Storia Della Letteratura Inglese II
Storia Della Letteratura Inglese II
Storia Della Letteratura Inglese II
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Storia e cultura
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vigore il 1° maggio 1707 col nome di “Atto di unificazione dei due regni di Inghilterra e
Scozia”. L’Unione prevedeva la nascita di un unico regno di Gran Bretagna con un’unica
bandiera nazionale (chiamata Union Jack, seppur diversa rispetto a quella odierna) e
stabiliva un’unica linea di successione al trono; inoltre, riuniva i due parlamenti in
un’unica assemblea e apriva “a tutti i sudditi del regno unito... la piena libertà di rapporti
commerciali e di navigazione”. In questo modo, quindi, la Scozia mantenne le proprie
tradizioni legali e religiose, mentre l’Inghilterra, dal canto suo, si garantiva un elevato grado
di sicurezza interna.
Con questo trionfo del pragmatismo, della razionalità, del liberalismo religioso e
dell’imparzialità della legge, agli occhi di molti sembrò essersi realizzato un ideale di
armonia provvidenziale, di cooperazione e di un ordine politico che rifletteva quello
naturale: sovrani moderati avrebbero regnato su una nazione unita, in cui la Costituzione si
sarebbe fatta garante della libertà dei singoli.
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Inghilterra che in Scozia, avevano investito e beneficiato del successo della dinastia
Hanover.
Al contrario, i Gordon Riots, sei giorni consecutivi di guerriglia urbana che, nel giugno
1780, devastarono buona parte del centro di Londra, offrirono la prova tangibile della
violenza che serpeggiava nella capitale, una violenza cieca che coinvolgeva masse di
diseredati, sulle quali le nobili teorie dell’ordine e della simmetria non avevano fatto alcuna
presa. Pertanto, i Riots rafforzarono ulteriormente la consapevolezza, già presente in seme
alla letteratura e alla pittura del XVIII secolo, di come la società non fosse soggetta solo a
un ordine imposto dall’alto, ma che, bensì, essa fosse anche passibile di sovversione dal
basso, causa di comportamenti eversivi e anti-sociali. È, infatti, significativo che, a
diciassette anni di distanza dalla scoperta delle coste orientali dell’Australia, avvenuta nel
1770, il governo sentisse l’esigenza di colonizzare il New South Wales, fondando in esso
una colonia penale a Botany Bay e popolandola di galeotti e reietti della società britannica.
Proprio per quanto riguarda l’aspetto coloniale, c’è da dire che, durante il Settecento,
l’Inghilterra si ritrovò ad essere sovrana indiscussa dell'Atlantico, date le sue acquisizioni
in Canada, in Florida e in parte delle Indie occidentali, ovvero le regioni più redditizie
dell'India: a buon grado, pertanto, si può affermare come la Gran Bretagna fosse divenuta la
più grande e potente forza coloniale del mondo. Ad ogni modo, tale indiscussa
superiorità, per via della Rivoluzione americana di fine secolo (1783), con la conseguente
perdita del dominio delle colonie americane, fu messa in seria discussione, non solo da un
punto di vista economico, ma anche politico-sociale; nonostante questo, però, quando pochi
anni dopo, nel 1793, iniziò la guerra contro la Francia rivoluzionaria, la Gran Bretagna
ebbe già recuperato tutto il suo potere.
2. L’età dei Lumi in Inghilterra
2.1 Ragione e sensibilità
Da un punto di vista culturale, il Settecento inglese è un secolo di contraddizioni, in cui
convivono atteggiamenti, principi e filosofie tra loro diverse e addirittura opposte. Si dice
spesso che in Gran Bretagna, come in Francia, il XVIII secolo è contrassegnato
dell’Illuminismo, cioè da una visione del mondo pienamente fiduciosa nell'autorità
universale della ragione. Va pur detto, tuttavia, che nella cultura inglese del Settecento, la
ragione non esercita mai un dominio assoluto, soprattutto perché, soprattutto verso la fine
del secolo, le ragioni “del cuore” e dell’Eros iniziarono ad infiltrarsi nel territorio della
ratio. In virtù di ciò, se nella prima metà del secolo furono dominanti ragione e razionalità,
a dominare la seconda metà del Settecento, invece, è la sensibilità, cioè un sentire morale
che pone preminenza ad un vero e proprio culto dei sentimenti. Di conseguenza, i due poli
di sense and sensibility (“ragione e sentimento”) sono co-presenti, non necessariamente
come valori opposti, ma piuttosto come parti diverse di un comune sentire diffuso
all’epoca.
2.2 L’Illuminismo
Illuminismo, che dà il nome alla cosiddetta “Età della Ragione”, è il nome di una
corrente di pensiero che svolse un ruolo decisivo ed importante nella storia della civiltà
occidentale, e che si colloca conseguentemente al Rinascimento (che, va ricordato, durò, in
Inghilterra, dal XVI al XVII secolo). Più precisamente, la corrente illuministica, i cui primi
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e timidi sviluppi si erano già avuti a partire dalla fine del Seicento, si caratterizzò quale
forma di pensiero dominante, tra gli intellettuali, fino alla metà del Settecento, con
propaggini anche verso la fine del secolo.
Il postulato centrale della filosofia illuminista era la glorificazione della facoltà umana
della ragione: non a caso, la stessa parola “illuminismo” (in inglese, Enlightenment)
significa “tempo di luce, di illuminazione”; una definizione, questa, che ben riassume lo
spirito di un’epoca in cui studiosi, scrittori, artisti e scienziati furono sempre attivamente
alla ricerca di sfruttare la chiara luce della ragione, al fine di liberare il mondo dalla
superstizione e dall'ignoranza, affermando di un pensiero preponderatamente
razionale. Il risultato di una tale ambizione fu tangibile soprattutto negli enormi
miglioramenti ottenuti in campo scientifico, soprattutto per quanto riguarda la matematica,
oltre che nello sviluppo di nuove e audaci idee che riguardassero l’affermazione dei diritti
umani fondamentali e della democrazia (e dai quali prenderanno poi ispirazione le
rivoluzioni americana e francese di fine secolo).
Il retroterra culturale sulla cui base ebbe sviluppo l’intero movimento illuminista
(almeno nella sua variante inglese e francese) va delineato a partire dall’ultima fase del
Rinascimento e, in particolar modo, da quando, durante la prima metà del XVII secolo,
Francis Bacon (1561-1626), in Inghilterra, e René Descartes (1596-1650), in Francia,
pubblicarono ciascuno un importante trattato di filosofia naturale, i quali poi furono la
base per lo studio di intere generazioni di scienziati e filosofi a venire: è in tal senso, allora,
che molti storici considerano questi due uomini quali veri e propri precursori e “padri
dell'Illuminismo”. In particolare, dunque, Francis Bacon nacque in Inghilterra nel 1561;
già durante i suoi giorni da studente, al Trinity College di Cambridge, molte delle sue idee
innovative iniziarono a prendere forma, data la sua certezza che la scienza potesse liberare
le persone dall’ignoranza e consentir loro di condurre una vita più produttiva e
confortevole; tuttavia, affinché ciò avvenisse, egli riteneva necessario che le menti degli
uomini dovessero prima liberarsi dagli modi di pensare acritici, distaccati e troppo
spirituali.
