2021 TOMATIS I Due Gramsci

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LA VALLE DELL’EDEN

SEMESTRALE DI CINEMA E AUDIOVISIVI

n. 37
2021
Direttore responsabile/Managing editor In copertina:
Grazia Paganelli (Museo Nazionale del Cinema) Castro Theatre, San Francisco
Retrospettiva Dino Risi, 22 aprile 2017
L’editore è a disposizione del proprietario dei diritti sulla foto, che non
Direttori/Editors è stato possibile rintracciare per richiedere la debita autorizzazione
Giaime Alonge (Università di Torino), Giulia
Carluccio (Università di Torino), Luca Ma- Progetto grafico:
lavasi (Università di Genova), Federica Villa Fabio Vittucci
(Università di Pavia)

Comitato scientifico/Editorial board


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Francesco Casetti (Yale University), Richard
Dyer (King’s College London), Ruggero Eugeni
(Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano),
Tom Gunning (University of Chicago), Giaco-
mo Manzoli (Università di Bologna), Enrico
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O’Rawe (University of Bristol), Peppino Orto-
leva (Università di Torino), Guglielmo Pescatore
(Università di Bologna), Francesco Pitassio
(Università di Udine), Jacqueline Reich (Marist
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bonne Nouvelle - Paris 3), Veronica Pravadelli
(Università Roma Tre)

Comitato direttivo/Editorial advisory board


Silvio Alovisio (Università di Torino), Alessandro
Amaducci (Università di Torino), Luca Barra
(Università di Bologna), Claudio Bisoni (Univer- La Valle dell’Eden
sità di Bologna), Gabriele D’Autilia (Università Semestrale di cinema e audiovisivi
di Teramo), Raffaele De Berti (Università di
Milano), Ilaria De Pascalis (Università Roma Stampato con il contributo di
Dipartimento Studi Umanistici, Università degli Studi
Tre), Damiano Garofalo (Sapienza - Università di Torino; Dipartimento di Studi Umanistici, Università
di Roma), Michele Guerra (Università di Parma), degli Studi di Pavia; Dipartimento di Italianistica, roma-
Ilario Meandri (Università di Torino), Andrea nistica, antichistica, arti e spettacolo, Università degli
Minuz (Sapienza - Università di Roma), Emiliano Studi di Genova.
Morreale (Sapienza - Università di Roma), Ma-
riapaola Pierini (Università di Torino), Chiara © 2022 Rosenberg & Sellier
Simonigh (Università di Torino), Andrea Valle
(Università di Torino)

Coordinamento della redazione/


Editorial coordinator ISBN 979-12-5993-103-0
Giovanna Maina (Università di Torino) ISSN 1970-6391

Redazione/Editorial staff Registrazione presso il Tribunale di Torino


n. 5179 del 04/08/1998
Lorenzo Donghi (Università di Pavia), Riccardo
Fassone (Università di Torino), Chiara Grizzaffi Editore
(Università IULM), Giulia Muggeo (Università Lexis Compagnia Editoriale in Torino
di Torino), Matteo Pollone (Università di To- via Carlo Alberto 55 - 10123 Torino
rino), Gabriele Rigola (Università di Genova),
Bruno Surace (Università di Torino), Jacopo
Tomatis (Università di Torino), Sara Tongiani è un marchio registrato
(Università di Udine) utilizzato per concessione della società Traumann s.s.
sommario

Journey to Italy. Studiare il cinema e i media italiani fuori dall’Italia.


Introduzione
Luca Barra, Giulia Carluccio, Giacomo Manzoli, Giulia Muggeo 7

Denari americani e cinema nell’Italia del secondo dopoguerra. Prime linee di ricerca
Federico di Chio 13

Martin Scorsese presents. On a certain tendency in the canon of Italian cinema


Valerio Coladonato, Damiano Garofalo 23

Mafia/media: immaginario, industrie culturali, culture della produzione


Giuseppe Fidotta 37

Italiani all’estero. Prospettive comparate per lo studio della commedia all’italiana


Francesca Cantore, Andrea Minuz 47

Decentrare lo sguardo: il caso di Mediterranea e l’idea di un cinema non più


del “nostro” paese
Sergio Rigoletto 61

Italian Screen Studies alla conferenza annuale dell’American Association for Italian
Studies (AAIS)
Luca Peretti 71

I due Gramsci. Per una archeologia del “popolare” musicale in Italia


Jacopo Tomatis 83

Italian popular music abroad: marketing and consuming Italy’s popstars in the UK
1958-1978
Rachel Haworth 99

Studiare gli intermediari promozionali nella produzione cinematografica italiana


contemporanea: cinema, marketing e transmedialità
Gloria Dagnino 121
Foreign at home. The circulation of Angela Ricci Lucchi & Yervant Gianikian’s
early films beyond Italy
Miriam De Rosa 129

The Unfit: Gassman, masculinity, and the Latin lover complex in Hollywood
Maria Elena D’Amelio 139

The Ferrania acquisition, the cinematic archive and the Anthropocene: celluloid
materialities
Elena Past 147

#restaacasaconBIAHI: How the Bronx Italian American history initiative responded


to COVID-19 through video and social media
Kathleen LaPenta, Jacqueline Reich, Desislava Stoeva 159

Confessioni di due collaboratrici seriali


Nicoletta Marini Maio, Ellen Nerenberg 167

Simultanea: media, cultura popolare e studi di intersezione in italia(nistica)


Marco Arnaudo, Andrea Ciccarelli, Carlotta Vacchelli 177

Italian Media Studies: una diagnosi un po’ azzardata e un paio di proposte


Giorgio Bertellini 181

Visioni d’oltreoceano. Note sull’insegnamento della serialità italiana nel contesto


accademico statunitense
Giancarlo Lombardi 187

Mediating Italy in Global Culture: l’esperienza di una summer school internazionale


all’Università di Bologna
Elisa Farinacci, Emiliano Rossi 191
i due gramsci. per una archeologia del “popolare” musicale
in italia

Jacopo Tomatis

Ho tanti problemi con il termine ‘popolare’ quanto con


il termine ‘cultura’. E quando si mettono insieme questi
due termini le difficoltà possono certamente diventare
spaventose.
Stuart Hall1

Introduzione

Indipendentemente dai limiti e dall’estensione del concetto di “popolare” e della sua ap-
plicabilità – uno dei problemi su cui si interroga questo articolo – la definitiva apertura
allo studio della popular culture da parte dell’accademia italiana, soprattutto nel corso
dell’ultimo decennio, ha cartografato in maniera nuova i territori del sapere e ha rivolto lo
sguardo (o, per quel che vale, l’udito) a oggetti nuovi e diversi, prima ridotti a terra inco-
gnita ai margini delle mappe. Tale processo, se pure ha ottenuto il risultato di modificare lo
spettro dello “studiabile”, e in alcuni casi a ripensare le ragioni stesse per cui lo si studia,
si è dipanato in maniera tutt’altro che lineare e omogenea, interessando certi ambiti più di
altri, e seguendo strategie e motivazioni molto diverse.
I meccanismi attraverso cui si definiscono i confini tra i campi di studio, esattamente
come quelli tra le culture, si appoggiano sovente su «un assunto empiricamente inadeguato
circa il fatto che ogni linguaggio sia collegato a una cultura»2. La costruzione di un ogget-
to come “la cultura pop italiana” – a cavallo tra diversi approcci e diverse discipline e in
una dialettica tra prospettive “interne” ed “esterne” (rispetto all’Italia e alla stessa cultura
pop) – spalanca in effetti vasi di Pandora epistemologici sulla coerenza e sulle componenti
ideologiche che presiedono al modo in cui organizziamo il campo del sapere, ed è bene
tenerlo a mente. In primis, si potrebbe empiricamente notare come determinati oggetti di
studio, storicamente ai margini dell’interesse accademico, e nello specifico quelli legati alla
cultura pop, abbiano talvolta ottenuto un’attenzione scientifica e una coerenza dapprima
in quanto espressione di cultura italiana e non in quanto cinema, musica, letteratura3,
con importanti conseguenze euristiche; in secondo luogo, i confini del “popolare”, o del

