Storia Delle Dottrine Politiche

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Tre grandi correnti di pensiero politico

-Democrazia
La democrazia ha assunto delle connotazioni ben diverse dall'antichità all’era moderna, però ci sono
degli elementi che accomunano la democrazia degli antichi alla democrazia dei moderni che risultano
quindi essere i punti focali della democrazia:
1) profonda avversione nei confronti del dispotismo e di qualsiasi forma di tirannide;
2) idea di contemperare la libertà dei cittadini con la sovranità della legge;
3) cercare di contemperare il sentimento della libertà con quello dell'uguaglianza dei cittadini.

Quando parliamo della democrazia degli antichi e la democrazia dei moderni facciamo riferimento a
due opere:
● Benjamin Constant che 1819 scrive un'opera “La libertà degli antichi paragonata a quella dei
moderni” nella quale sia afferma l'autore che è uno degli autori più liberali che dichiara
apertamente la superiorità della democrazia dei moderni rispetto alla democrazia degli antichi.
● Moses Finley che visse nella prima metà del 900, nel 1972 scrive un'opera “La democrazia
degli antichi e dei moderni”. La sua prospettiva si contrappone a quella di Benjamin Constant
perché per Finley la democrazia degli antichi è decisamente superiore a quella dei moderni
perché per gli antichi la libertà consisteva nella democrazia mentre il principio fondamentale
dei moderni era la garanzia dei diritti.

-Differenza tra Democrazia e Liberalismo


I democratici attribuiscono una grandissima importanza allo Stato che ha l'assoluta prevalenza sugli
individui al contrario dei Liberali per i quali lo Stato deve interferire ed intervenire il meno possibile
nella vita dei cittadini (Stato minimo) e un altro riferimento classico è la famosa teoria di Isaiah Berlin
e tra la partita delle opere di quest'ultimo si richiama l'attenzione di un lavoro ovvero “4 saggi sulla
libertà” che esce nel 1989 all'interno del quale è di particolare rilievo uno scritto ovvero “2 concetti
di libertà” e quindi Berlin si assume la responsabilità di fare una distinzione fra libertà negativa e
positiva; per libertà negativa si intende “assenza di costrizioni” ed è la libertà tipica dei Liberali
mentre per libertà positiva intesa come libertà di opinione, libertà di iniziativa economica, libertà di
riunirsi, libertà di prendere parola, libertà di associarsi, libertà di votare ma sempre nell'ambito dello
Stato.

Il liberale tiene fermo il principio della rappresentanza politica e viene elaborata la “teoria dello
Stato minimo”. I due grandi pensatori politici relativi al Liberalismo sono:
● Norberto Bobbio valuta il rapporto tra liberalismo e democrazia dicendo “il rapporto tra
Liberalismo e democrazia può essere visto secondo tre combinazioni”:
1) il rapporto di possibilità liberalismo o (vel) democrazia
2) il rapporto di impossibilità liberalismo o (aut) democrazia ed in questo caso
Liberalismo e Democrazia sono del tutto antitetici
3) il rapporto di necessità liberalismo et democrazia ed in questo caso liberalismo e
democrazia sono legati necessariamente l'uno all'altra”.
Bobbio dichiara apertamente anche che “libertà ed eguaglianza sono valori antitetici” nel
senso che non si può attuare pienamente l'uno senza limitare fortemente l'altro: “una società

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liberista è inevitabilmente in egualitaria come una società egualitaria è inevitabilmente
illiberale”.

● Giovanni Sartori scrive “Democrazia” nel 1993 in cui dice “L’uno (liberalismo) è vivificato
da uno slancio verticale perché celebra chi s’innalza e sopravanza gli altri. L’altra
(democrazia) è segnata da un andamento orizzontale perché, sincronizzando gli sforzi
individuali e riunendoli in collettività, asseconda di fatto la tendenza all’eguagliamento”
quindi orizzontalmente tende ad eguagliare le posizioni dell'individuo e continua dicendo “e
tuttavia, benché rispondano a valori distinti, i due individualismi sono compatibili” in quanto
Il liberalismo fa perno sull’individuo mentre la democrazia sulla società.