Nello stesso periodo, oltre il canale della Manica, in Francia il brillante filosofo-
matematico René Descartes pubblicò un libro in cui proclamava che la ragione e la
matematica fossero tutto ciò di cui vi fosse bisogno per scoprire la verità nelle scienze. Alla
base delle teorie di Descartes (italianizzato, Cartesio) vi era il paragone dell'universo a un
orologio, progettato e costruito da un maestro orologiaio, cioè da un Dio onnipotente, il
quale, dopo aver messo in moto l'universo stesso, lo aveva lasciato solo. Ma Cartesio,
inoltre, fu anche il pioniere, nella formulazione matematica, di leggi fondamentali che
governassero il movimento delle cose, come il moto ondulatorio dell’oceano, il moto
circolare dei mulini a vento e così via. Più di tutto, però, in ambito matematico egli viene
soprattutto ricordato per la formulazione di una teoria dello spazio geometrico, chiamata
“geometria analitica”.
Alla base dello sviluppo dell’Illuminismo vi furono proprio tali idee promosse da Bacon e
Cartesio, le quali si rivelarono estremamente importanti nello sviluppo del cosiddetto
“metodo scientifico”, ovvero un procedimento di analisi costituito da una serie di semplici
passaggi razionali da svolgere, al fine di risolvere anche i problemi scientifici più
complessi; ma tale applicazione del metodo scientifico, appunto, poteva avvenire solo se
alla base vi fosse stato il ricorso alla ragione. Si venne a delineare, pertanto, ciò che poi
prenderà il nome di scientific circle of knowledge, cioè un vero e proprio circuito avente
come nodi ragione, metodo scientifico, verità, progresso e umanità: la verità del mondo
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si sarebbe potuta rivelare solo attraverso il metodo scientifico, il quale presuppone
l’applicazione della ragione, per il fine di condurre l’umanità intera verso un continuo
progresso.
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difesero con un’ardente passione i diritti umani e la democrazia. Ad esempio, infatti,
Voltaire (1694-1778) sostenne soprattutto la libertà di parola, rendendo famosa la sua
affermazione: “Non approvo quel che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto di
dirlo”. Con un pari ardore, anche Montesquieu (1689-1755), pure egli francese, teorizzò una
completa separazione dei poteri statali, al fine di consentire un equilibrio di governo, con la
separazione e l’affidamento a diverse branche politiche dei poteri legislativo, esecutivo e
giudiziario.
Ma un punto che accumunò quasi tutti i filosofi dell'Illuminismo, fu la loro volontà di una
netta separazione tra Chiesa e Stato, dato che il mescolare governo e religione aveva quasi
sempre portato a disastri. D’altronde, va detto che gli stessi filosofi illuministi erano per lo
più deisti, ovvero non aderenti a dottrine religiose specifici, ma sostenitori di un cosiddetto
“Dio della natura”, cioè una forza spirituale onnipotente che, dopo aver creato l'universo e
tutto ciò che esso contiene, l’ha lasciato a sé stesso (in assonanza con le teorie cartesiane).
Ma le teorie dei filosofi illuministi ebbero il lascito di ispirare profondamente entrambe le
“rivoluzioni borghesi” di fine secolo, quali le rivoluzioni americana e francese (oltre a
quella haitiana, sebbene i suoi leader fossero ex-schiavi); ed infatti, lo stesso Thomas
Jefferson (1743-1826) si rivolse più e più volte alle idee degli intellettuali illuministi per la
stesura della Dichiarazione di indipendenza, così come fecero gli artefici della Costituzione
degli Stati Uniti, nel momento in si ritrovarono ad elaborare un piano di governo per la
nuova democrazia americana.
Infine, da un punto di vista strettamente letterario, va detto che in Inghilterra la prima
parte del XVIII secolo viene spesso indicata come “età augustea”, con un richiamo allo
splendore che aveva caratterizzato la cultura latina e romana durante il regno
dell’imperatore Augusto. In effetti, il richiamo al classico e ai suoi generi fu particolarmente
evidente in molti scrittori della prima metà del secolo, come Pope (1688-1744), Dyer (1699-
1757) e Collins (1721-1759), finanche poi, in misura minore, in Jonathan Swift (1667-
1754). All’appellativo di augustea, per identificare quest'epoca, che di fatto copre un arco di
tempo molto ampio, si alterna spesso quello di “età neoclassica” o “neoclassicismo”, in
quanto si venne ad affermare una concezione dell'arte quale imitazione della natura, sebbene
tale tendenza si sviluppò soprattutto verso la metà del secolo, giungendo finanche ad avere
un lascito in quella che sarà l’ideologia romantica di fine Settecento.
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particolare, l’uso del termine magnificent drama è significativo: la portata dell’accaduto fu
così grande da essere definito mastodontico e l’uso di drama indica che l’evento fosse così
surreale da sembrare un dramma teatrale. Il riferimento ad Eldorado, invece, indica che la
“miniera d’oro” che tanto arricchiva gli europei altro non era se non proprio lo
sfruttamento della schiavitù.
La Gran Bretagna, quindi, svolse un ruolo importante nel commercio schiavista
atlantico, soprattutto dopo il Seicento, essendo un'istituzione legalmente ammessa in tutte
le Tredici colonie inglesi nordamericane. Ad esempio, nel XVIII secolo le navi mercantili
britanniche costituirono il più vasto contributo al Middle Passage, che trasportava milioni di
schiavi all'emisfero occidentale. La maggior parte di coloro che sopravvissero al viaggio
giunsero nei Caraibi, là ove l'impero coloniale britannico possedeva colonie produttrici di
zucchero altamente redditizie.
Per rintracciare un percorso storico della tratta degli schiavi bisogna risalire al 1525, data
a cui risale il primo viaggio di schiavi diretto dall’Africa alle Americhe. Successivamente,
nel corso del Seicento iniziarono anche le già citate esportazioni dello zucchero dalle isole
caraibiche, zone incredibilmente multietniche per via degli schiavi che vi venivano
importati, provenienti da molte zone diverse dell’Africa; negli stessi anni, nel 1655,
l’Inghilterra entrò in possesso della Giamaica, prima appartenuta alla Spagna e, verso la
fine del fine del secolo, la Francia ottenne, invece, Santo Domingo, attraverso il trattato di
Rywsick, al termine delle guerre di Luigi XIV.
Bisogna considerare che, sebbene nel 1776 scoppiasse la Rivoluzione americana, essa
non era volta a fermare in nessun modo lo schiavismo: inneggiando alla democrazia e alla
libertà, i rivoluzionari americani avevano come obiettivo il solo abolire il controllo della
monarchia inglese sulle colonie statunitensi e non miravano anche alla libertà degli schiavi
(si stima, infatti, che gli stessi capi della rivoluzione, come Thomas Jefferson, si servissero
ordinariamente degli schiavi durante il conflitto).
Tuttavia, sulla scia delle contemporanee rivoluzioni americana e francese, nel 1791
scoppiò, nella repubblica coloniale francese di Santo Domingo, la cosiddetta “rivoluzione
haitiana” (haitian revolution), volta all'abolizione della schiavitù e del colonialismo da
parte di un gruppo di schiavi liberati contro il governo coloniale francese. I suoi effetti, in
particolare, ebbero un notevole influsso sulla politica schiavista nelle Americhe, oltre al
fatto che contribuì fortemente a cambiare il credo comune sul ruolo di inferiorità delle
persone di colore e sulla capacità degli schiavi di ottenere e mantenere la loro libertà,
dimostrando inoltre una capacità organizzativa e una tenacia che spaventò molti schiavisti.
