppi successivi.-

3.4. A damo W odeham OFM

L’opera di Adamo Wodeham mostra chiaramente le trac­


ce del pensiero di Guglielmo di Ockham. Ciò nonostante
Wodeham era un pensatore indipendente, la cui O rdinatio
ox oniensis esercitò una grande influenza, non solo nella sua
forma originale, ma anche nella compilazione redatta in se­
guito da Enrico di Oyta (Courtenay 1978). Egli per noi è
importante poiché concepisce la teoria scotista della distin­
zione formale come una rinascita del platonismo, che in se­

50
Concetto e realtà. Il discorso teologico su Dio

guito sarebbe divenuto un tema centrale. La critica di Wo-


deham presenta infatti una somiglianza sorprendente con il
cosiddetto argomento del terzo uomo che Aristotele aveva
introdotto contro Platone nella sua M etafisica (990bl7). Se­
condo Wodeham supporre una distinzione formale porta a
una serie infinita. La sua argomentazione è dettagliata, ma è
riconducibile al fatto che quando ogni differenza formale si
basa su una distinzione formale, e la formalità «umanità» o
«sapienza» differisce formalmente dalla realtà uomo o Dio a
cui appartiene, è necessario supporre una terza formalità
per spiegare la differenza formale tra la formalità e la cosa.
Q uesta terza formalità differisce però formalmente dalla
formalità «sapienza» o «umanità» e dalla cosa. Per chiarire
tale distinzione bisogna nuovamente ricorrere a una nuova
formalità, e così via all’infinito (lO rd d6 q l, fol. 72rb).

3.4.1. L’unità divina

Wodeham scelse perciò un’altra via, presupponendo una


netta separazione tra l’ordine reale e concettuale, in ogni ca­
so nel discorso su Dio. Dio è perfettamente uno. I concetti
che l’uomo utilizza per parlare di Dio si riferiscono perciò
tutti aña stessa cosa. Pertanto non differiscono rispetto aña
cosa che viene significata. Eppure questi concetti non sono
sinonimi: essi differiscono nel modo in cui viene significata
l’essenza divina. L argomento addotto da Wodeham assomi-
gUava a queño dei tomisti. Il contenuto dei concetti risale al­
la creazione, che non è una, ma è composta da una grande
quantità di individui. Quando questi concetti vengono ap­
plicati añe creature, añora possono riferirsi a diverse cose.
Ma in Dio tutte le perfezioni esistono nella maniera più per­
fetta e coincidono perciò con la sua essenza. Ciò che è sepa­
rato neña creazione, è uno in Dio. Se parlando di Dio ci si
basa sulle differenze tra le creature, presumendo che queste

51
A Oxford; dibattiti teologici nel tardo Medioevo

differenze abbiano un fondamento anche in Dio, allora sii


commette un errore logico; si scambia il modo di significare <
con il modo di esistere. Wodeham mette in ridicolo anche il
vocabolario dei sostenitori della distinzione formale; essi ’
parlano di formalità, perfezioni, rationes formali, m od i reali,
quiddità, come se non sapessero di cosa parlano (lO rd d6
ql, fol. 72ra-rb).

3.5. R ob erto H olcot OP

Con Roberto Holcot si profilò un’altra linea. Egli seguì


le orme dei critici della distinzione formale, ma con una rie­
laborazione personale. Holcot investigò le conseguenze logi­
che e adeguò a ciò la sua terminologia, una strada che intra­
prese anche in altri campi e che in seguito gli procurò criti­
che da parte di teologi più cauti come MarsiHo di Inghen, i
quali temevano che il suo uso costante del linguaggio logico
avrebbe potuto generare confusione e portare a errori (iSn
q45 a2, fol. 191va-vb).
Per Holcot parlare di attributi significa parlare di lingua.
La parola ‘attributo’ è una parola di metalinguaggio, un ter­
mine di seconda intenzione, sta per nomi e concetti che
l’uomo utilizza per parlare di Dio e della creazione. Perfe­
zioni essenzialmente attributive come sapienza e giustizia
vengono da lui descritte come parole (attributi) che signifi­
cano perfezioni e che possono essere predicate di termini
che significano l’essenza divina. Infatti si possono solo attri­
buire parole alle parole, e non parole alle cose. A Dio stesso
non può essere attribuito nuUa, poiché ciò è in contrasto
con la sua immutabilità (Ql, 55-56).

3.5.1. Teologia e logica

L’aspetto linguistico fu evidenziato nelle tesi che egli di­

52
Concetto e realtà. Il discorso teologico su Dio

fese in uno dei suoi Q uodlibeta e che a prima vista sono sor­
prendenti, perché sembrano andare radicalmente contro la
tradizione. Egli sosteneva che nessun attributo è una perfe­
zione e che nessun attributo è uguale all’essenza divina. La
motivazione del suo punto di vista è di ordine logico, e cioè
che le parole e i concetti non sono perfezioni e non sono
uguali a Dio. E ciò che vale per le parole, vale anche per gii
attributi (Ql, 57). Per la stessa ragione gli attributi possono
differire realmente, pur essendo uguali razionalmente. Ciò
accade, ad esempio, se lo stesso attributo viene pronunciato
in due lingue diverse. La ratio o definizione di entrambi è la
stessa; sotto questo aspetto sono uguali razionalmente. Ma
vengono pronunciati come due parole diverse e in questo
senso differiscono realmente (ib 58).
Sorprendente è la sua interpretazione dell’affermazione
«L’essenza divina e la bontà divina sono una cosa sola».
Questa affermazione è a suo dire non vera, se ci si basa sulle
regole della grammatica e della logica. Egli giunse a tale
conclusione non perché sostenesse la distinzione formale (a
suo parere non c’è via di mezzo tra la distinzione razionale e
quella reale), ma perché due termini singolari con un verbo
al plurale stanno sempre per due cose e non per una sola (ib
60-61).

3.6. I l passaggio aWultim a fa s e d e l dibattito a O xford

Affermazioni come quella appena citata, che considerate


dal punto di vista del contenuto possono essere difese logi­
camente - ma che per il resto sono diametralmente opposte
alla tradizione teologica - , non erano insolite nella teologia
della prima metà del Trecento. La difesa di tesi del genere si
inseriva nell’ambito della scientifizzazione della teologia, un
processo che aveva già un lungo passato, ma che in quell’e­
poca raggiunse il suo culmine logico. Si arrivava sempre piii

53
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

alla conclusione che il linguaggio scientifico della teologia


non sempre corrispondeva al linguaggio tradizionale. Ini­
zialmente questo non portò alcuna complicazione. La ricer­
ca di una formulazione logicamente corretta del problema
era vista come un progresso necessario nella teologia. Que­
sto è il caso di Holcot (Hoffmann 1971). Ma gradualmente
vi furono delle obiezioni e ü vento girò. La teologia di Wy­
clif ebbe in questo cambiamento un ruolo preponderante. E
così arriviamo all’ultima fase del dibattito inglese sul rap­
porto tra concetto e realtà.

4. La d ist in zio n e f o r m a l e c o m e errore

4.1. G iovanni W yclif

Nell’opera di Giovanni Wyclif la distinzione formale oc­


cupa un posto fondamentale, sia nella fñosofia che neña teo­
logia (Conti 1997). In questa sede non sarebbe possibÜe ap­
profondire l ’ambito da cui prese spunto la sua concezione e
analizzare ulteriormente la distinzione formale in tutte le di­
verse appKcazioni, Molti aspetti sono ancora poco chiari e
solo recentemente si è riusciti a comprendere meglio l’im­
portanza di Wyclif neñ’evoluzione deña filosofia e deña teo­
logia tardomedievali. Con la sua distinzione formale, Wyclif
si ricoñegó aña dottrina di Scoto. Il suo realismo non era
una mosca bianca in una Oxford essenzialmente nominali­
sta, ma faceva parte di una tendenza generale che si affermò
a partire daña metà del Trecento (Conti 1990).
Secondo Wyclif nel singolo individuo esistono universali
come «uomo» ed «essere vivente» e coincidono realmente
con esso, così come aveva sostenuto anche Scoto. Sono le
verità o forme per cui ogni uomo è formalmente un essere
vivente e un uomo. Queste forme appartengono a ciascun

54
Concetto e realtà. Il discorso teologico su Dio

individuo umano. In questo senso l’universale è individuale


e viceversa. Ma siccome l’universale ha una serie di caratte­
ristiche che non appartengono alla cosa individuale, ad
esempio il fatto che può essere predicato di piii cose, l’uni­
versale è formalmente distinto dall’individuale (TUn c5, 91-
92). A suo dire Wyclif tentò in questo modo di trovare una
via di mezzo tra la dottrina di Tommaso d’Aquino, per cui
tutte le sostanze sono individuali, e quella di Gualtiero Bur­
leigh, secondo cui l’universale è distinto dal singolare (ib c4,
86-87).
In base alla convinzione di Wyclif, alle diverse maniere
in cui l’uomo può essere considerato corrispondono nella
realtà diverse formalità reali. Egli cercava la prova di ciò nel
pensiero immutabile e necessario di Dio: non può essere
che Dio conosca qualcosa, senza che la cosa conosciuta ab­
bia una forma adeguata di essere. Dio conosce la creazione
non solo nel suo aspetto individuale, «che q u e s f u o m o è»,
ma anche sotto il suo aspetto generale, «che Yuomo è», «che
Xessere v iv en te è». Se Dio non conoscesse la creazione an­
che nella sua universalità, allora egli non avrebbe una cono­
scenza completa delle cose, il che è inammissibile. Questi
oggetti conoscitivi generali devono dunque avere un pro­
prio essere in Dio, un esse in telligibile, eterno, necessario e
immutabile (ib c7, 146-149; EZ 1, 463-464).
Gli universali esistono perciò non solo come forma nelle
creature, ma anche come idea nella mente di Dio. Il pensie­
ro divino funge da garanzia per la verità e l’obiettività della
conoscenza astratta che l ’uomo ha della realtà. L’ordine ge­
rarchico della creazione, che si esprime nell’ordine logico
dei predicati universali, è generato dal pensiero divino e
può essere ripercorso dal pensiero umano, quando l’uomo
concepisce affermazioni generali sulla realtà. La conoscen­
za della realtà porta così alla conoscenza di Dio (TUn c7,
126-128).

55
A O xford; dibattiti teologici nel tardo M edioevo

4.2. G iovanni K en n in gh am OCARM

La prima critica fondamentale a Wyclif venne da parte ■


di Giovanni Kenningham, carmelitano e d o cto r all’università
di Oxford. Essa è giunta fino a noi in una serie di Determi- ;
n ation es in cui Kenningham e Wyclif diedero il via alla di­
sputa. Queste D eterm in ationes risalgono al 1371 circa e mo­
strano il crescente inasprimento delle posizioni. Inizialmen­
te il tono era cameratesco, ma con l’avanzare del dibattito “
un amaro sarcasmo prese il sopravvento da entrambe le par­
ti (Hoenen 1999).
Di grande interesse storico è Ü fatto che Kenningham ac­
cusò di eresia la dottrina di Wyclif. Ebbe così inizio un pro­
cesso che raggiunse un culmine provvisorio nel 1380 e 1382,
anni in cui furono condannate una serie di tesi di Wyclif
(Dahmus 1952; Wilks 1994). Sebbene le obiezioni vere e
proprie contro Wyclif si limitassero soprattutto all’ambito
dei sacramenti e della politica ecclesiastica, Kenningham de­
finì «pericolosa» anche la dottrina deUe idee divine (FZ 3,
51). In seguito questo aspetto fu ripreso da Giovanni Ger-
sone nella critica ai cosiddetti form aliz an tes, tra cui egli in­
cludeva anche Giovanni Hus e Gerolamo di Praga, che nel­
la loro dottrina degli universali si erano ricollegati a Wyclif
(Kaluza 1988).
Gli effetti di questa critica non furono insignificanti. Al
concilio di Costanza Pietro d’AiUy cercò di dimostrare che la
dottrina realistica degli universali di Hus era strettamente
collegata alla dottrina eretica dell’eucaristia di Wyclif. Hus lo
negò, come anche negò di aver difeso la dottrina dell’eucari­
stia di Wyclif. Ma non potè combattere la convinzione diffu­
sa che esisteva un legame effettivo. La sua negazione fu inter­
pretata come conferma della sua inaffidabiHtà e Hus fu con­
dannato (DJH 1966, 276-278). Con ciò il realismo e la dot­
trina della distinzione formale caddero ufficialmente in so­

56
Concetto e realtà. Il discorso teologico su Dio

spetto di eresia: nel 1425 gli Elettori tedeschi rivolsero all’u­


niversità di Colonia la richiesta di sostenere il nominalismo
con l’argomento che il realismo conduce faciknente all’erro­
re, come aveva dimostrato ü caso di Hus (Ehrle 1925, 282).

4.2.1. La critica a Platone e a sant’Agostino

Ma torniamo a Oxford, da cui partirono questi svñuppi.


Neña sua D eterm inatio Kenningham rigettò lo status ontolo­
gico degli oggetti deña conoscenza divina, come concepito
da Wyclif. Secondo Kenningham gli oggetti conosciuti da
Dio non hanno affatto un proprio essere. Hanno solo un es­
sere-conosciuto, che non differisce in nuña dañ’essere divi­
no. La postulazione di idee formalmente distinte dall’essen­
za divina, ognuna con un proprio esse essen tiae, implicava
secondo Kenningham l’esistenza di cose eterne, distinte da
Dio, così come faceva un’eresia che era stata condannata
(FZ 3,51). Aña repHca di Wyclif, secondo cui egñ in questo
modo si opponeva añ’autoritá di sant’Agostino, ñ quale am­
metteva l’esistenza di una molteplicità di idee, Kenningham
rispose che proprio a proposito deñe idee non bisognava se­
guire sant’Agostino. Qui Agostino parlava da platonico e di
conseguenza interpretava le Scritture, mentre le Scritture
stesse non parlano di idee. Gli antichi fñosofi, infatti, parla­
no spesso di forme conoscitive, laddove invece intendono
cose: un linguaggio che poteva portare facilmente a frain­
tendimenti e perciò non andava seguito (FZ 4, 82). Le crea­
ture che Dio conosce non sono altro che le creature stesse.
Se in questo caso si parla di idee, ciascuna con un proprio
essere, añora si confondono conoscere ed essere e si cade
neñ’errore (ib 86).
Kenningham definì la dottrina deña distinzione formale
una forma di platonismo e così la classificò come dottrina
con una visione inesatta del rapporto tra concetto e realtà.

57
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

Ovviamente il dibattito non finì qui. Proprio alla fine del


Medioevo ci fu un rafforzamento del realismo, non solo a
Oxford, ma anche sul continente. Insieme a questo svñuppo =
ci fu una rinascita del neoplatonismo in pensatori come Ni.
colò Cusano ed Eimerico da Campo. Un importante centro
di questa evoluzione fu l’università di Colonia. Così il bari­
centro della discussione si spostò sul continente.

58
Capitolo terzo
S e m a n t ic a e t e o l o g ia .
Il p r o b l e m a d e l sa pe r e d iv in o

1. I n t r o d u z io n e

La teologia del tardo Medioevo è caratterizzata dal fre­


quente utilizzo della logica, che non è limitato all’analisi di
questioni di teologia naturale, ma si estende anche alla trat­
tazione dei misteri della fede quali la trinità e l’incarnazione.
A questo proposito ha un ruolo importante l’opera di Ari­
stotele, in particolare gli A nalytica posteriora, che furono
tramandati dal 1220 e in cui venivano illustrati i requisiti
che una scienza rigorosa doveva possedere. Da quel mo­
mento la teologia si sviluppò sempre più come scienza in
senso stretto, utilizzando gli stessi metodi e rispondendo alle
stesse esigenze della filosofia della natura e della metafisica.
La struttura delle opere teologiche testimonia questa
evoluzione. Aumenta anche la lunghezza e il numero di que­
stioni teorico-scientifiche trattate in queste opere, specie a
partire dal 1290. Sono i teologi inglesi ad aprire la strada a
questo svÜuppo: i prologhi dei C om m enti alle S entenze di
Duns Scoto e Guglielmo di Ockham spiccano per ampiezza
e profondità teorica. Le questioni centrali sono l’oggetto
della teologia, la scientificità della teologia e la dimostrabi­
lità nella teologia.
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

Questa tendenza si interrompe dopo la metà del quattor­


dicesimo secolo. La logica non viene più vista come lo stru­
mento più importante per giungere a una nuova comprensio­
ne. Essa può mettere l’uomo sulla strada sbagliata, facendo
così torto alla causa di Dio. Si ricercavano dunque nuove vie
in cui l’accento fosse spostato più sul pratico che sul teorico.
Questo processo può essere illustrato da vari esempi, ma
Ü più adatto allo scopo è Hproblema della sapienza divina: ;
può il sapere di Dio soddisfare le norme rigorose della
scienza? Tale questione fu sollevata da due brani deñ’opera
di Aristotele. Nella M etafisica (1074bl5-1075al0) il filosofo ;
sostiene che la conoscenza di Dio è tanto perfetta che egli
può avere come oggetto conoscitivo solo se stesso. La sua
conoscenza non è altro che la conoscenza della sua cono­
scenza, Nel suo commento alla M etafisica Averroè spiega
questo passaggio dicendo che perciò Dio non ha conoscen­
za delle singole creature. Ciò portò l’uomo medievale a
chiedersi se fosse possibile provare con mezzi fÜosofici che
Dio conosce le creature, dato che un interprete di Aristotele
così autorevole come Averroè lo negava.
In secondo luogo, nel suo 'P eriherm eneias Aristotele so­
steneva che non è possibüe conoscere con certezza eventi
casuali futuri (18a28-19b4), Conoscere con certezza presup­
pone l’esistenza del conosciuto. Ma il futuro ancora non esi­
ste, Una conoscenza certa e un futuro casuale si escludono
dunque a vicenda. Ma allora come può Dio conoscere dal­
l ’eternità i liberi atti di volontà in base ai quali egli predesti­
na o condanna l’uomo? Anche in questo caso la prova
scientifica della visione teologica solleva dei problemi.
Per poter far fronte a questi problemi furono proposte
varie soluzioni. Sulla prima questione si era più o meno tutti
concordi: Aristotele e Averroè non avevano riflettuto a suffi­
cienza sul problema. Il sapere di Dio comprende tutte le
perfezioni possibili. Dal momento che Dio conosce se stes­

60
Semantica e teologia. Il problema del sapere divino

so, egli conosce tutte le perfezioni possibili e quindi anche


tutte le creature. A questo argomento fu attribuito un alto
grado di probabilità, anche se le opinioni erano discordi ri­
spetto alla sua rigorosa dimostrabilità (Hoenen 1993, 63-
120).
Ma le cose stavano diversamente riguardo alla seconda
questione. In questo caso ci si scontrava con il grande pro­
blema della libertà umana, che difficilmente si conciliava
con il piano divino eterno e immutabile. Si era d’accordo
nel dire che Dio ha conoscenza, ma vi erano opinioni di­
scordanti su come ciò dovesse essere argomentato (ib 157-
233).

1.1. G li sviluppi storici

L’evoluzione storica degli argomenti addotti in risposta a


come Dio può conoscere eventi casuali nel futuro mostra
chiaramente l’influsso crescente della logica. Inizialmente la
soluzione veniva ricercata nell’analisi filosofica del sapere di­
vino, ma con l’andare del tempo l’attenzione si spostò da
un’analisi logica a una di tipo semantico. Si riconosceva l’im­
potenza di poter risolvere il problema ùi modo soddisfacente
dal punto di vista contenutistico e ci si rifugiava nella mera
inventarizzazione delle affermazioni sostenibili logicamente
suUa conoscenza divina del futuro. In questa evoluzione
Oxford ebbe un ruolo fondamentale. Le prime analisi di ti­
po logico si ritrovano nell’opera di Riccardo di Campsall e
Guglielmo di Ockham. Poi seguirono Adamo Wodeham,
Roberto Holcot e Tommaso Buckingham. Negli anni 1340
Tommaso Bradwardine attuò una critica massiccia, con cui
cercò di dimostrare la fallibilità teologica di questa strategia
semantica, che sotto le sembianze di possibilità logica difen­
deva una posizione teologica che faceva torto all’itnmutabi-
lità divina e incoraggiava il vizio della presunzione umana.

61
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

Il dibattito sulla sapienza divina si concentrò intorno alle


posizioni di Tommaso d’Aquino, Duns Scoto e Guglielmo
di Ockham. Ciò non vuol dire che tutte le concezioni siano
riconducibili a uno di questi tre, ma le fonti mostrano che
queste tre concezioni venivano considerate fondamentali e
di regola costituivano lo spunto della discussione. I punti di
vista sostenuti dagli autori citati sono molto differenti ed
evidenziano ciascuno un diverso aspetto della problematica,
cosa che non da ultimo può essere spiegata dalla storia della
loro origine: la posizione scotista si sviluppò in reazione alle
mancanze della concezione tomistica e quella ockhamista fu
una risposta a quella scotista.

2. T o m m aso d ’A q u in o

La concezione di Tommaso può essere sintetizzata di­


cendo che Dio conosce la casualità del futuro poiché egli
nella sua eternità vede tutte le cose nella loro presenza. Ciò
che per l’uomo è futuro, per Dio è presente. E così come
l’uomo può conoscere con certezza ciò che vede davanti a
sé nel presente, allo stesso modo Dio può conoscere con
certezza ciò che vede nel presente, tanto il necessario quan­
to il casuale, senza differenze (ISN d38 q l a5, 910-11; IS
ql4 al3, 186b).
Questa concezione risale al quinto libro della C onsolatio,
in cui Boezio tenta di collegare la conoscenza divina alla li­
bertà dell’uomo (PhC L5 prosò, 102-105). Tommaso stesso
rimanda a questa fonte nel C om m ento a lle Sentenze, il suo
primo trattato suUa sapienza divina, e vi rimane fedele nel
corso di tutta la sua carriera.

62
Semantica e teologia. Il problem a del sapere divino

2.1. Forza e debolezza della p osiz ion e tom istica

La puntualità di questa posizione è innegabile: essa af­


fronta il problema dell’incertezza del casuale proprio laddo­
ve l’incertezza si trasforma positivamente in certezza. Ciò
che è, non può più non essere. Ma a proposito di Dio e della
sua conoscenza del futuro, questa certezza positiva presup­
pone l’esistenza del futuro, ed è questa l’obiezione che ogni
volta viene mossa a tale posizione. Secondo Tommaso il futu­
ro esiste già nell’eternità divina (IS q l4 al3, 186b). Ma come
può esistere un qualcosa che di fatto ancora non esiste?

2.2 . I p r im i dibattiti

Guglielmo de la Mare fu uno dei primi teologi a vedere


in questo un problema. EgH elaborò ampiamente la questio­
ne nel suo C orrectorium . La posizione di Tommaso mette in
pericolo il concetto di creazione, così argomentava, poiché
ciò che già esiste non può più essere creato, di certo è creato
non se esiste in eterno (Cor a3, 18).
I C orrectoria corru ptorii domenicani replicavano difen­
dendo le posizioni di Tommaso, senza peraltro giungere a
una risposta concorde. Riccardo Knapwell sottolineava che
Dio conosce tutte le cose nella loro presenza attraverso for­
me conoscitive {rationes), così come anche l’uomo con l’aiu­
to di forme conoscitive può conoscere l’esistenza di cose
che non sono più. Il fatto che le cose vengano conosciute da
Dio come realmente esistenti non significa dunque che esse
esistano realmente (CorQua a3, 24).
II C orrectorium corru p torii Q uaestione, probabilmente
scritto da Guglielmo di Macklesfield, conteneva argomenti
diversi, ponendo l’accento sulla causalità divina, Dio cono­
sce le cose future poiché egli crea tutto, anche la materia e
l’essere. Dio vede in una volta sia il concetto nella sua men-

63
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

te, che contiene forma, materia ed essere, sia anche la cosa


futura per cui sta il concetto (CorQuaest a3, 20).
Il dibattito sulla qualità del conosciuto da Dio e la difesa
della posizione di Tommaso a riguardo proseguì per tutto il
Trecento. A Oxford tornò in primo piano all’inizio degli an­
ni 1370, come vedremo nel capitolo seguente, nel dibattito
tra Wyclif e Kenningham. JMa già molto tempo prima si era
sviluppata un’altra linea, in alternativa a quella di Tommaso.