1 S. Hall, Appunti sulla decostruzione del “popolare”, in Id., Il soggetto e la differenza. Per un’archeologia
degli studi culturali e postcoloniali, Meltemi, Roma 2006, pp. 51-50: 51.
2 S. Gal, J.T. Irvine, The Boundaries of Languages and Disciplines: How Ideologies Construct Difference,
“Social Research”, 62, 4, 1995, pp. 967-1001: 970. Le autrici si rifanno in particolare al pensiero di Dell Hymes.
3 È il caso degli studi sul cinema popolare, come nota G. Manzoli, Da Ercole a Fantozzi. Cinema popolare e
società italiana dal boom economico alla neotelevisione (1958-1976), Carocci, Roma 2012, p. 13.

i due gramsci 83
“pop”, o del “popular” variano significativamente a seconda del punto e del momento di
osservazione, così come variano le parole per definire questo territorio.
Uno dei momenti determinanti nel percorso di ingresso del “pop” tra gli interessi seri
degli studiosi italiani è lo sviluppo, alla svolta degli anni ottanta del Novecento, dei popular
music studies, area di ricerca a vocazione interdisciplinare fortemente debitrice a paradigmi
di studio provenienti dall’accademia anglofona (i cultural studies e la new musicology su
tutti), alimentata dal dialogo internazionale e allo stesso tempo da prospettive interne figlie
del dibattito politico-culturale dei decenni precedenti. L’accettazione delle nuove tendenze
di studio è avvenuta non senza difficoltà, chiusure e contraddizioni, ben riassunte dal ricco
e spesso aspro dibattito circa l’opportunità di adottare o meno anche in Italia la locuzione
“popular music”4, nella più ampia riflessione circa i confini e le “regole” della “cultura po-
polare”; e dall’impossibilità – che è ancora tale – di sovrapporre completamente il concetto
di “cultura popolare” con quello di “popular culture”, almeno nel contesto delle scienze
musicologiche (mentre tale sovrapposizione sembra meno problematica in altri ambiti).
In questo pesa, naturalmente, l’eredità di una vivace tradizione di studi che intendeva il
“popolare” in termini politici, come subalterno e antagonista alla cultura dominante e/o
in associazione alle culture cosiddette “tradizionali”.
Oggi, nel momento in cui il campo musicologico si è definitivamente aperto a nuovi
oggetti e nuovi approcci, la sopravvivenza negli studi musicali del nostro Paese del concetto
di “popolare/popular” nei suoi diversi e contraddittori significati richiede di essere stori-
cizzata, anche con il fine di capire perché e come abbiamo cominciato a occuparci di certi
oggetti, e in che modo questo ha cambiato (se lo ha fatto) il mondo intorno a noi. Non si
tratta cioè di riprendere il dibattito sull’opposizione colto/popolare, o popolare/popular, né
di riflettere sulle specificità del campo dei popular music studies e sul suo aggiornamento
al mondo contemporaneo5. L’obiettivo è piuttosto quello di portare avanti, per la finalità
di una più solida fondazione dello studio della popular music, una “archeologia”6 del
concetto di “popolare” nel nostro Paese, anche per comprenderne le specificità rispetto ad
altre lingue e culture.
Questo articolo vuole riflettere su come la categoria di “popolare” ha strutturato il
discorso sulla musica in Italia dal dopoguerra fino alla fatidica svolta degli anni Ottanta,
ovvero all’apparire nel dibattito del concetto di “popular” e alla definizione del campo dei
popular music studies. Per farlo, mette al centro dell’osservazione il concetto di “cultura
popolare” delineato da Antonio Gramsci. Il suo “popolare” – letto, citato, travisato, im-

4 Sul tema, rimando ai saggi inclusi in A. Rigolli, N. Scaldaferri (a cura di), Popular music e musica popolare.
Riflessioni ed esperienze a confronto, Marsilio, Venezia 2009, pp. 11-30: 20; e al lavoro di Franco Fabbri; cfr. ad
esempio Studiare la popular music in Italia, in Id., L’ascolto tabù. Le musiche nello scontro globale, il Saggiatore,
Milano 2017, pp. 60-74; Perché la chiamiamo popular music?, in Id., Il suono in cui viviamo. Saggi sulla popular
music, il Saggiatore, Milano 2008, pp. 17-18; What Is Popular Music? And What Isn’t? An Assessment, After 30
Years of Popular Music Studies, “Musiikki”, 2/2010, pp. 72-92.
5 Si veda in particolare A. Bratus, In che modo abbiamo bisogno della popular music? Riflessioni su interstizi
e spazi disciplinari, in luogo di un’introduzione, “Rivista di Analisi e Teoria Musicale”, 22, 1-2, 2016, pp. 7-32.
Per una panoramica sul tema si vedano anche gli altri saggi inclusi nel numero monografico.
6 Intesa in senso foucaultiano come scavo d’archivio nell’insieme dei discorsi effettivamente pronunciati.

84 jacopo tomatis
plicito, esplicito, tradotto e ri-tradotto – è un ottimo punto di accesso, per come palesa la
compresenza e la contestuale differenza di diverse interpretazioni su che cosa sia o debba
essere la stessa “cultura popolare”. Esso infesta come uno spettro gli studi sulla musica,
in maniera non di rado contraddittoria, generando talvolta l’impressione che esistano due
diversi “popolari”, due Gramsci che dicono (o a cui viene fatto dire) una cosa e il suo
contrario. Anche per questo, come indicava già negli anni Ottanta Richard Middleton, la
necessità è quella di «ridisegnare il concetto di ‘popular’ [ma anche, aggiungerei, quello di
‘popolare’, nella loro distinzione così tipicamente italiana] verso una prospettiva storica»7.
La “cultura popolare”, quale che sia il modo in cui la intendiamo, è tanto un costrutto
“scientifico” quanto una «categoria culturale soggetta ad usi ed elaborazioni di tipo politi-
co, estetico, commerciale»8, e i due aspetti sono facce della stessa medaglia. Comprendere
come questa rete di discorsi condizioni la comprensione del nostro oggetto di studio, e
come abbia finito col riguardare anche la costruzione di ideologie ed estetiche che della
musica regolano la produzione e la fruizione ben oltre gli angusti confini dell’accademia,
dovrebbe essere – credo – tra gli obiettivi metodologici di una musicologia contemporanea,
oggi chiamata sempre più a confrontarsi con le pratiche e gli oggetti più disparati, in un
mondo in cui i confini stessi della “cultura popolare” sembrano ormai estendersi all’infinito.

Gramsci, il “popolare” e lo sviluppo degli studi sul folklore

Come è noto, l’influenza di Gramsci sui diversi ambiti degli studi sociali e umanistici a
partire dal secondo dopoguerra è tanto pervasiva quanto poco è organica. Ciò è dovuto
sia alla modalità di diffusione dei Quaderni del carcere, pubblicati nell’arco di diversi anni
(e alle diverse edizioni andranno poi a sovrapporsi le traduzioni, spesso parziali, in altre
lingue), sia alla loro stessa natura di opera frammentaria, che offre categorie di analisi
tutt’altro che univocamente definite.
Sono soprattutto due i concetti gramsciani che operano nella costruzione del concetto
di “popolare” in ambito musicale: quello di “folklore” e quello di “subalternità”. In una
formulazione fortemente innovativa rispetto alle vecchie interpretazioni naturaliste ed
essenzialiste, il folklore è per Gramsci «concezione del mondo e della vita»9 che riguarda
«determinati strati della società, che non sono toccati dalle correnti moderne di pensiero»10.
Tali strati sociali sono sovrapponibili in parte alle “classi subalterne”, che diventeranno in
appunti successivi dei Quaderni (in uno spostamento semantico probabilmente significati-
vo) «gruppi sociali subalterni»; ovvero, quei gruppi «ai margini della storia» che vengono
celati da una «cultura dominante» che cancella «il significato politico e storico del loro

