Maringelli Tesi

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO

DIPARTIMENTO DI LINGUE E LETTERATURE STRANIERE E


CULTURE MODERNE

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN


LINGUE E LETTERATURE MODERNE
CURRICULUM COMPARATISTICO

Tesi di Laurea

DECOLONIZZARE L’AVVENTURA:
LOS VIAJES DE JUAN SIN TIERRA

Relatrice: Candidato:
Professoressa Veronica Orazi Claudio Maringelli, 329337

ANNO ACCADEMICO 2012/2013


INDICE

INTRODUZIONE ...................................................................................................................... 3

I. DECOLONIZZARE L’AMERICA ‘LATINA’ ...................................................................... 6

I.1. (NEO)COLONIALISMO E AMERICA LATINA. 6


I.2. LA PIPA DE MARCOS: STRATEGIE DECOLONIZZANTI NE LA REALIDAD DEGLI ZAPATISTI. 10
I.2.1. La trama. 10
I.2.2. Strategie di comunicazione (e non comunicazione). 13
I.2.2.1. Dal Chiapas ai media internazionali 13
I.2.2.2 I volontari stranieri 17
I.2.2.3. Il controllo delle informazioni 19
I.3. UNA PICCOLA DECOLONIZZAZIONE PRIVATA: LA ISLA DE NUNCA JAMÁS. 22
I.3.1. Riassunto del secondo volume, La isla de Nunca Jamás. 22
I.3.2. Il contesto storico. 24
I.4. RÍO LOCO E EN LA TIERRA DE LOS SIN TIERRA: LA TRAMA DEL TERZO E QUARTO VOLUME. 28
I.5. IL MOVIMENTO DOS SEM TERRA. 30
I.6. MESTIZAJE: IL PERSONAGGIO DI NAPO. 33
I.6.1. Américo/Laura/Napo. 33
I.6.2. Américo/Napo attraverso Borderlands/La forntera di Gloria Anzaldúa. 36
I.6.3. Le tribù in isolamento volontario. 41
I.6.4. Una nuova identità per l’America ‘Latina’. 44

II. DECOLONIZZARE L’AVVENTURA. ............................................................................. 49

II.1. I RIFERIMENTI LETTERARI. 49


II.2. LA ISLA DE NUNCA JAMÁS E PETER PAN. 50
II.2.1. Neverland come costruzione narrativa coloniale. 52
II.2.2. Immaginazione creatrice ad Ometepe. 55
II.2. RÍO LOCO E HEART OF DARKNESS 60
II.2.1. Il viaggio di Vasco e Marlow. 64
II.2.2. Vasco e Juan, Marlow e Kurtz. 70
II.2.3. Tenebre e spazi vuoti. 75
II.2.4. Il rapporto con i modelli. 77

III. DECOLONIZZARE L’EROE............................................................................................ 83


1
III.1. LOS VIAJES DE JUAN SIN TIERRA E LE STORIE DI CORTO MALTESE. 83
III.1.1. Un rapporto ambiguo con l’avventura. 83
III.1.2. Vasco e Corto Maltese. 92
III.2. LA DISTRUZIONE DI UN PERSONAGGIO. 96
III.2.1. I miti di Juan. 99
III.2.2. Vasco e l’Amazzonia. 103
III.2.3. Il lupo della steppa e Siddharta. 106
III.3. LA SCOPERTA DELL’ALTRO. 113
III.3.1. Dialogo e sconfitta. 113
III.3.2. “Diversity as a universal project.” 122

BIBLIOGRAFIA .................................................................................................................... 129

SITOGRAFIA ........................................................................................................................ 132

FILMOGRAFIA ..................................................................................................................... 133

2
INTRODUZIONE

Questa tesi presenta l’analisi di alcuni aspetti di Los viajes de Juan sin tierra, un romanzo
grafico in quattro volumi di Javier de Isusi, fumettista di Bilbao, pubblicati tra il 2004 e il
2010. I volumi narrano le avventure di Vasco in diversi luoghi dell’America meridionale,
Chiapas, Nicaragua, la foresta amazzonica tra Perù e Ecuador e alcune parti del Brasile,
durante le quali il protagonista si trova alle prese con personaggi e vicende di fantasia, che
tuttavia descrivono realtà sociali effettivamente esistenti nel continente americano. Il presente
lavoro cercherà di dimostrare e analizzare come, nel corso di questa narrazione, spesso
divertente e con spiccate caratteristiche di intrattenimento, de Isusi porti avanti un discorso di
decolonizzazione in tre livelli.

La prima modalità di decolonizzazione si ritrova nella rappresentazione del modo in


cui una serie di movimenti sociali dell’America meridionale stiano cercando di liberarsi dei
vari aspetti di ciò che Walter Mignolo definisce il complesso della modernità coloniale: il
sistema economico, politico e sociale su cui si regge la modernità, che nasce e si mantiene su
presupposti coloniali. La rappresentazione che de Isusi fa di questi tentativi di
decolonizzazione è penetrante e, sebbene l’autore si schieri dalla parte di questi movimenti, la
sua analisi non si appiattisce sulla lusinga incondizionata, ma cerca di metterne in luce gli
aspetti che più risultano significativi sotto l’aspetto politico, ecologico e sociale. In questo
modo, questi aspetti arrivano a rivestire un significato non solo locale ma universale: in
quanto metodi efficaci di uscire dalla modernità coloniale, o in quanto esempi di come questa
stessa modernità coloniale vada ad influenzare le vite di coloro che si trovano in posizione
subalterna. Per questa analisi ci si avvarrà di fonti storiche e giornalistiche che, negli ultimi
anni, hanno descritto le diverse situazioni sociali rappresentate, e del contributo teorico
offerto soprattutto dalle opere di Walter Mignolo e Gloria Anzaldúa.

In secondo luogo, Los viajes de Juan sin tierra rappresenta il tentativo di rielaborare
gli stilemi classici della narrativa di avventura. Questo intento viene portato avanti operando
all’interno degli stessi in modo da metterne in luce, prima, e decostruirne, poi, gli aspetti che
più affondano le loro radici in una visione coloniale del mondo: la narrativa di avventura,
infatti, nasce proprio dalla, cosiddetta, avventura coloniale, e dall’immaginario di
esplorazione ed esotismo che essa portava con sé. Per fare questo, de Isusi fa dialogare la sua

3
opera con una serie di esempi tratti dalla letteratura, dal fumetto e dal cinema. Alcune di
queste opere rientrano in maniera evidente negli stilemi classici della narrativa esotica, e
vengono perciò citate essenzialmente per marcare una differenza, pur spesso venata di
nostalgia. Altre, invece, si presentano già come rielaborazioni dei modelli classici, verso una
tipologia testuale che, pur utilizzando quei modelli, li supera per portare il proprio discorso ad
aspetti diversi, e più significativi. È questo il caso di opere come Peter Pan, Heart of
Darkness e i fumetti di Hugo Pratt, ed è proprio con queste che Los viajes de Juan sin tierra
sviluppa un dialogo più continuativo e fecondo. In questi casi, quindi, si è cercato di
analizzare sotto quali aspetti de Isusi prosegua il lavoro di rielaborazione già in atto in queste
opere, e sotto quali aspetti invece se ne distacchi, all’interno di un’opera che mantiene sempre
la sua originalità. Per questa sezione il contributo principale a livello di critica letteraria viene
dal volume Luoghi di tenebra, lo spazio coloniale e il romanzo, di Paola Carmagnani.

Infine, nel corso dell’opera il lettore assiste ad un’evoluzione del personaggio


principale, Vasco, che, lentamente e dolorosamente, si distacca dalla figura di eroe
avventuroso, si arricchisce di sfaccettature ed arriva ad essere un personaggio a tutto tondo.
Quest’evoluzione rientra prima di tutto nel solco della rielaborazione degli stilemi classici
della narrativa di avventura descritta nel capitolo precedente, tra i quali la figura dell’eroe
riveste una particolare importanza. In questo senso, quindi, se si rielabora, spesso
distaccandosene, il modello classico dell’avventura di ambientazione esotica, si deve mutare
anche la figura del protagonista, proprio nel tentativo di decolonizzarla. Facendo questo,
tuttavia, l’autore è costretto ad abbandonare l’infallibilità del suo eroe, per decostruirne le
relazioni di potere con gli altri personaggi e con il contesto politico e sociale. Nell’ultimo
volume, perciò, l’avventura passa in secondo piano, e allo stesso modo mutano i modelli
letterari di riferimento, che sono qui soprattutto due romanzi di Hermann Hesse: Il lupo della
steppa e Siddharta.

Grazie a questa evoluzione del protagonista, che in ogni caso non perde mai la sua
portata politica, si assiste nel corso dei volumi ad un’apertura dell’eroe all’incontro con
l’Alterità rappresentata dagli altri personaggi, che guadagnano in rilevanza e spessore proprio
nella misura in cui l’eroe perde in infallibilità. In questi personaggi, infatti, vive una
descrizione originale e sorprendente di alcuni esempi di ribellione decolonizzante, e di fertile
ibridazione culturale. Nel protagonista, invece, nella sua evoluzione, ma anche nell’uso che
de Isusi fa delle molte opere letterarie con le quali dialoga, si può forse trovare una riflessione

4
sul futuro dell’identità e della cultura del cosiddetto Nord del mondo. In questa analisi mi
avvalgo di diversi contributi teorici, tra i quali spiccano per importanza la riflessione di
Michael Wimmer sul concetto di ‘Estraneo’, e le idee espresse da Tzvetan Todorov in La
scoperta dell’America, il problema dell’altro.

Con il presente lavoro, il mio intento è prima di tutto quello di diffondere, per
quanto mi è possibile, la conoscenza di questo romanzo grafico, non ancora tradotto in Italia,
e che merita, a mio parere, tutta la fama possibile. In secondo luogo, il mio auspicio è che il
presente lavoro non si esaurisca nella decodificazione di un’opera che, in fondo, già è stata
scritta e disegnata, ed è quindi completa in se stessa. Vorrei, invece, che questa tesi
rappresentasse un lavoro originale, che attraverso una rete di comparazioni a livello letterario,
filosofico e politico possa far scaturire orizzonti di senso inaspettati. In fondo, è anche questo
un modo di scoprire l’Altro, in questo caso l’Altro racchiuso tra le pagine di un testo, o di
molti testi, e di lasciarsi scoprire. Il desiderio che guida questa tesi, quindi, è essenzialmente il
desiderio di cui parla Derrida:

La decostruzione dà piacere in quanto stimola il desiderio. Decostruire un testo


significa scoprire come questo funziona da desiderio, da ricerca della presenza e da
appagamento che viene rimandato interminabilmente. Non si può leggere senza aprirsi al
desiderio del linguaggio, alla ricerca di ciò che è assente e altro rispetto a sé. Senza un certo
amore per il testo, non sarebbe possibile nessun tipo di lettura. 1

1
Kearney, Richard, “Decostruzione e l’altro. Intervista a Jacques Derrida”, in Id., Lo spirito europeo, Roma,
Armando Editore, 1998, p. 215.
5
I
DECOLONIZZARE L’AMERICA ‘LATINA’

I.1. (Neo)Colonialismo e America Latina.

Con i quattro volumi de Los viajes de Juan sin tierra di Javier de Isusi ci troviamo di fronte
ad un’opera dalle molte sfaccettature, e analizzabile sotto molteplici aspetti. Tra questi,
l’aspetto di narrazione sociale e politica si propone fin da subito come evidente. Con i quattro
volumi, infatti, troviamo presentati altrettanti movimenti di decolonizzazione del Sud
America: la lotta Zapatista nello stato messicano del Chiapas; una piccola storia di vendetta in
Nicaragua, che porta però con sé molto della storia del paese degli ultimi 30 anni; la lotta per
la sopravvivenza delle tribù isolate di indios nella foresta amazzonica tra Perù e Ecuador; e
infine, anche se solo sfiorato, il Movimento dos Sem Terra in Brasile, che lotta per una
riforma agraria e la rassegnazione di terre, contro il latifondismo.

Nel corso di questo capitolo ciascuna di queste situazioni verrà analizzata più nel
dettaglio, e soprattutto verrà analizzato il modo in cui questi fenomeni sociali vengono
raccontati nell’opera di de Isusi. Prima di tutto, però, è importante chiarire perché si parli di
“decolonizzazione” e non, per esempio, di lotte contro il sistema capitalista: perché, cioè, sia
necessario applicare a questa analisi proprio i concetti di colonialismo e decolonizzazione,
non solo, come vedremo nel corso del capitolo, per quanto riguarda le vicende narrate nelle
tavole ed al modo in cui questi fenomeni entrano prepotentemente a far parte dell’opera, ma
anche, più in generale, per i fenomeni sociali stessi, fuori dall’opera letteraria.

L’uso del termine “decolonizzazione” può infatti apparire inusuale se riferito ad


alcune delle tematiche storico-sociali affrontate, come anche al Sud America in generale,
formato da nazioni che, avrebbero, in teoria, già affrontato e concluso più di un secolo fa il
loro processo di emancipazione dalla dominazione spagnola. Tuttavia, non è così se
utilizziamo un’accezione più ampia del concetto di colonizzazione, che la intenda non
soltanto come il fenomeno della dominazione diretta di nazioni europee su ampie zone del
globo, fenomeno che si è praticamente concluso nel corso del XX secolo, ma come il
fenomeno fondante di ciò che chiamiamo modernità, e un fenomeno che continua ad
organizzare le vite di buona parte del genere umano. Come scrive Walter Mignolo:
6
In the world making process we identify today as modernity/coloniality, the term
modernity does not stand by itself since it cannot exist without its darker side: coloniality. As I
conceive it here, the modern/colonial world goes together with the mercantile, industrial and
technological capitalism centered in the north Atlantic, both of which carry out the epistemic
mechanism of coloniality of power: classifying people around by color and territory, and
managing the distribution of labor and organization of society. 1

Per due dei casi affrontati è in questo senso evidente la presenza di un contrasto tra elementi
definibili come colonizzatori e elementi di una resistenza a questa colonizzazione. Prima di
tutto, l’intervento degli Stati Uniti in Nicaragua, che è direttamente riconducibile all’influenza
neocolonialista nordamericana nei confronti del centro e del sud del continente2, e il suo
contrasto con i vari movimenti rivoluzionari o di liberazione nazionale: in questo caso contro
il movimento Sandinista nicaraguense, dopo la vittoria di quest’ultimo nel 1979 contro il
dittatore Somoza.

D’altra parte, anche il tentativo di sopravvivenza delle tribù isolate dell’Amazzonia


può essere visto quasi con un fenomeno anticoloniale prototipico, in quanto resistenza a
qualunque forma di “civilizzazione”, intesa in modo critico come l’accettazione, più o meno
supina, dei valori culturali, sociali ed economici del “primo mondo” (resistenza che non
significa, o non significa sempre, rifiuto totale di qualunque contaminazione culturale, come
si vedrà). Possiamo quindi parlare di resistenza alla colonizzazione nonostante i
nemici/civilizzatori non siano più (soltanto) le politiche imperialistiche degli stati europei, e
nemmeno degli Usa, ma le strutture culturali ed economiche che stanno alla base del
funzionamento attuale degli stessi paesi ex-colonie spagnole e portoghesi, ora stati
indipendenti.

In questo senso, è necessario riflettere sul processo di, supposta, decolonizzazione


che portò all’indipendenza i paesi del Sud America, e che fu portato avanti dalla popolazione
bianca o meticcia e pertanto privilegiò gli interessi di questo gruppo sociale, e quindi portò al
potere e sistematizzò tutta la sovrastruttura di stampo europeo che questo gruppo sociale

1
Mignolo, Walter, “The Zapatista’s Theoretical Revolution”, Review (Fernand Braudel Center), Vol. 25, No. 3,
Utopian Thinking, 2002, pp. 245-275.
2
Cfr. Fiorani, Flavio, “Postcoloniali noi? America Latina tra paradigmi eurocentrici e esperienza coloniale”, in
AA.VV. Gli studi postcoloniali, a cura di Shaul Bassi e Andrea Sirotti, Firenze, Le Lettere, 2012, p. 219.
7
portava con sé, dal punto di vista culturale, politico, religioso ed economico.1 In questo senso,
si può dire, come scrive Walter Mignolo, che quel processo non fu una decolonizzazione,
bensì un cambio di vertice, che tuttavia continuò a portare avanti meccanismi di colonialismo
interno molto simili a quelli adottati dalla dominazione spagnola e portoghese. Di questo è un
simbolo il fatto che ancora oggi la parte centrale e meridionale del continente americano sia
definita, e si autodefinisca, America “Latina”.2

Seguendo questo stesso ragionamento, si possono vedere anche le altre due


tematiche sociopolitiche trattate nei volumi de Los viajes de Juan sin Tierra alla luce di un
concetto di decolonizzazione come ribellione alla sovrastruttura politico culturale di
quell’America che si definisce “latina”, e la rivendicazione di uno spazio sociale, politico e
culturale per coloro che, da cinquecento anni, sono esclusi dallo spazio pubblico e perciò
vittime di tipi differenti, ma per molti versi simili, di colonizzazione. Queste sono, infatti,
precisamente le rivendicazioni del Fronte Zapatista e dell’Esercito Zapatista de Liberación
Nacional attivi in Chiapas, che nasce con l’obbiettivo di trovare uno spazio sociale nel
Messico per gli indios di etnia Maya dello stato del Chiapas, ma che acquista presto un’ottica
internazionale, lottando per “un mundo donde quepan todos los mundos”, un mondo dove
possano coesistere tutti i mondi. Simili sono le rivendicazioni del Movimento dos Sem Terra
in Brasile, relative questa volta non ad un gruppo etnico ma ad un gruppo che condivide la
condizione economica di contadini senza terra, in uno stato con la presenza massiccia di
latifondi, a volte anche con grandi aree incolte.3

Ovviamente, quando si parla di sovrastruttura culturale e politica di stampo europeo


non la si intende come omogenea al suo interno. Di questa stessa sovrastruttura fanno parte
tutte quelle dottrine che si rifanno in maniera totale a modi di pensiero europei, quindi anche
tutte quelle dottrine rivoluzionarie di stampo marxista ortodosso, pur essendo queste in forte
contrasto con altre dottrine di stampo capitalista. Ne fanno parte per il fatto di essere radicate
in maniera indiscutibile in forme di pensiero di origine europea, che solo pesantemente
contaminate possono adattarsi alle differenze culturali e sociali presenti nel mondo (in questo
caso nel sud del continente americano). Senza questa capacità di contaminarsi, esse
rimangono, secondo la definizione di Mignolo, abstract universals, concetti astratti,
1
Ivi, p. 218.
2
Cfr. Mignolo, Walter, The Idea of Latin America, Malden, Blackwell, 2005.
3
Per un’analisi attuale sul MST cfr. ad esempio Reyes, Chantal, “’Sans terre’: les lopins d’abord”, in
Libération, 2 aprile 2012, tradotto da Internazionale come “La terra promessa”, traduzione di Andrea De Ritis, n.
998, 3/9 maggio 2013, pp. 52-54.
8
applicabili ad una realtà distante da quella per la quale sono stati inventati solo con un
qualche tipo di violenza. In questo senso Mignolo, contrapponendo a queste dottrine il
pensiero zapatista, che è, invece, un pensiero che nasce nel sincretismo, scrive: “The
Zapatista’s theoretical revolution allows us to understand that, in terms of the logic of abstract
universals, the difference between, say, the Shining Path and Alberto Fujimori was relatively
insignificant; it was the same logic with different content.”1

Un simile ragionamento si può applicare anche ad altri concetti che avrebbero,


almeno in teoria, un potenziale di liberazione dalla colonizzazione: pensiamo al concetto di
democrazia, o alla religione Cattolica, che nel continente americano, grazie alla Teologia
della Liberazione, si è caricato di un significato di emancipazione e riveste una grande
importanza in molti movimenti sociali. Tuttavia, se ciò è accaduto, è proprio grazie ad una
capacità di una dottrina di farsi contaminare con le culture e le necessità locali, per dare vita a
qualcosa di totalmente nuovo come è, ad esempio, il concetto di democrazia che nasce dal
movimento zapatista, come vedremo più avanti. Perché senza contaminazione, lo stesso
concetto di democrazia rimane un concetto coloniale, e un mezzo per imporre logiche
coloniali e capitalistiche, e che continua a tramandare l’idea che l’unica democrazia come
spazio politico sia nata nella tradizione greco-romana, e solo a questa ci si possa rifare nel
momento in cui si riflette sul futuro della democrazia, relegando qualunque altra tradizione,
spesso ben più radicata nel tessuto sociale, ad un ruolo secondario.2

In questo senso, ritornano alla mente con forza le parole di José Martí, che nel 1891
scriveva: “La historia de América, de los incas acá, ha de enseñarse al dedillo, aunque no se
enseñe la de los arcontes de Grecia. Nuestra Grecia es preferible a la Grecia que no es
nuestra. Nos es más necesaria. [...] Injértese en nuestras repúblicas el mundo; pero el tronco
ha de ser el de nuestras repúblicas.”3 Ancora una volta troviamo da una parte la difesa di un
senso “locale”, di una tradizione politica, sociale e culturale che deve essere liberata dal ruolo
secondario a cui è stata costretta nei cinque secoli di colonizzazione. D’altra parte, però,
ritroviamo forte anche il senso di una contaminazione, da realizzarsi in entrambi i sensi, che

1
Mignolo, Walter, “The Zapatista’s Theoretical Revolution”, cit., p. 250. Qui Mignolo usa due esempi tratti
dalla storia del Perù: da una parte il dittatore di destra Alberto Fujimori, e dall’altra il movimento terroristico e di
guerriglia Sendero Luminoso, di stampo marxista-leninista e maoista, tristemente celebre anche per le violenze
sui civili.
2
Cfr. Mignolo, Walter, “The Zapatista’s Theoretical Revolution, cit., p. 272.
3
Martí, José, “Nuestra America”, La revista ilustrada de Nueva York, 10/01/1891, da
http://www.analitica.com/bitblio/jmarti/nuestra_america.asp, consultato il 09/05/2013.
9
possa rendere più ricca l’evoluzione di quella stessa tradizione, di quel “tronco”. Scrive
Flavio Fiorani: “Martì strappa dalla subalternità sociale e culturale le civiltà preispaniche e
rivaluta l’ibridismo culturale e etnico, […], inteso come la vera radice dell’identità
ispanoamericana."1

Nel romanzo grafico di de Isusi si possono ritrovare, in questo senso, molteplici


spunti di riflessione sulla decolonizzazione dell’America meridionale. Inoltre, il fatto non
trascurabile che l’autore, e il protagonista che egli sceglie per la sua opera, siano europei, fa
in modo che l’opera tocchi il tema del rapporto tra i cosiddetti Nord e Sud del mondo
riflettendo anche sulla posizione in cui la modernità coloniale pone gli occidentali. Se, infatti,
la realtà della modernità coloniale è innegabile dal punto di vista di chi è costretto a subirla
(pur nella soggettività delle possibili reazioni), essa è spesso un rimosso nella cultura di
coloro che si trovano in posizione dominante. Il contatto con l’altro colonizzato, e con le
infinite sfaccettature della società (post)coloniale offrono, quindi, l’opportunità di una
riflessione che investe anche, e con forza, le vite di coloro che vivono nel Nord del mondo,
sotto un duplice aspetto: da una parte, perché permettono di comprendere le ragioni profonde
di ciò che la storia ha configurato come una posizione di privilegio, e dall’altra perché aiutano
a comprendere gli effetti altrettanto devastanti che la modernità coloniale ha avuto, e sta
avendo, sulle società occidentali. Come scrive Flavio Fiorani:

Modernità e colonialismo sono fenomeni reciprocamente dipendenti: l’Europa


divenne ‘centro’ del sistema-mondo proprio in quanto la Spagna istituisce le sue colonie
americane come ‘periferia’. Elaborare una nuova ragione postcoloniale significa quindi
ristabilire il vero significato del nesso geopolitico tra conoscenza e potere come elemento
fondatore della modernità, svelando quanto la relazione gerarchica soggetto-oggetto creata dal
pensiero moderno sia incapace di dar conto delle molteplici declinazioni dello scambio
bidirezionale che si è instaurato tra dominatori e dominati.2

I.2. La pipa de Marcos: strategie decolonizzanti ne La Realidad degli


zapatisti.

I.2.1. La trama.

1
Fiorani, Flavio, “Postcoloniali noi?”, cit., p. 220.
2
Ivi, p. 225.
10
La pipa de Marcos è il primo volume dei quattro che compongono Los viajes de Juan sin
tierra. In questo volume Vasco, il protagonista, arriva nel villaggio La Realidad (realmente
esistente) in cerca dell’amico Juan, del quale non ha notizie da anni. Dopo un breve incontro
con la polizia messicana, senza conseguenze, giunge nel villaggio, nel quale vivono, oltre alla
comunità indigena, una maestra di nome Silvia e quattro volontari dei campamentos por la
paz, di cui uno, di nome Ernesto, si comporta da responsabile per conto dell’EZLN, Esercito
Zapatista de Liberación Nacional.

Fin da subito Vasco si ritrova nel mezzo di una rete di segreti e intrighi, tessuti
soprattutto da Ernesto, che sospetta la presenza di spie nell’accampamento, e cerca di
utilizzare Vasco come propria spia per scoprirle, utilizzando come esca il fatto di essere a
conoscenza di cosa ne è stato di Juan; tutto ciò millantando contatti con il comando
dell’EZLN e trascorsi quanto mai avventurosi. Tutti questi segreti sono resi ancor più fitti
dalle regole ferree dei campamentos por la paz: il divieto cioè di parlare con gli abitanti della
comunità (nonché di bere alcolici). L’unica altra persona della comunità con cui Vasco riesce
ad avere qualche rapporto, sempre connotato comunque dall’incertezza e dalla difficoltà di
distinguere tra informazioni vere e inventate, è Olivio, un ragazzo tuttavia sicuramente più
simpatico e tranquillo di Ernesto.

Il lavoro di controspionaggio (mai preso troppo seriamente) di Vasco non porta


tuttavia da nessuna parte, se non a scoprire piccole e innocue stranezze dei volontari. Per il
resto, il tempo è scandito dalle frequenti visite dell’esercito regolare messicano (La Realidad
si trova al confine della zona controllata dalle comunità Zapatiste), che sconfinano, violando
gli accordi di San Andrés1, con il solo scopo di far percepire arrogantemente la propria
presenza. Durante queste visite agiscono i volontari stranieri, fotografando e documentando,
agendo da scudi umani e da testimoni, per di più da paesi “ricchi”: verso di loro, e davanti a
loro, l’esercito deve quindi mantenere un atteggiamento molto più prudente di quello che
avrebbe con le popolazioni indigene.

Tuttavia accade un evento che modifica totalmente il corso della vicenda: Ernesto
porta tutti i volontari a vedere una nuova turbina idroelettrica impiantata in un fiume poco
1
Gli accordi di San Andrés, del 1995/1996, stabiliscono una serie di accordi politici e militari tra il governo
messicano e le comunità zapatiste. Cfr. Le Bot, Yvon e Marcos, Il sogno zapatista, trad. di Tania Gargiulo e
Luisa Dalla Fontana, Milano, Mondadori, 1997, pp. 179 e 275.
11
lontano, lasciando così il villaggio privo di osservatori stranieri, tranne Vasco, che decide di
rimanere a La Realidad. Proprio in questo frangente arrivano tre elicotteri dell’esercito
messicano, e atterrano con un forte dispiegamento di soldati e intenzioni evidentemente
bellicose nei confronti degli abitanti (tutti civili) del villaggio. Vasco, dopo aver tratto un
bambino in salvo dalla caduta di un tetto di lamiera causata dagli elicotteri, si trova a dover
risolvere la situazione, e, seppur in preda al panico, costruisce una finta telecamera (con
scatole e lattine), che, dalla distanza a cui si trovano gli elicotteri, viene scambiata per il capo
dell’operazione militare (evidentemente un politico, vestito da civile) per una telecamera
vera, che sta probabilmente trasmettendo le immagini a qualche televisione. Preoccupato per
l’eventuale diffusione della notizia di quell’invasione (che viola i già citati accordi di San
Andrés), ordina alla truppa di tornare sugli elicotteri e di andarsene, non prima di aver detto al
megafono che si trattava di un’operazione di sopralluogo per la consegna di aiuti umanitari.

Al ritorno di Ernesto, Vasco lo accusa di essere la spia e di aver volutamente portato


via i volontari stranieri. La risposta di Ernesto è ancora una volta poco chiara, ma provoca in
ogni caso la sua incarcerazione da parte della comunità de La Realidad. Poco dopo giunge al
villaggio una delegazione della comandancia dell’EZLN, naturalmente con tutti i volti
occultati dai passamontagna, con a capo il maggiore Moisés (anch’egli realmente esistente).
Dopo aver ringraziato i volontari e Vasco per l’aiuto dato alla comunità, li richiama
all’ordine, cioè ad attenersi al loro compito di osservatori. Vasco gli chiede notizie di Juan,
ma Moisés non può rispondere alle sue domande per via della segretezza su cui si basa
l’EZLN (e anche del fatto che i membri dell’EZLN non conoscono l’uno il nome vero
dell’altro).

Vasco si rassegna a doversene andare senza aver scoperto nulla, ma l’ultima notte
decide di regolare un’ultima piccola questione: una volontaria dell’accampamento, Natalia,
perdutamente innamorata della figura di Marcos, lo aspetta ogni notte per riconsegnargli la
sua pipa, che lei avrebbe ritrovato poco fuori dal villaggio (ma che in realtà appartiene a
Vasco, e prima a Juan). Vaco si traveste perciò da Marcos, per darle la soddisfazione di aver
incontrato il suo eroe. Al termine dell’incontro, però, Vasco/Marcos scopre accanto a sé un
altro Marcos. Una volta smascheratosi, i due parlano, e Marcos gli racconta finalmente cosa
ne è stato di Juan, entrato nell’EZLN ma presto uscitone perché inadatto a quello che è,
dopotutto, un esercito, che agisce e vive come un esercito, seppure sui generis, e poi partito
per il Guatemala.

12
Vasco si congeda dal secondo Marcos, il quale però, dopo pochi istanti, incontra un
terzo Marcos. Dopo un breve dialogo il secondo Marcos si smaschera, e si rivela essere
Olivio. Il terzo Marcos, invece, tiene il suo passamontagna, contento di aver ritrovato la sua
pipa.

I.2.2. Strategie di comunicazione (e non comunicazione).

I.2.2.1. Dal Chiapas ai media internazionali

Il tema principale de La pipa di Marcos è indubbiamente la comunicazione, intesa a vari


livelli, in ognuno dei quali agiscono non solo elementi individuali, ma anche elementi sociali
e contestuali. Si potrebbe dire che il fumetto di de Isusi offra una rappresentazione narrativa
dell’uso complesso che il movimento zapatista ha fatto, nel corso degli anni, della
comunicazione verso l’esterno, un uso che si basa su un’appropriazione sovversiva dei metodi
di informazione capitalistici. Il concetto di appropriazione sovversiva deriva dalla critica
postcoloniale, e si può definire come: “A term used to describe the ways in which post-
colonial societies take over those aspects of the imperial culture – language, forms of writing,
film, theatre, even modes of thought and argument such as rationalism, logic and analysis –
that may be of use to them in articulating their own social and cultural identities.”1 Si vede fin
da subito come l’ambito della comunicazione sia il più interessato da questo fenomeno,
infatti: “Appropriation may describe acts of usurpation in various cultural domains, but the
most potent are the domains of language and textuality. In these areas, the dominant language
and its discursive forms are appropriated to express widely differing cultural experiences, and
to interpolate these experiences into the dominant modes of representation to reach the widest
possible audience.” 2

Il movimento Zapatista ha infatti, nella sua storia, una lunga serie di esempi in cui si
è “appropriato” di tecniche occidentali per dare alle proprie idee la più larga diffusione
possibile, con incontri “intercontinentali”, e un uso ampio del web come mezzo di
comunicazione: questo (insieme, naturalmente, alla natura delle idee espresse), fa sì che il

1
AA.VV, Key Concepts in Postcolonial Studies, New York, Routledge, 1998, p. 19.
2
Ibidem.
13
movimento zapatista sia assai famoso, tanto da diventare oggetto di un vero e proprio mito,
del quale Marcos è senza dubbio il protagonista, un mito che, ricalcando quasi le orme di
Ernesto Che Guevara, è diventato protagonista anche di una sua oggettistica, come soggetto,
ad esempio, di bandiere e magliette (nel fumetto viene scherzosamente definito Marquitos
superstar1). Nonostante il protagonista di questo mito si schermisca riguardo a questi
argomenti, è tuttavia evidente come questo mito sia stato sapientemente costruito, giocando
anche su una serie di simboli, primo fra tutti il passamontagna: in questo senso si può dire che
l’appropriazione messa in atto dal movimento zapatista nei riguardi della comunicazione
verso l’esterno non disdegni di arrivare fino al marketing.2 Vasco si esprime così nel fumetto
di de Isusi: “Le ha ganado al gobierno la batalla mediática con toda esa parafernalia
romántica del libertador enmascarado que fuma en pipa.”3

La pipa di Marcos da anche il titolo al fumetto di de Isusi, che si dimostra, quindi,


oltre che conscio della portata simbolica della sua narrazione, anche vittima,
consapevolissima, della narrazione zapatista. Lo stesso accade riguardo al simbolo del
passamontagna che, perennemente indossato dai comandanti, oltre allo scopo evidente di non
farli riconoscere, fa anche sì che chiunque si possa identificare con i comandanti zapatisti.
Questi due simboli dello zapatismo, e il loro gioco di specchi, riecheggiano nelle pagine finali
de La pipa de Marcos, in cui assistiamo alla comparsa di ben tre Marcos, due dei quali si
riveleranno poi falsi (e del terzo possiamo solo ipotizzare sia quello vero). Quando anche il
secondo Marcos si è rivelato essere Olivio, assistiamo a questo dialogo, tra lui e il Marcos
rimasto: “-Quería saber que se siente siendo Marcos.- -¿Y qué se siente?- -Mm... para mi que
es como la pipa. Es cálido pero raspa.- -Bueno... A todos nos toca ser Marcos en algun
momento.-”4

Nella realtà, questa celebrità arriva a colpire persino i protagonisti di altri movimenti
rivoluzionari, tanto che un guerrigliero delle FARC colombiane (peraltro dalle idee molto
diverse da quelle dell’EZLN, e per le quali può valere ciò che si è detto in 1.1 riguardo a
Sendero luminoso) arrivò a dichiarare: “Hanno combattuto per dodici giorni, occupando per
poche ore una manciata di remote borgate messicane. Noi ci battiamo da oltre trent’anni,

1
de Isusi, Javier, La pipa de Marcos, Bilbao, Astiberri, 2004, p. 41. D’ora in poi ci si riferirà a questo volume
come PdM.
2
Cfr. Le Bot, Yvon e Marcos, Il sogno zapatista, cit. Tutte le informazioni e le analisi sul movimento zapatista
presenti in questo capitolo devono molto a questo volume.
3
PdM, p. 41.
4
Ivi, p. 141.
14
controlliamo vaste regioni del territorio nazionale e colpiamo dove vogliamo. Eppure nessuno
si interessa alla nostra attività, mentre la loro azione ha suscitato un’ondata di simpatia in
tutto il mondo.”1

Questa celebrità ha come prima conseguenza il costante afflusso di volontari da tutto


il mondo nei cosiddetti campamentos por la paz, la cui utilità viene illustrata chiaramente nel
fumetto di de Isusi: fungere da scudo umano e da occhio e voce internazionale capace di
osservare e denunciare eventuali crimini dell’esercito messicano. Silvia, che nel fumetto è un
ponte saggio e tranquillo tra Vasco e il complesso gioco comunicativo de La Realidad, si
esprime con queste parole: “La triste realidad es que al mundo le da igual que maten a veinte
tojolabales, pero si se toca un pelo de un suizo o de un canadiense, lo que ahora no es más
que un conflicto ‘interno’ puede empezar a ser ‘externo’.”2 Nelle parole dello stesso Marcos:
“Quanto alle comunità, bisogna capire che il contatto con questo “zapatismo internazionale”
rappresenta soprattutto una protezione grazie alla quale esse sono in grado di resistere. È una
protezione più efficace dell’EZLN, l’organizzazione civile o lo zapatismo nazionale perché,
nella logica del neoliberismo messicano, si punta molto sull’immagine internazionale.” 3 Ciò
che troviamo qui è un esempio evidente di ciò che può essere definito appropriazione
sovversiva: si riconosce la presenza di un fenomeno, per quanto contrario esso possa essere
alla decolonizzazione (in questo caso l’interesse per l’immagine internazionale del Messico
neoliberista), e ci si arrende ad esso, ma solo nella misura in cui lo si usa per i propri scopi.

Si innesca così un circolo virtuoso mediante il quale l’osservatore straniero,


richiamato anche grazie alla celebrità raggiunta dal movimento zapatista, viene usato proprio
in quanto osservatore privilegiato (perché straniero e, spesso, proveniente da paesi del primo
mondo), capace di diffondere ancora di più le notizie di ciò che accade in Chiapas, in una
dialettica che lo vede contemporaneamente oggetto e soggetto di processi di comunicazione e
creazione di immaginario. Questa particolare dialettica è rappresentata in una delle tavole de
La pipa de Marcos, dove Natalia, una ragazza dei campamentos, e un soldato a bordo di un
blindato si scattano reciprocamente una fotografia, documentando uno la presenza dell’altro.4

1
Le Bot, Yvon e Marcos, Il sogno zapatista, cit., p. 86.
2
PdM, p. 34.
3
Le Bot, Yvon e Marcos, Il sogno zapatista, cit., p. 181.
4
PdM, p. 68.
15
Ma la rappresentazione più emblematica dell’intreccio di strategie comunicative che
possiamo trovare nel volume è nella dinamica dell’assalto dell’esercito a La Realidad, nel
momento in cui il villaggio si trova privo di osservatori internazionali (che sono stati portati
via da Ernesto). In questo frangente, l’esercito messicano non si fa scrupoli di attaccare il
villaggio, abitato solo da civili, con tre elicotteri. L’operazione sembra controllata da due
persone, che vengono caratterizzate da de Isusi come un membro dell’esercito di alto grado e
un responsabile politico, senza divisa. Se il primo è evidentemente privo di ogni scrupolo, il
secondo è la rappresentazione della complessa strategia messa in campo dal governo
messicano nei confronti della ribellione chiapaneca, basata su aggressioni nascoste e
manifeste offerte di pace.1 Egli, infatti, si mostra d’accordo con l’attacco, seppur con il volto
rigato da gocce di sudore, fino al momento in cui non vede, in lontananza, la silhouette di un
uomo con una telecamera in spalla. Vasco infatti, unico “straniero” rimasto a La Realidad,
dopo aver salvato un bambino dal crollo di un tetto causato dagli elicotteri, si trova nella
situazione di dover fare qualcosa, e costruisce un simulacro di telecamera con due scatole,
lattine e un lungo giunco per fare l’antenna. Alla visione di questo ipotetico cameraman il
responsabile politico entra nel panico, rifiuta la proposta del capo militare di aggredire Vasco
e togliergli la camera e urla al militare: “-¿Pero no vio la antena? ¿Y quién nos asegura que
no está retransmitiendo ahorita? […] Esta mismita noche nos sacan en los noticieros de medio
mundo...”2 Dopodiché, parlando al megafono, dichiara che gli elicotteri sono arrivati per
un’ispezione per future distribuzioni di aiuti umanitari, e ordina ai militari di andarsene.

Questo passaggio mette in luce diversi aspetti della modernità, e della sua variante
particolare che si è costruita in Chiapas. L’azione di Vasco è indubbiamente molto
“fumettistica”: l’improbabilità della riuscita di un simile tentativo nella realtà, nonché il
tempo brevissimo (tra una vignetta e l’altra) in cui il protagonista costruisce la finta
telecamera fanno parte, in maniera assolutamente consapevole, di un mondo in cui all’eroe
del fumetto sono concessi abilità e presenza di spirito fuori dal comune. Tuttavia, ciò che è
interessante notare è lo strumento che l’eroe di un fumetto ambientato nel Chiapas del XXI
secolo deve usare per salvare il villaggio: un simulacro di telecamera. Corto Maltese, al quale,
come vedremo nel secondo capitolo, de Isusi si rifà di continuo, avrebbe usato ben altri
mezzi, per esempio una mitragliatrice (come effettivamente fa, in una situazione simile)3. Ma
il feticcio della comunicazione è ben più efficace, come dimostra Marcos stesso, a cui Vasco

1
Le Bot, Yvon e Marcos, Il sogno zapatista, cit., p. 169.
2
PdM, p. 79.
3
Cfr. Pratt, Hugo, “Samba con Tiro Fisso”, in Suite Caribeana, Milano, Rizzoli, 1990, p. 75.
16
si sostituisce momentaneamente come eroe mitico e ponte verso il mondo. I ruoli di ponte e di
finestra sono, infatti, quelli a cui Marcos dichiara di tenere di più.1

Se come arma la telecamera si dimostra più efficace di altre, bisogna tuttavia


osservare come essa porti solo ad una strana mezza vittoria: gli elicotteri se ne vanno, ma
nulla gli impedirà di tornare da un momento all’altro, se non la presenza di eventuali occhi
occidentali, che comunque non li sconfiggeranno, ma potranno solo tenerli sotto controllo. Se
quella in mano a Vasco fosse stata una vera telecamera, in fondo non avrebbe ripreso nulla di
importante, se non la preparazione di ipotetici lanci umanitari: il capo politico della missione,
insomma, può dichiararsi anch’esso vincitore. In tutto questo, le uniche vittime sono gli
abitanti, indios, de La Realidad: il bambino che ha rischiato la vita, e la comunità che, dopo il
rischio, si ritroverà a dover riparare le case danneggiate. Così nella realtà del Chiapas: gli
zapatisti hanno avuto varie strane mezze vittorie, che li hanno portati alla fama internazionale.
Ma anche il governo messicano, rinunciando a vere azioni di guerra (ma non mantenendo gli
accordi di pace) continua a tenere le comunità in una situazione di “pace armata” che rende
estremamente difficile la progettazione di un qualunque futuro.2 Nel mentre si mantiene una
continua battaglia comunicativa, in cui gli stranieri giocano un ruolo fondamentale.