3 , D uns S co to

Scoto è il teologo il cui nome è legato all’alternativa a


Tommaso. EgH adottò, e in un modo che fece scuola, la li­
nea della causalità divina come veniva difesa ad esempio nel
C orrectorium corru p torii Q uaestione di Guglielmo di Mack-
lesfield (?). La sua prima esposizione sul tema è contenuta
neUa L ectura (ILec d39 ql-5). Qui egH approfondì anche
queUi che considerava i punti deboli della concezione tomi­
stica. Nella molto più dettagliata O rdinatio manca una di­
scussione analoga, almeno per mano dello stesso Scoto. Ciò
che in quest’opera è stato tramandato suUa sapienza divina
proviene dai confratelli, che con materiale di Scoto integra­
rono secondo le loro idee la questione deUa conoscenza da
parte di Dio del contingente lasciata aperta dalla morte pre­
matura di Scoto (lO rd d38 p2-d39 ql-5).
La fonte d’ispirazione diretta di Scoto fu Enrico di
Gand, come avviene anche in molti altri punti deUa sua ope­
ra. Tuttavia Scoto non adottò pedissequamente quella con­
cezione, ma la modificò in un punto importante: secondo
Enrico di Gand l’inteUetto divino vede le determinazioni
della volontà divina, che tutto guida e che da nulla può esse­
re ostacolata. Di conseguenza Dio conosce infallibilmente
ciò che avverrà nel futuro (QlB q2 , fol. 301v).

64
Semantica e teologia. Il problema del sapere divino

Secondo Scoto però questa visione delle cose aveva una


lacuna; implicava una certa discorsività, che era in contrasto
con l’immediatezza della conoscenza di Dio. Per sapere che
qualcosa succederà, Dio deve necessariamente unire due co­
se; 1 - la determinazione della volontà e 2 . la sua immutabi­
lità ed effettività. Perciò Scoto riformulò così questa posi­
zione; Dio vede non la determinazione stessa, ma la sua rap­
presentazione nell’essenza. L’essenza divina rappresenta così
l’esistenza di ciò che Dio vuole. N e l conoscere se stesso, Dio
conosce perciò l’esistenza del futuro immediatamente e sen­
za discorsività (ILec d39 q l-5 ,501).

3.1. U influsso d i Scoto

È evidente l’influsso esercitato da Scoto, se questa con­


cezione veniva collegata al suo nome, pur essendo una teo­
ria di Enrico di Gand. Ciò è tanto più sorprendente dal
momento che molti teologi non adottarono la modifica di
Scoto, ma rimasero fermi alla forma originaria di Enrico di
Gand, come ad esempio Guglielmo d’Alnwick, che ai suoi
tempi era uno dei più noti allievi di Scoto (Schwamm
1934, 173).
Ciònonostante, si era a conoscenza del fatto che fosse un
punto di vista già esistente. Così Alessandro di Alessandria,
un contemporaneo di Scoto, parlava di certi antiqui che ave­
vano difeso questa concezione (ib 138-139). Non è chiaro a
chi intendesse riferirsi. E probabile che avesse in mente En­
rico di Gand, ma può anche aver voluto indicare Avicenna,
che a sua volta era stato la fonte d’ispirazione di Enrico di
Gand. Secondo Avicenna Dio è causa di tutte le cause e per­
ciò egli, conoscendo se stesso, conosce infallibilmente tutto
ciò che verrà generato. Questo argomento si ritrova in varie
forme in molti teologi, compreso Tommaso, anche se non ne
fece il punto focale della sua teoria (Hoenen 1993, 66-70).

65
A O xford; dibattiti teologici nel tardo M edioevo

3.2. La critica a Lommaso

Scoto abbinò all’elaborazione della sua posizione una


critica a Tommaso, che a grandi linee si ricollegava alle obie­
zioni di Guglielmo de la Mare. Nel Trecento questa critica
fu ripresa da vari teologi, cosa che portò a considerare le
posizioni di Tommaso e di Scoto come alternative inconci­
liabili. In effetti Scoto criticava la posizione tomistica pro­
prio nel suo tallone d’Achille: la teoria della presenza eter­
na. Ciò che ancora non è - così argomentava Scoto - non
può ancora essere presente all’eternità, così come ciò che
non ha luogo non è contenuto nell’immensità divina. Se si
suppone che la creatura è eternamente presente in Dio, vuol
dire che essa deve esistere in eterno. Ma allora non può più
essere generata da Dio come qualcosa di nuovo, e ciò rende
impossibile la creazione dal nuUa. La concezione di Tomma­
so è perciò inaccettabile (ILec d39 q l-5 , 487-488).
Scoto rifiutava anche la via proposta da Knapwell. 1
conoscenza di concetti o idee non comporta la conoscenz;i
dell’esistenza, poiché le idee vengono conosciute da Dio
prima che egli voglia l’esistenza di qualcosa. Ciò che esse
rappresentano è quindi indipendente daU’esistere e dal non-
esistere. Inoltre le idee rappresentano ciò che rappresentano
in modo necessario, eterno e immutabile. Se una cosa con­
tingente viene conosciuta da un’idea, añora Dio può cono­
scere tale cosa solo come necessaria e immutabñe, Ü che è
incompatibÜe con la sua contingenza (ILec d39 ql-5, 485).
Questa critica è strettamente coñegata aña concezione
delle idee propria di Scoto. Le idee sono le quiddità che
Dio conosce attraverso la conoscenza immediata deña sua
essenza. Se esse rappresentassero anche l’esistenza deñe
quiddità, añora l’esistenza sarebbe indissolubilmente legata
a tali quiddità e quindi necessaria. In questo modo si oppo­
ne aña spiegazione tomistica, secondo cui le idee sono possi­

66
Semantica e teologia. Il problema del sapere divino

bili rappresentazioni dell’essenza divina e perciò possono


1-.,.,presentare l’esistenza, anche quando è contingente. Ma
per molti teologi fu di nuovo chiaro che vi era una spaccatu­
ra tra la via di Tommaso e quella di Scoto.

3.3. R ob erto C ow ton

Un’interessante eccezione a questa convinzione è rap­


presentata dal teologo di Oxford Roberto Cowton, che nel
suo C om m ento a lle S entenze (1309-1311) riuniva le conce­
zioni di Tommaso e di Scoto. A suo parere Dio determina
ciò che sarà, ma l’esistenza di ciò che egli vuole viene con­
templata nell’essenza divina. Secondo Cowton la determina­
zione da parte della volontà divina - come descritta da Sco­
to - non era sufficiente, visto che è impossibile (anche per
Dio) conoscere in anticipo nella sua causa un fatto contin­
gente. Quindi Dio deve conoscere il fatto stesso e ciò viene
reso possibile dall’eternità divina, come egli evidenziò con
Tommaso. Su quel punto la volontà divina e l’eternità divina
sono in perfetta sintonia: se Dio vuole che in futuro la cosa
esista, essa è subito presente all’eternità come cosa reale
(Schwamm 1931, 19).
Questo tentativo di conciliazione non venne accettato.
Gli scotisti perseverarono nella tesi che le cose che non esi­
stono non possono essere presenti all’eternità divina, sottoli­
neando così l’inconciliabilità dei due punti di vista (ib 48).

3.4. S oluzioni in sod disfacen ti

Neanche l’alternativa scotistica fu immune da critiche.


Ben presto si ebbe il timore che l’accento sulla volontà divi­
na limitasse la libertà umana. Scoto poteva ben affermare
che la volontà divina è contingente e che ciò che da essa vie­
ne causato, come la volontà umana, può ancora essere con-

67
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

tingente e libero nel suo operare. Ma ciò non servì ad elimi-


nare il timore. Così si arrivò ad m xim passe. Né la via tomi­
stica né quella scotistica offrivano una soluzione soddisfa­
cente. Si cercava una terza possibilità, che considerasse il
problema da un punto di vista che non vacillasse di fronte
alle complicazioni già citate.

4. G u g l ie l m o di O ckh am

La risposta che arrivò da Oxford cercava sostegno nella


semantica. Il problema della sapienza divina era considerato
il problema di come l’uomo parla della sapienza divina, e
per questo ci si concentrava soprattutto sulla ricerca della
verità nelle affermazioni umane riguardo aña sapienza divi­
na. La via contenutistica fu ritenuta impraticabÜe: l’uomo
non è in grado di capire come Dio possa avere conoscenza
del futuro contingente. Ogni tentativo che egli intraprende
per riuscirci porta a contraddizioni. In quanto credente
l’uomo non può che sottoscrivere ciò che le Scritture e i
santi hanno detto in proposito.
Con ciò ñ linguaggio deña teologia non veniva ridotto a
mera ripetizione e trasmissione di ciò che la fede insegna.
Esso deve analizzare questa convinzione di fede con i mezzi
deña scienza. Ciò significa in questo caso che ñ teologo deve
appurare, añ’interno dei confini di ciò che afferma la fede,
quali asserzioni sono vere e quali non lo sono. In ciò si può
avvalere dei risultati deña logica.
Un importante esponente di questo nuovo approccio fu
Guglielmo di Ockham. Nel primo libro del suo C om m en to
a lle S entenze (1317-1319) egli criticò la via contenutistica di
Scoto definendola inadeguata e sottolineò che l’uomo non
può risolvere il mistero deña prescienza divina (iSn d38 qu,
578-587). Alcuni anni dopo, Ockham ritornò sul tema in un

68
Semantica e teologia. Il problema del sapere divino

piccolo trattato autonomo, che conteneva cinque q uaestio­


nes sull’argomento e che voleva servire da integrazione -
per l’ancor giovane studente di filosofia - all’esposizione su­
gli eventi casuali futuri (futura contin gen tia ) nel V eriherme-
neias. H contenuto coincideva a grandi linee con quello che
veniva affermato nel C om m ento alle Sentenze. Anche qui
Ockham mette in discussione Scoto, sottolineando che l’uo­
mo non può spiegare come Dio conosca Ü futuro (TrP ql,
517-518).

4.1. La critica a Scoto

La critica di Ockham a Scoto si riferiva all’argomento in


base al quale Dio conosce Ü futuro attraverso la conoscenza
dei decreti deña sua volontà. Se ciò è vero, argomentava
Ockham, allora non esiste più alcuna libertà umana. L’agire
umano è quindi necessariamente una conseguenza deñ’agire
divino e l ’uomo non può mai agire diversamente da come
ha previsto Dio. Con ciò il problema deña Hbertà non viene
risolto, bensì negato (TrP ql, 516-517).
Se però si sostiene la Hbertà, affermando che l’uomo può
agire diversamente, añora Ü problema si sposta su Dio. Dio
perderebbe la possibüitá di conoscere con certezza. In que­
sto caso non avrebbe più mezzi infallibiH per sapere ciò che
accadrà in futuro (ib 517).
Scoto aveva tentato di trovare una via di mezzo affer­
mando che Dio agisce sempre in modo contingente, anche
nel determinare la volontà umana. La determinazione da
parte di Dio non implica perciò alcuna necessità, ma piutto­
sto - così sosteneva - conferma la Hbertà umana. Tuttavia,
anche su questo punto Ockham soHevò una grande obiezio­
ne. Se infatti questa determinazione è contingente e perciò
l’uomo può agire diversamente, tale determinazione manca
deña capacità di garantire la certezza deña conoscenza di

69
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

Dio. Quindi la contingenza della volontà divina non aggiun^


ge nulla alla soluzione del problema (ib 316-311).
Ciò per Ockham dimostrava l’impossibilità di una solu­
zione contenutistica. Le Scritture e i santi insegnano che
Dio non conosce il futuro diversamente dal passato e dal
presente. Egli conosce le libere azioni future dell’uomo con
la stessa certezza con cui conosce quelle già avvenute. Ma
come egli possa conoscere con certezza le cose future è im­
possibile dirlo. L’unica cosa certa è che la conoscenza divina
è perfetta e immediata e che quindi Dio conosce con certez­
za il contingente (ib 517-518). Nel corso ulteriore della sua
indagine Ockham cercò di appurare che cosa significasse
questo da un punto di vista filosofico e teologico.

4.2. La p erfez ion e divina e il lin gu aggio um ano

La perfezione divina presuppone che se in futuro av­


verrà A, Dio sa che A avverrà, se invece A non avverrà, Dio
sa che A non avverrà. Queste conclusioni sono necessarie. È
infatti in contraddizione con la perfezione divina che A av­
venga senza che Dio lo sappia, o che A non avvenga mentre
Dio sa che A avverrà (ISn d38 qu, 583-587; TrP ql, 517-
518).
L’uomo comprende la necessità di questa deduzione, an­
che senza sapere co m e funziona la conoscenza divina in sé.
Ockham investigò la necessità di queste conclusioni logiche.
In tal modo egli spostò l’accento dall’analisi deUa natura di­
vina all’indagine del ragionamento umano su tale natura.
Ockham volle appurare in quale modo la perfezione deña
conoscenza divina potesse essere espressa in maniera ade­
guata nel linguaggio teologico umano.
Questo interesse per la lingua è sintetizzato neñ’analisi
del significato di «la conoscenza divina di A». Conoscere A
{scire A) non è un qualcosa che esiste in Dio, bensì un con­

70
Semantica e teologia. Il problema del sapere divino

cetto o un predicato umano che è attribuito a Dio se A esi­


ste o esisterà, e che viene negato se A non esiste o non esi­
sterà. Ockham paragonò questo concetto al termine «signo­
re» {dominus). Tale termine fu attribuito a Dio dopo che eb­
be creato il mondo e non prima. U termine dunque non ri­
m anda a un qualcosa che è in Dio, ma al modo in cui l’uo­
mo vede Dio come signore della creazione (TrP q2 a4, 531).

4.3. La m odalità d e l co n o scere

Questa strategia semantica fu seguita da Ockham anche


in altri punti, ad esempio nella determinazione della moda­
lità della conoscenza divina. Secondo Ockham, se il cono­
sciuto è contingente, lo è anche la conoscenza di Dio del
contingente. Questa contingenza non mette in pericolo la
necessità della natura divina. L’essenza di Dio resta necessa­
ria, come anche la conoscenza divina che coincide con tale
essenza. Ma il collegamento di questa conoscenza con un
evento contingente A nell’affermazione «Dio conosce A»
rende contingente questa affermazione e di conseguenza an­
che la conoscenza divina di A in essa citata. L’affermazione
«Dio conosce A» può infatti variare nel valore di verità se
l’evento A, essendo appunto contingente, può anche non
verificarsi. In tal caso l’affermazione «Dio conosce A » non è
valida. Se la conoscenza di A fosse necessaria e di conse­
guenza lo fosse anche l’affermazione «Dio conosce A», allo­
ra la conoscenza di Dio diventerebbe non vera. Egli conosce
A come un evento che si verifica, mentre in realtà A non av­
viene (ISn d38 qu, 587; TrP q2 a4, 529-530).
Affermando che la conoscenza divina di un evento con­
tingente è contingente, Ockham segue la vecchia linea fran­
cescana di Roberto Grossatesta e Bonaventura. Anche Sco­
to si rifaceva a questa tradizione; tuttavia, nonostante questa
corrispondenza, vi è una grande differenza tra Scoto e

71
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

Ockham. Scoto derivava la contingenza della conoscenza


divina dalla contingenza della volontà divina. In questo mo­
do egli dava una spiegazione contenutistica alla modalità
della conoscenza divina. Ockham invece si concentra solo
suUa natura del conosciuto, indipendentemente dal modo in
cui questo contingente è stato generato da Dio. A suo pate­
re la modalità della conoscenza divina è determinata dalla
modalità del conosciuto, così come il valore di verità della
conoscenza divina è determinata dal valore di verità del co­
nosciuto (Hoenen 1993, 189-192).

4.4. La certezza della conoscenza

Nell’analisi della conoscenza divina Ockham parte dalla


cosa conosciuta. Di conseguenza la contingenza della cosa
conosciuta non costituisce più alcun problema per la certez­
za della conoscenza. Infatti, se A esiste, Dio conosce A. Se
A non esiste, Dio non conosce A. Dunque la conoscenza di­
vina è sem p re certa (TrP q l, 515-516).
Inoltre tale certezza vale dall’eternità. Se A sarà, è vero
dall’eternità che A sarà. Dio può dunque avere dall’eternità
conoscenza certa dell’esistenza contingente di A (ib q2 a3,
524-529).
Ockham sciolse in questo modo il legame tradizionale
tra necessità ontologica e certezza epistemologica, su cui ad
esempio ancora si basava Tommaso. La certezza in Ockham
non è come in Tommaso fondata ontologicamente sulla ne­
cessità della natura divina o sulla necessità del conosciuto
che non può non-esistere se esiste, ma nella necessità della
conclusione logica che l’uomo trae parlando di Dio: «Se A
esiste, Dio conosce A».

72
Semantica e teologia. Il problem a del sapere divino

4.X La variabilità della conoscenza

La strategia utilizzata da Ockham, cioè quella di porre


l’accento sul linguaggio umano nell’analisi della sapienza di­
vina, si chiarisce ancora di più nelle regole da lui elaborate
rigu ard o alle affermazioni sulla variabilità della conoscenza
divina. Tali regole, riportate di seguito, inventarizzano la va­
riab ilità del valore di verità delle proposizioni e la connessa
m u ta b ilità della conoscenza divina (TrP q2 a3,524-526):
1 . Le proposizioni sul presente possono diventare da
non vere a vere e da vere a non vere. Dio può conoscere tali
proposizioni pur non avendole conosciute, e non conoscerle
pur avendole conosciute. Ad esempio la proposizione p
«Socrate si siede». Dio conosce p solo nel momento in cui
Socrate si siede, non prima. Se invece Socrate si alza, allora
Dio non conosce più p.
2. Le proposizioni affermative sul futuro sono invariabil­
mente vere, finché si verifica l’evento descritto da tali pro­
posizioni. Prima di allora, infatti, nulla può modificare il va­
lore di verità di quelle proposizioni. Tali proposizioni ven­
gono conosciute invariabilmente da Dio, finché avviene il
fatto (poiché in quel momento la proposizione sul futuro di­
venta non vera). Secondo Ockham «Socrate si siederà nel
momento T» non è vera a partire da T e dopo T.
3. Delle proposizioni affermative sul futuro non si può dire
che Dio le conosca pur non avendole conosciute, poiché pri­
ma che il fatto avvenga esse sono invariabilmente vere. Ma si
può dire che egli non le conosce dopo averle conosciute, per­
ché dopo che un evento ha avuto luogo, esse non sono vere.
4. Alcune proposizioni future sono vere senza che siano
mai divenute vere nel passato, ma in futuro possono anche
diventare non vere. Ad esempio la proposizione p «Socrate
si siederà nel momento T». La conoscenza che Dio ha di p
non ha un inizio, ma ha una fine, cioè il momento T.

73
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

5. Alcune proposizioni future non sono vere senza che l


siano mai state nel passato, ma in futuro possono anche di­
ventare vere. Ad esempio la proposizione -ip «Socrate non
si siederà nel momento T». Secondo Ockham dopo T -ip è
sempre vera. Perciò la conoscenza di Dio di -ip ha un inizio,
cioè il momento T, ma non ha fine.

4.5.1. La caratteristica della teologia a Oxford

Tali regole logico-semantiche si ritrovano anche nei No-


tahilia di Riccardo di Campsall e nei C om m en ti alle S enten­
ze di Gualtiero Chatton, Giovanni Rodington, Roberto Hol­
cot e Adamo Wodeham. Mancano invece nei teologi parigi­
ni della prima metà del Trecento, in cui s’incontrano in una
forma rudimentale (Schabel 2000, 108-109). Solo dopo il
1340 vengono usate diffusamente a Parigi, ad esempio nelle
opere di Giovanni Mirecourt, Gregorio di Rimini e in segui­
to anche da Marsilio di Inghen. Ciò significa che originaria­
mente l’utüizzo di queste regole era una caratteristica tipica
dei teologi di Oxford (Hoenen 1993, 193).

4.6. Q uestion i sem a n tich e

La domanda se la sapienza divina possa aumentare è di­


rettamente connessa a queste regole. Per Ockham ciò era
escluso. Il numero di proposizioni vere è sempre uguale,
poiché è sempre vera una sola di due proposizioni contrad­
dittorie (p vs. -ip), anche se il valore di verità di una propo­
sizione è variabile. Dio conosce sempre tutte le proposizioni
vere. Se il numero di proposizioni vere resta sempre uguale,
allora la conoscenza di Dio non aumenta né diminuisce. Se­
condo Ockham non è Dio a mutare se egli conosce prima
una proposizione vera e poi un’altra; muta solamente ciò
che causa il cambiamento del valore di verità di quella pro­

74
Semantica e teologia. Il problema del sapere divino

posizione, cioè le creature. Dio stesso è immutabile (iSn


¿)9 qu, 589-590; TrP q 5,538).

4,6.1. Roberto Holcot

La via intrapresa da Ockham fece scuola a Oxford, dove


venivano percorse anche altre strade, a seconda dalla posi­
zione logico-semantica. Un chiaro esempio di come punti di
vista diversi nel campo della logica potessero portare a dif-
icrenze nella teologia è queño nel domenicano Roberto
I lolcot, che diede un’altra interpretazione aña qualità deñe
proposizioni. A partire da questa diversa interpretazione
egli criticò ñeñe sue Q uaestiones Q uodlibetales (1333-1334)
la posizione di Ockham suñ’immutabñita deña conoscenza
di Dio (Moody 1964, Courtenay 1971).
Neña sua critica Holcot concepiva le proposizioni come
token-, pensieri effettivi, proposizioni pronunciate o scritte.
Di uno stesso evento A possono esistere più espressioni-
token vere o non vere. Se vi sono dieci persone che creano
neña loro mente una proposizione vera, vuol dire che vi so­
no dieci proposizioni-to/èé'« su tale evento A. Se vi sono cin­
que persone che creano una proposizione vera, añora vi so­
no solo cinque tok en veri, e la conoscenza di Dio di queñe
proposizioni diminuisce. Se non c’è nessuno a creare una
proposizione vera, añora Dio non conosce alcuna proposi­
zione vera su tale evento A.
Quest’ultima affermazione secondo Holcot non implica
che Dio non conosce nuña. Egli distingueva tra cose e verità
(proposizioni). Dio conosce tutte le cose attraverso la sua
essenza. Ma se non vi è alcuna proposizione vera (poiché
non ci sono persone), allora Dio non conosce verità, poiché
solo le proposizioni possono essere vere.
Suña base di questa concezione egli giunse aña conclu­
sione che la concezione di Ockham era errata. Dicendo che

75
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

le proposizioni vere sono l’oggetto del sapere divino, allora


Dio può sapere di pili, di meno e addirittura non sapere as­
solutamente nulla, a seconda di se e quante proposizioni esi­
stono.
Holcot afferma inoltre che non vi sono necessariamente
tante proposizioni vere quante non vere. Poiché se di due
proposizioni contraddittorie quella non vera non viene pen­
sata o pronunciata o scritta in nessun luogo, allora essa non
è non vera, giacché non esiste. Solo le proposizioni che esi­
stono possono essere vere o non vere. Se invece la proposi­
zione vera viene pensata o pronunciata, allora essa esiste. Vi
possono dunque essere più proposizioni vere di quante sia­
no quelle non vere, e viceversa (Courtenay 1971, 15).
Ockham invece, sostenendo che Dio non può conoscere
di più, non partiva da pn oposizìom -tok en, ma da cosiddette
proposizioni-i}>pé>: proposizioni così concepite che una stes­
sa proposizione può essere pensata da diverse persone. In
tal caso il numero di proposizioni è indipendente dal fatto
che esse vengano effettivamente pensate o pronunciate. È
difficile trovare un esempio più chiaro del modo in cui la lo­
gica possa determinare diversi punti di vista nella teologia.

4.6.2. Adamo Wodeham

Un altro esempio che dimostra l’influsso del metodo se­


guito da Ockham si trova nel C om m ento alle S entenze di
Adamo Wodeham. Egli sosteneva che l’uomo ha il potere di
«fare in modo» {facere) che Dio preconosca qualcos’altro, l ’a­
le questione era già stata affrontata da Boezio nella C onsola­
tio. Boezio negava che l’uomo potesse influire sulla prescien­
za di Dio: è impossibile che l’eterno sia sottoposto al transito­
rio (PhC L5 prosò, 104-105). Wodeham concordava con
Boezio su quello che era Ìl lato metafisico della questione, ma
in quanto studioso di logica aveva un’opinione diversa.