7 R. Middleton, Studiare la popular music, Feltrinelli, Milano 1994, p. 17.


8 F. Dei, Cultura popolare in Italia. Da Gramsci all’Unesco, il Mulino, Bologna 2018, p. 13.
9 A. Gramsci, Quaderni del Carcere, a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino. Quaderno 27, par. 2.
10 Quaderno 1, par. 89.

i due gramsci 85
pensiero e delle loro azioni»11. A partire da queste idee possono prendere forma nuovi
modi di guardare il mondo, in cui – ad esempio – i popoli coloniali oppressi divengono
assimilabili, in quanto subalterni, alle alterità “interne” di una nazione, al «proletariato
operaio e contadino delle nazioni egemoniche»12, come scrive nel 1949 Ernesto de Martino:
«Su scala mondiale le masse popolari combattono per entrare nella storia, per rovesciare
l’ordine che le tiene subalterne»13.
Nella storiografia la proposta di Gramsci porta a una nuova attenzione per una “per-
spective d’en bas” in chiave marxista14. Negli studi sul cinema supporta «la ricerca di una
via italiana al realismo»15. In altri ambiti, essa agisce invece più nel profondo, causando
una mutazione radicale nella stessa ragione d’essere delle discipline. È il caso degli studi
sul folklore, che da pratica collezionistica di impronta romantico-nazionalista si ritrovano
a essere scienza che agisce «nel cuore del sapere storico-sociale e persino della pratica
politica»16, sviluppando paradigmi – i «dislivelli interni di cultura»17, l’idea di folklore come
cultura di contestazione18… – influenti e duraturi. Il concetto di “popolo” si sovrappone ora
a quello di “classi subalterne”, ricacciando nell’oblio (salvo affioramenti non consapevoli…)
l’ideale romantico di un popolo “creatore” e conservatore di un sapere arcaico, così come
la sovrapposizione tra “popolo” e “nazione”. La “cultura popolare” può ora assumere un
potenziale antiegemonico, in un ribaltamento totale del suo precedente significato.
Secondo Fabio Dei, a cui si deve il più raffinato lavoro di decostruzione del concetto di
“cultura popolare”19 nell’ambito dell’antropologia italiana, Gramsci non avrebbe avuto tra
le sue ambizioni quelle di fondare una “scienza” che assumesse «il folklore come proprio
oggetto»20, né tantomeno di essenzializzare la “cultura popolare” sovrapponendola in ma-
niera spesso forzata con la cultura contadina (ed estendendola, con non pochi problemi,
alla cultura operaia). Il percorso stesso della demologia, dal dopoguerra fino alle posizioni
degli anni settanta, si dipanerebbe allora secondo logiche che appaiono in contraddizione
con l’assunto gramsciano.
Paradossalmente, l’idea di “nazionale-popolare”, che pure è decisiva nella compren-
sione del rapporto di altre culture nazionali con il materiale “tradizionale” (ad esempio

11 J.A. Buttigieg, Subalterno, subalterni, in Dizionario gramsciano, Gramsci Project, http://dizionario.gram-


sciproject.org. La teoria dei gruppi sociali subalterni è inclusa nel Quaderno 25.
12 E. de Martino, Intorno a una storia del mondo popolare subalterno, “Società”, 3, 1949, pp. 411-435: 411.
13 Ivi, p. 419.
14 E.J. Hobsbawm, Per lo studio delle classi subalterne, “Società”, 16, 1960, pp. 436-449.
15 G.P. Brunetta, Il cinema neorealista italiano. Storia economica, politica, culturale, Laterza, Roma-Bari
2009, p. 323; cfr. anche A. Abruzzese, Per una nuova definizione del rapporto politica-cultura, in L. Micciché (a
cura di), Il neorealismo cinematografico italiano, Marsilio, Venezia 1999.
16 F. Dei, Cultura popolare, cit., p. 23.
17 A.M. Cirese, Cultura egemonica e culture subalterne, Palumbo, Palermo 1973.
18 L.M. Lombardi Satriani, Il folklore come cultura di contestazione, Peloritana, Messina 1966.
19 Si veda in particolare F. Dei, Cultura popolare, cit.; Id., Beethoven e le mondine. Ripensare la cultura
popolare, Meltemi, Roma 2002; Id., Un museo di frammenti. Ripensare la rivoluzione gramsciana negli studi
folklorici, “Lares”, 74(2), 2002, pp. 445-464.
20 F. Dei, Cultura popolare, cit., p. 22.

86 jacopo tomatis
nelle riletture operate dalla musica còlta21), è meno determinante nella costruzione della
cultura popolare come “subalterna”. E se pure Gramsci si era occupato anche di prodotti
della cosiddetta cultura di massa, come i romanzi d’appendice22, nelle letture gramsciane
si giungerebbe invece, secondo Dei, a uno «stallo teorico»23 e al «palese paradosso» del
disconoscimento del “popular”. Ovvero, allo sviluppo di «una scienza della cultura subal-
terna che esclude dal suo ambito di interesse i consumi di massa, vale a dire la gran parte
della vita culturale dei ceti subalterni di oggi»24.
Dei lavora con l’obiettivo – innanzitutto metodologico, di auto-riflessione sulla sua di-
sciplina – di comprendere la genesi del suo campo di studi in Italia, e la successiva perdita
di centralità della demologia nel più vasto settore delle scienze antropologiche dopo la
stagione politica degli anni Settanta; al contempo, fa notare la necessità di un dialogo con
«altre discipline che hanno incrociato nel loro percorso la nozione di cultura popolare»25.
Su tutte, naturalmente, la musicologia.

Popolare, orale, sociale, di consumo…

La problematica inclusione della categoria di “cultura popolare” negli studi sulla musica
a partire dal dopoguerra, in effetti, esige qualche riflessione. In primo luogo perché la vi-
cenda intellettuale dell’etnomusicologia italiana non può essere acriticamente sovrapposta
a quella degli studi sul folklore, o al folk revival26. In secondo luogo per rilevare come per
il momento, nei territori non mappati delle diverse pratiche musicali, rimanga proprio
quello che oggi diremmo “popular”, e che in quegli anni assume piuttosto denominazioni
diminutive o ideologicamente connotate, come “musica di consumo”.
In questo pesa lo sviluppo del concetto di cultura subalterna in una connessione (po-
liticamente) strategica con il mondo contadino e con la cultura operaia, e la parallela po-
polarizzazione fra gli intellettuali del periodo dei paradigmi più “apocalittici” di Adorno e
della scuola di Francoforte. La loro rapida penetrazione in Italia, che si avvia nel 1954 con
la pubblicazione di Minima Moralia, concorre ad alimentare un pregiudizio intellettuale
nei confronti della cultura di massa che è già ampiamente diffuso, e al quale lo studioso

21 A. Fanelli, Controcanto. Le culture della protesta dal canto sociale al rap, Donzelli, Roma 2017, p. 13.
22 L. Durante, Nazionale-popolare, in Dizionario gramsciano, cit.
23 F. Dei, Cultura popolare, cit., p. 129.
24 Ivi, p. 131.
25 Ivi, p. 13.
26 Sulle vicende dell’etnomusicologia italiana in relazione al revival, rimando in particolare a F. Giannattasio,
Etnomusicologia, “musica popolare” e folk revival in Italia: il futuro non è più quello di una volta, “AAA TAC,
Acoustical Arts and Artifacts. Technology, Aesthetics, Communication”, 8, 2011, pp. 65-86; cfr. anche G. Plastino,
Introduzione, in Id. (a cura di), La musica folk. Storie, protagonisti e documenti del revival in Italia, il Saggiatore,
Milano 2016, pp. 17-58; P. Sassu, Dall’etnofonia all’etnomusicologia. Un secolo di studi sulla musica popolare
italiana, “Archivio di Etnografia”, 6, 1-2, 2011, pp. 37-68; D. Ferraro, Roberto Leydi e il “Sentite buona gente”.
Musiche e cultura nel secondo dopoguerra, Squilibri, Roma 2015.

