1918 Dannunzio La Beffa Di Buccari

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Gabriele D’Annunzio

LA BEFFA DI BUCCARI
con aggiunti
La Canzone del Quarnaro
il Catalogo dei Trenta di Buccari
il Cartello Manoscritto
e due carte marine

MEMENTO AVDERE SEMPER


PRESSO I FRATELLI TREVES
EDITORI IN MILANO-MCMXVIII
Proprietà letteraria
Riservati tutti i diritti.
Copyright by Fratelli Treves, 1918,
Si riterrà contraffatto qualunque esemplare di questa opera che non porti il timbro a
secco dell'Autore.
Tip. Treves.
Gabriele D’Annunzio

Scritti di lotta e di disobbedienza


a cura di Gianni Ferracuti

Weimar Caffè 2023


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AGLI ITALIANI DI FIUME
PERCHÉ SI MANTENGANO
IN FEDE FERMA
LA BEFFA DI BUCCARI

Siamo trenta d’una sorte,


e trentuno con la morte.
Eia, l'ultima! Alalà!

La canzone del Quarnaro.

PAGINE DEL DIARIO

10 febbraio 1918. - Ci siamo affilati nella lunga attesa come sopra


la ruota d’un arrotino difficile. Siamo tutti taglio e punta, fissi in
una rude impugnatura: arnesi da adoperare subito. Credo che di ra-
do uomini furono così compiutamente pronti a un’azione disegnata.
Nulla manca; tutto è previsto. L’indugio non ci giova più: ci logora.
Passammo l’interlunio di gennaio ad affaticare il cielo, a ingozzar
nebbia, a disputare dei pronostici, a sospirare novelle dell'altra
sponda. La speranza e la disperazione ondeggiavano e fumigavano
nello spazio come la chiarìa e la foschia, come l’amore della vita e
l’amore del destino. Ma la vita non aveva più pregio, come la posta
in un gioco che non è più giocato. Anche gli altri rischi non ci atti-
ravano. Eravamo ornai presi dal fascino di quello solo. Non sogna-
vamo se non quella piccola baia lontana che ha la l'orma di un'oca-
rina non d'argilla ma d'argento. Bisognava che l’ocarina avesse da
noi i suoi buchi, come ha la sua imboccatura sonora tra la punta
Sersica e la punta d’Ostro.
Non avevo mai tanto sofferto dell'ansia, neppure aspettando l’ora
di Polai per notti e notti accanto all’apparecchio carico di bombe,

i
D’annunzio volò su Pola in varie spedizioni nell’agosto 1917 insieme a
Luigi Gori, Maurizio Pagliano e Giovan Battista Pratesi, coniando in
questa occasione il motto Eia! Eia! Alalà! Nella Proposta di ricompensa al
valor militare per il capitano Gabriele D’Annunzio si legge: «Nelle notti sul 3-
6

neppure aspettando l'ora di Cattaro nel tedio della Puglia piana. Il


rammarico diveniva talvolta quasi rimorso. Nel mio cuore
quest’azione temeraria era dedicata ai miei due giovani piloti scom-
parsi, che solevano dimostrare ai dubbiosi come la temerità non sia
se non una faccia della prudenza. Viventi, me l’avrebbero certo invi-
diata. Morti, l’avrebbero accettata come la sola offerta funebre de-
gna di loro.
Ecco che stamani rivedo l'occhio felino di Maurizio Pagliano,ii
verdastro, fosforescente, con l'iride tagliata dalla palpebra socchiusa.
Rivedo la bocca franca di Luigi Gori, la marezzatura dei suoi capelli
biondi su la fronte sfrontata, la sua baldanza di rissante partigiano
fiorentino, la sua maniera di piantarsi su le due gambe nervose e di
porre su i fianchi smilzi le sue lunghe mani gentilesche, Non posso

4-9 agosto con audacissima perseveranza portò la più lontana offesa su Pola,
trionfando su condizioni atmosferiche avverse per forte vento e bassi strati di
nubi, e sull’intensissimo tiro di sbarramento della piazzaforte.
Ideatore della lotta concorde delle armi terrestri con la milizia celeste, attuò
durante l’offensiva dell’agosto 1917 l’arditissimo impiego tattico dell’Ala Italia-
na in ausilio all’avanzata delle fanterie, secondo il vero stile del combattimento
nuovo.
Dell’audacissimo volo egli scrisse le regole nel maggio 1917 e nell’agosto ne
diede l’esempio magnifico.
Capo Gruppo di una squadra aerea egli seppe in numerosi voli renderne
l’azione concorde ed efficacissima nella simultaneità dell’offesa ed ottenne che
unanimi fossero l’entusiasmo, la fermissima volontà e l’arditezza». (Da Il sudo-
re di sangue).
ii
Maurizio Pagliano (1890-1917) è stato capitano di aviazione nella
prima guerra mondiale; ha ricevuto quattro medaglie d’argento e una di
bronzo al valor militare. Era in servizio con Luigi Gori, tenente
d’aviazione e suo secondo pilota. Insieme al tenente Giovanni Pratesi fu-
rono scelti da D’Annunzio per effettuare pericolosi bombardamenti su Po-
la, sull’Hermada e su altri obiettivi. Pagliano e Gori avrebbero dovuto par-
tecipare con D’Annunzio a un volo su Vienna. Entrambi muoiono per
l’abbattimento del loro aereo in azione nel 1917.
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imaginare quella loro fierezza rattristata e umiliata nella prigionia.


Non posso imaginare spenta quella loro giovinezza sublime nei loro
volti nudi, sotto le loro maschere di volatori.
Prendo commiato dalle due ombre come nell'ora che li separò
dalla mia fortuna. Il mio dolore s’indurisce, si tempra. Ha omai as-
sunto la mia stessa forma, se scolpito a mia simiglianza. Mi consoli-
da, mi rafforza.

Stanotte mi sono svegliato all’improvviso balzando dal letto, col


cuore in tumulto. Ho spalancata la finestra, e m’è parso di bevere il
cielo, tanta era la mia avidità nel possederlo. Purità di diamante;
stelle ingrandite come in un firmamento orientale; non la più lieve
bava di vento; una certezza immobile.
Questa certezza io l’ho appresa a un tratto, non soltanto con lo
spirito ma con tutti i sensi. Conoscevo queste precipitazioni della
sorte, questo suo separarsi subitaneo dagli elementi avversi che
l’intorbidano, per la forza di una volontà capace di dominarla e di
costringerla. Ma l'influsso dell’uomo su l'evento non mi era mai par-
so tanto manifesto. Vedevo omai l'evento in forma solida tra le ma-
scelle di Costanzo Cianoiii che, quando afferra, non lascia. Sentivo
quasi la figura geometrica della volontà, con le sue facce nette e coi
suoi spigoli taglienti, come quando ci riunivamo noi tre - io, Co-
stanzo di Cortellazzoiv e Luigi Rizzov l’affondatore - a parlare del

iii
Costanzo Ciano (1876-1939), padre di Galeazzo, che sposò la figlia
primogenita di Mussolini, Edda, e fu fucilato durante la Repubblica So-
ciale per alto tradimento, avendo firmato l’ordine del giorno Grandi, che
provocò la caduta del governo Mussolini. Costanzo fu ufficiale di marina e
comandò unità siluranti (MAS) in pericolose imprese. Con D’Annunzio e
Luigi Rizzo partecipò alla beffa di Buccari per la quale ebbe la medaglia
d’oro al valor militare. Aderente all’Associazione Nazionalista Italiana, nel
1921 aderì ai Fasci Italiani di Combattimento; successivamente fu deputa-
to e ministro nel governo Mussolini.
iv
Costanzo Ciano era Conte di Cortellazzo.
8

nostro disegno, a studiare il modo di vincere gli impedimenti, a ma-


sticare la nostra disdetta, per poi rimanere in silenzio, aderenti, con
qualcosa di chi si disponga a spingere in ritmo con la spalla col petto
e col pugno una massa inerte. «Se c’è tre uomini su questo ponte, ci
sarà laggiù una nave di meno.»
«Questo è sicuro» diceva Luigi Rizzo toccandosi la bazza che è
come una bietta aguzzata a guisa di conio, da ficcare nelle spaccatu-
re per fendere e rompere.
Ma la nave da guerra, che l’osservatore aereo affermava di aver ri-
conosciuta tra i piroscafi, dipinta di grigio, sarà tuttora all’àncora
nella baia di Buccari?
Non importa. Navigare necesse est, ora e sempre.