76
Semantica e teologia. Il problema del sapere divino

Egli estremizzò la strategia di Ockham secondo cui vale


che se A sarà, Dio sa che A sarà, e se A non sarà, Dio sa che
A non sarà. Se l’uomo è libero e può dunque stabilire se A
sarà o non sarà, egli può anche stabilire ciò che Dio preco­
nosce. Egli non ha alcun potere reale sul sapere divino, ma
ha la capacità di determinare la verità delle proposizioni sul
sapere divino (30rd q3, fol. 175vb).
Adamo Wodeham non era l’unico teologo di Oxford a
difendere questa conclusione. Anche Riccardo di Campsall
e Roberto Holcot erano dell’opinione che l’uomo potesse
determinare ciò che Dio preconosce. Ma il modo in cui Wo­
deham formulò il problema ebbe un influsso maggiore e nel
corso del quattordicesimo secolo venne spesso citato da al­
tri, tra cui Marsilio di Inghen, che conosceva XO rdinatio di
Wodeham nel riassimto fattone da Enrico di Oyta (Courte­
nay 1978, 223-228).
Secondo Wodeham la prescienza e Ü giudizio di Dio che
qualcosa avvenga dipende dalla conoscenza incommensura­
bile di Dio e dalla cosa che accade nel futuro. La conoscen­
za di Dio dipende dalla cosa che accade, poiché l’incom­
mensurabilità di Dio contiene tutto ed è perciò indifferente.
Essa non si limita né al giudizio che la cosa sarà né al con­
trario di ciò. Il fatto che una cosa sia non dipende perciò in
alcun modo {in nullo) dalla prescienza o dal giudizio di Dio,
piuttosto il contrario: se una cosa sarà, Dio sa per la sua sa­
pienza incommensurabile che la cosa sarà, e solo in quel
momento egli giudica che la cosa sarà (30rd q3, fol. 174va-
175va).
Come già detto, per Wodeham ciò non significa che l’e­
sistenza di una cosa contingente sia la causa della sapienza o
prescienza divina in quanto tale, così come non può essere
la causa di Dio stesso. Ma è la causa che, insieme all’infinità
della sapienza divina, è necessaria affinché si possa parlare
di prescienza {concausa n ecessa rio requisita). La prescienza

77
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

infatti presuppone che sia conosciuta l’esistenza di cose nel


futuro. Tali cose future esistono non perché Dio ha pre­
scienza, ma Dio ha prescienza perché egli conosce cose che
esistono nel futuro (ib, fol. 176vb-177ra).
Wodeham sintetizzò la sua visione in tre tesi [conclusio-
nes), come fecero anche Ockham e gli altri. Queste tesi for­
niscono un quadro interessante del carattere logico delle sue
concezioni.
1. In una cosa contingente futura A, la cui esistenza di­
pende dalla libertà della volontà creata, l’uomo può fare in
modo ifacere) che Dio sappia ab aetern o che A esisterà. Inol­
tre è in suo potere [potestas] che Dio non abbia mai saputo
che A esisterà, poiché l’uomo in base al suo libero arbitrio
può fare in modo che A esista, ma anche che A non esista.
Nel primo caso Dio sapeva ab a etern o che A sarebbe esisti­
to, nel secondo caso che A non sarebbe esistito. La verità
dell’antecedente logico «A esisterà» o «A non esisterà» di­
pende dal libero arbitrio dell’uomo, dunque anche la verità
del conseguente logico «Dio sapeva che A sarebbe esistito»
o «Dio sapeva che A non sarebbe esistito» (ib, fol. 175vb).
2 . L’uomo può fare in modo ifacere) che Dio abbia sem­
pre preconosciuto ciò che non ha mai preconosciuto, e che
egli non abbia mai preconosciuto ciò che ha sempre preco­
nosciuto. Il fatto che Dio preconosca tutto ab aetern o, non
impedisce all’uomo di agire liberamente e di determinare
ciò che Dio preconosce (ib, fol. 175vb).
3. L’uomo può fare in modo ifacere) che le proposizioni
che sono sempre state vere non siano mai state vere, e vice­
versa. Infatti anche se egli genererà A nel momento T, egli ha
la possibilità di non generare A nel momento T. Poiché egli
genera A nel momento T, la proposizione «A avverrà nel mo­
mento T» è sempre stata vera nel passato. Se invece egli non
generasse A nel momento T, allora sarebbe sempre stato vero
l’opposto «A non avverrà nel momento T» (ib, fol. 173vb).

78
Semantica e teologia. Il problema del sapere divino

4,6.2.1. La critica a W odeham


Queste tesi non poterono non essere oggetto di critica. Il
teologo di Oxford Bradwardine, a causa della tendenza pe-
lagiana in essa contenuta, prese le distanze dalla concezione
secondo cui l’uomo influisce suUa sapienza divina. A suo
parere l’uomo agendo segue necessariamente le decisioni
del volere divino. Ma questa critica era allo stesso tempo an­
che una conferma dell’importanza storica e dell’influenza
esercitata nell’università di Oxford dalle tesi respinte.
B rad w ard in e descrisse la concezione espressa in queste tesi
come diffusamente nota e difesa soprattutto dai filosofi e
teologi di Oxford: «communior et famosior apud moder­
niores philosophos, atque theologos, et praecipue apud no­
strates et quasi sola ab eis concorditer approbata» (DCD L3
c26, 703). Bradwardine volle combattere questa concezione,
e così il dibattito sulla sapienza divina entrò in una nuova
fase.

5 . T o m m a s o B r a d w a r d in e

Bradwardine formulò la sua critica alla concezione soste­


nuta da pensatori come Ockham, Holcot e Wodeham in
un’opera monumentale in tre volumi a cui fu dato il titolo
programmatico di D e causa Dei. Egli volle prendere le dife­
se di Dio contro il presunto potere dell’uomo. La sua ferma
convinzione era che l’uomo nel suo agire è totalmente di­
pendente da Dio e non può influire in alcun modo sul sape­
re divino.
Nella sua opera egli prese le distanze dalla strategia se­
mantica seguita a Oxford a partire dal secondo decennio
del Trecento. A suo parere non si trattava di rapporto tra
proposizioni, bensì di relazione tra cose (DCD L3c32, 866).
L’analisi del sapere divino deve partire da una considerazio­

79
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

ne sulla natura di Dio e sulla volontà deU’uomo. Bradwardi- -


ne ritornò anche al modo in cui Tommaso e Scoto avevano
affrontato il problema. Egh fece ripetutamente ricorso al lo­
ro pensiero nella sua lotta contro i contemporanei. In lui è
già chiaramente comprovabile la riserva contro l’utilizzo
della logica nella teologia, che verso la fine del Medioevo
venne sollevata da un numero sempre crescente di teologi.

3.1. I tre libri d e l De causa Dei

Bradwardine cominciò a lavorare al suo De causa D ei co­


me m agister in teologia a Oxford, dove - come si evince da
alcune osservazioni all’interno dell’opera —egli scrisse i pri­
mi due libri. Il terzo libro fu scritto a Londra e l’opera inte­
ra fu pubblicata nel 1344 (Genest 1992, 16). Ciascuno dei
tre libri è dedicato a un diverso aspetto del rapporto tra Dio
e l’uomo (Leff 1957, Oberman 1957, Genest 1992).

5.1.1. La natura divina

Il primo libro del D e causa D ei ha una struttura tradizio­


nale e tratta temi relativi alla natura divina, discussi anche
nel primo libro delle Sentenze, ma lasciando fuori la trinità e
con un particolare accento suUa grazia divina.
Il libro si apre con un’analisi della perfezione e causalità
divina. Dio conserva tutto nel proprio essere e coopera im­
mediatamente con ciascuna azione umana. Egli è ovunque,
ha conoscenza di tutto e ha una volontà che non può essere
ostacolata in alcun modo. Dio non può non-esistere e senza
Dio non può esistere nuUa, neppure l’impossibile. Essere
necessario {necesse esse) è il nome più adatto per Dio, se­
condo Bradwardine (DCD LI cl4).
Il sapere di Dio è la causa di tutte le cose, non solo come
causa sin e qua non, ma anche come causa effettivamente de­
Semantica e teologia. D problema del sapere divino

term inante (ib L i cl7); la provvidenza divina dispone tutto


(ib LI c32). Il conosciuto non è in alcun modo causa del sa­
pere di Dio. In ogni azione retta dell’uomo la volontà uma­
na viene guidata dalla grazia divina (ib LI c40-41).

5.1.2. La grazia divina e l’arbitrio umano

Nel secondo libro viene analizzato il modo in cui coope­


rano U volere umano e la grazia divina. Per poter agire l ’ar­
bitrio umano ha bisogno di Dio, poiché Dio è la causa pri­
ma. Senza la sua causalità non può agire nessun’altra causa.
Dio è dunque il «coagente» di ciascun atto della volontà.
Dio e l’uomo sono entrambi la causa totale dell’atto di vo­
lontà umano (DCD L2 c20).
Con ciò non si vuole negare la libertà della volontà. L’uo­
mo può agire diversamente da come agisce effettivamente;
non viene costretto da nessuna creatura (ib L2 c3). Ma co­
munque agisca, egli è dipendente dalla causalità divina, che
precede l’agire umano come causa prima (ib L2 c30).

5.1.3. Contingenza e libertà

Il terzo libro tratta della contingenza e libertà dell’uomo


e del modo in cui essa si concilia con la causalità divina. Dio
può spingere ogni volontà ad agire o a non-agire (DCD L3
cl); egli è infatti la prima causa. La determinazione divina e
la libertà umana sono dunque abbinate. Dio obbliga il vole­
re umano dal momento che egli precede necessariamente
come fondamento della causalità della volontà. In quanto
tale, Dio è la causa di contingenza e libertà nelle creature (ib
L3 c5). La necessità della causalità divina non implica dun­
que secondo Bradwardine che tutto avvenga necessariamen­
te. La volontà umana rimane libera, anche se nel suo agire
viene determinata da Dio. Una causa contingente non può

81
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

mai agire necessariamente. Ciò è proprio della sua natura di


causa contingente (ib L3 c4). Ma l’arbitrio umano è una
causa contingente creata e ciò significa che della sua natura
fa parte anche il fatto che nella sua causalità dipenda dalla
causa prima, increata (ib L3 c27).

3.13.1. D eterm inism o o libertà?


La concezione di Bradwardine secondo cui la natura del­
la volontà umana è inalienabilmente libera in tutte le sue
azioni, ma viene poi guidata necessariamente da Dio nel suo
agire effettivo, portò a chiedersi già subito dopo la pubblica­
zione del D e causa D ei se Bradwardine fosse o meno im de­
terminista. Questa discussione prosegue fino al giorno d’oggi
e probabilmente continuerà per sempre, poiché la risposta
dipende dall’ottica adottata (Genest 1992, 9-13). Su questo
punto il testo di Bradwardine è infatti ambiguo. In teoria
Bradwardine non è un determinista. Dio rispetto alla crea­
zione agisce liberamente e la volontà umana mantiene tale li­
bertà nell’agire. In questo caso si tratta della natura della vo­
lontà divina e umana in quanto considerate a sé. Ma rispetto
alla pratica, il giudizio risulta diverso. Nell’agire effettivo
l’uomo segue le decisioni'divine e non può agire diversamen­
te se non nel modo stabilito da Dio. Se in realtà agisse diver­
samente, allora potrebbe sottrarsi alla causalità divina, cosa
che per Bradwardine è impossibile. Bradwardine rimproverò
a teologi come Ockham, Wodeham e Holcot di aver difeso
questa assurda possibilità (DCD L3 c26). Con il suo D e cau­
sa D ei egH voleva ridare a Dio la sua forza e criticare la dot­
trina bizzarra dei suoi contemporanei (ib L3 c53).

3.2. Le d u e q u estion i cen tra li

Il punto di vista di Bradwardine si lascia descrivere nel


modo migliore partendo dalla sua obiezione contro la posi­

82
Semantica e teologia. Il problema del sapere divino

zione difesa da Ockham e Wodeham. Al centro vi erano


due problemi: la modalità della conoscenza divina e la con­
tingenza del futuro.

5.2 .1 . La modalità della conoscenza divina

Come si è visto in precedenza, Ockham faceva dipende­


re la modalità della conoscenza divina dall’oggetto cono­
sciuto. Le cose contingenti vengono conosciute da Dio in
modo contingente, le cose necessarie in modo necessario.
Un atto libero futuro dell’uomo è contingente e lo è quindi
anche la conoscenza che Dio ne ha. Ma se questo atto si è
verificato e appartiene al passato, diventa necessario: non
può più non essere. La modalità della conoscenza divina è
dunque variabile, perlomeno nel modo in cui l’uomo ne
parla. Considerata in sé, la conoscenza di Dio è altrettanto
necessaria e immutabile quanto l’essere divino.
Bradwardine trovava inadeguata questa rappresentazio­
ne della questione. Essa fa dipendere le affermazioni sul sa­
pere di Dio dalla prospettiva umana e giunge a conclusioni
che riferite al sapere divino sono inesatte. Se Dio conosce il
futuro in un modo contingente e il passato in modo neces­
sario, allora la sua conoscenza è variabile. Inoltre la sua po­
tenza diminuisce ogni giorno, poiché con il trascorrere del
tempo le cose che egli conosce passano sempre più da con­
tingenti a necessarie. Ciò che è necessario non può essere al­
trimenti, nemmeno per Dio (DCD L3 c30).
Ma com’è possibile postulare questo mutamento nel
pensiero di Dio? Esso non può essere causato da qualcosa
di esterno a Dio, dal momento che l’essenza divina non è
determinata da nuUa. Ma non può neanche essere originata
dall’interno, poiché l’essenza di Dio è immutabile. Quindi il
sapere divino mantiene sempre necessariamente la stessa
modalità rispetto alla creazione. La determinazione di que­

83
A Oxford; dibattiti teologici nel tardo Medioevo

sta modalità non deve avvenire attraverso un’analisi seman­


tica del discorso su Dio, ma da una considerazione della na­
tura di Dio stesso. Dio è la prima causa ed è perciò comple­
tamente libero rispetto aña creazione che egli stesso ha ge­
nerato. Per Dio dunque non è contingente solo ñ futuro, ma
anche il passato. Daña prospettiva divina non esiste alcuna
differenza tra passato e futuro. Il sapere di Dio è eterno e
contiene tutto il tempo neüo stesso modo immutabile. È
l’uomo che distingue tra passato e futuro come tra ciò che
non può più cambiare (passato) e ciò che ancora può cam­
biare (futuro). Ma per Dio tutto è possibile. Dio può agire
diversamente da come agisce, in qualunque momento del
tempo. Ciò è inerente aña sua libertà. Se si nega a Dio tale
Hbertà rispetto al passato, añora si nega la sua natura libera
(ib L3 c30).
Bradwardine spiegando ü modo in cui Dio conosce il fu­
turo seguì la via di Scoto, che egH citò anche in quel conte­
sto. Dio conosce il futuro attraverso la conoscenza deña sua
volontà. Il volere di Dio è assolutamente libero, quindi an­
che la conoscenza di Dio è assolutamente libera (ib LI c l 8;
ib L3 c52). Bradwardine non accettava la critica di Ockham
a Scoto. EgH considerava le sue obiezioni troppo limitate.
La necessità e la Hbertà possono benissimo coesistere: l’arbi­
trio umano rimane Hbero, anche se viene necessariamente
spinto ad agire da Dio (ib L3 c5). Per fondare quest’affer­
mazione a prima vista contraddittoria, egli fece una distin­
zione tra le diverse forme di necessità. Anche qui criticò
l’approccio proposizionale o semantico da molti seguito a
Oxford. Questa critica può essere vista come la seconda
obiezione principale di Bradwardine contro l’opinione cor­
rente a Oxford.

84
Semantica e teologia. Il problem a del sapere divino

5.2.2. L a c o n tin g e n za d e l fu tu ro

Secondo Ockham, Wodeham e Holcot, Dio sa dò che


l'usa avverrà in futuro, ma il futuro resta contingente, poi­
ché può anche non accadere. In questa posizione Bradwar­
dine individuò un pericolo per la certezza e l’indipendenza
del sapere divino. Se il contingente può anche non avvenire,
la conoscenza certa è esclusa. La risposta di Ockham, che in
quel caso Dio conosce l’opposto, per Bradwardine non era
soddisfacente. Così la conoscenza divina viene resa dipen­
dente dalla creazione. L’unica alternativa per Bradwardine
era infatti che se Dio conosce qualcosa, il conosciuto av­
verrà necessariamente. La necessità che egli aveva in mente
a questo proposito lascia perfettamente intatta la libertà di­
vina. E la necessità ad indicare che se sono date tu tte le con­
dizioni per l’esistenza di qualcosa, l’effetto seguirà sem p re
(DCD L3 c2 ). Dio vuole la creazione in assoluta libertà. Ma
se egli la vuole, allora essa nasce senza alcun impedimento e
quindi assolutamente necessaria. I termini che Bradwardine
usa a questo proposito sono n ecessitas con seq u en tis (la crea­
zione segue necessariamente al volere di Dio) e necessitas
p raeceden s (il volere divino precede necessariamente la crea­
zione). Tale necessità vale per ogni creatura, anche per il li­
bero arbitrio dell’uomo, poiché senza Dio come causa pri­
ma nessuna creatura può fare nulla (ib L3 c52).

5.2.2.1. La libertà umana


Per Bradwardine ciò non significa che l’uomo perde la
sua libertà. L’arbitrio umano rimane libero: in una determi­
nata circostanza egli può agire, ma anche non agire. Il libero
arbitrio dell’uomo non dipende da alcuna causa, tranne che
da Dio, la causa prima. Dio è la causa necessaria della li­
bertà dell’uomo. Dio costringe l’uomo, in modo che egli
possa agire liberamente rispetto alla creazione. Senza tale

85
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

causa necessaria la volontà non può agire liberamente. La


volontà umana non è libera in senso assoluto (soltanto Dio
lo è), ma solo sotto un certo aspetto, ovvero rispetto a tutte
le altre cause create. Qualunque altra rappresentazione delle
cose, secondo Bradwardine, fa nascere delle contraddizioni.
La libertà assoluta e Tessere-creato non possono andare
d’accordo (DGD L3 c5).

5.2.2.2. N ecessità reale e n ecessità proposizionale


Sul punto della necessità della causalità divina BracKvar-
dine non lascia alcun dubbio. La necessità che intende è una
necessità reale. Egli non si accontentava del concetto - usato
spesso in questo contesto dai suoi contemporanei —di neces­
sità proposizionale o condizionale; se A, allora necessaria­
mente A. Questa forma di necessità è assolutamente vuota e
non ha nulla a che fare con la realtà, così egli sosteneva. Poi­
ché anche se A non esiste, vale che «se A, allora necessaria­
mente A» (DCD L3 c50). Per fare il collegamento con la
realtà, Bradwardine si richiamò al significato più profondo
del termine «condizionale» nel concetto «necessità condizio­
nale». Il significato proprio di «condizione» è «ipotesi» e l’e­
quivalente latino del greco «ipotesi» è «supposizione». Nella
realtà bisogna quindi presupporre un qualcosa che sia la
causa reale dell’esistenza di qualcos’altro e che preceda ne­
cessariamente questa esistenza. Ciò è la causalità divina, che
è assolutamente libera essa stessa, ma senza la quale non può
esistere alcuna creatura (ib L3 c28; c50).

J.3 . La

La posizione di Bradwardine è tanto rigida quanto in­


soddisfacente. Egli sceglie Dio e pone il fondamento della
libertà umana necessariamente in Dio. Ciò si accorda per­
fettamente con la sua enfasi sulla causalità del principio pri-

86
Semantica e teologia. Il problema del sapere divino

010. Nella scelta di questa ottica e nella sua elaborazione,


egli è coerente. Ma in questo modo sembrano essere messe
in discussione la libertà umana e la responsabilità deU’uo-
mo. Qualunque cosa voglia l’uomo, egli può volerlo solo se
pio come causa p ra eced en s precede necessariamente tale vo­
lontà. Con ciò viene garantita la certezza della prescienza di­
vina, ma la libertà umana pare cancellata.

6. T o m m a s o B u c k in g h a m

Uno dei primi teologi a reagire alla provocazione di


Bradwardine fu Tommaso Buckingham, fe llo w al Merton
College dal 1324 al 1340 (Genest 1992, 26). A suo parere
Bradwardine limitava troppo la libertà dell’uomo. Nel suo
Ve contin gentia fu tu roru m Buckingham sosteneva che per
garantire l’effettività della causa prima non c’è bisogno di
supporre che l’uomo di fatto non possa più agire diversa­
mente. Deve continuare ad essere possibile il contrario, altri­
menti l’uomo diventa un automa e le opere buone non han­
no più alcun significato (De la Torre 1987, Genest 1992).

6.1. S trategie sem an tich e

Buckingham seguì la strategia semantica di Ockham,


sebbene cercasse una via personale, e può perciò essere vi­
sto come la risposta ‘semantica’ ai tentativi di Bradwardine
di ritornare alla vecchia strada di Tommaso e Scoto. Con ciò
Tommaso Buckingham difese una posizione criticata esplici­
tamente da Bradwardine (Genest 1992, 90-92).

6.1.1. Il presupposto è la libertà umana

Tommaso Buckingham voUe intervenire in difesa della li­

87
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

bertà dell’uomo: laddove Bradwardine aveva fatto di Dio ü


presupposto della sua analisi, Buckingham scelse l’uomo. La
libertà dell’uomo è garantita solo se non viene costretta in
alcun modo. Dunque la volontà deve sempre avere la possi­
bilità di agire anche diversamente, finché il voluto non è ef­
fettivamente generato. Solo nel momento dell’effettivo atto
di volontà il volere non può più agire diversamente e si può
parlare di necessità. Nel momento T sono infatti date tutte
le condizioni perché A venga generato, altrimenti A non po­
trebbe essere generato in quel momento. Solo allora secon­
do Buckingham si può parlare di una necessità precedente
{necessitas p ra eced en s o a n teced en s), ma non prima che A
venga generato. Prima di T è ancora possibile che A non
venga generato nel momento T, così argomentava Buckin­
gham (DCF con9, 241).
Ciò secondo lui non significa mettere in pericolo la cer­
tezza del sapere divino. Se l’uomo decide di agire diversa-
mente da come voleva inizialmente, l’agire di Dio non viene
ostacolato in alcun modo. In tal caso Dio sa che l’uomo
avrebbe agito diversamente (ib con9, 235). Buckingham se­
gue dunque l’approccio esterno di Ockham: se A avviene,
Dio ha voluto e preconosciuto A. Se avviene -lA, Dio ha vo­
luto e preconosciuto -lA. Solo questa rappresentazione delle
cose secondo Buckingham rende giustizia alla libertà umana
(ib con9, 239).

6.1.2. «Bradwardine Hmita la libertà divina»

Buckingham individuava neUa libertà divina ñ fonda­


mento della libertà umana (DCF con8, 218-219). Su questo
punto non dissente da Bradwardine. Il fatto che l’uomo
possa agire diversamente ha Ü suo fondamento nella libertà
di Dio. Ma da ciò egli giunse a un’altra conclusione rispetto
a Bradwardine. Se la libertà dell’uomo viene abbinata a una
Semantica e teologia. Il problema del sapere divino

fiecessitas p ra eced en s in Dio, che predetermina l’agire effetti­


vo dell’uomo, si limita la libertà di Dio. Ancor prima che
l’uom o agisca effettivamente, è dunque già stabilito ciò che
avverrà ed è escluso ñ suo opposto. Non solo l’uomo, ma
anche Dio perde in questo modo la possibÜitá di agire di­
versamente. Dio perde ogni libertà di movimento se egli è la
causa p ra eced en s che determina necessariamente l’agire
umano futuro. La sua Mbertà si trasforma allora in una for­
ma di necessità. Egli dunque non può più agire diversamen­
te in relazione ad A, anche se A è ancora nel futuro (ib
conll, 262).

6.1.3. La modalità della conoscenza divina

La causa di un evento necessario è secondo Buckingham


necessaria, e la causa di un evento contingente è contingen­
te. La modalità del volere dipende dalla modalità del voluto.
Lo stesso vale per la conoscenza divina; anche in questo ca­
so la modalità dipende dal conosciuto. Dio è assolutamente
indipendente dalla creazione: tutto ciò che Dio conosce e
vuole da una creatura è dunque conosciuto e voluto in mo­
do contingente, almeno prima che la creatura esista. Se A
esiste, A non può più non esistere e si parla quindi di una
certa necessità. Tale necessità si ripercuote sulla conoscenza
e il volere di Dio. Se A esiste, Dio non può più non volere
l’esistenza di A, e non può più non conoscere l ’esistenza di
A. La causa di questa necessità risiede da un lato nel volere
di Dio, che vuole l’esistenza della creazione, e dall’altro nel­
la natura della creazione, che - se esiste - non può più non
esistere (DCF co n ll, 267).
Tale necessità non è perciò assoluta, ma puramente con­
dizionale. Dio è libero e può anche non volere l’esistenza
della creatura. Ma se egli vuole la creatura, subentra la ne­
cessità. Tale necessità segue l’esistenza della cosa neña realtà
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

e non esiste in precedenza nella causa come causa praece­


den s (ib conio, 256).

6.1.4. «Bradwardine difende un determinismo assoluto»

Secondo Buckingham, Bradwardine aveva commesso


l’errore di individuare nella causa, già prima dell’esistenza
di una cosa, la necessità che segue l’esistenza della cosa. Co­
sì facendo egli difendeva un determinismo assoluto, a cui
non può sfuggire nemmeno la volontà umana.
Per evitare tale determinismo, Buckingham scelse un’al­
tra via. Egli descrisse nel seguente modo la combinazione
tra certezza del sapere divino e libertà dell’uomo; il sapere e
il volere di Dio sono liberi e tale libertà è la causa della li­
bertà dell’uomo (DCF con8, 218). Se l’uomo agisce, Dio sa
quello che l’uomo fa e anch’egli lo vuole. Il sapere divino e
l’arbitrio divino non impongono all’uomo alcuna necessità
interiore. Dio conserva sempre la possibilità di poter agire
diversamente; ciò fa parte della sua assoluta causalità. Ma
anche l’uomo resta libero: rispetto al futuro egli può sempre
agire diversamente da quella che era la sua intenzione inizia­
le. Solo così si può parlare di contingenza nel mondo creato
(ib coni 1,239-241).