i due gramsci 87
tedesco fornisce categorie e un lessico efficace27. È in questo snodo della storia intellettuale
italiana che la nozione di “cultura popolare” può essenzializzarsi in opposizione dialettica
con – da una parte – la “cultura dominante” gramsciana e – dall’altra – la “cultura di mas-
sa” nel senso francofortese. Ancora, ciò avviene in aperta forzatura di alcune indicazioni
di Gramsci, per il quale «i rapporti tra cultura egemonica e cultura subalterna sono in
larga parte funzione della storia degli intellettuali e del loro posizionamento sociale»28; nei
Quaderni «quella tra egemonico e subalterno è una linea di frattura mobile, che individua
non due unità positive […] ma una serie di graduali posizionamenti contrastivi»29.
In questo quadro, la nuova etnomusicologia italiana – e, poco dopo, il folk revival – non
possono evitare di confrontarsi con la nozione di “subalterno”, anche se le modalità con
cui il pensiero di Gramsci filtra nelle ricerche sulla musica di questo periodo rimane in gran
parte da approfondire (e non è qui possibile farlo). Si ha l’impressione non vi sia, in effetti,
un rimando diretto al pensatore sardo quanto piuttosto la generale adozione di una forma
mentis che appare ormai comune tra gli intellettuali engagés. Di certo ha un peso il modello
del primo de Martino meridionalista, che porta avanti l’idea di un «folklore progressivo»
anche in sedi pubblicistiche e di ampia diffusione30, salvo poi distanziarsene31. Sullo sfon-
do agisce anche l’opposizione tra una corrente di sinistra di stampo togliattiano dove «lo
spazio della cultura popolare è inteso, in senso programmatico, come la realizzazione dei
bisogni e delle aspirazioni del movimento operaio», nella direzione di una «democratiz-
zazione dell’alta cultura e di una sua diffusione attraverso i ceti popolari»32 (ovvero, nello
spazio del nazionale-popolare); e, dall’altro, l’idea di impronta socialista perseguita – tra
gli altri – da Gianni Bosio e dal Nuovo Canzoniere Italiano (e, dunque, dal primo Roberto
Leydi) orientata verso l’idea di «musica popolare come sistema comunicativo connesso ad
una condizione socio-culturale»33.
In ogni caso, a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta, un’impostazione che attribuisce
un valore politico alla cultura popolare (o meglio: che delinea i confini della cultura popo-
lare anche in funzione politica) è ben riconoscibile anche al di fuori dei lavori del NCI, più
o meno sottotraccia e almeno fino alla fine del decennio successivo. Diego Carpitella ad
esempio non rinnega, anche a posteriori, «il punto di vista teorico e pratico-politico entro
cui mi sono formato (la sinistra storica degli anni ’50)». (E aggiunge: «se non lo avessi

27 J. Tomatis, Apocalittici e popolare: gli intellettuali italiani e la canzone negli anni cinquanta, “Il Ponte”,
73, 8-9, agosto-settembre 2017, pp. 120-126.
28 F. Dei, Cultura popolare, cit., p. 92.
29 Ivi, p. 128.
30 Ad esempio: E. de Martino, Cori e balletti popolari si confronteranno a Torino, “L’Unità”, 28 settembre
1951, p. 3.
31 Per una prospettiva aggiornata sul rapporto tra de Martino e il folk revival, si vedano i saggi raccolti in
E. Imbriani, Ernesto de Martino e il folklore. Atti del convegno Matera-Galatina, 24-25 giugno 2019, Progedit,
Bari 2020.
32 A. Fanelli Controcanto, cit., p. 19; si veda anche A. Fanelli, Ernesto de Martino, il folklore la strategia
politico-culturale di Gianni Bosio. Note critiche sull’eredità della “corrente meridionalista” nel lavoro del nuovo
canzoniere italiano sull’“altra cultura”, in Ernesto de Martino e il folklore, cit., pp. 199-226.
33 P. Clemente, Popolare, musica e dibattito ideologico, “Realismo”, dicembre 1975: ora in G. Plastino (a
cura di), La musica folk, cit., pp. 411-419.

88 jacopo tomatis
avuto sarei ancora tra quelli che fanno ricerca etnologica portandosi dietro spaghetti e
whisky»34). In un’altra occasione, in un intervento per il Primo Convegno sugli studi et-
nomusicologi in Italia nel 1973, aveva invitato a considerare il “patrimonio tradizionale”
come «armadio della rivoluzione»35. Dall’altro, i pensatori di riferimento per Carpitella
(e per quanti muovono dal suo lavoro) sono più Bartók36 e il secondo de Martino che
non Adorno, o lo stesso Gramsci. Si va cioè delineando poco a poco l’oggetto di interesse
dell’etnomusicologia intorno all’idea della «comunicazione orale» in quanto «mentalità» e
non «accidente»37, più che al concetto di cultura subordinata o antagonista38. L’alterità della
musica “popolare” è cioè costruita su una base «più linguistica che ideologico-politica»39,
pur con alcune significative differenze tra Carpitella e – appunto – Leydi, il quale, almeno
all’inizio della sua ricerca, «più pragmaticamente, rivolgeva attenzione alla cultura che, per
dirla con Gramsci, le ‘classi strumentali’ avevano elaborato in contrapposizione al ‘dominio
borghese’», come sostiene Sassu40. Nel volume che raccoglie i contributi del citato convegno,
Carpitella identifica il tema del rapporto egemonia/subalternità anche come «espediente di
analisi e autoanalisi culturale», ovvero «confronto critico tra una cultura osservante e una
cultura osservata»41, aderendo a interpretazioni meno essenzialiste di Gramsci; ragionamenti
simili saranno portati avanti anche da Leydi, in un secondo momento42.
Questa mappatura, in ogni caso, lascia scoperte le regioni della popular culture, conside-
rando sottintesa la «diversità di campo tra cultura folklorica e cultura di massa»43. Quando
Carpitella si occupa del problema, soprattutto in un pugno di scritti non specialistici degli
anni Cinquanta44, lo fa più che altro per delineare in positivo il suo “nuovo” oggetto di
interesse. Da principio, la categoria di “musica di consumo” (l’etichetta è ragionevolmente
introdotta nel dibattito dallo stesso Carpitella) viene identificata in negativo come una sorta
di velo che deve essere squarciato per trovare la “vera” musica di tradizione orale. Come fa
dire Carpitella al suo alter ego in un pezzo di taglio divulgativo scritto per il settimanale della
Cgil Lavoro: «Non vogliamo né canzonette né canzoni di Chiesa: vogliamo solo canzoni

34 D. Carpitella, Comunicazione e mentalità orale, “La ricerca folklorica”, 1, 1, 1980, pp. 25-26: 25.
35 D. Carpitella, Premessa, in L’etnomusicologia in Italia [atti del Primo convegno sugli studi etnomusicologici
in Italia, 29 novembre-2 dicembre 1973], Flaccovio, Palermo 1975, pp. 9-15: 13.
36 Gli Scritti sulla musica popolare vengono pubblicata per la prima volta nella collana Viola dell’Einaudi,
diretta da Ernesto de Martino, nel 1955, per iniziativa dello stesso Carpitella.
37 D. Carpitella, Premessa, cit., p. 11.
38 Carpitella riconosce, in seconda battuta, una “fascia folklorica” o “zona folklorica”, opposta a una “zona
colta-urbana”; D. Carpitella, Etnomusicologia e stato attuale della documentazione in Italia, in L’etnomusicologia
in Italia, cit., pp. 17-27:23.
39 F. Giannattasio, Etnomusicologia, “musica popolare” e folk revival in Italia, cit., p. 74.
40 P. Sassu, Dall’etnofonia all’etnomusicologia, cit., p. 60.
41 D. Carpitella, Introduzione, cit., p. 11.
42 R. Leydi, L’altra musica. Etnomusicologia, Ricordi-LIM, Milano 2008, pp. 199-201.
43 Ivi, p. 13.
44 R. Tucci, L’inchiesta sulla musica “di massa” e la musica “popolare” di Diego Carpitella (1958), “Voci”, 5,
1-2, 2008, pp. 157-180; J. Tomatis, Storia culturale della canzone italiana, il Saggiatore, Milano 2019, pp. 225-231.