Mi preparo. Ecco che il corpo diventa più misterioso dell’anima.


Le cure consuete diventano profonde come un rito funebre. Ho due
vasetti d’unguento contro il gelo: uno è intatto, l’altro fu manomesso
da Maurizio Pagliano per ungersi la faccia che già una volta gli s’era
congelata in un volo sopra l’Altipiano. Esito per qualche attimo.
Poi, a ungermi i piedi, mi servo di quello dov'è rimasta l’impronta
delle due dita: dell'indice e del medio. La pietà fraterna mi trema
nel cuore. Penso ai tanti miei compagni di Cattarovi già perduti.
Stanotte il mio corpo può essere un pallido sacco d’acqua salsa, in

v
Luigi Rizzo (1887-1951), ammiraglio della Regia Marina nella prima
e nella seconda guerra mondiale, partecipò all’impresa di Fiume con
D’Annunzio; fu insignito con due medaglie d’oro, quattro d’argento e due
croci di guerra al valor militare. Fece parte della squadriglia dei MAS e fu
con D’annunzio nella beffa di Buccari.
vi
La notte tra il 4 e il 5 ottobre del 1917 viene bombardata Cattaro,
importante base navale austro-ungarica da una flotta di 15 biplani Caproni
attrezzati solo per il volo su terra: è forse l’impresa più audace di
D’Annunzio, con aerei impiegati al limite della loro autonomia di volo, e
porta alla distruzione della flotta ancorata alle Bocche di Cattaro.
9

fondo al Quarnaro, o rigettato sopra una spiaggia di Veglia, di


Cherso, dell'Istria.
Non sono forse maturo per la morte?
Il mattino è nuziale. Il bacino è cangiante e soave come la gola
del colombo. Le case hanno qualcosa di femineo, simili a donne che
si levino sul gomito e guardino attraverso le cortine d’oro filato.
Scorgo sul cilestro dell'acqua le nostre saettìe grige coi loro siluri dal
muso di bronzo, che luccicano, bene unti come i miei piedi nelle
calze di carta chinese. Vedo la dirittura della riva, la vecchia pietra
degli approdi e delle partenze, e lungo la riva i marinai allineati, la
bella materia eroica.
Dritto nel canotto, sono issato vigorosamente dalla mano tesa di
Luigi Rizzo che ha già la sua casacca di pelle nera e la sua berretta
corsaresca. In un attimo la coesione si forma. Tra equipaggio e capo
c'è la stessa rispondenza che tra innesco e percotitoio, la stessa ade-
renza che tra siluri e tenaglie.

Parlo agli uomini in riga contro un muro di mattone che ha il co-


lore del sangue aggrumato. Calcano coi loro calzeroni di tela grossa
un’erba trista di carcere, mal nata tra selce e selce. E il resto dei cor-
pi sembra asciutto e leggero come l’esca, come una sostanza che pi-
gli fuoco subito.
«Marinai, miei compagni, questa che noi siamo per compiere è
una impresa di taciturni. Il silenzio è il nostro timoniere più fido.
Per ciò non conviene lungo discorso a muovere un coraggio che è
già impaziente di misurarsi col pericolo ignoto. Se vi dicessi dove
andiamo, io credo che non vi potrei tenere dal battere una tarantella
d’allegrezza. Ma certo avete indovinato, alla cera del nostro Co-
mandante, che questa volta egli getta il suo fegato più lontano che
mai. Ora il suo fegato è il nostro. Andiamo laggiù a ripigliarlo.»
Un solo sorriso nei volti conci col sale scopre le dentature chiare
che rilucono come il lampo della lama tirata fuori dal fodero di
cuoio bruno.
10

«Siamo un pugno d’uomini su tre piccoli scafi. Più dei motori


possono i cuori. Più dei siluri possono le volontà. E il vero treppiede
della mitragliatrice è lo spirito di sacrifizio.
Da poppa a prua, ordegni ed armi, vigilanza e silenzio; niente al-
tro. La nostra notte è senza luna; e noi non invochiamo le stelle. V’è
una sola costellazione per l’anima sola: la Buona Causa.»
Ora i volti sono gravi, intenti, non riscolpiti nell'osso e nel mu-
scolo ma nella fermezza della devozione. Le bocche si serrano. La
luce è tutta negli occhi.
«Per lasciare un segno al nemico, portiamo con noi tre bottiglie
suggellate e coronate di fiamme tricolori. Le lasceremo a galla, sta-
notte, laggiù, nello specchio d'acqua incrinato, tra i rottami e tra i
naufraghi delle navi che avremo colpito.
In ognuna è chiuso questo cartello di scherno:
«In onta alla cautissima flotta austriaca occupata a covare senza fine
dentro i porti sicuri la gloriuzza di Lissa,vii sono venuti col ferro e col fuo-
co a scuotere la prudenza nel suo più comodo rifugio i marinai d’Italia,
che si ridono d’ogni sorta di reti e di sbarre, pronti sempre a OSARE
L’INOSABILE.
E un buon compagno, ben noto - il nemico capitale, fra tutti i nemici
il nemicissimo, quello di Pola e di Cattaro - è venuto con loro a beffarsi
della taglia.viii»
La lama chiara esce di nuovo dal fodero bruno, e lampeggia. È
un lampo più largo: uno sprazzo di riso silenzioso che si prolunga di
dentatura in dentatura, quasi alla medesima altezza. È un riso che

vii
Disastrosa sconfitta navale contro la flotta austriaca avvenuta il 20
luglio 1866 durante la terza guerra d’indipendenza, aggravata dai tragici
errori dell’ammiraglio Carlo Pellion di Persano, che subì un processo e fu
degradato per la sua riconosciuta imperizia.
viii
Dopo il volo su Trieste del 7 ottobre 1915 il governo austriaco aveva
messo una taglia di 20.000 su D’Annunzio.
11

già gusta il sapore della beffa. I giovani marinai si urtano col gomito
e si guardano con la coda dell’occhio.
«La nostra impresa è tanto audace che già questa partenza è una
vittoria sopra la sorte. Per ciascuno di voi l’averla compiuta sarà un
onore perpetuo. Domani il vostro nome, dorato come il siluro e di-
ritto come la sua traiettoria, traverserà l’aspettazione della Patria.
Ciascuno dunque oggi deve dare non tutto sé ma più che tutto
sé; deve operare non secondo le sue forze ma di là dalle sue forze.
Lo giurate? Compagni, rispondetemi.»
È come lo scoppio d una fiamma repressa.
«Lo giuriamo. Viva l'Italia!»
Contro quel muro di sangue grumoso, gli uomini ardono. Sopra
quella magra erba di cortile, l’animo irrompe a superare la statura.
Tutti sono grandi.