I.2.2.2 I volontari stranieri

I volontari stranieri che agiscono ne La pipa de Marcos sono tre: un italiano, Giorgio; un
ragazzo di nome Gorka e Natalia, una ragazza proveniente dall’America latina (utilizza il
voseo), ma evidentemente bianca (particolare che denota una probabile origine benestante).
Questi tre personaggi, sicuramente secondari nella vicenda, rispondono ad altrettanti
stereotipi. Giorgio è, infatti, un hippie con i dreads, pacifista, il che lo porta a continue
discussioni con Gorka, più aggressivo, riguardo all’uso della violenza. Natalia si trova lì,
invece, per un solo motivo: è innamorata della figura di Marcos, e darebbe tutto pur di poterlo
incontrare. Si può osservare come i tre personaggi siano stati richiamati da tre aspetti
fondamentali dello zapatismo, quelli che ne compongono l’immagine sfaccettata: l’essere un
movimento armato (e vincente nelle sue, pur poche, azioni militari), la teorizzazione di una

1
Le Bot, Yvon e Marcos, Il sogno zapatista, cit., p. 113.
2
Ivi, p. 201.
17
forma di democrazia partecipativa e non violenta, e l’aura mitica del suo capo (la “strategia
comunicativa” del movimento). Scrive Le Bot:

La forza degli zapatisti è la non violenza, la loro originalità sta nell’avere inventato
un nuovo rapporto fra violenza e non violenza, consistente nel tenere viva la tensione senza
rimbalzare nella violenza. La crescita di potenza di una violenza contenuta e repressa per
decenni, o meglio per secoli, [la violenza scatenata dalle angherie subite dalla popolazione
maya del Chiapas] si traduce in una strategia di non violenza armata messa al servizio della
produzione di significato, dell’invenzione simbolica e politica. 1

Questa tensione, non priva di una certa indeterminatezza, risulta estremamente attraente agli
occhi dell’opinione pubblica internazionale (o perlomeno ad una parte, schierata, di essa), ed
è capace di attrarre sia persone come Gorka e sia persone come Giorgio. Per tornare al
fumetto, Silvia si esprime così: “Aquí llega todo tipo de gente, desde el misionero al
guerrillero pasando por románticos y acabados” e ancora “-Los zapatistas han aparecido
como una utopía hecha realidad.- -¿Tanto?- -Hombre, desde luego la revolución más
coherente que he conocido, y también la más inteligente, ha sabido administrar bien la
violencia.-”2

Tuttavia, una tale risonanza internazionale ha dei rischi, primo fra tutti quello di una
dipendenza dagli aiuti esterni, che potrebbe comportare una colonizzazione di un tipo
sicuramente diverso da quello imperialistico, ma comunque legata allo svuotamento di un
senso locale della rivolta, e del nuovo tipo di democrazia che essa porta con sé, in favore
degli stimoli internazionali. In altre parole, è come se stessimo parlando di una bilancia, in cui
i due piatti devo essere equilibrati, altrimenti si incappa in due diversi rischi: l'isolazionismo
(e la conseguente sconfitta), oppure in una situazione che nel libro di Le Bot viene definita
una “locanda spagnola”, un luogo in cui ognuno va e porta ciò che vuole, senza badare al
luogo in cui è: “Se l’attenzione internazionale avesse soltanto la funzione di fare da scudo,
potrebbe nascere la tentazione di assumere atteggiamenti un po’paternalistici, di protezione e
di assistenza, ma io credo che lo zapatismo possa evitare questo rischio in quanto crea una
possibilità di ricomposizione.”3 Da una parte, quindi, si cerca di fare in modo che con i
volontari internazionali ci possa essere uno scambio, e non si riceva soltanto: “Lo zapatismo
resiste perché riesce a scogliere le vecchie categorie, e perché è in grado di trasformare

1
Le Bot, Yvon e Marcos, Il sogno zapatista, cit., pp. 85-86.
2
PdM, p. 41.
3
Le Bot, Yvon e Marcos, Il sogno zapatista, cit., p. 181.
18
coloro che lo avvicinano in misura pari o superiore rispetto a quanto questi ultimi riescano a
trasformarlo.”1 Su quella che Le Bot definisce come una possibilità di ricomposizione,
Marcos si esprime così: “Forse lo zapatismo li ha solo aiutati a ricordarsi che vale la pena di
lottare, che è necessario.”2

Dall’altro, i contatti tra i volontari e le comunità vengono limitati, come a


proteggere un “cuore” che deve rimanere intatto. Su questo, Marcos si esprime chiaramente in
più punti dell’intervista: “[il movimento internazionale] Non possiamo chiamarlo realmente
zapatismo, lo zapatismo è il punto in comune, o il pretesto per una convergenza.” 3 Altrove:
“Per noi è importante essere lucidi su questo punto: non dobbiamo tentare di creare una
dottrina universale, di metterci alla guida di una nuova internazionale o cose del genere.”4 Nel
fumetto questo concetto è espresso chiaramente dal maggiore Moisés, accorso a La Realidad
per parlare con i volontari dopo l’attacco dell’esercito: “Ustedes no vinieron a visitar turbinas
ni a desenmascarar traidores... ni siquiera vinieron a solucionar nuestros problemas. [...]
Señores, su mision es simplemente estar presentes; no deben dejar nunca vacío el
Campamento por la Paz...Ya vieron lo que puede ocurrir. Vinieron como observadores, y
como tales les necesitamos; por favor, no quieran convertirse en protagonistas.” 5 D’altra
parte, lo stesso Vasco (“protagonista”), rinuncia al suo ruolo di giudice nel rimettere ogni
decisione riguardo ad Ernesto nelle mani della comunità (dopo aver però dato all’ipotetico
traditore un, molto classico, pugno).

I.2.2.3. Il controllo delle informazioni

Se nel fumetto troviamo, quindi, ben delineata la strategia decolonizzante zapatista per quanto
riguarda i volontari stranieri, troviamo anche due esempi di controllo delle informazioni, e del
modo in cui di queste i personaggi facciano un uso che, ancora una volta, ci riporta
all'appropriazione dei metodi imperialistici, seppur in modi assai diversi. Il primo esempio è
Ernesto, che nel corso di tutta la vicenda ostenta comportamenti paranoici da
controspionaggio, basati sulla sfiducia verso tutti e sulla necessità di un controllo spietato
delle informazioni, usate come moneta di scambio: propone infatti a Vasco di controllare, per
1
Ivi, p. 80.
2
Ivi, p. 181.
3
Ibidem.
4
Ibidem.
5
PdM, p. 90.
19
lui, i movimenti degli altri volontari, in cambio di informazioni su Juan (che probabilmente
non ha, ma millanta di avere). Come giustificazione per questo suo comportamento porta la
condizione di guerra in cui il Chiapas si trova, e la necessità di farvi fronte comportandosi
come un vero esercito. Egli, tuttavia, cade vittima delle sue stesse paranoie: sebbene il suo
comportamento non venga spiegato chiaramente, Ernesto mette infatti a rischio La Realidad
privandola di osservatori internazionali, ed è probabilmente in contatto con l’esercito
messicano, che infatti compie l’attacco proprio in quel momento. Tuttavia, da quello che
riferisce di lui il maggiore Moisés dopo averlo interrogato, non risulta chiaro se è egli stesso il
traditore o se, appunto, è solo talmente paranoico da aver tradito involontariamente. In ogni
caso, ciò che è interessante è che Ernesto è un esempio di appropriazione totale dei metodi di
un esercito (fino al ridicolo di “potenziare la sua visione notturna”), priva però dell’elemento
di sovvertimento delle logiche imperialistiche che sottostanno ai modi in cui gli eserciti
utilizzano le informazioni in loro possesso. Pur ostentando un’ammirazione totale per
Marcos, si può dire che Ernesto cade nell’errore di trasformare lo zapatismo in ciò che
Mignolo chiama un “abstract universal”, qualcosa in nome del quale si può scendere a
qualunque bassezza.

Questo non significa che, sia nei fatti che nel fumetto, l’EZLN non si comporti come
un esercito, di cui porta anche il nome. Al contrario, tra i suoi metodi annovera, come si è
detto, un uso assai rigido delle informazioni riguardanti l’esercito stesso che filtrano verso
l’esterno. Ne La pipa di Marcos, questo si riflette nel comportamento tutt’altro che aperto di
Olivio nei confronti di Vasco, ma nemmeno il maggiore Moisés si dimostra in grado di dare a
Vasco nessuna informazione riguardo a Juan. Olivio, da parte sua, gioca con Vasco nel dargli
una serie di informazioni ingannevoli (prima fra tutte il suo stesso nome, il che provoca non
pochi fraintendimenti): non c’è esitazione, quindi, nell’utilizzare il controllo della
comunicazione e anche, in certa misura, l’inganno nei confronti di elementi esterni. Dove
possiamo individuare, quindi, la differenza tra l’abstract universal di Ernesto e
l’appropriazione sovversiva dei metodi imperialistici del controllo delle informazioni messa
in campo dall’EZLN (nell’opera di de Isusi prima, e nella realtà in secondo luogo)?

In primo luogo, dal fatto che il gioco del mistero, se è solo un gioco, può avere una
conclusione: così è da parte di Olivio nei confronti di Vasco, nel momento in cui Vasco si
conquista, con le sue azioni, la fiducia, personale prima ancora che politica (al contrario dello
spionaggio di Ernesto, che non è assolutamente un gioco, e non ha mai fine). In secondo

20
luogo, l’atteggiamento umano con cui questo gioco viene portato avanti, ossia mantenendo un
punto fisso nella propria individualità, come vediamo nel corso di un dialogo che si ripeterà,
variato, altre volte nel corso degli altri volumi dell’opera. Vasco chiede ad Olivio: “-¡A ver si
vas a ser tu el que quiere ser espía!- -Ja ja ja... ¡No!- -Pues a ver, dime, ¿Qué te gustaría ser?-
-Yo sólo quiero ser lo que ya soy.-”1

Lo scopo dell’occultamento delle informazioni, dei cambi di nome (i membri


dell’EZLN si scelgono un nome nuovo, e non conoscono i rispettivi nomi originari), dei
segreti e dei passamontagna, quindi, non è più quello di cambiare identità, di fingere di essere
qualcuno che non si è, ma, al contrario, quello di proteggere il cuore della propria identità dal
gioco delle interpretazioni esterne, almeno fino a che queste sono poco informate, o in mala
fede, o fuorviate dalla comunicazione di massa. Non si cambia nome, quindi, per poterne
avere un altro, ma per custodire il proprio vero nome e proteggerlo dallo sfruttamento,
esattamente come ha fatto Marcos con la sua vera identità, anche dopo che essa è stata
rivelata, in maniera probabilmente realistica, da parte del governo Messicano, con l’intento di
rompere il gioco di specchi creato dal mistero. Ma quel gioco è continuato, e Marcos
continua, effettivamente, a proteggere la sua vera identità dagli occhi del mondo, ma anche a
proteggere lo zapatismo dalla sua vera identità, rifiutandosi di diventare un leader pur
continuando ad essere un simbolo.

Una dialettica simile la si può ritrovare anche nella stessa esistenza di quello che,
per sua stessa definizione, è un esercito a tutti gli effetti, e in quanto esercito non è certo ne un
organo democratico, ne esente da gerarchie, ordini e un certo grado di imposizioni, insomma
a tutta una serie di compromessi con metodi imperialistici. Ma la differenza tra l’EZLN e un
qualunque esercito è nel precetto di comandare obbedendo (mandar obediciendo) sempre alle
comunità che protegge e ai loro metodi democratici, di essere cioè strumento e non scopo, e
con l’obbiettivo, un giorno, di non esistere più, di terminare cioè la propria esistenza in
quanto strumento di appropriazione di logiche altrui, allo scopo di sovvertirle.2 Ma ciò può
accadere solo nel momento in cui queste logiche perdono la loro egemonia culturale, sociale
ed economica. Finché ciò non accade, bisogna fare i conti con questa egemonia,
trasformandola: rifacendosi al concetto di egemonia in Gramsci: “Ogni elemento imposto sarà

1
PdM, p. 86.
2
Le Bot, Yvon e Marcos, Il sogno zapatista, cit., p. 245.
21
da ripudiarsi a priori? Sarà da ripudiare come imposto, ma non in se stesso, cioè occorrerà
dargli una nuova forma che sia propria del gruppo dato.”1

Che questo discorso trovi un’applicazione così forte proprio nell’ambito della
comunicazione, nell’opera di de Isusi, è assai evocativo di come il discorso della conoscenza,
della comunicazione, dell’informazione come strumento e dell’egemonia culturale stia al
cuore del rapporto tra il Sud America e la modernità (post)coloniale. Mignolo conclude una
conferenza del 2010 a Bogotà con queste parole:

El punto fundamental de lucha y de ataque es el control del conocimiento y por


consiguiente la posibilidad de descolonizar la subjectividades que han sido y siguen siendo
controladas por quien controla el conocimiento, puesto que si no se controla el conocimiento, si
no se pueden establecer y reproducir gerarquías de inferioridad, ya no es posible dominar,
porque no se puede dominar a un egual. Para poder controlar y para poder dominar es necesario
hacerlos inferiores, y de ahì el concepto fundamental de desenganche, delinking: el punto
fundamental de los procesos de descolonización es salir de las reglas del juego [...] y construir
otros mundos paralelos y coexistentes.2

La differenza tra Olivio e Ernesto, e tra la configurazione attuale dell’EZLN e un qualunque


esercito, sta quindi nell’orizzonte in cui le regole del gioco della conoscenza e
dell’informazione vengono utilizzate: un orizzonte che, nel caso di Olivio e dello zapatismo,
deve per forza consistere nello sganciarsi, un giorno, da quello stesso gioco, nel lavorare per
non essere più utili come strumento, e per poter tornare alla propria vera identità, occultata e
difesa nell’epoca della lotta.

I.3. Una piccola decolonizzazione privata: La isla de Nunca Jamás.

I.3.1. Riassunto del secondo volume, La isla de Nunca Jamás.

Seguendo le scarse notizie riguardanti Juan che gli sono state fornite da Marcos, Vasco arriva
in Guatemala, sul lago Atitlán, dove Paola, una ragazza italiana, gli riferisce che Juan, dopo

1
Gramsci, Antonio, Quaderni dal carcere, quaderno 16, 1933-1934: 21 bis, Apud Lo Piparo, Franco, Lingua
intellettuali egemonia in Gramsci, Roma-Bari, Laterza, 1979, p. 121.
2
Evento Accademico per “Sentir-Pensar-Hacer”, realizzato nel novembre 2010 nella Facultad de Artes ASAB,
della Universidad Distrital Francisco José de Caldas. Bogotá, disponibile sul sito
http://www.youtube.com/watch?v=mqtqtRj5vDA , consultato il 28/05/2013, trascrizione mia.
22
una breve permanenza nella sua casa, stanco dell’afflusso di turisti ha deciso di proseguire per
il Nicaragua. Paola regala poi a Vasco una collana con un proiettile esplosivo e un sacchettino
con un estratto secco di funghi allucinogeni.

Una volta in Nicaragua viene indirizzato sull’isola di Ometepe, nelle acque del lago
Nicaragua, dove potrebbe essersi stabilito Juan. Sbarcato, Vasco si dirige verso un
hotel/fattoria, la ‘Finca Mariana’, ma si perde, solo, nelle foreste dell’isola. Ormai nel cuore
della notte, affamato, si ferma in una radura, dove nota un cane che mangia alcuni funghi
selvatici. Credendoli commestibili, li ingerisce anche lui, ritrovandosi così immerso in un
lungo e inquietante viaggio allucinatorio, dal quale esce solo al mattino, grazie all’aiuto di un
giovane di nome Chico.

Chico lo porta nella casa in cui vive con altri ragazzi come lui, fuggiti anni prima da
un orfanotrofio, la fondazione Holly Roger. Questi ragazzi cercano di coinvolgere Vasco in
una rapina ai danni dell’orfanotrofio stesso, descritto da loro come dominato da un malvagio
direttore: Don Jaime. Nel piano, Vasco avrebbe un ruolo da protagonista in quanto bianco, e
perciò sicuramente ben accetto dal direttore. Vasco tuttavia rifiuta e si dirige verso la Finca
Mariana, dove trova alloggio e rincontra un giovane scrittore argentino che aveva conosciuto
in Nicaragua, Héctor, appassionato di storie di mistero e terrore, e una simpatica ragazza, che
Vasco chiama Wendy, che gestisce l’albergo.

Vasco apprende che Juan è effettivamente passato dall’isola, dove ha lavorato per un
certo periodo come insegnante nella Holly Roger. Dirigendosi verso l’orfanotrofio, si imbatte
in Chico e i suoi amici che fuggono dopo aver rapinato il direttore, inseguiti dal fuoristrada
dei sorveglianti, che, aizzati dal direttore stesso, non si fanno scrupolo di sparare con l’intento
di uccidere. I ragazzi però riescono a rifugiarsi nella foresta, anche grazie all’aiuto di Vasco,
che fa esplodere una gomma del fuoristrada. Don Jaime, dopo aver tentato inutilmente di
corrompere la polizia locale affinché arresti i ragazzi, fa esplodere per vendetta la loro casa.

Nonostante il successo della rapina, i ragazzi si vedono quindi spinti ad una nuova
vendetta, a causa dall’atto di Don Jaime, e Vasco inizia a capire che tra i ragazzi, e soprattutto
tra Chico, e il direttore sia accaduto qualcosa di misteriosamente grave, che probabilmente ha
coinvolto anche Juan. Viene così preparato un nuovo piano, questa volta in concomitanza con
la visita alla Holly Roger del reverendo Hooker, capo della congregazione religiosa che

23
finanzia l’orfanotrofio con soldi provenienti da numerosi donatori statunitensi, che saranno
anch’essi presenti alla cerimonia.

Il giorno del ricevimento Vasco e Wendy si fingono giornalisti, e vengono invitati a


partecipare all’evento. Una volta dentro, Wendy fa in modo che Chico e i ragazzi possano
entrare, mentre Vasco, non visto, mette la polvere di funghi allucinogeni nel cibo di Don
Jaime. Chico sale quindi sul palco e racconta a tutti i presenti la sua storia, il suo segreto:
durante la guerriglia degli anni ’80 tra il Fronte Sandinista e i Contras finanziati da denaro
americano, Don Jaime serviva da ponte tra i finanziatori e i guerriglieri, che venivano pagati
per le vittime che facevano tra i civili. Chico, bambino, assistette involontariamente a uno di
questi incontri; venne però scoperto e violentato da uno dei contras, sotto gli occhi di Don
Jaime che non fece nulla, e, forse, prese parte alla violenza. Successivamente, Don Jaime
cercò, con un qualche successo, si far credere a Chico che fosse tutto frutto della sua fantasia,
e che non era mai successo nulla, finché non fu proprio Juan, parlando con Chico dopo alcuni
anni, a far riemergere gli avvenimenti e a far cambiare visione a Chico, che fuggì insieme ai
suoi amici. In seguito a questo episodio, Juan venne cacciato e si diresse verso l’Ecuador.

I padrini assistono scandalizzati a questo racconto, e una volta terminato si scagliano


contro Hooker e Don Jaime chiedendo spiegazioni. Quest’ultimo però è sconvolto, oltre che
dagli avvenimenti, anche dai funghi allucinogeni, e si avventa fisicamente contro Chico,
peggiorando la sua situazione. Lui e Hooker vengono quindi arrestati, e anche se sull’esito del
processo nessuno si fa troppe illusioni, la fondazione e l’orfanotrofio sono costretti a
chiudere. Dopo questa vittoria, Vasco saluta e si dirige, insieme ad Héctor, verso Quito, dove
spera di trovare altre notizie di Juan.

I.3.2. Il contesto storico.

Se il primo volume delle avventure di Vasco faceva precipitare il lettore nel complesso
mondo della lotta zapatista, anche in questo secondo volume la contestualizzazione nel
mondo del colonialismo, e delle sue varianti moderne, è chiara fin dall’inizio: nella prima
pagina del volume, dopo due inquadrature di una statua incatenata sulla facciata di un edificio
di Granada, in Nicaragua, Vasco riflette brevemente sulla storia di William Walker: “De la
conquista española a las ocupaciones estadounidenses; sin embargo nadie igualó en

24
destrucción al pirata Walker… ¡quiero decir, aquí, en Granada! […] El filubustero
estadounidense, invadió Nicaragua, se proclamò presidente, decretó la esclavitud e incendió
Granada. Un encanto, vaya...”1 Questo, tuttavia, è solo il primo episodio di colonialismo
statunitense descritto nel volume, come anticipato dalla prima frase pronunciata dal
protagonista. In un flashback Paola, un’amica di Vasco e Juan che vive in un’isola sul lago
Atitlán, in Guatemala, racconta brevemente, ad esempio, la travagliata storia recente di quel
paese: “Yo no estaba acá cuando el genocidio de los 80, pero fue terrible. Comunidades
indígenas enteras fueron literalmente exterminadas con tácticas que no podrías creer. [...] El
ejército superó todos los límites de la crueldad, y hoy sus generales siguen sueltos y
presentándose a las elecciones... no es raro, los amparaba la CIA, que hasta les facilitaba
armas prohibidas.”2 Questi due accenni alla storia più o meno recente del centro America
introducono il lettore al tema che diventerà il cuore della vicenda narrata: la vendetta (non
violenta) di un gruppo di ragazzi contro la fondazione americana che dirige l’orfanotrofio in
cui sono cresciuti.

Seppure la storia si sviluppi seguendo il filo di una vendetta privata, in questa


narrazione si aprono però ampi spiragli sulla storia recente del Nicaragua, soprattutto sulla
guerra civile degli anni ‘80 tra Frente Sandinista de Liberación Nacional e la Contra, il
movimento di guerriglia finanziato dagli Stati Uniti per minare la stabilità del governo del
FSLN, e, all’interno di questo periodo storico, soprattutto sul legame tra sette religiose
cristiane e il finanziamento alla guerriglia reazionaria. Nella postfazione al volume, curata da
Luciano Saracino, scrittore e sceneggiatore di romanzi grafici argentino, troviamo un breve
ma espressivo quadro storico:

En las zonas de Centroamérica (sobre todo) se asentaron un sinnúmero de


organizaciones (más que nada sectarias) que tenían la cabeza en Estados Unidos y que bajaban
línea hacia el sur lo que se “aconsejaba” hacer. Con la velada misión de contrarrestar a la
Teología de la Liberación, su trabajo consistía en adormecer a la población a través de un
trabajo más doctrinal que humanitario y una financiación no siempre clara. La secta Moon es tal
vez el ejemplo que más cerca estuvo del poder en aquellos años. Famosa por sus bodas
multitudinarias, sentía una fuerte preferencia por los gobiernos militares (el genocida argentino
Emilio Eduardo Massera estuvo ligado a ella) y puso sus ojos en Latinoamerica a través de la
asociación CAUSA (Confederación de Asociaciones para la Unidad de Sociedades

1
de Isusi, Javier, La isla de Nunca Jamás, Bilbao, Astiberri, 2009 (2), p. 11. Da ora in avanti ci si riferirà al
volume con la sigla IdNJ.
2
Ivi, p. 21.
25
Americanas). Esta asociación, creada en Nueva York en 1980, financió las campañas
electorales de Ronald Reagan en 1980 y 1984 y justificó al teniente coronel Oliver North,
principal protagonista del escandalo conocido como ‘Irán-Contra’ (el dinero que se obtenía de
la venta de armamento a un enemigo declarado como Irán en su guerra contra Irak se utilizaba
para sufragar la Contra nicaragüense). 1

È evidente quindi come questa vicenda tocchi alcuni dei nodi fondamentali del
neocolonialismo, che viene collegato da de Isusi al colonialismo “classico” mediante
l’utilizzo del riferimento letterario di Peter Pan, di Barrie, come si vedrà nel dettaglio nel
secondo capitolo. Per il momento può essere sufficiente osservare come l’autore faccia
combaciare la figura di entrambi i rappresentanti della setta cristiana rappresentata ne La isla
de Nunca Jamás con la figura, tipica dell’esotismo e dell’avventura coloniale, del pirata,
creando così un collegamento immediato tra la variante moderna e quella classica del
colonialismo: tra i due poli del collegamento si situa così la figura di William Walker, con
cui, some abbiamo visto, si apre il volume, vero e proprio punto di passaggio in quanto pirata
statunitense, ma in un periodo, la seconda metà del XIX secolo, in cui il sistema delle colonie
stava rapidamente cambiando. Non a caso Walker cercò sostegno guardando più al nuovo
impero statunitense che ai vecchi imperi europei:

The Anglo-American's love of excitement and adventure, his belief that it is the
manifest destiny of his race to control the whole American continent, and the desire of the slave
states for a southward expansion of American territory-these indeed were potent factors in
producing the phenomena of filibustering; but these alone do not account for Walker's
remarkable career of two years in Central America. To accomplish his purpose of
"regenerating" the isthmus and founding there a military empire, Walker needed not only an
army, but also ships and money; and these two necessities were not supplied by zealous
champions of territorial expansion or slavery propagandism, but by a syndicate of New York
and San Francisco capitalists, who hoped to use the filibuster general for furthering their
interests in Nicaragua.2

Pur non essendo Walker direttamente collegato al governo statunitense (se non in brevi
periodi), in questa analisi troviamo chiaramente i segni del passaggio verso il neocolonialismo
di stampo nordamericano: da una parte l’espressione della volontà coloniale statunitense (il
‘manifesto destino’ degli Usa, che li avrebbe portati a dominare il continente americano), e

1
Saracino, Luciano, “Ometepe, realidad entre ficciones”, in IdNJ, p. 182-183.
2
Scroggs, William Oscar, “William Walker and the Steamship Corporation in Nicaragua”, The American
Historical Review, Vol. 10, N. 4, 1905, p. 792.
26
dall’altra le modalità nuove con cui questo colonialismo si sviluppa, basandosi soprattutto
sulla potenza economica e sulle ricchezze di ricchi rappresentanti del capitalismo americano.

È anche interessante notare come in La isla de Nunca Jamás Don Jaime, prima
ancora che il lettore sappia chi è, ovvero quando Vasco lo incontra per caso sul traghetto
verso l’isola di Ometepe, venga presentato come un personaggio ossessionato dalla
televisione, e soprattutto dal suo uso più collegato alla conoscenza, ma una conoscenza
utilitaristica e direttamente collegata al potere, come afferma esplicitamente nel momento in
cui Vasco lo asseconda dandogli ragione sulla assenza di animali pericolosi nel lago
Nicaragua: “-Claro, hombre, ya se lo decía yo. ¿No ve que yo veo mucha televisión?- -Ya, ya
veo. Así sabe usted tanto.- -Bueno, la verdad es que sí. Sé mucho. ¡El saber es el poder! Y
hoy en día el poder está en la televisión. ¡Se lo digo yo!-.”1

Nonostante in questa scena prevalga l’aspetto comico e ridicolo della supponenza di


un personaggio che il lettore non conosce ancora in tutti i suoi aspetti (non tutti ridicoli ed
innocui), questo dialogo ci permette di precisare le caratteristiche dell’evoluzione del
colonialismo, suggerendo l’importanza odierna dei mezzi di comunicazione nella creazione di
un cosiddetto ‘pensiero unico’ ed egemonico, e di un particolare tipo di conoscenza ad esso
connessa, che effettivamente rappresenta, molte volte, il segno del potere, invidiato da chi non
vi ha accesso.2 Ancora una volta, quindi, è evidente l’intento di de Isusi di contestualizzare la
vicenda narrata, per quanto avventurosa, per quanto piccola e privata (qui più che nel primo
volume) in un contesto molto preciso: i rapporti tra il cosiddetto Nord e Sud del mondo.

Tuttavia, con questo volume ci troviamo di fronte ad un approccio diverso alla


materia trattata, meno legata ad un fenomeno realmente esistente come era La pipa di Marcos:
La isla de Nunca Jamás è, infatti, essenzialmente una storia di fantasia e sulla fantasia, come
scrive de Isusi stesso nella già citata intervista a se stesso: “Si en La pipa de Marcos el marco
en que se desarrollaba la historia era tan potente que hasta el lugar se llamaba “La realidad”,
en La isla de Nunca Jamás el marco servía para adentrarnos en el mundo de la ficción, y ver
cómo la realidad y la ficción siempre se mezclan.”3 Questo diverso approccio non significa
che il secondo volume non sia potentemente pervaso anch’esso da un intento decolonizzante,
ma che questo intento riguarda più il funzionamento dell’immaginazione e della fantasia e del

1
IdNJ, p. 28.
2
Cfr., per esempio, Baudrillard, Jean, L’agonia del potere, traduzione di Marcello Serra, Milano, Mimesis, 2009.
3
Cfr. http://www.astiberri.com/entrevistas.php?ident=7
27
rapporto di esse con le relazioni di potere del mondo neocoloniale. In più, questo intento
viene portato avanti dall’autore anche attraverso una fitta rete di riferimenti intertestuali: per
questi motivi si rimanda perciò al secondo capitolo del presente lavoro un’analisi più
approfondita delle strategie decolonizzanti messe in campo dall’autore sotto il profilo
letterario ne La isla de Nunca Jamás.

I.4. Río Loco e En la tierra de los sin tierra: la trama del terzo e quarto
volume.

A Quito Vasco e Héctor incontrano Claudio, un italiano che aveva condiviso con Juan e un
tedesco di nome Jürgen il viaggio dal Guatemala all’Ecuador e poi nella selva amazzonica.
Dalle sue parole Vasco apprende, infatti, che Juan si era recato tra le comunità del Rio Napo,
oltre Iquitos, in cerca di tribù che vivessero ancora in modi estranei alla modernità. Claudio
dirige quindi Vasco e Héctor verso Iquitos, dove potranno parlare con Jürgen. Per arrivare in
quella città, tuttavia, li aspetta un lungo viaggio in battello dalla città di Coca. Qui, in attesa
della partenza, Vasco conosce prima una ragazza di nome Laura, e poi salva un giovane
indio, che poi rincontra sul battello, di nome Américo.

Dopo un interminabile viaggio, i due arrivano a Iquitos, dove incontrano Jürgen, che
gli racconta che Juan, stanco della società di Iquitos era partito in cerca di tribù di indios in
isolamento o incontattate, perché sperava di incontrare lì esseri umani ancora puri. In quel
viaggio, si era fatto guidare proprio da Américo, che è cresciuto a Borja, ai limiti con la selva.
Vasco, Héctor, Jürgen e Américo si recano, quindi, a Borja, da dove Juan era partito verso la
selva guidato, fino ad un certo punto, da un certo Leandro, un uomo senza scrupoli e
dipendente dall’alcool che aveva abbandonato Juan nel bel mezzo della selva. Di ciò che è
accaduto dopo a Juan non si sa nulla, e il ritrovamento del suo zaino non fa pensare a nulla di
buono. Vasco in ogni caso riesce, con la violenza, a fare in modo che Leandro porti lui e
Héctor fin dove aveva abbandonato Juan.

In un clima di profonda sfiducia e conflittualità tra Vasco e Leandro, i tre partono in


canoa e si addentrano poi nella selva. Tuttavia, dopo alcuni giorni Leandro li abbandona,
dopo averli fatti camminare in tondo, a loro insaputa. I due rimangono così persi e si
ritengono spacciati, quando Héctor trova una canoa con un remo, apparsa dal nulla. Tuttavia,
28
Vasco non torna con lui verso Borja, e decide invece di continuare da solo, nel cuore della
selva, fino alla tribù cercata da Juan.

Questo viaggio si dimostra estremamente difficile, anche sotto il profilo psicologico,


e dopo alcuni giorni Vasco, smarrito e in preda alle visioni, tocca una rana dardo. Cerca
inutilmente di tagliarsi la mano col machete, che però aveva smarrito nel cammino, e sviene,
convinto di morire. Dopo una lunga visione, tuttavia, si risveglia, debolissimo, e scopre che è
stato salvato dalla tribù che stava cercando, grazie al fatto che Américo lo ha seguito per tutto
il tempo (sempre lui aveva fornito a Héctor la canoa). Américo, infatti, anche chiamato Napo,
è un membro di quella tribù, inviato nel mondo “esterno” per assumere conoscenze che
aiutino il suo popolo a salvarsi. Juan, tuttavia, non ha mai messo piede in quel villaggio.

Il quarto volume si svolge su diversi piani temporali. Da una parte vi è narrato il


lungo percorso di iniziazione di Vasco, all’interno della tribù di Napo. Vasco vive con loro
vari mesi, infatti, e segue un percorso iniziatico che lo porta a mutare profondamente la sua
visione della vita. Una volta uscito dalla selva, legge una mail di Héctor, che lo informa che
Juan è vivo, e si trova in un accampamento del Movimento dos Sem Terra (MST), in Brasile.
Vasco parte quindi per il Brasile, dove riesce a sapere esattamente dove si trovi Juan,
nell’accampamento del MST a Amanajú.

Nel frattempo, il lettore apprende la storia precedente di Vasco e Juan. Cresciuti


insieme come fratelli, erano sempre stati inseparabili, pur avendo caratteri diversi, e
soprattutto nonostante la vita perennemente ribelle e insoddisfatta di Juan. Vasco, divenuto
marinaio, aveva conosciuto il grande amore della sua vita, Marinela, con la quale, tuttavia,
non riusciva ad avere una relazione serena a causa di causa di ciò che Juan rappresentava,
ossia la possibilità di una vita diversa e più libera.

Non senza dubbi e difficoltà, si dirige quindi verso l’accampamento, dove avviene
l’incontro fra i due. Questo incontro, tuttavia, nasconde una sorpresa sconvolgente per Vasco,
che ritrova nello stesso accampamento Marinela, il suo amore del passato, incinta di Juan.
Tutta, la vicenda, infine, è descritta come se fosse narrata da Vasco a un coreografo brasiliano
conosciuto nell’aeroporto di Rio de Janeiro.

29
I.5. Il Movimento Dos Sem Terra.

Il Movimento dos Sem Terra brasiliano, l’MST, occupa, ne Los viajes de Juan sin tierra,
poche pagine nel quarto volume, En la tierra de los sin tierra. Tuttavia, vari aspetti
conferiscono a questo movimento una particolare evocatività all’interno dell’opera. Primo fra
tutti il nome, che dà il titolo al quarto volume, ma richiama anche il titolo generale dell’opera,
che è, d’altra parte, il titolo di una canzone di Victor Jara, la quale descrive la condizione di
un contadino messicano che, dopo tante rivoluzioni finite male, ha ormai perso ogni speranza
per un vero cambiamento della società. In questo senso, il legame tra il testo di questa
canzone con gli scopi del MST è potente, così come è potente, al di là del nome, la portata
simbolica di questo movimento all’interno della lotta alla modernità coloniale. Noam
Chomsky, nel discorso al World Social Forum del febbraio 2003, definì l’MST come “the
most important and exciting popular movement in the world”, sottolineando il collegamento
esistente tra la concentrazione delle terre e il problema delle favelas.1

L’MST nacque nel 1984, e si batte da allora per una redistribuzione delle terre a
favore dei quattro milioni e mezzo di famiglie di mezzadri, braccianti e piccoli contadini
cacciati dalle campagne a causa della modernizzazione delle tecniche agricole, e che si
trovano di fronte un Brasile in cui, ad oggi, le differenze sociali sono enormi, e nell’ambito
dell’agricoltura prendono la forma di enormi latifondi, spesso poco sfruttati. È però
importante notare come questa condizione sia un lascito diretto del colonialismo: “In Brasile
la concentrazione della terra, simbolo di disuguaglianze enormi, è una delle più alte al mondo.
Metà dei terreni agricoli brasiliani è controllata da meno del 2% dei proprietari. Questi
privilegi risalgono all’epoca coloniale, quando la corona portoghese concedeva ai nobili delle
“capitanerie” per popolare l’immenso territorio brasiliano.”2 L’importanza di questi
proprietari terrieri all’interno della società brasiliana, inoltre, non si ferma all’ambito
economico, ma mantiene anche forti legami con la politica: “Lo schieramento dei proprietari
terrieri, o ruralista, è ben organizzato. Con 240 deputati appartenenti a diversi partiti, il
blocco ruralista controlla la metà dei seggi in parlamento e si oppone alla riforma [agraria].”3

1
Cfr. http://www.chomsky.info/interviews/199704--.htm , consultato il 23 luglio 2013.
2
Reyes, Chantal, “’Sans terre’: les lopins d’abord”, in Libération, 2 aprile 2012, tradotto da Internazionale come
“La terra promessa”, traduzione di Andrea De Ritis, n. 998, 3/9 maggio 2013, p. 52.
3
Ivi, p. 54.
30
Questo potere, e l’assenza di una vera riforma agraria, sembrerebbe in
contraddizione con la situazione politica del paese, che vede al potere, dal 2003 ad oggi, il
Partido dos Trabalhadores, un partito di sinistra che dovrebbe essere vicino alle necessità e
alla sensibilità di un movimento come l’MST. Per certi versi, in effetti, è così: molti membri
del MST votano per il PT, e l’ex presidente Lula si è più volte dichiarato a favore delle
rivendicazioni del MST. Tuttavia, sia durante il suo mandato che durante quello di Dilma
Rousseff non c’è mai stata una vera riforma agraria, ma soltanto redistribuzione di terre
spesso di proprietà dello stato, oppure comprate dai grandi proprietari a prezzo di mercato, e
in ogni caso in misura sempre più ridotta. In alcuni casi, addirittura: “La riforma agraria si è
trasformata nella semplice occupazione di spazi vuoti dell’Amazzonia, aggravando il
disboscamento del paese.”1

Il motivo principale di questa distanza del governo dalle rivendicazioni del MST ci
porta al cuore del passaggio da un colonialismo di stampo classico, e dalle sue conseguenze
che ancora oggi si fanno sentire nella società e nella politica brasiliana, al neocolonialismo
della modernità/coloniale: “Secondo Rodrigues [dirigente del MST], Lula e Dilma Rousseff
hanno deciso di puntare sull’agricoltura industriale, un settore in espansione che crea poca
occupazione e sfrutta le grandi estensioni, ma che è molto redditizio: 370 miliardi di euro
incassati in dodici anni.”2 Oltre a questo, “Più dell’80 per cento dei brasiliani vive in città,
sottolinea Zander Navarro, sociologo. Inoltre il Brasile è diventato una potenza agricola in
grado di produrre abbastanza da sfamare la sua popolazione. Perché dovrebbe aumentare il
numero dei produttori?”3

Ciò a cui si assiste, quindi, è al confronto simbolico tra due modi totalmente opposti
di guardare alla politica agraria, pur provenendo entrambi da quella che dovrebbe essere la
stessa area politica. Da una parte una visione basata su piccoli produttori, il contrasto ai
latifondi, alla meccanizzazione eccessiva dell’agricoltura e alle grandi opere. 4 Dall’altra una
visione basata sulla rincorsa al successo economico all’interno del mercato globale, che, pur
garantendo una qualche forma di redistribuzione delle ricchezze (come la bolsa familia, un
aiuto finanziario alle famiglie più povere), non sposta nessuno dei paradigmi della
modernità/coloniale, mantiene le disuguaglianze, e, come si è visto, mette in serio pericolo il

1
Ibidem.
2
Ibidem.
3
Ibidem.
4
Cfr. http://www.mst.org.br/
31
patrimonio ambientale del paese (e del pianeta), in una maniera che non sembra arrestabile,
dal momento che si porta come giustificazione l’efficienza produttiva di un paese la cui
condizione economica è in netta crescita, e in cui molti abitanti, ma non tutti, risentono
favorevolmente di questa crescita.

La popolarità del MST, infatti, ha risentito di alcuni bruschi contraccolpi, causati,


oltre che da avvenimenti particolari come i saccheggi realizzati da alcuni suoi membri, da un
disinteresse dell’opinione pubblica, più interessato alla crescita, apparente o reale,
dell’economia del paese che alle lotte di sem terra.1 Nel fumetto stesso appare
un’organizzazione alle prese con evidenti problemi pratici, senza troppe speranze di ottenere
vittorie, ma più che altro impegnato a mantenere e difendere gli accampamenti abusivi,
principale strumento del MST per reclamare la redistribuzione di terre incolte. Alla proposta
di Vasco di collaborare, infatti, rispondono non entusiasti chiedendogli che cosa sappia fare e
in che modo possa aiutarli. Alla risposta impacciata di Vasco, la responsabile risponde: “Mire,
ayer veinte pistoleros encapuchados desalojaron a un campamento matando a uno de nuestros
hombres. Tenemos que prepara antes del viernes toda la documentación para legalizar ante il
Incra [istituto pubblico per la politica agraria] otros cuatro campamentos. Y las compañías
eléctrica y telefónica nos están saboteando. Como ve ahora mismo estamos sin electricidad.”2

Con questa breve conversazione viene presentato il lavoro e la situazione del MST.
Se, quindi, non ci si fa illusioni sulla reale difficoltà della battaglia portata avanti da questo
movimento, è tuttavia proprio questa difficoltà e questo isolamento all’interno della maggior
parte dell’opinione pubblica brasiliana a far assumere al MST una particolare portata
simbolica all’interno dell’opera di de Isusi, che non a caso sceglie proprio una manifestazione
del MST come luogo dell’incontro finale tra Vasco e Juan. Ma, soprattutto, è un
accampamento del MST il luogo in cui Juan, dopo tanti viaggi e dopo essere venuto a contatto
con tante diverse situazioni di lotta alla modernità coloniale, dichiara di sentirsi a casa.
Quando si incontrano, Vasco gli chiede: “-Te he interrumpido. Ibas con esa gente a algún
sitio.- -Sí, a pedir justicia. Los fazendeiros pretenden negarnos el acceso al agua. Ayer sus
pistoleiros casi matan a dos de nuestros hombres.- -¿Nuestros hombres? ¿Has llegado al fin,
Juan?- -¿Adónde?- -A donde fuera... a tu lugar en el mundo...-”3

1
Cfr. Reyes, Chantal, “La terra promessa”, cit., p. 54.
2
de Isusi, Javier, En la tierra de los sin tierra, Astiberri, Bilbao, 2010, p. 126. Da ora in avanti ci si riferirà al
volume con la sigla TdlST.
3
Ivi, p. 135.
32
L’accampamento del MST di Amanajú diventa, quindi, il luogo di arrivo del
lunghissimo viaggio di Juan, che, al contrario che in tutti i luoghi precedentemente visitati,
trova qui una sua serenità. Se questa serenità è indubbiamente connessa a motivi personali e
sentimentali, è anche evidente però come essa si inscriva anche in un contesto di lotta, che,
pur avendo abbandonato ogni mitizzazione, assume tuttavia le caratteristiche di un quotidiano
impegno per migliorare la vita di coloro che sono, non solo simbolicamente, i sin tierra, gli
ultimi in un sistema che li dimenticherebbe volentieri.
I.6. Mestizaje: il personaggio di Napo.