i due gramsci 89
popolari. Quelle che sanno i contadini quando lavorano o i pastori quando accompagnano
le bestie. Quelle che sanno le donne o qualche vecchio…»45
Mano a mano che si va disvelando la ricchezza e la varietà dei repertori tradizionali,
che possono ora essere definiti in funzione del loro «‘modo’ di creazione»46, vengono però
meno tanto la necessità di un minimo comune denominatore politico per tenere insieme
il proprio ambito di interesse quanto la necessità di considerare la cultura di massa nel
quadro. Carpitella stesso riconosce, da un certo punto in poi, la controparte della “vera”
musica popolare nel “popolaresco” (inteso come «folklore di tipo enalistico»47) e non nella
musica diffusa dai mass media. Questo tipo di approccio finisce con il delineare il campo dei
discorsi sulla musica in un «dualismo semantico»48 fra “vera” e “falsa” musica popolare49.
È qualcosa che si ritrova nel primo Carpitella (soprattutto in quello più pubblicistico) e che
in una prospettiva più esplicitamente politica e (pseudo)gramsciana condiziona in modo
importante le ambizioni del movimento revivalistico italiano, a partire dal lavoro del Nuovo
Canzoniere Italiano e di Roberto Leydi50.
Ai fini di questa riflessione è interessante osservare come, al netto della irriducibile
complessità del discorso più scientifico sul “popolare” in ambito sia etnomusicologico sia
demologico, quello che filtra nel più ampio dibattito pubblico, e in particolare in quella
complessa zona grigia di incontro tra militanti e ricercatori che è il folk revival, sia pro-
prio questo dualismo. Da una parte c’è l’idea di un popolare “vero”, essenzializzato nella
musica dei contadini ed eventualmente degli operai, per cui il problema diventa quello di
armonizzare oggetti molto lontani tra loro, formalmente e culturalmente: lo stesso Gianni
Bosio si chiede se sia «legittimo» mescolare il «canto sociale» contadino con la «nuova
canzone» di Fausto Amodei, Gualtiero Bertelli, Ivan Della Mea51. La risposta deve essere
“sì”, ma allora il minimo comune denominatore deve risiedere nella «realtà autonoma e
antagonistica» del «mondo popolare»52, e non nella subalternità o nell’oralità. Dall’altra,
un “falso” popolare i cui contorni non possono che essere frastagliati e confusi, perché
vengono in qualche modo delineati a partire dall’ombra proiettata dal “vero” oggetto di
studio, cioè la “vera” musica popolare. In questi margini, appunto, rimane quasi tutto il
resto, compresa la musica suonata, ascoltata e apprezzata da buona parte del “popolo”.

45 D. Carpitella (a nome Zarlino), Una ricerca difficile, “Lavoro”, 11, 12, 23 marzo 1958, pp. 14-15.
46 D. Carpitella, Conversazioni sulla musica (1955-1990). Lezioni, conferenze, trasmissioni radiofoniche, a
cura della Società Italiana di Etnomusicologia, Ponte alle Grazie, Firenze 1992, p. 57.
47 Ivi, p. 46. Si veda anche la celebre polemica Mila/Carpitella.
48 F. Fabbri, I nomi delle musiche, “Musica/Realtà”, 96, 2011, pp. 7-11: 9.
49 Si può notare come anche in Gramsci esistano due fasi della cultura popolare, una più “spontanea” e una
in cui essa diviene “oleografica”. Cfr. F. Dei, Cultura popolare, cit., p. 80.
50 Cfr. ad es. R. Leydi, Nuova canzone e rapporto città-campagna oggi, “Il Nuovo Canzoniere Italiano”, 6,
settembre 1965, pp. 3-8; e più in generale Id., Il folk music revival, Flaccovio, Palermo 1972.
51 G. Bosio, Alcune osservazioni sul canto sociale, “Il Nuovo Canzoniere Italiano”, 4, aprile 1964, pp. 3-10.
52 R. Leydi, Il folk music revival, cit., p. 22.

90 jacopo tomatis
Letture politiche del pop, dal Sessantotto a Stuart Hall

Questo dualismo, spesso assunto come un principio assiomatico, penetra nel profondo e
rappresenta dall’inizio dei Sessanta alla fine dei Settanta uno degli specifici nazionali del
dibattito sulla musica in Italia. È ad esempio interessante osservare come le istanze del folk-
lore come “cultura di contestazione”53, così come l’idea che la “vera” musica delle classi
subalterne sia il folk, filtrino nel pensiero della prima generazione del Sessantotto studen-
tesco, quella più anziana54, condizionando le estetiche della canzone politica lungo tutto il
decennio successivo e fornendole modelli compositivi, di vocalità e di sound55. Il modello
del NCI, anche per mancanza di alternative, rimane egemone e rappresenta per i militanti
interessati alla musica un «corpo organico di pensiero e pratica sulla canzone politica col
quale bisognava fare i conti»56. D’altra parte, molti militanti del Sessantotto sono cresciuti
negli anni del boom economico e per molti di loro «il linguaggio del rock», diffuso dai
mass media, rappresenta «la koiné di una generazione»57, spesso adottata come elemento
distintivo e dunque politico in sé. Come tenere insieme intellettualmente questi due mondi?
Se nei primi anni del Movimento non si trova traccia di riflessioni sul tema, il proble-
ma di risolvere quella che viene percepita come una contraddizione emerge invece nelle
riflessioni di alcuni intellettuali legati alla nuova sinistra a partire soprattutto dalla metà
dei Settanta. Si tratta di capire se, scrive il direttore di Muzak Giaime Pintor, «il cosiddetto
pop è un prodotto spontaneo e popolare […] o non è invece una merce prodotta in serie
e lanciata sul mercato dall’industria culturale»58. Pintor e altri che scrivono in questi anni
adottano in maniera più o meno automatica l’opposizione (post)gramsciana tra cultura
dominante e cultura subordinata, opportunamente dinamizzata con l’aggiunta dell’idea di
“controcultura” che proviene dagli Stati Uniti, e pongono il “pop” dal lato della seconda,
ora riconoscendone la «ricchezza di articolazioni»59, ora aderendo a posizioni meno sfumate
e più tranchant: «La musica pop è nata come espressione della rivolta degli strati oppressi e
sfruttati dal capitalismo amerikano e inglese, dai neri al nuovo proletariato studentesco»60.
In realtà, quasi nessuno tra gli intellettuali militanti ha esitazioni nell’identificare il nemi-
co – ancora – nella cultura di massa, e Adorno rimane tra gli autori più citati anche durante
i Settanta. Casomai si tratta di allargare i confini del “popolare” per includervi il rock, il
jazz, la nuova canzone politica; o direttamente «le classi subalterne dei paesi occidentali»

53 L. Lombardi Satriani, Il folklore come cultura di contestazione, cit.


54 Sulle “generazioni” del Sessantotto mi rifaccio a F. Socrate, Sessantotto. Due generazioni, Laterza, Roma-
Bari 2018.
55 Cfr. J. Tomatis, La canzone del Sessantotto: una prospettiva storico-culturale, progetto “Dall’immaginazione
al potere”, Torino, Polo del 900; in corso di pubblicazione.
56 In G. Casiraghi, Anni 70. Generazione rock, Editori Riuniti, Roma 2005, p. 53.
57 P. Ortoleva, I movimenti del ’68 in Europa e in America, Editori Riuniti, Roma 1998, p. 73.
58 G. Pintor, Il pop: i tempi e i luoghi di una moda, in Aa. Vv., La musica in Italia, Savelli, Roma 1978,
pp. 69-108: 73.
59 Ivi, p. 78.
60 Volantino per il concerto dei Jethro Tull a Vicenza, 1973, in Aa. Vv., I padroni della musica, La nuova
sinistra - Savelli, Roma 1974, p. 15.