Sono i marinai d'Italia, sono il fiore delle nostre leve, sono il sale
della nostra guerra. Sono quelli che sempre combattono a oltranza,
comunque armati, dovunque mandati nel mare e nella laguna, nella
barena e nella passerella, nella petraia e nella macchia. Sono quelli
dell'Isola Morosina e quelli di Parenzo, quelli di Grado e quelli della
Sdobba, quelli di Monfalcone e quelli di Durazzo. Sono i buoni fi-
gliuoli che vanno incontro alla morte melmosa ridendo di allegria
marina perché chi li conduce, per tener fermo l’elmetto, s’è passata
sotto il mento una cima come in una puleggia.
Ve n’è di tutte le province, di tutte le contrade, di tutte le spiag-
ge, prole dei Tre mari, una e diversa. Ve n’è della Lunigiana e della
Romagna, dell’Umbria e della Marca; ve n’è della Sicilia e dell'Emi-
lia, della Liguria e dell’Etruria, della Terra di Lavoro e della Terra
d’Otranto.
Uno è di Viareggio. E mi sembra di averlo incontrato fanciullo
per la sabbia liscia in uno di quei canori mattini delle Laudi di Al-
cyone quando le Alpi Apuane vestite d’aria s’accostavano e menava-
no tra mare e cielo una canzone a ballo, tutte inchinate verso ponen-
te nel giro, pigliando per la mano la mia musa squammosa.
12

Un altro è di Vietri, è di quella costiera d'Amalfi divinissima-


mente modulata dalla voce glauca delle Sirene. E sta come uno che
sogni o trasogni, perché la Fata Morgana crea soltanto per i suoi ne-
ri occhi di morituro l'imagine del paese come un frutteto florido che
galleggi sul fiore del mare.
Un altro è dell’isola esule di Ponza. E credo ch'egli fosse al remo
nel legno di Ulisse quando il re isolano «piloto di tutte le sirti» entrò
nell'ombra magica del Circeo.
Un altro porta stranamente il nome dello stipite d’una dinastia
gloriosa, il nome di Umberto Biancamano;ix ma è concittadino dei
vecchi crocifissi Disma e Misma,x è nato nella bianca Gallipoli,
all'ombra dei più pingui ulivi salentini. E m’imagino, per propiziare
la bonaccia, ch’egli abbia portato su la sua spalla, dalle posture scol-
pite nella roccia alle pile regie, un grande otre di quell’olio d’oro lie-
ve.
Un altro è di Montalcino, alto svelto e duro come una torre della
sua rocca. E, stando egli in piedi con una berretta di podestà, scopro
dietro di lui la cruda terra senese, vedo lo sfondo della Val d'Orcia
mutola e severa, con le sue crete, con le sue rupi, con i suoi cerri,
con i suoi cipressi, con i suoi casseri, con le sue pievi, con le sue ba-
die, con le sue grance, e la virtù civica inerpicata e abbarbicata sul
monte comunale ardervi l’ultimo stendardo della libertà e infranger-
vi l’ultimo conio della moneta che porta l’Assunta e la Lupa roma-
na.xi

ix
Umberto Biancamano (circa 980-1056) fu capostipite della famiglia
Savoia.
x
Disma e Misma sono i nomi tradizionali dei due ladroni crocifissi in-
sieme a Gesù.
xi
La moneta senese aveva il ritratto dell’Assunta, la lupa romana e la
scritta Libertas. Quando l’11 aprile 1555 la Repubblica di Siena cade oc-
cupata da Carlo V dal suo alleato Cosimo I de Medici, i senesi, guidati dal
Capitano del Popolo Mario Bandini, si rifugiano a Montalcino protetti
dal re di Francia Enrico II e nella roccaforte restaurano le libertà repubbli-
13

Quanto è bella l’Italia!

C’imbarchiamo. Ridiventiamo taciturni e attenti. Ciascuno


prende il suo posto; e nel suo posto non ha più spazio di quello che
avrebbe se fosse messo fra le quattro assi finali. Il bacino è chiaris-
simo, appena appena soffuso d’indaco, puro come il bianco
dell’occhio d’un bimbo. Riceviamo il saluto delle siluranti ormeggia-
te, passando al traverso. Chi non c’invidierebbe, se sapesse? Chi, se
sapesse, non ci farebbe il segno del commiato ultimo?
Distribuisco agli uomini le piccole bandiere, poco più larghe d’un
cuore maschio, simili a «faville della bandiera grande», della mede-
sima misura di quelle che portavano sul petto i miei «lupi» del bat-
taglione di Giovanni Randaccio al Veliki, al Faiti, al Timavo,xii della

cane, aprono la zecca e cominciano a coniare monete sul modello senese,


di eccellente fattura. I richiami a temi rinascimentali in D’Annunzio non
sono solo il naturale frutto di un’eccellente conoscenza storica, ma in ge-
nerale esaltano le libertà repubblicane e le istituzioni autonome delle città
italiane, che saranno esplicitamente richiamate come antecedente storico
ed elemento identitario nel testo della Carta del Carnaro del 1920.
xii
Giovanni Randaccio (1884-1917) è una figura molto importante nel-
la retorica di D’Annunzio e nella costruzione del mito del fante. Eta capi-
tano nella brigata dei Lupi di Toscana, tre volte medaglia d’argento al va-
lor militare, in particolare nella conquista del Veliki Kribach; partecipa
con D’Annunzio alla disastrosa impresa sul Timavo, dove muore in com-
battimento meritando la medaglia d’oro il 28 maggio del 1917; sepolto a
Monfalcone, D’Annunzio terrà l’orazione funebre. L’impresa del Timavo,
durante la decima battaglia dell’Isonzo, mirava ad occupare il castello di
Duino e a innalzarvi una bandiera italiana che fosse visibile da Trieste, al-
lora sotto dominio austriaco. Le difese di Duino risultarono però superiori
agli assalitori che, conquistata l’altura di Bratina, non ricevettero rinforzi
per mantenere la posizione. L’operazione era certamente rischiosa e forse
preparata con informazioni insufficienti, ma rientra nel modello di impre-
se spericolate che caratterizza D’Annunzio.
Al comando del capitano Randaccio D’Annunzio partecipa all’ottava,
14

medesima qualità di quelle su cui fu primamente inscritto l’alalà di


guerra la notte che primi partimmo a volo per gridarlo su Pola in
fiamme, della medesima santità di quella che ritrovai chiusa nel pu-
gno del giovine eroe carsico Giuseppe Cangialosixiii esanime sul sas-
so della dolina difesa da un orlo inespugnabile di sangue.
Le mani si tendono avidamente come se io spezzassi il pane ai
famelici. La mano del fochista sorge dalla cameretta imbottita, pri-
ma che apparisca la testa armata di cuffia. Sentiamo che il battito di
tutti i cuori s’accelera. Eccoci unanimi al mattino come saremo a
mezzanotte.
È un vero sacramento eucaristico, è la più intima e compiuta co-
munione dello spirito con l'Italia bella. Non occorre la parola consa-
crante perché questa ostia tricolore si converta, per la nostra fede,
nella bellezza vivente della Patria.
Siamo purificati. Siamo distaccati dalla riva e dall’abitudine, se-
parati dalla terra e da ogni cura comune, dalla casa e da ogni agio
inutile, dall’amore profano e da ogni desiderio vile. E qualcosa come
la tregua della poesia. Mi ritornano nella memoria le parole di
un’eroina tragica innanzi alla morte: «Son fuoco e aria. Gli altri miei
elementi io li do alla inferior vita.xiv» Ma il precipizio del dramma e