Quindi in conclusione alla base del pensiero del liberalismo c'è la priorità assoluta dell'individuo uti
singulus cioè l'individuo nella sua completezza al contrario della democrazia che si focalizza un
ruolo prioritario che deve avere lo stato.

Ci furono poi nel passare del tempo degli autori che hanno tentato con grande coraggio di
conciliare le 2 posizioni tra cui Alexis de Tocqueville il quale sosteneva che bisognava considerare
liberalismo e democrazia come marito e moglie che possono perfettamente convivere insieme e fu il
primo tra gli autori che cercò di conciliare liberalismo e democrazia. Ci fu poi un altro tentativo parte
di John Stuart Mill e anch’essi pensava che le due correnti di pensiero politico non fossero poi così
tanto incompatibili e addirittura pensava che esse potessero conciliarsi che era un'ipotesi abbastanza
difficile da dimostrare ma che poi verrà condivisa nell'era moderna da Gobetti, Bobbio, Calogero ma
Tocqueville si ribellò nei confronti dell'amico Mill dicendo che “la democrazia vuole l’eguaglianza
nella libertà e il socialismo vuole l’eguaglianza nella servitù”. Il problema di Tocqueville e Mill è
quello di difendersi dal più grande pericolo che è quello della tirannide della maggioranza.

-Liberalismo
Per Liberalismo s’intende una determinata concezione dello Stato, dove esso ha poteri e funzioni
limitate e come tale si contrappone all’idea di Stato assoluto dei Democratici. Gli autori che sono i
maestri spirituali della politica liberale come John Locke, Montesquieu ed altri non hanno mai usato il
vocabolo liberale ma l'idea di liberale fu utilizzata nell'800. Il programma del liberalismo è molto
vasto e anche in questo caso si possono evidenziare alcuni elementi che accomunano gli autori liberali:
1) la garanzia dei diritti dell'uomo e del cittadino;
2) riscatto della libertà economica del cittadino e dell'imprenditore dove lo stato non interviene e
non controlla sia in campo economico sia in campo sociale E da qui ne deriva il principio della
libera concorrenza;
3) lotta contro l'oppressione predicale con l'obiettivo di abolire il foro ecclesiastico a favore della
laicità dello Stato e dell'insegnamento nel campo religioso;
4) limitazione dello Stato a favore del cittadino in ogni campo della vita sociale, economica,
politica e culturale.

Volendo fare una sorta di sintesi possiamo racchiudere in 3 punti:


1) lo Stato sia subordinato al diritto da qui la necessità di una Costituzione;
2) il parlamentarismo che è il mezzo più efficace per proteggere l'individuo contro l'onnipotenza
dello Stato grazie al controllo del governo nei confronti dell'assemblea legislativa e
reciprocamente dell'assemblea legislativa nei confronti del governo;
3) principio della separazione dei poteri formulato in maniera abbastanza sistematica da Locke
che verrà ripreso da autori come Montesquieu, Kant;

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4) lo Stato liberale è lo stato di diritto dove la legge è essenziale e regola il rapporto politico.

-Socialismo
Joseph Schumpeter definisce il socialismo il proteo culturale cioè voleva intendere che il socialismo è
una di quelle correnti di pensiero che ha tante sfaccettature dipende da quale ottica ci si pone. Le tre
grandi correnti di pensiero sono:
1) socialismo utopistico analizzato da Robert Owen
2) socialismo anarchico analizzato Pierre Joseph Proudhon
3) socialismo scientifico analizzato da Karl Marx

Il socialismo nasce come reazione ad un fenomeno che si andrà diffondendo in tutta Europa a
partire dalla Francia e Inghilterra cioè la Rivoluzione Industriale ed il primo autore che utilizzò
questo termine nel 1837 fu l'economista francese di tendenza socialista Louis-Auguste Blanqui fu poi
utilizzato anche da Engels il quale del 1845 lo utilizza in un'opera “ la situazione della classe operaia
in Inghilterra” e nel 48 a distanza di 3 anni esce un'altra opera di John Stuart Mill “principi di
economia politica” che riporta appunto il termine rivoluzione industriale.