Nel 1807, poi, a seguito di un forte gruppo di pressione ispirato dal movimento per
l'abolizionismo (cioè volto ad abolire lo schiavismo), il Parlamento del Regno Unito votò
per rendere illegale il commercio di schiavi in qualsiasi parte dell'impero britannico grazie
allo Slave Trade Act: si ottenne con ciò l'abolizione della tratta degli schiavi.
Successivamente, la condizione stessa di schiavitù venne definitivamente abolita nei territori
imperiali con il Slavery Abolition Act del 1833. Nonostante questo, illegalmente
continuarono comunque alcuni trasporti di navi negriere, la cui ultima attestazione risalì al
1866, in arrivo nelle Americhe.
Una delle fonti maggiori della fioritura della ricchezza coloniale inglese fu dovuta alla
cosiddetta triangular trade (“tratta triangolare”), ovvero una rotta che veniva svolta dalle
navi colme di schiavi (dette “navi negriere”), la quale partiva dall’Inghilterra per giungere
in Africa, da lì nelle Americhe e poi di nuovo indietro in Gran Bretagna. In particolare, le
navi, che partivano principalmente dai porti inglesi, una volta giunte nel continente africano
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caricavano su di sé migliaia di schiavi, principalmente neri, i quali venivano poi trasportati
attraverso l’Oceano Atlantico, fino a giungere nelle piantagioni americane. Attraverso la
manodopera da essi fornita, i prodotti venivano, infine, inviati all’Inghilterra, così che essa
potesse rifornirsi di materie prime non presenti nel suo territorio. Questo tipo di
commercio triangolare fu fondamentale per lo sviluppo tecnologico inglese, gettando le basi
della rivoluzione industriale.
Dal punto di vista economico e culturale, in molti, soprattutto tra gli esponenti del futuro
utilitarismo inglese, cercarono di giustificare tali condizioni di schiavitù come condizione
necessaria allo sviluppo. A tal proposito è utile citare anche il concetto che si è affermato
successivamente, nel XX secolo, di “capitalismo razziale”, secondo cui il capitalismo è
fiorito nel terreno culturale di una civiltà occidentale che era già completamente infusa di
razzismo, tanto che i primi veri e propri “proletari” furono, per così dire, i soggetti
razziali (irlandesi, ebrei, zingari, slavi, etc.), che, come abbiamo visto, furono vittime di
espropriazioni e schiavitù, costretti al lavoro per padroni più forti ed economicamente
ricchi: pertanto, gli schiavi neri rispecchiarono la prima vera e propria forma “proletaria”
di popolazione.
Tutti questi concetti di schiavitù, quindi, raggiunsero il loro culmine per via dell’eccessivo
mercantilismo borghese, che si affermò durante l’età dei Lumi, oltre al fatto che in molti
circoli si venne ad affermare l’idea che solo gli uomini europei fossero esseri razionali.
Quest’ultima supposizione, pertanto, portò al fatto che molti schiavisti furono conviti che,
assoggettando gli schiavi di altri paesi, più arretrati economicamente e tecnologicamente, si
potesse protrarre il progresso dell’umanità.
Una volta giunti nelle Americhe, come già accennato, gli schiavi venivano suddivisi
all’interno delle piantagioni, secondo un sistema che da alcuni critici contemporanei è stato
definito come precursore di quelle che poi saranno le fabbriche inglese dell’Ottocento.
Infatti, gli schiavisti, così come poi i datori di lavoro delle fabbriche, cercavano di ottenere
il massimo profitto possibile da una spesa minima e, quindi, attraverso lo sfruttamento di
pochi schiavi, in modo da non doverne comprare altri. Tuttavia, in questo sistema di lavoro,
nei campi vennero a formarsi molteplici incontri tra culture diverse, considerando che
quasi tutti gli schiavi provenivano da territori diversi dell’Africa e delle isole caraibiche: ad
essi, si opponeva sempre la figura del sovrintendente, rappresentante della cosiddetta white
supremacy che vigeva, nei confronti di tutte le altre culture, nei campi.
Tuttavia, poteva capitare che degli schiavi riuscissero a sfuggire dalle piantagioni dei
colonialisti e ad istituire le proprie comunità. Questi, quindi, vennero detti maroons
(termine che, per traslato, finì per designare “schiavi fuggitivi”), i quali crearono degli
agglomerati sociali in forte contrasto rispetto agli ideali sociali della borghesia. Proprio
queste comunità, quindi, furono all’origine della già accennata haitian revolution. Infatti,
come poi verrà affermato dallo studioso Peter Linebaugh, tale rivoluzione fu proprio
l’inizio del movimento Black Power.
Da un punto di vista culturale, infine, mentre per i borghesi illuministi inglesi la maggior
fonte di innovazione e di lotta al passato oscurantista venne data dai periodici e dai romanzi
(cosiddetta print culture), per tali comunità maroon ciò era dato dalla musica, che, quindi,
rappresentò il massimo strumento di protesta sociale e di lotta contro gli oppressori
schiavisti.
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1. Coffee-houses, periodici e sfera pubblica
1.1 Le coffee-houses e i periodici
La diffusione della cultura illuminista, in Inghilterra, avvenne soprattutto grazie alla
fortuna delle coffee-houses, ovvero dei luoghi che erano molto più che semplici caffè e
normali luoghi di incontro, ma, con anche l’istituzione del servizio postale, esse divennero
dei veri e priori centri pubblici dove circolavano giornali e riviste e dove molti letterati e
uomini di cultura si riunivano a discutere degli argomenti più svariati, fissando spesso in
esse anche il proprio recapito. In esse, addirittura, presero anche vita i grandi dibattiti sui
temi quotidiani e comuni, definibili come “realisti”, i quali portarono alla nascita di idee per
quelli che saranno, poi, i futuri romanzi.
In particolare, relativamente alla loro struttura ed organizzazione, le coffee-houses
servivano soprattutto il caffè, il quale veniva importato in Inghilterra dall’impero
ottomano, molto diverso rispetto a quello quotidiano, oltre che al cioccolato e, in casi più
rari, bevande alcoliche (il classico tè inglese, infatti, divenne costume tempo dopo, legato
anche a ragioni di stampo coloniale). Esse, apparse per la prima volta verso la metà del
Seicento, tendevano ad essere delle strutture a stanza singola situate al piano terra di edifici
già esistenti (in tal senso si pongono come vero e proprio proseguo delle locande medievali
e predecessori dei futuri pub inglesi). Al loro interno, le coffee-houses, oltre alle
apparecchiature tipiche di ristorazione, avevano anche veri e propri scaffali adibiti a
biblioteche, facendole fungere come una sorta di “biblioteche pubbliche”, un’assoluta
novità rispetto ai tempi passati.
Le coffee-houses, dunque, oltre ad essere nuovi spazi pubblici per incontri sociali che
favorivano la circolazione delle idee, entrarono a far parte della cosiddetta “cultura
urbana”, facendo sorgere nuove mode e tendenze, modificando radicalmente l’opinione
della sfera pubblica e sociale. Oltre che all’idea e al culto dell’esotico, tali luoghi
alimentarono anche una vera e propria culture of display (“cultura del mostrare”) riguardo il
proprio sapere, che si alimentava grazie al dibattito e all’ascolto delle opinioni altrui.
Aumentava, pertanto, anche il cosiddetto gaze, ovvero lo “sguardo” nei confronti del
mondo, cioè aumentavano le quantità di informazioni e di dettagli conosciuti dai singoli e
che erano ricavabili anche attraverso la ragione.