I.6.1. Américo/Laura/Napo.

Nel corso del terzo e quarto volume, Río Loco e En la tierra de los sin tierra, la ricerca di
Juan porta Vasco nella parte della foresta amazzonica al confine tra Perù ed Ecuador, alla
ricerca di una tribù di indios isolati, che evitano qualunque contatto con l’uomo bianco. Nel
corso di questa ricerca Vasco conosce un personaggio, Napo, estremamente singolare.
Inizialmente Vasco conosce a Coca una giovane e spigliata ragazza, di nome Laura, che
chiede una sigaretta a Vasco. Successivamente, lo stesso Vasco, attratto da urla femminili, ha
uno scontro con tre uomini nel porto di Coca, i quali stavano cercando di violentare non una
ragazza, bensì un giovane dai tratti indigeni. Lo stesso giovane si presenta con il nome di
Américo, e si imbarca con Vasco sul traghetto per Iquitos. Durante questo lungo viaggio i due
approfondiscono la loro conoscenza, non senza qualche screzio: la prima notte, Américo
cerca infatti di entrare nell’amaca di Vasco, che reagisce inizialmente con ira. Tuttavia, nel
corso del viaggio il loro rapporto di fa più sereno, e Vasco scopre una delle grandi passioni di
Américo: le canzoni di Laura Pausini. Infine, nell’El Dorado, una discoteca di Iquitos, Vasco
rincontra la stessa ragazza che aveva conosciuto all’inizio, e un gesto, proprio durante una
canzone di Laura Pausini, gli fa capire che quella ragazza e Américo sono la stessa persona:
Américo infatti, secondo le sue stesse parole, ha varie identità, e una di queste è Laura, che fa
spettacoli di trasformismo nella discoteca. La loro conoscenza però non finisce qua, ma anzi
si fa sempre più profonda, dal momento che proprio Américo farà da guida a Vasco e altri
verso il villaggio di Borja, e poi salverà Vasco e lo guiderà verso la sua tribù, dove tutti lo
chiamano Napo. Napo è, infatti, un membro di una tribù di indigeni amazzonici incontattati,
mandato fin da piccolo a vivere nel mondo dei bianchi in modo da sviluppare una conoscenza

33
del mondo “esterno”, che gli permetta un giorno di proteggere il suo popolo, come capo
villaggio.

Il personaggio di Napo, quindi, riporta il discorso su quel gioco di identità del quale
si è già parlato a proposito di Marcos e del personaggio di Olivio ne La pipa di Marcos. Qui,
però, oltre al travestimento ed al cambio di nome per proteggere un’identità profonda, che
non si vuole esporre alla violenza del mondo, ci troviamo di fronte ad una vera e propria
identità molteplice, sia sotto l’aspetto culturale che sessuale, all’interno della quale i vari poli
convivono serenamente: le difficoltà provengono infatti più da un mondo incapace di
accettare queste diverse identità, che dalla frammentazione dell’identità stessa. Laura/Napo
dice infatti a Vasco, parlandogli della discoteca “El Dorado” quando ancora lui la crede una
ragazza “normale”: “Si vas a Iquitos, no dejes de acudir, esa discoteca está llena de
extranjeros que hacen allá lo que no se atreven a hacer en sus países. En El Dorado no
necesitas fingir, puedes ser quien realmente eres por dentro.”1 Quando poi Vasco collega le
diverse identità, proprio nella discoteca di Iquitos, dice a Laura/Napo che ora comprende il
significato di quelle parole: lì Napo può essere ciò che è davvero. Ma Napo risponde che non
è così:

-Pero no me refiría a mí. Ya ves que yo dejo salir a Laura allá donde esté, me da
igual que sea Coca o Iquitos.-
-¿Sabes? Eres valiente-
-¿Valiente?¡Ja, ja!-
-¿De qué te ríes?-
-Ji, ji... Ay... Es que normalmente me llaman de otras maneras menos bonitas. La
verdad es que probablemente soy todo esto que me llaman... pero sí, también valiente, por qué
no... Me gusta... Además todos somos un poco todo. Un poco valientes, un poco codarde… un
poco ombre, un poco mujeres… cada uno somos muchos a la vez, ¿no crees? Como el río... el
agua que pasa siempre está cambiando, pero el río es siempre el mismo. Siempre distinto y a la
vez siempre el mismo río loco.-2

Troviamo qui l’espressione dei due poli principali della questione che Napo permette di
affrontare: da una parte la costruzione, complessa ma serena, di una identità complessa (più
che molteplice), che esce dai binari considerati consueti, sia dal punto di vista della
tradizione, appunto, culturale, sia da quello della tradizione sessuale. Dall’altra parte, però,
1
de Isusi, Javier, Río Loco, Bilbao, Astiberri, 2009, p. 13. Da ora in avanti ci si riferirà al volume con la sigla
RL.
2
Ivi, pp. 60-61.
34
troviamo la reazione che il mondo, la società, o meglio le società, hanno nei confronti di
questa costruzione identitaria.

Una delle caratteristiche di questa reazione è la morbosità, intesa come quella


mescolanza vorticosa di attrazione e repulsione che gli individui che si riconoscono come
“normali” provano verso l’alterità.1 Nel fumetto, questo atteggiamento si rivela nel momento
del tentato stupro ai danni di Napo. I tre uomini, infatti, mentre cercano di denudare il
ragazzo, fanno riferimento ad un precedente incontro, in cui apparentemente Napo aveva
acconsentito, in qualche modo, in cambio del passaggio della frontiera. Uno dei tre, infatti,
sembra portare addosso una qualche divisa, e si comporta da capo: “-La pasamos muy bien en
la frontera, ¿verdad?- -¿Cómo pagaste el visado esta vez?- -Venga, si fue idea tuya, ¡a ti te
gustó más que a nosotros!-”2 Dopo che Vasco riesce a mettere fuori gioco i tre uomini, vede
Napo che cerca di rialzarsi, e si stupisce, non trovandosi di fronte a una ragazza: “-Anda…
Pero si no eres una… Quiero decir que…-” e a questo Napo risponde: “-¡No eres una, no eres
un! ¡A ver si se ponen de acuerdo y me dejan en paz!-”3 Da questa risposta, e
dall’atteggiamento abbastanza calmo con cui viene pronunciata, sembra trasparire una certa
abitudine a trovarsi in situazioni come quella.

Sono, tuttavia, le parole dei violentatori a rivelare un certo modo di reagire di fronte
alla diversità, in questo caso la diversità sessuale incarnata da Napo. Un modo che mescola
l’insulto, come segno di distanziamento tra la normalità dalla quale viene pronunciato e
l’anormalità alla quale è rivolto, e l’attrazione sessuale, della quale però si dà la colpa al
diverso, attribuendo a lui stesso il desiderio, all’interno di uno schema di attrazione morbosa
che viene attribuito quasi automaticamente all’oggetto della violenza, invece che al soggetto.
Tutta questa dinamica, naturalmente, non è mai disgiunta dalle dinamiche sociali e dai
rapporti di potere, anche minimi, che le segnano: in questo caso, infatti, si fa riferimento (non
si sa quanto veritiero, ma d’altra parte Napo non nega) ai problemi che Napo ha con i
documenti, non avendo una cittadinanza ne ecuadoriana ne peruviana (ma il lettore lo
scoprirà solo in seguito). Di questa condizione di marginalità sociale, quindi, coloro che si
trovano in una qualche, seppur poco rilevante, situazione di potere, possono approfittarsi, e si
può quindi vedere come marginalità sociale e sessuale siano indissolubilmente legate, nella
relazione che il soggetto di questa marginalità instaura con il mondo che lo circonda.

1
Cfr. Bhabha, Homi, “Of Mimicry and Men”, in The Location of Culture, New York, Routledge, 1994, p. 91.
2
RL, p. 24.
3
Ivi, p.26.
35
I.6.2. Américo/Napo attraverso Borderlands/La frontera di Gloria Anzaldúa.

Riguardo al complesso rapporto tra identità sessuali ed etniche all’interno di un ambiente


sociale che si ritrova in posizione subalterna all’interno della modernità coloniale, può essere
fruttuoso analizzare il personaggio di Napo mediante l’opera di Gloria Anzaldúa
Borderlands/La frontera, la cui autrice si definisce “scrittrice femminista chicana tejana
patlache (parola nahuatl per lesbica) di Rio Grande Valley, nel Sud del Texas.”1 Si vede
quindi fin da subito come il complesso gioco identitario, culturale e sessuale, sia il tema
principale del libro, il quale però dimostra, soprattutto, come dalle infinite difficoltà create
dagli incroci, dalle frontiere tra culture e tra generi, da quello che l’autrice chiama mestizaje,
possa nascere, non nonostante ma proprio grazie alle difficoltà, una cultura, finalmente,
decolonizzata e decolonizzante. Le difficoltà, da una parte, non mancano:

Perché io, mestiza


Non faccio che uscire da una cultura
Ed entrare in un’altra,
Perché io sono in tutte le culture allo stesso tempo,
alma entre dos mundos, tres, cuatro,
me zumba la cabeza con lo contradictorio.
Estoy norteada por todas las voces que me hablan
Simultáneamente.

L’ambivalenza di questo scontro di voci produce stati di perplessità morale ed


emotiva. Il conflitto interiore produce insicurezza e incertezza. La personalità duplice o
molteplice della mestiza è affetta da irrequietudine psichica.
Nel suo stato mentale di nepantilismo (una parola azteca che vuol dire lacerata fra
vie diverse), la mestiza è un prodotto de trasferimento dei valori spirituali e culturali di un
gruppo ad un altro. […]
Cresciuta in una cultura intramezzata fra due culture, collocata a cavallo di tutte e
tre le culture e dei loro sistemi di valori, la mestiza patisce una battaglia della carne, una
battaglia di confini, una guerra interiore.2

1
Zaccaria, Paola, Prefazione a Anzaldúa, Gloria, Terre di confine/La Frontera, Bari, Palomar, 2000, p. V.
2
Anzaldúa,Gloria, Terre di confine/La frontera, cit., p. 120.
36
Se per Anzaldúa le tre culture sono quella chicana (cioè di americana di etnia messicana),
quella messicana e quella nahuatl, la stessa triplice appartenenza la possiamo riscontrare nel
personaggio di Napo, già a partire dai tre nomi che assume: Laura nella discoteca di Iquitos,
Américo nel mondo fuori dalla selva, e Napo nella selva. Ma anche nella sua storia troviamo
tre luoghi: la selva, Iquitos (che rappresenta un ambiente urbano abbastanza ampio) e il
villaggio di Borja. La sua tribù, infatti, lo inviò tra i “bianchi” quando era ancora bambino, e
crebbe con la tía Lastenia nel villaggio di Borja, che per quanto piccolo e situato ai margini
della selva, è comunque un luogo culturalmente lontanissimo dalla vita delle tribù incontattate
della selva, segnato com’è da vari lasciti del periodo coloniale, tra i quali l’alcolismo e una
certa avidità, rappresentate dal personaggio di Leandro.

L’accoglienza della zia Lastenia è, infatti, assai rivelativa della vita complessa, dal
punto di vista culturale e della morale sessuale, che Napo deve aver vissuto a Borja. De Isusi
ci mostra infatti la stessa inquadratura della palafitta di Lastenia in cinque vignette: Américo
entra, saluta la zia, e nella vignetta dopo questa urla: “¡Fuera de esta casa! ¡Depravado!
¡Degenerado! ¡Eres la vergüenza de la familia!”1 Dimostrando così il giudizio morale della
comunità sulla condotta di Américo. Nei fatti, tuttavia, sia la zia che la piccola società del
paese si dimostrano poi abbastanza affettuosi verso Américo: quelle urla sono seguite infatti
da: “¡Oh, mi pequeño niño! ¡Ven aquí, pobrecito mío! ¡Si supieras la cosas que dicen de ti!”2
In queste espressioni della zia troviamo ben espressa la dialettica tra riprovazione e
compassione nei confronti del diverso a cui gli emarginati sono spesso sottoposti.

Queste sono, quindi, le tre culture che si contendono Napo, il quale esprime
chiaramente come la sua vita sia spesso assai complicata, tanto da lasciarsi anche andare alle
lacrime ripensando al perché la sua tribù abbia voluto mandarlo tra i bianchi, pur senza mai
mettere in dubbio l’utilità e la giustizia di questa decisione, la cui origine viene in ogni caso
attribuita alla dea protettrice della tribù, che ha comunicato con il capo villaggio, Amaru.
Napo narra così questa storia: “Ella [la dea protettrice della tribù] le dijo a Amaru que yo
debía ir a donde los blancos porque nuestro pueblo va a necesitar un jefe que conozca los dos
mundos. [...] Amaru dice que yo tengo el don.”3

Di questo dono si parla anche nell’opera di Anzaldúa:

1
RL, p. 69.
2
Ibidem.
3
Ivi, p. 174.
37
C’era una muchacha che viveva vicino a casa mia. La gente del pueblo mormorava
che fosse una de las otras, “una degli Altri”. Dicevano che per sei mesi era una donna con una
vagina che sanguinava ogni mese, e che per gli altri sei mesi era un uomo, con il pene, che
faceva pipì stando in piedi. La chiamavano mezza e mezza, mita’ y mita’, ne l’una ne l’altro,
ma uno strano doppio, una deviazione della natura che metteva orrore, una creatura dalla natura
invertita. Ma c’è un aspetto magico nella anormalità e così detta deformità. Persone menomate,
pazze e diverse sessualmente sono considerate in possesso di poteri soprannaturali nel pensiero
magico - religioso delle culture primitive. L’anormalità, infatti, secondo queste culture, era il
prezzo che una persona doveva pagare per il suo straordinario dono innato. 1

Questo dono consiste, infatti, nel rappresentare un superamento del dualismo imposto dalle
varie culture tradizionali:

C’è qualcosa di avvincente nelle creature che sono maschio e femmina allo stesso
tempo, che hanno la possibilità di entrare in entrambi gli universi. Contrariamente a quanto
affermano alcune dottrine psichiatriche, i mezzo e mezzo non hanno una identità sessuale
confusa, né soffrono per una confusione di genere. Ciò di cui noi soffriamo è un dispotico
dualismo assoluto, che sostiene che si può essere soltanto l’uno o l’altro. Sostiene che la natura
umana è limitata e non può evolvere in qualcosa di meglio. Ma io, come altre persone
omosessuali, sono due in un corpo solo, sia maschio che femmina. Sono la personificazione
dello hieros gamos: il convergere di opposte qualità interiori.2

Troviamo qui uno dei nuclei fondamentali della riflessione contenuta in Bordelands/La
frontera: il concetto di come il mestizaje, con il suo carico di difficoltà e conflitti con i vari
ordini tradizionali, rappresenti un’opportunità di decostruire i confini e i limiti tradizionali e
costruire una nuova comunità che abbia nel mestizaje non un difetto ma il proprio cuore
pulsante. Questo vale per le forme di marginalità sessuale, ma anche per tutte le altre forme di
marginalità, dal momento che il vivere ai margini (qualunque margine) permette di sviluppare
un diverso modo di osservare il mondo e gli altri, e di (non) giudicarli, una capacità che
Anzaldúa chiama la faculdad:

La faculdad è la capacità di vedere nei fenomeni superficiali il significato di realtà


più profonde, di vedere la struttura profonda al di sotto della superficie. È un “sensitire”
momentaneo, una rapida percezione a cui si giunge senza un ragionamento cosciente. […] Chi
possiede queste sensitività vive il mondo in maniera estremamente intensa.

1
Anzaldúa, Gloria, La frontiera/La frontera, cit., pp. 47-48.
2
Ivi, p. 48.
38
Coloro che sono allontanati dalla tribù in quanto diversi è probabile che diventino
più sensitivi (sempre che non siano brutalizzati fino all’insensitività). Coloro che non si
sentono fisicamente o psicologicamente al sicuro nel mondo hanno maggiori possibilità di
sviluppare questa capacità. Coloro che più sono vittime di soprusi la possiedono in forma più
acuta – le donne, gli omosessuali di tutte le razze, i neri, i rinnegati, i perseguitati, gli
emarginati, gli stranieri.
Quando siamo messi al muro, quando dobbiamo subire ogni sorta di oppressione,
siamo costretti a sviluppare questa facoltà in modo da sapere quando riceveremo il prossimo
colpo o quando verremo di nuovo rinchiusi. 1

In queste parole si può ritrovare un’analisi che si applica perfettamente alla figura di
Americo/Napo nell’opera di de Isusi, come figura destinata ad acquisire un’esperienza del
mondo profondamente diversa da quella ‘normale’ della sua tribù, una capacità di esperire il
mondo che gli proviene dall’esperienza ai margini di più culture e dell’identità sessuale
tradizionale. Tuttavia, è come se de Isusi ribaltasse, in un certo senso, i termini della
questione, in quanto lo sviluppo della faculdad per Napo non è una conseguenza di una
segregazione dalla tribù causata dal suo orientamento sessuale, bensì è come se la sua tribù,
nel momento della scelta di allontanarlo, si appropriasse dello strumento della
marginalizzazione per i propri scopi, ossia avere un futuro capo che gli permetta di
sopravvivere. Si assiste, quindi, all’analisi da parte di de Isusi di un’appropriazione
sovversiva di un aspetto della modernità, cioè il contatto culturale, e la marginalizzazione di
uno dei poli che molto spesso esso porta con sé. Un’appropriazione che, come nei casi già
analizzati, non è esente né da sofferenza, né da sacrifici, ma il cui frutto, ibrido e ai margini, è
la possibilità di un futuro diverso da quello a cui la modernità coloniale costringerebbe gli
indios dell’Amazzonia. Questa visione ibrida coinvolge anche l’orientamento sessuale che
qui, come in Anzaldúa, appare come un’apertura alla marginalità, alle infinite frontiere, intese
come luogo fertile per la nascita di una visione nuova:

La paura sviluppa il senso di prossimità della faculdad. Ma c’è un altro aspetto, più
profondo, di questa facoltà. Qualsiasi cosa urti contro il modo usuale di percezione, provoca
una rottura nelle difese e nella resistenza dell’individuo, qualsiasi cosa si distacchi dal terreno
abituale porta la profondità ad aprirsi, provoca un mutamento della percezione. 2

Possiamo analizzare il modo in cui la marginalità porta a sviluppare questa faculdad come
‘decostruzione’ dell’ambiente circostante, prima come difesa, ma poi come punto di vista. Si

1
Ivi, p. 73.
2
Ivi, p. 74.
39
può utilizzare qui il termine ‘decostruzione’ nell’accezione datagli da Derrida, che, in
un’intervista fattagli da Richard Kearney, che verteva proprio sul rapporto tra la
‘decostruzione’ e il rapporto con l’altro, si esprimeva in questi termini: “Intendo dire che la
decostruzione, in sé, è una risposta positiva a un’alterità che necessariamente la chiama, la
cita, la motiva. La decostruzione è quindi vocazione – una risposta a una chiamata.”1 Non per
questo però essa è un processo semplice e sereno, e, per quello che riguarda il rapporto fra le
culture, Derrida afferma, nella stessa intervista: “Ogni cultura e ogni società hanno necessità
di una critica interna o decostruzione come parte essenziale del proprio sviluppo. […] Ogni
cultura ha bisogno di un elemento di auto-interrogazione e di prendere le distanze da se
stessa, se vuole trasformarsi. Nessuna cultura è chiusa in se stessa, specialmente ai giorni
nostri quando l’impatto della civilizzazione europea è così invasivo”, e, più avanti: “Ogni
cultura è tormentata dai suoi altri.”2 La dialettica interna a una cultura fra l’essere
‘tormentata’, e il bisogno e l’opportunità di decostruire se stessi mediante il rapporto con
un’alterità possono essere viste alla luce delle parole di Anzaldúa:

In questo processo di iniziazione perdiamo qualcosa, qualcosa ci viene tolto: la


nostra innocenza, la nostra inconsapevolezza, la nostra ignoranza sicura e facile. […]
Confrontarsi con qualcosa che lacera il tessuto della nostra consueta modalità di coscienza e
che ci lancia in un senso della realtà meno letterale e più psichico aumenta la consapevolezza e
la faculdad.3

Nel caso di Napo, questa decostruzione agisce nel renderlo capace di una visione profonda
sulla vita umana, come dimostra un dialogo con Vasco, nel momento in cui quest’ultimo
rinviene nel villaggio:

-Ah… Américo… Perdón… Napo… o Laura… ¿Por qué tienes tantos nombres?
-Ji ji, porque me gusta, es el juego loco de la representación. Me divierte cambiar de
personaje.
-Aaay… ¿Por qué?
-¡Porque todo es un juego! Tener varios personajes sirve para verlo más claro.
Nunca viste mi espectáculo de la Capitana América? Era uno striptease, pero un poco especial:

1
Kearney, Richard, “Decostruzione e l’altro” (intervista a Jacques Derrida), in Id. Lo spirito europeo, Roma,
Armando Editore, 1998, p. 207.
2
Ivi, p. 205.
3
Anzaldúa, Gloria, La frontiera/La frontera, cit., p. 74.
40
con cada prenda que me quitaba aparecía un personaje diferente. ¡Eran cinco personajes sobre
una única persona!1

Ancora una volta può essere interessante confrontare queste parole con ciò che scrive
Anzaldúa:

Questo mutamento della percezione rende più profondo il modo in cui si guardano
gli oggetti concreti e le persone; i sensi diventano talmente acuti e penetranti che si riesce a
vedere attraverso le cose, a vedere in profondità ciò che accade, un’acutezza che arriva fino al
mondo sotterraneo (il regno dell’anima).2

Nel caso di Napo, è, quindi, come se il mutamento della percezione che gli deriva dalla sua
molteplice identità sessuale gli permettesse di decostruire non soltanto questo aspetto del suo
essere nel mondo, ma anche tutti gli altri, partendo naturalmente dalla complessità che deriva
dalla sua molteplice identità culturale, e di usare questa decostruzione ai fini di migliorare le
condizioni di vita proprie, nell’ambito del suo rapporto col mondo, e della sua tribù,
nell’ambito della lotta che essa porta avanti contro le distruzioni della modernità coloniale.

I.6.3. Le tribù in isolamento volontario.

Se la figura di Napo rappresenta l’interculturalità e il trionfo del mestizaje, ad una prima vista
sembrerebbe che la sua identità costituisca una scelta opposta rispetto a quella delle comunità
di indios che, soprattutto nel territorio amazzonico, decidono di mantenere un isolamento
volontario nei confronti di qualunque manifestazione della modernità coloniale.3 Tuttavia,
questa sarebbe un’interpretazione superficiale, come esplicitato dalla postfazione del terzo
volume de Los viajes de Juan sin tierra, curata da Asier Martinez de Bringas, docente di
diritto presso la Università di Deusto, Bilbao, ed esperto di diritti dei popoli indigeni.
Martinez de Bringas scrive infatti:

El no contato de ciertas comunidades indígenas es interpretado y valorado como


una espersión de pureza identitaria: el deseo inmarchitable y autoconsciente de ciertos grupos
humanos de mantenerse aislados, sin contactos ni relaciones que lo contaminen. [...] Sin

1
RL, p. 168.
2
Anzaldúa, Gloria, La frontiera/La frontera, cit., p. 74.
3
Per una panoramica sul fenomeno delle tribù incontattate cfr. http://www.uncontactedtribes.org/ , sito gestito
dalla onlus Survival.
41
embargo, esta comprensión no es más que un síntoma de la fabulosa imaginación que la
colonialidad del poder ha venido exhibiendo para comprender la realidad de los pueblos
indígenas. La realidad del retiro y el aislamiento, como se apunta al final de la novela, es el
resultado de un fatal encuentro intercultural de estos pueblos con la realidad no indígena, con la
realidad de otros pueblos. La experiencia de convivencia de los pueblos en aislamiento con
otras comunidades ha resultado ser una relación traumática de de privación y desposesión, de
descomposición y aniquilación de sus practicas de vida; ello los ha determinado hacia el
aislamiento, la desconexión, la incomunicación, como estrategia necesaria para poder vivir.1

Una esperienza di colonizzazione che va avanti da cinquecento anni, seguendo varie strategie,
da quelle dell’invasione spagnola e del genocidio, per arrivare a “las expresiones
contemporáneas y postmodernas en que éstas se expresan en territorio indígena: la acción de
las empresas hidrocarburíferas (gas, petroleo, carbón).”2 In questo senso, quindi, la volontà di
isolarsi non è da intendersi come un desiderio di evitare qualunque contatto, bensì come una
difesa successiva ad un contatto, ormai estremamente duraturo, che si è però dimostrato
devastante per la loro parte. Secondo Martinez de Bringas, infatti, anche dal punto di vista
ideologico la visione identitaria di molte popolazioni amazzoniche non è da intendersi come
chiusa, bensì “híbridas, convivientes, pero con una comprensión diferente y distinta de la
realidad, de la cosmovisión y de los derechos.”3

Le diverse concezioni dello spazio/tempo e dei diritti rappresentano, infatti, il


nucleo fondamentale del fallimento, fino ad oggi, di qualunque contatto tra queste
popolazioni e la modernità coloniale. Alla concezione dello spazio basata sulla proprietà
privata e sul suo sfruttamento, tipica della modernità, si contrappone una concezione basata
sul territorio comune, e soprattutto sulla conservazione dell’ecosistema come spazio vitale.
Questa contrapposizione viene esemplificata da de Isusi nel momento in cui giungono notizie
che al villaggio di Napo sono giunti dei bianchi, e la tribù si mette rapidamente in cammino
per fuggire. Vasco, stupito, chiede: “Y así… Tan rápido… dejáis todo… Vuestra tierra…” e a
queste parole Napo risponde: “No hemos dejado nuestra tierra, Vasco. Sólo hay una tierra, y
no es de nadie.”4 È però evidente come una simile concezione non sia compatibile con il
moderno sfruttamento delle risorse di stampo capitalista: il riconoscimento dei diritti degli

1
Martinez de Bringas, Asier, “Otros códigos, otros derechos. Los pueblos indígenas ante el reto de la
interculturalidad”, in RL, pp. 187-188.
2
Ivi, p. 186.
3
Ivi, p. 189.
4
TdlST, pp. 49-50.
42
indigeni, infatti, dovrebbe portare con sé il riconoscimento del diritto al territorio, che i
governi della modernità coloniale son ben difficilmente disposti a concedere:

Existe, por tanto, una incapacidad cultural para considerar el territorio indígena, y
todo lo que éste contiene, como ámbito provilegiado para poder garantizar el derecho a la vida,
individual y colectiva de estos pueblos. Sin derecho al territorio, en última instancia, no existe
el derecho a la vida indígena. Y el derecho al territorio conlleva, además, un conjunto de
prácticas sostenibles, respetuosas con la biodiversidad y los recursos que el territorio indígena
encierra. Por tanto, el reconocimiento de la territorialidad indígena, tan alergico a la
sensibilidad occidental, supone, paralelamente, una garantía de protección de los derechos
medioambientales.1

Vediamo qui come la questione dei diritti dei popoli indigeni portino con sé una concezione
del mondo e dei diritti che potrebbe rappresentare, facendo uno sforzo di interculturalità, una
salvezza non solo per quelle tribù, ma anche per una parte molto più ampia del genere umano,
per il fatto di esplicitare in maniera netta il rapporto di interdipendenza che sussiste tra gli
esseri umani e l’ambiente in cui vivono, rapporto che le leggi della modernità coloniale non
sanno più vedere. Il problema, infatti, non è solo o non è tanto quello di eventuali azioni
illegali da parte di imprese che mirano alle risorse ambientali (pur essendo questo un
problema esistente e legato al grande potere delle imprese economiche nel mondo capitalista),
quanto quello di un sistema legale, e di una ‘cosmologia’ che esso porta con sé, che, anche se
fosse applicato con una imparzialità che spesso i governi dell’America meridionale non
hanno (o non vogliono avere), non potrebbe comunque proteggere persone che si pongono
totalmente fuori dalla società per la quale quelle leggi sono state create:

La imaginación jurídica occidental también se muestra incapacitada para pensar la


subjetividad jurídica de los pueblos y comunidades en aislamiento. Para la comprensión
occidental de los derechos humanos, la situación de aislamiento los ubica en una tesitura de
intangibilidad, es decis, de incapacidad para definir y localizar sujetos. 2

E ancora:

Estos pueblos, aun siendo humanos, son no existentes, es decir, se los sitúa fuera de
comunidad. En definitiva, nos encontramos ante un fantasma que ha decidido aislarse; al
hacerlo, ha abdicado de los derechos y garantías que ofertaba la sociabilidad occidental

1
Martinez de Bringas, Asier, “Otros códigos...”, cit., p. 189.
2
Ivi, p. 190.
43
pasando, con ello, por encima y por debajo del Derecho indígena. De ahí que estos pueblos
resulten plenamente disponibles, o extremadamente vulnerables, como la realidad actual viene
mostrando.1

Questo, nell’opera di de Isusi, fa di Napo stesso una persona senza un’origine chiara per la
società: di fatto, non ha nemmeno un passaporto, come afferma egli stesso:“Ni siquiera sé en
qué país debería pedirlo… nací en la selva.”2 Egli è, quindi, un clandestino in una terra che la
sua tribù popola da millenni, e può essere sottoposto a qualunque vessazione senza che ciò
comporti un reato, in quanto il non avere documenti lo rende una non-persona.3 La sua
situazione, comune a quella di tutti gli altri indios più o meno in contattati della selva
amazzonica, è quella, quindi, di uno spazio bianco nella legge di quegli stati creatisi dopo la
dominazione spagnola, di un’eccezione, di un rimosso all’interno di una società che si è
liberata da una colonizzazione, senza però liberarsi dal colonialismo interno alla società
stessa. Infatti, il cuore del problema è l’estensione a livello internazionale di una particolare
concezione del diritto, quella occidentale, che risulta essere alienante per chi non fa parte, o
non vuole far parte, della cultura che l’ha prodotta. L’unica soluzione, come possiamo leggere
anche dalle pagine dell’opera di de Isusi, sembra essere quella dell’interculturalità, ossia della
creazione di uno spazio legislativo e sociale che permetta non solo la convivenza, ma
l’espressione delle diverse anime del mondo moderno. Un’interculturalità di cui, come si è
visto, Napo può essere un simbolo.

I.6.4. Una nuova identità per l’America ‘Latina’.

Nella riflessione dell’autrice de Borderlands/La frontera, e ancor più nella valutazione che ne
fa Walter Mignolo, troviamo molto chiaro il collegamento tra l’identità mestiza e un futuro
per l’America meridionale che possa superare le devastanti conseguenze della modernità
coloniale. Mignolo scrive, infatti:

One of the most radical contributions [per un cambiamento dei paradigmi


dominanti] is Gloria Anzaldúa’s Borderlands/La frontera, which is comparable in its ability to
radically shift the geo-graphy and bio-graphy of knowledge to René Descartes’s Le discours de

1
Ivi, p. 191.
2
RL, p. 34.
3
Martinez de Bringas cita ad esempio gli omicidi ai danni della popolazione isolata dei taegeri-taromenanis
commessi per interessi legati allo sfruttamento del legno, e non perseguibili a causa dello status giuridico di non-
persona delle vittime.
44
la méthode. Descartes was able to shift from a theologically based concept of knowledge to an
ego-logically based one with the statement “I think, therefore I am”, which put the ego in the
center and displaced God. Likewise, Gloria Anzaldúa’s new Mestiza consciousness has
decentered the Cartesian ego to replace it with a geo-graphically and bio-graphically centered
way of thinking.1

Nel fumetto di de Isusi possiamo trovare un’espressione di questo nuovo modo di percepire la
realtà, che Mignolo definisce ‘epistemic and decolonial delinking’, un processo di distacco
consapevole dall’epistemologia dominante, incarnato proprio dalla figura di Napo/Américo.
Quando lui e Vasco si rincontrano sulla barca che li sta portando a Iquitos, infatti, arriva il
momento delle presentazioni:

-Me llamo Vasco, ¿y tú?-


-Américo.-
-Anda... Los dos tenemos nombres de marineros famosos.-
-¿En serio?-
-Claro, Américo Vespucio fue el marino italiano que prestò su nombre a este
continente.-
-¿Italiano? ¿Mi nombre es italiano? ¿Como Laura Pausini?
-Bueno… Sí…-
-Uau… Ya me gustaría… Lástima que tu historia no sea cierta…-
-?? ¿Por qué dices eso?-
-Porque esta tierra ya se llamaba así antes de que llegara ningún italiano. Amara-ka
la llamaban, que en Quichua quiere decir “tierra de los inmortales”.2

In questo breve dialogo troviamo una complessa enunciazione identitaria. La frase


conclusiva, prima di tutto, sostituisce l’etimologia classica e coloniale del nome America con
un’origine legata alla lingua di coloro che in quella terra ci hanno sempre vissuto (la stessa
lingua che, come scopriremo dopo, è la lingua madre di Napo). L’effettiva veridicità di questa
etimologia non riveste una grande importanza: quello che conta qui è il processo di iscrizione
di un nome in un’origine o, come direbbe Anzaldúa, in un mythos nuovo. Il processo di
nominazione geografica è, in questo senso, molto significativo, come scrive Mignolo a
proposito del nome Haiti, utilizzato dopo la rivoluzione sull’isola al posto dei coloniali Santo
Domingo e Saint Domingue, e proveniente dalla parola Ayiti, che significava ‘terra
montagnosa’ nella lingua dei nativi, e questo nonostante la rivoluzione fosse stata fatta

1
Mignolo, Walter, The Idea of Latin America, Malden, Blackwell, 2005, p. 135.
2
RL, p. 35.
45
essenzialmente da discendenti di schiavi africani: “The name Haiti marks the historical and
epistemic shift that the devolution introduced, and it breaks away from both the slavery
period and the French imperial nomination. Language and the power of naming, as these
movements show, contain radical potential for ‘epistemic revolution’.”1

Tuttavia, Napo/Américo va oltre questo movimento di ribellione (peraltro


apparentemente inconsapevole), non rigettando l’idea di un’etimologia europea per il suo
nome, che anzi gli piacerebbe perché, in quanto italiano, il nome Américo lo avvicinerebbe al
suo mito: Laura Pausini. Tutto ciò ha varie conseguenze, nel momento in cui un dialogo di
questo tipo, oltre a mantenere una certa ironia, rifiuta in toto qualunque tipo di essenzialismo,
promuovendo invece la nascita di una cultura ibrida, in cui le conseguenze della modernità (il
fatto che il mito di un giovane indio di Iquitos sia Laura Pausini, per esempio) non vengono
rifiutate ma, al contrario, appropriate ed utilizzate all’interno di una costruzione identitaria
che non dimentica mai le proprie origini geografiche e biografiche.

Questo dialogo, peraltro, assume un significato ancora più ampio se riletto alla luce
di ciò che il lettore in questo momento ignora ancora, e cioè che Américo è solo uno dei nomi
di Napo, nella fattispecie il nome che utilizza fuori dalla selva, per esempio con la sua
famiglia adottiva, e quando non diventa Laura (il cui nome arriva, quindi, a costituire una
parte dell’identità ibrida di Napo). In più, lo spettacolo di striptease e trasformismo con cui si
esibisce nella discoteca di Iquitos viene chiamato lo spettacolo della “Capitana América”. Si
potrebbe quindi dire che in questo modo l’autore voglia collegare esplicitamente il
personaggio di Napo con l’identità dell’intero continente, che quindi, ironicamente (ma non
troppo), assume il nome di un personaggio di uno striptease del quale Napo dice, come
abbiamo visto, che con “cada prenda que me quitaba aparecía un personaje diferente. ¡Eran
cinco personajes sobre una única persona!”2

È così che de Isusi sembra voler descrivere, condensandolo in un solo personaggio,


il caleidoscopio di identità del continente americano, ma anche l’orizzonte di opportunità
offerte da un certo modo di portare dentro di sé queste identità. Troviamo descritto questo
particolare atteggiamento, ancora una volta, in un dialogo tra Napo e Vasco, dopo che
quest’ultimo ha già trascorso vari mesi nella selva, ed ha un momento di crisi di fronte alle

1
Mignolo, Walter, The idea of Latin America, cit., p. 112. Cfr. anche Concilio, Carmen, “Architetture
postcoloniali”, in Gli studi postcoloniali, cit., pp. 148-150.
2
RL, p. 168.
46
domande che gli vengono poste sulla sua identità, nel quale rinfaccia a Napo la presunta
confusione di identità di quest’ultimo: “-¡Pero mira quién fue a hablar! ¡El rey del disfraz!
Napo que se disfraza de Américo que se disfraza de Laura que se disfraza de la Capitana
América, ¿y cuántos más nombres tienes? ¡Tú ni siquiera cuál de esos personajes quieres ser!-
-Ji, ji, qué va, Vasco... Yo sólo quiero ser lo que ya soy.-” Dopo aver pronunciato queste
parole, de Isusi raffigura Napo che si tuffa nel fiume, in una posa che esprime una grande
serenità e libertà e pesca un pesce con le mani. A tutto ciò, Vasco risponde, evidentemente
colpito: “Tendrás que enseñarme a hacer eso.”1 L’ultima affermazione di Vasco può essere
riferita al fatto di pescare un pesce con le mani, ma anche alla capacità di combinare in
maniera così serena le mille sfaccettature della propria esistenza.

La frase pronunciata da Napo, “Yo sólo quiero ser lo que ya soy” riecheggia quelle
già pronunciate da Olivio e Chico nei volumi precedenti. Questo crea un evidente
collegamento tra questi personaggi, che si trova proprio nel modo in cui essi riescono a
trovare un luogo di espressione per la propria identità ibrida, e perciò portatrice di istanze
decolonizzanti, all’interno di un mondo che mantiene nei loro confronti un alto livello di
complessità e conflittualità. D’altra parte, la stessa Anzaldúa carica l’identità della mestiza di
una portata simbolica e salvifica per il futuro, esprimendo quindi chiaramente il collegamento
tra la costruzione di un’identità ibrida, sotto tutti i possibili aspetti, e la decolonizzazione, che
parte sempre dalle menti di coloro che la impongono e di coloro che la subiscono:

En unas pocas centurias, il futuro apparterrà alla mestiza. Poiché il futuro dipende
dalla frantumazione dei paradigmi, dipende dalla capacità di stare a cavallo fra due o più
culture. Creando un nuovo mythos – cambiando il modo di percepire la realtà, di vedere noi
stesse, di agire e di comportarci – la mestiza crea una nuova coscienza.2

1
TdlST, p. 45.
2
Anzaldúa, Gloria, La frontiera/La frontera, cit., p. 123.
47
II
DECOLONIZZARE L’AVVENTURA.

II.1. I riferimenti letterari.

L’opera di de Isusi gioca con una fitta rete di riferimenti ad alcune opere letterarie, tra le quali
spiccano per frequenza ed importanza i fumetti di Hugo Pratt con protagonista Corto Maltese,
con i quali si sviluppa un continuo dialogo nel corso di tutti e quattro i volumi, e la storia di
Peter Pan, di James Matthew Barrie, che rimane invece confinata al secondo volume, La isla
de Nunca Jamás, che si rifà al romanzo fin dal titolo.

I riferimenti alle due opere si ritrovano a diversi livelli, e per questo possiamo
parlare, anche, di un complesso gioco intertestuale. Ritroviamo, infatti, sia riferimenti espliciti
di vario tipo, come citazioni, o addirittura momenti in cui un personaggio nomina, più o meno
chiaramente, l’opera a cui ci si riferisce (per esempio Vasco dichiara più volte di sentirsi
immerso nella storia di Peter Pan); e sia una presenza capillare di riferimenti sommersi,
spesso più a livello del disegno che della trama o dei dialoghi. Questo tipo di riferimenti
funziona anche da gratificazione per gli appassionati del genere e da omaggio, soprattutto nei
confronti di Hugo Pratt.

Inoltre, e questo è l’aspetto più interessante per questa analisi, i riferimenti giocano
non solo con vari livelli di cripticità, ma anche con vari livelli di spostamento del significato
originario dell’episodio citato. È, infatti, proprio in questi spostamenti che ritroviamo il senso
di una decolonizzazione del concetto stesso di narrativa di avventura. Secondo le parole di
Maria Renata Dolce, riferite alla riscrittura dei classici in ambito postcoloniale: “Nel processo
di writing back lo scrittore può dunque richiamare in termini generale tematiche e
problematiche trattate nei classici, o procedere ad una puntuale ricostruzione degli stessi dal
punto di vista delle figure ai margini, dei tanti oppressi che nella letteratura del canone non
hanno trovato voce.”1 Ne Los viajes de Juan sin tierra de Isusi utilizza entrambe queste
modalità, come vedremo, in un dialogo fruttuoso che permette di ripensare il concetto di

1
Dolce, Maria Renata, “Con-test/azioni postcoloniali. Il dialogo con il canone e la riscrittura dei grandi classici”,
in AA.VV., Gli studi postcoloniali, cit., p. 186.
49
avventura, e di fumetto di avventura, senza dover però rinunciare in nessun modo agli aspetti
di intrattenimento a cui esso è legato.

Il rapporto con il modello classico della narrativa di avventura, inoltre, viene reso
ancor più intenso dai riferimenti ad altre opere, come a Tintin, il fumetto creato dall’autore
belga Hergé, oppure il film Il mondo nelle mie braccia, di Raoul Walsh, del 1952. Questi
riferimenti sono di natura episodica, e scarsamente rilevanti a livello della trama; tuttavia, e
forse proprio per questo, rivelano la volontà dell’autore di dialogare proprio con questo tipo di
modelli, come si cercherà di analizzare in seguito, modelli inseribili a pieno diritto nel filone
della narrativa d’avventura di ambiente esotico.