6.1.5. L’unione di libertà e necessità

Se Dio sa che l’uomo ha generato A, è necessario che


l’uomo abbia generato A; di conseguenza è anche necessario
che Dio sappia della generazione di A, poiché la modalità
della conoscenza segue la modalità della cosa. Tale necessità
non riguarda la natura interna dell’uomo o di Dio, ma il fa t­
to che l’uomo abbia generato A nel momento T. Se l’uomo
ha generato A nel momento T, in quel momento non può
più generare -lA. La conoscenza di Dio di questo fatto è in-

90
Semantica e teologia. Il problema del sapere divino

,[g]|ibile e quindi altrettanto immutabÜe e necessaria quanto


il fatto stesso. Egli sa dall’eternità che l’uomo nel momento
X genererà A e non Ü contrario -lA. Dall’eternità Ü suo sape­
r e di A è dunque necessario, senza che in questo modo ven­

ga eliminata la libertà dell’uomo (DCF con9, 247).


Nel suo agire l’uomo rimane libero, e in questa libertà
egli viene sostenuto dalla libertà dell’agire divino. Per
Buckingham quindi hbertà e necessità sono abbinate. Solo
quando la necessità viene concepita come un qualcosa che
segue l’agire umano {necessitas ex su p position e o ex con d itio ­
ne), e non come un qualcosa che lo preced e [necessitas p ra e ­
cedens), è possibüe risolvere ñ problema deMa libertà umana
e della necessità e certezza del sapere divino (ib con9, 243).
B radw ardine con la sua d ife sa d i Dio ha ingiustamente co­
stretto l’uomo nelle catene della necessità, così concludeva
Buckingham (ib conlO, 251).

7 . D io o l’ u o m o ?

A Oxford il dibattito tra Bradwardine e Buckingham


non passò inosservato. Nelle loro opere, teologi come Nico­
la Aston e Giovanni Klenkok rimandavano alle concezioni
di entrambi i pensatori. Anche altrove, e specie a Parigi,
vennero citate le teorie di Bradwardine e del suo oppositore
Buckingham, ad esempio da Stefano Gaudet e Giovanni da
Ripa (Genest 1992, 174-179).
L’ambiguità che era alla base della posizione di Bradwar­
dine veniva evidenziata ogni volta: la libertà assoluta e la
causalità di Dio è garantita a condizione che l’uomo nelle
sue azioni venga completamente guidato da Dio. Ciò che
per l’uomo si chiama libera azione in realtà è necessaria­
mente determinato dalle condizioni dell’atto di volontà
(Dio).

91
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

Nonostante il tentativo di Buckingham, non si giunse a


una soluzione definitiva del problema. Nella seconda metà
del Trecento l’interesse si spostò lentamente verso la temati­
ca delle idee divine, come si può constatare nelle opere di
Wychf, che verranno trattate nel capitolo successivo. La
tensione tra determinismo divino e libertà umana continuò
tuttavia a esistere. Essa si manifestò soprattutto in Wyclif,
Nonostante Wyclif rimanesse fedele alla libertà dell’uomo e
rifiutasse la concezione per cui tutto avviene necessaria­
mente - definendola un errore filosofico e teologico (Tun
cl5, 348) - tuttavia i suoi oppositori erano fermamente
convinti che egli difendesse un determinismo assoluto, so­
stenendo che tutto ciò che Dio sa avverrà necessariamente.
Le conseguenze sono note: il concilio di Costanza con­
dannò nel 1415 la concezione di Wyclif, secondo cui tutto
avviene con assoluta necessità {quod om nia d e necessitate
absoluta even iu n t) (DH 1177). Alcuni anni piii tardi, anche
Hcarmelitano Tommaso Netter di Walden mosse dure criti­
che al determinismo di Wyclif (IDAF al c21-23, 117-131).
Da un punto di vista contenutistico Bradwardine e Wy-
cMf non possono essere paragonati. Ma per il fervore dimo­
strato nella «causa di Dio» hanno entrambi attirato su di sé
il sospetto di aver dimenticato l’uomo e di averlo privato
della sua libertà.

92
Capitolo quarto
T e o l o g ia e m e t a f isic a .
L’e r m e n e u t ic a di G io v a n n i W y c l if

1. I n t r o d u z io n e

Le Scritture sono ñ fondamento più importante della


teologia, anche per ciò che riguarda teorie speculative come
la trinità e la presenza reale di Cristo nell’ostia. Tale convin­
zione era condivisa da quasi tutti i teologi medievali. Nelle
Scritture Dio si è rivelato all’uomo in una maniera particola­
re e perciò è proprio della teologia fondarsi in primo luogo
sull’autorità delle Scritture e non su quella della ragione
umana.
Ma ciò che a prima vista pare così chiaro e incontestabile,
cioè che le Scritture costituiscano Ü fondamento, a un’analisi
più attenta rappresenta un problema. L’autorità delle Scrittu­
re può anche essere certa per tutti, ma questo non spiega af­
fatto co m e questa autorità debba essere letta e interpretata.
In risposta a questo problema, nell’esegesi tradizionale si
è fatta una distinzione tra i diversi significati contenuti nelle
Scritture. I testi sacri descrivono fatti storici ed hanno spes­
so un significato allegorico, tropologico o anagogico (Lubac
1959). Ma per lo scolastico medievale a ciò si aggiungeva un
ulteriore significato. Egli cercava una giustificazione razio­
nale del patrimonio di fede e investigava così in quale misu­

93
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

ra il contenuto delle Scritture può essere penetrato dalla ra­


gione umana. Egli cercava di individuare il contenuto ‘razio­
nale’ delle Scritture.
La ricerca di un nucleo della fede che sia trasparente alla
ragione umana non è patrimonio esclusivo della scolastica
medievale. Questo sforzo è riscontrabile anche nei primi
apologeti. Ma nel Medioevo esso raggiunse il culmine ad
opera della dialettica, che si sviluppò a ritmo sempre piti ve­
loce dal dodicesimo secolo in poi. Ciò portò a reazioni con­
trastanti.
Alcuni teologi giunsero alla conclusione che i misteri
della fede non potevano essere compresi dalla ragione uma­
na o potevano esserlo solo in parte (Tommaso d’Aquino,
Marsilio di Inghen). La ragione umana è legata al corpo. Il
pensiero dell’uomo porta perciò l’impronta indelebile del
mondo sensibile e non può innalzarsi aHa contemplazione di
un essere puramente immateriale quale è l’essenza divina.
Perciò la trinità rimane sempre inaccessibile all’uomo. Se
l’uomo però confidasse nel proprio pensiero, finirebbe ne­
cessariamente su una falsa pista. Egli si affiderebbe alle sue
capacità limitate e non al messaggio di salvezza di Dio, met­
tendo così la sapienza mondana al di sopra di quella divina.
La vera sapienza non è di questo mondo, ma è celata in Dio
e solo da Dio può essere rivelata all’uomo, com’è avvenuto
nelle Scritture e nella persona di Gesti Cristo. Il teologo
dunque nelle questioni di fede non può avere come presup­
posto la propria idea, bensì solo e unicamente la rivelazione
di Dio. Il suo compito è quello di scoprire il messaggio divi­
no e di presentarlo agH altri. Questa posizione poteva rial­
lacciarsi a san Paolo, che nella sua prima Lettera ai Corinzi
confronta la sapienza divina con quella mondana (ICor
1,18-21), e alla parola altrettanto potente di Tertulliano per
cui Gerusalemme (la rivelazione) non ha niente a che vedere
con Atene (la filosofia).

94
Teologia e metafisica. L’ermeneutica di Giovanni W yclif

In opposizione a ciò, altri sottolinearono la forza dello


spirito umano (Anseimo, Eckhart, Cusano). L’uomo può li­
berarsi dalle limitazioni sensibÜi concentrandosi esclusiva-
mente suHe sue capacità spirituali. Eiflettendo sulla sua na­
tura di immagine di Dio, egli può risahre all’origine divina e
avere accesso a misteri divini come quello della trinità. Ciò
non va da sé, dal momento che lo spirito può farsi continua-
mente tentare dai sensi. L’uomo dev’essere messo sulla stra­
da giusta dalle Scritture [credo ut in tellegam ). Le Scritture
contengono la verità che l’uomo può penetrare con il suo
pensiero, ma essa non viene espressa nella Scrittura in modo
concettuale. Il teologo va dunque in cerca di una giustifica­
zione concettuale dei misteri della fede e in ciò è sostenuto
dall’origine divina del suo pensiero. La teologia non è così
solo il discorso su Dio, ma anche Ü discorso d i Dio: nel pen­
siero umano si rivela la sapienza divina. Un interessante
esempio di questa convinzione è Meister Eckhart, che nella
sua opera intraprese il tentativo di coUegare tra loro filosofia
ed esegesi (Mojsisch 1983, 6-20).

2. G io v a n n i W y c l if

I progetti come quelli di Meister Eckhart non rimasero


confinati al continente; anche Wyclif nella seconda metà del
Trecento intraprese un tentativo analogo. Sulla base dei testi
biblici egli cercò di svÜuppare una metafisica in grado di for­
nire al teologo uno strumento per interpretare le Scritture in
modo adeguato e conciliare le apparenti contraddizioni in
esse contenute (Benrath 1974, Leff 1987, Tresko 1989).

2.1. Le Scritture co m e Parola d i Dio

Secondo Wyclif le Scritture sono una rappresentazione

95
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

del Verbo divino, che è eterno e immutabile, e in quanto tali


devono essere lette. Esse sono vere in tutte le loro parti e
non si contraddicono mai (SmaUey 1964). La logica delle
Scritture va oltre la logica aristotelica. Cose che per que­
st’ultima sembrano essere contraddittorie, come la trinità,
non lo sono per la logica delle Scritture. Le Scritture con­
tengono tutto il sapere. Ogni forma di sapere che aspiri alla
verità, quindi anche la filosofia, deve riconoscere il suo fine
ultimo nelle Scritture. Nessun vero filosofo può dunque es­
sere contro le Scritture. Cristo in quanto Verbo incarnato è
poi il sommo filosofo (VSS c2, 32).
Essendo la forma piii alta di sapienza le Scritture conten­
gono in sé la norma per la loro interpretazione. Il teologo
deve scoprire tale norma e servirsene come guida nella let­
tura delle Scritture. In ciò il teologo può sentirsi forte della
certezza che in senso letterale - ovvero d e virtu te serm o n h -
le Scritture sono sempre vere (FZ 1, 456). Il significato lette­
rale è il significato che l’autore stesso (Dio) ha messo nelle
Scritture (parola di Dio). L’anaHsi del senso letterale rivela
l’intenzione deU’autore.
Il teologo può dtmque basarsi sul testo deHe Scritture,
ma deve prenderlo nel suo complesso. Il pensiero divino e
l’arbitrio divino sono indivisi e knmutabiH. Non può essere
che il significato di un punto contraddica il significato di un
altro punto. E piuttosto il contrario, che il significato di un
punto chiarisce il significato di un altro pimto. Le Scritture
devono essere lette in modo da rispecchiare l’unità deUa pa­
rola diviaa (FZ 1, 456-457).

2.2. h a critica

A prima vista le concezioni di Wyclif non si discostano


da ciò che sostengono altri pensatori. Allo stesso modo Gu­
glielmo di Nottingham, Tommaso d’Aquino e Nicola di Ly-

96
Teologia e metafisica. L ’ermeneutica di Giovanni Wyclif

ra affermano che ñ senso letterale coincide con l’intenzione


dell’autore (Dio), la cui conoscenza contiene tutto allo stes­
so tempo (Evans 1985, 43-44). Il senso letterale non può
mai essere non vero, visto che è espressione del pensiero di­
vino, così aggiunge esplicitamente Tommaso (IS ql alO).
Nella sua opera Wyclif rimanda a Tommaso in diversi
punti e a lui ricorre anche spiegando il modo in cui tutto è
presente alla conoscenza divina. Tuttavia la reazione a W y­
clif è totalmente diversa da quella che ricevette Tommaso.
Ciò non è casuale. Ai tempi di Wyclif si era diventati molto
più sensibili alle possibili interpretazioni eretiche delle Scrit­
ture e a ciò sembrava portare la rivendicazione di Wyclif
che le Scritture sono vere in senso letterale.

2.2.1. Guglielmo Woodford OFM

Così vediamo che il teologo inglese Guglielmo Wood­


ford criticò aspramente l’interpretazione letterale delle Scrit­
ture sostenuta da Wyclif, poiché portava a errori clamorosi.
Lo fece soprattutto nelle sue Q uattuor determ ination es,
scritte a Oxford nel 1389-1390 (Doyle 1977). Woodford era
consapevole dell’incertezza del testo delle Scritture così
com’era stato tramandato e dell’autenticità dei libri in esse
contenuti. Per questo ai suoi occhi era una follia che un teo­
logo si basasse esclusivamente sulle Scritture. Il fondamento
dell’autorità delle Scritture non risiede solo nelle Scritture
stesse, ma è basato anche sulla tradizione e sulle istituzioni
ecclesiastiche. Così come Cristo ha unito in sé il divino e l’u­
mano, allo stesso modo l ’autorità delle Scritture poggia su
Dio e sull’uomo. Non tutto ciò che è umano è cattivo e ri­
provevole, come sottintendeva Wyclif esprimendo la sua ri­
serva nei confronti della logica e della tradizione umana. Le
istituzioni umane forniscono infatti una garanzia contro le
interpretazioni sbagliate delle Scritture (Gosh 1998).

97
A O xford: dibattiti teologici nel tardo M edioevo

2.2.2. Giovanni Kenningham OCARM

Woodford formulò la sua prima critica a Wyclif nel


1376. Già prima il carmelitano Giovanni Kenningham aveva
sottoposto ad aspra critica l’esegesi di Wyclif nelle sue De­
term in ationes contra W yclif { l ì l 2). La sua critica rivolta al
fondamento metafisico del commento bibHco di Wyclif è,
per varie ragioni, di grande importanza storica (Hoenen
1999). Si tratta di uno dei primi dibattiti documentati con
testi dettagliati sulla dottrina di Wyclif, in cui non veniva
analizzata solo la pertinenza fMosofica, ma anche le possibili
implicazioni eretiche. Inoltre, i testi di Kenningham ci offro­
no un quadro degli oppositori a cui Wyclif si rivolgeva nella
sua opera. EgH polemizzava continuamente con i cosiddetti
«sofisti», termine che nel linguaggio universitario corrente
indicava i giovani studenti di logica. Ma Wyclif lo utilizzava
in senso metaforico, prendendo di mira i teologi che nel
commento alle Scritture si comportavano come questi stu­
denti giovani e inesperti, senza cioè considerare la logica
propria alle Scritture e ritenendo ingenuamente di poter ap­
plicare ad esse la loro logica limitata.
Wyclif non fece nomi, parlò solo di «dottori dei segni»
{doctores signorum ). Da ciò si deduce che egli probabilmen­
te si riferiva a certi nominalisti, ma è difficile individuare chi
in realtà avesse in mente e quali teorie sostenessero i suoi
oppositori. L’opera di Kenningham viene in aiuto a tale pro­
posito, visto che le concezioni di Kenningham corrispondo­
no esattamente a quella che Wyclif descrive come l’opinione
dei d o ctores signorum . Ciò non significa che Wyclif polemiz­
zasse continuamente contro Kenningham. Probabilmente
quest’ultimo fu solo uno dei molti oppositori presi di mira.
Non si può neanche escludere che Wyclif in qualche caso si
rivolgesse a oppositori immaginari. Tuttavia, nonostante
questi limiti, l’opera di Kenningham dà tm’immagine eoe-
Teologia e metafisica. L ’ermeneutica di Giovanni Wyclif

rente delle concezioni criticate e chiarisce così a sua volta


anche la posizione dello stesso Wyclif.

3 . 1 PRINCIPI d e ll ’e r m e n e u t ic a

Prima di entrare nel dibattito tra Wyclif e Kenningham


bisogna innanzitutto analizzare attentamente il pensiero di
Wyclif, in particolare le sue concezioni sull’ermeneutica del­
la lettura biblica. Questo non è un compito facile. L’opera
di Wyclif è di difficile accessibilità. Egli non utilizza il co­
mune metodo scolastico del commento o della disputa, ben­
sì uno stile di scrittura libero, che gli consente di percorrere
nel corso del ragionamento tutta una serie di strade secon­
darie. Spesso sembra anche che così facendo egli si contrad­
dica. Ad esempio quando dice che le Scritture devono esse­
re analizzate letteralmente e che non c’è bisogno di cambia­
re alcuna parola o lettera; mentre d’altra parte sottoHnea
che non ci si deve fermare alla lettera, poiché essa può
confondere, ma bisogna ricercare il contenuto spirituale che
vi sta dietro. Ad un’analisi più approfondita diviene chiaro
quello che intende, ma è troppo spesso una strada lunga, re­
sa ancora più difficile dal latino ostico di Wyclif, caratteriz­
zato da molte formulazioni ellittiche.
Nell’analisi di Wyclif vengono in aiuto le sintesi schema­
tiche che egli stesso fa in alcuni punti della sua opera, dove
ad esempio cita le tappe che deve percorrere il teologo nello
studio delle Scritture e i diversi modi in cui si può parlare
delle Scritture. La cosa singolare è che spesso si tratta di
cinque fasi o parti. Anche altri teologi medievali a volte mo­
strano una particolare preferenza numerica. Francesco de
Mayronis nel suo C om m ento alle S entenze dava sempre
quattro argomenti per ogni punto di vista. È difficile risalire
al significato più profondo di ciò.

99
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

Utilizzeremo questi schemi riassuntivi di Wyclif cortie


spunto per la nostra esposizione. Essi forniscono un quadro
soddisfacente dei principi della sua ermeneutica.

3.1. La conoscenz a d elle Scritture

Nel primo libro del De perita te Sacrae Scripturae (1372)


Wyclif paragona la via che il teologo deve percorrere nell’a­
nalisi delle Scritture con quella dello scolaro che apprende
una lingua. In entrambi i casi il significato proprio deve es­
sere ricercato dietro la lettera delle parole. Le parole sono sì
necessarie a scoprire il senso, ma lo possono anche coprire,
se ci si sofferma troppo suUa forma esteriore.
Lo scolaro comincia dall’alfabeto, poi impara le sillabe, e
di seguito le parole e le frasi, per capire infine il contenuto.
In questo processo ogni passo precedente è necessario per
quello successivo, ma deve tuttavia essere abbandonato per
poter andare avanti. Il significato di un testo non viene com­
preso se visto esclusivamente come una raccolta di singole
lettere, sillabe o parole. Il senso si rivela solo nell’insieme
(VSSc3,44).
Anche il teologo deve percorrere tina strada analoga. In
primo luogo deve appropriarsi dei principi della grammati­
ca. Poi è la volta della grammatica e dell’idioma proprio del­
le Scritture. In seguito deve dedicarsi alla comprensione del
senso che l’autore ha dato alle Scritture. Infine gli si rivelerà
il libro della vita, la saggezza divina. Ciò avverrà nel suo si­
gnificato pieno e senza schermi {sine velam in e) solo se egli
non si sarà fermato ai segni sensibili delle Scritture, ma sarà
penetrato nel contenuto spirituale. I segni sensibili delle
Scritture confondono e impediscono all’uomo di arrivare a
Dio, se non vengono visti come un mezzo per giungere a un
fine piii alto. In tal caso essi non sono d’aiuto, ma agiscono
come un veleno. Questo pericolo è sempre presente e l’uo-

100
Teologia e metafisica. L ’ermeneutica di Giovanni W yclif

0io può evitarlo solo a fatica. Per questo Cristo e i santi, così
dice Wyclif, non hanno fissato nulla su di una pagina mate­
riale, ma hanno scritto tutto nei cuori degli uomini, per non
indurM a fermarsi all’esterno senza vedere il contenuto (ib
44-45).

3.LL Unità delle Scritture

Il paragone appena citato fa luce su un importante ele­


mento dell’ermeneutica di Wyclif: l’enfasi sull’unità. Le
Scritture non vanno considerate come ima raccolta di singo­
le parti, bensì come un insieme coerente, il cui significato
diventa chiaro solo se considerato nella sua globalità. Que­
st’enfasi sull’unità delle Scritture non era solo motivata teo­
logicamente, in quanto Wyclif identifica l’unità con il libro
della vita, ma aveva anche uno sfondo pratico. Nel Medioe­
vo il testo delle Scritture fu tramandato perlopiìi in parti
staccate, per cui era probabile che mancasse una visione
coerente dell’insieme (Evans 1985, 69).

3. J .2. Codici lacunosi

Anche l’esortazione a non fermarsi alla lettera del testo è


stata probabilmente dettata da considerazioni pratiche. Era
risaputo che il testo delle Scritture, nella forma in cui era
stato tramandato nei manoscritti, fosse lacunoso. Nel suo
De doctrina christiana sant’Agostino aveva stilato delle rego­
le su come bisognava comportarsi rispetto alle differenze tra
i testi tramandati. Ruggero Bacone criticò i testi tramandati
delle Scritture, che a suo parere sarebbero stati corrotti in
alcuni punti, e ancora prima della metà del Duecento alcuni
aggiunsero al testo delle Scritture una sorta di apparato cri­
tico, in cui venivano elencate le varianti del testo (Evans
1985, 71-72). Anche Wyclif sottolineò che non bisognava

101
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

farsi mettere su una falsa pista da un testo corrotto delle


Scritture. Tutte le volte in cui ripeteva che ü testo delle
Scritture non ha bisogno di essere corretto in nessun punto,
egli non intendeva il testo effettivo come tramandato nei
manoscritti, bensì il testo origiaale, com’è scritto nel Libro
della Vita. La critica di Woodford, a cui già si è fatto cenno,
è in questo senso ingiusta, ma è la conseguenza del modo
infelice e polemico in cui spesso si esprimeva Wyclif.

3.L3. La critica ai nominalisti

Il significato proprio delle parole secondo Wyclif si rive


la solo prendendo conoscenza dell’insieme in cui la parola
viene utilizzata, non considerando la parola a sé o nel conte­
sto isolato della singola frase di cui fa parte. Questo è il nu­
cleo della sua critica ai nominalisti o, com’egli stesso li chia­
ma, d o ctores signoru m e «sofisti». Secondo Wyclif i nomina­
listi partono dal presupposto che il significato di una parola
può essere dedotto solo dal contesto diretto. Il sen su s pro-
prius o la virtus serm on is, così sostengono, è il significato
primo e immediato di ciascuna parola. L’intenzione dell’au­
tore, che può utilizzare la parola in senso metaforico, non vi
ha alcuna parte (VSS cl9, 114-115).
La verità o non verità di una frase è perciò legata al si­
gnificato logico delle parole, per cui vale come criterio, se
soggetto e predicato si riferiscono tutti e due allo stesso in­
dividuo. Se entrambi stanno per la stessa cosa, allora la pro­
posizione è vera. In caso contrario, invece, allora non è vera.
Frasi metaforiche come «Cristo è un leone» sono quindi per
definizione non vere. Lo stesso vale per il Unguaggio iperbo­
lico e ogni altro stile che non soddisfi le regole della logica.
Secondo le regole deUa logica, dunque, alcune affermazioni
della Bibbia non sono vere, così argomentano i d o cto res si­
gnorum .

102
Teologia e metafisica. L ’ermeneutica di Giovanni W yclif

Wyclif considerò assurda tale conclusione. E impossibÜe


che le Scritture contengano cose non vere, poiché sono la
parola di Dio. Nel definire la verità e la non verità non pos­
sono perciò valere le regole della logica - che sono applica­
bili solo alle parole e alle frasi - , bensì l’intenzione dell’auto­
re, che si riferisce al contenuto nascosto dietro le parole e le
frasi (ib c3, 44).