Democrazia significa priorità dello Stato sull'individuo che nell'antica Grecia si traduce nella
partecipazione attiva dei cittadini alla vita dello Stato cioè il cittadino contribuisce politicamente
attraverso la formazione della legge ed è molto suggestiva la metafora di Carlo Galli che paragona la
democrazia ad una sorta di cerchio in cui poneva al centro il potere e tutto intorno c'erano i cittadini
partecipanti alla vita pubblica. Le prime forme democratiche furono riforme di Solone che però non
riuscirà ad istituire nella Polis greca la democrazia però avviò quel processo di democratizzazione
della polis che troverà una maggiore sistemazione grazie alle note riforme di Clistene che prelude al
periodo più intenso della diffusione della cultura greca e della stessa democrazia. Il termine
democrazia fu utilizzato per la prima volta nelle “supplici” di Eschilo e non è un caso che venga usato
proprio nella drammaturgia perché la diffusione della democrazia coincide con la diffusione della
drammaturgia. Il primo che parlò veramente di democrazia però fu Pericle nell’epitaffio in onore dei
caduti ateniesi della guerra nel primo anno della guerra del Peloponneso. La parola democrazia
deriva dal greco antico: δῆμος, démos, «popolo» e κράτος, krátos, «potere» etimologicamente
significa "governo del popolo", ovvero sistema di governo in cui la sovranità è esercitata,
direttamente o indirettamente, dal popolo. Il termine democrazia non circolava in maniera isolata
perché esistevano dei sinonimi che portavano allo stesso significato ovvero altri tre concetti che
rappresentano bene quelli che sono i principi fondamentali della democrazia:
1) isegoria: cioè l’eguale diritto di ogni cittadino di prendere parola in un'assemblea In altri
termini uguaglianza nella libertà di parola;
2) isonomia: cioè l'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge:
3) isotimia: cioè l’eguale parità nel concorrere alle cariche pubbliche.

● “Politeia” (πολιτεία) è un termine proveniente dal greco antico che generalmente viene
tradotto in italiano con «costituzione», ma che ha in realtà un significato ben più ampio e
complesso perché per il pensiero politico greco significa modo d'essere della polis le
caratteristiche del pensiero.

Altre tre sono le caratteristiche della polis:


1) estensione cioè la polis doveva avere una certa dimensione e non doveva essere né troppo
estesa né troppo limitata e secondo molti studiosi doveva essere estesa fino a dove arriva lo

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sguardo umano oppure un’estensione considerata idonea in cui poteva essere esercitata la
democrazia;
2) indipendenza economica ed i greci tenevano molto alla cosiddetta autarchia;
3) indipendenza politica che possiamo tradurre con il termine autonomia che significava essere
indipendenti ad esempio non essere sottomessi ad un altro popolo.

Due polis in particolare rappresentano le due facce d’una stessa medaglia due facce che si
contrappongono ovvero Sparta e Atene che rappresentano appunto due realtà politiche assolutamente
diverse Sparta con un regime spartano oligarchico quasi militaresco mentre Atene rappresentava
l'espressione della personalità dell'individuo della libertà tipicamente democratica, culla della cultura.
La caratteristica della democrazia è stata proprio questa unione tra le polis greche infatti
tradizionalmente vengono individuati tre fasi storiche:
- all'inizio del quinto ci fu la prima fase che corrisponde allo scontro tra le polis greche
l’Ellade contro la Persia
- periodo in cui si ha il grande sviluppo delle polis soprattutto in campo culturale
- periodo di decadenza ed iniziarono a nascere i primi contrasti tra le polis che finirono per
diventare molto cruenti tipo la guerra del Peloponneso tra Sparta ed Atene (vinse Sparta).