Quindi, artisti e personaggi mondani presero a frequentare tali luoghi e ogni gruppo si
caratterizzò secondo il caffè prescelto: ad esempio, attorno a Fleet Street si concentravano
soprattutto avvocati e uomini di legge. La più famosa coffee-house letteraria fu, invece,
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Will’s, frequentata sia da commediografi e attori, seguita, poi, da Britton’s. Ad ogni modo,
laLetteratura
fortuna delle coffee-houses, come anche già accennato, portò a pieno lo sviluppo e la
fioritura dei periodici e delle riviste.
Uno dei più influenti periodici del periodo del primo Settecento fu il Gentleman’s
Magazine il quale, pubblicato mensilmente dal 1731 al 1914, fu un mezzo formidabile di
diffusione dei libri e di informazione non soltanto letteraria, la quale accoglieva
corrispondenze e contributi anche dalla provincia inglese e dagli scritti femminili, e il cui
scopo era quello di trarre, dai numerosissimi quotidiani e settimanali esistenti, le notizie, i
saggi e le informazioni principali. In seguito, la rivista accolse anche articoli di critica
letteraria, molti dei quali di Samuel Johnson, ovvero uno dei più influenti letterati del
secolo.
Al Gentleman’s Magazine si affiancò anche il The Club Street Journal, settimanale
satirico pubblicato tra il 1730 e il 1737, oltre che il The Monthly Review, il quale era
specializzato in recensioni letterarie, affidate ad alcuni tra i più noti autori dell’epoca.
Quest’ultima rivista, inoltre, conteneva anche una rassegna mensile di tutti i libri
pubblicati, facendone, così, una preziosissima fonte di informazione non solo sulla
letteratura del periodo, ma anche sulla sua stessa ricezione. In contrapposizione al The
Monthly Review uscì tra il 1756 e il 1790 il The Critical Review, tendente politicamente
verso i tory e che venne apprezzata da Johnson, il quale vi contribuì ripetutamente. Inoltre,
una grande influenza sul mondo letterario venne esercitata da The Rambler, ovvero una
rivista bisettimanale diretta e redatta dalla stesso Johnson tra il 1750 e il 1752, per un totale
di 208 numeri, contenenti saggi di vario tipo, come ritratti biografici, allegorie, favole, le
quali furono soprattutto opera di Johnson, sebbene alcune fossero anche di altri famosi
autori dell’opera, in quanto quasi tutti gli scrittori settecenteschi contribuirono ai
periodici, che spesso furono proprio fondamentali per la loro carriera letteraria. Ad ogni
modo, i più importanti periodici del tempo, i quali trovano nelle coffee-houses dei centri
fondamentali per la loro diffusione (tanto che lo stesso Johnson affermò che le coffee-
houses fossero luoghi “where coffee is sold and guests are supplied with newspapers”),
furono tre: The Tatler, The Spectator e The Guardian.
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Tuttavia, dal marzo 1711, fino al dicembre 1712, Steele, insieme a Joseph Addison,
iniziarono la pubblicazione di The Spectator (“Lo spettatore”), che prese ad uscire
quotidianamente, conquistandosi, in questo modo, un’immediata popolarità soprattutto
presso la borghesia.
In particolare, anche per The Spectator fu creato un nucleo di personaggi fittizi, ciascuno
rappresentante un gruppo sociale dell’Inghilterra del periodo. Tra essi vi erano, ad esempio:
Mr Spectator, ovvero colui che riporta quanto avviene nel circolo e il quale è un uomo che
ha viaggiato, possiede una solida cultura, conosce a fondo Londra ed è un acuto osservatore
di costumi (in pratica, il tipo del cittadino modello); Sir Roger De Coverley, ovvero un
“gentiluomo di antico lignaggio”; Sir Andrew Freeport, cioè il tipico uomo d’affari, abile
nel commercio, che rappresenta l’intraprendente borghese imprenditoriale e altri. Le
garbate, anche se animate, discussioni di questi personaggi hanno spessissimo come oggetto
proprio opere letterarie.
Ma lo scopo dichiarato del giornale era, tra le altre cose, “quello di vivacizzare la moralità
con lo spirito e l’ironia, e temperare questi con la moralità”. In particolare, rispetto a The
Tatler, in The Spectator, sotto la maggiore influenza di Addison, l’interesse e il tono si
spostano dal livello delle conversazioni moraleggianti, che caratterizzavano la prima rivista,
per giungere ad un piano di riflessione filosofica, il cui intendo principale da perseguire si
rivela essere quello di educare i lettori e di innalzarne il livello generale del gusto.
Lo stesso dibattito sul gusto, in Inghilterra, fu argomento di numeri saggi, specialmente
intorno alla metà del secolo, i quali si ispiravano soprattutto ad Addison. Dunque, è proprio
in The Spectator che il tema del gusto si dimostra connesso al dibattito sulla differenza tra
“sensazione” e “ragione” che attraversa, in una molteplicità di aspetti, tutto il secolo,
giacché il gusto, comprendendo allo stesso tempo sentimento e giudizio, è una facoltà
mista, data dalla natura ma che si sviluppa nella cultura.
Ad ogni modo, i saggi dello Spectator spesso affrontano e semplificano temi complessi,
consentendo la loro comprensione e diffusione, segnalando anche sviluppi e mutamenti
fondamentali della cultura settecentesca. D’altronde, anche i personaggi che costituiscono il
microcosmo fittizio, ma esemplare, dello Spectator anticipano personaggi ed elementi del
romanzo, che si affermerà compiutamente di lì a qualche decennio.
The Spectator, infine, dà anche inizio ed identità alla critica letteraria, definendola come
l’interpretazione indispensabile (e conseguente valutazione necessaria) dei testi letterari,
anche nel loro confronto con i classici. Tuttavia, l’importanza ideologica della rivista fu
soprattutto quella di porre i valori borghesi, contrapposti a quelli aristocratici, al centro
del proprio discorso, nonché di informare e istruire il pubblico borghese dei propri lettori,
dichiarandone al tempo stesso la piena dignità di classe.
Più specificamente, abbiamo visto come The Spectator risentisse pesantemente
dell’influsso della personalità di Joseph Addison, la quale si manifestò, fin dagli anni
giovanili, come quella di un raffinato studioso e conoscitore dei classici. Ma uno dei meriti
principali di Addison fu quello di plasmare il gusto dei lettori britannici per tutto il
Settecento e oltre; infatti, così come egli stesso dichiarò nello Spectator nel 1711, la sua
ambizione era quella di portare la filosofia fuori dalle stanze degli studiosi e dalle
biblioteche, dalle scuole e dalle università, per farla entrare nei luoghi di incontro, nei
salotti delle coffee-houses, secondo un criterio definito come “secolarizzazione del gusto”,
la quale si collega ai mutamenti sociali e politici del tempo. Quindi, il filosofo del quale
Addison propagò maggiormente le idee fu Locke e, infatti, molti numeri dello Spectator
furono interamente dedicati alla spiegazione delle sue idee al pubblico di lettori borghesi.
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Ma la prosa di Addison, il quale era egli stesso rappresentante di quella classe e di quella
cultura borghese, fu definita da Johnson come il modello dello “stile medio”, soprattutto
per via della sua chiarezza e la sua armonia delle forme, le quali, allo stesso tempo, erano
sia colloquiali che evocatrici dell’idioma dei classici, e attraverso cui legittimò modelli di
gusto e di giudizio di un nuovo tipo di estetica letteraria.