Un discorso differente vale poi per Heart of Darkness: il romanzo di Conrad non
viene mai citato nell’opera, ma appare solamente con una citazione in esergo a Río Loco. De
Isusi dichiara che la somiglianza tra la storia narrata in questo tomo e l’opera di Conrad “es
casual, aunque evidente”1, e che non si è realmente ispirato a quell’opera nel momento di
scrivere Río Loco. Senza mettere in discussione questa versione, d’altra parte evidente nelle
differenze tra le due opere, si cercherà tuttavia di analizzare come questa somiglianza
“casuale” possa derivare, oltre che dalla grande fama della trama di Conrad, proprio da una
serie di intenti comparabili, che si possono riassumere in una radicale revisione del modello
letterario dell’avventura coloniale, seguendo l’analisi dell’opera di Conrad presentata da Paola
Carmagnani in Luoghi di tenebra, lo spazio coloniale e il romanzo.2

II.2. La isla de Nunca Jamás e Peter Pan.

I riferimenti espliciti all’opera di Barrie partono sin da prima che inizi il secondo volume
delle avventure di Vasco, con la citazione di un frammento del romanzo, in cui la Isla de
Nunca Jamás viene descritta in questo modo: “No se trata de un lugar grande y desparramado,
con íncomodas distancias entre una aventura y la otra, sino que todo esta agradablemente
amontonado.”3 Successivamente, i riferimenti sono numerosissimi; in questa sede può essere
sufficiente occuparsi dei più rilevanti sotto l’aspetto narrativo. Alcuni personaggi, infatti, sono

1
Cfr. http://www.astiberri.com/entrevistas.php?ident=7
2
Carmagnani, Paola, Luoghi di tenebra, lo spazio coloniale e il romanzo, Roma, Aracne, 2011.
3
IdNJ, p. 2. Citazione originale da Barrie, James Matthew, Peter Pan, Penguin, London, 1995, p. 42.
50
costruiti come corrispondenti ai personaggi del romanzo di Barrie, essenzialmente i due poli
della storia di vendetta contenuta nel volume: Chico, che corrisponde a Peter Pan, e dall’altra
parte Don Jaime e il reverendo Hooker, che di volta in volta occupano il ruolo di cattivo di
Hook (nel caso di Hooker, già a partire dal nome). Altri personaggi vengono poi attirati in
questo gioco di corrispondenze, e quindi la ragazza che gestisce la Finca Mariana viene
chiamata da Vasco Wendy, come la protagonista dell’opera di Barrie, e il gruppo di ragazzi
orfani con cui vive Chico assumono una certa somiglianza con i lost boys amici di Peter Pan
(anche se molto meno deferenti nei confronti del loro giovane capo), anche per il fatto di
vivere in una casa del árbol.

È importante notare come questo gioco di corrispondenze sia esplicitato all’interno


dell’opera, nella quale è Vasco stesso a notare le somiglianze sempre più numerose che
legano Ometepe con Neverland, prima per la sua notevole bellezza, poi per l’indicazione che
Vasco riceve sul come arrivare alla Finca Mariana: “Segunda a la derecha y después todo
recto hasta la Mariana”1, che rima con la traduzione spagnola di “second to the right, and
straight on till morning”2, l’enigmatica indicazione che Peter dà a Wendy e ai suoi fratelli.
Altrettanto enigmatica è questa indicazione, che porta Vasco a smarrirsi in una foresta in cui
si materializzano, all’apparenza, molte sue paure, con ruggiti misteriosi e occhi che si
illuminano nel buio. A questo smarrimento segue il sogno allucinato di Vasco, causato dai
funghi che ingerisce per sbaglio. Ometepe, quindi, assume fin da subito la connotazione di
isola della fantasia: un’isola che, come la Neverland di Peter Pan, viene costruita
dall’immaginazione dei suoi occupanti, materializzando i loro sogni di avventura, di modo
che ciascuno possa occupare il ruolo che più gli corrisponde. Nell’opera di Barrie, quindi,
Wendy diventerà a tutti gli effetti una mamma, John di volta in volta un poppante o un
cacciatore, e Michael un guerriero, e troveranno a Neverland esattamente le componenti dei
loro precedenti sogni avventurosi (come ad esempio cuccioli di lupo e barche, rovesciate sulla
spiaggia, in cui vivere).

D’altra parte il tema di tutta La isla de Nunca Jamás è proprio quello della
proiezione sul mondo delle nostre fantasie e, di conseguenza, l’identità come narrazione. Fin
dall’apertura, un funerale nella città nicaraguense di Granada si tramuta nell’occasione per
Héctor di costruire una narrazione di fantasia su ciò che può essere accaduto alla defunta, e di

1
IdNJ, p. 31.
2
Barrie, James Matthew, Peter Pan, cit., p. 39.
51
riflettere sulla relazione tra scrittura e vita reale, con la sua personale incapacità di scrivere e,
contemporaneamente, vivere una felice storia d’amore. Successivamente Paola, un’amica di
Vasco e Juan che vive in Guatemala, pronuncia la frase che farà da filo conduttore a tutto il
volume: “Somos lo que nos contamos que somos.”1 Nella già citata intervista a se stesso, de
Isusi scrive, infine, che “El tema central de La Isla de Nunca Jamás es que la realidad es
siempre subjetiva, y que todo depende de cómo nos contemos las cosas.”2

II.2.1. Neverland come costruzione narrativa coloniale.

Il punto cruciale è, però, di chi sia la fantasia creatrice che plasma le avventure sull’isola.
Nell’opera di Barrie assistiamo, infatti, alla materializzazione delle fantasie esotiche e
coloniali di bambini inglesi, che concepiscono un’isola avventurosa come popolata da pirati,
coccodrilli e pellerossa, e poco importa se i pellerossa hanno le caratteristiche, a loro volta
stereotipate, dei nativi dell’America del Nord, e siano quindi incompatibili con un’isola per il
resto prevalentemente caraibica. Neverland è, in questo senso, un concentrato di stereotipi
esotisti: una costruzione narrativa esclusivamente occidentale, nella quale i bambini inglesi
sono destinati a vincere contro i pirati. Peter Pan è, d’altra parte, connotato come un bambino
inglese, e il suo unico vero nemico, l’unico a cui lui conceda uno status di quasi parità, è
Hook, a sua volta un occidentale bianco. La trama di Peter Pan è anche, infatti, la trama di
Peter Pan, cioè la trama di avventure che egli si costruisce, come sorta di potenza creatrice
delle vicende e dei ruoli dell’isola: “In his absence things are usually quiet on the island. […]
But with the coming of Peter, who hates lethargy, they are under way again: if you put your
ear to the ground now, you would hear the whole island seething with life. […] The lost boys
were out looking for Peter, the pirates were out looking for the pirates, the redskins were out
looking for the pirates, and the beasts were out looking for the redskins.”3 Da questo brano si
vede chiaramente come sia la fantasia di Peter, che odia la tranquillità, a mettere in moto
avventure in cui ogni “gruppo” ha un ruolo ben preciso, ma è soprattutto la posizione dei
pellerossa che interessa in questa sede, dopo i pirati, e subito prima delle bestie feroci.

È proprio la connotazione dei pellerossa, infatti, a rendere evidente come Peter Pan
sia la proiezione di fantasie occidentali, in cui l’”altro” è oggetto di una costruzione narrativa

1
IdNJ, p. 22.
2
http://www.astiberri.com/entrevistas.php?ident=7
3
Barrie, James, Peter Pan, cit., p. 51.
52
stereotipata, e mai soggetto. Nell’opera di Barrie i pellerossa sono, infatti, caratterizzati come
feroci in battaglia, abilissimi in attività come la caccia o seguire le orme o nell’uso dei cinque
sensi, ossia assai vicini alla condizione animale: “Through the long black night the savage
scouts wriggle snake-like, among the grass without stirring a blade. The brushwood closes
between them, as silently as sand into which a mole has dived”1 o anche “With the alertness
of the senses which is at once the marvel and despair of civilised people.”2 Si
contrappongono, quindi, alle “persone civilizzate”, all’interno delle quali possiamo ritrovare
anche i pirati, che per quanto crudeli, sono bianchi “civilizzati”. Si esprimono, inoltre, in un
inglese semplificato, come si può vedere per esempio dalle parole di Tiger Lily, la capa della
tribù: “Peter Pan save me, me his velly nice friend. Me no let pirates hurt him.”3, quanto mai
tipico delle rappresentazioni stereotipate dei selvaggi. Da queste parole notiamo anche la
deferenza con cui, sia come nemici e sia come amici (dopo che Peter Pan salva la vita a Tiger
Lily) i pellerossa trattino Peter Pan e gli altri bambini inglesi, una ammirazione che nel caso
di Tiger Lily diventa amore per Peter Pan.

Sia come nemici che come amici gli indiani sono, poi, sostanzialmente leali, ma fissi
nelle loro idee fino alla morte: proprio nell’episodio dell’attacco contro di loro da parte dei
pirati, il gioco degli stereotipi messi in campo da Barrie si fa esplicito, nel momento in cui gli
indiani si fanno cogliere di sorpresa perché “By all the unwritten laws of savage warfare it is
always the redskin who attacks, and with the wiliness of his race he does it just before
dawn.”4 Al contrario, Hook fa in modo che essi subiscano un attacco, per il quale essi sono
psicologicamente totalmente impreparati, e perciò indifesi di fronte ad una tale astuzia, tanto
da farsi massacrare. Riguardo alla crudele astuzia di Hook, la voce narrante dell’opera di
Barrie commenta: “One cannot at least withhold a reluctant admiration for the wit that had
conceived so bold a scheme, and the fell genius with which it was carried out.”5 Si può quindi
notare come l’uomo bianco si contrapponga al selvaggio per mezzo dell’intelligenza, davanti
alla quale il pellerossa, rigidamente chiuso nelle sue tradizioni, è impotente.

Come già accennato, tuttavia, Barrie non sembra per nulla ignaro del gioco che sta
portando avanti: proprio in episodi come questo, anzi, l’ironia, seppur mai esplicitata, si fa
evidente, soprattutto nei commenti della voce narrante. Riguardo ad altri soggetti stereotipati,
1
Ivi, p. 123.
2
Ivi, p. 124.
3
Ivi, p. 106.
4
Ivi, p. 123.
5
Ivi, p. 126.
53
d’altra parte, essa si fa ancora più evidente: basti pensare al ruolo di “donna di casa” assunto
da Wendy, che consiste nel rammendare e cucinare tutto il giorno, tanto che spesso Wendy
non vede la luce del sole, e nonostante questo si dimostri assolutamente deliziata dalla sua
situazione: “-Oh dear, I am sure I sometimes think spinsters are to be envied.- Her face
beamed when she exlaimed this.”1

Barrie mette in scena, quindi, una sorta di satira dei ruoli familiari nell’Inghilterra
dei primi del ‘900, mostrata attraverso la lente delle fantasie infantili, una sorta di risposta alla
domanda: che mondo creerebbe una bambina o un bambino inglese se potesse dare sfogo alle
sue fantasie? Tutto questo, naturalmente, senza idealizzare né l’infanzia né l’innocenza di
queste fantasie, che sono, invece, evidentemente immerse nella narrazione comune nella
società inglese, e non prive di violenza e crudeltà. A questa narrazione fa solo in parte da
contrappeso l’infinita indeterminatezza di Peter Pan, affascinante per tutte le bambine e i
bambini, ma fino ad un certo punto, e senza poter rappresentare una vera alternativa, come
dimostrano da una parte il suo ruolo tutt’altro che libertario di capo indiscusso (e pronto ad
usare anche la forza per confermare la sua posizione), e dall’altra la totale normalizzazione
dei lost boys una volta immersi nella società, tanto che in poco tempo dimenticano,
evocativamente, come si fa a volare.2

Ciò che in questa sede più interessa, tuttavia, è come le proiezioni fantastiche di un
gruppo di bambini inglesi vengano dislocate in una lontana isola, dalle caratteristiche
caraibiche: un’isola costruita appositamente per soddisfare le necessità di esotismo che la
cultura coloniale inglese suggeriva alla fantasia infantile alla fine dell’800 e nei primi anni del
‘900. Parte di questa costruzione sono anche i pellerossa, chiusi, ancor più dei pirati, in un
ruolo secondario di comparse esotiche, tanto più che le loro caratteristiche rispondono
esattamente a quelle stereotipate degli indiani dell’America settentrionale, fuori luogo quindi
su un’isola caraibica; un ruolo, quindi, che non permette loro di essere soggetti produttori di
fantasie ma solamente oggetti costruiti dalle fantasie occidentali. La loro connotazione esotica
li accomuna perciò con quegli “esemplari” di piante, animali, ma anche persone, che venivano
portati in Europa dalle colonie e mostrati al pubblico: “Isolated from their own geographical

1
Ivi, p. 79.
2
Ivi, p. 176.
54
and cultural contexts, they represented whatever was projected onto them by the societies into
which they were introduced.”1

Seppur in maniera secondaria, e, forse, arrendendosi in parte a quelli che erano i


desideri effettivamente esotici del pubblico dei lettori di Barrie, si può però affermare che
quest’ultimo abbia voluto che anche questa parte della sovrastruttura culturale inglese del
tempo, spesso totalmente rimossa, rientrasse nella sua satira. In questo senso si potrebbe
affermare che, se Neverland è indubbiamente un’isola costruita dalla fantasia coloniale, non
lo è, invece, Peter Pan. Barrie, quindi, seppure non libera gli oggetti esotici della fantasia,
anche infantile, inglese, li rende talmente esotici, e talmente ridicoli tramite l’uso degli
stereotipi, da portare a galla, per chi avesse avuto voglia di notarlo già a quel tempo, il
razzismo che pervadeva la narrativa infantile, e che ha continuato a pervaderla per molto
tempo.2 La trasposizione cinematografica di Peter Pan, in cui da una parte viene sacrificata la
complessa ironia di Barrie, per farne un prodotto di intrattenimento per bambini, ma dall’altra
viene mantenuta la connotazione di inferiorità dei pellerossa, soprattutto nel loro modo di
parlare, è una dimostrazione di come queste dinamiche coloniali continuino ad agire anche
nella contemporaneità.

II.2.2. Immaginazione creatrice ad Ometepe.

Nelle pagine che seguono l’arrivo di Vasco ad Ometepe, assistiamo alle proiezioni fantastiche
del protagonista, che non a caso trovano come termine di paragone proprio Neverland. Già sul
traghetto, parlando con un passeggero appassionato di televisione (che poi scopriremo essere
Don Jaime, ma del quale per ora non sappiamo nulla), afferma: “Se diría que estamos
llegando a la isla de Nunca Jamás.” A questa affermazione, tuttavia, l’informato Don Jaime,
pur fraintendendo il riferimento, risponde: “Pero se equivoca, no se parecen. En Ometepe no
hay esa clase de réptiles, ni siquiera hay cocodrilos”. E successivamente aggiunge: “Pero
descuide, no quedan ya piratas en el lago, je je.”, e a questa affermazione Vasco è costretto a
rispondere “Bueno, pues si no hay cocodrilos ni piratas, tiene usted razón, no se parece en
nada a la isla de Nunca Jamás.”3 Seppure Vasco sarà costretto a ricredersi, si può notare come

1
AA.VV., Key Concepts in Post-Colonial Studies, cit., p. 95.
2 Cfr. Joerg, Becker, “Racism in Children's and Young People's Literature in the Western World”, Journal of
Peace Research, vol. 10, n. 3, 1973, pp. 295-303.
3
IdNJ, pp. 27-28.
55
le convinzioni esotiche che proietta sull’isola vengano puntualmente disattese. La stessa cosa
continuerà ad accadere anche successivamente: quando si perde nella foresta sente delle urla
feroci, che crede provenire da formidabili predatori, che si riveleranno invece prodotti da
innocue scimmie urlatrici, e i misteriosi occhi che vede brillare nel buio appartengono
soltanto alla cagna Tintin.1 Come è possibile, quindi, che Ometepe sia Neverland, se
disattende ogni aspettativa del protagonista?

La risposta la si può trovare nella lunga allucinazione che Vasco ha dopo aver
ingerito i funghi che vede mangiare tranquillamente da Tintin. In questa allucinazione si
mischiano citazioni da vari classici della narrativa di fantasia europea: oltre a Peter Pan
(Vasco vola grazie ad una polvere magica datagli da una piccola Tintin), troviamo citazioni
anche da Il piccolo principe (che chiede a Vasco di disegnargli un coccodrillo, cosa che
Vasco non sa fare, ma si accontenta anche di uno squalo stilizzato); il piccolo principe si
tramuta poi in Juan, che vola via come il piccolo principe, e Vasco precipita in un incubo in
cui un orribile pirata con un uncino, riconoscibile come Hook, vuole ucciderlo, e viene
salvato solo grazie all’apparizione di un Peter Pan dai tratti molto particolari di un ragazzo di
colore con i capelli ricci, che appena sveglio si capirà essere Chico, il quale durante l’incubo
ha fatto in modo, anche nella realtà, di aiutare Vasco a cavarsela da un viaggio psichedelico
molto turbolento.2

Questo sogno instaura il gioco di ruoli che rimarrà intatto per tutto il volume, e
chiarisce, soprattutto, chi è il Peter Pan che mette in movimento tutte le trame dell’isola:
l’autoctono Chico, e non il “bianco” Vasco, che per tutto il sogno ha la parte di comprimario
(viene fatto volare grazie alla polvere, di cui Peter Pan non ha bisogno; non è il piccolo
principe; e deve essere salvato da Chico/Peter Pan). Le somiglianze di Chico con il
personaggio di Barrie sono, d’altra parte, molteplici, ma quella essenziale è la capacità di
raccontare, programmare e vivere avventure, più o meno reali o realizzabili. Questo suo ruolo
di produttore di immaginario viene sottolineato anche sotto l’aspetto grafico, nel momento in
cui le sue narrazioni vengono visualizzate nel fumetto in uno stile diverso da quello consueto.
È sostanzialmente in questo modo che de Isusi, per riprendere le già citate parole di Maria

1 Ivi, pp. 34 e segg. La cagna Tintin prende il nome dal celebre protagonista dei fumetti di Hergé, un classico del
fumetto di avventura di argomento esotico, e un altro esempio di opera in cui le popolazioni cosiddette selvagge
vengono relegate ad un ruolo secondario di oggetto della rappresentazione. Cfr. Dine, Philip, “The French
Colonial Empire in Juvenile Fiction: From Jules Verne to Tintin”, Historical Reflections/Réflections Historiques,
vol. 23, n. 2, 1997, pp. 177-203.
2
IdNJ, pp. 37 e segg.
56
Renata Dolce, ricostruisce Peter Pan dal punto di vista dei margini: i margini dell’impero
coloniale spagnolo, e poi statunitense, che cessano di essere oggetti stereotipati e diventano
soggetti produttori di immaginario.

Esattamente come capita per Peter Pan, tuttavia, Chico, in questo suo produrre storie
e trame che coinvolgono altre persone, non è esente dalla volontà di usare queste persone per i
propri scopi. Tuttavia, mentre nel caso di Peter Pan questa volontà è totale (Peter Pan è, in un
certo senso, un essere fatto di volontà), Chico tenta di esercitare questa sua volontà solamente
su Vasco, e la sua posizione gerarchica all’interno del suo gruppo di amici è ben diversa dal
ruolo dittatoriale occupato da Peter Pan: Chico si prende un sonoro schiaffone appena entrato
in casa, perché troppo rumoroso, subito dopo aver urlato “¡Ha llegado el jefe!”1, quasi come si
de Isusi volesse chiarire molto bene questa differenza tra il suo personaggio e il modello a cui
esso si rifà.

Nei confronti di Vasco, tuttavia, Chico non esita ad appropriarsi di tattiche tipiche
dell’imperialismo, e per le quali ci si può rifare in parte all’analisi riguardante le tecniche di
controllo dell’informazione e di uso dei volontari stranieri messe in luce nel primo volume de
Los viajes de Juan sin tierra e nel primo capitolo del presente lavoro. Chico infatti cerca di
utilizzare le informazioni in suo possesso riguardanti Juan come merce di scambio per
ottenere l’aiuto di Vasco, prezioso in quanto Vasco è, nella sua definizione, prima di tutto un
gringo, un bianco, e questa sua caratteristica lo rende indubbiamente ben accetto a prima vista
da altri bianchi come Don Jaime, o Hooker, come effettivamente accade. Nel primo piano per
impossessarsi del denaro di Don Jaime proposto da Chico a Vasco, infatti, Vasco è disegnato
(nella maniera diversa che caratterizza le narrazioni di Chico) come Indiana Jones2: ancora
una volta de Isusi utilizza, quindi, un classico dell’avventura e dell’esotismo euro-americano,
inserendolo però nell’immaginario di un personaggio che sta lottando contro una fondazione
americana, contro, cioè, uno dei tanti metodi usati dal neocolonialismo degli Stati Uniti nei
confronti del centro e America meridionale.

In altre parole, de Isusi evita l’ingenuità di creare un personaggio che sfrutti la sua
capacità di produrre immaginario (e il possesso di informazioni preziose) ignorando però i
meccanismi di discriminazione razziale, ancora oggi tanto rilevanti in molte situazioni nel

1
Ivi, p. 56.
2
Ivi, p. 59.
57
continente sudamericano: ignorando cioè gli effetti che Dolce sottolinea parlando degli effetti
del canone sull’immaginario di coloro che si trovano nella posizione di subalternità:

La conseguente costruzione dell’Altro quale inferiore e diverso, se da una parte ha


sedimentato la dicotomia tra il centro e le sue periferie consolidando la superiorità
dell’Occidente in qualità di custode della civiltà e della cultura, dall’altra ha indotto nei popoli
colonizzati il convincimento della propria connaturata inferiorità, favorendo l’accettazione
supina del sistema di potere imposto dai colonizzatori.1

In questo senso, Chico non può fare a meno di riprodurre le dinamiche sociali codificate da
secoli di narrazione e storia coloniale, dinamiche in cui il gringo ha un ruolo di superiorità, sia
che rappresenti l’impero degli Stati Uniti che non gradisce un certo tipo di governo in
Nicaragua, sia che rappresenti un eroe che, in alcuni casi, si pone dalla parte dei popoli
oppressi per salvarli. Tuttavia, se Vasco accettasse questa dinamica, assisteremmo alla
riproduzione di una strategia imperialista, assisteremmo cioè all’eroe gringo, seppur
antimperialista, che salva degli autoctoni indifesi. Non saremmo, cioè, nel campo
dell’appropriazione sovversiva di metodi della modernità coloniale, ma semplicemente nel
campo dell’imitazione e del vittimismo, o, se trasferiamo il livello dell’analisi alla narrazione
di de Isusi, staremmo assistendo all’imitazione di modelli classici dell’avventura esotica, e
non ad una decolonizzazione del concetto di avventura. Questo rischio viene sventato dal
rifiuto di Vasco ad occupare quel ruolo, in quel momento, anche se ciò lo mette di fronte al
rifiuto di Chico a fornirgli informazioni.

Ciò ha varie conseguenze. Prima di tutto, Chico deve per forza riacquistare il ruolo
di protagonista dei propri piani, ed andare perciò in prima persona a rapinare Don Jaime.
Vasco, d’altra parte, si trova costretto a continuare a cercare informazioni su Juan, e quindi a
rimanere sull’isola. Nel corso di queste ricerche si imbatte nell’inseguimento di Chico e dei
suoi amici da parte di Don Jaime e delle guardie armate subito dopo il furto, riuscito, di
quest’ultimo. Durante questo inseguimento assistiamo ad un momento che riecheggia l’azione
eroica di Vasco nel primo volume, alle prese con la finta telecamera. Qui, il protagonista del
fumetto riesce a far esplodere una gomma al fuoristrada di Don Jaime, tirando con una fionda
il proiettile esplosivo regalatogli da Paola.2 Tentare di decolonizzare il fumetto di avventura,
d’altra parte, non significa rinunciare all’avventura stessa, o alla presenza di un

1
Dolce, Maria Renata, “Con-test/azioni postcoloniali”, cit., pp. 177-178.
2
IdNJ, pp. 95-96.
58
protagonista/eroe che unisca fortuna a presenza di spirito; significa però porre attenzione e
riflettere sulle relazioni dell’eroe con il contesto culturale, sociale e umano in cui è immerso, e
delle relazioni di quest’ultimo con lui.

Dopo questi avvenimenti, infatti, i due personaggi si ritrovano in una posizione di


parità, nella quale nessuno dei due ha dovuto rinunciare al ruolo di protagonista della
(propria) vicenda, ma entrambi devono riconoscere il coraggio dell’altro, e anche la necessità
che hanno di collaborare. Dopo che Don Jaime ha fatto esplodere la casa di Chico e i suoi
amici, quest’ultimo propone un piano per vendicarsi una volta per tutte, facendo venire a galla
i crimini di Don Jaime e Hooker di fronte alla platea di finanziatori che accorreranno per la
cerimonia durante la visita del reverendo. In questo piano, ancora una volta, Vasco assume le
sembianze di Indiana Jones, perché capace, in quanto gringo, di essere invitato alla cerimonia.
Questa volta, però, Vasco può accettare, perché sa di aver cambiato posizione all’interno della
vicenda, e perché può vantare la conoscenza di Don Jaime fatta sul traghetto, cosa che facilita
ancora di più il suo inserimento nella cerimonia, e che gli permette di non avere un ruolo
esclusivamente passivo. Che la situazione sia mutata, in ogni caso, lo chiarisce anche il fatto
che Chico riveli tutto ciò che sa di Juan prima che il piano abbia inizio, in modo da permettere
a Vasco di scegliere liberamente se aiutare Chico e i suoi amici o no.1 Qualunque relazione di
potere tra i due viene perciò cancellata, ma rimane la differenza razziale, che continua a
renderli diversi agli occhi di persone come Don Jaime, e che quindi continua a poter essere
usata, sovversivamente, contro di loro, come poi effettivamente accade nell’ultima parte della
vicenda. In questo senso, tornando ancora all’analisi di Dolce:

Il writing back nelle sue più diverse espressioni si configura come mirata strategia di
decolonizzazione, dove esso implica una rilettura della storia della colonizzazione, del
rapporto tra oppressori ed oppressi, della realtà dell’Altro forgiata e condizionata da visioni
stereotipate e faziose delle quali sono percepibili gli strascichi ancora nel presente, un
presente segnato da forme di neocolonizzazione culturale e ideologica a dispetto della sua
presunta “postcolonialità”.2

In questa particolare riscrittura troviamo, quindi, una rilettura della storia recente del
Nicaragua e dei suoi rapporti con il neocolonialismo degli Stati Uniti, ottenuta attraverso una
riscrittura di un classico della narrativa di avventura. In questa riscrittura, però, assistiamo

1
Ivi, pp. 117 e segg.
2
Dolce, Maria Renata, “Con-test/azioni postcoloniali”, cit., p. 182.
59
anche a qualcosa di diverso: uno spostamento di codici che permette di liberare un certo tipo
di narrativa di avventura da ruoli e stereotipi coloniali, e da relazioni di potere di stampo
imperialistico.

Questo, nel caso del rapporto tra La isla de Nunca jamás e Peter Pan, non è da leggere
come un rapporto conflittuale, o di totale contrapposizione e contestazione del testo classico,
che, anzi, è senza dubbio un punto di riferimento omaggiato, essenzialmente per due diversi
aspetti. In primo luogo, per il fatto di essere un testo di partenza che già, come si è visto, si
dimostra critico verso molti aspetti della società inglese che descrive, un testo, cioè, che
contiene già in sé un potenziale ironicamente sovversivo (indipendentemente dal fatto che ciò
fosse colto o no dai suoi contemporanei). In secondo luogo, per il fatto di essere un testo il cui
tema fondamentale è la fantasia e la costruzione dell’immaginario come potenziale creativo
fondamentale nella vita individuale e nella società. Una fantasia che, però, è potentemente
legata alla costruzione politica dell’immaginario di una società operata dall’ideologia
egemone, come Barrie dimostra con ironia (e non senza una certa dose di cinismo): una
bambina immersa nell’ideologia vittoriana, anche se trasportata in un’isola popolata da pirati
e animali selvaggi, esprime come più grande desiderio quello di essere una madre di famiglia
che passa il suo tempo a rammendare calzini. E d’altra parte, dei bambini inglesi non possono
fare a meno di creare un’ isola in cui gli indiani sono nulla più che un agglomerato di
stereotipi di inferiorità. È, insomma, sufficiente grattare via da Peter Pan un sottile strato di
polvere, fatta di letture commerciali ed accomodanti dell’opera, per far emergere un
potenziale sovversivo che un secolo non è bastato a cancellare, ma anzi ha reso ancora più
attuale.

II.2. Río Loco e Heart of Darkness

Come si è visto nella precedente analisi, il rapporto tra i fumetti di de Isusi e un modello
classico di romanzo di fantasia come Peter Pan è, quindi, assai più problematico di una
semplice imitazione o di un totale contrasto. Questo discorso di decostruzione portato avanti
da de Isusi al livello degli stilemi classici della narrativa di avventura può essere analizzato
mediante un parallelo con l’analisi di Paola Carmagnani del rapporto fra Heart of Darkness di
Joseph Conrad e i modelli tipici del romanzo inglese di avventura di ambientazione coloniale.

60
Un parallelo tra le due opere risulta inoltre autorizzato e suggerito, seppur entro certi
limiti, dall’autore stesso di Los viajes de Juan sin tierra, il quale pone in esergo al terzo
volume proprio una citazione dal romanzo di Conrad: “Tu propia realidad – para ti mismo, no
para los demás – lo que ningún otro hombre puede llegar a saber jamás. Ellos sólo pueden ver
la representación, pero no pueden nunca saber lo que significa en realidad.”1 Fin da questa
citazione, peraltro, è possibile comprendere sotto quale punto di vista si può condurre un
possibile parallelo tra le due opere: la relazione tra il viaggio in territorio ‘esotico’ e la
scoperta, o presa di coscienza, di aspetti della propria vita che erano già presenti
precedentemente, ma che solo un qualche rapporto con l’alterità può mettere in luce.

Tuttavia, nell’intervista a se stesso, de Isusi mette ironicamente in guardia il lettore


dall’interpretare tutto Río Loco come una versione di Cuore di Tenebra:

-Sí, pero a mí me parece que además el Amazonas te viene muy bien para
homenajear a Conrad del mismo modo que homenajeaste a Barrie en La isla de Nunca Jamás,
¿no? El río Amazonas hace el papel que en El corazón de las tinieblas hace el río Congo.
-No, no, nada de eso, ¡no has entendido nada! Vamos a ver, La isla de Nunca
Jamás era una historia de historias. Si en La pipa de Marcos el marco en que se desarrollaba
la historia era tan potente que hasta el lugar se llamaba “La realidad”, en La isla de Nunca
Jamás el marco servía para adentrarnos en el mundo de la ficción, y ver cómo la realidad y la
ficción siempre se mezclan. El tema central de La Isla de Nunca Jamás es que la realidad es
siempre subjetiva, y que todo depende de cómo nos contemos las cosas. Por eso aparecían
continuas referencias a libros, cómics y películas, empezando por el propio título. Pero eso no
es necesario ya en Río Loco, ¡no se trata de homenajear a unos y otros sin parar! La similitud
con El corazón de las tinieblas es casual, aunque evidente; por eso uso una frase suya como
cita.
-Aah… qué listo.2

Nel presente lavoro si cercherà, perciò, di tenere a mente questo avvertimento, considerando
anche che le differenze tra le due opere, sia a livello della trama sia della visione politica e
sociale sono evidenti, anche considerando i differenti periodi storici in cui le due opere sono
ambientate e sono state composte. Un parallelo, tuttavia, mantiene la sua validità, proprio
grazie al fatto che si cercherà di dimostrare come le due opere abbiano delle somiglianze che
sono più una conseguenza che una scelta: una conseguenza perché provocate da intenti simili
di utilizzo, decostruzione e trasformazione di stilemi classici. Per quanto riguarda il romanzo
1
RL, p. 2. Citazione originale da Conrad, Joseph, Heart of Darkness, Project Gutemberg Ebook, 2006, p. 32.
2
Cfr. http://www.astiberri.com/entrevistas.php?ident=7
61
di Conrad, inoltre, bisogna tenere in considerazione la celebrità raggiunta sia dall’opera stessa
sia dalla sua versione cinematografica in Apocalypse Now di Francis Ford Coppola, e in essa
soprattutto dall’ interpretazione di Kurtz realizzata da Marlon Brando, che ha trasformato il
personaggio in una vera e propria icona, patrimonio dell’immaginario collettivo, quantomeno
occidentale. Di conseguenza, Cuore di Tenebra è diventato un modello quasi impossibile da
ignorare per chi scrive di un tema così simile a quello affrontato da Conrad (naturalmente,
possono poi essere infiniti i modi di fare i conti con questo modello).

Un primo caso di come entrambe le opere utilizzino uno stilema tipico della
narrativa di avventura si può trovare nel fatto che Marlow, raccontando di ciò che ha vissuto
in Africa, si trova a descrivere le motivazioni della sua scelta di lavorare sulle navi, e poi di
recarsi in Congo: “Now when I was a little chap I had a passion for maps. At that time there
were many blank spaces on the earth, and when I saw one that looked particularly inviting on
a map (but they all looked like that) I would put my finger on it and say, When I grow up I
will go there.”1 Ma, nel momento in cui Marlow si trova ad essere adulto e a poter realizzare il
suo sogno, l’Africa è cambiata: “By this time it was not a blank space any more. It had got
filled since my boyhood with rivers and lakes and names. It had ceased to be a blank space of
delightful mistery – a white patch for a boy to dream gloriously over. It had become a place of
darkness.”2

Queste parole richiamano da vicino il desiderio di Vasco di fare il marinaio per


imitare un certo modello di avventuriero, in particolare il‘bostoniano’ interpretato da Gregory
Peck in Il mondo nelle mie braccia, come egli rivela ad una ragazza belga, Elsa, al momento
di raccontare il perché della sua scelta di prendere il mare. In quella conversazione, Vasco
racconta:

Lo cierto es que me cansé porque aquello no era ni viaje y ni aventura. Los barcos
de hoy no tienen nada que ver con las novelas de Stevenson. Ahora son naves inménsas con
tripulaciones mínimas, y todo está mecanizado. Juan lo llamaba ‘la oficina’. Navegar ahora es
mucho más seguro y también más aburrido. Pero lo cierto es que lo mismo pasa con los
viajes... ya no quedan espacios blancos en los mapas... los únicos espacios en blanco estan
dentro de uno mismo.3

1
Conrad, Joseph, Heart of Darkness, Project Gutemberg Ebook, 2006, p. 6.
2
Ivi, p. 7.
3
TdlST, p. 62.
62
Le sue considerazioni sul presente reale della vita sulle navi, che ha perso ogni mistero, ci
riportano alla scomparsa di qualunque spazio inesplorato. Ma ancor più significativa è la
considerazione che Vasco fa al termine di quella battuta: “ya no quedan espacios blancos en
los mapas... los únicos espacios en blanco estan dentro de uno mismo”. In entrambe le opere,
infatti, la modernità cancella la possibilità dell’avventura, sostituendola con un presente che è
connotato dall’inquietudine, il place of darkness o los espacios blancos dentro de uno mismo.

Ciò che viene messo in crisi nei passaggi di entrambe le opere è l’immaginario
dell’avventura dell’esplorazione, da sempre base del mito eurocentrico delle scoperte
geografiche e, di conseguenza, di quei romanzi di avventura di ambientazione esotica che su
quell’immaginario basano la loro attrattiva, e che, infatti, utilizzano come modello i resoconti
dei viaggi di esplorazione. Come scrive Paola Carmagnani: “Il rapporto formale del romanzo
di avventura esotico con il resoconto del viaggio d’esplorazione è del resto apertamente
dichiarato a partire dal paratesto convenzionale, che prevede innanzi tutto una canonica carta
geografica su cui viene segnalato il percorso degli eroi e che offre allo spazio narrativo una
presunta verosimiglianza.”1 E, infatti, al preciso riferimento di entrambe le opere alle mappe
(soprattutto per quanto riguarda la passione del Marlow bambino per esse), fa eco la presenza,
sistematica, di una mappa del percorso seguito da Vasco, posta all’inizio di ogni volume, e
che diventa, significativamente, una mappa turistica nell’ultimo volume, esprimendo così
anche figurativamente la fine o la trasformazione del modello dell’esplorazione in quello del
turismo internazionale.

Il processo che porta la mappa del viaggiatore e delle sue avventure a diventare un
depliant turistico è un buon esempio del trattamento che entrambe le opere fanno degli stilemi
classici: non una cancellazione o un sovvertimento, bensì un’evoluzione quasi lineare, che
tenga conto delle mutazioni avvenute nella realtà descritta (o comunque della realtà stessa).
Ma questa stessa evoluzione, pur mantenendosi all’interno dei binari dello stilema classico, ne
mette in crisi il cuore, ossia la visione del mondo e della storia che quello stilema
convogliava. Il turismo internazionale come lo conosciamo oggi, infatti, è una delle dirette
conseguenze della modernità coloniale, e mantiene (non importa se in positivo o in negativo)
ampi collegamenti, sia pratici sia a livello dell’immaginario, con i concetti di esplorazione e
avventura: basti pensare al rapporto, insieme di somiglianza e conflitto, presente tra i concetti
di ‘viaggio’ e ‘turismo’.

1
Carmagnani, Paola, Luoghi di tenebra, cit., p. 109.
63
II.2.1. Il viaggio di Vasco e Marlow.

Un altro esempio di questo processo si può ritrovare nell’impianto generale delle due opere,
costruite entrambe come un viaggio verso l’interno di un continente, sulla linea rettilinea di
un fiume, alla ricerca di un affascinante personaggio che si è, in qualche modo, ‘smarrito’
nella selva. La struttura del viaggio è quella tipica della narrativa di ambientazione coloniale:
“Gli eroi del romanzo di avventura esotico partono alla conquista dei vasti spazi dell’impero
coloniale spinti dal desiderio della scoperta, alla ricerca di tesori sepolti o di esploratori
bianchi perduti nel cuore di tenebra dell’alterità nemica.”1 Nel caso di Heart of Darkness:

Come in tanti altri romanzi esotici e come nei celebri resoconti dei viaggi di
esplorazione che li hanno preceduti, un eroe bianco segue il corso di un grande fiume che
dalla costa si snoda verso il centro del continente. […]. Le forme narrative tradizionalmente
preposte a raccontare questo tipo di storia costituiscono qui i riferimenti imprescindibili di
Conrad, che se ne serve però in maniera nuova, prendendo a prestito e rielaborando gli
elementi preesistenti fino a creare un’inedita soluzione formale. 2

Se, quindi, sono evidenti le somiglianze nell’impianto generale dell’opera, queste stesse
somiglianze mettono in luce gli spostamenti di senso. Il percorso tipico, infatti, secondo
Franco Moretti ha la forma di:

una linea isolata, senza deviazioni o diramazioni. […] In queste storie […] si dà un
solo tipo di movimento: avanti o indietro. Non sono previsti sviluppi laterali: non sono
previste alternative al cammino prescritto, ma solo ostacoli – e dunque avversari. Amici, e
nemici. Da una parte i bianchi, la guida, la tecnologia occidentale, una vecchia mappa un
po’stinta. Dall’altra… dall’altra leoni, caldo, liane, elefanti, mosche, pioggia, malattie – e
indigeni. Tutti avvicinati, tutti equiparati dalla loro funzione narrativa di ostacoli: tutti
egualmente inconoscibili e pericolosi.3

1
Ivi, p. 107.
2
Ivi, p. 144.
3
Moretti, Franco, Atlante del romanzo europeo. 1800-1900, Torino, Einaudi, 1997, p. 62. Apud Carmagnani,
Paola, Luoghi di tenebra, cit., p. 14.
64
All’interno di questo impianto classico, si potrebbe fare una lista di quali elementi vengano
mantenuti e quali no in entrambe le opere. In Heart of Darkness troviamo sì un viaggio
rettilineo, in cui gli sviluppi laterali sono minimi, e il genere di movimento possibile è,
effettivamente, quello rettilineo. Tuttavia, relativamente a Heart of Darkness si può dire che
ciò che cambia è l’identificazione del nemico o della minaccia, che solo raramente è
identificabile con gli indigeni africani, e che, invece, si situa ben più spesso nei personaggi
europei, per la maggior parte violenti, sciocchi, vuoti, e nel loro rapporto con un ambiente di
cui non fanno parte: “La perturbante ambivalenza tipicamente attribuita allo spazio esotico
emana qui non già da un’alterità misteriosa e allo stesso tempo minacciosamente familiare,
ma dai segni incongrui della presenza occidentale all’interno di uno spazio incomprensibile.”1
In tutto questo, quindi, i nativi e la potente natura tropicale occupano ancora il luogo
dell’alterità, che è ancora inconoscibile e in qualche modo pericolosa, come nelle parole di
Moretti, ma nei cui confronti l’opera non si pone in una situazione di superiorità, bensì di
distanza: Marlow dichiara infatti più volte come lui scorga i tratti di una evidente umanità nei
nativi, ma di un’umanità che, semplicemente, rinuncia a comprendere.2 Diverso è, invece, il
caso di Kurtz, la cui minaccia è contenuta nella tenebra dell’inconscio umano, se abbinato a
un potere sconfinato.