I sofisti

Diventano famosi a partire dal periodo della maggiore fioritura della cultura greca. Vengono definiti i
cosiddetti professionisti del sapere mentre si autodefiniscono cultori della Sapienza e sono
personaggi dotati di una cultura enciclopedica e nessun ambito del sapere è estraneo ai sofisti e
avevano il compito di preparare ed istruire i giovani altoborghesi cioè i figli di aristocratici o di
personaggi in vista e si rivolgevano a questi giovani preparandoli per accedere in futuro alla vita
politica. Questi professionisti del sapere però avevano un difetto che cozzava con la mentalità etica
perché si facevano pagare quindi vendevano la loro scienza e loro si concentrano sul mondo degli
uomini rifiutando qualsiasi fondamento metafisico. Per i sofisti la realtà è essenzialmente duplice e
la loro caratteristica è il cosiddetto relativismo che si sostanzia nella critica del sapere tradizionale
che veniva invece espresso dalla polis. Il loro cavallo di battaglia è l'arte della retorica cioè riuscire
attraverso la loro perfetta dialettica a convincere non solo i loro allievi ma anche il pubblico. Credendo
in una duplice realtà sostenevano le antilogie cioè vuol dire che la realtà è appunto ambivalente non
esistono delle verità assolute ma tutto è relativo cioè dipende sempre dal punto di vista in cui ti poni
e venivano usate anche in politica. Con il tempo vennero assimilati come falsi filosofi ma con il
passare del tempo la figura del sofista venne poi rivalutata ad esempio anche da Engels che cercò di
cogliere dalla figura del sofista degli aspetti positivi. Infine i sofisti non concepivano la cultura come
un qualcosa di sedentario bensì avevano l'abitudine di spostarsi di luogo in luogo per vendere la loro
scienza e quindi di far conoscere le loro idee non solo nel luogo in cui vivevano ma diffonderle un po'
ovunque ovvero l'ambivalenza della realtà.

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1)Platone: Filosofia e politica

-Contesto Storico
Platone nacque ad Atene l’attuale capitale greca, da nobile famiglia tra il 428 e il 427 a.c., poco dopo
lo scoppio della guerra tra Atene e Sparta. Nel 404, con la vittoria di Sparta, fu instaurato ad Atene un
governo oligarchico filospartano, capeggiato da quelli che in seguito sarebbero stati chiamati i
Trenta Tiranni. Di questo governo era membro influente Crizia, zio materno di Platone, che lo invitò a
prendere parte attiva al governo. Ma ben presto Platone rimase deluso dal loro dominio dispotico e
violento, che fu abbattuto nel 403. Delusione e sfiducia, tuttavia, gli procurò anche la democrazia
restaurata, che nel 399 mandò a morte Socrate. Forse per timore di ripercussioni, con altri amici e
discepoli di Socrate, si rifugiò a Megara presso Euclide, anch'egli allievo di Socrate. Tornato ad Atene
nel 387, Platone acquistò il giardino dedicato all'eroe Academo e vi fondò l’Accademia, una scuola di
filosofia caratterizzata da una vita in comune tra maestro e discepoli. Per circa 20 anni Platone non si
mosse da Atene. Nel 348 / 347 a.c. Platone morì ad Atene.

Insegnamento di Socrate e la politica di Platone. L’insegnamento di Socrate è per tanti aspetti il