3.L4. Il significato proprio delle parole

Il dibattito sul senso proprio delle parole era già stato af­
frontato neña grammatica classica, ma nel quattordicesimo
secolo sotto l’influsso degli svñuppi deña logica raggiunse
un’importanza notevole (Courtenay 1984). Per i teologi di­
venne sempre più chiaro che esisteva una differenza fonda-
mentale tra ñ linguaggio comune e queño deña logica. A f­
fermazioni ritenute vere nel linguaggio comune risultavano
non vere in base añe regole deña logica e viceversa. Così si
fece pressante la questione relativa a quale significato doves­
se essere normativo neUa teologia: queño deña tradizione o
quello deña logica?
A questo proposito è esemplare Ü cosiddetto statuto an­
tinominalista parigino del 1340 (Kaluza 1994). Lo statuto
vieta di sostenere la concezione secondo cui Ü significato
proprio delle parole si identifica con ñ significato logico.
Leggendo le Scritture e le opere di Aristotele non bisogna
fare attenzione al significato logico deñe parole, ma all’in­
tenzione deñ’autore, altrimenti si arriva a contraddizioni ed
errori. Ciò poteva indurre gli studenti aña falsa convinzione
che le Scritture contenessero cose non vere.
Come risulta da questo e da altri documenti, le opinioni
sul ruolo deña logica erano alquanto discordanti. Alcuni ri­
tenevano che Ü significato proprio fosse queño logico e che
bisognava attenersi ad esso neña scienza e quindi anche nel­

103
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

la teologia. Altri erano convinti che il senso proprio fosse


quello logico, ma erano però del parere che nella teologia,
per evitare confusione, dovesse prevalere il linguaggio in
uso {mus loquendi). Altri ancora sostenevano che il signifi­
cato proprio non era quello logico, bensì l’intento deU’auto­
re, dal momento che era lui a dare alle parole il loro signifi­
cato. In questo dibattito ebbero un ruolo importante teologi
inglesi come Riccardo di Campsall, Guglielmo di Ockham,
Giovanni Wyclif, Riccardo Brinkley e Giovanni Kennin­
gham (Courtenay 1984).
Soprattutto la posizione di Ockham merita attenzione.
Egli fece notare come i vecchi teologi nell’uso del linguaggio
non si fossero attenuti alle regole della logica, per cui i loro
testi non andavano giudicati secondo le regole della logica.
Chi usa le parole dà ad esse Ü suo significato e per questo il
significato proprio non è quello logico, bensì l’intenzione
dell’autore (TrQ q3, 69).
Ciò coincide a grandi linee con quanto afferma Wyclif.
Dunque Wyclif con la sua critica ai nominalisti non si riferi­
va a Ockham, o perlomeno non alla sua concezione del si­
gnificato proprio delle parole. Eppure c’è anche una chiara
differenza tra Ockham e Wyclif: per Wyclif esiste ancora un
secondo tipo di logica, la logica ca elestis del Libro della Vita,
che differisce daña logica sofistica deU’uomo. Questa è la lo­
gica che Dio ha posto neUe Scritture. Tale logica coincide
perfettamente con l’intenzione deU’autore (VSS c3, 48).

3.2. I cin q u e sign ifica ti d e lle Scritture

Secondo Wyclif la logica deUe Scritture corrisponde alla


logica divina, non a quella umana. Esse non contengono al­
cuna cosa non vera, sono completamente pure e non conta­
minate da nuUa. NeUa loro forma più alta Wyclif le identifi­
ca con il Libro deUa Vita {liher vitae), in cui vi sono i nomi

104
Teologia e metafisica. L ’ermeneutica di Giovanni Wyclif

degli eletti. Il Libro della Vita è così il significato principale


delle Scritture, il suo senso più profondo. Accanto a ciò
WycHf distingue altre quattro forme delle Scritture (VSS c6,
108-115), ordinate gerarchicamente. L’unità originaria e l’as­
soluta necessità del Libro della Vita si è frammentata sem­
pre più finché alla fine ha assunto la configurazione visibile
e mutabile dei testi biblici riportati sui codici di pergamena
e di carta.
Come secondo significato, subito dopo il Libro della Vi­
ta, seguono le verità teoriche o idee contenute nel Libro. Es­
se esistono nel pensiero {esse cogn itum ) divino e sono altret­
tanto necessarie quanto il Libro della Vita. Non differiscono
in modo essenziale, ma solo formale o razionale {secundum
rationem ) dalla più alta forma di sapienza. Esse vanno con­
siderate come il contenuto che nella sostanza coincide com­
pletamente con il Libro. Ma c’è una differenza; nel Libro
viene sottolineata l’unità, mentre le verità scritte nel Libro
esprimono piuttosto la molteplicità e la comprcnsività della
sapienza divina (ib 108).
Il terzo significato sono le verità effettivamente verifica-
tesi nella storia, come la creazione del mondo o la vita di
Gesù. Esse esistono come idea ah a etern o nel pensiero divi­
no e differiscono dalle verità eterne in quanto non sono ne­
cessariamente vere; lo sono solo in quanto si riferiscono a
una particolare scelta di Dio. Corrispondono alle idee prati­
che nella sapienza divina; rappresentano il piano del mondo
effettivo creato da Dio così come stabilito nella creazione.
Sebbene esse non siano necessarie, appartengono al patri­
monio di fede necessario e devono essere credute da cia­
scun fedele (ib 108).
I significati delle Scritture finora citati sottolineano l’a­
spetto divino. Essi coincidono con Dio e sono altrettanto
perfetti. Fin qui le Scritture sono vere in tutte le loro parti e
in tutte le loro forme, non hanno bisogno di alcuna corre­

105
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

zione. Dubitare della verità delle Scritture è dubitare di Dio,


Diversamente è per i due rimanenti significati, che sono le
rappresentazioni create del Verbo divino. Il quarto significa­
to è costituito dalle verità nel cuore degli uomini e come
quinto e ultimo significato vi è il testo deUe Scritture nei co­
dici di carta e di pergamena. In entrambi i casi non si tratta
deUa verità eterna, ma solo di un riferimento ad essa. Perciò
in questi due significati le Scritture possono essere definite
‘sacre’ solo in senso derivato. I codici sono opera deU’uomo
e possono contenere errori, che devono essere corretti. Ma
ciò nuUa toglie aUa perfezione deUe Scritture. Il testo scritto
è solo un segno che deve ricordare aU’uomo {signum m em o­
randi) la somma verità e che lo deve avvicinare a Dio in mo­
do adeguato {medium recte inducens), mentre U Libro deUa
Vita è eterno e immutabile (ib 109-115).

3.2.1. Ispirazione neoplatonica

L’ispirazione neoplatonica di questo schema è evidente. Si


tratta di una struttura gerarchica: l’unità del Libro deUa Vita
è attiva fino al liveUo piti basso, però man mano che si unisce
al mondo sensibile si frammenta sempre più perdendo la sua
universalità e necessità. Il potere persuasivo che U testo deUe
Scritture ha per i fedeU non risiede nel testo effettivo, che è
solo una rappresentazione debole e casuale deUa verità, ma
negH eventi che esse descrivono e ancora di più neUa sapien­
za divina che ha reso possibili tali eventi (VSS c6. 111).

3.3. R ego le p e r una corretta lettura d elle Scritture

La struttura gerarchica deUe Scritture ha conseguenze


dirette per l’ermeneutica biblica. Wyclif distingue cinque
strumenti che devono consentire al teologo di scoprire la ve­
rità deUe Scritture. Da essi risulta evidente anche l’impor­

106
Teologia e metafìsica. L’ermeneutica di Giovanni Wyclif

tanza dell’atteggiamento interiore del teologo. Il commento


alle Scritture non è solo un processo scientifico conoscitivo,
ma richiede anche un corretto atteggiamento spirituale.
Senza tale disposizione non è possibile scoprire il vero senso
delle Scritture.
I primi tre strumenti sono tecnici e riguardano il testo
letterale delle Scritture. Essi coincidono parzialmente con le
regole di cui già si è parlato, per le quali Wyclif si è ispirato
ad Agostino {De doctrina christiana).
In primo luogo bisogna correggere i manoscritti, ad
esempio confrontandoli tra loro. NeUa correzione il teologo
non può farsi guidare dalla sua opinione personale, ma solo
ed esclusivamente dall’intento dell’autore, cioè Dio (VSS c9,
195).
Successivamente egli si deve dedicare a scoprire la logica
delle Scritture, per poterle così difendere contro gli argo­
menti dei sofisti. Affermazioni che a prima vista sembrano
strane e non vere diventeranno familiari dopo ripetute lettu­
re. Così avviene anche nella vita normale. Ciò che all’inizio
può sembrare strano, una volta che ci si è fatta l’abitudine
risulta formulato in modo molto efficace. Il teologo deve
perciò abituarsi al linguaggio biblico, in modo da avere ac­
cesso al pieno contenuto delle Scritture, senza che esso ri­
manga nascosto a causa della sua incapacità (ib 196-197).
In terzo luogo egli deve leggere spesso le Scritture per
imparare a vederne la coerenza interna. A questo proposito
i brani che sembrano contraddirsi mettono il teologo sulla
strada giusta. Matteo attribuisce a Geremia la profezia dei
trenta denari (Mt 27,9), che però non si trova in Geremia,
bensì in Zaccaria (Zc 11,12-13). Questo rimando errato -
così ritiene Wyclif - non rende falsa la testimonianza di
Matteo, ma serve piuttosto a evidenziare l’unità dei profeti.
Lo Spirito Santo guidò la penna di Matteo a scrivere Gere­
mia invece di Zaccaria, per rivelare così al lettore che i santi

107
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

profeti parlavano con una sola bocca. Ogni singola parola


che lo Spirito Santo ispira a un profeta, la ispira anche all’al­
tro. Tra i profeti esisteva una tale forza vincolante e una tale
concordia, che ogni parola di Zaccaria è in assoluta armonia
con Geremia e viceversa. L’unità divina riunisce gli opposti.
Quello che all’uomo sembra una contraddizione, per Dio è
una conferma dell’unità (ib c9, 196-198).
Ciò solleva la questione dell’atteggiamento che l’uomo
deve assumere per potersi disfare del suo modo di vedere
umano limitato e aprirsi alla sapienza divina. Dio è libero e
può quindi rivelare o nascondere ñ contenuto delle Scrittu­
re a suo piacimento. Le stesse Scritture testimoniano del fat­
to che Dio tiene nascosti i misteri ai sapienti, ma li rivela ai
piccoli (Mt 11,25). Accanto ai tre già citati mezzi tecnici è
dunque richiesta anche una buona disposizione, che può
aprire l’uomo alla rivelazione divina.

3.3.1. La giusta disposizione

Secondo Wyclif la giusta disposizione del teologo consta


di tre aspetti. L’autorità delle Scritture dev’essere accettata
in tutta umiltà. Il teologo non può mai mettere in dubbio
che esse contengano la completa verità. Eventuali cose non
vere che egli crede di scoprire sono dovute alla sua incapa­
cità e cecità. Il teologo deve sapere, guidato dalla convinzio­
ne interiore, che le Scritture non possono ingannarlo in nes­
sun punto (VSS c9, 198-199).
Questa esigenza di umile sottomissione all’autorità delle
Scritture è inoltre integrata da altre due condizioni, che
chiariscono come accettare la verità delle Scritture non sia
fideismo cieco.
In primo luogo Wyclif sottolinea la razionalità delle
Scritture. Il vero contenuto delle Scritture è sempre in ac­
cordo con la ragione {ratio) divina e umana. Di conseguenza

108
Teologia e metafisica. L ’ermeneutica di Giovanni Wyclif

la ragione umana è un testimone necessario nella ricerca del


contenuto delle Scritture [testis n ecessa riu s ad habendum
sententiam scripturae) (ib 200). Wyclif può sottolinearlo poi­
ché è convinto che la ragione non possa mai pensare cose
non vere. Essere conoscibile è una caratteristica dell’essere,
per cui solo ciò che è può essere pensato. La verità dell’esse­
re è espressa in maniera esemplare nel pensiero divino e nel­
le idee divine. Il pensiero divino è dunque la norma del
pensiero umano. Per questo l’uomo non può neanche mai
argomentare sensatamente che Dio non esiste, dato che Dio
non può pensarsi come non esistente. Se tuttavia l’uomo si
trovasse in presenza di un argomento a favore della non-esi-
stenza di Dio, allora egli sa già in anticipo che tale argomen­
to non può essere vero (ib cl9, 121-122).
In secondo luogo Wyclif sottolinea la tradizione. Il com­
mento alle Scritture deve essere messo a confronto con le
parole dei santi doctores. In cose che non hanno nuUa a che
fare con le Scritture l’uomo si affida alle dichiarazioni di te­
stimoni. A maggior ragione deve farlo anche per una cosa
importante come le Scritture. Non prendere in considera­
zione il commento attestato nei santi, è per un teologo un
segno di incredulità [infidelitas) (ib c9, 201).
I requisiti citati non possono essere considerati indipen­
dentemente l’uno dall’altro. Affidarsi alla sola ragione uma­
na rende ciechi. L’uomo è troppo debole per riuscire a di­
schiudere la verità con la sua sola ragione. La ragione va ab­
binata al rispetto per le Scritture e per la tradizione. Solo
così la ragione funziona in modo ottimale.
L’ultima via che Ü teologo deve percorrere per poter
spiegare le Scritture è quella di aprirsi continuamente agli
insegnamenti divini [d ei instructio). Questo per Wyclif è un
fatto d’importanza centrale: Dio è il sommo maestro e non
si può imparare nulla se non è lui a istruirci. Senza quest’ul­
tima via le altre sono inutili. Dio è l’attività intelligente [in-

109
A Oxford; dibattiti teologici nel tardo Medioevo

tellectu s agens) che ha creato tutto fin nei minimi dettagli e


che illumina nel modo migliore la ragione umana. Lo fa in
vari modi che a prima vista sembrano completamente diffe­
renti. Ma questa molteplicità si addice alla sua supremazia
universale e sconfigge la superbia dell’uomo, poiché supera
le capacità umane (ib 201-205).

3 .4 .1 p rin cip i m eta fisici d e ll’eseg e si

Il modo in cui Wyclif considera l’autorità delle Scritture


è indissolubilmente legato al suo realismo neoplatonico. Se­
condo Wyclif le Scritture sono l’unica fonte per acquisire la
vera sapienza e la conoscenza di Dio (VSS c2 , 21 -22 ). Ma
ciò non vuol dire che egli sia un sostenitore del principio
della sola scriptura, che tanta importanza acquisterà in segui­
to, nel periodo della Riforma. Le Scritture sono la norma
per tutta la sapienza, anche per quella filosofica, e perciò
devono essere studiate anche dalla filosofia. Viceversa anche
la filosofia può aiutare nella spiegazione delle Scritture. An­
che Aristotele, essendo una creatura di Dio, è stato illumi­
nato da Dio; le sue idee filosofiche partecipano così della sa­
pienza divina. Ma il suo pensiero non è perfetto. In ciascun
ordine vi è una specie che contiene le perfezioni di tutto il
genere. Negli esseri viventi è l’uomo. Nell’ordine delle ve­
rità tale specie sono le Scritture (ib 3, 47-48).
Dunque, per Wyclif la filosofia ha un ruolo importante
nella spiegazione e nella difesa delle Scritture. Essa deve ba­
sarsi sulle Scritture, ma allo stesso tempo anche chiarirle.
Wyclif distingue cinque pilastri metafisici su cui si fondano
le Scritture e di cui il teologo deve rendersi conto se vuole
comprenderle. E Dio stesso a indicare nelle Scritture quali
sono questi pilastri; Wyclif parla perciò di una logica cele­
ste. Essi contengono il nucleo della metafisica di Wyclif, che
vuol essere al contempo fedele alla Bibbia e razionale, e che

110
Teologia e metafisica. L ’ermeneutica di Giovanni Wyclif

egli ha esposto in opere sia filosofiche sia teologiche. Solo


dopo essersi reso conto di ciò, il teologo può comprendere
il linguaggio letterale delle Scritture in tutte le sue sfaccetta­
ture. Egli è allora in grado di difenderle contro chiunque ri­
tenga che possano non essere vere sotto un qualunque
aspetto, nel loro significato proprio e letterale {de virtu te
serm onis) (ib c8, 167-168; FZ 1 , 453-434).

3.4.1. Le idee divine

Il primo fondamento per Wyclif sono le idee divine, con


cui egli intende le cause effettive delle creature nella mente
divina. Sono i principi {rationes) o esempi {exemplaria) in
base ai quali tutto è stato creato. Tali cause sono quanto a
essenza uguali a Dio e perciò altrettanto eterne (VSS c8,
168; Tun cl5, 371).
Le Scritture testimoniano l’esistenza di tali idee afferman­
do che «in principio era il Verbo [...] e il Verbo era Dio. [...]
tutto è stato fatto per m ezzo di lui» (Gv 1,1-5). Con ciò, se­
condo Wyclif, viene sottolineata l’eternità, la divinità e la po­
tenza creatrice delle idee. Inoltre, l’uso del termine verbo’
sottolinea che si tratta del pensiero divino, che nella sostanza
coincide con l’essenza divina, ma che è distinto da essa razio­
nalmente o formalmente. Il Verbo è la manifestazione o la lu­
ce {lux) dell’essenza divina, in cui si mostra la potenza crea­
trice di Dio. E ciò che crea l’essenza delle creature e che dà
l’esistenza alle creature. Perciò Wyclif può anche indicare l’i­
dea come esemplare luminoso acceso dall’eternità {lux ex em ­
plar aeterna), che dà l’esistenza a tutte le cose {principium e f­
fectiv u m ex istentiae creaturae) (VSS ib; Tun ib).
Secondo Wyclif la conoscenza dell’esistenza delle idee,
come descritta nel vangelo di Giovanni, aiuta a comprende­
re pili a fondo altri punti delle Scritture. Serve a chiarire le
parole che vengono usate nel libro della Genesi per spiegare

111
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

il processo della creazione. Quando la Genesi afferma che


«Dio disse: ‘Sia la luce!’. E la luce fu» (Gn 1,3-4), ‘Dio dis­
se’ si riferisce al Verbo, in cui esistono le idee, ‘sia la luce’ si
riferisce alle idee stesse come luce creatrice dell’essenza di­
vina e ‘la luce fu’ si riferisce all’esistenza che viene data dalle
idee (VSS ib).
Le idee sono il cardine tra Dio e la creazione. Esse sono
non solo la porta da cui Dio crea il mondo, ma anche quella
da cui l’uomo può tornare a Dio. Con un riferimento ad
Agostino, Wyclif sottolinea che senza conoscenza delle idee
nessun uomo può conquistare la beatitudine (VSS ib).

3.4.1.1. S osten itori e opp ositori


La dottrina delle idee di Wyclif fu bersaglio di aspre cri­
tiche. Essa era vista come il nucleo del suo realismo e secon­
do alcuni portava all’eresia. A Oxford gli oppositori più fa­
mosi furono Giovanni Kenningham e Tommaso Netter di
Walden. Eppure la dottrina delle idee di Wyclif non si di­
scostava molto da ciò che nel tredicesimo secolo veniva in­
segnato ad esempio da Bonaventura e Tommaso. I seguaci
continuarono a sottolineare che la dottrina delle idee non
aveva niente a che fare con le eresie di Wyclif in materia di
gerarchia ecclesiastica e di dottrina eucaristica. I sostenitori
praghesi di Wyclif cercarono in questo modo di annullare la
condanna delle opere di Wyclif da parte dell’arcivescovo
Zbynek nel 1410. Le concezioni di Wyclif sono in accordo
con quelle di Agostino e degli altri Padri della Chiesa e non
vi è dunque alcun motivo per condannare i suoi scritti sulle
idee, così argomentava Procopio di Pilsen (Robson 1961,
220). Ma come si è già detto nel secondo capitolo, tale obie­
zione non era convincente. Kenningham aveva accantonato
l’autorità di Agostino e i teologi del concilio di Costanza
erano convinti che vi fosse una stretta connessione tra il rea­
lismo e la dottrina eretica dell’eucaristia di Wyclif.

112
Teologia e metafisica. L’ermeneutica di Giovanni Wyclif

3.4.2 . Gli universali

D secondo principio metafìsico evidenziato da Wyclif è


strettamente collegato al primo e riguarda l’esistenza di uni­
versali distinti dagli individui {singuiaría). Questi universali
secondo Wyclif non esistono a sé, ma hanno una propria
qualità formale negli individui in cui esistono. L’umanità esi­
ste solo nell’uomo individuale, ma come causa essenziale,
che è di natura generale, può essere distinta dall’individuo
concreto (Libera 1996, 407).
Nel libro della Genesi, le Scritture testimoniano l’esi­
stenza di universali specifici e generici parlando di g en u s e
sp ecies (Gn 1 ,21 ): «Dio creò [...] tutti gli esseri viventi che
guizzano nelle acque secondo la loro specie {species suas), e
tutti gli uccelli alati secondo il loro genere {genus suum )»
(VSS c8, 169).
Secondo Wyclif ñ significato ermeneutico degli universa­
li risiede nel fatto che essi possono parzialmente rivelare i
segreti dell’incarnazione e della trinità. Rispetto alla sostan­
za l’universale coincide con l’individuale (si tratta della stes­
sa cosa). Tuttavia essi sono formalmente distinti, poiché la
definizione dell’uno differisce da quella dell’altro. Nono­
stante la corrispondenza formale, hanno caratteristiche op­
poste: l’universale appartiene a pili cose, l’individuale no.
Una tale struttura formale vale per la trinità e l’incarna­
zione (Tun c8, 175; Ttr c8, 87-88). Ad una stessa cosa ap­
partengono diverse caratteristiche che si riferiscono all’es­
senza e coincidono con essa, ma che tuttavia non possono
essere predicate l ’una dell’altra. Le persone della trinità
coincidono tutte e tre con l’essere divino, ma ñ Padre non è
il Figlio, il Figlio non è lo Spirito Santo e il Padre non è lo
Spirito Santo.
Lo stesso vale per il Verbo divino incarnato. Due nature
così immiste (l’una non è l’altra) confluiscono nell’unità del­

113
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

la persona di Cristo. Cristo è Dio e Cristo è uomo, senza che


l’umanità di Cristo sia uguale alla sua divinità.
La corrispondenza non è tuttavia completa. L’unità divi­
na è più grande di qualunque unità creata. Le tre persone
divine sono sì divise formalmente tra loro, ma formano in­
sieme un solo Dio. Non si può parlare di tre dei. Ma nelle
creature è possibile; i singoli individui esistono indipenden­
temente gli uni dagli altri e possiedono anche diverse carat­
teristiche accidentali. Con Dio è diverso; nel suo caso attri­
buti come la potenza e la volontà vengono ascritti a tutte e
tre le persone nello stesso modo (Tun c3, 106).
Nonostante questa differenza, gli universali reali sono le
migliori tracce dei misteri divini nel mondo creato. E per
questo che Dio - così sottolineava Wyclif - ha sempre dato
al realismo l’opportunità di manifestarsi nella filosofia e nel­
la teologia (ib c8, 175). Se non si accetta l ’esistenza di uni­
versali reali, come Wyclif ritiene che facciano i nominalisti
{doctores signorum ), allora sorgono problemi nel commenta­
re le Scritture e si può cadere in errore. Con un riferimento
ad Anseimo egli considerava i critici del realismo come dia­
lectice h a eretici (VSS c8, 169). Più tardi Gerolamo di Praga
utilizzò lo stesso termine in una disputa a Heidelberg per
caratterizzare il nominalismo di Marsilio di Inghen, attiran­
do così su di sé l’ira dell’università, che a causa del compor­
tamento di Gerolamo si convinse ancora di più che i soste­
nitori di Wyclif fossero dei testardi bastian contrari (Kaluza
1997).
Ai tempi di Wyclif gli animi non si erano ancora scaldati
tanto, ma non sarebbe trascorso molto tempo prima che an­
che a Oxford il realismo di Wyclif fosse considerato un er­
rore, che metteva in pericolo l’onore dell’università. Un
anonimo manoscritto di Oxford (Corpus Christi College
116) della fine del Trecento testimonia l’interesse per la logi­
ca di Wyclif, ma allo stesso tempo afferma che tale dottrina

114
Teologia e metafisica. L ’ermeneutica di Giovanni W yclif

è uscita dai confini sicuri della tradizione, ed è stata coperta


dalla polvere dell’errore e dell’ignoranza {pulvis erroris et
ignorantiae) (Robson 1961, 230-231).
Wyclif sosteneva che le Scritture fossero la fonte di tutto
il sapere, non solo di quello concernente la sapienza divina,
ma anche la natura e perfino l’etica. Anche su questo punto
gli universali rivestivano una grande importanza. Causa del
peccato è il fatto che l’uomo rivolge i suoi sforzi al bene in­
dividuale e non a quello universale. La conoscenza degli
universali lo aiuta a cercare e scoprire il bene più alto come
fine del suo agire. Essa costituisce così la base del sapere e
dell’agire umano (Tun c i , 11).