alla nona e alla decima battaglia dell’Isonzo, col grado di tenente. La ban-
diera che avrebbe dovuto essere issata su Duino viene poi portata a Roma
e da qui a Fiume occupata dai legionari; attualmente è conservata nel Vit-
toriale. Sull’altura di fronte alla risorgiva del Timavo, ben visibile dalla
strada costiera per Trieste, un monumento ricorda i Lupi di Toscana ca-
duti nella battaglia.
xiii
Giuseppe Cangialosi (1895-1916), medaglia d’oro al valor militare,
muore sul Veliki Kribach presso Gorizia durante l’ottava battaglia
dell’Isonzo, anche lui con i Lupi di Toscana. Essendo stato accerchiato il
suo reparto, rifiuta la resa ed esce dal riparo agitando una bandierina trico-
lore e sparando con la rivoltella, seguito dai suoi uomini che spezzano
l’accerchiamento e riescono a mantenere la posizione.
xiv
Cleopatra in Antonio e Cleopatra di Shakespeare.
15

il ratto dell'ode non sono comparabili a questa forma di spiritualità


vigilante. L’arte non me l’aveva mai concessa, e neppure la libertà. Il
pensiero del ritorno appesantisce anche il più libero viaggio, la più
spedita corsa. Noi siamo immuni dal pensiero del ritorno; e per ciò,
avendo con noi armi tanto pesanti, ci sentiamo tanto lievi: «fuoco e
aria».
Guardo un nocchiere ripiegare devotamente la piccola bandiera
come l'abitino della Vergine che forse egli porta al collo, sotto il suo
saio. Non ci fu un Beato che soleva ripiegare la propria carne come
si ripiega un mantello per metterlo da parte? Siamo qui dieci uomini
e abbiamo a bordo dieci salvagente di capecchio; ma nessuno pensa
a cingere il suo o crede di potersene servire in un certo momento per
la sua salute. Così è di queste dieci carcasse abbandonate.
Però quanto è mai dolce il viso del mattino!

Il comandante Costanzo Ciano ci raggiunge mentre si sta com-


piendo il rifornimento della benzina. Lo vediamo torreggiare sul
pontile, nella sua gran casacca di pelle fosca. È l’architettura umana
della sicurezza. Tra le spalle quadre e la collottola rilevata, può por-
tare qualunque peso di obbedienza o di comando agevolmente. Se
nel Siciliano di Milazzo l’osso del mento è un conio fatto per pene-
trare e fendere, l’osso mascellare di questo Toscano di Livorno sem-
bra avere la potenza della morsa quando la sua vite la serra. Tiene
stretta perfino la parola, in una bocca sinuosa e profonda che lascia
appena intravedere i denti eguali e fitti. Sa ridere come un fanciullo,
e sa ridere d’un riso che spaccia. Pare che i suoi gesti abbiano ornai
acquistato qualcosa degli ordegni notturni ch'egli inventa e adopera.
La sua mano in sogno deve tagliare continuamente catene da ostru-
zione, come una sega elettrica.
Ecco che con lui siamo tutti sicuri di arrivare al bersaglio. Siamo
già padroni del Quarnaro, mentre ci dirigiamo per le rotte di ostro,
in una bonaccia covata da una foschìa sempre eguale.
16

Comincia l'eguaglianza della corsa, fra mare e cielo. Attenzione a


ogni apparenza del mare. Attenzione a ogni apparenza del cielo. Se
fossimo avvistati da una nave nemica, se fossimo scoperti da un
esploratore aereo, dovremmo rinunziare all'impresa; che non è se
non una sorpresa, e una sorpresa mortale.
Le ore filano. Il fervore della scia accompagna la musica dei miei
pensieri. Di tratto in tratto una bùccina suona nel vento. Non è
quella dei Tritoni, se bene una torma di bei delfini danzi al nostro
traverso di sinistra. Non è se non il nero megafono, che trasmette le
correzioni di rotta.
Un marinaio m'improvvisa un giaciglio a poppa, con tre salva-
gente. Mi distendo supino, col capo contro la gabbia delle due
bombe da sommergibili. La foschia non si dirada. Fa dolco. C’è
nell’aria non so che sentimento di mutazione. Si sente che il buon
tempo è «agli sgoccioli», come dice il Comandante. C’è il caso che
domani si guasti. L’ultima notte utile è forse per noi la prossima. Se
dovessimo tornare indietro, perderemmo il giuoco.
Non torneremo indietro. «Memento Audere Semper» leggo su la ta-
voletta che sta dietro la ruota del timone: il motto composto poco
fa, le tre parole dalle tre iniziali che distinguono il nostro Corpo. Il
timoniere ha trovato subito il modo di scriverle in belle maiuscole,
tenendo con una mano la ruota e con l'altra la matita. « Ricòrdati di
osar sempre.»

Mi assopisco. Ho il sole in faccia. Distinguo nella trasparenza


delle palpebre i ragnateli sinistri tessuti in fondo alle mie orbite.
Odo, sul croscio dell'onda spumosa, un uomo accosciato accanto
a me masticare il suo pane di guerra.
Sento che i miei piedi si raffreddano. Ricevo uno spruzzo di sale
sul viso. Apro gli occhi.
S’è levata la brezza da ponente.
«È una bavicciuola che ci fa piuttosto bene» dice tranquillo Luigi
Rizzo, che vedo in piedi nero fra le cappe delle due mitragliatrici di
prua.
17

Il mare è lievemente mosso. La navicella danza non senza grazia.


Sono le due del pomeriggio. Ecco che facciamo l’accostata e me-
niamo la prua sul nemico.
Da quest'ora fino al tramonto, bisogna spiare sempre più atten-
tamente l'aria. Il torpediniere e il sottonocchiere, accanto a me,
stanno di continuo col naso per l’in su, ad aguzzare le pupille. Il cie-
lo è deserto e pallido. Il mare è deserto e pallido. La monotonia si
prolunga. Da nessun amante, neppure da Tristano di Bretagna, la
notte fu mai invocata con tanto ardore.
Il mare è ora mosso da borea-levante. La foschìa è sempre bassa
ma folta. Che tempo ci sarà dentro il Quarnaro? L'ansietà ci trava-
glia. Si fa consiglio. La bùccina nera trasmette la voce. Non può es-
sere se non la voce del coraggio ignudo. Veggo le potenti spalle
quadrate di Costanzo Ciano di contro al cielo dove sgorga la prima
stella.
Grido: «Memento audere, memento audere!»
E un latino che tutti i marinai intendono, meglio che se fossero
tutti addottorati in Salamanca.

L'oro grasso dei siluri si scurisce, diventa fulvo. A ogni tratto,


Beppe Volpi, il capotorpediniere,xv li esamina, li tasta, li tenta con la
sua chiave curva, quasi li blandisce, come se volesse persuadere alla
pazienza una coppia di bestie da preda impazientissime di partire.
Ha due occhi rapinosi di pirata barbaresco, tanto vividi che spiccano
nella faccia scura con l’intensità della pasta vitrea colata tra i rilievi
dei cigli nelle teste antiche di bronzo.

xv
Giuseppe Volpi, al comando di Luigi Rizzo, partecipò all’attacco dei
MAS che affondarono la corazzata austriaca Wien in rada nel porto di
Trieste nella notte tra il 9 e il 10 aprile 1917; nell’occasione, Volpi tagliò i
cavi di protezione della baia operando in parte sott’acqua e Rizzo ricevette
la sua prima medaglia d’oro.
18

La prua è ben dritta contro la gola del nemico. Avvistiamo l’isola


di Unie nella sera stellata. Accostiamo per passare fra Unie e la Ga-
liola, dove incagliò Nazario Sauro.xvi
L'ombra dell’impiccato palpita per qualche attimo tra siluro e si-
luro, come una bandiera in gramaglia.
Al traverso di Punta Sottile facciamo rotta nel canale di Farasina,
aumentando la nostra velocità.
L’ombra ci lascia con un gesto di promessa. Torna a Pola, per
sorridere dalla sua larga faccia guatando la flotta cautelosa che senza
dubbio seguiterà a covare la glorietta di Lissa.
Ma noi penetriamo nel Quarnaro ben munito, ben guardato. Nel
Quarnaro di Dante andiamo mallevadori del Patto di Londra,
Abbiamo lasciato a dritta la Levrera. Seguiamo la rotta di tra-
montana. La foschìa è così fitta che non riusciamo a scorgere né la
costa di Cherso né quella dell’Istria. Angelo Procaccinixvii che sta al
timone, un Veneto di Mestre tenuto a battesimo da Angelo Emo di
San Simeon piccolo,xviii fiutando il vento con le sue nari sagaci di
corsaro legittimo, mi dice: «Non sente l’odore della terra?»