i due gramsci 91
anche urbane e anche giovanili, perché «dalla campagna alla città, dalla terra alla fabbrica
è nata e si sta formando una nuova musica progressiva, la musica ‘popolare’ urbana», e «il
figlio dell’emigrato calabrese, cresciuto in uno dei quartieri periferici della Milano povera,
suona la tarantella con la chitarra elettrica»61. A scrivere è Luigi Cinque del Canzoniere del
Lazio, gruppo che non a caso fu duramente osteggiato da sinistra per il suo uso spregiudicato
di materiali frutto di ricerca sul campo in un contesto sonoro jazz-elettrico62. L’idea che il
“vero” (e dunque, il “migliore”) pop italiano dovesse venire fuori dalla «riappropriazione
della tradizione popolare», depurata da recuperi «di tipo archeologico o estetico»63 è però in
generale piuttosto diffusa. Si tratta in sostanza (e non sfuggirà la contraddizione) di ampliare
il concetto di “subalterno” e di “popolare” oltre la cultura contadina e quella operaia, nel
segno – ancora – di un minimo comune denominatore antagonista; ma allo stesso tempo
di agire direttamente sul materiale musicale riallacciandosi a una qualche “tradizione” o
all’oralità, attraverso la ricerca sul campo o al molto materiale discografico del folk revival
messo in circolazione sul mercato dal NCI e simili.
La (poca) bibliografia straniera in quel momento disponibile supporta questa visione.
Si può ricordare come il primo capitolo dell’influente libro di Carl Belz Storia del rock,
pubblicato in italiano da Mondadori nel 1975, difenda la prospettiva del «rock come arte
folk»64; o come la Guida alla musica pop di Rolf-Ulrich Kaiser del 1971 includa una «ap-
pendice» dedicata alla «canzone italiana di protesta» (non al pop italiano, come avrebbe
avuto più senso) curata da Michele Straniero, che liquida in un paio di righe «i complessi
e i gruppi che l’industria musicale di consumo ha lanciato sul mercato italiano negli ultimi
anni»65 per parlare piuttosto di Cantacronache e NCI.
Queste categorie sono perlopiù adottate in maniera acritica da buona parte della pub-
blicistica musicale. Esse servono però anche la prospettiva “reale” della creazione e del
consolidamento di un circuito musicale alternativo in termini di produzione e distribuzione:
in questo è la cooperativa l’Orchestra di Milano a essere in prima fila. La percezione di fare
“musica popolare” è riconoscibile in alcuni testi riconducibili al gruppo milanese. Scrive ad
esempio Franco Fabbri (tra i principali animatori del gruppo) in un contributo del 1975,
che già identifica con acume alcuni problemi relativi all’assunzione troppo naïf di una so-
vrapposizione tra rock e “musica popolare” (o folk e “musica popolare”), che «la musica
è popolare non in quanto nata dal popolo o scritta per il popolo, ma, indipendentemente
dalle sue origini, in quanto fatta propria dalle masse popolari, che vi riconoscono i propri
sentimenti reali, la propria vita reale, le proprie lotte»66.
Fabbri esplicita il richiamo a Gramsci («questa […] regola altro non è che quella fatta
propria da Gramsci»), segnalando però la necessità di «alcune correzioni dovute all’inter-

61 L. Cinque, Kunsertu. La musica popolare in Italia, Longanesi, Milano 1977, p. 14.


62 Cfr. G. Plastino, Introduzione, cit., p. 36.
63 S. Angiolini, E. Gentile, Note di pop italiano, Gammalibri, Milano 1977, p. 30.
64 C. Belz, Storia del rock, Mondadori, Milano 1975.
65 R.U. Kaiser, Guida alla musica pop, Mondadori, Milano 1971.
66 F. Fabbri, Il gioco della musica rivoluzionaria, “La Comune”, 1, settembre-dicembre 1975, pp. 28-30: 29.

92 jacopo tomatis
corsa diffusione della radio, della televisione, dei dischi, di Canzonissima», e sottolineando
la necessità di non confondere «i sentimenti delle masse con i sentimenti fittizi delle masse»,
onde evitare di ricadere nella definizione che «la borghesia dà della musica popolare»67.
Non lontano da qui si situa l’antropologo Pietro Clemente, quando nel 1975 distingue due
significati di “popolare”: uno inteso come «rapporto tra fenomeni culturali e gruppi sociali»
(ovvero, la posizione del NCI e del primo Leydi) e uno «in senso programmatico, come
linea che porta avanti ed esprime i bisogni delle masse»68. Riflessioni di quest’ultimo tipo,
comunque, devono sempre e comunque essere contestualizzate nel contesto delle “regole” del
«gioco della musica rivoluzionaria», come scrive Fabbri69. La categoria di “musica popolare”
non ha dunque un valore tanto “operativo”, tassonomico, quanto piuttosto politico. Ed è
interessante che la riflessione proposta da Fabbri appaia compatibile nella sostanza con le
successive letture dei cultural studies, e di Stuart Hall in particolare.

Da Gramsci all’UNESCO, e di nuovo a Gramsci

Negli anni Ottanta, secondo Dei, «la categoria di cultura popolare o subalterna declina
progressivamente, per scomparire quasi del tutto nei decenni successivi»70. Non vale solo
per la demologia. Nel simbolico 1980 il primo numero della rivista La ricerca folklorica
dedicato alla “cultura popolare” è una eccellente cartina di tornasole per verificare lo stato
dell’arte della questione71. I vecchi problemi e le vecchie categorie persistono: ci si chiede
ancora ad esempio dove collocare nel modello dei dislivelli interni di cultura la “cultura
operaia” (mentre, nel mondo reale, la stessa pare in evidente crisi). Il popular rimane l’e-
lefante nella stanza. Partecipano al dibattito anche Leydi e Carpitella, nel momento in cui
il profilo dell’etnomusicologia italiana si sta normalizzando con l’ingresso definitivo nelle
università, e ribadiscono in piena coerenza come lo “spartiacque” stia in quel «particolare
modo di tradère la cultura» che è tipico delle «culture di tradizione e mentalità orale».
Carpitella nell’occasione ammette, più o meno serenamente, che «il folklore ‘muore’», e
che «piano piano ci si troverà a lavorare soprattutto per i ‘beni culturali’»72. Sullo sfondo
c’è anche la crisi del movimento revivalistico. Un anno dopo, quando l’International Folk
Music Council cambia intestazione in International Council for Traditional Music, Leydi
commenta che «il termine ‘folk’ si è incrostato di tali equivoci da consigliare ad una società
che vuol essere seria e scientifica di metterlo da parte»73. Nel 1989 il Centro Nazionale di

67 Ibidem.
68 P. Clemente, Popolare, musica e dibattito ideologico, cit., p. 413.
69 F. Fabbri, Il gioco della musica rivoluzionaria, cit.
70 F. Dei, Cultura popolare, cit., p. 10.
71 “La Ricerca Folklorica”, 1, La cultura popolare. Questioni teoriche, aprile 1980.
72 D. Carpitella, Comunicazione e mentalità orale, ivi, pp. 25-26: 25.
73 R. Leydi, Il vecchio folk è morto: non lascia eredi. Dopo il revival degli anni sessanta e settanta il repertorio
popolare è in profonda crisi, “La Stampa”, 26 agosto, p. 15. Ora in G. Plastino (a cura di), La musica folk, cit.
il Saggiatore, Milano 2016, pp. 479-481.