presupposto del pensiero filosofico e politico di Platone (420 a.C. - 347 a.C.) che continuò il discorso
del maestro, approfondendolo. In Socrate era fondamentale l'esigenza morale di una continua ricerca
della verità, mentre in Platone diventa centrale il problema del fondamento oggettivo della conoscenza
cioè dei rapporti che sussistono tra questa e la verità. L'esigenza morale della ricerca della verità si
intellettualizza e si oggettivizza, diventa filosofia intesa come conoscenza dell'universale. L’intimo e
vitale rapporto tra politica e filosofia in Platone scaturisce dalla appassionata partecipazione al
dramma di Socrate che diventa quasi il simbolo della crisi profonda che travaglia non solo Atene, ma
il mondo politico greco. La filosofia è l’impegno a cogliere al di là degli avvenimenti, delle guerre,
dei mutamenti di governo le ragioni, i motivi profondi della crisi, perché solo la filosofia riesce ad
individuare l’essenza della realtà. Platone intende cogliere oltre all'opinione e alla sensazione
mutevole, qualcosa che permane, che sussiste in sé e per sé, in una pura oggettività, che rende
intelligibili tutte le cose e quindi tutte le esperienze e che fonda il dialogo fra gli uomini. La
geometria dimostra la possibilità che ha l'uomo di disegnare figure e di individuare rapporti che hanno
un puro fondamento, “ideale”: l’idea, con riferimento al significato etimologico della parola greca
Eidon (vedere) è il principio che ci consente di vedere intellettualmente e quindi di farci riconoscere
tutte le figure materialmente diverse l’una dalle altre ma tutte uguali perché corrispondenti alla loro
immagine ideale. La geometria, come la matematica, ci consentono di intendere il fondamento ideale
della nostra conoscenza. Solo al livello dell'idea la politica perviene alla consapevolezza di ciò che
essa è veramente: la Politéia, l'autentico modo d'essere della città, la “costituzione”.

-La Repubblica
(390 a.c. /360 a.c.) Platone crede che non bisogna guardare alla felicità di ogni individuo ma a quella
della collettività. I ricchi contro i poveri, i ricchi finiscono per non dare spazio ai poveri, di abolire le
motivazioni che hanno creato uno iato tra i ricchi e i poveri. Bisogna abolire le due istituzioni che
hanno creato questo divario incolmabile: la famiglia e la proprietà privata. Naturalmente questo è
uno stato ideale. Ma Platone non lo rinnega mai. Bisogna prendere gli aspetti più giusti e più
realizzabili. La Repubblica dove si affermano questi concetti è un dialogo. Due sono i fratelli di
Platone, a questo dialogo partecipano alcuni sofisti. Il dialogo ruota intorno ad un concetto, la
giustizia. Lui parla per bocca di Socrate e con gli interlocutori ciascuno offre la sua visione. La
giustizia si realizza quando ciascuno svolge il lavoro secondo le predisposizioni naturali. Platone
si domanda: la famiglia realizza la giustizia? Nella famiglia non si realizza la giustizia, tenderà a