Un esempio di questo atteggiamento verso i nativi, e soprattutto verso la presunta


missione civilizzatrice dell’Europa, si ha per esempio nel racconto dell’episodio della morte
di colui che Marlow viene assunto per sostituire. Quella che potrebbe essere un’occasione per
arricchire le motivazioni di una gloriosa avventura, infatti, si rivela un sordido e minimo
episodio:

The original quarrel arose from a misunderstanding about some hens. Yes, two
black hens. Fresleven – that was the fellow’s name, a Dane – thought himself wronged
somehow in the bargain, so he went ashore and started to hammer the chief of the village with
a stick. Oh, it didn't surprise me in the least to hear this, and at the same time to be told that
Fresleven was the gentlest, quietest creature that ever walked on two legs. No doubt he was;
but he had been a couple of years already out there engaged in the noble cause, you know, and
he probably felt the need at last of asserting his self-respect in some way. Therefore he
whacked the old nigger mercilessly, while a big crowd of his people watched him,
thunderstruck, till some man – I was told the chief's son – in desperation at hearing the old
chap yell, made a tentative jab with a spear at the white man – and of course it went quite easy

1
Cfr. Carmagnani, Paola, Luoghi di tenebra, cit., p. 153.
2
Ivi, p. 156.
65
between the shoulder-blades. Then the whole population cleared into the forest, expecting all
kinds of calamities to happen, while, on the other hand, the steamer Fresleven commanded left
also in a bad panic, in charge of the engineer, I believe. Afterwards nobody seemed to trouble
much about Fresleven's remains, till I got out and stepped into his shoes. I couldn't let it rest,
though; but when an opportunity offered at last to meet my predecessor, the grass growing
through his ribs was tall enough to hide his bones. They were all there. The supernatural being
had not been touched after he fell. And the village was deserted, the huts gaped black, rotting,
all askew within the fallen enclosures. A calamity had come to it, sure enough. The people
had vanished. Mad terror had scattered them, men, women, and children, through the bush,
and they had never returned. What became of the hens I don't know either. I should think the
cause of progress got them, anyhow. However, through this glorious affair I got my
appointment, before I had fairly begun to hope for it. 1

In questo passaggio troviamo, infatti, due caratteristiche importanti: da una parte un’amara
ironia riguardo alla ‘noble cause’ del colonialismo (frequente per tutto il corso della
narrazione), che ha l’unico effetto di trasformare un uomo gentile in un pazzo rabbioso, e che
è capace solo di appropriarsi di merci, come le galline sacrificate, probabilmente, alla causa
del progresso. Dall’altra, i nativi rimangono sostanzialmente assenti o comunque sfuggenti,
anche come presenza fisica, e su di loro si mantenga una sospensione del giudizio, tanto che
persino l’atto dell’uccisione di Fresleven è presentato, oltre che come giustificato, anche come
sostanzialmente casuale: ‘a tentative jab’. Lo stesso Marlow definisce questo episodio
il‘glorious affair’ che lo ha portato lì.

Vediamo, quindi, come la frattura dai modelli produca una situazione, per il
personaggio e per il lettore, di inquietudine, per la difficoltà di individuare un nemico che non
sia l’animo europeo stesso. Contemporaneamente, tuttavia, mai Marlow ha, o potrebbe avere,
la tentazione di passare d’altra parte, la parte dei nativi, che non può comprendere. In questo
senso, la narrazione di Marlow si caratterizza come deludente, se confrontata con una normale
narrazione di avventura. Forse si può interpretare in questo senso l’affermazione del primo
narratore dell’opera, colui che ascolta la narrazione di Marlow, il quale afferma “we knew we
were fated, before the ebb began to run, to hear about one of Marlow’s inconclusive
experiences.” Quelle di Marlow sono esperienze inconcludenti, infatti, proprio perché non
portano a nessuna chiara conclusione, a nessuno schieramento, e perciò a nessuna vittoria: né
con gli europei, né con i nativi. Ciò che rimane, quindi, è uno spazio interno alla cultura

1
Conrad, Joseph, Heart of Darkness,cit., p. 8.
66
occidentale ma dominato dall’inquietudine: un’inquietudine che si presenta in due facce, e le
stesse due facce sono riscontrabili nell’opera di de Isusi.

Da una parte l’inquietudine è provocata dalla considerazione del disastro umano e


ambientale provocato dalla modernità capitalista, che, come abbiamo visto nella prima parte
di questo lavoro, sta alla base della narrazione di de Isusi, ma è anche elemento assai
importante del romanzo di Conrad: la frase “It had become a place of darkness” viene seguita,
poco dopo, dalla visione della nuova mappa dell’Africa: “A large shining map, marked with
all the colours of a rainbow.”1 La tenebra dell’Africa, quindi, non è più soltanto quella
figurata dell’ipotetica assenza di civilizzazione del ‘continente nero’, ma è soprattutto quella
della barbarie dello sfruttamento coloniale.2 Non a caso, Conrad sceglie proprio il Congo
della dominazione belga del periodo di Leopoldo II, celebre per la sua brutalità; ma lo stesso
Conrad sceglie anche di non nominare precisamente Bruxelles (definita a “whited
sepulcher”3) come città in cui Marlow si reca nella sede dell’impresa che gli affida il lavoro,
per non privare il suo romanzo di un senso, anche critico, che andasse oltre il caso specifico
del Congo belga. In particolare, Marlow afferma: “All Europe contributed to the making of
Kurtz.”4, facendo riferimento alle origini e all’istruzione del personaggio, ma anche in senso
figurato, utilizzando Kurtz come simbolo del colonialismo. In ogni caso, la descrizione delle
condizioni di vita degli indigeni schiavizzati nella prima delle stazioni coloniali vista da
Marlow non lascia spazio a dubbi riguardo alla connotazione di barbarie che Conrad dà alla
dominazione belga, ed europea, dell’Africa.

L’altra faccia dell’inquietudine, strettamente collegata alla precedente, è quella di un


rapporto dei personaggi con la loro interiorità ben più complesso, e più inquieto, di quello dei
tipici eroi di avventure esotiche: saldi, immutabili, infallibili. La differenza tra gli eroi classici
e gli eroi delle due opere prese in considerazione è, una conseguenza del primo aspetto
dell’inquietudine che si è analizzato: se il pericolo non si trova più nell’’altro’, ed è invece
situato proprio in quello stesso progetto civilizzatore che sta alla base dell’impresa coloniale,
allora è il cuore dell’identità europea, e quindi anche dell’individuo europeo, a contenere la

1
Conrad, Joseph, Heart of Darkness, cit., p. 9.
2
Cfr. Carmagnani, Paola, Luoghi di tenebra, cit., p. 149. Nel dire che la darkness africana non è più ‘soltanto’
quella dell’ipotetica arretratezza culturale dei nativi, che quindi ancora sussiste, si fa riferimento alla visione del
personaggio Marlow, indubbiamente legata ad una mentalità coloniale, senza voler entrare nel dibattito su
quanto Heart of Darkness sia o no un’opera che riflette una visione imperialista dell’autore Conrad.
3
Conrad, Joseph, Heart of Darkness, cit., p. 8.
4
Cfr. Carmagnani, Paola, Luoghi di tenebra, cit., pp. 150 e 155. Citazione da Heart of Darkness, cit., p. 58.
67
tenebra: “Lo strappo aperto dall’esotismo perturbante nel solido tessuto dell’identità
occidentale rifiuta questa volta di lasciarsi ricucire: privato di un salvifico nemico esterno,
l’eroe si ritrova in definitiva solo di fronte al proprio cuore di tenebra.”1

Per quanto riguarda la forma del viaggio che si sviluppa lungo Río Loco, essa è
simile a quella dell’opera di Conrad e al modello classico, ossia, almeno fino ad un certo
punto, la risalita di un fiume su un’imbarcazione. Tuttavia, questa volta il mezzo di trasporto
stesso, o meglio la modalità in cui il protagonista lo utilizza, sovverte il senso classico del
viaggio di avventura. Infatti, entrambe le imbarcazioni utilizzate da Vasco e il suo amico
Héctor per risalire il fiume Napo vedono il protagonista in posizione passiva, e questo fatto
viene sottolineato più volte. Prima di tutto nell’impossibilità di sapere a che ora il capitano
della Camila, questo il nome dell’imbarcazione, deciderà di salpare da Coca in direzione
Iquitos. Una volta partiti, Héctor, che in quanto scrittore di racconti e romanzi del mistero è
conoscitore titolato degli stilemi classici dell’avventura, esclama eccitato: “¡Aaah! ¡La
aventura! ¡Me encanta ese barco! Y… ¡Camila! Qué buen nombre para usarlo en un cuento,
¿no?”2 Camila, però, non ci metterà molto a rivelare il suo vero volto di normale, lento e
noioso traghetto fluviale per passeggeri, e questo, agli occhi di Vasco e soprattutto di Héctor,
la rende non narrabile: “Este río es como un limbo. El paisaje siempre es el mismo, las
comunidades por las que pasamos son parecidas… lo único che cambia es que cada vez
somos más. No sé como escribir sobre esto sin matar de aburrimiento los lectores.”3

Gli episodi lungo il percorso, quindi, perdono qualunque valore avventuroso, e i due
personaggi sono costretti alla passività. Un discorso molto simile vale per la canoa con la
quale risalgono il fiume Napo prima di inoltrarsi nella selva: la canoa è guidata da Leandro,
che è l’unico che si sa orientare, tanto che l’unico tentativo di Juan di prendere il controllo,
usando la mappa con le indicazioni di Napo, si rivela un fallimento, perché Vasco scambia
per biforcazione del fiume una semplice isola.4 Non solo, quindi, la guida (che è uno degli
elementi ‘amici’ indicati da Moretti) non sta dalla parte del protagonista, ma in una posizione
ambigua e imprevedibile (quando non apertamente ostile) ma viene anche a mancare un
elemento fondamentale dell’avventuriero: il controllo su ciò che sta facendo, e su dove sta
andando.

1
Carmagnani, Paola, Luoghi di tenebra, cit., p. 21.
2
RL, p. 28.
3
Ivi, p. 40.
4
Ivi, p. 92.
68
La situazione si replica quando i tre si addentrano nella selva. Anche qui, il tentativo
di Juan di ottenere un potere su Leandro (controllando e razionando la scorta di alcol, da cui
Leandro è dipendente) si rivela solo temporaneamente di successo, ma non cambia il risultato
finale, ossia l’inganno di Leandro, che invece di farli camminare verso nord, dove dovrebbero
dirigersi, li trascina in un lungo percorso circolare. Qui è evidente, peraltro, come
l’abbandono della linea retta, del percorso magari accidentato ma rettilineo dell’avventura
corrisponda ad uno smarrimento generale del personaggio, in una spazialità circolare che non
si può adattare ai piani dell’avventuriero. Quando Leandro li abbandona, infatti, i due si
trovano smarriti nella selva, ai bordi del fiume Napo. Questo smarrimento porterà Héctor a
tornare indietro su una canoa trovata per caso (in realtà portata da Américo/Napo in loro
aiuto), rinunciando ai suoi propositi (mai troppo seri, in ogni caso) di trovare El Dorado, e
Vasco ad addentrarsi ancora di più nella selva, solo.

Nelle pagine che seguono, inizialmente Vasco sembra poter riuscire ad avanzare ed
orientarsi, anche mediante l’uso, tipico, di un qualche tipo di tecnologia occidentale, seppur
minima: utilizza una bussola, ha un machete per farsi strada, ogni sera accende il fuoco e si
cucina i pasti. Ma sono proprio questi i primi segni del controllo che cadono: perde bussola e
machete, ed inizia ad alimentarsi di larve. Nel frattempo, nelle vignette si moltiplicano le
presenze animali, più stranianti che effettivamente pericolose, in un processo di
soggettivazione della natura, questo sì, tipico della narrativa di ambientazione esotica e delle
sue descrizioni dell’ambiente. Zanzare, pioggia, caldo, febbri: appaiono qui molti degli
antagonisti classici dell’avventuriero, che sembrano essere lì apposta per lui, per osservarlo e
circondarlo.1

Lo smarrimento, infine, prederà il sopravvento di Vasco, fino al contatto con la rana-


dardo, simbolo letale di questa natura strana, esotica e potente, ma d’altra parte simbolo
innocente: la rana-dardo non avvelena per predare ma per difendersi, non attacca. È il
protagonista stesso, quindi, che provoca il contatto con una natura ‘altra’, dalla quale è lui
stesso a recarsi, sia in senso figurato che pratico. Tuttavia, se questo è il momento culminante
dello smarrimento del protagonista, e se in questo smarrimento la natura amazzonica ha un
evidente ruolo scatenante, è tuttavia necessario notare che le vignette che mostrano il processo

1
Sull’antropomorfizzazione della natura come topos dell’immaginario esotico cfr. Cfr. Carmagnani, Paola,
Luoghi di tenebra, cit., p. 76.
69
di perdita di contatto con la realtà descrivono allucinazioni provenienti dal passato personale
di Vasco: è, insomma, il suo ‘cuore di tenebra’ personale, o meglio ancora sono i suoi
‘espacios blancos dentro de si mismo’ a farlo smarrire.1

II.2.2. Vasco e Juan, Marlow e Kurtz.

Marlow, dalla sua parte, non arriva mai a sperimentare una tale mancanza di controllo sugli
avvenimenti: egli rimane capitano e pilota della sua imbarcazione per tutta la durata del
viaggio, e mantiene su ciò che accade una presa efficiente, persino nella stazione di Kurtz e
persino su Kurtz stesso. D’altra parte, si dimostra anche consapevole su quale sia il modo per
non smarrirsi, nonostante il rapporto perturbante fra la presenza (e la crudeltà) europee, e
l’incomprensibile spazio esotico: è il potere delle piccole cose, dei piccoli gesti efficienti che
tengono a bada l’inconscio. Riguardo a questo atteggiamento, Carmagnani scrive:

Di fronte alla spinta della pulsione, il Super-io della morale vittoriana non basta:
l’Io deve ricorrere a quello che Freud chiama il ‘principio di realtà’, a quella vocazione pratica
all’equilibrio e al compromesso che permette di legare e far coesistere delle forze portatrici di
squilibrio. Grande protagonista del romanzo di avventura ottocentesco, il principio di realtà
s’incarna qui in una dimensione tecnica e funzionale che associa Marlow agli eroi pieni di
risorse del romanzo di avventura, troppo indaffarati con mappe e fucili per lasciarsi andare a
osservare troppo da vicino il cuore di tenebra di un’alterità che minacciava di rivelarsi non
così estranea come avrebbero voluto credere.2

Nella fattispecie, sono le infinite attività e attenzioni necessarie perché l’imbarcazione possa
continuare il suo viaggio sul fiume Congo, nonostante le difficoltà, ad impedire a Marlow di
vedere una realtà che comporterebbe il suo smarrimento: “I had to watch the steering, and
circumvent those snags, and get the tin-pot along by hook or by crook. There was surface-
truth enough in these things to save a wiser man.”3 In un altro punto, egli afferma: “What
saves us is efficiency – the devotion to efficiency.”4

1
RL, pp. 138-145.
2
Carmagnani, Paola, Luoghi di tenebra, cit., p. 166.
3
Conrad, Joseph, Heart of Darkness, cit., p. 41.
4
Ivi, p. 5.
70
Lo stesso però non si può dire riguardo al personaggio di Kurtz, il cui smarrimento
nella parte più buia dell’essere umano Marlow stesso imputa proprio alla mancanza di
attenzione agli infiniti compiti dell’agire quotidiano, tipica del mondo borghese:

These little things make all the great difference. When they are gone you must fall
back upon your own innate strength, upon your own capacity for faithfulness. […] And there,
don’t you see? Your strength comes in, the faith in tour ability for the digging of
unostentatious holes to bury the stuff in – your power of devotion, not to yourself, but to an
obscure, back-breaking business.1

Questo fa sì che Marlow abbia nei confronti di Kurtz un atteggiamento dichiaratamente


ambivalente, che comprende sia l’ammirazione, soprattutto nel contrasto fra Kurtz e gli altri
vuoti personaggi europei, alcuni dei quali sono definiti troppo sciocchi anche solo per correre
il pericolo di smarrirsi (“no fool ever made a bargain for his soul with the devil: the fool is too
much of a fool, or the devil too much of a devil – I don’t know which.”2); ma comprende
anche, d’altra parte, un giudizio negativo, o meglio la sensazione che la caduta di Kurtz nelle
tenebre sia un rischio da evitare con tutte le proprie forze, in quanto espressione di un orrore
senza ritorno, seppur insito nell’interiorità dell’animo occidentale, e quindi anche nell’animo
di Marlow stesso.

Nell’opera di de Isusi i personaggi di Vasco e Juan si trovano ad occupare ruoli che


ricordano da vicino quelli di Marlow e Kurtz. Essenzialmente, nel corso di Río Loco Vasco
occupa il ruolo di Marlow, che risale il fiume alla ricerca di Juan, in qualche modo disperso
nella selva. E, in effetti, Vasco è, tra i due, il personaggio che più si dimostra in possesso di
quel principio di realtà che contraddistingue Marlow da Kurtz. Il suo viaggio, in questo senso,
pur ‘strabordando’ in una serie di avventure laterali, ha uno scopo ben preciso: la ricerca del
suo amico. Proprio in Río Loco, in effetti, Vasco dichiara più volte di non voler più
intervenire in nessuna vicenda che non sia trovare Juan (rifiuta, per esempio, di andare con
Jürgen a Manaus a lavorare per aiutare gli indios), e di non voler più perdere alcun tempo,
inseguendo in maniera assolutamente caparbia il suo scopo, fino a fare uso della violenza e
del ricatto (per esempio contro Leandro), se qualcosa si frappone fra lui e il suo obbiettivo.
Spesso, addirittura, sembra che Vasco voglia agire proprio per non pensare, per rimuovere gli

1
Ivi, p. 57.
2
Ibidem.
71
‘spazi bianchi’, o neri, dentro se stesso, tanto che Héctor è costretto a fare a pugni con lui per
potersi fermare a riflettere e farsi raccontare una parte della storia di Vasco.1

Al contrario, il viaggio di Juan era stato invece connotato dall’ossessione di


inseguire una serie di miti, una serie di missioni che si autoimponeva per realizzare le sue
convinzioni, salvo poi fuggire quando questi luoghi si dimostravano diversi dalla sua fantasia:
la rivoluzione con gli zapatisti in Messico, un’isola incantata e vergine a Atitlán e Ometepe,
l’essere umano incontaminato nell’Amazzonia. Kurtz stesso, d’altra parte, aveva intrapreso la
sua missione con elevatissimi scopi umanitari, rispetto ai quali il commercio di avorio era
solo un pretesto. Marlow viene a sapere tutto questo, oltre che dai racconti ammirati d chi ha
conosciuto Kurtz, anche leggendo il trattato che quest’ultimo ha scritto, e che ha come scopo
il fatto di portare la civiltà agli indigeni, al termine del quale però appare una nota inquietante:
“It was very simple, and at the end of that moving appeal to every altruistic sentiment it
blazed at you, luminous and terrifying, like a flash of lightning in a serene sky: ‘Exterminate
all the brutes!’”2 Sebbene gli scopi di Juan e di Kurtz siano opposti, ciò che interessa è la
caratteristica di entrambi di essere basati su miti, su concetti astratti che, seppur filantropici,
entrano in crisi al primo contatto con la realtà: siamo, insomma, nel campo di ciò che Mignolo
definisce abstract universals, sempre slegati dalla realtà locale e vitale di coloro che
dovrebbero venirne coinvolti.

La crisi che ne risulta costringe entrambi i personaggi a spingersi ancora più in là nel
tentativo impossibile di realizzare i loro obbiettivi. Il punto finale del viaggio di Juan, infatti,
è rappresentato dall’atto di voltare le spalle alla civiltà, partendo sulla canoa di Leandro. In
Heart of Darkness si racconta che Kurtz stesso faccia, fisicamente, un gesto molto simile nel
momento in cui sceglie di tornare definitivamente alla sua stazione nel cuore della foresta:
volta la canoa e riparte risalendo il fiume. Entrambi i gesti, peraltro, vengono descritti
indirettamente al lettore, da narrazioni che vengono fatte a Vasco e Marlow.

Se, quindi, il personaggio di Juan e Kurtz sono simili, è interessante notare come il
ruolo che ricoprono risponda anch’esso ad una serie di topoi:

Personaggio estremamente complesso all’interno di un racconto esso stesso quanto


mai stratificato, Kurtz si costruisce però a partire dall’intreccio di altri due topoi dell’esotismo

1
RL, pp. 123-125.
2
Conrad, Joseph, Heart of Darkness, cit., p. 58.
72
coloniale: quello del bianco prigioniero nello spazio esotico nemico che gli eroi devono
salvare, che trova le sue origini nella celebre vicenda di Livingstone e Stanley e una più
lontana eco fiabesca nella funzione proppiana della ‘prigionia nel reame nemico’; e quello del
bianco degenerato.1

Guardati da questo punto di vista, quindi, sia Kurtz che Juan risultano rielaborazioni di
modelli tipici, e servono essenzialmente per permettere, anzi, per costringere il protagonista al
contatto con un’alterità (o perlomeno risultano tali fino a quando non compaiono sulla scena
ed arrivano ad essere personaggi veri, cosa che in entrambe le opere accade solo nel finale, e
assai brevemente nel caso di Los viajes de Juan sin tierra). Sono, insomma, gli elementi che
permettono e giustificano un’avventura che senza di loro non potrebbe avere luogo, come non
avrebbe avuto luogo la ricerca di Livingstone da parte di Stanley se il primo non si fosse
perso nel cuore dell’Africa. Tuttavia, partendo da questo modello, Kurtz e Juan assumono
connotazioni che li distanziano dai modelli classici, sia nella fantasia dei due protagonisti, sia
come personaggi in sé.

Partendo dal ruolo che rivestono nella fantasia del protagonista, in queste due opere
il personaggio ‘cercato’ viene visto come l’unica possibilità per recuperare un significato per
un’intera esistenza che ne risulta in quel momento priva, e per tentare di risolvere
quell’inquietudine che si è cercato di analizzare. Durante il lungo viaggio, infatti, la
prospettiva dell’incontro con Kurtz, e soprattutto della possibilità di dialogare con lui rimane
il riferimento costante di Marlow, il pensiero fisso che lo porta a sforzarsi per riparare
l’imbarcazione, prima, e risalire poi il fiume nonostante tutte le difficoltà e l’assoluta
estraneità che Marlow prova nei confronti di tutti gli altri europei per i quali e con i quali
lavora. Di uno dei momenti più difficili del viaggio, in cui uno degli indigeni presenti sulla
barca è morto trafitto da una lancia a fianco a Marlow nella cabina di pilotaggio, il
protagonista narra: “I flung one shoe overboard, and became aware that that was exactly what
I had been looking forward to – a talk with Kurtz.” Marlow paragona l’eloquio di Kurtz
(come gli lo immagina, almeno, prima di averlo potuto udire veramente) a un “pulsating
stream of light, or the deceitful flow from the heart of an impenetrable darkness.” 2 E in effetti
questo colloquio porta con sé un qualche significato, seppur parziale:

1
Carmagnani, Paola, Luoghi di tenebra, cit., p. 167.
2
Conrad, Joseph, Heart of Darkness, cit., p. 55.
73
It was the farthest point of navigation and the culminating point of my experience.
It seemed somehow to throw a kind of light on everything about me-- and into my thoughts. It
was somber enough too--and pitiful-- not extraordinary in any way--not very clear either. No,
not very clear. And yet it seemed to throw a kind of light. 1

In un momento altrettanto drammatico, nel quale Vasco e Héctor non sanno come potranno
sopravvivere persi nella selva, Vasco si trova a raccontare il perché della sua ossessione per
Juan:

Él desapareció… en uno de sus tantos viajes. […] pero un día de pronto caí en la
cuenta de que habían pasado años sin noticias suyas. Entonces empecé a preguntar y resultó
que nadie sabía nada de él. Era... como si se hubiera muerto... pero no había forma de saberlo.
[...] Entonces para mí Juan dejó de ser quien había sido y se convirtió en un fantasma. Como
no podía hacer nada no hice nada, y así fue pasando el tiempo. Pero el tiempo no mata a los
fantasmas. Al revés, ellos se alimentan de tiempo. Y el fantasma se te aparece en cada rostro
de la calle, en cada sombra del cine, detrás de cada llamada de teléfono. Pero no hay nada. 2

La figura di Juan, inoltre, coinvolge una storia d’amore molto importante per Vasco: “Ella y
yo... bueno, nos queríamos, pero algo no funcionaba… la dejé. Después descubrí qué era lo
que no funcionaba, pero para entonces era tarde. Se había ido a bailar al extranjero. [...] Lo
que no funcionaba era el pelotudo de Juan. El pelotudo del fantasma de Juan.”3

Si può dire, quindi, che Kurtz e Juan costituiscano non solo il motivo del viaggio dei
due protagonisti, ma vadano anche in qualche modo a rappresentare e a catalizzare la loro
crisi. Una crisi, un’inquietudine, che va, in realtà, ben al di là della relazione fra i due
personaggi, ed investe tutto il campo della relazione tra l’io moderno (o contemporaneo) e il
mondo nel quale è immerso, e che perciò è perenne e precedente allo smarrimento di colui che
goes native, come espresso chiaramente, anche per quanto riguarda Vasco, dalla natura delle
allucinazioni e dal percorso di crescita che intraprenderà successivamente. Tuttavia, Kurtz e
Juan, rappresentando un idealismo totale che porta all’uscita da mondo conosciuto,
costringono il protagonista a fissare per la prima volta lo sguardo nel cuore di tenebra, nel
caso di Marlow, o negli spazi sconosciuti dentro se stessi, nel caso di Vasco.

1
Ivi, p. 6.
2
RL, p. 127.
3
Ibidem.
74
II.2.3. Tenebre e spazi vuoti.

In questa doppia denominazione, che abbiamo più volte ripetuto, si può trovare, in effetti,
tutta la somiglianza fra le due opere, ma anche tutta la differenza. Una differenza che diventa
ancor più evidente in lingua originale, dove alla darkness di Conrad si contrappongono
espacios blancos: spazi vuoti, ma anche bianchi. Ciò che muta, in effetti, è la valutazione di
ciò che può accadere ai personaggi al momento di fissare lo sguardo in questo ‘spazio’ che in
entrambe le opere si situa all’interno del soggetto, più che all’interno. Marlow, infatti, si
mantiene aggrappato, quasi disperatamente, al suo principio di realtà, a quelle piccole cose
che gli possano evitare di scendere nel cuore di tenebra. Fa questo essendo totalmente
consapevole che ciò che sta utilizzando è una finzione, come sottolinea Carmagnani:

A differenza degli eroi del romanzo di avventura, però, Marlow è perfettamente


cosciente che tutte queste operazioni pratiche non sono che dei ‘monkey tricks’, delle finzioni
salvifiche che offrono una ‘verità di superficie’ sotto la quale si nasconde una più profonda
verità da cui è meglio distogliere lo sguardo, e proprio questa è la funzione del principio di
realtà.1

Per questo stesso motivo, d’altra parte, nel finale dell’opera Marlow non riuscirà a dire la
verità alla fidanzata di Kurtz, e preferirà, pur con rimorso, mentirle riguardo alle ultime parole
pronunciate dal suo amato, dicendole che Kurtz aveva pronunciato per ultimo il suo nome. In
questo modo fa sì che anche lei possa continuare ad aggrapparsi ad un’immagine falsa del suo
amato, che le possa però permettere di continuare a vivere nel mondo in cui è immersa, nella
fattispecie l’ambiente della ricca borghesia belga. D’altra parte, nemmeno questa menzogna
viene punita, nemmeno questa volta viene fatta giustizia:

It seemed to me that the house would collapse before I could escape, that the
heavens would fall upon my head. But nothing happened. The heavens do not fall for such a
trifle. Would they have fallen, I wonder, if I had rendered Kurtz that justice which was his
due? Hadn’t he said he wanted only justice? But I couldn’t. I could not tell her. It would have
been too dark—too dark altogether...2

L’inquietudine rimane, per Marlow, e non può essere evitata, dopo che egli ha dovuto fissare
lo sguardo sull’Africa e su Kurtz e su ciò che essi rappresentano per la coscienza europea. La

1
Carmagnani, Paola, Luoghi di tenebra, cit., pp. 166-167.
2
Conrad, Joseph, Heart of Darkness, cit., p. 91.
75
crisi, però, il momento di totale stravolgimento di questa coscienza, viene consapevolmente
evitata, ad ogni costo. D’altra parte, all’interno di questa crisi, per Conrad, si trova solamente
quello che Kurtz stesso esprime al termine della sua vita come bilancio finale e inesorabile
della sua esperienza: l’orrore.

Nell’opera di de Isusi, invece, il fatto che il protagonista sia costretto a fare ciò che
anche lui, come Marlow, ha evitato accuratamente di fare fino a quel momento, e cioè fissare
lo sguardo su stesso e sulla propria relazione con il mondo, è solo l’inizio di un’esplorazione
della propria interiorità, nella quale verrà aiutato dalla possibilità di decostruzione offertagli
dall’alterità che lo circonda.1 A partire dal sogno di Vasco, immediatamente dopo, quindi, il
momento di massimo smarrimento del protagonista, le due opere si distanziano, e Vasco
penetra, per sua stessa decisione, nel cuore di un’alterità molto diversa da quella descritta da
Conrad, e nel cuore della sua interiorità che prende più volte le sembianze dello spazio
interstellare: un’immagine che riunisce in sé il vuoto e la luce degli “espacios blancos”
all’oscurità del cuore di tenebra.2 Vasco, insomma, diventa Kurtz, diventa lui stesso il
personaggio che volta le spalle alla civiltà: questo parallelo sembra suggerito anche
dall’aspetto di Vasco nelle pagine del quarto volume che descrivono la partecipazione di
Vasco ad alcuni riti per i quali viene totalmente rasato, ricordando in ciò sia la descrizione
della prima apparizione di Kurtz nel romanzo di Conrad, sia la celebre interpretazione del
personaggio da parte di Marlon Brando in Apocalypse Now.

Tuttavia, questo può essere considerato un omaggio tardivo da parte di de Isusi


all’opera di Conrad, o meglio, seguendo una linea interpretativa che già abbiamo applicato,
una citazione che marca sia un debito e un apprezzamento, sia una presa di distanza. Nel
quarto volume, infatti, il personaggio di Vasco subisce la distruzione di tutti i suoi modelli,
come si vedrà in seguito, e non può quindi più avere nulla in comune con un personaggio
come Kurtz, e d’altra parte la distanza fra i due personaggi, e quindi fra le due opere, a livello
di esperienze e di vicende narrate, si è fatta incolmabile già nel momento in cui Vasco accetta
di fissare la propria interiorità e immergersi nell’alterità, e ciò che trova è ben diverso
dall’orrore di Kurtz.

1
Si rimanda al seguito del presente lavoro per un’analisi diffusa del percorso di crescita di Vasco.
2
RL, p. 153.
76
II.2.4. Il rapporto con i modelli.

Ritornando a ciò che scrive l’autore nell’intervista a se stesso, troviamo un riepilogo dei primi
due volumi dell’opera, nel quale viene detto che “en La pipa de Marcos el marco en que se
desarrollaba la historia era tan potente que hasta el lugar se llamaba “La realidad’” 1. Ciò che
era importante in questo volume, quindi, era la realtà stessa della lotta zapatista e il modo in
cui essa va a toccare alcuni nodi fondamentali della modernità e dell’immaginario
occidentale, come si è cercato di dimostrare nella prima parte del presente lavoro. In questo
volume, quindi, il ruolo di Vasco era più che altro quello di occhio indagatore, attraverso il
quale i lettori potessero osservare ‘La realidad’. Si inizia qui, in ogni caso, a costruire la
figura di un eroe quasi classico, nella sua astuzia, bontà e capacità di reagire prontamente ai
pericoli.

In La isla de Nunca Jamás, invece, “el marco servía para adentrarnos en el mundo
de la ficción, y ver cómo la realidad y la ficción siempre se mezclan.”2 Qui, infatti, si inizia un
lavoro di riflessione e rielaborazione dell’immaginario occidentale e della sua capacità di
creare la realtà: per questa riflessione si utilizza, quindi, proprio un’opera che ha
nell’immaginazione e nel suo potere enorme, ma mai innocente, il suo argomento
fondamentale. Mettendo in crisi l’immaginario occidentale, si inizia quindi ad incrinare anche
la figura dell’eroe che di questo immaginario era il protagonista. In un’altra intervista, infatti,
de Isusi dichiara che:

Había creado hacía años a dos personajes, Vasco y Juan, dos viajeros incansables,
dos aventureros clásicos; pero nunca había dibujado ninguna historia suya, porque, en
realidad, no sabía cuáles habían sido esos viajes suyos. [...] Finalmente, aunque esto fue algo
posterior, reflexionando sobre los roles sociales y los personajes que todos tenemos para
desenvolvernos en sociedad, me di cuenta de que quería contar precisamente la historia de la
creación y destrucción de un personaje.3

È proprio per questo motivo che il parallelo tra Río Loco e Heart of Darkness può essere
significativo, a prescindere da quanto de Isusi si sia ispirato direttamente all’opera di Conrad:
per la valutazione che sembra trasparire da entrambe le opere, ossia che il modello della
narrativa di avventura non si possa più adattare alla realtà sociale, a meno di distorcerla o

1
Cfr. http://www.astiberri.com/entrevistas.php?ident=7
2
Ibidem.
3
http://www.guiadelcomic.es/javier-de-isusi/entrevista.htm
77
semplificarla. D’altra parte, però, lo stesso modello ha prodotto opere che hanno saputo, oltre
che intrattenere, anche descrivere, più o meno provvisoriamente e in maniera semplificata,
un’attrazione verso l’alterità e un atteggiamento particolare verso il mondo, almeno in parte
fuori dai canoni della normalità borghese, che caratterizzano i concetti di avventura e
avventuriero. E d’altra parte, quegli stessi modelli hanno subito rielaborazioni molto diverse
l’una dall’altra: i romanzi di Stevenson propongono un ideale di avventura diverso da quelli di
Rider Haggard, ad esempio, e Corto Maltese rappresenta un modello di relazione con l’alterità
ben diverso dall’atteggiamento imperialista di Tintin nei fumetti di Bergé.

In questo senso, bisogna specificare cosa si intenda con modelli classici che le due
opere rielaborano. Se per Conrad, infatti, stiamo parlando dell’ampio fenomeno del romanzo
inglese di avventura di ambientazione esotica1, è evidente che lo stesso non si può dire per
quanto riguarda l’opera di de Isusi, il cui immaginario contemporaneo difficilmente si può
essere nutrito di autori come Rider Haggard, ormai non più celebri, e nemmeno arrivati a far
parte dell’empireo dei capolavori riconosciuti. Tuttavia, si vedrà in seguito come gli stilemi
classici che definiscono la tipologia dell’eroe in questi romanzi si applichino senza grosse
forzature anche ad un personaggio come Corto Maltese, per quanto le sue avventure siano
state scritte in un’altra epoca, e contengano una visione del mondo e un’ideologia
radicalmente diversa. Questo può accadere grazie al fatto che il modello del romanzo di
avventura si presta ad infinite rielaborazioni, come afferma Carmagnani: “Da questo punto di
vista, l’aspetto fondamentale che lo caratterizza mi pare essere la sua elasticità, che gli
permette di assorbire senza disgregarsi una serie di elementi mutuati da altre forme letterarie
limitrofe.”2

Quella che Carmagnani definisce una “straordinaria efficacia formale”3 del modello
del romanzo di avventura inglese è esattamente ciò che permette a quel modello di
sopravvivere fino ai giorni nostri, introiettando una serie infinita di modifiche, che tuttavia
non ne intaccano il cuore fondamentale. Questa considerazione si applica ancora più
facilmente se prendiamo in considerazione la tradizione narrativa cosiddetta ‘popolare’, che
dalla fine dell’ottocento arriva fino ai giorni nostri, non solo in ambito letterario ma anche, e
forse soprattutto, in altre arti che hanno occupato buona parte della nicchia precedentemente

1
Per una trattazione più diffusa di questa tradizione si rimanda a Carmagnani, Paola, Luoghi di tenebra, cit., pp.
99-111.
2
Ivi, p.16.
3
Ibidem.
78
dominata dalla letteratura di intrattenimento, quali possono essere il cinema e il fumetto.
Opere cinematografiche come Indiana Jones, o Il mondo nelle mie braccia, in questo senso,
non intaccano in nessun modo le caratteristiche fondamentali della narrativa di avventura e
dell’eroe o avventuriero, pur essendo realizzate nella seconda metà del ‘900. Basti pensare,
d’altra parte, al grandissimo numero di opere cinematografiche di intrattenimento che ancora
oggi vengono realizzate utilizzando ambientazioni esotiche, o addirittura trasponendo classici
della narrativa di avventura.

In effetti, anche osservata dal punto di vista formale, sul piano della temporalità la
letteratura di avventura si prefigge alcuni scopi ben determinati:

Si tratta infatti di restituire il lettore a quei particolari momenti di sospensione in


cui l’essere umano si trova confrontato al rischio di non sapere cosa accadrà dopo,
trasformandone la sporadicità in un tempo narrativo capace di sostenere un universo
romanzesco interamente improntato all’eccitante sensazione provocata dalla deviazione
rispetto alla norma del quotidiano. All’interno di questo universo gli eventi si succedono in
modo intermittente, inframmezzati da brevi momenti descrittivi che forniscono al lettore una
pausa di distensione necessaria a ricaricare la tensione narrativa. 1

In questo senso, cinema e fumetto sembrano rivelarsi fin da subito (ed effettivamente fu così)
come tecniche perfette per le narrazioni di tipo avventuroso, essenzialmente perché basate sul
montaggio visivo, che in generale non fa altro che selezionare, all’interno di un continuum
temporale, alcuni momenti, e imprimerli in un supporto, osservati da un determinato punto di
vista. Il fatto che il fumetto faccia questo utilizzando una serie di ‘fermo immagine’ rinforza
ancora di più l’impressione di trovarsi di fronte ad un mezzo che seleziona non soltanto i tratti
di tempo più significativi (come il cinema) ma addirittura i singoli momenti, montati in modo
che il lettore li possa collegare in una storia coerente. Tutto ciò, per quanto riguarda il
fumetto, si unisce al potenziale offerto dal disegno, che permette all’autore un’estrema libertà
stilistica, e che ben si adatta alle necessità dei momenti descrittivi, soprattutto se applicati
all’esotismo: un fumetto come Corto Maltese lo dimostra, con la sua alternanza di tavole di
azione e di grandi, elaborate e raffinate tavole che mostrano paesaggi e culture esotiche ed
affascinanti.2

1
Ivi, p. 102.
2
Il disegno è, in questo senso, ciò che distingue il fumetto, e le infinite possibilità artistiche che porta con sé, da
altre forme narrative come il fotoromanzo, sino ad oggi decisamente meno rilevanti dal punto di vista artistico, e
anche da quello sociale e commerciale.
79
Questa considerazione è utile per comprendere come mai il discorso di
rielaborazione di modelli classici sia tanto simile in Los viajes de Juan sin tierra, e in
particolare in Río Loco, e in Heart of Darkness, nonostante i modelli presi in considerazione
siano totalmente diversi. Ciò può accadere proprio grazie al successo del modello del
romanzo di avventura inglese di ambientazione esotico, i cui stilemi si andranno a riversare, a
volte con pochissime variazioni, nella cinematografia e nel fumetto di avventura
novecenteschi. Questi, infatti, sono i due bacini dai quali de Isusi attinge al momento di
trovare, imitare, decostruire e rielaborare gli stilemi del romanzo di avventura, e questo spiega
il lungo elenco di citazioni presenti nei quattro volumi, tra i quali opere come Indiana Jones, i
fumetti di Tintin, Peter Pan, Il mondo nelle mie braccia o Casablanca, e Heart of Darkness
stesso.

Questo non significa che l’opera di de Isusi dimostri verso ognuna di queste opere
così diverse lo stesso atteggiamento di ammirazione, o al contrario lo stesso giudizio
totalmente negativo. Significa piuttosto che tutte queste opere ‘servono’ all’autore in quanto
rielaborazioni dello stesso modello, il quale è a sua volta talmente elastico da poterle
contenere tutte. Servono anche, d’altra parte, ad iscrivere gli stessi volumi di Los viajes de
Juan sin tierra proprio in quella tradizione, decostruita, rielaborata per il presente di un
mondo che ha il disperato bisogno di decolonizzarsi. Intento non semplice da realizzare,
quest’ultimo, se si considera che la tradizione della narrativa di avventura nacque proprio
dall’esperienza coloniale, dallo spazio coloniale e da tutto ciò che esso portava con sé a livello
dell’immaginario: per esempio, il concetto stesso di esplorazione, il cui senso, parlando di
terre già abitate, può sussistere solamente in una visione del mondo coloniale; ma anche,
d’altra parte, la necessità di fornire una giustificazione epica ed etica ad un’avventura
coloniale dalle caratteristiche morali discutibili.

All’opera di de Isusi, quindi, possiamo applicare ciò che Dolce scrive riguardo alle
rielaborazioni postcoloniali dei testi del canone occidentale:

La natura polifonica e dialogica del testo postcoloniale ne rivela l’elaborata


struttura di “tessuto” composto dall’intreccio di molteplici fili che si richiamano a ciò che è
già stato scritto e detto; le complesse relazioni testuali, che si allargano ad abbracciare non
solo i classici della tradizione letteraria ma il testo assai più ampio e problematico della
società, della cultura e delle ideologie di cui lo stesso classico si fa portavoce, rappresentano il
80
substrato profondo dell’opera che si presenta come “relazionale”, ricca di implicazioni,
aperture e prospettive sempre nuove in virtù di tale stimolante rapporto.1

È in questo senso che Los viajes de Juan sin tierra può decostruire e rielaborare i classici
della narrativa di avventura, membri di un particolare canone che, seppur non parte della
cultura ‘alta’, ha avuto un ruolo molto significativo nella formazione dell’immaginario
occidentale, e nel consolidamento di una serie di relazioni sociali tra il Nord e il Sud del
mondo. Nei confronti di questo canone, l’opera di de Isusi si pone in una posizione di eredità
e superamento. In particolare, nei primi due volumi prevale il tentativo di rimanere al’interno
di quella tradizione, spostando il significato di alcuni dei suoi stilemi, ma mantenendoli
intatti, come si è cercato di dimostrare. Gli ultimi due, invece, presentano un discorso diverso,
che arriverà, come si vedrà, al punto di rinunciare al concetto di fumetto di avventura
nell’ultimo volume. Prima di arrivare a questo, tuttavia, bisogna passare attraverso una sorta
di ‘resa dei conti’, rappresentata ancora una volta dal confronto tra Río Loco un modello che
è, a tutti gli effetti, parte fondamentale del canone del fumetto, di avventura e non solo: le
storie di Corto Maltese, di Hugo Pratt.

1 Dolce, Maria Renata, “Con-test/azioni postcoloniali”, cit., p.182.

81
III
DECOLONIZZARE L’EROE

III.1. Los viajes de Juan sin tierra e le storie di Corto Maltese.