3.4.3. L’unità complessiva

Il terzo principio è l ’unità effettiva, che abbraccia tutte le


cose. Non soltanto quelle appartenenti a una specie, ma an­
che quelle di specie diverse formano un’unità reale {sunt
realiter unum totum ), anche se si distinguono in rapporto al­
lo spazio e al tempo. Tale unità è fondata nell’unità divina e
trova la sua conferma scritturale nel vangelo di Giovanni,
dov’è scritto che tutte le cose sono state fatte per mezzo del
Verbo (Gv 1) (VSS c8, 169-170).
Capire che alla fine la varietà della creazione è fondata
sull’unità divina aiuta nella comprensione delle Scritture,
così sottoUnea Wyclif. I singoli passaggi non devono essere
interpretati indipendentemente l’uno dall’altro, come vo­
gliono i nominalisti {doctores signorum ), ma nel contesto
delle Scritture come insieme. Così come la natura dell’uomo
si comprende appieno solo se ci si concentra sull’unità deUa
specie e non sulla rappresentazione di essa in questo o quel­
l’individuo, così anche le Scritture devono essere considera­
te suUo sfondo dell’unità della parola divina. Tale unità è in­
variabile, ma si mostra all’uomo ogni volta in un modo di­

115
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

verso. Anche la Chiesa è nella sua essenza un solo corpo


che viene condotto all’unione con Dio da una sola persona
che le è a capo (ib c8, 170-171-, FZ 1, 457).

3.4.4. La presenza eterna

Il quarto principio metafisico citato da Wyclif è la pre­


senza di fronte a Dio di tutte le cose. A questo proposito
egli parla di una alta m etaphysica. A suo avviso ciò trova il
suo fondamento nella parola del libro deU’Ecclesiaste (3,1 ):
per ogni cosa c’è il suo tempo e tutto ha il suo momento
sotto il cielo. Dalla sua presenza eterna e immutabile Dio
vede tutto ciò che ha luogo nel tempo. È come se l’asse cro­
nologico, su cui ogni cosa ha il suo posto stabilito, fosse di­
spiegato nello spazio davanti a Dio ed egli vedesse in un so­
lo sguardo ciò che viene prima e ciò che viene dopo, senza
per questo cambiare egli stesso. L’immutabMità di Dio e la
mutabilità della creazione sono in armonia l’una con l’altra e
non si ostacolano a vicenda (VSS c8, 171-172).
Partendo da questa idea bisogna affrontare tutti i pro­
blemi che riguardano la predestinazione e l’accordo tra la ri­
soluzione divina eterna e il libero arbitrio dell’uomo. Ciò
che per Dio è eterno e necessario, visto dalla prospettiva
dell’uomo appare temporaneo e casuale.
Wyclif sottolinea anche che la consapevolezza della pre­
senza divina aiuta a risolvere le ambiguità grammaticali nelle
Scritture. Le Scritture parlano spesso al presente, laddove ci
si aspetterebbe un futuro o un passato, ad esempio nell’af­
fermazione di Dio «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di
Abramo» (mentre Abramo è già morto da lungo tempo) (Es
3,6). Secondo l’uso linguistico corrente questa affermazione
è contraddittoria. Non si può essere il Dio di qualcuno che
non c’è più. L’uso del tempo presente è tuttavia in totale ac­
cordo con l’intenzione dell’autore divino. Dio parla dalla

116
Teologia e metafisica. L ’ermeneutica di Giovanni WyclLf

i sua presenza eterna, che abbraccia il tempo proprio di ogni


I cosa. Ciò che nel tempo è frammentato, per Dio è unito, se­
condo Wyclif (ib).
Come verrà chiarito più avanti, questa concezione ha
scatenato violente critiche. La tesi che tutto è presente a Dio
secondo la sua esistenza e il suo tempo era vista come un pe­
ricolo per la dottrina della creazione. A sostegno della sua
teoria Wyclif si riallacciava a Tommaso d’Aquino, il quale
nella Summa th eo lo gia e aveva affermato che tutto è presente
a Dio secondo il proprio essere (FZ 1, 463). Ma già nel tre­
dicesimo secolo questa dottrina aveva incontrato degli op­
positori (Hoenen 1993, 166-172). Essa si attirò le critiche di
Guglielmo de la Mare e Duns Scoto, e anche alcuni domeni­
cani si chiedevano se Tommaso avesse effettivamente voluto
dire che le cose sono eternamente presenti a Dio. Guglielmo
de la Mare sottolineò nel suo C orrectorium come questa
concezione fosse eretica. Più tardi giunsero a questa conclu­
sione anche Giovanni Kenningham e Tommaso Netter.

3.4.5. La contraddizione come rivelazione

Il quinto e ultimo principio racchiude i quattro prece­


denti, sottolineando che le contraddizioni contenute nelle
Scritture non sono contraddizioni in senso normale, bensì
instradano l’uomo verso un significato più profondo, come
abbiamo già visto sopra (VSS c8, 174). In ciò Wyclif distin­
gue tre aspetti che si riferiscono al messaggio morale delle
Scritture, al contenuto fUosofico-naturale e a ciò che egli
chiama la logica.
Come esempio di contraddizioni logiche egli rimanda ad
affermazioni su Cristo in quanto uomo (che è nato) e in
quanto Dio (che è eterno). L’apparente ambiguità svela il
mistero dell’incarnazione. Se sulla base di questa ambiguità
il teologo conclude che la Scrittura contiene cose non vere o

117
A Oxford; dibattiti teologici nel tardo Medioevo

contraddizioni al livello del significato letterale, ciò testimo­


nia di una comprensione sbagliata delle Scritture. Il signifi­
cato letterale è più profondo e può essere compreso solo se
si conoscono le intenzione dell’autore, che con le Scritture
voleva comunicare all’uomo parte dell’essenza divina, del­
l’essenza della creazione e dell’ordine etico da Dio istituito
(ib 179-180).
Se a quanto dicono le Scritture l’acqua si tramuta in vi­
no, ciò non sta a significare un miracolo incomprensibile o
una contraddizione, ma rivela che tutte le sostanze materiali
sono identiche neHa loro materialità. In questo modo Dio fa
conoscere all’uomo una verità filosofico-naturale fondamen­
tale (ib 176-177). E se in un punto si dice che non bisogna
dare motivo di scandalo aË’uomo (1 Cor 10,32), mentre al­
trove si legge che bisogna guadagnarsi il favore di Dio, non
quello degli uomini (Gal 1,10), questa non è una contraddi­
zione; il passo rivela che bisogna avvicinarsi a Dio nel pros­
simo, senza con ciò restare ancorati a considerazioni terrene
(ib 174-175).
Le Scritture sono la parola del Creatore, che trova nelle
Scritture la sua espressione letteraria e nella creazione quella
reale. La lingua delle Scritture è per ciò un aiuto alla cono­
scenza del mondo; ma per svelare la realtà bisogna avere pa­
dronanza deña grammatica di questa lingua. Wyclif ha espo­
sto le regole principali di questa grammatica nei cinque
punti citati.

4 . G io v a n n i K e n n in g h a m

Ñeñe sue D eterm in ationes Giovanni Kenningham si ba­


sò su fondamenti esegetici completamente diversi. EgH de­
dicò una maggiore attenzione a fattori storici e casuali che
hanno influito suña nascita deñe Scritture e a tale proposito

118
Teologia e metafisica. L ’ermeneutica di Giovanni Wyclif

può essere avvicinato a Guglielmo Woodford. Come Wood­


ford egli sottoHneava l’importanza della tradizione nel com­
mento alle Scritture. Le Scritture non contengono afferma­
zioni non vere, né in senso letterale né mistico (FZ 1,7). Ma
alcune verità non sono subito evidenti a una prima lettura; a
volte sembra trattarsi di un errore palese, ad esempio dove
Geremia (Ger 18,11) presenta Dio esplicitamente come
causa del male (FZ 2 , 42).
In un caso del genere bisogna ricorrere alla tradizione; le
glosse e i commenti di d o cto res riconosciuti aiutano a risol­
vere le difficoltà e le apparenti contraddizioni (ib 1,7).
Per Kenningham non vi è alcun fondamento eterno che
conferisca autenticità alla lingua delle Scritture, così com’è
stata tramandata fino a noi; il concetto di eternità in questo
caso non è assolutamente applicabÜe. Le Scritture acquista­
no la loro autenticità grazie alla fede. Accettando con fede
la verità delle Scritture nasce il consenso con ciò che le
Scritture affermano. La loro forza probante risiede nella fe­
de che le Scritture contengano la verità. Quando Cristo di­
ce: «Io e Ü Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30), questa
affermazione è valida come prova dell’unità delle persone
divine solo se si crede che Cristo dica la verità. Fede e verità
vanno di pari passo. La verità non si mostra da sola rivelan­
do il proprio fondamento metafisico, come sostiene Wyclif
(FZ 1 ,6).

4.1. La lingua d elle Scritture

L’atteggiamento di Kenningham viene confermato anche


dall’uso che egH fa del termine virtus serm on is. Diversamen­
te da Wyclif egli distingue tra l’intenzione deU’autore e il si­
gnificato letterale deUe parole. La lingua ha una sua dinami­
ca e un significato proprio, che non sempre coincide con
l’intenzione deU’autore. La forma grammaticale e il conte­

119
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

nuto non sempre coincidono. Ciò avviene anche nel caso


delle Scritture, che riportano frasi non vere in base alle re­
gole della lingua, ma Ü cui contenuto non può essere messo
in dubbio. Così viene spesso usato il presente laddove in
realtà ci si aspetterebbe il passato o il futuro e viene usato il
singolare laddove si intende il plurale. Questa forma del
parlare non ha nulla a che fare con l’essenza dell’autore di­
vino. La forma delle parole e la sintassi {figura verborum )
non aiutano a scoprire la verità delle cose {nihil fa cit ad veri-
tatem rerum seu essentiarum ) (FZ 2, 31). Esprimono piutto­
sto il modo in cui viene trasmesso il contenuto. Le Scritture
usano il presente non per rivelare la presenza di Dio, ma
perché ciò fa parte deUe lingua della gente normale, che per
ignoranza esprime al presente azioni ricorrenti. In base alle
regole della logica e della grammatica tali frasi sono tuttavia
non vere, visto che la forma non coincide con il contenuto
(ib 2 , 28).
Wyclif considerava la concezione di Kenningham infan­
tile e sofistica perché egli avrebbe distinto tra parola e con­
tenuto non vedendo così che le Scritture con la loro lingua
hanno un contenuto più profondo, in cui le contraddizioni
racchiudono la verità. Ma - così replicò Kermingham - co­
me fa Wyclif ad affermare una cosa simile se egli abbina il
contenuto delle Scritture alla forma grammaticale delle frasi
ed è dell’opinione che la forma grammaticale riveli il conte­
nuto delle Scritture (ib 3, 54)?
Secondo Kenningham, Wyclif si è reso colpevole anche
in altri punti di ciò che egli stesso rimproverava ai suoi op­
positori. Questi farebbero attenzione solo all’uso dei segni
(parole) e praticherebbero la teologia come un gioco di pa­
role, così Kenningham sintetizzò la critica di Wyclif. Ma
quando Wyclif estende il significato della parola essere
{esse) e lo applica a passato e futuro secondo il principio
della presenza eterna, egli fa esattamente lo stesso. Le cose

120
Teologia e metafisica. L ’ermeneutica di Giovanni Wyclif

non possono essere estese o amplificate, possono esserlo so­


lo i segni che stanno per tali cose. Wyclif dunque si contrad­
dice, sosteneva Kenningham, e rende così inattendibili le
sue critiche agli altri (ib 3, 64).
Se si parte dal presupposto che la forma grammaticale
rappresenti la norma, si incontrano enormi problemi: dalle
Scritture scaturiscono così molti errori e affermazioni che
possono preoccupare i credenti (ib 3, 53). Per questo il teo­
logo non può semphcemente adottare la lingua delle Scrit­
ture, come propone Wyclif, ma deve piuttosto rivelarne il
contenuto. Ai fedeli dev’essere trasmesso il contenuto, e
non la forma (ib 2 , 27).

4.2. La critica alla m etafisica d i W yclif

NeUa sua critica aUa metafisica di Wyclif, Kenningham


considerò centrali due punti, strettamente connessi tra loro:
la presenza a Dio di tutte le cose e la qualità degli oggetti
conoscitivi divini.
Secondo Kenningham U fatto che Dio conosca tutto dal­
l’eternità non implica che il conosciuto abbia una forma
propria, come sostiene WycUf (FZ 1 , 10). Se così fosse, aUo-
ra ciò che non esiste più esisterebbe ancora e ciò che è stato
previsto per U futuro (come l’avvento deU’Anticristo) esiste­
rebbe già ora. L’essere-conosciuto è quindi diverso dall’es-
sere-esistenziale (ib 2 , 40). Entrambe le forme d’essere de­
vono essere ben distinte l’una daU’altra. Il vero significato
di essere (esse) è essere-esistenziale. Quando si usa U termi­
ne «essere», s’intende esistere. Se non ci si attiene a questo
linguaggio comune e si dà aUe parole un significato proprio,
si crea confusione. Di questo, secondo Kenningham, si ren­
de colpevole Wyclif. In base al linguaggio corrente «creare»
significa «essere portato dal non-essere aU’essere». Ma se le
creature sono già eterne poiché Dio le conosce, aUora non

121
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

si può parlare di creazione e si cade nell’errore (ib 2, 41),


Il termine tecnico che Kenningham usa in questo caso è
am pliatio (ib 3, 64), Wyclif estende il significato del termine
«essere», così afferma Kenningham, in modo da riferirlo in­
definitamente a tutto ñ tempo: passato, presente e futuro.
Così facendo Wyclif segue una tradizione semantica a cui
aderivano molti realisti e che fu criticata aspramente già da
Ruggero Bacone. Secondo questa tradizione il termine ‘uo­
mo’ non sta solo per gli uomini esistenti, ma per tutti gli uo­
mini possibili. Secondo Bacone nella teologia quest’uso
esteso del termine è funesto, dato che per questa scienza de­
terminati eventi sono unici (come la nascita di Gesù) e per­
ciò non possono mai essere intesi come futuri una volta che
si sono verificati (Ebbesen 1970),
AUo stesso modo Kenningham critica la concezione di
Wyclif per cui i tempi utilizzati nella lingua non hanno un
significato assoluto: se per Dio tutto è presente, allora in un
certo senso ciò che è stato è ancora e ciò che ancora deve
venire è già. Ciò conduce a palesi eresie: in questo caso san
Paolo perseguiterebbe ancora la Chiesa, Pietro rinneghereb­
be ancora Cristo e la redenzione da parte del Messia sareb­
be ancora di là da venire, Wyclif difende in questo modo Ü
grande anno platonico, in cui tutto ciò che era avverrà di
nuovo. Ma questa concezione platonica - secondo quanto
afferma Kenningham - era già stata condannata da sant’A-
gostino (FZ 3, 56),
La critica di Kenningham non è completamente giusta,
Wyclif aveva sottohneato che ogni cosa ha Ü suo tempo. Nel
mondo creato si può certamente parlare di passato, presente
e futuro. Solo per Dio vale l’ora immutabile in cui non esi­
stono passato e futuro.
Tuttavia Kenningham toccò tm tasto dolente affermando
che secondo la concezione di Wyclif esistono verità che non
sono uguali a Dio e che tuttavia sono eterne. Se Wyclif so-

122
Teologia e metafisica. L ’ermeneutica di Giovanni Wyclif

Stiene che tutto ciò che Dio conosce esiste, e che Dio cono­
sce tutte le verità, allora anche tali verità devono esistere.
Ogni cosa che corrisponde a una verità del genere, esiste
eternamente, con la conseguenza che tutte le creature che
esisteranno, esistono in Dio già dall’eternità. Qui per Wyclif
non si tratta solo di essere-conosciuto, ma di proprio essere
reale, come aveva evidenziato nel suo commento a Tomma­
so. Kenningham considerava assurdo tale ragionamento ed
era fermamente convinto che in questo modo Wyclif cades­
se nell’errore (ib 3, 44-51).

4.3. La critica a l lin gu aggio d i W yclif

Kenningham rivolse una particolare attenzione all’insoli­


to linguaggio del suo oppositore, il quale utilizzava le parole
in un modo che per altri era oscuro e ambiguo. Secondo
Kenningham nella teologia ciò era inammissibile, poiché
apriva la strada a possibili errori. A suo parere la curia ro­
mana aveva giustamente preso l’abitudine di condannare
anche quelle concezioni la cui verità poteva anche essere
compresa attraverso complicate argomentazioni filosofiche,
ma che a prima vista sembravano andare contro la fede. La
cura pastorale del fedeli richiede una lingua chiara e inequi­
vocabile, che coincida con il linguaggio comune e che possa
essere compreso da tutti (FZ 3, 58).
Kenningham affrontò questo compito operando una net­
ta distinzione tra due maniere di essere-presente: nella co­
noscenza e nella realtà (ib 3, 72). Entrambe le forme sono
indipendenti l’una dall’altra. Per aver presente o conoscere
qualcosa in quanto esistente non è richiesta l’effettiva esi­
stenza del conosciuto. Io posso conoscere ora una cosa che
ho visto ieri. Così viene conosciuto l’oggetto effettivo, anche
se non esiste come oggetto effettivo nel conoscere. Il poter-
essere-conosciuto della creatura non richiede dunque un es­

123
A Oxford: dibattiti teologici nel tardo Medioevo

sere separato. E sufficiente l’essere della creatura stessa, così


come esisterà o è esistita (ib 4, 79).
Kenningham formulò tale concezione in maniera lapida­
ria dicendo: «la conoscibilità della creatura non è altro che
la creatura che può essere conosciuta (esse in telligib ile crea-
turae non est nisi ipsa creatura intelligibilis)». Forse questa
formulazione non segue completamente le regole della logi­
ca - si scusò Kenningham - e si conforma piuttosto alla lin­
gua della gente comune (rudus m od u s loquendi), ma proprio
per questo motivo è adatta in questo caso (ib 4, 86).
Su questo punto Kenningham prese le difese di Tomma­
so rispetto al commento di Wyclif. Dicendo che la creatura
è presente a Dio, Tommaso non intendeva dire che la crea­
tura esiste effettivamente, ma che viene conosciuta da Dio
effettivamente e secondo verità. Qui essere attuale significa
essere-conosciuto attualmente. Kenningham condivideva
questa concezione di Tommaso, ma rifiutava il modo in cui
l’aveva espressa. Anche Tommaso, come Wyclif, era colpe­
vole di aver utilizzato espressioni ambigue, che possono
portare a malintesi (ib 4, 95).

4.4. K en n in gh am doctor signorimi

Wyclif considerava Kenningham un «sofista» e un «dot­


tore dei segni». Come viene chiarito nell’opera di Kennin­
gham, con questo appellativo Wychf non intendeva un se­
guace diretto di Ockham. Ciò risulta evidente dalla defini­
zione del concetto di virtus serm on is, che ebbe un ruolo
centrale nel dibattito. Su questo punto le concezioni di Ken­
ningham e Ockham divergono. Il punto di vista di Kennin­
gham coincide piuttosto con quello di nominalisti parigini
come Buridano e Marsilio di Inghen: la virtus serm on is è il
significato logico, e non l’intenzione dell’autore. Tale signifi­
cato logico è il vero significato (sensus proprius) della parola,

124
Teologia e metafìsica. L ’ermeneutica di Giovanni Wyclif

che però nella teologia può spesso causare malintesi ed er­


rori. Per questo dev’essere evitato nell’esercizio di questa
scienza. Nel suo C om m ento alle Sentenze, parlando della so­
luzione a un problema, Marsilio distingue spesso tra la ri­
sposta in cui le parole vengono intese secondo il significato
logico e quella in cui viene prima l’intenzione dell’autore o
la tradizione. La logica e la teologia non procedono sempre
di pari passo. Si tratta di una duplex logica nel senso attri­
buitogli da Gersone (Hoenen 1997).
Inoltre la logica di Kenningham è caratterizzata dall’en­
fasi sul contenuto esistenziale del verbo «essere» e sulla de­
finizione estensionale dell’atto conoscitivo. Il contenuto del
concetto non ha un essere-essenziale proprio. La cosa cono­
sciuta è la cosa in quanto conosciuta. L’accento è posto sulla
cosa al di fuori della mente e non all’interno di essa. A que­
sto proposito Kenningham si trova suUa stessa linea di
Ockham. Così come il suo celebre connazionale Ruggero
Bacone, il Venerabilis In cep tor sottolineò che le parole in
senso proprio stanno solo per cose esistenti e nel suo C om ­
m en to alle Sentenze egli descrisse le idee divine come le
creature conosciute da Dio (McCord Adams 1987, 342-346,
1033-1063).
Kenningham non si inseriva dunque in nessuna corrente
del nominalismo, cosa che nel Trecento era più una regola
che un’eccezione. Le tradizioni scolastiche non apparten­
gono al quattordicesimo secolo, bensì al quindicesimo. Ciò
si chiarisce analizzando la critica di Tommaso Netter di
Walden, un confratello di Kenningham del Quattrocento.
In lui ritroviamo gli stessi punti già visti in Kenningham,
sebbene le obiezioni di Tommaso Netter fossero più di na­
tura pratica che scolastica. E evidente che prese ispirazione
da Kenningham, le cui obiezioni nel frattempo avevano fat­
to ‘scuola’.

125
A Oxford; dibattiti teologici nel tardo Medioevo

5 . T o m m a s o N e tte r di W alden

Tommaso Netter di Walden criticò Wyclif nel primo li­


bro del suo D octrinale antiquitatum fid e i catholicae ecclesiae
scritto nel 1421 su sollecitazione del re Enrico IV. Il Doctri­
nale è un’opera voluminosa in più parti, strutturata a difesa
della fede contro le eresie dei LoUardi. L’autore rappresen­
tava l’ordine dei carmelitani al concilio di Costanza, dove
aveva preso parte alla condanna ufficiale di Wyclif, Hus e
Gerolamo di Praga. Eppure è strano che egli non apra il suo
attacco a Wyclif con la confutazione - usuale nei circoli teo­
logici - della dottrina dell’eucaristia e della critica alla gerar­
chia ecclesiastica, bensì parta dalla critica alla metafisica di
Wyclif (Robson 1961, 231-240). Netter era convinto che la
dottrina di Wyclif potesse essere combattuta con successo
solo puntando sul fondamento metafisico. Egli si concentrò
su due questioni; la qualità del conosciuto in Dio e ü signifi­
cato del verbo essere. In entrambi i casi egli seguì la critica
di Kenningham, mostrando che Ü linguaggio e la logica di
Wyclif erano diametralmente opposti a quello delle Scrittu­
re e della tradizione.

3.1. La qualità d e ll’o g g etto co n o scitiv o divin o

Secondo Netter la fonte di tutti i mali era la teoria di


Wyclif per cui la creatura conosciuta da Dio ha un essere
proprio in Dio. Wyclif era giunto a questa conclusione per­
ché Dio conosce solo ciò che è, e non ciò che non è. In Dio
essere-conosciuto significa quindi realmente essere-presen­
te. Questo passaggio da essere-conosciuto a essere-reale
Netter lo considerava inammissibile e privo di qualunque
fondamento. Wyclif è convinto che la sua logica si riallacci
all’antica tradizione, ma non è così. Essa è completamente
nuova, poiché nessuno ha mai affermato assurdità del gene­

126
Teologia e metafisica. L ’ermeneutica di Giovanni Wyclif

re. Il fatto che la creatura esista nella conoscenza di Dio non


implica un essere effettivo, ma anzi limita l’essere. Nella co­
noscenza il conosciuto non ha un essere reale, ma solo non­
essere. Chi afferma che le creature hanno un essere reale in
Dio stravolge la logica, le Scritture e la concezione degM stu­
diosi. La creazione dal nulla diventa così impossibile, poiché
essa presuppone che le creature non abbiano un essere. Per
la fede e la ragione è impossibile sostenere che la creazione
esista sempre e sia eterna come Dio, poiché per esse essere­
conosciuto non è essere realmente (IDAF al cl, 33-38).
La logica deve servire la fede e seguire il buon senso;
non deve insegnare teorie assurde e pericolose. Le Scritture
non parlano in nessun luogo delle creature in Dio come se
fossero cose esistenti, ma anzi aggiungono sempre afferma­
zioni che chiariscono la qualità delle creature in Dio. L’esse­
re delle creature nel Verbo è una forma di esse dim inutivum .
Questo modo di parlare è molto piìi sicuro {tutior) di quello
di Wyclif e si adatta al linguaggio e alla capacità di com­
prensione dell’uomo comune (ib c2 , 41-42; ib c3, 45).
Come appare evidente da quanto detto, Netter sottoH-
neò il carattere eretico della dottrina delle idee di Wyclif e
del suo linguaggio atipico. A questo proposito egli seguì le
orme di Kenningham. Ma anche in altri punti si rifece al suo
confratello: egli difese Tommaso dal commento di Wyclif.
Tommaso si è sempre attenuto alla tradizione riconosciuta,
così sosteneva Netter. Egli non ha mai voluto dire che le
creature sono realmente presenti in eterno a Dio, ma si è
sempre pronunciato sulle creature in Dio entro i confini
consueti {consueta determ in ation e). Wyclif non può dunque
appellarsi a Tommaso, così concludeva Netter (ib cl, 37).

5.1.1. WycUf platonico

In Tommaso Netter torna anche la critica al platonismo.