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privilegiare la famiglia. La proprietà privata è il seme della discordia. Attraverso quella si creerà la
società dei ricchi e dei poveri. Questo stato ideale è un modello che ha questa proposta di Platone
la Kallipolis. Platone parte dall’inizio, non esisterà più la famiglia, ma il matrimonio che sarà un
matrimonio politico. Una delle posizioni più spinte di Platone era quello dell’eugenetica.
Dalla aristocrazia si passa alla timocrazia, forma degenerata, al timone del governo non ci saranno
gli aristoi, ma la democrazia dei più valorosi. Delle persone che non aspirano al denaro, questo
processo degenerativo è secondo Platone inesorabile, dalla timocrazia si passerà alla oligarchia.
L’oligarchia presuppone il governo dei ricchi. Dalla oligarchia prenderà il potere l’intero popolo che si
ribellerà al potere dei ricchi e si instaura il regime democratico. il problema della giustizia- La
Repubblica è il dialogo in cui viene dimostrata l’essenza ideale della politica. Fu composta tra i 45 e i
50 anni, quelli della sua piena maturità, dopo la fondazione dell’accademia avvenuta nel 387. È divisa
in 10 libri e inizia con una discussione sulla giustizia in cui vengono ripresi gli argomenti del Gorgia e
del Menesseno e continua la polemica nei confronti dei sofisti. Il problema della politica si
concentra sul concetto di giustizia: alla domanda che cos’è la giustizia?, Cefalo risponde “rendere
ciò che si può aver preso da qualcuno” , mentre Polemarco risponde “corrispondere a ciascuno ciò che
gli è dovuto”; danno anche altre definizioni, ma tutte vengono condannate da Platone. Poi interviene
Trasimaco che dice che la giustizia è l’utile del più forte, è l’utile di chi o di coloro che governano;
non è altro che la ragione per cui abbiamo e conserviamo il potere. Non esiste la giustizia ma tante
giustizie per quante sono le forme di governo, ognuna interessata a giudicare tutto e tutti in funzione
della propria conservazione. La critica socratica alla concezione della giustizia di Trasimaco si
svolge sul presupposto del fondamento scientifico della politica che deve essere considerata alla
stregua della scienza medica: come il medico persegue il suo interesse e quello dell’ammalato, il
politico non può che attuare il proprio interesse e quello dei governati: quindi il governo non può non
perseguire l’utile dei suoi governati. La profonda convinzione di Socrate e Platone si esprime
nell'affermazione che “chi sa quello che fa (ovvero ha piena consapevolezza delle sue azioni) non può
che fare il bene”. Il male nella politica è il risultato dell’ignoranza, cioè di non avere una conoscenza
completa dei risultati ultimi delle nostre azioni nell’ambito della polis, dell’ignoranza dei principi
secondo cui la politica si esprime in un tutto ordinato e sistematico. La Repubblica indica i principi
sui quali si basa una politica scientifica: Platone non nasconde che tale scienza è difficile perché
richiede una valutazione onnicomprensiva del comportamento dell'individuo nella polis. Infatti
l’insidia peggiore nella politica è rappresentata nel fatto che si è convinti di conoscerla sin nei
minimi particolari pur non essendoci mai chiesti che cosa sia e quale sia il fine cui tende. Il concetto
di giustizia non è più ricercato nella prospettiva dell’individuo singolo ma in quella della comunità
politica, dello stato.

-Il mito di ER
Il mito di Er è uno dei miti narrato in una delle sue opere più ampie, La Repubblica, in conclusione del
Libro X, l'ultimo, è considerato uno dei più importanti miti escatologici dei dialoghi di Platone; i suoi
contenuti sono ispirati in maniera rilevante dal mito orfico e pitagorico della metempsicosi, ma
contiene anche l'affermazione di una nuova responsabilità morale nei confronti del proprio destino
dopo la morte. Er è un soldato morto in battaglia che resuscita e racconta ciò che aveva visto mentre
era morto e racconta che la sua anima era stata messa in un prato al cui centro vi una Parca che nel
grembo portava tutti i destini degli uomini che si trovavano con lui sul prato e ad essi venivano gettati
dei numeri a caso e a seconda del numero le persone avevano il diritto di scegliersi il destino. La
spiegazione di questo mito è il fatto che sono le anime a scegliere il proprio destino e quindi l’uomo è
libero ed artefice del proprio destino. Il mito di Er è perciò il simbolo della libertà che ha l’uomo di
Platone.