III.1.1. Un rapporto ambiguo con l’avventura.

I fumetti di Hugo Pratt, e soprattutto quelli con protagonista Corto Maltese, sono oggetto di
una fittissima serie di riferimenti nel corso di tutti i quattro volumi di Los viajes de Juan sin
tierra. Questi riferimenti sono di vario genere, a volte a livello grafico, con la presenza di
vignette simili, o nell’aspetto di alcuni personaggi; a volte a livello della trama, con la
citazione di episodi simili. In due momenti di Río Loco Corto Maltese viene addirittura
nominato o disegnato: nelle prime pagine del volume compare la sua ombra, non vista dai
personaggi, nel momento in cui Héctor sta raccontando del suo desiderio di seguire i passi di
Corto alla ricerca di El Dorado, e successivamente si parla delle mappe presenti in quella
storia di Hugo Pratt come strumento per cercare la mitica città dell’oro. Lo stesso aspetto
fisico di Vasco è costruito per ricordare in certi tratti il marinaio di Hugo Pratt: alto, slanciato,
bruno, con un orecchino circolare all’orecchio sinistro e lunghe basette disegnate con un
rapido tratto di china a zig-zag. Allo stesso modo, i due personaggi hanno entrambi un’origine
misteriosa e ‘mista’ (Corto è maltese, figlio di una gitana e di un marinaio della Cornovaglia
ma presto scomparso, Vasco è portoghese, anch’egli però di padre ignoto, probabilmente
basco).

I riferimenti ai fumetti di Hugo Pratt, in ogni caso, si concentrano soprattutto in un


volume, Río Loco, e rimandano soprattutto a tre raccolte, che sono poi quelle in cui le
avventure di Corto Maltese si svolgono nell’America meridionale: Suite Caribeana, Le
lagune dei misteri e Lontane isole del vento. La prima vignetta di Suite Caribeana, e più
precisamente della storia intitolata Bocca Dorata e il segreto di Tristan Bantam, in
particolare, è richiamata esattamente nella prima vignetta di Río Loco, che vede Vasco seduto
su una veranda nella stessa posizione di Corto Maltese. Riguardo a quest’ultimo, una
didascalia a fianco a questa vignetta recita: “Corto Maltese si riposava pigramente nell’unica
veranda della pensione ‘Java’ a Paramaribo (Guyana Olandese). Si vedeva subito che era ‘un
uomo del destino’. Con un gesto misurato, accese uno di quei sigari sottili che si fumano solo

83
in Brasile o a New Orleans: stava recitando per un pubblico invisibile. Ad un tratto la
rappresentazione venne interrotta.”1 In questa descrizione troviamo fin da subito tutti gli
elementi essenziali del complesso immaginario dei fumetti di Corto Maltese: un protagonista
affascinante, libero e misterioso, che non perde mai il controllo delle proprie vicende (‘uomo
del destino’), e un’ambientazione esotica fin nei minimi particolari: la poltrona, il sigaro
dichiarato introvabile per chiunque non si trovi in Brasile o a New Orleans.

Queste caratteristiche rispondono esattamente agli stilemi classici della narrativa di


avventura che nasce in Inghilterra verso la fine dell’800. Prima di tutto, la figura dell’eroe:

Strappati al tempo della biografia, gli eroi non muoiono, non invecchiano e non
subiscono grandi evoluzioni interiori. Essi esistono esclusivamente in funzione di un universo
dove gli eventi narrativi non formano la personalità dell’individuo, ma si limitano a
determinarne il destino di avventuriero verificando e confermando una serie di qualità che egli
possiede fin dall’inizio.2

Corto Maltese, in questo senso, riappare uguale all’inizio di ogni storia, per quanto difficile e
dolorosa possa essere stata la fine di quella precedente, e tra queste storie non è riscontrabile
un vero e proprio ordine cronologico, se non nella ricomparsa di alcuni personaggi, in una
temporalità non più lineare ma quasi ciclica. Sebbene Corto, poi, possieda anche qualità
diverse da quelle normalmente presenti negli avventurieri, come indipendenza di spirito,
capacità di analisi profonda, una certa onnipresente malinconia e un fascino anche
intellettuale, queste qualità sono perenni, sempre presenti e vengono ogni volta riconfermate,
come nella tradizione.

Per quanto riguarda l’ambientazione, poi, “il mondo dell’avventura si situa


decisamente al di fuori della quotidianità e questa rottura è l’elemento essenziale a partire dal
quale esso costruisce le coordinate spazio-temporali che gli sono proprie.”3 Le avventure di
Corto Maltese, in questo senso, si svolgono in molti angoli diversi del mondo, sempre però
connotati dalla loro distanza dalla normalità, dal loro esotismo. Si può definire l’esotismo
come “una rappresentazione immaginaria dell’Altro e dell’Altrove, che si costruisce a partire
da una proiezione dei desideri del soggetto.”4 I luoghi visitati da Corto, quindi, saranno

1
Pratt, Hugo, “Bocca Dorata e il segreto di Tristan Bantam”, in Suite Caribeana, Milano, Rizzoli, 1990, p. 17.
2
Carmagnani, Paola, Luoghi di tenebra, cit., p. 99.
3
Ibidem.
4
Ivi, p. 32.
84
sempre quanto più esotici possibili, e lo stesso vale per i personaggi che li popolano:
risponderanno cioè quanto più possibile ai desideri di un pubblico che li vuole vedere diversi
da sé, desiderio ancor più appagato dal breve apparato geografico e antropologico che precede
ogni storia. Gli indios del sud America, per esempio, avranno volti completamente tatuati,
porteranno strane armi, e saranno dotati di misteriosi poteri, come si vedrà al momento di
analizzare alcune storie nel dettaglio. Ma lo stesso vale anche per luoghi più ‘vicini’ come
Venezia, che diverrà quanto più nebbiosa, magica e misteriosa possibile1, o per l’Irlanda, di
cui i disegni di Hugo Pratt ci mostrano tutte le caratteristiche più affascinanti: i simboli strani,
le brughiere verdissime, gli strumenti musicali celtici.2

Tuttavia, all’interno di questa ripresa dei modelli classici, nei fumetti di Corto
Maltese si aprono spiragli di una consapevolezza del tutto nuova. Nel caso della didascalia
citata all’inizio, per esempio, troviamo una frase come “Stava recitando per un pubblico
invisibile.”, che fa precipitare il lettore in uno strano mondo in cui i protagonisti di avventure
magiche e misteriose si dimostrano malinconici, some se sapessero che il tempo
dell’avventura sta finendo. Per esempio, dopo che Corto Maltese ha chiesto ad uno dei suoi
nemici in Suite Caribeana una spiegazione sulle complicate macchinazioni
dell’organizzazione di quest’ultimo (documenti falsi, evasione di prigionieri dalla Caienna,
coinvolgimenti con le grandi potenze europee), costui risponde, sarcasticamente, “Perché non
scrivi romanzi di avventure?”3 Un altro nemico lo apostrofa chiamandolo “eroe tascabile”, e a
questo epiteto Corto risponde, sfoderando un coltello: “Non voglio essere un eroe… mi basta
essere un mozza-teste!”4 Si instaura quindi un complicato gioco, sempre in bilico tra due poli:
l’uno costituito dalla sospensione dell’incredulità e dall’adesione totale alle caratteristiche
della narrativa di avventura, e l’altro dal continuo ricordarsi che quelle narrate sono avventure
fantastiche ma irreali.

In un altro punto della stessa storia, Corto suggerisce al professor Steiner che lo
accompagna di scrivere degli appunti, un diario di viaggio da rivendere poi per guadagnare un
po’di soldi. In questo modo Pratt rivela la stretta parentela tra la narrativa di avventura e il
resoconto di viaggio in terre esotiche, di cui già si è parlato trattando del parallelo tra Río
Loco e Heart of Darkness, che viene esplicitata anche nella costante presenta di un apparato

1
Cfr. Pratt, Hugo, Favola di Venezia, Milano, Rizzoli, 2009.
2
Cfr. Pratt, Hugo, Le Celtiche, Milano, Rizzoli, 2003.
3
Pratt, Hugo, “Bocca Dorata e il segreto di Tristan Bantam”, cit., p. 32.
4
Ivi, p. 52.
85
cartografico che precede ogni storia di Corto maltese. Tuttavia, nel momento stesso in cui
Pratt sembra esplicitare l’appartenenza della sua opera alla classica narrativa di avventura,
nuovamente ci troviamo alle prese con una strana dichiarazione di quello che dovrebbe essere
l’eroe classico di queste avventure, che al ragazzo che gli chiede perché non scriva lui stesso
un diario, risponde: “Vedi, Tristan, se scrivessi, ammesso che lo sappia fare, finirei per falsare
i fatti e i caratteri di quelli che ho conosciuto. Per me è meglio così: vivere senza storia…”1
La narrazione, quindi, si palesa come elemento di falsificazione o di distanza dal reale, e
questa dichiarazione entra in una sorta di corto circuito nel momento in cui la si relaziona
all’evidente status di narrazione dei fumetti di Hugo Pratt.

Un simile gioco di ambiguità è riscontrabile anche nel rapporto tra le avventure di


Corto Maltese e la realtà sociale in cui sono immerse. Le avventure del marinaio creato da
Hugo Pratt si svolgono quasi tutte nel periodo della prima guerra mondiale, agli inizi del ‘900:
un periodo critico di passaggio in cui una serie di caratteristiche che rendevano possibile la
narrativa di avventura volgono al termine. Da una parte, infatti, i mezzi di comunicazione non
avevano ancora rimpicciolito il mondo alle distanze che conosciamo oggi: viaggi come quelli
di Corto Maltese erano ancora pericoloso appannaggio di pochi coraggiosi, e tanti erano
ancora i territori inesplorati o quasi (ovviamente dal punto di vista dell’uomo bianco). Nella
stessa Europa, d’altra parte, rimanevano luoghi di mistero, le distanze erano ancora
significative, e fenomeni globalizzanti come il turismo erano ancora ben lontani. Dall’altra
parte, tuttavia, l’economia e la politica si facevano sempre più internazionali, ed infatti molti
sono gli affaristi europei in giro per il mondo nelle pagine di Pratt, spesso in ruoli non
positivi. Ma persino un personaggio positivo come Bocca Dorata, una misteriosa maga che
con i suoi poteri aiuta una serie di lotte di liberazione in Brasile, ottiene il denaro necessario
da una ‘Finanziaria Internazionale’, e non esita a schierarsi con una o con l’altra delle potenze
europee in conflitto.

Lo stesso conflitto è, per l’appunto, il primo conflitto ‘mondiale’: per la prima volta
le potenze occidentali si combattono coinvolgendo popolazioni provenienti da i più diversi
angoli del mondo. La prima storia di Corto Maltese scritta da Pratt, La ballata del mare
salato, si sviluppa proprio sullo sfondo della battaglia tra americani e tedeschi nel pacifico,
portata avanti però con mezzi che hanno ancora tracce di avventura, ossia con pirateria e basi
misteriose. Il colonialismo, quindi, è ancora un fattore importante, in quanto costituisce la

1
Ivi, p. 38.
86
motivazione grazie alla quale un bianco come Corto Maltese può essere coinvolto in
innumerevoli avventure in giro per il mondo, in ognuna delle quali sono coinvolti bianchi: ad
esempio ricchi ragazzini sperduti nel Pacifico dopo che il loro ricco yacht ha fatto naufragio, i
loro ricchi parenti e soldati tedeschi e americani, per quanto riguarda La ballata del mare
salato. Riguardo a ciascuno di questi segnali della modernità (la nuova importanza del
denaro, la guerra mondiale, il colonialismo), Corto Maltese mantiene un rapporto ambiguo.
Nemico delle ideologie, non si schiera con nessuna delle parti in conflitto, ma non esita a
sfruttare la situazione per i propri interessi. Questi interessi sono, d’altra parte, spesso di
ordine dichiaratamente economico: all’inizio di ogni avventura, Corto è ben deciso a sapere
quali saranno i vantaggi economici che l’avventura potrà portargli, salvo poi spesso
rinunciarci alla fine per motivi morali. In ogni caso, non sembra mai soffrire di grossi
problemi economici.

Quest’ambiguità è palese, tanto che il professor Steiner, che lo accompagna in varie


avventure, gli dice “Non riesco a capirti: hai degli atteggiamenti da uomo generoso, onesto…
e poi tutt’a un tratto diventi freddo e calcolatore…”1, ma Corto non risponde a
quest’interrogativo. Forse, la risposta risiede in un’altra affermazione di Corto, che, dovendo
motivare un suo gesto di generosità gratuita, dichiara: “Forse sono il re degli imbecilli,
l’ultimo rappresentante di una dinastia completamente estinta che credeva nella generosità,
nell’eroismo…”. A queste parole, lo stesso Steiner risponde: “Capito, sei un boy-scout
frustrato.”2 Nelle parole di Corto si potrebbe leggere proprio il senso di un periodo di
passaggio, al quale non appartengono già più gli eroismi, e che già si è votato ad altri modi di
vita, più pratici e meno poetici. I gesti eroici, però, rimangono possibili, per lo meno dal punto
di vista estetico, come imitazione di un passato che sta sfumando, e verso il quale non si può
provare che malinconia. La risposta di Steiner, tuttavia, fa ripiombare tutto questo
ragionamento in nuovo dubbio: questi eroi sono mai esistiti davvero? O forse la realtà è
sempre stata diversa, e solo nella malinconia e nella fantasia si possono ritrovare gli eroi? Le
stesse ricerche impossibili nelle quali si imbarca Corto (El Dorado, il continente perduto di
Mu) terminano quasi sempre in maniera nebulosa, che mantiene il fascino dell’oggetto
cercato ma non risolve in nessun modo la sua ricerca, forse frutto di fantasia anche all’interno
della narrazione.

1
Pratt, Hugo, “Samba con Tiro Fisso”, in Suite Caribeana, Milano, Rizzoli, 1990, p. 63.
2
Pratt, Hugo, “Bocca Dorata e il segreto di Tristan Bantam”, cit., p. 21.
87
Ma la maggiore ambiguità, e la più interessante ai fini della nostra analisi, la si può
riscontrare nei confronti del colonialismo e delle lotte contro di esso. Proprio in quel periodo,
infatti, le lotte di decolonizzazione e contro le varie manifestazioni dell’imperialismo si fanno
intense, e sono ben presenti nelle opere di Hugo Pratt sin dalla prima storia di Corto Maltese,
La ballata del mare salato, e sempre guardate con simpatia sia dall’autore sia dal
protagonista. Tuttavia, abbiamo già visto come l’esotismo dia un fattore centrale nei fumetti
di Hugo Pratt, ed esso è un atteggiamento difficilmente conciliabile con un intento
decolonizzante. Ed effettivamente, Corto Maltese ha spesso a che fare con personaggi bianchi,
nonostante le ambientazioni esotiche delle sue avventure, e i molti personaggi che bianchi non
sono rimangono sempre ad una certa distanza da lui, come se ‘l’altro’, il soggetto esotico,
rimanesse in qualche modo inconoscibile, nonostante a queste figure e alle loro lotte vada
l’appoggio (quasi) incondizionato del protagonista e dell’autore. È il caso, per esempio, di
personaggi come Cranio ne La ballata del mare salato, che in una conversazione con Corto
dichiara di stare organizzando la ribellione dei popoli oceanici, o di un agente segreto
nigeriano che combatte i tedeschi per liberare l’Africa dai colonizzatori, e alla domanda sul
perché lavori per gli inglesi risponde: “da qualche parte bisogna pure cominciare.” 1 Entrambi
i personaggi, tuttavia, muoiono poco dopo aver dichiarato i propri intenti decolonizzanti,
lasciando i loro progetti in un’indeterminatezza che permette all’autore di continuare ad
ambientare le sue storie in un mondo colonizzato, pur ‘tifando’ per i ribelli. Nei confronti di
questi personaggi, insomma, si mantiene un rapporto di distanza, quel tanto che basta perché
non perdano il loro fascino esotico, e anche la loro minacciosità.2

L’analisi di due storie può aiutarci, in questo senso, a mettere in luce un


atteggiamento complesso dell’autore nei confronti della questione coloniale. La prima è
Samba con Tiro Fisso. In questa storia Corto riceve da Bocca Dorata l’incarico, lautamente
retribuito, di consegnare munizioni e denaro in aiuto alla guerriglia dei banditi dello stato
brasiliano del Sertão contro un ricco (e bianco) proprietario terriero, il quale ha assoldato dei
mercenari per liquidarli. Corto accetta, e, arrivato nel Sertão, aiuta i banditi a vendicare la
morte del loro condottiero, Sebastian il redentore, uccidendo l’esecutore dell’assassinio. Il
nuovo capo, Tiro Fisso, non si ritiene all’altezza del suo predecessore. Corto lo convince,
però, che un capo è solo una persona che sappia prendere le decisioni giuste, e che lui e la sua

1
Pratt, Hugo, “Un’aquila nella giungla”, in Il mare d’oro, Milano, Rizzoli, 2004, p. 32.
2
Per la complessa dialettica tra fascino e distanza nei confronti dell’oggetto esotico cfr. Faeti, Antonio, “Figure
del sogno degli eroi”, in AA.VV, Il romanzo, Vol. II, a cura di Franco Moretti, Torino, Einaudi, 2002, sezione
interna “Iconografie”.
88
banda devono attaccare non più gli esecutori, ma il proprietario terriero, vero responsabile di
tutto.

Tiro Fisso, convinto, diventa il nuovo redentore, e attacca eroicamente la villa del
possidente con la sua banda. La situazione si fa difficile, finché Corto non riesce ad
impossessarsi di una mitragliatrice e a sgominare i soldati che proteggevano la villa. Tiro
Fisso, però, è rimasto ucciso nell’attacco: Corto prende il suo cappello, a afferma “È costata
cara… hanno eliminato il colonnello... ma ci sarà sempre un nuovo colonnello che abuserà di
questa gente…” a queste parole, un ragazzo della banda risponde: “ Per ogni colonnello ci
saranno cento Tiro Fisso, gringo… abbiamo imparato la lezione ed è una lezione che non
dimenticheremo…” A queste parole, Corto affida al ragazzo il cappello di Tiro Fisso: “Prendi
il cappello di Tiro Fisso e continua nel suo nome la lotta contro il drago della malvagità.”, e
organizza un’imponente e simbolica pira funebre per il condottiero ucciso.1

In questa storia è evidente la simpatia del protagonista verso i banditi ribelli, e la sua
avversione contro i proprietari terrieri, ovviamente bianchi, che li sfruttano, tanto intensa da
rischiare la vita per combatterli. Tuttavia, la ribellione narrata, pur essendo di segno politico
opposto rispetto all’imperialismo classico della narrativa di avventura di ambientazione
coloniale, procede lungo gli stessi binari: oltre all’importanza fondamentale dei capi come
guida del popolo, infatti, in questa storia possiamo osservare come Corto, l’eroe bianco della
narrazione, rivesta sempre il ruolo di eroe invincibile che risolve la situazione. Lo fa sia in
senso pratico, con l’azione con la quale si impossessa della mitragliatrice e sgomina i soldati,
e sia in senso politico, decidendo per ben due volte chi verrà investito del ruolo di capo. Nel
primo caso, con Tiro Fisso, è lui stesso a creare la figura di un condottiero, istruendolo:

-Bene, avete ucciso l’esecutore. Ma il vero responsabile? Quel colonnello che vive
di abusi e di crimini all’insaputa del governo centrale, cosa farà? Continuerà a terrorizzarvi
con i suoi pistoleros.
-Cosa posso farci?
-Prendere il posto del redentore!
-Ah! Gringo, sono un bandito, io! Chi potrà seguirmi?
[…]

1
Pratt, Hugo, “Samba con Tiro Fisso”, cit., pp. 76-78.
89
-Comportati come si sarebbe comportato lui e spargi la voce che il redentore è vivo
e combatte ancora contro il colonnello.1

Nel secondo caso, Corto prende il cappello di Tiro Fisso e compie esattamente, anche dal
punto di vista del disegno, il gesto di ‘incoronare’ il successore, conferendogli i poteri. Se,
quindi, sotto il piano politico assistiamo ad una, pur provvisoria, liberazione, sul piano della
narrazione e dei ruoli ci troviamo di fronte al perpetuarsi dei modelli classici dell’avventura,
dei quali pare estremamente difficile liberarsi, senza pagare il prezzo di rinunciare anche agli
aspetti che rendono così affascinanti i fumetti di Hugo Pratt: il protagonista affascinante ed
infallibile e l’esotismo, che rende i coprotagonisti così distanti da noi, ma
contemporaneamente così aderenti alle proiezioni classiche del nostro immaginario, e così
docili nell’ubbidire all’eroe.

Il fatto che rinunciare a queste caratteristiche sia quasi impossibile, all’interno di un


fumetto che voglia rimanere un fumetto di avventura, lo dimostra un’altra storia, Teste e
funghi. Qui, il professor Steiner viene a sapere della possibilità di trovare la mitica El Dorado,
nel cuore della foresta amazzonica, grazie ad alcuni indizi lasciati da precedenti esploratori,
morti nel tentativo (è questa la storia citata in Río Loco da Héctor come fonte della sua ricerca
della mitica città). Parte quindi con Corto Maltese, e i due si inoltrano nel territorio dei
pericolosi indios jivaro, in compagnia di un galeotto francese che conosce la zona e di una
guida locale, Aparia, l’unico della sua tribù che abbia acconsentito ad aiutarli. Quest’ultimo,
appena partiti, afferma: “i nanay [la sua tribù] non amano i bianchi. L’ultima volta ne sono
morti parecchi a causa vostra… […] Avete portato una malattia… più di 70 morti… donne,
bambini… e guerrieri… ora i nanay non possono più difendersi e sono costretti ad accettare
l’aiuto dei bianchi.”2 Dopo un incontro ravvicinato con un enorme boa, ucciso solo grazie alla
prontezza di Corto, la spedizione avvista il luogo che stava cercando. Qui, però, cadono in
un’imboscata, nella quale si scopre che Aparia è loro nemico, e aveva architettato tutto fin
dall’inizio, e a Corto che lo chiama traditore risponde:

Io non sono tuo amico… io odio i bianchi! […] I bianchi come Corbett-tha
[l’esploratore inglese di cui la spedizione seguiva le tracce] vengono a cercare pietre e
sogni… ma per causa loro i cercatori d’oro, di smeraldi, arrivano e uccidono gli indiani… ci
mettono in lotta gli uni contro gli altri… ci fanno un sacco di promesse che non mantengono e

1
Ivi, pp. 70-71.
2
Pratt, Hugo, “Teste e Funghi”, in Lontane isole del vento, Roma, Lizard, 2001, p. 21.
90
ci costringono a nasconderci nella giungla… la vostra morte fermerà i bianchi per qualche
tempo.1

Dopo questo discorso, Aparia li minaccia di torturarli, uccide il francese che aveva ingerito
dei funghi per non soffrire, e in preda all’ira si avvicina con il coltello alzato a Corto, che è
legato. Steiner urla vedendo uccidere il suo amico, e in questo momento si sveglia: tutta la
storia era infatti un sogno di Steiner.

Questa storia, dopo un inizio nell’impronta più classica possibile della narrativa di
avventura (bianchi alla ricerca di El Dorado, in una spedizione nella foresta amazzonica con
una vecchia mappa, e una fedele guida indigena), rappresenta un improvviso capovolgimento
della tradizione: la guida tradisce, e i cattivi vincono. Ma non basta questo: i cattivi infatti non
hanno torto: sebbene Aparia venga mostrato come un personaggio crudele e sciocco nel suo
spietato desiderio di vendetta, le sue argomentazioni sono corrette, non solo da un punto di
vista contemporaneo, ma per lo stesso Pratt, che fa pronunciare gli stessi concetti in maniera
estremamente simile ad un altro indio, questa volta personaggio totalmente positivo, nella
storia Nonni e fiabe.2 Lo stesso Aparia, peraltro, si comporta diversamente dalla sua tribù
(quella vera, i jivaro), i quali, seppur d’accordo con l’uccidere i bianchi, non ne condividono
la crudeltà.

Insomma, questa volta il bianco Corto Maltese si trova dalla parte della barricata in
cui la storia ‘reale’ lo avrebbe posizionato, nonostante le sue idee politiche: quella del
rappresentante dell’imperialismo occidentale, ruolo che, per quanto lo disgusti, assume
effettivamente nel momento in cui si dimostra eroe infallibile e insostituibile, senza il quale,
come nel caso di Samba con Tiro Fisso, le ribellioni fallirebbero. Hugo Pratt sembra perciò
essere ben consapevole delle enormi contraddizioni presenti nelle sue narrazioni, e invece di
ignorarle le fa diventare motivo di fascino, rendendo il suo protagonista un incomprensibile
mistero. Nel caso di Teste e funghi, poi, sembra volerle risolvere, per una volta, abbracciando
uno di possibili poli della contesa: quello della lotta antimperialista, anche se ciò significa la
morte del suo protagonista. Questa, tuttavia, sarebbe insostenibile e rappresenterebbe la fine
della sua narrazione: non gli resta perciò che narrarla come un sogno, un’ipotesi irrealizzabile,
perlomeno all’interno della sua opera.

1
Ivi, p. 26.
2
Pratt, Hugo, “Nonni e fiabe”, in Le lagune dei misteri, Roma, Lizard, 2002, p. 45.
91
III.1.2. Vasco e Corto Maltese.

Come abbiamo detto, l’aspetto di Vasco è costruito a partire da quello di Corto Maltese.
Tuttavia, non solo l’aspetto risponde ad una precisa somiglianza, ma anche una serie di
caratteristiche: la prontezza e l’abilità fuori dal comune mostrata in alcuni momenti, la
determinazione, la capacità di mantenere intorno a sé un alone di mistero nei confronti degli
altri personaggi, ed anche l’espressione ripetuta della volontà di non schierarsi, pur confutata
dalle azioni. In questo senso, nei primi due volumi di Los viajes de Juan sin tierra, e pur
mantenendo l’analisi fatta nel primo capitolo del seguente lavoro su quanto le vicende narrate
esprimano una chiara volontà decolonizzante, si può osservare un’ambiguità (ovviamente
consapevole) molto simile a quella riscontrabile nelle pagine di Hugo Pratt. Questa ambiguità
sussiste proprio nel rapporto tra le istanze decolonizzatrici e il ruolo di insostituibile risolutore
affidato al protagonista bianco. Già nel secondo volume, tuttavia, la questione viene affrontata
di petto dall’autore, nel modo che si è già descritto parlando della rielaborazione fatta da de
Isusi rispetto a Peter Pan. In questo volume, infatti, il ruolo di Vasco, pur rimanendo quello di
protagonista della narrazione, passa da protagonista a comprimario se si prende in
considerazione solamente la vicenda di vendetta e ribellione nei confronti di Don Jaime.

È nel terzo volume, però, che il rapporto del protagonista con l’ideale di eroe
rappresentato da Corto Maltese viene più analizzato, ed entra più in crisi. Si è già detto come
la prima vignetta del volume sia una citazione dalla prima vignetta di Bocca Dorata e il
segreto di Tristan Bantam: Vasco è nella stessa posizione e ha lo stesso atteggiamento di
Corto Maltese in quella vignetta. Tuttavia, se Corto stava “recitando per un pubblico
invisibile” e, seppur interrotto, si vedeva benissimo come fosse “un uomo del destino”, per
Vasco la situazione è diversa. Prima di tutto per quanto riguarda i sigari, come ragiona lo
stesso Vasco, che “Antes sólo se fumaban en Brasil… o en Nueva Orleans”, e che invece ora
si possono trovare tranquillamente anche a Coca, in Ecuador, con la perdita di mistero che ne
consegue. Ma lo spostamento più interessante si ha con l’arrivo dell’elemento che disturba la
situazione, questa volta Laura/Napo, la quale inizia così il suo dialogo con Vasco:

-Hola, gringo, ¿me das un cigarrillo?

92
-Claro.
-¿Dónde está?
-¿Quién?
-La cámara?
-¿Qué cámara?
-¿No hay nadie grabándote?
-No te entiendo.
-¿Estás actuando para un publico invisible?
-¿Cómo?
-Vamos, vamos, ahora no disimules. Ese gesto de fumar, lo tienes muy estudiado...
¡Y mira qué manera de descansar! Está claro que estás posando. Quieres parecer un
aventurero, ¿a qué no?1

In questo dialogo, Laura esplicita, e quindi distrugge, ciascuno degli aspetti che rendevano
quella scena un perfetto inizio per una narrazione d’avventura, e pronuncia le stesse frasi che
venivano riferite a Corto Maltese. Tuttavia, in quel caso erano scritte come voce fuori campo,
e questo non faceva che aumentare l’aura di mistero nella quale era avvolto il protagonista.
Qui, invece, quest’aura viene distrutta proprio perché l’atteggiamento di Vasco viene
mostrato nella sua costruzione stereotipata e sostanzialmente falsa. Inoltre, questo
atteggiamento diventa ancor più falso se giudicato nel mondo contemporaneo in cui tutto può
essere ripreso di continuo e diventare immagine. Infatti, mentre Corto agiva in un periodo in
cui le cineprese muovevano i primi passi, a Vasco tocca fare l’avventuriero in un tempo di
iperesposizione alle immagini, il che rende qualunque atteggiamento passibile di essere
giudicato in base a modelli ormai internazionali. In questa prima pagina, insomma, de Isusi
sembra dirci che l’avventura non è più possibile nel mondo contemporaneo. Ciò che segue,
invece, sarà segnato dalla riflessione su quanto l’avventura, intesa in senso classico, sia
desiderabile e giusta, oggi.

Se fin dall’inizio del volume la condizione di Vasco è ben lontana da quella di


‘uomo del destino’, per tutta l’opera questa distanza non fa che aumentare, prima nella noia
sul traghetto che, lentamente, risale il fiume Napo, alla quale Hugo Pratt, probabilmente, non
avrebbe dedicato più di una vignetta panoramica, per passare poi ad altro. Ma sono soprattutto
i continui fallimenti a cui Vasco deve far fronte nel suo tentativo di trovare Juan, che si
mescolano alle sue insicurezze e incertezze, e che lo portano a intraprendere un viaggio con
una meta incerta, un compagno poco esperto e una guida inaffidabile, in una condizione di

1
RL, p. 9.
93
insicurezza e precarietà nella quale un eroe ‘perfetto’ come Corto mai si potrebbe trovare. Il
confronto tra i due tipi di eroe culmina poi con lo smarrimento nella selva di Vasco.

Questo episodio, infatti, richiama molto da vicino un episodio presente nella storia
di Hugo Pratt Nonni e fiabe. Qui, Corto Maltese viene incaricato da un celebre medico inglese
di ritrovare suo nipote, meticcio, dopo la morte del padre di quest’ultimo, il figlio del medico,
che si era stabilito nel cuore della foresta amazzonica ed era stato ucciso dai cacciatori di
schiavi. Corto parte in compagnia di un indio saggio e tranquillo, seppur dotato di un aspetto
quanto mai strano ed esotico, che si scoprirà poi essere il potente stregone Marangwe.
Rimasto temporaneamente solo, Corto appoggia incautamente la mano su un tronco, e viene
morso sul braccio da un serpente corallo. Sa di dover fare qualcosa prima che il veleno si
diffonda, e quindi prende in mano la sua pistola e si spara sulla ferita. Viene poi trovato da
Marangwe che lo cura e lo aiuta a rimettersi, salvandolo. Tuttavia, lo stesso Marangwe gli
dice: “Il veleno te lo sei sparato via quasi tutto con quel colpo di pistola… sei un uomo
coraggioso.”1

In Río Loco Vasco viene coinvolto in un episodio molto simile, ma le cui sottili
differenze molto rivelano di ciò che de Isusi sta tentando di fare con la figura del suo
protagonista. Vasco infatti, dopo che la guida ha abbandonato lui e Héctor e quest’ultimo è
partito con la canoa, continua il suo cammino nella selva, smarrendo però ben presto
l’orientamento. In preda allo sconforto e alle allucinazioni, appoggia la mano su un tronco, e
tocca una rana dardo, tanto colorata quanto letale al solo contatto. In preda al panico cerca il
suo machete per tagliarsi la mano e impedire il diffondersi del veleno, ma scopre che lo ha
perso tempo prima, insieme alla bussola e a tutto il suo equipaggiamento. Dopo questa
scoperta è convinto di morire e si accascia a terra in preda alle visioni. In realtà, però, viene
ritrovato da Napo, e dopo un lungo sogno si risveglia, grazie alle cure di quest’ultimo e di suo
nonno, lo sciamano della tribù.

Pur essendo questi due episodi molto simili, le differenze sono evidenti: Corto coglie
al volo una nuova occasione per dimostrare quanto è pronto di spirito e coraggioso, e
conquistarsi il rispetto della sua guida, che sì, lo aiuta a salvarsi, ma senza togliergli la
maggior parte del merito. Vasco invece si rende protagonista di una lunga serie di errori: si
perde, perde gli utensili (che sono uno dei modi fondamentali in cui l’eroe bianco può

1
Pratt, Hugo, “Nonni e fiabe”, cit., p. 46.
94
sopravvivere nella selva, come si vede bene con la pistola di Corto), e morirebbe di certo se
non venisse salvato. Il suo ruolo in questo episodio, quindi, è del tutto passivo, come poco si
addice ad un eroe. Persino il tipo di animale ci suggerisce una differenza. Se, da una parte,
entrambi sono animali quanto mai esotici, colorati e pericolosi, che ben si addicono
all’immaginario dell’avventura, dall’altra sono animali che instituiscono un diverso rapporto
con l’uomo. Il serpente, infatti, è un predatore, che morde per cacciare le sue prede, e se nei
confronti dell’uomo la sua reazione è più che altro di difesa, esso non perde tuttavia la sua
connotazione di animale aggressivo nell’immaginario comune. La rana dardo, al contrario, è
un animale pacifico, che nelle stesse pagine si mostra come immobile. È il protagonista,
insomma, che ha tutta la colpa nel posare la mano su di essa, e questo atto passa dall’essere
una semplice fatalità (come per Corto) all’essere una mise en abyme di una relazione errata
del personaggio occidentale con l’ambiente che lo circonda, come Napo non esita a far notare
a Vasco: “En general ustedes los blancos son un desastre en la selva, déjame que te diga. En
lugar de conpenetrarse con ella la tratan como su enemiga, y como no pueden vencerla se
ponen nerviosos.”1

Il passaggio dall’eroe perfetto ad un protagonista fallibile, e fallimentare, porta


quindi con sé una riflessione del tutto nuova sul ruolo dell’altro e dell’ambiente, che non sono
più relegati ad una posizione di mero esotismo, ma diventano soggetti a tutti gli effetti. È in
questo senso, infatti, che possiamo leggere le differenze tra l’immagine degli indios nelle
storie di Hugo Pratt e nei volumi di de Isusi. Un personaggio come Marangwe, infatti, pur
essendo totalmente positivo, e pur instaurando un dialogo con Corto che va ben oltre la
relazione di poco conto che poteva avere un eroe ‘coloniale’ con i personaggi nativi, rimane
immerso in un’alterità incolmabile, evidente anche dal suo aspetto così strano: il volto tatuato,
le piume nei capelli e una pelle di leopardo sulla schiena. In lui, insomma, convivono i due
aspetti dell’esotico: è attraente e distante al tempo stesso. Proprio grazie alla distanza che
mantiene rispetto alla normalità, può continuare ad essere dotato di attributi soprannaturali:
resiste a tre colpi di pistola sparatigli addosso a bruciapelo dai trafficanti di schiavi.
Marangwe verrà poi salvato dal medico inglese che aveva pagato la missione, il quale si
dichiara però stupito di come lo stregone sia stato capace di bloccare le emorragie interne
provocate dalle pallottole. Personaggio occidentale e personaggio esotico, quindi, dialogano e
si aiutano, in una relazione che è sicuramente un passo avanti rispetto ad altri esempi della

1
RL, p. 172.
95
narrativa di avventura, ma ognuno dei due si salva da solo, con i propri mezzi,
sostanzialmente incomunicabili.

Nel finale del terzo e soprattutto nel quarto volume di Los viajes de Juan sin tierra,
invece, Vasco arriva ad avere una vera relazione con alcuni indios della tribù di Napo, e
questo accade grazie ad una maggiore apertura di entrambi i poli della relazione, rispetto a
quella a cui assistiamo nei fumetti di Hugo Pratt. Da una parte, come si è detto, il protagonista
fallisce, e il suo fallimento apre le porte ad un rapporto con l’altro che nasce sotto il segno di
una temporanea inferiorità e dipendenza del malato rispetto a colui che lo salva. Dall’altra, gli
indios di de Isusi sono lontani dagli stereotipi esotici. Il loro aspetto, prima di tutto, è
semplice, e pur essendo nudi non stuzzica particolarmente l’immaginario esotico. In ogni
caso, l’indio con cui Vasco stringe un rapporto più intenso è Napo, e si è già analizzato
precedentemente quanto questo personaggio sia portatore di una visione dell’essere indio
decisamente lontana non solo dall’immaginario esotico, ma anche da qualunque
essenzialismo. Privando i due poli del contatto tra europei e indios dei loro attributi classici, si
apre quindi la possibilità di una vera e propria relazione, e di una maturazione del
protagonista, che arriva a coinvolgere non solo le sue idee sugli indios, ma soprattutto la sua
interiorità, e il rapporto che egli ha con la sua vita e la sua storia.

III.2. La distruzione di un personaggio.

Può essere interessante, a questo punto, analizzare più da vicino due opere cinematografiche
citate nel quarto volume delle avventure di Vasco, ormai inscrivibili nell’ambito dei classici:
Il mondo nelle mie braccia, di Raoul Walsh, del 1952, e il più celebre Casablanca, di Michael
Curtiz, del 1942.

Il primo viene nominato da Elsa, una ragazza belga conosciuta da Vasco a Salvador
de Bahia, che, giocando ad indovinare il mestiere di Vasco, coglie nel segno nominando il
mestiere che Vasco ha abbandonato solo pochi anni prima: il marinaio. Una volta indovinato,
Elsa dice che sicuramente Vasco aveva scelto quel mestiere perché voleva essere come il
personaggio di Gregory Peck in quel film: un capitano di una veloce barca a vela in cerca di
avventure, alle prese con simpatici pirati messicani, belle principesse russe e i loro crudeli
pretendenti. Vasco risponde, stupito della perspicacia di lei, che era proprio così: “El caso es
96
que has acertado. De algún modo quería ser como el hombre de Boston, viajar mucho y correr
aventuras.”1 Tuttavia, questa affermazione, rivolta al passato e riguardante sostanzialmente
l’infanzia di Vasco, nasconde considerazioni più complesse. Prima di tutto, la difficoltà di
Vasco ad assumere il ruolo di eroe classico, anche in questo caso, e sin da bambino: “¡Cuando
éramos pequeños Juan y yo pasábamos tardes enteras jugando a ella [la película]! Aunque
siempre era él Gregory Peck, a mí me tocaba ser el esquimal que le seguía a todas partes
diciendo ‘voy, voy’.”2 Come già visto in molti casi, troviamo anche qui l’espressione di una
difficoltà ad occupare il ruolo di protagonista/eroe all’interno delle imitazioni dei modelli
classici, o quantomeno un’ambivalenza di posizioni e un contrasto tra i desideri, condizionati
dai modelli culturali di riferimento, e la realtà.

È importante notare, d’altra parte, come del modello di avventura presentato in


questo film, che viene dichiarato impossibile, ancorché apprezzato, de Isusi metta in luce
proprio l’aspetto che maggiormente rimanda all’ambito dell’avventura di stampo esotico: il
personaggio dell’eschimese. Il protagonista del film, infatti, ‘il bostoniano’ impersonato da
Gregory Peck, ha due personaggi che lo seguono fedelmente, un americano detto ‘il profeta’,
e, appunto, l’eschimese, e Vasco racconta che nei loro giochi di bambino egli impersonava
proprio quest’ultimo. Questo personaggio, nel film di Walsh, è un concentrato di stereotipi
che lo rendono il classico personaggio non euroamericano simpatico, spalla del protagonista:
incredibile forza bruta (sfonda con la testa portoni e interi gruppi di nemici), strane abitudini
alimentari ed igieniche (puzza perennemente di pesce), e una particolare vicinanza agli
animali (parla con una foca). Tutto ciò non rende questo film un film platealmente razzista o
imperialista, anzi: nel film si può trovare una certa morale pacifista e di rispetto verso la
natura, e lo stesso personaggio dell’eschimese è forse il più simpatico dell’intera vicenda, ed è
anche un abile pilota (ruolo non secondario su una nave), dimostrando quindi di non essere
privo di intelligenza. La sua è, però, un’intelligenza pratica, che non può mai rivaleggiare con
quella dei protagonisti, immersi in ben altri ragionamenti e sentimenti, e nemmeno con quella
dell’altro personaggio secondario, ‘il profeta’.

Un discorso molto simile si può applicare, d’altra parte, al film Casablanca, che nel
fumetto viene citato solo indirettamente, essendo Casablanca il nome che Vasco da al bar che
apre a Lisbona dopo essersi ritirato dalla vita da marinaio. Nel caso di Casablanca, infatti,

1
TdlST, p. 61.
2
Ibidem.
97
troviamo il personaggio di Sam: nero, amico del protagonista, con una parlata stereotipata da
afroamericano, è un personaggio indubbiamente positivo e simpatico, nonché assai dotato
come musicista. Fuori da questo ruolo, però, non c’è nulla per lui, se non ubbidire ai
protagonisti che, di volta in volta immersi nei loro pensieri, gli chiedono “suonala ancora,
Sam”. Ancora una volta ci troviamo di fronte ad un film la cui morale è indubbiamente
pacifista (nella fattispecie, antinazista), e il cui protagonista incarna un certo tipo di eroe, che
nonostante le riserve a farsi coinvolgere si dimostra poi appassionato e pronto a rischiare la
vita per i propri ideali. E tuttavia è anch’esso un film in cui almeno un personaggio, Sam (ma
un discorso simile si potrebbe fare sui pochi personaggi marocchini che compaiono nel film),
è uno stereotipo esotista: è esattamente come l’immaginario classico europeo lo costruisce,
come espresso chiaramente dalla definizione di esotismo come costruzione immaginaria
dell’oggetto costruito come proiezione dei desideri del soggetto immaginante.