127
A Oxford; dibattiti teologici nel tardo Medioevo

Come anche Kenningham, egli era del parere che Wyclif di­
fendesse i vecchi errori dei platonici. Essi infatti avevano so­
stenuto che ogni uomo porta in sé qualcosa di divino poiché
l’essenza umana è uguale a Dio. Ma - secondo Netter - Wy­
clif cade nello stesso errore, poiché se l’essere reale dell’uo­
mo esiste in Dio, allora l’uomo è divino. Il creatore e il crea­
to non possono quindi più essere distinti tra loro. L’essere
umano è perciò eterno così come quello divino (IDAF al
c5,52-53).

5 2 . I l significato d e l verb o « essere»

Il secondo punto fondamentale a cui Netter fece ricorso


contro la metafisica di Wyclif era l’interpretazione del verbo
«essere». Secondo Wyclif il primo significato del verbo «es­
sere» è onnitemporale, ossia contiene passato, presente e fu­
turo in uguale maniera. È la forma di essere che appartiene
all’essere-conosciuto delle creature in Dio. A ciò Netter
contrappose l’essere esistenziale. NeUe creature «essere» si­
gnifica sempre essere fatto (esse fa ctu m ) e implica perciò la
reale esistenza transitoria h ic e t nunc. Si riferisce esclusiva-
mente al tempo presente. Qualunque altro significato è
un’estensione {ampliatio) del significato proprio. L’essere
eterno appartiene soltanto a Dio, non alle creature, poiché
nelle creature l’essere è sempre misto al non-essere. Perfino
quando la creatura esiste realmente, e possiede il massimo
di essere, l’essere è misto al non-essere, per cui è transitorio
(IDAF al c6 55-57; ib c8-9, 67-68).
L’essere-conosciuto che la creatura ha in Dio non è esse­
re, ma solo non-essere, nel momento in cui la creatura non è
ancora stata generata. Dall’essere conosciuto da Dio, quin­
di, non consegue mai che la creatura è o è stata generata.
L’essere deUa creatura e l’essere di Dio sono distinti e non
possono essere confusi tra loro. Questa è la dottrina stabilita

128
Teologia e metafisica. L ’ermeneutica di Giovanni W yclif

dalla Chiesa. Su questo punto la logica di Wyclif non può ri­


correre alle Scritture (ib c7-8, 60-63).

6. C o n c l u sio n e

Con l’attenzione per la dottrina delle idee e l’interpreta­


zione dell’essere, la critica speculativa a Wyclif sembra aver
assunto una forma fissa, non solo a Oxford ma anche altro­
ve. Questi due punti ritornano in Gersone e in altri critici
del Quattrocento. Ciò non deve sorprendere. La condanna
di Wyclif ostacolò la diffusione dei suoi scritti, per cui nel
valutare le sue teorie i critici si fecero facilmente guidare da
schemi già esistenti. Ma il conciho di Costanza ebbe un ruo­
lo importante in proposito. Enrico di Gorkum, nei suoi
scritti contro Wyclif, si basò non sulle opere di quest’ultimo,
ma sulla condanna del concilio (Weiler 1962, 207). Il mes­
saggio teologico dell’esegesi di Wyclif finì così in secondo
piano, scomparendo dietro la dottrina dei sacramenti e l’ec­
clesiologia, ritenute ben più pericolose. Eppure da un punto
di vista storico è altrettanto importante. Essa dà espressione
in modo coerente all’ideale della teologia medievale per cui
la fede ha un nucleo razionale e tale nucleo può essere rive­
lato dalla ragione umana assistita dalle Scritture.

129
B ib l io g r a f ia

A. F onti prim arie

A n o n im o
Sn = h ih er propugnatorius su p er prim um Sententiarum c
tra ]oh a n n em Scotum , Venetiis 1523 (Minerva, Frankf
a. M. 1966).

A damo W odeh am
Ord = O rdinatio O xoniensis, Paris, Bibl. Maz. 915.

B o e zio
PhC = P hilosophiae con solatio, ed. L. Bieler, (Corpus CI
stianorum Series Latina 94) Brepols, Turnhout 1984.

E n r ic o di G and
Ql = Q uodlibeta, ed. lodocus Badius Ascensius, Paris 15
ripr. Bibliothèque, Leuven 1961.

F r a n c e sc o de M a y r o n is
Sn = In libros Sententiarum , Venetiis 1520 (Minerva, Fra)
furt a. M. 1966).
Cfr. anche Barbet 1968.

131
Bibliografia

G io va n n i da R ip a
Con = C onclusiones, ed. A. Combes, (Etudes de philosophie
médiévale 44) Vrin, Paris 1957.

G io v a n n i K e n n in g h a m
FZ = Vasciculi zizaniorum M agistri Joh annis W yclif cu m triti­
co, ed. W.W. Shirley, Longman, Brown, Green, Long­
mans, and Roberts, London 1858 (Rolls Series): Ingres­
su s fra tris Johan nis K yn yn gh am C arm elitae contra Wic-
clyff, 4-13 (= FZ 1); Acta m agistri fra tris Joh ann is K enyn-
gham C arm elitae contra Ideas m agistri Joh an nis W ycliff,
14-42 (= FZ 2); Secunda determ in atio m agistri fratris
Johannis K yn yn gh am contra W ycliff D e am pliation e tem ­
poris, 43-72 (= FZ 3); Tertia determ in atio K ynyngham
contra W ycclyff D e esse in telligib ili creaturae, 73-103 (=
FZ 4).

G io v a n n i W y c l if
TTr = Tractatus d e trinitate, ed. A.D. Breck, University of
Colorado Press, Boulder 1962.
FZ = T asciculi zizaniorum M agistri Joh ann is W yclif cum triti­
co, ed. W W. Shirley, Longman, Brown, Green, Long­
mans and Roberts, London 1858 (Rolls Series): D eterm i­
natio [Johannis W yclifl contra K ylingham Carm elitam,
453-476 (= FZ 1); Alia determ in atio [Johannis W yclifl
contra K ylingham C arm elitam , 477-480 (= FZ 2).
TUn = Tractatus d e universalibus, ed. LJ. Mueller, Oxford
University Press, Oxford 1985.
VSS = De verita te Sacrae Scripturae, ed. R. Buddensieg, 3
voll., The Wyclif Society, London 1905-1907.

G io v a n n i D uns Scoto
Lee = Lectura, (Opera omnia 16 ss.) Typis Polyglottis Vati­
canis, Civitas Vaticana 1960 ss.

132
Bibliografia

Ord = O rdinatio, (Opera omnia 1 ss.) Tj^is Polyglottis Vati­


canis, Civitas Vaticana 1950 ss.
RP = R eportata Parisiensia, ed. Wadding, voli. 5-10, Lyon
1639 (Olms, Hüdesheim 1968).

G u g l ie l m o de la M ake
iSn = Scriptum in prim u m librum Sententiarum , ed. H.
Kraml, (Veröffentlichungen der Kommission für die He­
rausgabe ungedruckter Texte aus der mittelalterlichen
Geisteswelt 15) Verlag der Bayerischen Akademie der
Wissenschaften, München 1989.
Cor = C orrectorium fratris Thomae, in P. Glorieux (ed.), Les
prem ières p olém iq u es thom istes 1: Le C orrectorium corrup­
torii Quare, (Bibliothèque thomiste 9) Vrin, Kain 1927.

G u g l ie l m o di M a c k l e s f ie l d
CorQuaest = Le C orrectorium corru p torii Q uaestione. Texte
a n on ym e du ms. M erton 267, ed. J.-P. MuUer, (Studia
Anselmiana 12-13) Herder, Roma 1941.

G ug lee lm o DI O c k h a m
iSn = Scriptum in librim prim um Sententiarum , ed. G. Gäl,
S. Brown, G. Etzkorn, F. Kelley, (Opera theologica 1-4)
St. Bonaventure University, St. Bonaventure (n y ) 1967-
1979.
SL - Summa logicae, ed. Ph. Boehner, G. Gäl, S. Brown,
(Opera philosophica 1) St. Bonaventure University, St.
Bonaventure (n y ) 1974.
Ql = Q uodlibeta sep tem , ed. J.C. Wey, (Opera theologica 9)
St. Bonaventure University, St. Bonaventure (n y ) 1980.
TrP = Tractatus d e pra ed estin a tion e et d e praescien tia D ei re­
sp ectu fu tu roru m con tin gen tiu m , ed. Ph. Boehner e S.
Brown, (Opera phÜosophica 2) St. Bonaventure Univer­
sity, St. Bonaventure (n y ) 1978.

133
Bibliografia

TrQ = Tractatus d e quantitate, ed. C.A. Grassi, (Opera theo-


logica 10) St. Bonaventure University, St. Bonaventure
(ny) 1986.

M a r s il io di In ghen
Sn = Q uaestiones su p er quattuor libros Sententiarum , Stras­
bourg 1501 (Minerva, Frankfurt a. M. 1966).

R ic c a r d o C a m p s a l l
Cfr. Synan 1968-1982.

R ic c a r d o K n a p w e l l
CorQua = C orectorium C orruptorii Quare, in P. Glorieux
(ed.), h e s p rem ières p o lém iq u es th om istes 1: Le Cor­
rectorium corru p torii Quare, (Bibliothèque thomiste 9)
Vrin, Kain 1927.
QdUn = Richard Knapwell, Q uaestio disputata d e unitate
fo rm a e, ed. F.E. Kelly, (Bibliothèque Thomiste 44) Vrin,
Paris 1982.

R o berto C o w t o n
Cfr. Schwamm 1931.

R o berto H o l c o t
Ql = H.G. Gelber, E xploring th e B oundaries o f R eason. Th­
ree Q uestions on th e N ature o f G od by R ob ert H olcot OP,
(Studies and Texts 62) Pontifical Institute of Mediaeval
Studies, Toronto 1983.
Cfr. anche Moody 1964, Courtenay 1971, Streveler & Ta-
chau 1995.

T o m m aso d ’A q u in o
En = D e en te e t essentia, editio Leonina 43, Editori di San
Tommaso, Roma 1976.

134
Bibliografia

QdVer = D e ven ta te, editio Leonina 22/1, Editori di San


Tommaso, Roma 1975.
S = Summa th eologia e, editio Leonina 4-12, Roma 1888-
1906.
ScG = L iber d e v en ta te cath olicae fid e i contra errores in fid e­
lium seu Summa contra gen tiles, ed. C. Pera, 3 voU., Ma­
rietti, Torino 1961-1967.
Sn = Scriptum su p er libros Sententiarum , ed. P. Mandonnet e
M.E Moos, 5 voll., LethieUeux, Paris 1919-1956.

T o m m a s o B radw ajrd ine


DCD = D e causa D ei contra P elagium e t d e virtu te causarum,
London 1618 (Minerva, Frankfurt a. M, 1964).

T o m m a s o B u c k in g h a m
DCF = D e con tin gen tia fu tororu m , ed. J.-F. Genest, in
P rédéterm ination et lib erté cr é é e à O xford au XIV^ siècle.
B uckingham co n tre B radwardine, (Etudes de philosophie
medievale) Vrin, Paris 1992, 183-306.

T o m m a s o N etter di W alden
DAF = D octrinale antiquitatum fid e i cath olicae ecclesia e, ed.
B. Blanciotti, 3 voU., Typis Antonii Bassanesü ad S. Can-
tainum, Venezia 1757-1759.

T o m m aso di S u t to n
QO = Q uaestiones ordinariae, ed. J. Schneider, (Veröffent­
lichungen der Kommission für die Herausgabe unge­
druckter Texte aus der mittelalterlichen Geisteswelt 3)
Verlag der Bayerischen Akademie der Wissenschaften,
München 1977.
CQ = Thomas of Sutton, C ontra Q uodlibet loh a n n is Duns
Scoti, ed. J. Schneider, (Veröffentlichungen der Kommis­
sion für die Herausgabe ungedruckter Texte aus der mit­

135
Bibliografia

telalterlichen Geisteswelt 7) Verlag der Bayerischen Aka­


demie der Wissenschaften, München 1978.
Ql = Q uodlibeta, ed. M. Schmaus e M. Gonzälez-Haba,
(Veröffentlichungen der Kommission für die Her­
ausgabe ungedruckter Texte aus der mittelalterlichen
Geisteswelt 2 ) Verlag der Bayerischen Akademie der
Wissenschaften, München 1969.

B. Studi e testi citati

Brodrick 1886 = G.C. Brodrick, A h istory o f th e U niversity


o f Oxford, (Epochs of Church history 4) Longmans-
Green, London 1886.
Catto & Evans 1992 = J.L Catto and R. Evans (edd.), The
H istory o f th e U niversity o f Oxford, voi. 2 : Late M edieval
Oxford, Clarendon Press, Oxford 1992.
Catto 1984 = J.L Catto (ed.), The history o f th e U niversity o f
Oxford, voi. 1 : The Early O xford S chools, Clarendon
Press, Oxford 1984.
Cobban 1988 = A.B. Cobban, T he m ed ieva l English u n iver­
sities: O xford an d C am bridge to c. 1500, University of
California Press, Berkeley 1988.
Cobban 1999 = A.B. Cobban, E nglish u n iversity life in the
M iddle A ges, UCL Press, London 1999.
College 1998 = U niversity o f Oxford: c o lle g e histories, 19
voli., Routledge/Thoemmes Press, London 1998 (ristam­
pa dell’edizione 1898-1903).
Cordeaux & Merry 1968 = E.H. Cordeaux and D.H. Merry,
A bibliography o f p rin ted w ork s relating to th e U niversity
o f Oxford^ Clarendon Press for the Oxford Historical
Society, Oxford 1968.
DH = H. Denzinger, E nchiridion sym b oloru m defin ition u m
e t declarationum d e rebu s fi d e i et m orum . C om pendium

136
Bibliografia

d er G laubensbek enntnisse u n d k irchlichen L ehrentschei-


du n gen, a cura di P. Hünermann, Herder, Freiburg
199938
DJH 1966 = D ocum enta Mag. Joannis Hus vitam , doctrinam ,
causam in C onstantiensi C oncilio actam e t con troversias
d e religion e in B ohem ia annis 1403-1418 m otas illustran-
tia, ed. F. Palacky, Reproductio phototypica editionis
1869, Biblio-Verlag, Osnabrück 1966.
Green 1974 = V.H.H. Green, A H istory o f O xford U niver­
sity, B.T. Batsford Ltd, London 1974.
Leff 1968 = G. Leff, Varis and O xford U niversities in th e
T hirteenth and F ou rteenth C enturies. An Institu tion al
an d In tellectu a l H istory, (New dimensions in history. Es­
says in comparative history) Wiley, New York 1968.
Little & Pelster 1934 = A.G. Little & F. Pelster, O xford
T h eology an d T heologians c. A.D. 1282-1302, (Oxford
Historical Society 96) At the Clarendon Press, Oxford
1934.
Mallet 1968 = Ch.E. Mallet, A h istory o f th e U niversity o f
Oxford, 3 voU., Methuen, London 1968 (ristampa dell’e­
dizione 1924-1927).
Maxwell Lyte 1886 = A h istory o f th e u n iversity o f O xford
fr o m th e ea rliest tim es to th e yea r 1530, MacmiUan, Lon­
don 1886.
Prest 1993 = J. Prest, T he illustrated history o f O xford Uni­
versity, Oxford University Press, Oxford 1993.
Winkeknann 1886 = E. Winkelmann, U rkundenbuch der
U niversität H eidelberg, vol. 1: U rkunden, Carl Winter’s
Universitätsbuchhandlung, Heidelberg 1886,

C. B ibliografia secondaria

Barbet 1968 = J. Barbet, Un tém oin d e la discussion en tre les

137
Bibliografia

éco les scotiste et thom iste selon Francois d e M eyronnes,


De doctrina loa n n is D uns Scoti, (Studia scholastico-scoti-
stica 4) Societas Internationalis Scotistica, Roma 1968
21-33.
Benrath 1974 = G.A. Benrath, T raditionshew ußtsein, Schrift­
verständnis un d Schriftprinzip b ei W yclif, in A ntiqui und
M oderni. T raditionshew ußtsein u n d T ortschrittsbew ußt­
sein im späten M ittelalter, ed. A. Zimmermann, (Miscel­
lanea Mediaevaha 9) Walter de Gruyter, Berlin 1974,
359-382.
Boehner 1958 = Ph. Boehner, C ollected A rticles on Ockham,
ed. E.M. Buytaert, (Franciscan Institute Publications.
Philosophy Series 12 ) The Franciscan Institute, St. Bo­
naventure (n y ) 1958.
Boland 1996 = V. Boland, Ideas in G od accordin g to Saint
Thom as Aquinas. S ources an d Synthesis, (Studies in the
History of Christian Thought 69) BriU, Leiden 1996.
Chatterjee 1974 = K. Chatterjee, In P raise o f L earning. John
C olet and Literary H um anism in E ducation, Affiliated
East-West Press, New Delhi 1974.
Conti 1990 = John Sharp, Q uaestio su p er universalia, ed.
A.D. Conti, (Unione Accademica Nazionale. Corpus
Philosophorum Medii Aevi. Testi e Studi 9) Olschki, Fi­
renze 1990,3-145.
Conti 1997 = A.D. Conti, A nalogy and F orm al D istinction:
On th e L ogical Basis o f W yclif s M etaphysics, in Medieval
Philosophy and Theology 6 (1997) 133-165.
Courtenay 1971 = W.J. Courtenay, A R evised Text o f R obert
H olcot’s Q uodlibetal D ispute on W hether G od is A ble to
K n o w M ore Than H e K n ow s, in Archiv für Geschichte
der Philosophie 53 (1971) 1 -21 .
Courtenay 1978 = W.J. Courtenay, Adam W odeham. An In­
trod u ction to his L ife and W ritings, (Studies in Medieval
and Reformation Thought 21 ) Brill, Leiden 1978.

138
Bibliografia

Courtenay 1984 = W J. Courtenay, F orce o f Words an d Figu­


res o f Speech. T he Crisis o v e r virtus serm on is in th e Four­
teen th C entury, in Franciscan Studies 44 (1984) 107-128.
Courtenay 1987 = W.J. Courtenay, S chools and Scholars in
F ourteenth-C entury England, Princeton University Press,
Princeton (n j ) 1987.
Dahmus 1952 = J.H. Dahmus, The P rosecu tion o f Joh n Wy­
clif, Yale University Press, New Haven 1952.
De la Torre 1987 = B.R. de la Torre, T hom as B uckingham
an d th e C on tin gen cy o f Futures. T he P ossibility o f Hu­
man F reedom , (Publications in Medieval Studies 25)
University of Notre Dame Press, Notre Dame 1987.
Doyle 1977 = E. Doyle, W illiam W oodford OFM an d John
W yclif’s De R eligion e, in Speculum 52 (1977) 329-336.
Dubois 1978 = D.J. Dubois, Thom as N etter o f Walden, OC
( c 1372-1430), Unpublished B. Litt Thesis, University of
Oxford 1978.
Ebbesen 1970 = S. Ebbesen, R oger B acon an d th e F ools o f
his Times, in C ahiers d e l’Institut du M oyen-A ge G rec et
Latin, vol. 3, Université de Copenhague, Copenhague
1970, 40-44.
Ehrle 1925 = F. Ehrle, D er S entenzenk om m entar P eters von
Candia, d es P isaner P apstes A lexanders Ein B eitrag zur
S cheidung d er S chulen in d er Scholastik d es vierzeh n ten
Jahrhunderts u n d zur G esch ich te d es W egestreites, (Fran­
ziskanische Studien. Beiheft 9) Aschendorff, Münster
1925.
Etzkorn 1997 = G.J. Etzkorn, R eview , in Speculum 72
(1997) 478.
Evans 1985 = G.R. Evans, The L anguage an d L ogic o f th e
Bible. The R oad to R eform ation, Cambridge University
Press, Cambridge 1985.
Geiger 1963 = L.B. Geiger, Les rédaction s su ccessiv es d e
Contra G entiles, I, 33 d ’après l ’autographe, in Saint Tho­

rn
Bibliografia

mas d ’Aquin aujourd’hui, Desclée de Brouwer, Paris


1963,211-240.
Gelber 1981 = H.G. Gelber, Logic and the Trinity. A Clash
o f Values in Scholastic Thought, 1300-1335, (Ph. D. The­
sis 1974), University of Wisconsin, Ann Arbor (m i ) 1981.
Gelber 1983 = cfr. Robert Holcot.
Genest 1992 = J.-F. Genest, T rédéterm ination et lib erté créée
à Oxford au XlY siècle. Buckingham con tre Bradwardine,
(Études de philosophie medievale) Vrin, Paris 1992.
Gleason 1989 = J.B. Gleason, ]oh n C olet, University of Ca­
lifornia Press, Berkeley 1989.
Gosh 1998 = K. Gosh, C on tin gen cy and th e Christian Faith.
W illiam W oodford’s Anti-Wy c liff ite H erm en eu tics, in
Poetica 49 (1988) 1-26.
Grabmann 1941 = M. Grabmann, Thom as Claxton OP (ca.
1400). Q uaestiones d e d istin ction e in ter esse e t essentiam
reali atque d e analogia entis, in Acta pontificae acade-
miae romanae sancti Thomae Aquinatis 8 (1941-1942)
92-153.
Grajewski 1944 = J. Grajewski, T he F orm al D istinction o f
Duns Scotus, The Catholic University of America Press,
Washington (d c ) 1944.
Green 1945 = VH.H. Green, B ishop R eginald Pecock. A
study in E cclesiastical H istory an d T hought, Cambridge
University Press, Cambridge 1945.
Hissette 1997 = R. Hissette, ^ im p lica tion d e Thom as d ’A­
quin dans les cen su res P arisienn es d e 1277, in Recherches
de Théologie et Philosophie médiévales 64 (1997) 3-31.
Hodl 1991 = L. Hodl, K orrek torienstreit, m Lexikon d es
M ittelalters, vol. 5, Lexma Verlag, München 1 9 9 1 ,1448s.
Hoenen 1990 = M.J.F.M. Hoenen, The Literary R ecep tion o f
Thom as A quinas’ View on th e P rovability o f th e E ternity
o f th e W orld in De la M are’s ‘C orrectorium ’ (1278-9) and
th e ‘C orrectoria C orruptorii’ (ca. 1279-86), in The Eter-

140
Bibliografia

n ity o f th e W orld in th e T hought o f Thom as A quinas and


his C ontem poraries, ed. J.B.M. Wissink, (Studien und
Texte zur Geistesgeschichte des Mittelalters 27) Brül,
Leiden 1990, 39-68.
Hoenen 1993 = M.J.F.M. Hoenen, M arsilius o f Inghen. D ivi­
n e K n o w led ge in Late M ed ieva l Thought, (Studies in the
History of Christian Thought 50) BriU, Leiden 1993.
Hoenen 1997 = M.J.F.M. Hoenen, Yirtus S erm onis and the
Trinity. Sem antical A spects o f Late F ourteenth C entury
T h eology, in Thirty Years o f L ogica M odernorum . A cts o f
th e A cadem y C olloquium h eld in A msterdam, 5-7 n ovem -
h er 1997, ed. H.A.G. Braakhuis and C.H. Kneepkens, di
prossima pubblicazione.
Hoenen 1999 = M.J.F.M. Hoenen, T h eology and M etaphy­
sics. T he D ebate b etw een Joh n W yclif an d Joh n K en n in ­
gham on th e P rinciples o f R eading th e Scripture, relazione
al convegno internazionale «John Wyclif. Logica, politi­
ca, teologia», Milano, 12-13 febbraio 1999, per iniziativa
di M. FumagaUi e Z. Kaluza, di prossima pubblicazione.
Hoffmann 1971 = F. Hofmann, D ie th eo lo gisch e M eth od e
d es O xforder D om inik anerlehrer R ob ert H olcot, (Beiträge
zur Geschichte der Philosophie und Theologie des Mit­
telalters, NF 5) Aschendorff, Münster 1971.
Hoffmann 1998 = F. Hoffmann, O ckham -R ezeption un d
Ockham-Kritik im Jahrzehnt nach W ilhelm von Ockham
in O xford 1322-1332, (Beiträge zur Geschichte der Phi­
losophie und Theologie des Mittelalters, NF 50) Aschen­
dorff, Münster 1998.
Hudson & Wüks 1987 = A. Hudson & M. Wilks (eds.).
From Ockham to W yclif, (Studies in Church History.
Subsidia 5) Basil Blackwell, Oxford 1987.
Iserloh 1956 = E. Iserloh, G nade u n d E ucharistie in d er p h i­
losoph isch en T h eo lo gie d es W ilhelm von Ockham. Ihre
B ed eu tu n g fu e r d ie U rsachen d er R eform ation, (Veröffen-