xvi
Nazario Sauro (1880-1916), irredentista originario di Capodistria,
arruolato nella Regia Marina italiana, è decorato con medaglia d’argento e
promosso Tenente di vascello per le sue azioni militari. Era imbarcato sul
sommergibile “Giacinto Pullino”, che il 30 luglio 1916 si incaglia nel Car-
naro tra l’isola di Unie e lo scoglio della Galiola. Fatto prigioniero, viene
condannato all’impiccagione, sentenza eseguita a Pola. Medaglia d’oro alla
memoria.
xvii
Angelo Procaccini (1883-1992), muore quasi centenario a Venezia
(era originario di Mestre), ultimo dei protagonisti dell’impresa. Era al ti-
mone del MAS in cui era imbarcato D’Annunzio. Aveva proposto di rein-
terpretare la sigla MAS (Motoscafo Armato SVAN - Società Veneziana
Automobili Navali; l’acronimo era poi diventato Motoscafi Armati Silu-
ranti, poi Motoscafi Anti Sommergibili) come Motum Animat Spes;
D’Annunzio lo trasformò in Memento Audere Semper.
xviii
Angelo Emo di San Simeon Piccolo (1731-1792) fu un grande Ca-
19

Poi soggiunge, più piano: «Odore di lauro.»


Il cuore mi rintocca. È forse un'allusione a quel lauro amaro ta-
gliato in sogno tra Pola e Albona dal poeta navale della Tragedia
adriaca?xix Voglio anch'io sentire l’odore del lauro. E mi ricordo del-
la lontana notte di ottobre, dell'approdo di Fiume dov’ero venuto
per leggere il poema di annunziazione ai miei attori randagi, mes-
saggero d’Italia.
Dove io venni con una nave di parole, ecco che torno con un gu-
scio armato, da combattente, tra combattenti. Lode al Signore Iddio
grande e tremendo! Non è mai tardi per tentar l’ignoto. Non è mai
tardi per andar più oltre.
Ecco che la mia poesia vive. Ecco che io vivo il mio Credo. Ecco
che non ho penato, lottato, sperato, aspettato per nulla. Ecco che il
mio canto ritorna dalla profondità del mare e del destino.
Il timoniere tiene la ruota con le due mani e china un poco la
faccia e cerca il verso nella memoria.

pitano della Serenissima, alla quale restituì il dominio dell’Adriatico. La


menzione di D’Annunzio come ideale padrino di Procaccini fa forse rife-
rimento a una particolare innovazione di Angelo Emo, che utilizzò zattere
assemblabili per portare armamenti pesanti in litorali a basso fondale, dea
che ha qualche attinenza con i MAS.
xix
D’Annunzio fa riferimento alla sua tragedia La nave del 1907, con
un forte contenuto politico relativamente al tema della libertà delle popo-
lazioni venete; in particolare ai versi iniziali: «Odi, signore Iddio grande e
tremendo / cui fecer grido i padri combattendo / su le rembate: questo
ch’io t'accendo / è il Rogo e il Faro. // Tra Pola e Albona presso del
Quarnaro / tagliai l’abete audace e il lauro amaro / e la rovere santa con
l’acciaro / della bipenne; // e, come giunsi il legno delle antenne / e il le-
gno del corbame alla perenne / fronda della Vittoria, mi sovvenne / di tutti
i morti, // di tutti mi sovvenne i nostri morti / sotto il gorgo, di tutti i no-
stri morti / sotto il gorgo che tranghiottisce i forti / e i lor vascelli». Anche
i versi successivi sono tratti dalla tragedia.
20

«E chi mai misurò l’acque col pugno?


Taluno ben le misurò con l’animo.
Stirpe della Ventura, ascolta, ascolta:
noi le misureremo per la tua
giovine forza, i miei compagni ed io;
noi, da questo Adriatico selvaggio
che t'indura ed è tuo come il tuo Santo,
noi le misureremo col più grande
animo; andremo lungi a riconoscere
il dominio assegnato alla più grande
speranza.»

Avanti, avanti! Le coste si serrano. Riconosciamo la bocca di


Fianona e il promontorio di Prestenizze.
Penetriamo nella stretta fauce del Quarnaro, come tre spine
aguzze.
Il canale di Farasina, ben munito, ben guardato, con i suoi
proiettori, con le sue batterie, con i suoi lanciasiluri, con i suoi sbar-
ramenti, con ogni sorta di difese e di ostacoli, ecco che noi sappia-
mo violarlo.
Ordinati a triangolo, una prua, due prue, stando noi dritti in
gruppo sul ponte, neri contro la notte, tagliamo nettamente il peri-
colo che non s’illumina e non tuona.

«Noi saremo i precursori


che non tornano, i méssi che non tornano
perché recare vollero il messaggio
così lungi che, a vespero d'un giorno
fugace, trapassarono il confino
d’eternità e senza riconoscerlo
entrarono nei regni della Morte.»

Trapassiamo il Capo Jablanac, la punta boreale di Cherso.


21

Entriamo nel Golfo di Fiume come nelle acque d’una primavera


notturna, come in un incantamento stellato. Qualcuno di noi pensa
al lido felice di Posillipo nella stagione del canto.
Da Volosca a Zurcovo, tutta la costiera è coronata di luci come
per una festa votiva. I riflessi innumerevoli raggiungono la nostra
scia e vi si frangono. La bonaccia è tiepida come dopo il levarsi delle
Pleiadi. Ogni foschìa è vanita. L’Orsa brilla straordinariamente so-
pra la canna nera della mitragliatrice di poppa. È per questa notte la
costellazione della Buona Causa.
Aumentiamo la velocità, facendo rotta verso la costa di Buccari.
Alla distanza di circa un miglio, rallentiamo. Su la nostra dritta sono
visibili le alture di Veglia.
Ed ecco che dal mio sentimento musicale si leva il ricordo dei
due meravigliosi violini italiani, dello Stradivario e dell’Amati, che
sopravvivono laggiù, nella città vescovile cinta di torri venete.
E mezzanotte.

11 febbraio - Nasce il nuovo giorno, con un numero di data caro


alla mia superstizione. Navighiamo da quattordici ore. Teniamo da
cinque ore le acque del nemico. Gli siamo entrati nella strozza, e poi
nel profondo stomaco. Siamo un pugno d'uomini sopra tre brulotti
disperati, soli, senza alcuna scorta, lontanissimi dalla nostra base, a
una sessantina di miglia dalla più potente piazza marittima imperia-
le, a poche miglia dalle superate difese di Farasina, a poche centi-
naia di metri dalle batterie di Porto Re. Un allarme, e andiamo in
perdizione.
Bisogna che io costringa il mio spirito a questa realtà, per poter
equilibrare sul filo teso del rischio la mia gioia silenziosa, tanto la
notte sembra inoffensiva e amica.
Credo che mai, da che faccio la guerra, il sogno abbia tanto per-
fettamente aderito all’azione.
Ora il silenzio è il nostro timoniere. Ma una musica senza pause
ci conduce, simile al fluire delle nostre arterie. I motori rallentati
sembrano un accompagnamento di contrabbassi in sordina. Non c’è
22