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-Il politico
(366 a.c. /365 a.c.) è un’opera a metà tra la repubblica e le leggi (all’esame non si chiedono), quali
sono le conclusioni del suo iter intellettuale. Qui parla del re filosofo e mostra una grande attenzione:
se realmente esistesse questa figura, sarebbe anche al di sopra della legge, come condottiero di una
nave o un medico. Inizia quella visione molto più realistica e pessimistica di Platone con
conclusioni nelle leggi. Platone non ha mai rinnegato la sua posizione nella Repubblica, si rende conto
che della stessa si possono realizzare solo alcuni aspetti. Si rende conto che la famiglia e la proprietà
privata sono dei nuclei fondamentali, arriva a formulare una forma di governo che è una costituzione
mista, quello democratico e quello aristocratico. Occorre sempre contestualizzare, Platone rimane
profondamente colpito dall’insuccesso della Kallipolis, occorreva quindi porre dei rimedi. La politica
come scienza si compone di 2 parti: una teorica che riguarda la conoscenza sistematica
dell’organizzazione della polis, e una pratica che si riferisce all’attività di governo. Quest'ultima viene
trattata in un dialogo sull’arte di governo: “Il Politico”. L’attività di governo è definita arte regia:
arte in cui acquista rilevanza la conoscenza, è l’arte di guidare il popolo. Il re-filosofo è superiore
perché ha l’arte regia e conosce il bene della città. Lo scopo fondamentale dell’arte regia è stabilire i
vincoli saldi tra quanti vivono nella polis, di annodare nel tessuto sociale i forti, i saggi e temperanti
combinando questi caratteri in modo che ne risulti un tutto armonico. L’arte regia produce un ordine
politico. Quando in uno stato non c’è il re filosofo perché è difficile trovarlo, abbiamo 3 forme di
governo:
1. monarchia
2. aristocrazia
3. democrazia;
queste forme di governo non sono perfette ma comunque buone. Platone dice che l’arte regia, purché
esercitata da un re-filosofo cioè da un uomo che sia pervenuto al grado supremo della virtù e della
sapienza, alla visione dell’idea del sommo bene, può sostituirsi alle leggi e può assumere
provvedimenti che violano le leggi stesse. L’arte regia legittima un governo senza leggi.

-Le leggi
Le leggi è un dialogo tra alcuni personaggi greci che devono dare una costituzione alla città e
discutono sulle leggi da darle. Cosa sono le leggi per Platone? Sono il giudizio della ragione su ciò
che è bene e su ciò che è male. Il giudizio della ragione diventa un pubblico decreto; diventa norma
positiva approvata dall’organo apposito. La legge è espressione della ragione e se non si segue la legge
si fa il male. I governanti soggetti alla legge non dovrebbero cambiarle se non in casi eccezionali. Le
leggi sono importanti affinché le forme politiche non degenerino. Per evitare la degenerazione di
queste forme ci deve essere libertà e concordia + contemperamento delle due forme di governo e dei
loro 2 principi (autorità e libertà).

-Lo stato e la giustizia


la concezione organicistica della polis- Con l’analogia tra l’individuo e lo stato Platone introduce la
concezione organicistica della comunità politica. La società si costituisce perché l’uomo non basta a
se stesso e ha bisogno, per la sua sopravvivenza fisica, dell’aiuto dei suoi simili, per ottenere quei beni
che gli altri producono e che da solo non riuscirebbe mai ad avere. La società si forma sul principio
della divisione del lavoro e della necessaria interdipendenza che si istituisce tra le varie attività
che hanno come scopo di produrre i beni necessari alla collettività: produzione e commercio sono fra
loro connessi ed esprimono le diverse categorie sociali in corrispondenza delle attività che vengono
svolte: i contadini, gli artigiani, gli operai, i commercianti. Il principio della specializzazione delle
attività esige che accanto alla classe che ha come compito specifico quello di procurare i beni

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necessari alla collettività debba esserci un’altra categoria di persone che si occupa esclusivamente
della difesa dei beni e della comunità dagli attacchi dei nemici.

Questa seconda categoria è la classe dei custodi, e nel suo ambito Platone distingue altre 2 categorie
di persone:
- i custodi-guerrieri che assolvono all’esigenza della difesa della comunità;
- i custodi-reggitori cioè i politici che governano lo stato
- i custodi-filosofi