L’opera di Addison, inoltre, è esemplare dell’importanza assunta, nel corso del Settecento,
dalla forma del saggio, che si afferma già a partire da The Tatler, soprattutto nella forma di
critica letteraria. I saggi di Addison, infatti, come quelli sul Paradise Lost di Milton,
esercitarono una fondamentale influenza sui lettori e, grazie ad essi (e più in generale
all’intera opera di Addison) la conoscenza dei grandi scrittori, sia classici che moderni,
non rimase più un appannaggio esclusivo degli studiosi di professione, ma entrò a far parte
della cultura media, attraverso quella che può essere definita come una sorta di
“divulgazione di alto livello”.
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Ad ogni modo, il Dictionary fornisce le definizioni di ben quarantamila parole, con
citazioni tratte da testi di ogni ambito del sapere e su un arco temporale di vari secoli. Ma
ciò che distingue l’immane opera lessicografica di Johnson dai primi tentativi settecenteschi
sono, in primo luogo, le molteplici citazioni (che forniscono un efficace contesto
linguistico, oltre che di rassegna culturale del primo Settecento) volte ad illustrare il
significato e l’uso delle parole e delle espressioni (anche secondo l’esempio del
Vocabolario dell’Accademia fiorentina), e, poi, il procedimento per cui dal senso radicale
delle entrate lessicali si perviene a quello più metaforico e poetico, secondo una logica
semantica.
Successivamente, Johnson lavorò anche sull’edizione del teatro di Shakespeare, nel
1765, e, dal 1779 al 1781, su The Lives of the English Poets, con i quali egli coronò la sua
prestigiosa carriera di studioso e con i quali prese forma anche la stessa concezione di
“classico inglese”. Infatti, oltre ai contributi lessicografici, il ruolo di Johnson fu centrale
anche nell’opera di creazione e codificazione del canone della critica letteraria. Il suo fine,
infatti, come espresso in un numero di The Rambler, era di “stabilire dei princìpi per
migliorare l’approccio alla conoscenza e alla cultura” secondo un criterio di
“discriminazione” (tipico del primo Settecento), inteso come l’operazione costante di
soppesare e confrontare un oggetto, una questione o un aspetto con un altro della stessa
natura attraverso la razionalità, al fine di discernere il “buono dal cattivo”, il vero dal
falso, senza, però, perdere di vista il valore dell’esperienza umana, la quale, per lo stesso
Johnson, era imprescindibile nella considerazione della “verità”.
Il criterio della “discriminazione” è particolarmente evidente nella sua visione della
poesia, evidenziata nelle Lives, le quali seguono una struttura piuttosto costante: prima
vengono le notizie biografiche, poi una breve valutazione e, infine, un’analisi più dettagliata
delle singole poesie dei vari poeti inglesi. In particolare, se la parte biografia rappresentava
un fondamento di verità e “storicità”, la parte più specificamente “critica” rivela che i veri
fondamenti di un’opera sono: “verità”, aderenza alla Natura, vigore, chiarezza e
capacità di mettere a fuoco l’argomento. Al contrario, ciò che costituisce il “cattivo” e,
quindi, oggetto di attacchi, sono: imitazione pedissequa, convenzionalismo di pensiero e
dizione e arcaismo.
Anche nell’edizione delle opere di Shakespeare, un altro grande contributo di Johnson
alla letteratura e alla cultura inglesi, si può evincere l’applicazione di tale criterio,
soprattutto per la ricerca di chiarezza, la correzione degli errori testuali e la spiegazione dei
punti oscuri, al fine di meglio contestualizzare l’opera del drammaturgo nel suo tempo e
nella sua cultura. In particolare, la lettura e l’analisi di Johnson delle opere shakespeariane
mettono in risalto la concezione e l’ideale di “Natura”, secondo cui la grande
commistione di generi (tragico e comico, gioiosi e dolorosi) all’interno delle produzioni del
drammaturgo poteva essere giustificata in quanto simile a quella “naturale” della vita.
Pertanto, è proprio la Natura che si può riscontrare nei personaggi del teatro di Shakespeare,
i quali vengono visti da Johnson come veri e propri prototipi dell’umanità “comune” per
via della loro “verosimiglianza”; ancora una volta, quindi, Johnson mette in luce
l’applicazione del suo criterio di “verità”.
2. Jonathan Swift
2.1 La vita
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Jonathan Swift nacque a Dublino, da genitori inglesi, il 30 novembre 1677; ricevette
un’educazione di stampo anglicano dapprima al ginnasio di Kilkenny e, successivamente, al
Trinity College di Dublino, dove si laureò nonostante le difficoltà derivate dal suo fermo
rifiuto di studiare la filosofia logica. Ma il grave turbamento della vita pubblica irlandese,
provocato dal tentativo di Giacomo II, nell’estate 1690, di coalizzare le forze cattoliche
attorno alla sua causa, costrinsero Swift a cercare rifugio in Inghilterra, dove venne accolto
nella dimora dell’insigne diplomatico e saggista sir William Temple (1628-1699). Pertanto,
dopo essersi trasferito a Moor Park, dove quest’ultimo risiedeva nella regione del Surrey,
egli compì il suo apprendistato politico, oltre al fatto che allo stesso tempo ricoprì anche
l’incarico di istitutore della intelligentissima ragazzina di otto anni Esther Johnson, chiamata
Stella, la quale si suppone essere stata figlia naturale dello stesso sir Temple, il quale morì
nel 1699.
Fu proprio durante questo periodo che Swift si accostò, senza troppo successo, alla poesia,
componendo un’ode pindarica a celebrazione della vittoria di Guglielmo III su Giacomo II;
tuttavia, un cugino dello scrittore, il drammaturgo John Dryden (1631-1700), di trentasei
anni più vecchio di Swift e con una brillante carriera letteraria alle spalle, dopo averla letta
profetizzò che il “il caro cugino Jonathan” non sarebbe mai diventato un poeta. Al
fallimento dell’aspirazione poetica seguirono gli anni in cui Swift maturò l’idea di farsi
sacerdote, non tanto per una sincera vocazione religiosa, quanto per la speranza di una
indipendenza economica: per questo motivo, egli ritornò in Irlanda, dove frequentò il
Trinity Collage e nel quale, nel 1701, conseguì il dottorato in teologia.
Tra il 1706 e il 1710, Swift soggiornò sempre più frequentemente in Inghilterra, con la
speranza di ottenere dalla regina Anna l’estensione agli ecclesiastici irlandesi dell’esonero
dal pagamento di determinate tasse, esonero che fino ad allora era stato concesso al solo
clero inglese. Ad ogni modo, successivamente, attraverso un matrimonio segreto, Swift
sposò la sua ex allieva Esther Johnson (alla quale dedicò le lettere raccolte poi in Journal to
Stella, 1710-13), dedicandosi al contempo ad un’intensa attività politica sui periodici The
Examiner e The Spectator e diventando, per giunta, intimo confidente (e forse informatore)
di Lord Oxford, capo del partito conservatore tory.