un archetto per lo Stradivario di Veglia? Ecco una vera serenata ita-


liana, come sul Canalazzo.xx L’Austriaco ha ragione. Non siamo
buoni ad altro. Il Volpi intanto esamina anche una volta il siluro di
dritta, come il sonatore pone la gota contro il manico dello stru-
mento e volta il bischero.
Costeggiamo a meno di cinquanta braccia, a un trar di cerbottana
idilliaca. La costa è posata leggermente sopra un mare d’olio. Il can-
noniere Umberto Biancamano pensa che l'olio non è tanto quieto
nelle pile di Gallipoli; e credo che sarebbe contento di misurarlo con
l’asta di bronzo come fa il gabelliere salentino sotto la porta, prima
di lasciarlo colare per la lunga manica di pelle nel bottame.
Gli occhi delle stelle sono venuti nella nostra scia quieta, e ac-
cennano. Ho le ginocchia sopra un salvagente cedevole; ho tutto il
corpo in pace, come quando ci si sveglia dal sonno del giusto; e que-
sta misteriosa felicità di cui si riempie il mio cuore non posso rico-
noscerla se non dalla presenza di un’anima che ha lasciato la sua
soma a dormire laggiù in una dolce collina d'Abruzzo folta di ci-
pressi e di mandorli. So quale di quei mandorli fiorisce.
Non un lume, non un rumore, non un indizio umano. Ecco le al-
te aste d’una vedetta da tonnara, ma l'uomo non c’è. Se ci fosse e
desse l’allarme, non saremmo toccati tanto a dentro quanto da que-
sto sommesso anatrare che monta dal vallone come nelle albe selva-
tiche della nostra Maremma quando si sta in padule alla caccia del
barchino. Ci guardiamo negli occhi, all'albore delle stelle, con un
sorriso che è veramente paesano, con un sorriso del paese di laggiù;
e ci comprendiamo. L’anima è tesa come l’orecchio.
Ed ecco che, su quell'anatrare sommesso, una piccola voce ci toc-
ca la cima del cuore. È un gorgheggio timido, è come la prima prova
di un usignoletto inesperto. Abbiamo quasi la tentazione di fermare
i motori, per meglio stare in ascolto. Il verso si fa più sicuro e si

xx
Nell’isola di Veglia (Krk) era conservato uno Stradivari. Canalazzo è
un modo veneziano di chiamare il canal grande.
23

svolge. I marinai sono tutti chini da una banda, tutti attenti al tra-
verso di sinistra. Uno vuol sapere da me che specie di uccello sia.
«Canta in italiano» gli rispondo. Allora si vede una ilarità infanti-
le rilucere nel bianco degli occhi. Allora si vede il riso muto sussul-
tare nelle grandi spalle di Costanzo Ciano che è ritto in prua a scru-
tare la costa per ritrovare l’imboccatura.
«Canta in italiano!» rimormora estatico il torpediniere di Mon-
talcino sotto la sua berretta di podestà. E penso che ha in bocca, col
sapore della Fonte Gaia,xxi la parlatura santa della madre Siena, la
favella dell'antica suora in Maria dolce,xxii la melodia delle donne di
Fontebrandaxxiii che cantilenano ai lavatoi schiumosi.
Ecco il becco dell'ocarina. Siamo alla stretta. La mezzanotte è
passata di trentacinque minuti. La canzone è finita. Prepariamo
un’altra musica. Lo scafo è tutto una struttura di volontà occhiuta e
armata. Il senso delle mani istintivamente si adatta già agli ordegni
da adoperare. Ci sono reti? ci sono sbarre?
Si rallenta. Si tenta. Nessuna specie di ostruzioni. Si rasenta la
punta Sersica. Si naviga a poche braccia dalla costa di ponente. Por-
to Re è al buio. La vigilanza giace. La batteria tace.
«Che buona gente, questi Austriaci!» mi susurra Luigi Rizzo ac-
costando al mio orecchio quella sua bietta mal rasa che gli è servita a
fendere il fianco della Wien con un colpo solo. Ma non dice «buona
gente» in verità. Mi scodella gli attributi di Bartolomeo Colleoni.
Gli prendo il polso, glielo tasto. Ride, abbassando i lunghi cigli su i
suoi occhi saracini. E il polso quieto di un Arabo che abbia trascorso
la sua esistenza a fumare e a sonnecchiare addossato a un muro
bianco.

xxi
Fonte Gaia, in piazza del Campo a Siena, realizzata da Jacopo della
Quercia intorno al 1419 sul luogo dove sorgeva una fonte preesistente.
xxii
Le lettere di santa Caterina da Siena iniziano con l’epigrafe: Al no-
me di Jesù Cristo crocifisso e di Maria dolce.
xxiii
Fontebranda è la più antica delle fonti di Siena.
24

Troveremo la nave avvistata dall'esploratore celeste? Senza offen-


dere la modestia: ora che siamo qui, non meriteremmo di mandare a
picco una squadra intera?
Siamo dentro la baia nemica, siamo proprio in fondo al vallone di
Buccari, nella sua estremità settentrionale, di contro all'ancoraggio,
inosservati, insospettati! Non erravo imaginandomela in forma di
un'ocarina d’argento, tanto l’acqua liscia è pregna di luce stellare.
Il Comandante sta ritto a prua per riconoscere i bersagli. Ha una
scintilla d'ilarità nell'angolo dell’occhio; e la comunica a tutto l'equi-
paggio. Scrolla la testa pertinace e si volta brusco, quando s'accerta
che la nave da guerra non c’è. Le masse di quattro piroscafi si dise-
gnano contro l’altura. Calma e silenzio. A Buccari nessuna finestra è
illuminata.
Accostiamo ancora. Gli ordini sono dati con la voce, da bordo a
bordo.
Ciascuna prua prende la stia posizione per il lancio.
È un'ora e un quarto dopo la mezzanotte.
Ho le mie bottiglie sotto la mano, pronto alla beffa: forti botti-
glie nerastre, di vetro spesso, panciute, col cartello dentro avvolto in
rotolo, scritto di mio pugno, scritto di indelebile inchiostro. Le ho
preparate io stesso, con i due sugheri da sciàbica, con le tre lunghe
fiamme tricolori fermate intorno al collo dallo spago e dalla cera.
Non altrimenti il poeta Titiroxxiv incerava i suoi nodi collegando le
canne diseguali della sua fistola oziosa.
Ma il poeta non si ricorda se non d’una sua remota parola di na-
vigante inebriato:

xxiv
Titiro è il nome del pastore in cui Dante Alighieri ritrae se stesso
nella prima Egloga in risposta a Giovanni del Virgilio che lo esortava a
scrivere in latino anziché in volgare affinché potesse essere coronato con il
lauro di poeta. Si tratta di un carme bucolico, il che giustifica il riferimen-
to alla fistola (o siringa, flauto di Pan).
25

«Tutta la vita
dell’anima mia fu vissuta
perché quest'ora splendesse.»xxv

Il cuore balza al frullo gagliardo del primo siluro che lascia la te-
naglia e parte. Ora siamo tutti carica e macchina, innesco e percoti-
toio.
Uno all’albero di trinchetto.
Uno al centro sotto il fumaiolo.
Gli attimi sono eterni. S’ode la bestia dal muso di bronzo che
ronfa contro il bersaglio raggiunto, con le eliche in moto, conti-
nuando a scaricare aria rabbiosa, impigliata di certo dentro una rete
protettrice.
Uno al centro del secondo.
Uno al centro del terzo.
Ancora s’ode il gran ronfare, il gran travagliare sott'acqua, laggiù,
contro la carena, come quando un balenotto viene ad arenarsi in un
basso fondo o sopra un banco e soffia e sfiata e si sbatte. Siamo di
metallo anche noi, abbiamo il tritòlo nella testa, nel corpo la camera
segreta coi congegni di governo.
Uno al fumaiolo del quarto.
Uno al fumaiolo del quarto.
L’uno e l’altro percorrono la stessa traiettoria, raggiungono il ber-
saglio nello stesso punto. Il primo riesce a squarciare la rete, il se-
condo passa attraverso la squamatura e scoppia.
Alalà!
Una Vittoria latina, ch’era sommersa, si riscuote con un sussulto
potente, sprigiona dal fondo una grande ala acquosa c la sbatte su la
faccia della notte.
Alalà!