Ancora una volta, quindi, si mette in luce, all’interno di un modello in generale


apprezzato, più che criticato, quel margine di esotizzazione, di stereotipizzazione che lo rende
un prodotto dell’immaginario europeo, dal quale l’opera di de Isusi non può che distaccarsi,
nell’ambito di un processo di decolonizzazione dell’immaginario dell’avventura. Lo stesso
vale per Vasco, che, più o meno a malincuore, deve riconoscere come falsi tutti i modelli di
cui la sua fantasia si è nutrita fino a poco tempo prima. Questo processo di distruzione di miti
non si limita ad aspetti, come l’esotismo e gli stereotipi, che potremmo definire negativi,
bensì investe tutto l’ambito dell’immaginario avventuroso, e si sviluppa in maniera diversa
per Vasco e per Juan. Tra i due, infatti, egli è l’unico che arriva effettivamente ad essere un
marinaio, proprio per scoprire che si tratta di una realtà molto diversa dalle sue aspettative:

Lo cierto es que me cansé porque aquello no era ni viaje y ni aventura. Los barcos
de hoy no tienen nada que ver con las novelas de Stevenson. Ahora son naves inménsas con
tripulaciones mínimas, y todo está mecanizado. Juan lo llamaba ‘la oficina’. Navegar ahora es
mucho más seguro y también más aburrido. Pero lo cierto es que lo mismo pasa con los
viajes... ya no quedan espacios blancos en los mapas... los únicos espacios en blanco estan
dentro de uno mismo.1

Qui Vasco esprime la distanza sempre più grande tra un mondo passato, e forse immaginato
(non a caso lo si evoca, ancora una volta, passando per l’opera di uno scrittore, in questo caso
Stevenson), in cui le avventure erano ancora possibili, e il mondo contemporaneo e

1
TdlST, p. 62.
98
tecnicizzato, in cui l’orizzonte dell’avventura è relegato al mito. Il mestiere di marinaio, gli
animali sull’isola di Ometepe, la telecamera o il fatto di fingersi giornalista come unica arma
possibile per aiutare una ribellione, la propria incompatibilità con il ruolo dell’eroe: sembra
proprio che il viaggio di Vasco sia soprattutto una scoperta della falsità di qualunque mito
avventuroso.

III.2.1. I miti di Juan.

Un discorso simile vale anche per il personaggio di Juan, delle cui esperienze il lettore viene a
conoscenza solo indirettamente, almeno sino al finale del quarto volume. Le poche notizie che
Vasco trova di Juan nel corso della sua ricerca disegnano, infatti, un percorso in cui ogni
tappa racconta una delusione di quest’ultimo. Sono, quelle di Juan, delusioni estremamente
evocative nel distruggere i miti classici dell’avventura occidentale: quello della rivoluzione
perfetta, nel momento in cui scopre che l’EZLN è prima di tutto un esercito, con la sua
gerarchia e le sue regole, e non risponde quasi in niente ai suoi sogni di libertà; il mito del
luogo intatto dei viaggiatori, nel momento in cui lascia Ometepe e Atitlán perché quelle isole
si stavano riempiendo di turisti. Come si vede la reazione di Juan in tutte queste situazioni è la
fuga (lo stesso accadeva, come apprendiamo dal racconto di Vasco, fin dai tempi
dell’adolescenza, con l’abbandono della scuola da parte di Juan).

Claudio, l’amico italiano di Juan che Vasco incontra a Quito, racconta cosa è
accaduto dopo l’abbandono dell’isola di Ometepe e il loro arrivo a Quito, e dopo che lui, Juan
e un ragazzo tedesco di nome Jürgen avevano raccontato a un giornalista di aver percorso a
piedi la distanza dal Nicaragua all’Ecuador (Claudio parla inframmezzando il discorso di
parole italiane):

-Tutto mentira: llegamos a Quito en avión desde Panamá... ¿Que por qué contamos
aquello? ¡Che ne so! Contamos la historia que nos habría gustado vivir... sobre todo a Juan.
Nos inventamos una historia llena de aventuras: narcos, manglares, guerrillas... ¡No faltaba de
nada! La realidad era mucho más anodina: veníamos a Otavalo, el mayor mercado de
artesanía de los Andes, a hacernos comerciantes. Claro, descubrimos que la artesania puede
ser un negocio para quien la vende, pero nunca para quien la hace. [...]-
-Pero… Juan… ¿También él quería hacerse comerciante?

99
-¡Bah! ¡Juan nunca sabía lo que quería! Se enfadó conmigo, me llamó fenicio y
convenció a Jürgen para irse a la selva en busca de... del “buon selvaggio”. ¡Poverini!
Encontrar hoy en día eso en Amazonia es tan imposible como encontrar El Dorado.1

Dopo aver infranto il mito del viaggio avventuroso (anche agli occhi del lettore, che credeva
che Juan avesse effettivamente compiuto quel viaggio), Juan approda, quindi, a quello che
sarà l’ultima e la più importante delle sue ricerche, quella cioè del ‘buon selvaggio’, come lo
definisce Claudio: la ricerca delle tribù di indios amazzonici, simbolo di un’alternativa
radicale alla modernità, almeno in un certo tipo di immaginario occidentale, che, però, le
costruisce per come vorrebbe che fossero (e per come vorrebbe che fosse l’Occidente stesso).
Ma la realtà è decisamente diversa, come apprendiamo dalle parole di Jürgen:

Ustedes querían saber de Juan y su expedición… o deberíamos decir… Juan y su


obsesión. Juan estaba obsesionado con encontrar al ser humano en estado puro. Pero no sirve
de nada buscar si vas con los ojos cerrados. ¿Qué quieren que les diga? A mí me parece que
acá en el El Dorado la gente está en un estado bastante puro, ¿no creen? Al menos lo prefiero
a lo que encontramos en las comunidades del río Napo. ¡Ese río loco! Nosotros queríamos
caminar desnudos con los indios y sólo encontramos borrachos con gorras de los Lakers. Les
hemos quitado su cultura y a cambio sólo le hemos dado lo peor de la nuestra.2

La ricerca del “ser humano en estado puro” si dimostra, quindi, l’ultima grande ossessione di
Juan, ma anche l’ultimo grande mito da sfatare, come Jürgen esprime chiaramente: le
comunità del río Napo di oggi erano ben lontane dall’essere pure. D’altra parte la parola
‘puro’ è un chiaro riferimento ad uno stereotipo, e poco importa se questo stereotipo è
positivo invece che negativo: rimane il fatto che ‘non serve a nulla cercare con gli occhi
chiusi’, chiusi perché vedono (costruiscono) non ciò che esiste, ma ciò che vorrebbero
esistesse, e lo vorrebbero per sé, per dare un senso alla propria visione del mondo.
Paradossalmente, questo atteggiamento assomiglia molto a quello descritto da Marco Aime
nella sua analisi di un certo tipo di turismo ‘etnico’:

Spesso, rimpiangendo un mondo arcaico, forse mai esistito ma costruito dalle


nostre menti, si proietta sugli altri un’immagine di società ideale e armonica; e perché ciò sia
possibile e plausibile, occorre che questi ‘altri’ siano davvero molto diversi da noi. Ecco allora

1
RL, pp. 17-18.
2
RL, pp. 54-55.
100
che i dogon perfetti e puri animisti, i pigmei eterni cacciatori e raccoglitori, […], tutti
diventano ‘buoni da pensare’ per i turisti ammalati di nostalgia. 1

Dopo il fallimento di questo primo tentativo: “Juan estaba como ido… no hablaba con nadie,
había perdido el interés por todo. Y así estuvo hasta que conoció a un chaval que al parecer
sabía de la existencia de una tribo no contactada. Juan se aferró a eso como a una tabla de
salvación.”2 Juan, quindi, non demorde dal suo intento di trovare il ‘buon selvaggio’,
nonostante la distanza tra questo suo desiderio e la realtà. Claudio e Jürgen rappresentano,
invece, e questi due frammenti lo esprimono chiaramente, due personaggi che si dimostrano
in grado, nel bene e nel male, di liberarsi più rapidamente dei miti, una volta che li vedono
lontani dalla realtà, proprio per un principio di realtà che li rende capaci di essere felici
facendo il commerciante, nel caso di Claudio, o lavorando in un’impresa di turismo de
aventuras, nel caso di Jürgen, pur essendo ben consapevole che si tratta di un “nombrecito
contradictorio, lo sé”3, almeno in una visione ‘purista’ del concetto di avventura.

Juan, al contrario, viene connotato in tutta l’opera come un personaggio la cui


fantasia creatrice è la caratteristica principale, anche in contrapposizione a Vasco, più realista.
Questa differenza tra i due viene espressa chiaramente nei lunghi flashback di cui è costituito
il quarto volume, En la tierra de los sin tierra, durante i quali veniamo a sapere che Vasco e
Juan sono cresciuti insieme, dopo che la madre di Vasco, portoghese, aveva adottato Juan,
spagnolo, rimasto orfano. I due erano inseparabili, tuttavia era Juan a guidare l’altro nei
giochi, ad occupare il ruolo di avventuriero più spericolato, capace di attirare le colombe
imitandone il verso, e motivando questi gesti dicendo “Tonto… sólo es magia”. Fin da
piccolo, quindi la sua condizione di straniero e orfano lo segnala come distante dalla realtà.
Successivamente, negli anni dell’adolescenza, mentre Vasco frequenta l’istituto per diventare
marinaio, terminandolo ed avviandosi a quella professione, Juan lascia la scuola, viaggiando
senza meta e vivendo alla giornata. In una tavola, Vasco va a trovare Juan, in un appartamento
i cui occupanti fanno uso di droghe, e il Vasco che racconta afferma “Claro que él no
necesitaba drogarse, él ya tenía su propias fantasías…”4 In un’altra tavola, dopo i mirabolanti
racconti di Juan riguardo i suoi viaggi, questi chiede a Vasco “-¿Y qué hay de ti? ¿Cómo te va

1
Aime, Marco, L’incontro mancato: turisti, nativi, immagini, Torino, Bollati Boringhieri, 2005, p. 96.
2
RL, pp. 54-55.
3
Ibidem.
4
TdlST, p. 82.
101
por ‘la oficina’ [come Juan chiama le navi moderne]?-, il quale può rispondere solo: “Bien.
Un día se averió la radio, la arreglé.”1

Tuttavia, in questo senso Juan stesso è una costruzione della fantasia di Vasco: il
lettore lo vedrà ‘in carne ed ossa’ solamente nelle ultime pagine del quarto volume, e scoprirà,
peraltro, di avere a che fare con un personaggio meno ‘mitico’ di come era stato descritto, più
umano. Prima di questo momento tutte le informazioni che vengono date su di lui passano
attraverso il filtro della fantasia di Vasco, che lo costruisce come ciò che lui non è, o non
riesce ad essere: un avventuriero libero e senza legami, una perfetta incarnazione dei modelli
classici, applicata però ad una visione politica libertaria. Per questo la figura di Juan lo
ossessiona, e per questo Vasco aveva iniziato, prima che Juan sparisse, una relazione con la
ragazza di quest’ultimo, Leticia, in un tentativo di appropriarsi di una parte della vita di Juan,
per realizzare una parte delle sue fantasie che trovavano nell’amico/fratello una proiezione.2

Vi è, per di più, un collegamento esplicito tra Juan e i modelli avventurosi. Quando,


bambino, Juan si trasferisce con Vasco e sua madre, infatti, porta con sé un baule: “No sé de
donde lo había sacado Juan, pero en él estaban todas las novelas clásicas de aventuras: Verne,
Salgari, Stevenson, Swift, London, Melville… y Juan se las sabía todas.”3 Nella vignetta
seguente, si vedono i due giocare a Moby Dick, e Vasco fare la parte di Queequeg: ancora una
volta la parte secondaria, ed ancora una volta la parte ‘esotica’. Successivamente, già adulti, e
dopo la sparizione di Juan, Vasco capisce cosa non va nella propria vita: “Juan se me aparecía
siempre como la imagen de lo que yo quería ser y no era.”4 Juan, quindi, o meglio il Juan che
Vasco costruisce nella propria mente, è un simbolo proprio di quei modelli avventurosi ed
esotici che costituiscono il termine di paragone impossibile per Vasco, e un termine di
paragone malinconicamente inattuale e inapplicabile per de Isusi, che, come abbiamo visto, se
ne allontana, in un lungo e complesso processo di citazioni, distanziamenti e rielaborazioni.

È Vasco, insomma, il cuore del problema trattato nel fumetto: Vasco e il suo
conflitto interiore tra le aspirazioni e la realtà, in cui entrambi questi poli sono influenzati
dalle convenzioni e limitazioni sociali ed economiche, e dai miti dell’immaginario occidentale
che informano la fantasia di un ipotetico avventuriero. Quello a cui assistiamo fino alle ultime

1
Ivi, p. 83.
2
Ivi, p. 84.
3
Ivi, p. 80.
4
Ivi, p. 86.
102
pagine del quarto volume, quindi, è un cammino interiore di crescita di un personaggio,
perennemente immerso nella rete di movimenti sociali e politici dell’America meridionale e
dei suoi tentativi di decolonizzarsi. In questo senso, sia per Vasco che per Juan è l’Amazzonia
il luogo in cui culmina il processo di spoliazione dei miti esotici, quegli stessi miti che
avevano ossessionato Juan nella ricerca di un luogo in cui l’essere umano fosse
incontaminato. Alla fine del quarto volume, infatti, si scoprirà che l’esperienza di Juan
nell’Amazzonia è assai simile a quella di Vasco, e soprattutto possiede lo stesso potenziale
nel far cambiare la visione del mondo del personaggio.
III.2.2. Vasco e l’Amazzonia.

de Isusi, parlando del motivo per il quale ha inserito l’Amazzonia nella sua storia, scrive
(corsivo mio):

Por supuesto el viaje de Vasco no sólo sigue los pasos del de Juan, sino los míos
propios cuando trotaba por aquel continente, y el Amazonas fue parte de mi viaje. No fue
desde luego de las partes más bonitas pero aquí entra en juego algo que escuché decir a un
argentino vagabundo en la isla de Ometepe: “No puedes decir que has viajado por América si
no recorres el Amazonas”. El Amazonas es como un imán para todo aquel que busque
exotismo, aventuras… un imán tremendamente desilusionante y descorazonador
generalmente, pero precisamente eso es algo que me interesaba reflejar en el libro. Y por la
trayectoria que sufre el personaje de Vasco… sí, era inevitable que se zambullera en la
Amazonía.1

La traiettoria di Vasco, quindi, ha a che fare con quella di tutti coloro che cerchino avventura
e ‘esotismo’, e de Isusi utilizza esplicitamente questo termine. In questo senso, quindi, la
foresta amazzonica si trasforma in un mito, proprio grazie alla sua impenetrabilità: si può
trasformare, cioè, in uno, forse l’ultimo, di quegli ‘spazi bianchi’ rimasti sulle mappe. Nella
realtà, però, come si è cercato di dimostrare nella prima parte del presente lavoro, la realtà
economico-politica della modernità è ben lontana dal non intervenire anche in quest’area, e i
suoi abitanti sono, d’altra parte, decisamente toccati dalle vicende della modernità, e
consapevoli di esserlo, anche quando si tratta di tribù incontattate o in isolamento volontario
(l’isolamento stesso è una conseguenza del contatto con la modernità coloniale e delle
minacce che essa porta con sé). Il personaggio di Napo, che accompagna Vasco in tutto il suo
percorso interiore ed esteriore nella selva, è lì per ricordare sia al protagonista che ai lettori

1
Cfr. http://www.astiberri.com/entrevistas.php?ident=7
103
proprio questo: né lui né la sua tribù sono ‘territorio vergine’, sotto nessun punto di vista,
positivo o negativo che sia, e perciò non possono portare nessuna salvezza precostruita. Ciò
che possono fare è aiutare a vedere le cose da un altro punto di vista, che ha nell’alterità e nel
suo rapporto con essa, e non in una supposta superiorità, il suo potenziale di decostruzione.

La traiettoria di Vasco all’interno della selva segue alcune tappe abbastanza


scandite. La prima fase è costituita dalla partenza da Borja, in compagnia di Héctor e di
Leandro, la loro guida, i cui rapporto con Vasco sono tesi fin dall’inizio, e arrivano anche alla
violenza. Dopo un primo tratto in canoa, i tre si addentrano nella selva, ma ben presto
Leandro, all’insaputa degli altri due, poco avvezzi alla foresta, li trascina in un percorso
circolare, per poi abbandonarli sulle rive del Río Napo, senza un mezzo di trasporto. Héctor,
tuttavia, trova una canoa, ma Vasco rifiuta di tornare con lui a Borja, e continua la sua ricerca.

Al primo smarrimento, in quel percorso circolare a cui li ha costretti Leandro, fa


seguito un secondo, di Vasco ora rimasto solo, che si smarrisce sempre di più nel cuore della
selva, in preda ad allucinazioni e ricordi, e fuori di sé tocca accidentalmente una rana dardo,
dal veleno mortale. Senza il suo machete, che ha perso, non riesce a tagliarsi la mano, e
sviene. Qui ha la prima visione, e il primo discorso con una figura femminile, che
identificherà poi con la dea del villaggio. Nelle fattezze, la dea si presenta molto simile a
Bocca Dorata, la maga brasiliana presente in alcune storie di Corto Maltese. Inoltre, de Isusi
prende in qualche modo sul serio il nome di quest’ultima, poiché quando questa dea parla
piccole pagliuzze d’oro escono dalla sua bocca. Il collegamento tra le fattezze esotiche e un
potere sul prezioso metallo inseriscono quindi di diritto questo personaggio nell’ambito degli
esotici personaggi femminili che attraggono il protagonista. Tuttavia, de Isusi porta questa
stereotipizzazione fino alle estreme conseguenze, poiché la divinità, durante tutto il corso del
loro colloquio, passa fisicamente da una fisionomia all’altra, coprendo in qualche modo tutto
il continente americano, ma soprattutto una serie di modelli che provengono anche dal mondo
artistico. All’inizio, infatti, è vestita da india; poi è afroamericana come Bocca Dorata (che è
una brasiliana di origini africane), e vestita con la stessa fastosità; poi si tramuta, anche in
volto, in una figura simile a Frida Kahlo, con lo stesso fiore tra i capelli; poi si fa le trecce ai
capelli e si veste come una indiana dell’America del Nord, per poi infine spogliarsi di tutto, e
rimanere nuda.

104
A questo punto, però, i due hanno già avuto un lungo colloquio, che riguarda proprio
la relazione con i tanti personaggi che esistono sulla scena del mondo, e su come essi siano in
contrasto con la realtà. Vasco infatti, sentendosi in un sogno, dice alla dea, in tono ironico:

-Me recuerdas a un personaje de alguna novela.


-Ah, sì, sì... Muy bien, Vasco... así que un personaje de novela... ¿Y tú? ¿Qué eres
tú?
-No sé, según una amiga mía somos lo que contamos que somos, ¿tú que opinas?
-Ah, ah, que te sigues escapando... y que eso que dice tu amiga es algo relativo:
sólo vale para el personaje que usamos en el gran escenario del mundo. Pero ya que estamos,
dime, moreno, ¿qué te cuentas tú que eres?
-Eh, no te lo voy a decir... ¡No me gusta esa sonrisita!
-Como quieras, te lo diré yo entonces. Te has contado que te llamas Vasco, y te has
contado que Vasco es un aventurero solitario con el corazón roto. ¡Te encanta ese personaje,
admítelo! Tanto que te autocomplaces en él añorando algo que nunca existió... Y buscando
algo que tampoco existe. Pero te has tenido la osadía de ponerle nombres a tu búsqueda, y
como te has contado que eres un héroe audaz y tenaz tienes que llevar tu búsqueda hasta las
últimas consecuencias, aunque para ello acabes muerto en la selva... ¡Bravo, Vasco! Es
justamente el tipo de personajes que gustan en el gran escenario del mundo. Oh sí... ¡Puedes
hacerte inmortal así!
-¡Menuda sarta de tonterías! ¿O sea que si me muero me hago inmortal?
-Ah… No exactamente… Digo que puedes llegar a ser un personaje inmortal,
aunque para ello deberás renunciar a ser una persona real. Los grandes personajes nunca
mueren, ya sabes, sólo mueren las personas. Y sin embargo... hay otro tipo de inmortalidad...
más real, oh sì, sì... más real... pero para disfrutarla hay que matar al personaje... De todos
modos los personajes está muertos, ya lo sabes, sólo las personas viven de verdad.1

Questo, infatti, è il momento di passaggio dell’opera: il momento in cui il personaggio di


Vasco viene messo di fronte alla necessità di abbandonare l’imitazione di quei modelli
avventurosi che non gli permettono di vivere una vita autentica. Ad un altro livello, è il
momento in cui de Isusi smaschera il suo intento, quello cioè di ridiscutere i clichés della
narrativa di avventura, arrivando fino al punto di liberarsene completamente. Alla figura,
onirica, della dea viene affidato proprio questo compito: raffigurare, con i mezzi del fumetto,
quindi in maniera visiva più che letteraria, l’abbandono degli stereotipi. Un abbandono,
questo, che rimane tuttavia faticoso e doloroso, soprattutto perché non si sta parlando degli
stereotipi più comuni o marcatamente razzisti, bensì di icone visive di grande qualità (i

1
RL, pp. 149-150.
105
disegni di Hugo Pratt, Frida Kahlo, l’icona dell’indiano d’America, che potrebbe provenire
dalla saga di Tex Willer iniziata da Bonelli, o dai molti altri esempi del suo utilizzo). Queste
icone, tuttavia, vanno superate, per creare qualcosa di nuovo, e soprattutto per tentare di
superare l’esotismo del quale, per scelta consapevole o meno, si sono ammantate.

Vasco si risveglia, poi, grazie alle cure di Napo e di suo nonno, il quale è lo
sciamano di quel villaggio di indios in isolamento. Una volta ristabilitosi, Vasco scopre che
quel villaggio è, o assomiglia a, il celebre El Dorado, cercato da tutti gli avventurieri (tra cui
Corto Maltese), in cui l’oro abbonda in ogni luogo. Ma scopre anche che questo non gli
interessa, e che invece di ciò che gli interessa, la sorte di Juan, quella tribù non sa nulla.
Inizia, però, la permanenza di Vasco nella tribù, che durerà parecchi mesi, anche dopo che la
tribù è costretta a spostarsi per evitare l’incontro con dei ‘bianchi’ e le loro ruspe da
disboscamento. Vasco, infatti, rimane in attesa di poter parlare nuovamente con la divinità nel
corso di una cerimonia rituale, per cercare di risolvere lo stato di smarrimento esistenziale in
cui si trova. Ma il suo cammino di purificazione, prima di poter accedere alla cerimonia, è
necessariamente lungo, ed, effettivamente, costellato di scoperte ed incontri con il pensiero e
la cosmogonia della tribù.

Quando poi Vasco può partecipare alla cerimonia, purificato, ha una nuova visione,
nella quale la divinità lo costringe, nella visione, a fare i conti con le varie parti di se stesso in
conflitto fra loro, a ritrovare una qualche serenità che si può condensare nella frase “Yo sólo
quiero ser lo que ya soy”. A questa ammissione, può seguire una seconda vita per Vasco, e
nella visione questo passaggio viene raffigurato come una morte rituale, alla quale segue una
rinascita, dallo stato di feto a quello di corpo adulto. Narrando tutto questo ad un coreografo
brasiliano conosciuto all’aeroporto di Rio de Janeiro, Della sua esperienza Vasco dirà: “Pues,
no sé que decirte… aún no lo sé… Fue todo tan intenso. Creo…Creo que algo cambió en
mí… Creo… pero aún no sé bien qué.”1

III.2.3. Il lupo della steppa e Siddharta.

Nel terzo e quarto volume, quindi, assistiamo al compiersi della traiettoria di Vasco verso
l’’aprire gli occhi’, verso un qualche tipo di consapevolezza. Tuttavia, questa consapevolezza,

1
TdlST, pp. 96-97.
106
che pur tocca la vita interiore del protagonista in profondità, non va intesa come puramente
mistica o spirituale: essa è sempre radicata in un complesso discorso di presa di coscienza e
decostruzione dei condizionamenti dell’immaginario occidentale sull’animo del protagonista
e sulla sua capacità di vivere e di interpretare ciò che vive. Questa complesso rapporto tra i
conflitti interiori del personaggio e i condizionamenti sociali è uno dei nuclei fondamentali
dell’opera di de Isusi, soprattutto negli ultimi due volumi. Parlando delle opere che lo hanno
ispirato nello scrivere Los viajes de Juan sin Tierra, de Isusi afferma: “En cuanto al
contenido, al acabar la obra me he dado cuenta de algo que hasta entonces lo tenía
inconsciente, y es que cuando la empecé estaba muy impresionado por dos libros de Hermann
Hesse: El lobo estepario y Siddharta. Creo que su influencia es bastante evidente, sobre todo
en el tercer y cuarto tomo.”1

Effettivamente, un confronto fra gli ultimi due volumi della quadrilogia e i due
romanzi di Hesse mette in luce numerose analogie, soprattutto al livello della costruzione
generale dell’opera: la parabola di un personaggio che si trova alle prese con una crisi
interiore, e il cammino che questo personaggio intraprende verso una risoluzione di questa
crisi. Anche il genere di conflitto affrontato è simile: volendo semplificare, è la difficoltà di
trovare un modo di vivere nel mondo e nella società che metta d’accordo le aspirazioni (sulle
quali influiscono elementi ‘esterni’ all’individuo come l’educazione ricevuta, o la situazione
sociale e politica in cui è immerso) con la realtà, e con una generica felicità. Ne Il lupo della
steppa, in particolare, questi due poli del conflitto sono esplicitamente identificati nella
divisione duale che il protagonista immagina esistere nella sua interiorità, tra l’uomo, colto
appassionato di musica e filosofia, con ideali filantropici, e il lupo, solitario, affamato di
piaceri semplici, lontano dalla società. Per Siddharta, invece, si tratta di un continuo oscillare
tra l’ascetismo, la ricerca di una realtà interiore che vada oltre l’apparenza dell’esistente, e il
contatto affettivo ed emozionante con la realtà stessa.

Come sempre, de Isusi non manca di disseminare alcune citazioni più o meno
esplicite delle opere che rielabora. Per quanto riguarda Il lupo della steppa, può essere
interessante osservare come, al momento di dover convincere con la violenza Leandro a fargli
da guida nella ricerca di Juan, Vasco si trasformi in una figura lupina, con tanto di denti
aguzzi.2 Successivamente al colloquio con la dea nella prima visione, inoltre, Vasco si trova

1
Cfr. http://www.guiadelcomic.es/javier-de-isusi/entrevista.htm
2
RL, p. 76.
107
ad osservare la propria interiorità, che viene raffigurata come un’ enorme galassia. Questo
rimanda abbastanza direttamente alla “dissertazione” contenuta ne Il lupo della steppa, in cui
Hesse scrive: “In realtà nessun io, nemmeno il più ingenuo è un’unità, bensì un mondo molto
vario, un piccolo cielo stellato, un caos di forme, di gradi e situazioni, di eredità e
possibilità.”1 Una galassia a spirale, quindi, ben si presta a raffigurare visivamente questo
caos stellare in perenne mutamento. Per quanto riguarda Siddharta, invece, troviamo una
citazione esplicita nel racconto dell’esperienza, parallela a quella del protagonista, vissuta da
Juan, che la racconta nel finale del volume. Salvato da un indio, passa lunghi mesi in
convalescenza ai bordi del fiume: “El río me hablaba. Me hablaba de la vida, de mí… Vi el
río como la corriente eterna de la vida... y mi vida como una gota de espuma que no dura más
que una fracción de segundo.”2 La stessa esperienza è vissuta da Siddharta nell’ultima parte
della sua vita, accanto al barcaiolo, e allo stesso modo Siddharta apprende ad ascoltare il
fiume e a vedere in lui una metafora della realtà.

Un altro elemento di contatto è l’importanza che i sogni, o le visioni indotte da stati


allucinatori, rivestono sia nelle avventure di Vasco, e sia nelle due opere di Hesse. In
particolare, questi sogni segnano sempre dei punti di passaggio, dei momenti in cui il
protagonista viene a contatto con delle realtà profonde di cui sta iniziando a rendersi conto,
ma che solo nel sogno possono palesarsi, in maniera figurata, come immagini: ne è un
esempio la parte finale di Il lupo della steppa, in cui le varie stanze di un teatro onirico lo
costringono a fare i conti con le varie parti di sé. Sia Harry, protagonista de Il lupo della
steppa, sia Siddharta, quindi, trovano proprio nei sogni o in visioni oniriche quelle
rappresentazioni del proprio io e della propria condizione che gli permettono di salire un
gradino nella consapevolezza di sé: Siddharta arriva a cogliere l’unità del tutto, seppur
provvisoriamente, proprio durante un lungo sonno.

Dato fondamentale di queste visioni o sogni, inoltre, è il loro presentarsi spesso


sotto forma di incontri e dialoghi, a volte con persone conosciute, e a volte, soprattutto nel
caso di Harry, con personaggi celebri, che il protagonista vede come modelli di cultura e
genialità: nella fattispecie, Goethe e Mozart. Tuttavia, è interessante notare come anche in
quest’opera questi incontri non vadano come previsto, nel senso che il modello incontrato non
risponde alle aspettative del protagonista, ma anzi le distrugge regolarmente, ponendole in

1
Hesse, Hermann, “Dissertazione”, in Il lupo della steppa, trad. di Ervino Pocar, Milano, Mondadori, 2003, p.
XXV.
2
TdlST, p. 153.
108
una prospettiva in cui tutte le sofferenze quotidiane diventano insignificanti. Nell’incontro
con Goethe, ad esempio, alle domande così pregnanti che Harry pone al grande scrittore,
riguardanti la presunta insincerità nel propugnare fede ed ottimismo in un mondo disperato,
costui risponde con ironia, e vantandosi del suo spirito infantile, in una maniera che appiana
ogni contraddizione1, e qualcosa di simile accade con Mozart, in seguito, il quale mostra ad
Harry come tutto ciò che in vita si crede importante, impallidisca nell’eternità.2

Questi incontri onirici, insomma, hanno il potere di mettere in crisi la visione del
mondo consueta del protagonista, proprio come accade a Vasco, prima nel sogno allucinatorio
provocato dai funghi in La isla de Nunca Jamás, e poi, soprattutto, nel corso dei due dialoghi
con la divinità protettrice del villaggio. In questo senso, ai miti della cultura tedesca che fanno
da modello alla visione del mondo di Harry fanno da contraltare, come abbiamo visto, i
modelli e i miti della narrativa di avventura impersonificati da Juan, Chico e la divinità nelle
visioni. Ciò accade perché, seppur non manca una riflessione di ordine politico all’interno de
Il lupo della steppa, questa si incentra sul contrasto tra una visione del mondo borghese (e il
nascente nazismo che le fa da sfondo) e una visione quasi romantica dell’individuo e della
cultura, alla quale tuttavia Hesse contrappone una terza via, presa dalla filosofia indiana e
buddhista (la stessa che ritroviamo in Siddharta). Nell’opera di de Isusi, invece, la riflessione
politica si incentra sul rapporto tra l’immaginario occidentale e il colonialismo, e in
particolare su come nella contemporaneità molti modelli continuino, pur senza colpa, a
perpetuare una visione del mondo esotista, che in qualche modo giustifica il neocolonialismo.

Questi incontri onirici, quindi, segnano i punti di passaggio nel cammino del
protagonista verso una diversa concezione del proprio rapporto col mondo, mostrando il
passaggio in maniera metaforica. Tuttavia, il vero cammino non avviene nei sogni, bensì nella
vita reale, seppur in maniera più graduale, e meno evidente. Per tutti e tre protagonisti si tratta
di un cammino lungo (anche un’intera vita), fatto di scelte drastiche, esperienze, pentimenti e
ritorni, nei quali il personaggio rivive parti del suo passato, ma con occhi nuovi e diversi. Lo
scopo finale, o meglio l’ipotetico punto di arrivo, è una nuova serenità, che derivi dall’aver
trovato l’armonia tra i diversi aspetti dell’esistente, e tra i diversi aspetti che compongono
l’animo stesso del personaggio, accettandone le contraddizioni, più che risolvendole. In
questo senso, il “juego loco de la representación” di cui più volte parla Napo, il “gran

1
Cfr. Hesse, Hermann, Il lupo della steppa, cit., pp. 117-118.
2
Ivi, pp. 244-248.
109
escenario de la vida”, è assai simile al teatrino finale di Il lupo della steppa, e al samsara di
cui si parla diffusamente in Siddharta, ossia il mondo dell’apparente realtà e della vita
carnale. Questi tre aspetti si oppongono all’altro volto del sacro: per gli indios della tribù di
Napo è Inti, “que no cambia, que está en todo y es inmortal.”1, è lo spazio etereo e freddo
degli Immortali per Harry, dove vivono eternamente i saggi, ed è il nirvana per la filosofia
indiana di cui tratta Siddharta.

Tuttavia, fra i due poli non è necessario sceglierne uno: e proprio questo è l’errore
dei tre protagonisti, ad esempio di Siddharta, che prima sceglie l’ascesi, poi la carnalità, poi
nuovamente l’ascesi, per arrivare infine a capire che queste erano solo divisioni che vivono
nel linguaggio, ma non nel mondo:

Quando il sublime Gotama nel suo insegnamento parlava del mondo, era costretto
a dividerlo in samsara e nirvana, in illusione e verità, sofferenza e liberazione. Non si può fare
diversamente, non c’è altra via per chi vuole insegnare. Ma il mondo in sé, ciò che esiste
intorno a noi e in noi, non è unilaterale. Mai un uomo, o un atto, è tutto samsara o tutto
nirvana, mai un uomo è interamente santo o interamente peccatore. […] Il mondo, caro
Govinda, non è imperfetto, o impegnato in una lunga via verso la perfezione: no, è perfetto in
ogni istante, ogni peccato porta già in sé la grazia, tutti bambini portano già in sé la vecchiaia,
tutti i lattanti la morte, tutti i morenti la vita eterna. […] Per questo a me par buono tutto ciò
che esiste, la vita come la morte, il peccato come la santità, l’intelligenza come la stoltezza,
tutto deve essere così, tutto richiede solamente il mio accordo, la mia buona volontà, la mia
amorosa comprensione, e così per me tutto è bene, nulla mi può far male. 2

È, inoltre, un cammino in cui non c’è mai un punto finale. In questo senso, Siddharta è un
personaggio emblematico: più volte si trova di fronte ad una rivelazione, ad una scelta
profonda che lo porta ad un nuovo modo di esperire il mondo, ed ogni volta però lo aspettano
nuovi pentimenti e nuove incertezze. Così Harry, che, nelle ultime righe di Il lupo della
steppa, afferma: “Un giorno avrei giocato meglio il giuoco delle figurine [le mille parti di sé].
Un giorno avrei imparato a ridere. Pablo mi aspettava. Mozart mi aspettava.”3 Allo stesso
modo, Vasco attraversa numerose tappe, fino a rinascere spiritualmente nel corso del secondo
rituale. Tuttavia, pur dopo quest’esperienza così profonda, Vasco si ritrova a fare ancora gli
stessi errori di prima: essenzialmente, desiderare sempre altro rispetto a ciò che si ha, e non

1
RL, p. 150.
2
Hesse, Hermann, Siddharta, Trad. di Massimo Mila, Milano, Adelphi, 2003, p. 189.
3
Hesse, Hermann, Il lupo della steppa, cit., p. 260.
110
vivere il momento presente: “Estás siempre fuera de tí.”1, come gli dice Napo. Per questa sua
disposizione d’animo non riesce ad avere una relazione con una ragazza di nome Elsa, e di
questo si rammarica con il coreografo brasiliano cui racconta la sua storia in aeroporto: “En
fin, yo creía que después de lo que viví en la selva había aprendido… no sé… algo. Pero ya
ves.”2 È proprio nella difficoltà, o quasi impossibilità, di raggiungere questo stato, però, che
questo cammino sviluppa la sua dinamicità, senza trasformarsi nel racconto di una
conversione, che mal si adatterebbe allo spirito ironico e sempre legato alla realtà che pervade
tutta l’opera di de Isusi

L’ironia, d’altra parte, è un aspetto fondamentale nella crescita spirituale, non solo
per Vasco, ma anche per i due protagonisti di Hesse. Già dalla frase precedentemente citata
che conclude Il lupo della steppa emerge chiaramente questo aspetto del concetto di crescita
contenuto nelle due opere di Hesse: essenzialmente, apprendere che tutto è un gioco, imparare
a giocarlo nel modo migliore possibile, e soprattutto imparare a riderne. Il riso è un concetto
fondamentale, sia ne Il lupo della steppa, dove si palesa nella risata fredda degli Immortali,
sia in Siddharta, dove la saggezza di personaggi come Gotama, Vasudeva, e infine lo stesso
Siddharta, si esprime proprio attraverso il sorriso. Ne Los viajes de Juan sin tierra questo
sorriso lo si ritrova in Olivio, in Chico e in Napo, che nel corso dell’opera manifestano più
volte una profonda serenità, pur nella coscienza dei problemi materiali che li circondano, e
contro i quali lottano attivamente. Questa serenità deriva essenzialmente dal non desiderare
sempre qualcosa di diverso rispetto alla situazione in cui si vive, e che si condensa nella frase,
pronunciata da tutti questi personaggi, “yo sólo quiero ser lo que ya soy.” Nel caso di Napo,
poi, questa frase è preceduta proprio da una risata. In questa frase e in questa risata troviamo
la trasposizione di ciò che dice Siddharta:

Ho appreso, nell’anima e nel corpo, che avevo molto bisogno del peccato, avevo
bisogno della voluttà, dell’ambizione, della vanità, e avevo bisogno della più ignominiosa
disperazione, per imparare la rinuncia a resistere, per imparare ad amare il mondo, per
smettere di confrontarlo con un certo mondo immaginato, desiderato da me, con una specie di
perfezione da me escogitata, ma per lasciarlo, invece, così com’è, e amarlo e appartenergli
con gioia.3

1
TdlST, p. 67.
2
Ivi, p. 146.
3
Hesse, Hermann, Siddharta, cit., p. 189.
111
In queste parole possiamo leggere una descrizione estremamente calzante del personaggio di
Napo, il quale, come si è visto anche tramite l’analisi di un testo come Borderlands/La
frontera di Gloria Anzaldúa, attraversa una lunga serie di difficoltà, di sofferenze che gli
derivano dall’essere in bilico tra due culture e tra due sessualità. Tuttavia, proprio questo
cammino gli permette di decostruire queste impalcature culturali, e comprendere come ogni
cultura sia a sua volta in bilico fra molte altre (da qui i sui travestimenti come Capitana
América, e il suo incredibile sincretismo, che mescola Laura Pausini alle tradizioni indie), e
come la sua sessualità, ipoteticamente in contraddizione con le normali costruzioni binarie, o
cosiddette naturali, sia semplicemente ‘lo que es”, e in quanto tale non può essere innaturale.
Applicata a Napo, quindi, la ‘rinuncia a resistere’ di Siddharta non va letta dal punto di vista
politico e sociale, quanto piuttosto dal punto di vista delle proprie pulsioni, il che porta, anzi,
ad una resistenza ancora più forte contro le ingiustizie.

È proprio a Napo, infatti, subito dopo che questi ha pronunciato la frase simbolo di
questa condizione (“sólo quiero ser lo que ya soy”) e si è tuffato nel fiume, che Vasco si
rivolge dicendo: “Tendrás que enseñarme a hacer eso.”1 Vasco, quindi, identifica proprio
Napo come suo maestro. Questo ci permette di giungere ad un concetto fondamentale rispetto
al cammino di crescita dei protagonisti delle tre opere che stiamo analizzando, ossia
l’impossibilità di percorrere questo cammino senza maestri: senza quelle persone che con i
loro pensieri e con le loro azioni permettono al protagonista di uscire dalla propria visione del
mondo, che lo fanno sbilanciare, per raggiungere poi un nuovo equilibrio: questo è il senso,
tra l’altro, anche degli incontri onirici. Questo concetto lo troviamo espresso più volte nelle
opere di Hesse: nella già citata frase finale de Il Lupo della steppa, per esempio, dopo la vita
come gioco e l’importanza del riso, troviamo le due frasi “Pablo mi aspettava. Mozart mi
aspettava.”, ossia l’identificazione di due maestri, dai quali già ha imparato, ma non
abbastanza. Il fatto che i maestri possano essere un ‘mito’ incontrato da Harry solo in sogno, e
invece un sassofonista ‘reale’, e anzi quanto mai disinteressato alla cultura, è un esempio di
come il maestro non sia da valutare superficialmente per il suo bagaglio culturale, ma
piuttosto per quanto egli è capace di sbilanciare l’equilibrio interno del protagonista. In questo
senso maestro può essere chiunque, come esprime chiaramente Siddharta:

Una bella cortigiana è stata per lungo tempo mia maestra, e un ricco mercante fu
mio maestro, nonché alcuni giocatori d’azzardo. Una volta anche un discepolo del Buddha in

1
TdlST, p. 47.
112
pellegrinaggio fu mio maestro; anche da lui ho appreso, anche a lui sono riconoscente, molto
riconoscente. Ma soprattutto ho imparato qui, da questo fiume, e dal mio predecessore, il
barcaiolo Vasudeva.1

III.3. La scoperta dell’Altro.

III.3.1. Dialogo e sconfitta.

Ciò a cui assistiamo nel corso dell’ultimo volume de Los viajes de Juan sin tierra, quindi, è
l’evoluzione di un personaggio, che avviene essenzialmente grazie a ciò che potremmo
definire come la scoperta dell’Altro: il confronto continuo, e a volte anche forzato, con
un’Alterità che sconvolge il consueto modo di pensare del protagonista. Il volume, infatti, si
costruisce tutto alla base di una serie di conversazioni tra Vasco e altri personaggi: il
coreografo brasiliano nell’aeroporto, prima di tutto, a cui Vasco inizia a raccontare la sua
storia. All’interno di questo racconto, e dei ricordi che esso stimola nel protagonista,
assistiamo a frammenti delle esperienze di Vasco nella selva, e poi all’incontro, a Salvador de
Bahia, con Elsa, una fotografa belga con cui Vasco inizia una relazione. Nel corso dei
dialoghi con Elsa apprendiamo una serie di fatti riguardanti l’infanzia e la giovinezza di
Vasco, e le motivazioni per cui ha intrapreso questo viaggio. Infine, assistiamo all’incontro di
Vasco con Juan, nell’accampamento dell’MST, e poi con Marinela, la sua ex ragazza.