Nel 1713 Swift viene finalmente nominato decano della cattedrale di St. Patrick a
Dublino, sebbene la morte inaspettata, l’anno successivo, della regina Anna, fece sì che il
partito tory, di cui appunto facevano parte i maggiori protettori di Swift, subisse un crollo,
per via della salita al trono del protestante Giorgio di Hannover, maggiormente favorevole
al partito whig. Per questo motivo, allora, lo scrittore tornò in Irlanda, dalla quale non si
spostò più per svariati anni, durante i quali egli intrecciò anche un nuovo rapporto
sentimentale con la giovane Hester Vanhomrigh, sebbene le sue condizioni di salute fossero
sensibilmente peggiorate per via di una labirintite che gli causa forti scompensi di
equilibrio, oltre che cattivi umori.
Nel 1726 Swift interrompe il suo prolungato soggiorno irlandese per recarsi a
Twickenham, a casa dell’amico Alexander Pope; nello stesso anno, poi, verrà anche
pubblicato Gulliver’s Travels (“I viaggi di Gulliver”), iniziato nel 1720, ovvero una satira in
forma di narrativa di viaggio che pare abbia avuto origine durante gli incontri dello
Scriblerus Club (associazione di autori che riunivano nelle coffee-houses), in cui si
progettava di scrivere le “memorie” dell’immaginario personaggio di Scriblerus,
accompagnatore di viaggio di un altro personaggio fittizio, ovvero Samuel Gulliver
(sebbene poi il personaggio di Scriblerus non venne utilizzato da Swift).
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Ma nel 1728 morì la Johnson, fedele e silenziosa compagna di vita e di pensiero. Attorno
al 1740, invece, vennero diagnostica a Swift disturbi mentali, che in certi giorni lo
portavano a stati di semidemenza, in una condizione che egli stesso descrisse come quella di
un albero fatiscente, a cui pian piano cadono le foglie, così come egli avrebbe ben presto
perso le facoltà mentali. Pertanto, dopo essere stato giudicato “labile di intelletto e di
memoria”, egli morì il 19 ottobre 1745, per poi essere sepolto nella cattedrale di St. Patrick.
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suo Dictionary, oltre che a dare la definizione del wit come “intelligenza” e “agilità
mentale” e dello humour come “giocoso e grottesco divertimento”, affermò che “in una
conversazione, lo humour conta più del wit, la disinvoltura più del sapere”.
Ad ogni modo, l’intento di Swift di porre in commistione wit e humour, agilità mentale e
giocosità, è evidente tanto in A Tale of a Tub che in The Battle of the Books (“La battaglia
dei libri”), satira sulla pretenziosità della letteratura moderna pubblicata anch’essa nel 1704.
In particolare, The Battle of the Books, nato come difesa della letteratura classica contro la
sua rivale contemporanea, vede lo scontro tra i due mondi, classico e moderno, il quale dava
adito ad una vera e propria “battaglia” combattuta nei salotti e nelle accademie europee con
toni seriosi (se non pomposi), trattato con schernimento, al fine di avallarne la validità. Ed
infatti, nel bel mezzo della disputa, Esopo, con la sua nota passione per gli animali, fa da
mediatore tra le rivendicazioni di un ragno sostenitore dei “moderni”, che estrae dalle
proprie viscere il materiale con cui tessere le sue sudice tele, e un’ape favorevole agli
“antichi”, la quale attinge, invece, dalla natura per dar vita alle sue produzioni e, in
particolar modo, dalla “dolcezza e luce”. Da un punto di vista propriamente stilistico,
invece, il testo pubblicato si presenta come tratto da un manoscritto molto danneggiato e,
pertanto, interrotto da continue inconsequenzialità e lacune, concludendosi con una non-
conclusione, cioè con un nuovo paragrafo subito interrotto.
Anche le opere swiftiane della maturità sono improntate alla distinzione tra wit e humour.
Infatti, lo straordinario vigore di A Modest Proposal for preventing the Children of poor
people in Ireland from being a Burden to their parents or Country (“Modesta proposta per
impedire che i figli dei poveri in Irlanda costituiscano un fardello per i propri genitori o per
il proprio paese”) discende proprio dalla razionalità, dalla precisione matematica e dal tono
poco pacato con cui viene avanzata quella che costituisce, a tutti gli effetti, una proposta
mostruosa: risolvere il problema dell’eccesso di popolazione infantile destinando i bambini
poveri al nutrimento dei ricchi. Inoltre, il riferimento all’Irlanda aggiunge particolare
mordente alla tesi paradossale trattata, oltre che rispecchia la decisione che Swift aveva
preso di farsi paladino degli interessi e delle rivendicazioni irlandesi. Ma la grande
popolarità che quest’opera, pubblicata nel 1729, riscosse nell’opinione pubblica irlandese va
attribuita soprattutto alla capacità della voce narrante di accattivare un vasto pubblico,
grazie tanto al suo tono colloquiale e beffardo di denuncia quanto all’abilità con cui sono
citati al contempo sia le Sacre Scritture che i fatti reali, ai quali Swift si riferisce con tori seri
e patriottici, ben congegnando quale tipo di retorica possa essere efficace in tutte le varie e
diverse occasioni.
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realmente compiuti, tra cui uno di Woodes Rogers (?-1732), sul salvataggio di un certo
Alexander Selkirk (e che ispirò anche il Robinson Crusoe di Defoe).
Lemuel Gulliver è un chirurgo inglese che riesce a diventare capitano di una nave. Egli è
un uomo colto, fiero della sua identità nazionale e della sua buona formazione politica e
professionale; al contempo, però, Gulliver è essenzialmente un uomo medio ed è proprio
mettendo in evidenza i suoi limiti che Swift ottiene gli effetti migliori. In particolare, in
ciascuno dei quattro libri di cui si compone l’opera, Gulliver affronta vicende straordinarie,
in cui se la cava bene, dimostrando persino coraggio, acquisendo padronanza di lingue
straniere, il tutto restando un osservatore e un narratore scrupoloso: allo stesso tempo, però,
egli è anche un giudice parziale e, come rivela per assonanza il suo nome (gullible,
“credulone”), cade facilmente vittima di inganni.
Dopo esser salpato nella nave mercantile da lui conquistata, Gulliver naufraga sull’isola di
Lilliput, abitata da esseri minuscoli, veri e propri nani dalle piccole vite piene di
sciocchezze; proprio le minime proporzioni di questo popolo rendono tutte le sue cerimonie,
la pompa del suo imperatore, le lotte tra i vari gruppi cittadini e la guerra con il vicino
popolo di Blefescu (chiara allegoria della Francia) assurde e ridicole, oltre che futili,
sebbene esso convinto della propria superiorità persino davanti a quello che per loro è un
gigante, cioè Gulliver. Ovviamente, il mondo dei lillipuziani richiama le controversie e le
lotte interne parlamentari della vita politica inglese del tempo, le quale si svolgevano tra
infimi contendenti muniti di argomentazioni meschine. Inoltre, proprio come gli inglesi
dell’epoca, essi vivono secondo gli ideali dell’Illuminismo, pur non mancando di difetti
sociali ed etici (sfruttamento, violenza, intolleranza, corruzione, ecc.).