141
Bibliografia

tlichungen des Instituts fuer Europäische Geschichte


Mainz 8) Steiner, Wiesbaden 1956.
Kaluza 1986 = Z. Kaluza, D e u n iversali rea li d e Jean d e Mai-
so n n eu v e et les ep icu ri litterales, in Freiburger Zeitschrift
für Philosophie und Theologie 33 (1986) 469-516.
Kaluza 1988 = Z. Kaluza, Les q u erelles doctrin ales à Paris.
N om inalistes e t R ealistes aux co n fin s du Xrv^ e t du X V
siècles, (Quodlibet 2 ) Lubrina, Bergamo 1988.
Kaluza 1994 = Z. Kaluza, Les scien ces e t leurs langages. Note
sur le statut du 29 décem b re 1340 et le p réten d u statut perdu
con tre Ockham, in Filosofia e teologia n el trecento. Studi in
ricordo di E ugenio Randi, ed. L. Bianchi, (Textes et Etudes
du Moyen Age 1 ) Fédération Internationale des Instituts
d’Études Médiévales, Louvain-la-Neuve 1994, 197-258.
Kaluza 1997 = Z. Kaluza, La q u estion d e J ér ô m e d e Prague
d isp u tée à H eidelberg, in L angages e t p h ilosop h ie, ed. A.
de Libera, A. Elamrani-Jamal, A. Galonnier, (Études de
philosophie médiévale 74) Vrin, Paris 1997, 123-152.
Kaufman 1982 = P.I. Kaufman, A ugustinian P iety and
C atholic R eform . A ugustine, Colet, an d Erasmus, Mercer
University Press, Macon (GA) 4982.
Kelley 1982 = F.E. Kelley, Introduction, in Richard Knap­
well, Q uaestio disputata d e unitate fo rm a e, ed. F.E. Kel­
ley, (Bibliothèque Thomiste 44) Vrin, Paris 1982.
Kenny 1986 = A. Kenny (ed.), W yclif in His Times, Claren­
don Press, Oxford 1986.
Kent 1995 = B. Kent, Virtues o f th e Will. T he Transfor­
m ation o f E thics in th e Late T hirteenth C entury, Catholic
University of America Press, Washington (DC) 1995.
Kraml 1998 = H. Kraml, W ilhem d e la M are, in Lexikon d es
M ittelalters, vol. 9, Lexma Verlag, München 1998, 174-
175.
Leff 1957 = G. Leff, B radw ardine an d th e P elagians. A Study
o f his D e causa D ei an d Its O pponents, (Cambridge stu­

142
Bibliografia

dies in medieval life and thought, NS 5) Cambridge Uni­


versity Press, Cambridge 1957.
Leff 1987 = G. Leff, T he P lace o f M etaphysics in W yclif’s
T h eology, in From Ockham to W yclif, ed. A. Hudson and
M. Wilks, (Studies in Church History Subsidia 5) Basil
Blackwell, Oxford 1987, 217-232.
Lemaigre 1966 = B.M. Lemaigre, P erfection d e D ieu e t m ul­
tip licité d es attributs divins, in Revue des sciences philo­
sophiques et théologiques 50 (1966) 198-227.
Libera 1982 = A. de Libera, T he O xford and Paris Traditions
in L ogic, in T he C am bridge H istory o f Later M edieval
P hilosophy, ed. N. Kretzmann, A. Kenny, J. Pinborg,
Cambridge University Press, Cambridge 1982, 174-187
(tr. it. Le tradizioni d i O xford e P arigi n e ll’am bito della lo ­
gica, in La logica n e l M ed ioevo, [Biblioteca di Cultura
Medievale] Jaca Book, Milano 1999, 85-101).
Libera 1996 = A. de Libera, La q u erelle d es universaux. De
Platon à la fin du M oyen A ge, Seuil, Paris 1996.
Lubac 1959 = H. de Lubac, E xégèse M édiévale. L es quatre
sen s d e l’écriture, 4 voli., (Théologie 41, 42, 59) Aubier,
Paris 1959-1964 (tr. it. E segesi m edieva le. I quattro sen si
della Scrittura, Paoline, Roma 1972; nuova ed. in 4 voli.,
Jaca Book, Milano 1986, 1988, 1997 [voi. 4 in prep.]).
McCord Adams 1976 = M. McCord Adams, Ockham on
Id en tity and D istinction, in Franciscan Studies 36 (1976)
5-74.
McCord Adams 1987 = M. McCord Adams, W illiam
Ockham, 2 voU., (Publications in Medieval Studies 26/1-
2) University of Notre Dame Press, Notre Dame ( i n )
1987.
Michalski 1999 = K. Michalski, H istoire d e la P hilosophie,
Officina editoria instituti theologici congregationis mis­
sionis, Kraków 1999.
Mojsisch 1983 = B. Mojsisch, M eister Eckhart. A nalogie, Uni-

143
Bibliografia

vozitàt und Einheit, Felix Meiner, Hamburg 1983, 6-20.


Moody 1964 = E. A. Moody, A Q uodlibetal Q uestion o f Ro­
bert H olcot OP on th e P roblem o f th e O bject o f K n ow led ­
g e an d B elief, in Speculum 39 (1964) 53-74.
Oberman 1957 = H.A. Oberman, A rchbishop Thomas
B radwardine. A F ourteenth C entury A ugustinian. A
Study o f His T h eology in its H istorical Context, Kemink,
Utrecht 1957.
Oberman 1967 = H.A. Oberman, T he H arvest o f M edieval
T heology. G abriel B iel and Late M ed ieva l N ominalism
(Revised edition), Eerdmans, Grand Rapids 1967.
Parkes 1992 = M.B. Parkes, T he P rovision o f Books, in J.I.
Catto and R. Evans (edd.). The H istory o f th e U niversity
o f Oxford, vol. 2 : Late M ed ieva l Oxford, Clarendon
Press, Oxford 1992, 407-483.
Patrouch 1970 = J.F. Patrouch, R egin ald P ecock , (Twayne’s
English Authors Series 106) Twayne Publishers, New
York 1970.
Pinborg 1979 =J. Pinborg, The E nglish C ontribution to Lo­
g ic b efo re Ockham, in Synthese 40 (1979) 19-42.
Riva 1989 = F. Riva, Tom maso Claxton e l’A nalogia d i p ro ­
porzionalità, (Scienze filosofiche 45) Vita e Pensiero, Mi­
lano 1989.
Robson 1961 =J.A. Robson, W ycliff an d th e O xford Schools.
The R elation o f th e Summa d e en te to S cholastic D ebates
at O xford in th e Later F ourteen th C entury, (Cambridge
studies in medieval life and thought, NS 8) Cambridge
University Press, Cambridge 1961.
Roensch 1964 = F.J. Roensch, Early T hom istic S chool, The
Priory Press, Dubuque (ia ) 1964.
Scase 1996 = W. Scase, R eginald P ecock , (English Writers of
the late Middle Ages 8) Variorum, Aldershot 1996.
Schabel 2000 = Ch. Schabel, T h eology at Paris, 1316-1345.
P eter A uriol and th e p rob lem o f d ivin e fo rek n o w led ge

144
Bibliografia

and fu tu r e con tin gen ts, (Ashgate Studies in Medieval


Philosophy) Ashgate, Aldershot 2000.
Schneider 1973 = Th. Schneider, D ie E inheit d es M enschen,
(Beiträge zur Geschichte der Philosophie und Theologie
des Mittelalters, NF 8) Aschendorff, Münster 1973.
Schneider 1977 = J. Schneider, E inleitung, in Thomas von
Sutton, Q uaestiones ordinariae, ed. J. Schneider, (Veröf­
fentlichungen der Kommission für die Herausgabe un­
gedruckter Texte aus der mittelalterlichen Geisteswelt 3)
Verlag der Bayerischen Akademie der Wissenschaften,
München 1977.
Schneider 1978 = J. Schneider, E inleitung, in Thomas von
Sutton, Contra Q uodlibet loh a n n is D uns Scoti, ed. J.
Schneider, (Veröffentlichungen der Kommission für die
Herausgabe ungedruckter Texte aus der mittelalter­
lichen Geisteswelt 7) Verlag der Bayerischen Akademie
der Wissenschaften, München 1978.
Schwamm 1931 = H. Schwamm, R ob ert C ow ton ü b er das
g ö ttlich e V orherwissen, (Philosophie und Grenzwissen­
schaften 3/5) Rauch, Innsbruck 1931.
Schwamm 1934 = H. Schwamm, Das gö ttlich e V orherwisen
b ei D uns Scotus u n d sein en ersten A nhängern, (Philo­
sophie und Grenzwissenschaften 5/1-4) Rauch, Inn­
sbruck 1934.
Sheehan 1984 = M .W Sheehan, The R eligiou s O rders 1220-
1370, in TH. Aston (ed.), The h istory o f th e U niversity o f
Oxford, Oxford University Press, Oxford 1984, 193-123.
Smalley 1964 = B. Smalley, The B ible an d Eternity. ]o h n Wy­
c lif’s D ilem m a, in Journal of the Warburg and Courtauld
Institutes 27 (1964) 73-89.
Smith 1983 = K.S. Smith, The E cclesiology o f C ontroversy.
Scripture, Tradition and C hurch in th e T h eology o f Tho­
m as N etter o f W alden, Unpublished Doctoral Thesis,
Cornell University 1983.

145
Bibliografia

Streveler & Tachau 1995 = P.A. Streveler & K.H. Tachau,


R ob ert H olcot. S eein g th e F uture Clearly. Q uestions on
F uture C ontingents, (Studies and Texts 119) Pontifical
Institute of Mediaeval Studies, Toronto 1995 .
Synan 1968-1982 = E.A. Synan (ed.), 'ìh e Work o f R ichard
Campsall, 2 voU., (Studies and Texts 17, 58) Pontifical
Institute of Mediaeval Studies, Toronto 1968-1982.
Tachau 1988 = K.H. Tachau, Vision and C ertitude in the
A ge o f Ockham. Optics, E pistem ology, an d th e F ounda­
tion s o f Sem antics, 1250-1343, (Studien und Texte 2ur
Geistesgeschichte des Mittelalters 22 ) BriU, Leiden
1988.
Trapp 1956 = D. Trapp, A ugustinian T h eology o f th e 14th
C entury, in Augustiniana 6 (1956) 146-274.
Tresko 1989 = M. Tresko, ]o h n W yclif’s M etaphysics o f
Scriptural In tegrity in th e «D e verita te sacrae scripturae»,
in Dionysius 13 (1989) 153-196.
Walsh 1994 = K. Walsh, D ie en glisch e U niversität nach Wy­
clif. Von geistiger K reativität zur B eam tenausbildung?, in
D ie U niversität in A lteuropa, ed. A. Patschovsky e H,
Rabe, (Konstanzer Bibliothek 22) Universitätsverlag
Konstanz, Konstanz 1994, 85-110.
Weiler 1962 = A.G. Weiler, H einrich von Gorkum ( f 1431).
S eine S tellung in d e V hilosophie u n d d er T h eologie des
Spätm ittelalters, Paul Brand, Hilversum 1962.
Wetter 1967 = F. Wetter, D ie T rinitätslehre d es Joh an n es
D uns Scotus, (Beiträge zur Geschichte der Philosophie
und Theologie des Mittelalters 41/5) Aschendorff, Mün­
ster 1967.
WÜks 1994 = M. Wilks, W yclif an d th e G reat P ersecu tion ,
(Studies in Church History. Subsidia 10) Basil Blackwell,
Oxford 1994.
Wolfson 1976 = H.A. Wolfson, The P h ilosoph y o f th e Ka-
lam, (Structure and Growth of Philosophical Systems

146
Bibliografia

from Plato to Spinoza 4) Harvard University Press,


Cambridge (m a s s ) 1976.
Zavalloni 1951 = R. Zavalloni, R ichard d e M ediavilla et la
co n tro verse su r la p lu ra lité d es fo rm es, (Philosophes Mé­
diévaux 2) Éditions de l’Institut Supérieur de Philo­
sophie, Louvain 1951.

147
I n d ic e dei n om i

Agostino d’Ippona 29, 57, 101, Claxton, Tommaso 20, 28


107, 112, 122 Cobban, A.B. 26
Anselmo d’Aosta 21, 95 Colet, Giovanni 28
Aristotele 15, 21, 41,51, 59-60, Conti, A.D. 19,54
103, 110 Cordeaux, E.H. 26
Aston, Nicola 91 Courtenay, W.J. 14, 17-18,
Averroè 60 50, 75-76, 103-104
Avicenna 65 Cowton, Roberto 17, 45, 67

Bacone, Ruggero 101, 122, 125 Dahmus, J.H. 56


Barbet, J. 47 De la Torre, B.R. 87
Benrath, G.A. 95 Doyle, E. 97
Boehner, Ph. 27 Dubois, D.J. 28
Boezio 62, 76 Duns Scoto, Giovanni 14,
Boland, V. 35 20-21,25,30, 33,36, 42-
Bonaventura da Bagnoregio 32, 54,59, 62,64-69,71-72,
71, 112 87,117
Bradwardine, Tommaso 14, 25,
79-88, 90-92 Ebbesen, S. 122
Brinkley, Riccardo 104 Eckhart, Johannes v. Meis
Buckingham, Tommaso 25, 61, Eckhart
87-92 Ehrle, F.31,57
Buridano, Giovarmi 124 Eimerico da Campo 58
Burleigh, Gualtiero 16,55 Enrico IV d’Inghilterra 126
Enrico di Gand 14,17, 64-6
Catto, J.I. 17,19, 26-27 Enrico di Oyta 50, 77
Chatterjee, K. 28 Etzkorn, G.J. 36
Chatton, Gualtiero 14, 74 Evans, G.R. 97, 101

149
Indice dei nomi

Evans, R. 17, 19,26-27 27,30-31,50,52-54,61,74-


77, 79, 82, 85
Francesco de Mayronis 33,47,99 Hudson, A. 27
Hus, Giovanni 16,56-57, 126
Gaudet, Stefano 91
Geiger, L.B. 35
Gelber, H.G. 27, 42 Iserloh, E. 26
Genest, J.-F. 80, 87, 91
Geremia 107-108 Kaluza, Z. 103, 114
Gerolamo di Praga 16,56, 114, Kaufman, P.I. 28
126 Kelley, F.E. 31, 38
Gersone, Giovanni 56, 125,129 Kenningham, Giovanni 25, 56-
Giovanni de Nova Domo 15 57, 64, 98-99, 104, 112,
Giovanni da Ripa 33,91 117-128
Gleason, J.B. 28 Kenny, A. 27
Gosh, K. 97 Kent, B. 34
Grabmann, M. 28 Klenkok, Giovanni 91
Grajewski, J. 42 Knapwell, Riccardo 25, 30-31,
Green, V.H.H. 26-28 38-41, 63, 66
Gregorio di Rimini 74 Kraml, H. 31
Guglielmo d’Alnwick 17, 65
Guglielmo de la Mare 24, 30- Lamberto d’Auxerre 13
38, 63, 66, 117 Leff, G. 26, 80, 95
Guglielmo di Macklesfield 63- Lemaigre, B.M. 30
64 Libera, A. de 13, 29, 113
Guglielmo di Nottingham 96 Little, A.G. 17
Guglielmo di Ockham 14-16, Lubac, H. de 93
25,27,30-31,45-50,59,61- Latterei, Giovanni 15
62, 68-79, 82-85, 104, 124
Guglielmo di Shyreswood 13 Maimonide 30
Marsüio di Inghen 45, 52, 74,
Hissette, R. 32 77, 94, 114, 124-125
Hòdl, L.31 McCord Adams, M. 50, 125
Hoenen, M.J.F.M. 34, 45, 56, Meister Eckhart 95
61,65,72,74, 98, 117, 125 Merry, D.H. 26
Hoffmann, F. 15,54 Michalski, K. 12, 26
Holcot, Roberto 14-15, 19, 25, Mirecourt, Giovanni 74

150
Indice dei nomi

Mojsisch, B. 95 Schneider, Th. 29


Moody, E.A. 15 Schwamm, H. 65, 67
Sheehan, M.W. 26
Netter di Walden, Tommaso SmaUey, B. 96
25,28,92,112,117,125-128 Smith, K.S. 28
Nicolò Cusano 58, 95 Streveler, P.A. 19
Nicola di Lyra 96 Synan, E.A. 18

Oberman, H.A. 27, 80 Tachau, K.H. 19, 27


Tertulliano 94
Parkes, M.B. 26 Tommaso d’Aquino 14, 17, 20,
Patrouch, J.F. '28 30-39, 43,45,55,62-64,66-
Peckham, Giovanni 32 67, 72, 80, 87, 94, 96-97,
Pecock, Reginaldo 28 112, 117, 124, 127
Pelster, F. 17 Tommaso di Sutton 23, 25, 30,
Pietro d’Ailly 56 45-47
Pietro Ispano 13 Trapp, D. 12
Pietro Lombardo 11, 13, 17- Tresko, M. 95
18, 20
Pinborg, J. 13 Walsh, K. 27
Platone 51, 57 Weiler, A.G. 129
Porfirio 29 Wetter, F. 42, 45
Procopio di Pilsen 112 Wilks, M. 27,56
Winkeknann, E. 12
Riccardo di Bury 14 Wodeham, Adamo 14-16, 25,
Riccardo di Campsall 61, 74, 27,30-31,45,50-52,61,74.
77, 104 76-79, 82-83,85
Riva, F. 20, 28 Wolfson, H.A. 30
Roberto Grossatesta 71 Woodford, GugHelmo 97, 102,
Robson, J.A. 27, 115, 126 119
Rodington, Giovanni 74 Wyclif, Giovanni 16, 19-20,
Roensch, F.J. 37 22-23,25, 27, 30-31,54-57,
Roger, Pietro 47 64, 92-129

Scase, W. 28 Zaccaria 107-108


Schabel, Ch. 74 Zavalloni, R. 29
Schneider, J. 47 Zbynek di Hazmburg 112

151
finito di stampare
nel mese di febbraio 2003
da Ingraf s.r.l.
Milano

Editoriale Jaca Book SpA


V ia Rovani 7, 20123 Milano

spedizione in abbonamento
postale TE editoriale
aut. D/162247/PI/3
direzione PT Milano
EREDITÀ MEDIEVALE
Piano sistematico*

A g o st in o . M a e stro d i m e t o d o t e o l o g ic o [Costane
Marabelli)
97/8 B o ezio . L a r agio n e t e o lo g ic a {Miguel Lluch-BaixauU.
G rego rio M a g n o . « E sperienza » e rappresentazioni
d e l l a fede {Claudio Stercal)
P se u d o -D io n ig i A r e o pa g it a {Beate Suchla)
99/13 E n ciclo pe d ism o e sapere cristian o tra t a r d o -anti
co e alto m ed io evo {Manuel C. Díaz y Diaz)
I P a d ri d e l l a C h ie sa g reci e l a t e o l o g ia m edievali
I P ad ri d e lla C h iesa latini e l a teologia , medievale
T eo lo gie altomedievali. S ecoli v n -x {John Marenbon)
G iovan n i S c o to E r iu g e n a {Carlos Steel)
96/4 F ede e d iale ttica nell’x i se c o lo {André Cantin)
0 0 / 1 6 A n selm o d ’A o st a . F ede e ricerca dell ’in telligenz .
{Coloman E. Viola)
97/7 II r i n a s c i m e n t o d e l XII s e c o l o {Jacques Verger)
9 8 / 11 I n torn o C h artres . N atu ralism o plato n ico nell ,
a
tradizione cristiana del x n secolo {Michel Lemoine
G ilberto d e l a P orrée e l a su a sc u o l a {Michel Le

96/2 A b e la r d o . D i a le t t i c a e m is te ro {Jean Jolivet)


97/6 B e r n a r d o d i C la ir v a u x . I n t e ll i g e n z a e a m o re {Clau
dio Stercal)
I C is te rc ie n s i {Bernard McGinn)

TitoK provvisori. I titoli preceduti da numerazione sono quelli già pubbl


cati: ü primo numero si riferisce all’anno di prima edizione, ü secondo aU’oi
dine progressivo di pubblicazione.
0 0 1 047 7 6
I n t e ll i g e n z a d e i m is te ri e d e s p e rie n z a n e i C e r t o ­
s in i {Kent Emery, jr.)
R u p e r to d i D e u t z e l a t e o l o g i a c o m e « e c o n o m ia »
[Maria Lodovica Arduini)
97/9 U go d i S a n V i t t o r e . S t o r i a , s c ie n z a , c o n t e m p la z io ­
n e (Dominique Poirei)
R ic c a rd o e l a s c u o la d e i V i t t o r i n i {Patrice Sicard)
I ld e g a r d a d i B in g e n e l e d o n n e « t e o l o g h e » {Maria

G io a c c h in o d a F io re . S t o r i a e t e o l o g i a {Azzolmo
Chiappini)
00/17 R a z io n a lità s c ie n tific a e t e o l o g i a n e i s e c o li x i e
XII [M echthild Dreyer)
R is c o p e rta d i A r i s t o t e l e in O c c id e n te {JozefBrams)
01/19 L a te o lo g ia d e g li A ra b i {Jean Jolivet)
F ilo s o f ia e t e o l o g i a g iu d a ic a
96/1 I s t it u z io n i e s a p e re n e l x iii s e c o l o {Jacques Verger)
I m a e s t r i d i P a r i g i n e l l a p r im a m e t à d e l x i i i s e c o l o
{Stephen E Brown)
96/5 G l i in iz i d i O x f o r d . G r o s s a t e s t a e i p rim i t e o l o g i
(1150-1250) {James McEvoy)
B o n a v e n t u r a e l a s a p ie n z a c r i s t l v n a {Andreas Speer)
96/3 F ig u re fra n c e s c a n e . A lla fin e del x iii s e c o lo
(Frangois-Xavier Putallaz)
A l b e r t o M a g n o {Alain d e Libera)
T o m m a s o d ’A q u i n o . T e o l o g i a c o m e i m p r o n t a d e l ­
l a s c ie n z a d i D io {Inos Biffi)
02/20 R a im o n d o L u l l o , u n a t e o l o g i a p e r l a m is s io n e {Jor-
di Gayà Estelrich)
98/12 P ro fe s s io n e f i lo s o f o . S ig ie ri d i B r a s a n t e {F.-X. Pu­
tallaz &R. Imbach)
M a e s tri e d ib a ttiti t e o lo g i c i a P a rig i d o p o T om ­
m aso {Stephen F. Brown)
L a s c u o la to m is tic a {Inos Biffi)
98/10 M e i s t e r E c k h a r t e l a m is t ic a r e n a n a {Alain d e Libera)
D a n te A lig h ie ri p o e ta t e o lo g o {Ruedi Imhach)
T e o lo g i « in d ip e n d e n ti» {Theo Kobusch)
99/15 D uns S c o to . I l r ig o r e d e lla c a r ità {Olivier Boulnois)
La s c u o la s c o tis ta
03/21 A O x f o r d : d i b a t t i t i t e o l o g i c i n e l t a r d o M e d i o e v o
{Maarien J.F.M. H oenen)
00/14 G u g l i e l m o d i O c k h a m e l a t e o l o g i a {JoèlBiard)
L a « s c h o l a n o m in a liu m » . L’i n f l u s s o o c k h a m i s t a n e i
s e c o li x iv -x v {Theo Kobusch)
A v e r r o is m o e t e o l o g i a n e l x w s e c o l o {Alain de Ubera)
F e rm e n ti t e o lo g i c i a l l a fin e d e l x iv s e c o lo {Zénon
' Kaluza)
T e o l o g i a e « d e v o t i o m o d e r n a » {Kent Emery, jr.)
N i c o l a C u s a n o {Hans Gerhard Senger)
U m a n e sim o e t e o l o g ia

E se g e s i c o m e t e o l o g i a . A lto M e d io e v o /B a s s o M e ­
d io e v o
L e b i b l i o t e c h e m e d i e v a li e i l « d e p o s i t o » d e l s a p e r e
te o lo g ic o {Guy Lanoe)
T e o l o g i a e p r e d ic a z io n e , « l e g e r e » , « d isp u t a r e » ,
« p r a e d ic a r e »
I LUOGHI d e l l a t e o l o g ia {Ruedi Imbach)
A r t e e t e o l o g i a : f o n t i l e t t e r a r i e d e l l ’a r t e p l a s t i ­
ca [Andreas Speer)
A r t e e t e o l o g ò : ris o rs e ic o n o g ra fic h e [Bruno R eu­
denbach)
T e o lo g i a e g ra m m a tic a {Irène Rosier)
01/ 18 POESLV E TEOLOGLV, VOL. 1, L ’OCCIDENTE LATINO TRA IV
E VOI SECOLO {Francesco Stella)
POESL\ E TEOLOGIA, VOL. 2, ETÀ CAROLINGIA E RIFORMA
GREGORIANA {Francesco Stella)
POESLA E TEOLOGLV, VOL. 3, SCOLASHCA E UMANESIMO
{Francesco Stella)
G e n e r i e s p re s s iv i ( l e t t e r a r i ) d e l l a t e o l o g i a {Coloman
É. Viola)
T e o l o g ia e pa st o r a le

Potrebbero piacerti anche