xxv
Laudi, I, Maia, “Laus vitae”: «E tutta la mia forza / fu pallida, tutta
la vita / dell'anima mia fu vissuta / perché quell'ora splendesse».
26

I tre gusci danzano una danza frenetica come tre delfini invasi
dal furore nautico di Bacco.
Alalà!
Pel mio orecchio sottile è come una scossa di terremoto nella
bottega di un vasaio ben fornito. Mille e mille orciuoli, mille e mille
piatti, d’ogni sorta stoviglie, rotolano tutt’insieme e si frantumano
con un enorme acciottolìo. Scorgiamo la massa scura inclinarsi tra
qualche battito di bagliori come d'occhi che tentino di aprirsi e si
richiudano per morire. Un vocìo confuso, un gridìo sparso, un ac-
cendersi e un agitarsi di fanali, colpi di fuoco rari, qua e là: l’allarme!
Poso la prima bottiglia nell’acqua, con le sue belle fiamme spie-
gate. Ha l’aria giuliva di una piccola balia brianzola acconciata coi
suoi pettini e i suoi nastri, che galleggi dalle poppe in su e s’allontani
ballonzolando. Luigi Rizzo si china a guardarla, la segue con gli oc-
chi burlevoli, e non può tenersi dall’imitarla, come un bambino che
senza volere imita il giuoco della sua marionetta. Poso la seconda
bottiglia nella rotta del ritorno, prima di doppiare la punta di Babri.
Vedo la terza agitarsi nella nostra scia insolente, mentre usciamo
dalla stretta e ci dirigiamo come padroni verso l’imboccatura della
baia passando dinanzi alla batteria di Porto Re che s illumina senza
tuonare. L'allarme fa cecca, come un vecchio archibugio carico di
polvere umida. Luigi Rizzo pensa al Colleoni.xxvi

Eccoci fuori, eccoci tutti in piedi. Respiriamo le stelle, come il


fabbro respira le faville della sua fucina. Il cielo è stellato, il mare è
stellato, lo spirito è stellato. Se bene la seconda ora dopo la mezza-
notte sia per spirare, le luminarie della costiera da Zurcovo a Volo-

xxvi
Il cognome Colleoni ingentilisce un termine più usato e più volgare:
nel linguaggio comune affermarne il possesso indica forza e virilità, ma in
senso del tutto opposto, anziché possedere questo “attributo”, si può esser-
lo, e ciò indica un’estrema imbecillità. Qui, naturalmente, si sottolinea con
dileggio l’inefficienza delle difese austriache.
27

sca non sono spente. Il vento della velocità è a noi acerbo di prima-
vera precoce. Se l'allarme è trasmesso almeno alla Farasina, andiamo
incontro a un’altra ora bella.
Ci bisogna ripassare per la strozza. Questo nemico non stritola
ma rece.xxvii Luigi Rizzo non si sazia di lodarne la triplice bontà, sot-
to il vocabolo del condottiero bergamasco.
Alle due e cinque minuti accostiamo per imboccare il canale.
Non abbiamo altre armi che due mitragliatrici a prua e una a poppa.
Sono pronte, con le loro cassette di nastri. Ma per tutte le coste, a
dritta e a manca, non appare indizio di allarme. Cerchiamo di con-
servare la formazione a triangolo, dando la voce. La terza silurante
perde velocità, non ci può seguire.
D’improvviso, all’altezza di Prestenizze, parte un fuoco di fucile-
ria da qualche posto di vedetta. Nessuno curva il capo. Nel fosso di
poppa c’è il solo timoniere. Uno scoppio di facezie risponde. Per
giunta, accendiamo il fanaletto di poppa e rallentiamo, la terza saet-
tìa non essendo più in vista dietro di noi.
Che accade? un’avaria? di che sorta ?
La seconda è a portata di voce. È comandata da Profeta de San-
tisxxviii di Chiusi, da un imperturbabile Etrusco di poche parole tra-
smigrato al lido ligure e temprato nelle virtù della razza assuefatta ai
mali. Udiamo il suo accento netto e breve come il suo lineamento.
Egli riferisce che si tratta d’un fallo al motore di sinistra e che An-
drea Ferrarmi ha fermato lo scafo in mezzo al canale perché i suoi
due fochisti attendano a riparare il guasto.
Questo buon Ferrarini di Mantova comanda il terzo equipaggio.
È un vecchio navigatore brizzolato, pepe e sale, col naso rabbuffato

xxvii
Rece: da recere, rarissimo sinonimo di vomitare.
xxviii
Il Tenente di vascello Odoardo Profesta de Santis comandava il
MAS 95; il MAS 94 era comandato dal Sottotenente di Vascello Andrea
Ferrarini; il MAS 96, con a bordo D’Annunzio, era comandato da Co-
stanzo Ciano, Capitano di fregata.
28

in su, di collo corto, di ganascia risentita, di tinta accesissima, che


pare colato dal più sugoso pennello di Jacopo Velasquez. La sua
esperienza arguta eguaglia il suo coraggio allegro. Poiché s‘è trovato
«in ogni stretta» come Lucio Polo, egli sì caverà anche da questa.
Pretende d’esser rimasto trent’anni senza bevere una gocciala d'ac-
qua. Gli accadde d'ingoiarne a Grado due sorsi, nello sbaraglio, e fu
per morirne. Prima di consentire a farsi spugna del Quarnaro, tente-
rà ogni scampo. E un vecchio Ulisside imbaccatoxxix ma di molti in-
gegni.
Tuttavia non esitiamo a invertire la rotta per ricercare la ritardan-
te, deliberati di mandarla a picco e di prendere a bordo l’equipaggio,
se non sia possibile riparare il guasto in breve.
Ed ecco il meglio della beffa o il meglio della baia, se valga il bi-
sticcio. Ripassiamo davanti a Prestenizze, ci ricacciamo nella strozza
del nemico! Le sentinelle non tirano più. Non possono credere a
tanta impertinenza. Certo la nostra sfacciata manovra le mette nel
dubbio che si tratti di naviglio austriaco.
Per tendere gli orecchi, per meglio cogliere i rumori, ci fermiamo
anche noi in mezzo al canale di Farasina ben munito, ben guardato;
e restiamo là fermi, da padroni, un lungo quarto d'ora. «Memento
Audere Semper.»
Si ascolta. Nulla. Si risale ancóra a tramontana. La ricerca è inu-
tile. Non si scorge segnale di soccorso, non s’ode richiamo. È pro-
babile che, riparata l'avaria, l’astemio d’acqua abbia proseguita
l’allegra sua rotta di ostro. E per la quarta volta passiamo sopra gli
sbarramenti, ridendo delle sentinelle sbalordite.
Abbiamo o non abbiamo preso possesso del Quarnaro? La scia
temeraria ha trasferito molto più a levante i termini danteschi e giu-
stamente riempito la lacuna del Patto di Londra.