Nella seconda parte dell’opera, Gulliver viene lasciato per caso sulla spiaggia di
Brobdingnag, popolato da giganti che si credono superiori solo in ragione delle loro
dimensioni; anche qui l’Inghilterra è evocata e fatta oggetto di satira, soprattutto nei
commenti del re del popolo. Infatti, Gulliver, non essendosi reso conto, precedentemente,
delle analogie tra la piccolezza, in tutti i sensi, della vita pubblica di Lilliput e Blefescu e le
meschinità di quella europea, difende strenuamente la storia, le guerre e le istituzioni
britanniche dinanzi al re di Brobdingnag, il quale, per risposta, con un commento pungente,
giunge alla conclusione che i compatrioti di Gulliver siano disgustosi e pericolosi, oltre che
“the most pernicious race of little odious vermin that nature ever suffered to crawl upon the
surface of the earth” (“la più perniciosa razza di piccoli parassiti odiosi a cui la natura abbia
concesso di strisciare sulla superfice terrestre”). Ma Gulliver non si mostra mai turbato dai
commenti fatti dai giganti, in quanto egli, assumendo un atteggiamento simile a quello che i
lillipuziani avevano avuto nei suoi confronti, afferma comunque la superiorità della sua terra
d'origine, criticando, con atteggiamento patriottico, le leggi di Brobdingnag,
l'ignoranza dell'imperatore in materia politica e il sapere imperfetto e limitato in quel paese,
a cui si può anche aggiunge una critica alle loro dimensioni enormi (e agli enormi odori che
ne derivano), facendo intuire che Gulliver provi orrore e sconcerto alla vista
dell’ingigantimento delle caratteristiche umane.
Ma mentre i primi due viaggi hanno per argomento la sproporzione fisica, il terzo, diviso
in diversi episodi, tratta prevalentemente di disturbi mentali. In particolare, nel primo
episodio della terza parte dell’opera, Gulliver si ritrova a visitare l’isola volante di Laputa, il
vicino continente e la sua capitale Lagado: essa è abitata da filosofi e scienziati le cui teorie
assurde volano nelle nuvole come l’isola che li ospita, incapaci di qualsiasi applicazione
pratica. Proprio per questo, allora, il regno dominato dall’isola di Laputa, cioè Balnibarbi, si
trova in uno stato di rovina derivato dalla scienza teorica, che non si preoccupa di badare ai
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risvolti pratici: si tratta di una chiara allegoria alle lungaggini della burocrazia e agli
esperimenti della Royal Society, ovvero la più grande società di scienziati inglese del
tempo. Vicino Balnibarbi Gulliver esplora, nell’attesa di un passaggio che lo porti via dal
regno e in altre avventure, l’isola di Glubbdubdrib, dove i maghi materializzano il passato
per mostrare a Gulliver il vero volto dell’umanità. Infine, a conclusione del terzo libro,
Gulliver giunge dai Struldbruggs, uomini condannati ad un’immortalità caratterizzata dal
lento decadimento fisico, nei confronti del quale il protagonista deve porsi con distacco, al
fine di non contaminarsi dell’aberrazione mentale e atroce tormento sentito da tale popolo.
La quarta ed ultima parte (sebbene sia stata la prima ad essere scritta) serve sia a
riproporre le tematiche dello squilibrio fisico e psichico, sia anche a sollecitare un
ripensamento di tutti i preconcetti di Gulliver (e, per estensione, anche dei lettori). Infatti, in
questa parte viene presentata Huyhnhnmlandia (dal nome simile ad un nitrito), il paese degli
Houyhnhnms, cavalli dotati di ragione, in cui essi sono i comandanti e gli umani sottomessi.
In particolare, il mondo dei cavalli, ordinato e pulito, viene messo in contrasto con quello
sporco e brutale degli Yahoo, cioè appunto esseri che hanno sembianze umane ma che, in
realtà, sono disgustosi animali che racchiudono in sé i vizi e le cattiverie dell’umanità. Nella
narrazione è particolarmente chiaro ed evidente come Gulliver sia restio ad identificarsi con
gli abominevoli Yahoo, tanto da utilizzare continuamente, riferendosi a loro, termini della
sfera animale: la sola vicinanza a queste creature gli procura un palese disgusto. Nonostante
questo, i suoi ripetuti tentativi, spesso anche disperati, di essere accettato da coloro che, a
conti fatti, sono i veri animali, per quanto straordinari fossero, lo conducono ad uno stato
mentale che si può solo definire aberrante. D’altronde, gli Houyhnhnm, per quanto dotati di
ragione e di una morale stoica e per quanto creature socievoli, artefici di una società
progredita fondata sulle virtù più apprezzate dai teorici settecenteschi, sono completamente
incapaci di provare qualunque passione. Proprio per via della loro vita virtuosa e progresso
invidiabile, nella loro terra Gulliver cerca strenuamente di ottenere almeno lo stato di
“cavallo onorario”, anziché di accontentarsi di quello di “onorevole Yahoo”: proprio questa
smania, questa sua razionalità distorta e sconvolta, di raggiungere un’illuministica
perfezione irraggiungibile lo porterà, infine, allo squilibrio mentale. E, infatti, durante il
viaggio di ritorno in Inghilterra, Gulliver si dimostra oramai incapace di apprezzare la
fondamentale bontà degli uomini, avendo nostalgia dell’utopica società equina; inoltre, una
volta a casa, egli persino rifiuta la compagnia degli uomini e le relazioni personali, per poter
vivere, invece, in una stalla: mente e corpo, ragione e passione, appaiono oramai
disastrosamente e violentemente scissi.
La popolarità del libro, in cui si compendiano generi e forme letterarie disparati (il
racconto di viaggio, la narrativa utopica, il commento critico, la satira) tanto da essere
difficile collocarlo in un ambito preciso, è stata vastissima, ma la visione cupa e amara, del
mondo e dell’umanità, che presenta ha turbato più di un lettore. In particolare, Swift crea dei
veri e propri universi alternativi al nostro, adottando, però, sempre un metodo ben preciso in
tutte le descrizioni di territori e isole fantastiche: ribaltare o estremizzare il modo in cui
vivono gli europei. Infatti, in una società in rapida mutazione, fondata sul commercio, sulla
finanza e sulla priorità del mercato, Swift dirige una critica contro le guerre, le
inconcludenze dei parlamentai e i fanatismi delle religioni, creando degli universi visionari
che sono come specchi riflettenti in modo deformante il nostro mondo.
I luoghi in cui viaggia Gulliver, pertanto, sebbene siano letteralmente delle utopie, cioè
società che non esistono e che non sono in nessun luogo, si configurano più come vere e
proprie distopie, cioè mondi in cui situazioni, sviluppi e assetti politico-sociali presenti nella
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realtà avevano portato a sviluppi estremamente negativi. Va detto, tuttavia, che nella satira
swiftiana non vi sia la presenza di un grande progetto risolutivo della situazione, in quanto
le sue società sono volutamente impossibili da realizzare, basate su deformazioni esagerate
della realtà e senza indicazioni su possibili organizzazioni sociali. Naturalmente, tra tutti i
mondi visitati da Gulliver, quello dei cavalli filosofi di Huyhnhnmlandia sembra essere il
più giusto, a cui vanno anche le simpatie dell’autore; tuttavia, esso si fonda sulla schiavitù
degli esseri umani da parte degli equini, per quanto saggi essi possano essere, riproducendo,
pertanto, le stesse dinamiche di sopraffazione e violenza che costituiscono il marcio della
società criticata da Swift.