Ognuno di questi dialoghi porta con sé un potenziale di decostruzione e


comprensione del proprio vissuto da parte del protagonista, che è reso possibile proprio dal
confronto con un soggetto Altro. Infatti, anche quando il dialogo si costruisce essenzialmente
come racconto da parte di Vasco, esso non si esaurisce in questa modalità: la presenza
dell’Altro, come stimolo, sotto forma di domande e osservazioni, è fondamentale, come si
vede chiaramente negli stimoli penetranti che Elsa e il coreografo brasiliano porgono a Vasco,
ognuno dei quali è l’inizio di un nuovo racconto, e quindi di un nuovo tentativo di
comprendere l’esperienza narrata, che non avrebbe avuto luogo senza il confronto con

1
Hesse, Hermann, Siddharta, cit., p. 186.
113
un’altra persona. Il potenziale di comprensione contenuto nell’atto di essere ascoltati, in ogni
caso, viene messo in luce chiaramente in Siddharta, dove il protagonista trae un immenso
beneficio dal parlare con Vasudeva:

Tra le virtù del barcaiolo questa era una delle più grandi: sapeva ascoltare come
pochi. Senza ch’egli avesse detto una parola, Siddharta sentiva come Vasudeva accogliesse in
sé le sue parole, tranquillo, aperto, tutto in attesa, e non ne perdesse una, non ne aspettasse una
con impazienza, non vi annettesse né lode né biasimo: semplicemente, ascoltava. Siddharta
sentì quale fortuna sia imbattersi in un simile ascoltatore, affondare la propria vita nel suo
cuore, i propri affanni, la propria ansia di sapere. 1

Nel caso del coreografo brasiliano, il ruolo dell’Altro rimane essenzialmente in questo
ambito: permettere al protagonista di narrare, ed aiutarlo a comprendere. Già nel caso di Elsa,
tuttavia, il personaggio va oltre questo ruolo, e instaura un dialogo nel quale sono
fondamentali gli stimoli che essa stessa propone, non più solo come ascoltatrice, ma anche
come colei che mette in crisi il protagonista con le sue domande, ad esempio riguardo
all’atteggiamento misterioso perennemente adottato da Vasco, che questi si trova quindi a
dover giustificare aprendo nel racconto alcune parti di sé. Inoltre, Elsa porta con sé anche il
potenziale profondo di un dialogo fisico con il protagonista, fatto prima di brevi contatti e
prossimità, che coinvolgono l’intimità di Vasco in maniera non scontata, come mostrato, ad
esempio, nella sequenza di vignette in cui, durante un dialogo fra i due, le loro mani si
sfiorano, per poi allontanarsi.2 In seguito, il contatto fisico fra i due si intensifica, fino ad
arrivare ad un rapporto sessuale. Nel corso di queste vignette, è interessante notare come
entrambi i soggetti abbiano un ruolo attivo: non si tratta, insomma, di una ‘conquista’, ma di
una libera scelta di entrambi, in uno schema che si allontana, ancora una volta, dagli stilemi
classici del rapporto tra l’avventuriero e i personaggi femminili.3

Il loro rapporto sessuale, tuttavia, non si conclude, perché Vasco si trova alle prese
con i propri ricordi e l’incapacità di superare il ricordo di Marinela. Nonostante, quindi,
questo incontro fisico fra i due fallisca, esso si tramuta nell’opportunità per Vasco di narrare a
Elsa la storia del proprio rapporto con Marinela e con Juan, che è la chiave dell’incapacità del
protagonista di vivere la propria vita. L’incontro con Elsa, in questo senso, dimostra
l’interesse dell’autore per le dinamiche dell’incontro tra due soggetti, anche dal punto di vista

1
Ivi, p. 145.
2
TdlST, p. 60.
3
Ivi, p. 69-75.
114
fisico e sessuale. La sua narrazione di questa relazione, inoltre, pur non essendo censurata dal
punto di vista visivo, va ben oltre la consueta rappresentazione che si sarebbe potuta dare
dell’incontro sessuale occasionale tra il protagonista e un personaggio femminile, quella
rappresentazione stereotipata e soprattutto poco significativa che, infatti, si può trovare in un
grandissimo numero di opere di narrativa popolare, soprattutto cinematografica 1: un’altra
prova, insomma, che Vasco è stato distrutto come avventuriero, ma può rinascere come
personaggio.

L’incontro con l’Altro, per come si sviluppa nel corso di quest’ultimo volume, è,
quindi, sempre un incontro tra due soggetti che si influenzano l’uno con l’altro, senza che uno
dei due sia ridotto alla condizione di oggetto, e vede nel dialogo lo strumento principale
perché questo incontro possa attuarsi. Come scrive Todorov a proposito dell’incontro/scontro
tra spagnoli e indios durante la conquista dell’America:

Per dirla altrimenti: nel migliore dei casi, gli autori spagnoli parlano bene degli
indiani, ma – salvo alcune eccezioni – non parlano mai agli indiani. Ma è solo parlando
all’altro (non dandogli degli ordini, bensì aprendo un dialogo con lui) che io gli riconosco la
qualità di soggetto, paragonabile a quell’altro soggetto che sono io. 2

Perché questo incontro possa avere luogo, tuttavia, il protagonista deve aver cessato di essere
un eroe nel senso stereotipato del termine. A questo, infatti, è servito tutto il complesso
rapporto dei primi volumi, e soprattutto del terzo, con una serie di modelli classici: a
mostrarci il lungo processo che porta Vasco ad aprirsi alla possibilità di dialogare con l’Altro.
Una possibilità che, per esempio, è negata ad eroi perfetti come Corto Maltese, il quale può
parlare bene degli indigeni di molti luoghi esotici, ma non può mai parlare con loro,
nonostante spesso lo desideri, così come non può, e non vuole, aprirsi alla comprensione di
una contemporaneità che gli comunica solo nostalgia di un mondo in cui erano possibili

1
Ci si riferisce qui proprio a quei modelli di narrativa di avventura contemporanei, e soprattutto cinematografici,
che vengono superati da de Isusi, e si veda come esempio la relazione con i personaggi femminili di un
‘avventuriero’ come James Bond. Lo stesso de Isusi, nell’intervista a se stesso, scrive: “Y en cuanto a eso de que
no hay nada de sexo… yo qué sé, hay tantísimo sexo por todas partes (ejem, me refiero a la tele, las películas,
cómics y libros) que tampoco pasa nada porque haya alguna historia sin él, ¿no? En la vida hay períodos en los
que el sexo puede ser central y otros en los que no, y en cuatro tomos de historieta como son Los viajes de Juan
Sin Tierra… pues bueno, hay espacio para todo.”
Cfr. http://www.astiberri.com/entrevistas.php?ident=7
2
Todorov, Tzvetan, La conquista dell’America. Il problema dell’altro, trad. di Aldo Serafini, Torino, Einaudi,
1992, p. 161.
115
mitiche avventure. È per questo motivo che Vasco perde, in quest’ultimo volume, la sua
somiglianza con Corto (si rasa capelli e basette).

Questa differenza sta sostanzialmente nell’introduzione della sconfitta. Finché vince,


finché tutto gli va bene e può procedere di avventura in avventura seguendo gli indizi di Juan,
in effetti, anche Vasco non ammette la possibilità di veri e propri incontri con l’altro: rimane
chiuso in quell’alone di mistero che gli rimprovera Elsa, dentro al quale, sostanzialmente, non
entra nessuno, e che lo rende così simile a Corto Maltese. I primi accenni di un dialogo vero e
proprio con un altro personaggio si hanno nel terzo volume, che come abbiamo visto
introduce proprio il discorso di distruzione dei modelli classici. Infatti, questi dialoghi
avvengono con Héctor e Napo nel corso del noiosissimo (per i personaggi) e ben poco eroico
viaggio della Camila sul fiume Napo. Due sono qui gli elementi di sconfitta nei confronti
dell’immagine dell’eroe: la noia e la sorpresa. La noia del viaggio sul battello, prima di tutto,
che nella sua distanza dall’epica dell’avventura costringe Héctor e Vasco, entrambi
intrappolati nei loro sogni d’avventura, a dialogare. E poi la sorpresa portata da Napo, che con
i suoi discorsi, atteggiamenti e trasformazioni si rivela un elemento incontrollabile, che sfugge
alla valutazione del protagonista.

Un episodio chiave in questo senso può essere trovato nel dialogo tra Vasco e i
responsabili della sede dell’MST di Salvador de Bahia. Qui, Vasco entra per chiedere di poter
collaborare col movimento, in modo da poter trovare Juan, ma non osa (più che altro a causa
delle sue paure di incontrarlo davvero) chiedere chiaramente dove si trovi il suo amico. La sua
proposta di collaborazione, tuttavia, viene guardata con sospetto:

-No le entiendo muy bien, la verdad… Usted dice que quiere colaborar con
nosotros… Pero yo no veo claro en qué podría usted sernos de ayuda.
-Bueno... yo… no sé… tengo experiencia en todo tipo de trabajos... y... bueno...
también estuve un tiempo con los zapatistas en México... yo... Sería voluntariamente, claro.1

In questo episodio, situato all’inizio del volume, ma da situare cronologicamente verso il


termine della vicenda, Vasco compie l’errore di voler sfruttare il proprio ruolo di occidentale,
sicuro che solo per il fatto di essere un gringo il suo aiuto sia immediatamente desiderabile. È
per questo motivo che cita la sua esperienza con gli zapatisti (compiendo anche qui l’errore di

1
TdlST, p. 40.
116
mescolare due ribellioni totalmente diverse, come se fossero la stessa cosa): per il ruolo che
essi conferiscono agli osservatori stranieri, che tuttavia è un ruolo strumentale. I responsabili
della sede dell’MST, invece, rispondono trattandolo come un individuo, un soggetto singolo,
che però, in quanto tale, non si vede come possa contribuire alla loro causa.

-Bueno, yo… sólo… no sé, creo que en este tipo de conflictos como el de los sin
tierra... el que haya personas de otras nacionalidades involucradas siempre ayuda a...
-Ya veo. ¿Es usted periodista? ¿O trabaja para algún organismo internacional?
¿Para alguna ONG al menos?
-Eeh… pues no.
-Mire, ayer veinte pistoleros desalojaron un campa mento matando a uno de
nuestros ombre. Tenemos que preparar antes del viernes toda la documentación para legalizar
ante el INCRA otros cuatro campamentos. Y las compañias eléctrica y telefónica nos están
saboteando. [...] No tenemos tiempo para organizar escursiones de turismo solidario, ¿lo
entiende? ¿Por qué no nos habla claro? Me da la sensación de que usted quiere algo de
nosotros, pero no se atreve a pedirlo. ¿Qué está buscando?1

Quando viene rifiutata la relazione basata sulle differenze geografiche (e quindi di potere) e
quando si pretende di essere trattati come soggetti, e di trattare l’altro come tale, quindi, si
apre la possibilità di un colloquio sincero. Per il personaggio di Vasco questo significa,
inoltre, l’essere messo di fronte alle proprie paure, ed esprimerle. Ed effettivamente, alla fine
Vasco ottiene l’informazione che desiderava. Questo episodio segna un’ ulteriore sconfitta di
Vasco come figura occidentale salvifica: basta confrontarlo con il ruolo di Corto Maltese nei
confronti dei banditi ribelli brasiliani in Samba con Tiro Fisso. Lì, infatti, l’intervento
dell’eroe gringo è salutato fin da subito come provvidenziale, e Corto è trattato come un
salvatore, senza il quale non avrebbero potuto continuare la ribellione.

Che il processo di crescita debba passare attraverso una sconfitta, o quantomeno una
rinuncia di una parte della visione del mondo del personaggio, è espresso chiaramente anche
nelle due opere di Hesse. Siddharta, infatti, pur dopo tanto imparare ed esperire, raggiunge un
qualche tipo di comprensione definitiva solo quando impara ad amare, e soprattutto a soffrire
per un altro essere umano: suo figlio. E il rapporto di Siddharta con il figlio che non sapeva di
avere è difficile fin da subito, ma soprattutto è segnato dal fallimento: dopo la morte della
madre, Siddharta lo prende con sé, ma nonostante tutto l’affetto e le attenzioni di cui lo
ricopre, il ragazzino non riesce a contraccambiare il suo amore, e fugge. Ma è proprio questa
1
Ivi, pp. 125-126.
117
esperienza che gli permette di cambiare opinione sulle altre persone: “Diversamente che un
tempo considerava ora gli uomini, con minore orgoglio, con minore intelligenza, e perciò con
tanto maggior calore, curiosità e interesse.”1

Qualcosa di simile accade a Harry ne Il lupo della steppa: l’incontro con Erminia
spazza via molte delle sue fantasie solitarie, e le sostituisce con l’esperienza di un rapporto
con una persona reale: “Una creatura umana che ad un tratto infrangeva la grigia campana di
vetro della mia vita spenta e mi porgeva la mano, una mano buona, bella, calda!” Il marco di
realtà che caratterizza Erminia qui ha senso proprio perché la rende portatrice di elementi
inaspettati, e in quanto tale apre il personaggio all’esperienza del mondo. Ed infatti Harry si
trova a conversare con quei ‘borghesi’ che prima vedeva tanto distanti, e a riconsiderare la sua
posizione nel mondo. L’elemento di sconfitta, qui, seppur più labile che in Siddharta e
nell’opera di de Isusi, è presente nel fatto che quanto più Erminia educa Harry ai piaceri
semplici, tanto più lo costringe a fare cose che egli disprezzava: “Con la progressiva
distruzione di quella che prima avevo chiamato la mia personalità, incominciai anche a
comprendere perché nonostante la disperazione avevo temuto così orribilmente la morte, e a
sentire che anche quella brutta e vergognosa paura faceva parte della mia vecchia, borghese e
falsa esistenza.”2 Il mutamento interiore, quindi, porta a riconsiderare il proprio rapporto con
la vita e col mondo, e, da questa nuova posizione, il personaggio può tornare a guardare a se
stesso, e vedere come aspetti di sé che credeva fondamentali, in realtà appartenevano proprio
alle tanto odiate abitudini borghesi, più di quanto non vi appartengano le abitudini di tanti
membri di quella classe. Cambia, quindi, anche la penetrazione e la coerenza dei principi
politici e sociali propugnati dal protagonista.

Per Vasco, è la selva amazzonica a sancire, come già si è analizzato, la vera e


completa sconfitta: contro l’ambiente e contro se stesso. Ma l’attraversamento di questa
frontiera, che personaggi come Corto o Marlow mai hanno attraversato, porta alla scoperta
dell’Alterità, al superamento di quella distanza incolmabile che Marlow percepisce ma mai
desidera colmare, e Kurtz non colma mai perché, seguendo Todorov, non dialoga con
l’Alterità, ma le dà solamente ordini. Le sconfitte dell’eroe, in questo senso, simboleggiano
un altro tipo di sconfitta: quella che coinvolge la visione del mondo del protagonista,
inevitabilmente centrata nella tradizione occidentale: quella sconfitta che Marlow vuole

1
Hesse, Hermann, Siddharta, cit., p. 173.
2
Hesse, Hermann, Il lupo della steppa, cit., p. 154.
118
evitare con tutte le sue forze, aggrappandosi alle abitudini e al principio di realtà. Vasco, al
contrario, fallisce nell’applicazione del principio di realtà, e si ritrova gettato nel pieno
dell’Alterità, la quale gli pone una sfida, come scrive Wimmer:

L’estraneo resiste all’appropriazione e alla comprensione, sicché tale esperienza


dell’estraneità rende chiaro che il proprio mondo (di senso) non è né il mondo, né il mondo
come tale, bensì una delle sue interpretazioni. Si sperimenta come il mondo delle cose e il
mondo delle parole non siano congruenti e non si risolvano l’uno nell’altro. La parola
‘estraneo’ designa con la sua indeterminatezza proprio questa frattura che ogni immagine,
ogni rappresentazione, ogni definizione di contenuto dell’estraneo stesso cerca di ricoprire. 1

Da questa crisi del proprio concetto di mondo deriva una crisi anche del concetto di identità:
“L’esperienza di un estraneo, che resta tale, rende ogni volta di nuovo evidente lo scarto tra
uomo e mondo così come la mancanza di accordo con se stessi, che si può certamente
conoscere ma non superare.”2 Ma è proprio da questa crisi che scaturisce il potenziale di
decostruzione dell’incontro con l’Altro, come afferma Derrida:

Intendo dire che la decostruzione, in sé, è una risposta positiva a un’alterità che
necessariamente la chiama, la incita, la motiva. […] L’altro, o l’altro da sé, l’altro che oppone
l’identità di sé, non è qualcosa che può essere intercettato e svelato all’interno di uno spazio
filosofico e con l’aiuto di una lampada filosofica. L’altro precede la filosofia e
necessariamente invoca e provoca il soggetto prima che possa iniziare qualsiasi autentica
domanda. È in questo rapporto con l’altro che l’affermazione si esprime.3

Per Vasco, la tribù di Napo rimane qualcosa di altro da sé: ‘la presenza di un estraneo che
resta tale’, e questo permanere della relazione di alterità è simbolicamente rappresentato dal
rigetto, fisico, che Vasco ha in seguito alla seconda visione, nella quale è simbolicamente
rinato, ma dopo la quale si sente male e vomita. Proprio quella visione, quindi, che
rappresenta il frutto più significativo della crescita interiore del personaggio a contatto con
l’Altro (la cultura india), è immediatamente seguita dall’espressione di quanto questa stessa
alterità sia incolmabile. L’esperienza di Vasco con l’alterità, quindi, è un’esperienza al limite
tra comprensione e incomprensione, tra identificazione e incolmabile distanza: un equilibrio
talmente precario da essere critico, che costringe ogni volta Vasco ad aprire il suo pensiero
all’impensabile, all’Altro, anche se non può accettarlo.

1
Wimmer, Michael, “Straniero”, in AA.VV., Cosmo, corpo, cultura, Milano, Bruno Mondadori, 2002, p. 1095.
2
Ibidem.
3
Kerney, Richard, Decostruzione e l’altro, intervista con Jacques Derrida, cit., p. 209.
119
Questo conflitto, fertile, tra alterità incolmabile e apertura del pensiero, lo ritroviamo
in un altro episodio. Napo, infatti, trova un enorme granchio di fiume, e lo identifica
immediatamente con Wahau, la divinità-granchio la cui apparizione, secondo lo sciamano
Amaru, avrebbe significato che il pericolo rappresentato dalla presenza dei bianchi nelle
vicinanze del villaggio era passato, e la tribù poteva tornare. Vasco rimane incredulo di fronte
a questa interpretazione del semplice ritrovamento di un animale:

-¿Ah? Entonces… ¿Este es el…?


-¡El gran guerrero! ¡Sí! ¡El que nos defenderá de los blancos!
-Un... Wahau es un… ¿Un cangrejo?
-¡Vamos! ¡Tenemos que llevárselo a los demás!
-Napo… no es que quiera subestimar las pinzas de Wahau, pero... me parece que
hará falta algo más que un cangrejo para detener al hombre blanco.
-Ja, ja… ¡Eso lo dices porque non conoces a Wahau! ¡Ya no hay de que
preocuparse! ¡Podemos regresar a la aldea!
-¡Eh! Para, para, ¿me estás diciendo que un cangrejo va a haceros olvidar vuestras
precauciones con los blancos? ¡Vuestra aldea está sobre un polvorín! ¡Hay oro ahí! ¿No lo
entiendes? ¡No deberíais volver allá!
-Ji, ji, eres tú el que no entiende, ¡ahora Wahau está con nosotros! ¡Desde chico
escuché sus historias! Estoy deseando verlo convertido en el gigante de los ochos brazos
invincibles ¡Chas, chas!
-Pero... ¿de qué te ha servido estar con los blancos? Yo te hablo de balas y
excavadoras y tú me vienes con... ¡Con cuentos para niños!
-¿A qué cuentos para niños te refieres?
-Pues… ¡A eso! ¡A Wahau! ¿No ves que sólo es un cangrejo? Sus cuentos del
guerrero de los ochos brazos chas chas serán muy bonitos para contárselos a los niños en
torno al fuego, pero son sólo eso, ¡cuentos! ¡No son reales!
-¡Ja, ja! ¿Y para qué se lo ibamos a contar a los niños entonces?
-Buf... Napo, a los niños se les cuenta cualquier cosa porque se lo creen todo
-Ah, ya veo... crees que Wahau es como el papá noel ese que se inventaron ustedes
no sé para qué. Nosotros no hacemos eso, Vasco. A los niños no les contamos cualquier
cosa... ¡Precisamente porque se lo creen todo! Pero no te preocupes, las excavadoras no
podrán con Wahau.1

Come scrive Wimmer trattando del pensiero di Levinas:

1
TdlST, pp. 93-95.
120
Se l’altro è diverso dall’essere e se ogni comprensione è in ultima analisi
comprensione dell’essere, allora l’altro non si può comprendere. Esso è pertanto il confine
della comprensione, del volere e del potere del soggetto. Così l’estraneo, lo straniero, non è
più una configurazione particolare dell’altro, bensì ogni altro è un estraneo, uno straniero.1

Ma questa esperienza del limite della comprensione non deve essere vista come un freno,
bensì come un’occasione. Vasco può apprendere, da una discussione come quella citata, che
non può vincere: che le armi dell’argomentazione logica e dei meccanismi del pensiero che
egli ritiene infallibili, perché base fondamentale della cultura occidentale nella quale si è
formato, non possono spuntarla. E il motivo per cui questi meccanismi di pensiero non
possono vincere si trova essenzialmente nel loro essere alla base non solo della accorata
preoccupazione di Vasco per il futuro della tribù, ma anche dello stesso pericolo che la
minaccia: è l’uomo bianco, con tutto il suo immaginario, a portare le ruspe e i proiettili,
esattamente come è la logica stringente dell’uomo bianco che porta a farsi beffe della
credulità dei bambini. Come scrive Mignolo, si tratta della stessa logica, pur con diversi
contenuti.2

Tuttavia, è altrettanto importante notare che a Vasco non viene richiesto, in nessun
momento, di credere ciecamente in una tradizione culturale non sua, e, di fatto, non lo fa. Allo
stesso modo da quella discussione non esce vincente, ma nemmeno perdente. De Isusi ci
presenta, quindi, un’esperienza dell’alterità che, appunto, si situa al limite, e permette di
uscire da una logica di ragione univoca e di argomentazione, dalla quale si potrebbe uscire
solo vinti o vincenti. In questo senso, se assistessimo ad una conversione di Vasco alla cultura
e alle credenze indie, saremmo di fronte ad un perpetuarsi di una logica di inclusione che,
sebbene vedrebbe gli indios, la parte oppressa, trionfare, continuerebbe a promuovere un
discorso per il quale l’Altro include o viene incluso. Uscire da questa logica non è semplice,
ma è necessario (corsivo mio):

Ogni scienza o teoria dello straniero e dell’estraneo si trova in un irrisolvibile


paradosso, quello di poter comprendere l’estraneo solo nella propria lingua e di dover pensare
nell’esperienza dell’estraneo qualcosa che il pensiero non può circoscrivere. La pretesa
cognitiva di voler conoscere e comprendere l’estraneo e la pretesa etica di rispettarlo nella sua
estraneità inducono nel pensiero uno stato di inquietudine che si può interpretare come una
risposta alla sfida dell’estraneo. Volerlo pensare senza continuare nella logica dell’inclusione

1
Wimmer, Michael, “Straniero”, cit., p. 1103.
2
Cfr. Mignolo, Walter, “The Zapatistas’ Theoretical Revolution”, cit., p. 250.
121
costringe il pensiero a un’apertura, ovvero a prendere atto di quello che nel pensiero è
estraneo al pensiero, quindi del suo limite. Il paradosso è perciò una forma per pensare il
rapporto stesso con l’estraneo come limite del proprio volere, potere, sapere, attraverso il
quale il pensiero rientra in una relazione etica con l’altro. Nel paradosso si manifesta quindi
l’irruzione dell’alterità nel pensiero, di un estraneo con cui non può spuntarla, attraverso il
quale il pensiero può scoprire se stesso come una risposta alla domanda dell’altro.1

Le rinascite di Vasco, di Siddharta e di Harry Haller hanno dimostrato, finora, come questo
‘scoprire se stessi come una domanda dell’altro’ sia salvifico dal punto di vista interiore e
personale. Infatti, se per Vasco i problemi non finiscono, e una volta uscito dalla selva lo
aspettano ancora numerose scoperte, è tuttavia evidente come queste scoperte, per quanto
negative, presuppongano un nuovo modo di relazionarsi con l’Altro, e ciò che ha appreso
nella selva gli permette di guardare al futuro con occhi diversi: la frase con cui termina il
volume è, infatti: “Me da la sensación, Juan, de que mi auténtico viaje empieza ahora.”2
Tuttavia, il senso della ricerca di un modo nuovo di pensare l’alterità rimanda
immediatamente, anche nell’analisi di Wimmer, ad una dimensione etica e politica, che va a
toccare alcuni nodi fondamentali della modernità.

III.3.2. “Diversity as a universal project.”3

L’esperienza del primo nucleo dell’Esercito Zapatista de Liberación Nacional, per come lo
narra lo stesso Marcos che lo ha vissuto, si presenta sotto caratteristiche sorprendentemente
simili a quelle del cammino di Vasco. Nei primi anni ’80, un ristretto gruppo di guerriglieri,
tutti cresciuti in ambiente urbano, si stabilisce nel cuore della selva Lacandona, nel Chiapas,
ed inizia ad addestrarsi, e a cercare di portare gli abitanti di quei luoghi, in prevalenza indios
di etnia maya, alla ribellione. Come racconta Marcos:

Pensavamo che parlare a un proletario, a un contadino, a uno studente fosse la


stessa cosa, che tutti avrebbero compreso il linguaggio della rivoluzione. E ci siamo trovati
davanti un mondo nuovo per il quale non avevamo risposta. […] Il merito dell’organizzazione
è di aver ammesso che non aveva risposta e che doveva imparare. È la prima sconfitta
dell’EZLN, la più importante, quella che lo segnerà da quel momento in poi: l’Esercito
Zapatista, di fronte a una cosa completamente nuova, riconosce di non avere soluzione al

1
Wimmer, Michael, “Straniero”, cit., p. 1101.
2
TdlST, p. 160.
3
Mignolo, Walter, “The Zapatistas’ Theoretical Revolution”, cit., p. 268.
122
problema, di dover aspettare e di dover imparare. […] Secondo me, l’EZLN è riuscito a
sopravvivere e a crescere grazie al fatto di aver accettato questa sconfitta. […] Abbiamo
davvero subito un processo di rieducazione, di rimodellamento. Come se ci avessero smontato
in tutti nostri elementi, il marxismo, il leninismo, il socialismo, la cultura urbana, la poesia, la
letteratura, tutto quello di cui eravamo fatti, e altre cose di cui nemmeno avevamo
coscienza… Ci hanno smontati e poi rimontati in modo diverso. Era l’unico sistema per
sopravvivere.1

Questo mutamento profondo deriva dallo spaesamento provocato dall’incontro con l’Altro, e
dal fatto che il carico di immaginario con il quale i guerriglieri erano arrivati in Chiapas non
trova risposte alla realtà della vita chiapaneca, e per questo non riesce nemmeno a farsi
ascoltare. Il passaggio fondamentale e fecondo, quindi, è quello che li fa passare dal tentativo
di farsi ascoltare al tentativo di ascoltare, e dialogare. Per questo hanno grande peso le figure
dei traduttori (tra i guerriglieri e la popolazione c’è anche, infatti, una differenza linguistica):

All’inizio, nella nostra prospettiva di guerriglieri, si trattava di gente sfruttata che


andava organizzata, cui bisognava mostrare la via. Mettiti al nostro posto: eravamo la luce del
mondo! […] Le cose sono incominciate a cambiare quando è comparso l’altro traduttore, il
loro, il vecchio Antonio. Quest’uomo anziano, che può sembrare un personaggio letterario ma
è esistito realmente, diventa il legame con le comunità, il loro mondo, la sua componente più
india. […] Ci rivolgevamo a un movimento indio che non stava aspettando il salvatore ma,
anzi, era portatore di una grande tradizione di lotta, una grande esperienza; un movimento
molto solido, anche molto intelligente, cui noi servivamo semplicemente, diciamo, come
braccio armato.2

Marcos insiste spesso sull’uso di metafore legate alla traduzione, che portano il concetto fuori
dal solo campo semantico del linguaggio, per arrivare ad indicare una traduzione di ideali e di
concetti, che lavora sempre in due sensi: la prospettiva politica in senso classico e marxista
dei guerriglieri dialoga con la prospettiva più etica e più umanitaria della popolazione india. Il
risultato di questo dialogo è che gli ideali della ribellione zapatista si arricchiscono di
elementi che la rendono diversa da ogni altra, proprio per il suo sincretismo:

[Questo nuovo contenuto] È una specie di traduzione, resa più ricca dalla
prospettiva della transizione politica. L’idea di un mondo più giusto, più o meno tutto quello
cui aspira il socialismo ma ridigerito, arricchito di elementi umanitari, etici, morali, più che
propriamente indigeni. La rivoluzione diventa un problema essenzialmente morale. Etico. Più

1
Le Bot, Yvon e Marcos, Il sogno zapatista, cit., pp. 108-110.
2
Ivi, pp. 107-108.
123
che un problema di ripartizione della ricchezza o di espropriazione dei mezzi di produzione, la
rivoluzione rappresenta la possibilità di uno spazio di dignità per l’essere umano. La dignità
inizia a diventare un concetto molto importante, e l’idea non viene da noi, dal gruppo urbano,
viene dalle comunità.1

La diversità del programma zapatista, infatti, sussiste proprio nel tentativo di conciliare un
sistema politico egualitario con il rispetto della diversità culturale ed individuale. Come scrive
Mignolo: “According to Hinkelammert, the Zapatistas are claiming diversity as a universal
project: a world composed of multiple worlds, the right to be different because we are all
equals, to obey and rule at the same time.”2 Questo tentativo appare molto vicino a ciò che
scrive Todorov verso la fine di La conquista dell’America – la scoperta dell’altro, dove tratta
di quale sia il senso di investigare in profondità le relazioni che ebbero luogo tra indios e
conquistatori spagnoli: comprendere, cioè, le ragioni del totale fallimento di quel dialogo (a
parte in pochissimi casi), per poterne iniziare uno nuovo che permetta di superare le crisi del
presente:

Per lo meno sul piano ideologico, noi cerchiamo di combinare quel che ci sembra
abbiano di meglio i due termini dell’alternativa: vogliamo l’uguaglianza senza che ciò
significhi identità; ma vogliamo anche la differenza senza che degeneri in
superiorità/inferiorità; speriamo di poter godere i benefici del modello egualitarista e quelli
del modello gerarchico; aspiriamo a ritrovare il senso del sociale senza perdere le qualità
dell’individuale. […] Vivere la differenza nell’uguaglianza: è cosa più facile a dirsi che a
farsi.3

Per cercare di raggiungere questo difficilissimo obbiettivo il dialogo con l’Altro è


fondamentale, come insegna l’esperienza zapatista. L’Altro che potrebbe insegnare
all’Occidente a superare i drammi della modernità, in particolare, e a conciliare i poli
apparentemente inconciliabili descritti da Todorov, è da cercare in tutte quelle popolazioni
che hanno subito la colonizzazione. È proprio quel bagaglio tragico di esperienza che ha
costretto una parte del mondo, suo malgrado, a sviluppare quella che Anzaldúa chiama la
faculdad: un’empatia, una capacità di percepire l’Altro in maniera profonda, propria degli
emarginati. Le popolazioni colonizzate, e quindi poste ‘ai margini’ di un impero, non hanno
potuto fare altro che sviluppare questa abilità, in un mondo che li ha costretti, da secoli, a fare
i conti continuamente con un Altro assai ingombrante, al cui sistema di pensiero hanno
1
Ivi, pp. 106-107.
2
Mignolo, Walter, “The Zapatistas’ Theoretical Revolution”, cit., p. 263.
3
Todorov, Tzvetan, La conquista dell’America, cit, p. 302.
124
dovuto adattare il proprio, nella necessità di comunicare.1 Il pensiero politico e filosofico che
scaturisce da questa frizione è definito da Mignolo border thinking: la capacità di pensare dai
confini, dai margini dell’impero. Ora, quest’impero può essere l’impero spagnolo, inglese o
del capitalismo contemporaneo, ma può anche essere l’impero maschile, eterosessuale o
religioso: ciò che è più significativo è che gli esperimenti di riflessione critica e ribellione che
si basano su ciò che possiamo chiamare border thinking riescono a prendere in considerazione
tutti i margini, tutti i generi di diversità, o perlomeno ci provano: il movimento zapatista e
l’opera di Gloria Anzaldúa ne sono un esempio.

Queste nuove forme di pensiero rappresentano il vero Altro della modernità,


quell’Altro con cui la cultura occidentale di stampo europeo deve fare i conti, e che,
soprattutto, può rappresentare una guida per uscire dai problemi che attanagliano proprio le
società occidentali. Per fare questo, tuttavia, è necessario accettare una sconfitta, accettare
cioè, come è costretto a fare Vasco, di perdere una supposta posizione centrale nella cultura e
nella politica mondiale, di essere spostati, anche noi, ai margini: a diventare, come scrive
Todorov, “un essere che ha perduto la patria senza acquistarne un’altra”2, “colui per il quale
tutto il mondo non è che un paese straniero.”3 Sotto l’aspetto culturale, questo spaesamento si
traduce, infatti, in una messa in discussione di tutto ciò che ha portato a porre l’Occidente in
una posizione centrale rispetto al resto del mondo:

La nuova domanda sull’estraneo si produce quindi in termini epistemologici e


teoretici in connessione con la critica della ragione e della soggettività, in termini storici con
la (auto)critica della modernità, in termini etico-pratici ovvero politico-culturali con la critica
delle strategie delle società occidentali per fronteggiare l’estraneo, lo straniero, a partire dalla
conquista dello spazio con l’espansione crescente, attraverso la sottomissione coloniale e lo
sfruttamento fino all’assimilazione e alla subordinazione culturali e spirituali delle tradizioni e
dei mondi estranei di esperienza nella propria immagine del mondo e nella propria concezione
della realtà.4

Questa messa in discussione, o meglio questo discutere, dialogare con l’Altro, è il senso della
traduzione invocata da Marcos, la doppia traduzione da e verso il linguaggio delle popolazioni
indie: “The theoretical devolution grounded in double translation makes it possible to imagine

1
Cfr. Mignolo, Walter, The Idea of Latin America, cit., p. 9.
2
Todorov, Tzvetan, La conquista dell’america, cit., p. 302.
3
Ibidem.
4
Wimmer, Michael, “Straniero”, cit., p. 1099.
125
epistemic diversality (or pluriversality) and to understand the limits of the abstract universals
that have dominated the imaginary of the modern/colonial world from Christianity to
liberalism and Marxism.”1 Il mondo, immaginato, che ne risulterebbe, sarebbe quindi “un
mundo donde quepan todos los mundos”, un mondo di uguali in cui ogni diversità viene
rispettata, una società interculturale: “’Interculturalidad’ as used in Indigenous political
projects, means that there are two dinstict cosmologies at work.”2 Come già diceva Todorov,
questo è un obbiettivo difficilissimo, perché presuppone l’accettazione del rischio di veder
sbilanciata ogni certezza, ogni desiderio di trovare un ideale universale che possa funzionare
da territorio comune, come scrive Wimmer (corsivo mio):

Con il declino della totalità e la messa in discussione della pretesa di universalità


delle culture occidentali, in loro stesse e da parte degli estranei da loro descritti, […], si pone
così in modo rinnovato il problema della radicale pluralità senza mediazione che la
ricomprenda. Oggi si tratta perciò di rendere pensabile la possibilità di un’esistenza plurale,
nella quale né l’estraneità, nella figura della singolarità del singolo uomo, né l’estraneità tra le
culture, le società e le epoche siano ridotte a unità, in cui neppure predomini alcuna differenza
e isolamento reciproco tra estranei assoluti, bensì esista una relazione, non nonostante, ma
sulla base della separazione stessa.3

In questi termini, portatori di uno spaesamento che coinvolge tutti i pilastri della cultura
occidentale, questo tentativo diventa quasi impossibile. Proprio per questo, proprio quando la
situazione si fa così complessa, sembra dirci de Isusi, sono necessari degli eroi, ma di un tipo
nuovo. Eroi come Vasco, disposti ad essere sconfitti, a vedere distrutti tutti propri miti, a
vedersi fatti a pezzi e poi rimontati, eppure capaci di mantenere viva la loro ironia, e di non
trasformare l’esperienza dell’incontro con l’Altro in un’esperienza di conversione: se per
dialogare non bisogna comandare l’Altro, allo stesso modo non bisogna esserne comandati.
Questo tipo di eroe ricorda, per certi versi, l’’eroe della ritirata’ descritto da Hans Magnus
Enzensberger:

El lugar del héroe clásico han pasado a ocuparlo en las últimas décadas otros
protagonistas, en mi opinión más importantes, héroes de un nuevo estilo que no representan el
triunfo, la conquista, la victoria, sino la renuncia, la demolición, el desmontaje. Tenemos

1
Mignolo, Walter, “The Zapatistas’ Theoretical Revolution”, cit., p. 250.
2
Cfr. Mignolo, Walter, The Idea of Latin America, cit., p. 118.
3
Wimmer, Michael, “Straniero”, cit., p. 1103.
126
todos los motivos para ocuparnos de estos especialistas de la negociación, pues nuestro
continente necesita de ellos si quiere seguir viviendo.1

Le figure proposte da Enzensberger come esempi di questo nuovo tipo di eroe, figure
politiche ambigue come Adolfo Suárez, Nikita Krusciov, o Michail Gorbačëv, sono
notevolmente diverse da un personaggio come Vasco, sotto ogni punto di vista. Tuttavia, ciò
che è simile è il processo che, secondo lo scrittore tedesco, porta dalla figura classica di
personaggio politico eroico, vincente, a questo nuovo genere di eroe perdente. Questo
processo coinvolge lo smarrimento delle certezze universali e dei miti classici, con il
conseguente smarrimento di una parte fondamentale del proprio immaginario:

Pero precisamente esta claridad inequívoca es lo que no puede ofrecer en ningún


caso el héroe de la retirada. Quien abandona las propias posiciones no sólo entrega un terreno
objetivo, sino también una parte de sí mismo. Semejante paso no puede tener lugar sin una
separación de la persona y su papel. El ethos del héroe se halla precisamente en su
ambivalencia. El especialista en desmontaje demuestra su valor moral asumiendo esa
ambigüedad.2

L’ambivalenza e l’ambiguità acquisiscono quindi una connotazione positiva, in quanto


rappresentazioni della capacità di stare a cavallo tra due sistemi di pensiero: quello
precendente, con cui si è cresciuti e che ha formato l’immaginario dell’eroe, e quello nuovo,
che mette in crisi quello precedente e che l’eroe non può cessare di considerare estraneo a sé,
ma nonostante questo (e ciò è eroico) sceglie di averci a che fare, di accettarne la sfida. Per
Suárez i due sistemi di pensiero erano il franchismo (grazie al quale aveva ottenuto il
successo politico) e la democrazia, per Gorbačëv il sistema sovietico e quello liberale, per
Vasco invece sono l’ideale classico di avventura e la decolonizzazione del pensiero. Il
risultato, in ogni caso, è lo stesso: la sconfitta e la distruzione del personaggio iniziale, e la
formazione di un sistema nuovo, di un personaggio nuovo. Tutto ciò non rende questi
personaggi storici totalmente positivi, anzi: in tutti gli esempi presentati da Enzensberger le
ombre prevalgono sulle luci. Tuttavia, li rende necessari, perché questa capacità di minare, più
o meno consciamente, le fondamenta dello stesso immaginario che garantiva il successo del
personaggio e che gli garantiva una posizione gerarchica preminente è assurda, eroica e
tuttavia essenziale per il mondo contemporaneo:

1
Enzensberger, Hans Magnus, “Los héroes de la retirada”, in El País, 26 dicembre 1989.
2
Ibidem.
127
Un filósofo alemán ha dicho que al final de este siglo no se trata de mejorar el
mundo, sino de respetarlo. Este juicio vale no sólo para aquellas dictaduras que actualmente
están siendo desguazadas con más o menos arte delante de nuestros ojos. También a las
democracias occidentales les aguarda un desarme del que no existe precedente. El aspecto
militar no es más que uno entre muchos. Otras posiciones insostenibles que hay que eliminar
son las que se refieren a la guerra de deudas con el Tercer Mundo, y la retirada más difícil de
todas es la de la guerra que estamos librando desde la revolución industrial contra nuestra
propia biosfera.1

L’opera di de Isusi, tuttavia, offre l’opportunità di un’ulteriore riflessione, e mostra come la


negoziazione continua del proprio immaginario, la rinuncia alla stabilità di un sistema
culturale prefissato, il coraggio di farsi smontare e rimontare da una cultura Altra – abilità
così rare in Occidente da essere definite eroiche – siano già patrimonio comune in altri luoghi
del mondo, o nelle pieghe più o meno nascoste dello stesso Nord del mondo. Esse
costituiscono da secoli, infatti, l’alfabeto culturale di persone che hanno vissuto e vivono tutti
i giorni il colonialismo, la subalternità, ma anche l’interculturalità, la migrazione, percependo
di continuo sulla loro pelle lo sguardo di un Altro che li qualifica come Altri, diversi, esotici,
primitivi o orientali. Il lungo processo di maturazione del personaggio di Vasco, infatti,
permette a de Isusi di esaltare figure, mai secondarie, che dimostrano di avere già imparato, e
ormai da secoli, quelle stesse capacità cui Vasco, e l’Occidente con lui, fa così fatica ad
imparare.

1
Ibidem.
128
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