i due gramsci 93
Studi di Musica Popolare prenderà il nome di Archivi di Etnomusicologia, facendo venir
meno «la rappresentazione degli oggetti e ambiti socioculturali (‘musica popolare’)» a
vantaggio dell’«afferenza disciplinare»74. Negli studi sul folklore ci si sta orientando verso
approcci differenti, che recuperano il concetto di “tradizione” (pure opportunamente ripu-
lito dalle prospettive post-Hobsbawmiane) e sviluppano quello altrettanto problematico di
«patrimonio culturale immateriale».
Questo passaggio «da Gramsci all’UNESCO»75 deve essere osservato in relazione al più
ampio contesto culturale e alle ideologie che strutturano le estetiche della musica. Giova
ricordare che, se il primo motore dello studio della “cultura popolare” in Italia era stato
alimentato dall’idea che fosse in atto una profonda trasformazione innescata dal processo
di modernizzazione del Paese, che stava portando alla sparizione del mondo contadino,
gli anni post-riflusso e il nuovo capitalismo globale rappresentano una fase diversa di
modernizzazione, con l’emergere di nuove categorie e la crisi della visione politica che
aveva accompagnato i decenni precedenti. Gli studiosi sono attori nella costruzione delle
diverse interpretazioni della modernizzazione, oltre che osservatori. Dunque, si compren-
de il processo di patrimonializzazione della cultura popolare anche (e soprattutto) come
reazione alla «McDonaldizzazione» globale: così viene ad esempio letto da sinistra Creuza
de mä di Fabrizio De Andrè76, uscito nel 1984. Il paragone con il cibo non è casuale, ed è
interessante notare come il processo di riposizionamento delle musiche “popolari” italiane
avvenga anche in parallelo allo sviluppo di riflessioni sulle identità enogastronomiche77,
parte di quei processi di «produzione della località»78 che caratterizzano l’ultimo scorcio
del ventesimo secolo e la contemporaneità.
Intanto, proprio nel momento in cui in Italia vengono meno le letture più gramsciane, lo
stesso Gramsci è al centro di un profondo ripensamento nel mondo anglofono, soprattutto
a partire dalla sua riscoperta nell’ambito del Centre for Contemporary Cultural Studies di
Birmingham.
Una delle idee centrali dell’interpretazione che Hall dà di Gramsci sta nello spostare
l’attenzione dalla dimensione della produzione al consumo, operazione che ridisegna i
confini ideologici della popular culture e dinamizza il quadro. Questa lettura, e più in ge-
nerale la qualità «congiunturale» di Gramsci e il suo «senso della complessità»79, risolvono
il problema dell’applicazione dei rigidi paradigmi marxisti in un mondo (post)moderno in

74 M. Agamennone, Le opere e i giorni… e i nomi, in A. Rigolli e N. Scaldaferri (a cura di), Popular music
e musica popolare, cit., pp. 11-30: 20.
75 F. Dei, Cultura popolare, cit.
76 G. Plastino, Inventing Ethnic Music: Fabrizio De Andre’s Creuza de Mä and the Creation of Musica
Mediterranea in Italy, in Id. (cura di), Mediterranean Mosaic: Popular Music and Global Sounds, Routledge,
New York - London, pp. 267-286.
77 Il ruolo di Carlo Petrini e di Slow Food come promotore di festival di musica folk nel passaggio tra anni
Settanta e anni Ottanta, ad esempio, esigerebbe una riflessione più approfondita in relazione ai processi di “pro-
duzione di località”.
78 Si veda A. Appadurai, Modernità in polvere. Dimensioni culturali della globalizzazione, Meltemi, Roma 2001.
79 D. Lazzarich, Gramsci nella prospettiva di Stuart Hall, in A. Di Bello (a cura di), Marx e Gramsci: Filologia,
filosofia e politica allo specchio, Liguori, Napoli 2011, pp. 183-196: 190.

94 jacopo tomatis
cui i produttori sono divenuti (anche) consumatori (se non lo erano sempre stati), e vice-
versa. Viene altresì salvaguardata la dialettica tra dominante e subalterno, che Hall invita
a considerare in modo dinamico, come diacronicamente mutevole: nella scala culturale,
nel tempo, alcune pratiche salgono e altre scendono. La cultura popolare è dunque defi-
nita dalle «relazioni di continua tensione (scambi, influenze, antagonismi) con la cultura
dominante»80, e diviene «terreno in cui si (ri)elaborano le trasformazioni»81. Si supera il
problema dell’“autenticità” della cultura popolare: tutte le forme sono contraddittorie e
comprensibili solo nella storia. «Quasi tutti gli inventari fissi ci tradiranno. È il romanzo una
forma “borghese”? Ogni risposta non potrà che essere storicamente provvisoria: quando?
Quali romanzi? Per chi? In quali condizioni?»82
Guido Liguori ha correttamente notato come spesso si sia “usato” Gramsci sfruttando
«suggestioni e categorie isolate dal contesto del suo discorso», senza connessione «alla lotta
di classe né all’ipotesi di una riorganizzazione non capitalistica della società»83. Avendo
in mente la tradizione di cultural studies che deriva dal lavoro di Hall non gli si può dare
torto: la contingenza politica delle categorie che Hall propone, ben lontana da ogni essen-
zializzazione, è palese. Nel concludere la sua “decostruzione”, lo studioso chiarisce come
la cultura popolare sia «l’arena del consenso e della resistenza […] uno dei luoghi dove si
potrebbe costruire il socialismo. È per questo che la “cultura popolare” ha grande impor-
tanza. Altrimenti per dire la verità, della cultura popolare non mi importerebbe nulla»84.
Le modalità di penetrazione di queste prospettive in Italia e il loro effettivo impatto sugli
studi musicali rimangono in gran parte ancora da comprendere. Già nello stesso 1981 che
vede la sua pubblicazione inglese, la traduzione italiana del sopra citato Notes on Decon-
structing “the Popular” compare sul primo numero de I giorni cantati 85, rivista del Circolo
Gianni Bosio (dunque, prossima agli ambienti del revival politico), per iniziativa di Sandro
Portelli86. A dispetto di ciò, gli spunti presenti nell’articolo non sembrano essere seguiti più
di tanto da parte di chi si occupa di musica in Italia (lo stesso Portelli in quegli anni appare
più interessato alla storia orale, e da quella strada si interessa a Hall). La prospettiva del
CCCS è invece fondamentale nella formazione della prima generazione di studiosi inglesi
che si interessa di popular music.

80 S. Hall, Appunti sulla decostruzione del “popolare”, cit., p. 63.


81 Ivi, p. 53.
82 Ivi, p. 64.
83 G. Liguori, Conoscenza e usi di Gramsci nel mondo contemporaneo, in F. Lussiana. G. Pissarello (a cura
di), La lingua/le lingue di Gramsci e delle sue opere. Scritture, riscritture, letture in Italia e nel mondo, atti del Con-
vegno Internazionale di Studi (Sassari, 24-26 ottobre 2007), Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, pp. 141-148: 146.
84 S. Hall, Appunti sulla decostruzione del “popolare”, cit., pp. 69-70.
85 S. Hall, Osservazioni sulla decostruzione del “popolare”, “I giorni cantati”, 1, 1981. Per alcune riflessioni
sull’argomento, si veda Il canto sociale e la popular music, a cura di Antonio Fanelli, “Il de Martino”, 26-27,
2016-2017; A. Fanelli Controcanto, cit., p. 181.
86 Già nel 1979 era stato pubblicato in italiano S. Hall, P. Whannel, Arti per il popolo, Officina, Roma 1970.

i due gramsci 95
Enter the popular

Gli studi sulla popular music in Italia si definiscono dunque con una esplicita impronta
militante – almeno a livello di radici, che vengano dai settanta italiani o dalla mutuazione
di categorie dei marxisti inglesi – proprio nel momento in cui la società italiana assiste alla
svolta degli anni post-riflusso, con il collasso del sistema alternativo sviluppato negli anni
settanta e la crisi della nuova sinistra.
Il decisivo passaggio tra settanta e ottanta non può non riguardare allora anche lo
sviluppo del concetto di “popolare” in Italia, se si considera come la metamorfosi «da
militanti a funzionari» o «da militanti a cittadini»87 che riguarda molti dei protagonisti
della stagione che va concludendosi tocchi anche gli intellettuali che si occupano di musica,
tanto sul versante del folklore quanto su quello del pop. Pur nelle innegabili continuità di
molte vicende, per misurare la distanza tra le due stagioni basta confrontare gli articoli
di riviste anni settanta come Muzak o Gong con quelli di Musica/Realtà, nata nel 1980
e diretta da Luigi Pestalozza, o con quelli di Laboratorio musica, legata ad Arci e diretta
da Luigi Nono, che va in edicola nel 1979: «Dalla musica sulla politica alla politica sulla
musica»88 si intitola un pezzo di Franco Fabbri sul numero 1, ed è un buon riassunto del
cambiamento in atto.
È a partire da questi ambienti che emerge e si afferma nel nostro Paese la categoria di
“popular music”. Roberto Agostini ha invitato a non «sottovalutare l’impatto del termine
popular»89 sul dibattito, né le polemiche che hanno accompagnato la sua lenta introduzione.
In effetti, mentre perdono forza le letture più esplicitamente politiche del pop degli anni
settanta, e con sullo sfondo i processi di patrimonializzazione della “vera cultura popolare”,
la nozione di “popular” ha l’indubbia efficacia di riuscire infine a mappare quella terra
incognita dimenticata dalle altre discipline musicologiche, lasciando al contempo da parte
le implicazioni diminutive di concetti come “musica di consumo” o “musica leggera” e
le ambiguità di “musica popolare” (locuzione che pure in quegli anni viene talvolta usata
come sostituto di “popular music”, generando non poche ambiguità per il lettore di oggi).
È infatti significativo, continua Agostini, che la linea proposta dalla sezione italiana della
Iaspm (International Association for the Study of Popular Music) fin dalla sua fondazione
nel 1981 sia quella «di non agganciarsi al dibattito»90 precedente, di non rifarsi cioè né alla
linea “antropologica” dell’etnomusicologia né tantomeno agli studi sulla cultura di massa
sulla scia della scuola di Francoforte. Un importante modello viene invece offerto proprio
dai popular music studies inglesi, i quali, oltre a fornire un termine “nuovo” per definire
quella musica, stanno anche recuperando Gramsci, in modo diverso.