Ancora, il Gulliver che, tornato in patria, ha nostalgia dei cavalli sapienti, sembrerebbe
lanciare un messaggio apparentemente pessimistico: una società migliore in quanto saggia è
solo una società equina e, quindi, non umana, in quanto l’uomo è incapacitato dalla sua
violenza a raggiungerla. Questo approccio che, apparentemente, non crede nella possibilità
dell’uomo di un riscatto sembra andare proprio in contraddizione con l’impegno che Swift
profuse nella vita attiva del suo tempo, soprattutto per quanto riguarda la causa irlandese
(come testimoniato da A Modest Proposal), il quale gli permise di evadere dalla figura
dell’intellettuale rinchiuso in una “torre d’avorio”, come molti in quei tempi. A tal
proposito, risulta fondamentale non confondere il personaggio con lo scrittore, in quando
assimilare Gulliver con il suo creatore significherebbe sminuire la grandezza di Swift come
autore di satire e difensore della libertà
La lotta per la libertà, infatti, per Swift non aspira esclusivamente a liberare l’Irlanda dagli
oppressori politici del momento, quanto piuttosto a schiudere il vasto panorama della vera
libertà, e cioè l’autoconsapevolezza, l’indipendenza e la responsabilità verso il genere
umano nel suo insieme. Pertanto, la velata misantropia di Swift, e che pervade l’intero
Gulliver’s Travels, si fonda su un “sincero amore” per i singoli individui, a cui si
contrappone, però, un odio generalizzato verso “l’animale di nome Uomo”: più
chiaramente, l’odio generalizzato di Swift è determinato dall’indignazione verso una razza
intera, cioè tutti quegli uomini che si rifiutano di ammettere il loro bisogno di armonia, di
proporzione e di equilibrio tra facoltà razionale e istinto animale. Pertanto, l’immagine del
genere umano offerta da Swift non si limita a denunciare la depravazione che caratterizza
una certa parte del mondo, quanto piuttosto anche la tenacia con cui l’uomo persevera nel
peccato, ignorando il richiamo all’autodisciplina razionale, all’altruismo e alla grazia divina.
Da un punto di vista strettamente letterario, nell’opera swiftiana il personaggio di Gulliver
è, come detto in precedenza, il prototipo dell’“uomo comune”, che unisce il pragmatismo e
la lucidità razionale, tipiche caratteristiche di un chirurgo, ad una pronunciata
predisposizione alle scoperte al di là dei confini del suo mondo quotidiano. Come poi il
Robinson di Defoe ( U. 1, Lett., 4) Gulliver cerca di adattarsi a ogni tipo di
organizzazione sociale e, allo stesso tempo, di salvare la propria identità in un viaggio
caratterizzato da mondi ed esperienze coinvolgenti, durante il quale si ritrova ad affrontare il
problema del potere, la lotta fra gli individui, la formazione di gruppi sociale secondo regole
diverse dalle proprie e così via. Ancora, nel caso degli abitanti di Laputa, egli si confronta
anche con la scienza e il pensiero di tali popoli, soprattutto circa le loro astrazioni ed
illusioni. Inoltre, i riferimenti ai testi del passato e la loro commistione con opere e fatti
contemporanei contribuiscono alla incisività della satira non solo dell’Inghilterra, ma di
tutto un mondo squallido, dove ogni idealismo è destinato a soccombere e dove anche la
ragione si rovescia al suo contrario: né è esempio la grande accademia di Lagado, dove gli
scienziati si impegnano in assurdi esperimenti, come ricreare il cibo dagli escrementi, far
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nascere pecore senza lana, costruire case cominciando dal tetto, e dove i libri (con una
chiara allusione a molti scrittori suoi contemporanei) vengono scritti da una macchina che
dispone le parole a caso, formando frasi prive di significato.
Infine, da un punto di vista tecnico, osserviamo come Swift, in Gulliver’s Travels, ha
operato una particolare elaborazione sul linguaggio (ad esempio, a lui si deve una parola
ormai entrata nell’uso comune, cioè lilipuziano). Nello specifico, Swift non rifugge dalle
descrizioni di scene ripugnanti, mostrando anzi un vero e proprio gusto per le cose
“sporche” (feci, urine, cattivi odori, ecc.), per cui è emblematica la scena in cui Gulliver
estingue l’incendio propagatosi nel palazzo reale di Lilliput (e infatti tale scena veniva
spesso estromessa dal romanzo). Ancora, il linguaggio adoperato da Swift mette in chiara
evidenza la centralità del tema del corpo, il quale viene presentato tanto in dimensioni
spropositatamente enormi che minuscole, impressionando il lettore con l’orrore del
gigantismo e del rimpicciolimento. Si potrebbe dire, in ultima analisi, che i corpi giganti
descritti da Swift facciano orrore perché a fare orrore è la diversità: d’altronde, nell’opera
anche gli altri popoli guardano gli altri mondi, diversi dai loro, con sufficienza o aperta
ostilità. Tuttavia, proprio questo aspetto, cioè la rappresentazione del diverso, è ciò che fatto
sì che anche il pubblico infantile si accostasse a Gulliver’s Travels, così come poi farà con
Alice’s Adventures in Wonderland di L. Carroll (1832-1898).
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esploratori e condottieri erano ciò che più colpiva il pubblico settecentesco ( U. 1, Lett.,
4.1). Ma la centralità data alle parti di narrazione del viaggio per mare rende il romanzo non
statico, cioè legato esclusivamente alle scene descrittive di luoghi terreni con salti dall’uno
all’altro, quanto piuttosto dinamico, accompagnando il lettore attraverso lo stesso viaggio
affrontato dal protagonista.
Tra le altre figure influenti ispiratrici del romanzo vi è senza dubbio William Dampier
(1651-1715): dopo un primo periodo da pirata, nella seconda metà della sua vita egli
abbandonò la condotta pirateggiante, assumendo maggiormente il ruolo di esploratore
(sebbene, va ricordato, le comunità di briganti pirati fossero notevolmente più democratiche
rispetto alla monarchia stuartiana): attraverso i suoi viaggi, divenne la prima persona a
circumnavigare il mondo tre volte, il primo inglese a raggiungere e mappare parti
dell'Australia e della Nuova Guinea e il primo grande autore di culto per quanto riguarda i
diari di viaggio. Ancora, il suo scritto più famoso, A New Voyage Round the World (1697)
divenne in breve uno dei libri che più venivano fatti circolare nelle coffee-houses.
Un aspetto caratteristico della narrativa di viaggio marittimo è sicuramente l’idea
dell’isola (come si vede con l’isola volante incontrata da Gulliver nel romanzo di Swift) e,
più in particolare, la concezione degli archipelagos: gli arcipelaghi mettevano in questione
la consolidata visione del mondo terra-centrica, già solo per il fatto di non avere un vero e
proprio territorio centrale e interconnesso al resto degli altri. A seguito dei numerosi viaggi
coloniali, pertanto, l’arcipelago diventò il vero e proprio emblema di ibridismo culturale, in
cui ogni isola che lo compone presenta culture diverse, figlie dei molti deportati che
venivano relegati su di esse, lontane dalla centralità del mondo urbano, la cui unica
separazione, quanto unione, era data dal mare.
Approfondimento merita anche il culto del carnevalesco. Ricordando dell’influenza su
Swift del Pantagruel rabelaisiano, il critico M. Bachtin (1895-1975), in un suo studio
condotto su Rabelais, indicò come “esagerazione carnevalesca” la differenza tra la vita
sociale disciplinata e quella proposta nelle opere dei due autori: l’esagerazione dello
scabroso e l’eccesso della fisicità, presenti nel mondo di Rabelais e contrapposti rispetto
all'ordine stabilito, riecheggiavano elementi del carnevale medievale, emblema
dell’esagerazione, allo stesso modo delle esagerazioni corporee attuate da Swift nel suo
Gulliver’s.
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