xxix
Imbaccato: da imbaccarsi, ubriacarsi: ubriacone.
29

Possiamo coricarci, con la faccia rivolta alla costellazione della


Buona Causa. Ritrovo il mio giaciglio di capecchio, riappoggio il
capo alla gabbia delle bombe. Un marinaio mi stende sul corpo la
sua coperta bruna per proteggermi dalla spruzzaglia. Poi si accoscia
contro il treppiede e mi fa la guardia, pronto ad agguantarmi se per
caso io mi rivoltoli. Sono su l'orlo.
Ma non dormo. Assaporo il sale e la mia malinconia. Dopo il
momento eroico, come dopo la voluttà, l’anima è triste.
Alla Galiola ci aspetta l’ombra del capitano Sauro. Non ha per-
duto il suo riso franco, anzi l'ha più luminoso. Ci rassicura. Nessun
pericolo di sorprese né notturne né mattutine. La flotta cova sem-
pre.
Poco innanzi le cinque, nella nebbietta brilla il segnale della terza
silurante che lietamente si ricongiunge alle compagne. La trinità na-
vale è dunque incolume. Il triangolo marino dell'ardire si riforma, su
l’Adriatico che biancica come una Via lattea dove ogni gocciola sia
una stella di promessa.
Lasciamo dietro di noi le soglie del Quarnaro posseduto. La no-
stra piccola bandiera quadrata si muove come una mano che faccia
un continuo cenno. Ha il rosso rivolto verso l’Istria che mi par di ri-
vedere in sogno, simile a un grappolo premuto o a un cuore pesto.
Ho l'amaro del sale in bocca, come quando nel buio la lacrima-
zione dell’occhio infiammato mi scendeva fino alla commessura del-
le labbra arse.
L’alba non è eguale per tutti.
Dall’Italia navighiamo verso l’Italia.
CATALOGO
DEI TRENTA DI BUCCARI.

IL PRIMO EQUIPAGGIO.
Il capitano di fregata Costanzo Ciano da Livorno.
Il capitano di corvetta Luigi Rizzo da Milazzo.
Il volontario motonauta Angelo Procaccini da Mestre.
Il capotorpediniere Giuseppe Volpi da Viareggio.
Il sottonocchiere Benedetto Beltramin da Donada.
Il marinaio scelto Giuseppe Corti da Ponza.
Il fochista scelto Edmondo Torci da S. Arcangelo di Romagna.
Il fochista Menotti Ferri da Massa Fiscaglia.
Il torpediniere Achille Martinelli da Montalcino.
Il volontario marinaio Gabriele D'Annunzio da Pescara
d’Abruzzi.

IL SECONDO EQUIPAGGIO,
Il tenente di vascello Profeta Odoardo de Santis da Chiusi.
Il capotimoniere Gino Montipò da Sassuolo.
Il capotorpediniere Arturo Martini da Napoli.
Il marinaio scelto Salvatore Genitivo da Favignana.
Il marinaio Raffaele Esposito da Conca Marini.
Il cannoniere scelto Galliano Furlani da Fano.
Il torpediniere Oniglio Calzolari da Pitelli.
Il fochista scelto Antonino Macaluso da Palermo.
Il fochista Virgilio Gaddoni da Massa Lombarda.
Il torpediniere Vincenzo Gaggeri da Casale Monferrato.

IL TERZO EQUIPAGGIO.
Il sottotenente C. R. E. Andrea Ferrabini da Mantova.
Il capotimoniere Vincenzo Lazzarini da Viareggio.
II sottonocchiere Emilio Davide da Finalmarina.
Il marinaio Paolo Papa da Trapani.
Il sottocapo torpediniere Cesare Dagnino da Sestri Ponente.
Il sottocapo torpediniere Domenico Piccirillo da Vietri sul Mare.
Il cannoniere scelto Umberto Biancamano da Gallipoli.
31

Il cannoniere scelto Angelo Pittore da S. Bartolomeo del Cervo.


Il fochista Saverio Badiali da Spezia.
II fochista Mario Allegretti da Terni.
32

LA CANZONE DEL QUARNARO.

TIBI CORNVA NIGRESCVNT


NOBIS ARMA CLARESCVNT

Siamo trenta d’una sorte,


e trentuno con la morte.

Eia, l'ultima! Alalà!

Siamo trenta su tre gusci,


su tre tavole di ponte:
secco fegato, cuor duro,
cuoia dure, dura fronte,
mani macchine armi pronte,
e la morte a paro a paro.

Eia, carne del Carnaro!


Alalà!

Con un’ostia tricolore


ognun s'è comunicato.
Come piaga incrudelita
coce il rosso nel costato,
ed il verde disperato
rinforzisce il fiele amaro.

Eia, sale del Quarnaro!


Alalà!

Tutti tornano, o nessuno.


Se non torna uno dei trenta
torna quella del trentuno,
33

quella che non ci spaventa,


con in pugno la sementa
da gittar nel solco avaro.

Eia, fondo del Quarnaro!


Alala!

Quella torna, con in pugno


il buon seme della schiatta,
la fedel seminatrice,
dov'è merce la disfatta,
dove un Zanche la baratta
e la dà per un denaro.

Eia, pianto del Quarnaro!


Alalà!

Il profumo dell' Italia


è tra Unie e Promontore.
Da Lussin, da Val d'Augusto
vien l'odor di Roma al cuore.
Improvviso nasce un fiore
su dal bronzo e dall'acciaro.

Eia, patria del Quarnaro!


Alalà!

Ecco l’isole di sasso


che l’ulivo fa d’argento.
Ecco l’irte groppe, gli ossi
delle schiene, sottovento.
Dolce è ogni albero stento,
ogni sasso arido è caro.
34

Eia, patria del Quarnaro!


Alalà!

Il lentisco il lauro il mirto


fanno incenso alla Levrera.
Monta su per i valloni
la fumea di primavera,
copre tutta la costiera,
senza luna e senza faro.

Eia, patria del Quarnaro!


Alalà!

Dentro i covi degli Uscocchi


sta la bora e ci dà posa.
Abbiam Cherso per mezzana,
abbiam Veglia per isposa,
e la parentela ossosa
tutta a nozze di corsaro.

Eia, mirto del Quarnaro!


Alalà!

Festa grande. Albona rugge


ritta in piè su la collina.
Il ruggito della belva
scrolla tutta Farasina.
Contro sfida leonina
ecco ragghio di somaro.

Eia, guardie del Quarnaro!


Alalà!

Fiume fa le luminarie
35

nuziali. In tutto l’arco


della notte fuochi e stelle.
Sul suo scoglio erto è San Marco.
E da ostro segna il varco
alla prua che vede chiaro.

Eia, sbarre del Quarrtaro!


Alalà!

Dove son gli impiccatori


degli eroi? Tra le lenzuola?
Dove sono i portuali
che millantano da Pola?
A covar la gloriola
cinquantenne entro il riparo?

Eia, chiocce del Quarnaro!


Alalà!

Dove sono gli ammiragli


d’arzanà? Su la ciambella?
Santabarbara è sapone,
è capestro ogni cordella
nella ex voto navicella
dedicata a San Nazaro.

Eia, schiuma del Quarnaro!


Alalà!

Da Lussin alla Merlera,


da Calluda ad Abazia,
per il largo e per il lungo
siam signori in signoria.
Padre Dante, e con la scia
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facciam «tutto il loco varo».

Eia, mastro del Quarnaro!


Alalà!

Siamo trenta su tre gusci,


su tre tavole di ponte:
secco fegato, cuor duro,
cuoia dure, dura fronte,
mani macchine armi pronte,
e la morte a paro a paro.

Eia, carne del Carnaro!


Alalà!
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TRE LIRE.
SI VENDE PER LA PIETRA E PER II BRONZO D’UN CIPPO DE-
DICATO ALLA MEMORIA EROICA DEL COMANDANTE ANDREA
BARILE NEL CIMITERO DEI MARINAI A CA' GAMBA, BASSO PIA-
VE.

XI MARZO MCMXVIII,
TRIGESIMO DELL’IMPRESA DI BUCCARI

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