87 G. De Luna, Le ragioni di un decennio. 1969-1979. Militanza, violenza, sconfitta, memoria, Feltrinelli,


Milano 2011, pp. 161, 183.
88 F. Fabbri, Dalla musica sulla politica alla politica sulla musica, “Laboratorio musica”, 1, 1, giugno 1979,
pp. 47-48.
89 R. Agostini, Alla ricerca della “voce del popolo”, in A. Rigolli, N. Scaldaferri (a cura di), Popular music
e musica popolare, cit., pp. 31-55: 38.
90 Ivi, p. 32.

96 jacopo tomatis
È rivelatore un aneddoto che Franco Fabbri, senza dubbio il principale attore nell’af-
fermazione dei popular music studies in Italia, riporta nella prefazione all’edizione italiana
di Studiare la popular music di Richard Middleton. Fabbri ricorda la prima conferenza
internazionale della Iaspm, nel 1981 ad Amsterdam:

Per chi veniva dall’Italia un dibattito sulla canzone non era certo una novità […] Anche se in
Italia ormai si respirava un’aria diversa: di stanchezza, di snobismo, a cavallo fra “il dibattito
no!” morettiano e il reaganismo incipiente. Per cui fu quasi una folgorazione quando alla
fine di un mio intervento sui generi della canzone, in quell’aula dell’Università di Amsterdam
[Richard Middleton] mi chiese se una mia certa idea dell’ideologia di un genere musicale […]
potesse essere ricollegata alla nozione di egemonia in Gramsci91.

Il modello dei generi di Fabbri era in realtà, per ammissione di Fabbri stesso92, più diret-
tamente debitore nei confronti del Manuale di semiotica di Umberto Eco, in un momento
storico in cui l’influenza di Gramsci in Italia si era attenuata, almeno negli studi musicali.
Middleton al contrario partiva proprio da Gramsci, che leggeva già filtrato da Hall e dalla
critica marxista93, per sviluppare l’idea di “articolazione”94, nella direzione di una definizio-
ne fluida del campo del “popular” come spazio del subalterno, delineato però in rapporto
con il contesto storico e culturale. I testi di Middleton95, Simon Frith, Dick Hebdige, Iain
Chambers e altri ancora96, pubblicati tra anni ottanta e novanta anche in Italia, contribu-
iscono a “riportare a casa” – almeno in parte – una prospettiva gramsciana sullo studio
della musica, nel quadro di un generale riassestamento degli interessi della musicologia
che, pure nel gravissimo ritardo di riconoscimento nell’accademia, porta il nostro Paese
nel cuore dei nascenti popular music studies97.
In effetti, l’originalità della via italiana allo studio della popular music si può anche leggere
come uno scarto tra la sopravvivenza di vecchi paradigmi sui dislivelli interni di cultura e
sulla cultura di massa e la lenta penetrazione del nuovo modello culturale birminghamiano,
con successivi adattamenti. Per parafrasare lo stesso Gramsci, è proprio in questo interregno
tra il vecchio mondo e quello nuovo – tra i “due Gramsci” – che si generano i “mostri”
del “popolare”. Molti di questi mostri sopravvivono ancora oggi, e ancora contribuiscono
a plasmare politiche culturali e visioni del mondo.

91 F. Fabbri, Introduzione, in R. Middleton, Studiare la popular music, cit., pp. 7-11: 10.
92 F. Fabbri, Genre Theories and Their Applications in the Historical and Analytical Study of Popular Music:
A Commentary on My Publications, tesi, University of Huddersfield, giugno 2012.
93 L’unica citazione per Gramsci in bibliografia è una Selections from Prison Notebooks a cura di Q. Hoare
e G. Nowell-Smith.
94 R. Middleton, Studiare la popular music, cit., p. 26.
95 Studiare la popular music esce in Italia nel 1994 ma è anticipato da alcuni saggi su “Musica/Realtà” di
taglio decisamente gramsciano: R. Middleton, Articolare il significato musicale. Ricostruire una storia della musica.
Collocare il popolare, “Musica/Realtà”, 15, 1984, pp. 63-84; 16, 1985, pp. 97-118.
96 Cfr. R. Agostini, Alla ricerca della “voce del popolo” cit.
97 Ad esempio, il secondo convegno internazionale della Iaspm si tiene nel 1983 a Reggio Emilia.

i due gramsci 97
Post scriptum: abbiamo bisogno del “popolare”?

È facile riconoscere negli ultimi anni un netto declino dell’uso di “musica popolare” al-
meno nel discorso specialistico, mentre il termine sembra ancora sopravvivere in quello
comune. Come altre formulazioni «a vocazione generalizzante» essa si è indubbiamente
indebolita: in un campo etnomusicologico ora aperto a pratiche musicali molto diverse «si
tende a designare ciò che si fa, e dove, piuttosto che indicare estesi campi socioculturali di
appartenenza»98. Allo stesso tempo, e in direzione opposta, nel suo definitivo affermarsi
nell’uso in Università e Conservatori la nozione di “popular music” non di rado è caduta
nelle trappole dell’essenzializzazione. Alla visione dialettica e politica dei primi popular music
studies sembra ora sostituirsi una canonizzazione di autori, opere e generi, dovuta anche a
una necessità di credito culturale: dentro il calderone popular si sceglie (e si canonizza) “il
meglio”, ciò che è più facilmente validabile secondo i parametri estetici più consolidati (che
sono quelli riportabili ai discorsi della “cultura alta”) e dunque contrabbandabile dentro le
istituzioni. Eppure, come musicologi che si occupano di popular, dobbiamo guardarci da
questo rischio e orientarci piuttosto verso una prospettiva più compiutamente culturale e
antropologica allo studio della musica; prospettiva che è anche – ed è bene non dimenticarlo
mai – necessariamente politica.
È qui che le radici gramsciane possono rimanere vive e produttive per una musicologia
del XXI secolo, e contribuire a scacciare quei mostri di cui si diceva. Le categorie gramsciane
avevano il pregio di mettere al centro del quadro una dialettica di classe che oggi troppo
spesso viene ignorata, dall’accademia come dal dibattito pubblico. Ma se l’idea dei dislivelli
di cultura come è stata comunemente intesa appare inadeguata alle sfide della contempora-
neità, il capitale (e non solo quello culturale) continua a essere distribuito in maniera non
uniforme nel mondo in cui viviamo. Comprendere quest’ultimo anche attraverso un’op-
posizione dinamica tra dominanti e dominati, che si esprime anche attraverso le pratiche
musicali, rimane – credo – un buon modo per dare un senso al mestiere del musicologo.

98 M. Agamennone, Le opere e i giorni... e i nomi, cit., p. 25.

98 jacopo tomatis

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