Uno dei problemi politici più importanti è sapere quali persone devono appartenere alla prima, alla
seconda e alla terza dato che l’ufficio dei custodi è massimo e quindi richiede libertà dalle altre
occupazioni, arte e cura e natura idonea a questa occupazione. Questo problema può essere risolto solo
con una riorganizzazione della polis fondata sull’eliminazione delle due istituzioni sulle quali si fonda
l’ordinamento politico sociale che non consentono di governare secondo i principi di una politica
scientifica: la famiglia e la proprietà. Queste due istituzioni si frappongono tra l’individuo e lo stato
rinchiudendo l’individuo in gruppi fra loro ostili ognuno preoccupato di ampliare la propria influenza,
il proprio potere, a danno di quello dello stato. La famiglia costringe l’individuo a svolgere un’attività
contrastante con le sue vere attitudini, unicamente per il rispetto del prestigio, delle tradizioni familiari
e per la difesa delle posizioni di privilegio che ha conquistato. Questo ruolo politico della famiglia
trova sostegno nella proprietà privata che istituzionalizza e rende immodificabili le posizioni di potere
che la famiglia è riuscita a conquistare. Quindi i nemici della stato e dell’individuo sono la famiglia e
la proprietà che sostituiscono lo stato nell’attività politica. La proprietà privata è la causa del male più
grave della società: a distinzione tra ricchi e poveri, in lotta tra loro che ha stremato la polis e la
porterà alla distruzione. Eliminando la proprietà e la famiglia si potrà attuare un ordinamento
collettivistico e comunistico che consentirà di riconoscere la natura degli individui e collocarli in
quella classe a cui sono destinati dalle loro predisposizioni. Ogni individuo avrà un’educazione
comune affinché i custodi possano rendersi conto delle loro attitudini e indirizzarli verso quelle attività
cui sono destinati dalla stessa natura. L’educazione diventa lo strumento più efficace per formare la
personalità degli uomini. La politica si presenta come una vera e propria paidéia, cioè una pedagogia
(educazione dell'individuo alla vita politica).

-La giustizia e temperanza, fortezza e saggezza


Lo stato ideale è volto a riconoscere le attitudini dei singoli individui attraverso il principio della
giustizia mediante cui sono governati sia l'individuo che lo stato (l'uomo in grande: insieme di
individualità e personalità). La giustizia si realizza allorché ciascun individuo nello stato svolge solo
l’attività che corrisponde alle sue predisposizioni naturali; esso può svolgere bene un solo compito ed
occorre bandire dallo stato l’abitudine di svolgere due o più attività a volte contrastanti tra loro. La
giustizia diventa il principio a cui deve informarsi l'organizzazione dello stato e le sue tre funzioni
principali che si riferiscono alla produzione dei beni necessari alla vita della città, alla sua difesa e al
suo governo che trovano un’analogia nell’interna struttura dell’uomo in cui coesistono principi di
azione:
- l’anima concupiscibile che presiede la vita biologica;
- l’anima irascibile in cui si esprime la forza dell’individuo;
- l’anima razionale che deve sovrintendere l’attività dell’uomo e governare le altre due anime.
Sono i reggitori-filosofi ai quali è demandato il governo dello stato.

Alle tre anime dell’individuo corrispondono le tre classi della società.

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Ogni anima e ogni classe deve avere una forma e disciplina cui corrisponde una determinata virtù:
- l’anima razionale la saggezza,
- l’anima irascibile la fortezza,
- l’anima concupiscibile la temperanza.
Quest’ultima è importante perché rende possibile i rapporti tra governanti e governati. La giustizia è il
principio in base al quale ogni individuo compie l’attività che gli è propria, attua e perfeziona la sua
natura; si realizza in ciascun individuo come ordine interiore che informa e sostiene le attività del
soggetto e le coordina con quelle degli altri membri della comunità, è il principio ideale, l’anima dello
stato. La ricerca del fondamento e del principio della giustizia e della sua funzione è compito della
filosofia. La conoscenza filosofica attiene all’intelligenza, alla facoltà che secondo la formula
platonica raggiunge le idee attraverso le idee e finisce alle idee. Essa perviene così all'idea dalla quale
derivano tutte le altre, ovvero l'idea suprema: l'idea del bene (fonte di tutte le nostre conoscenze,
fondamento del principio della giustizia, norma suprema di ogni nostro comportamento). Platone
perviene ad indicare il nesso indissolubile tra politica e filosofia: infatti il problema di intendere
l’unità reale della polis e l’ordinamento che vi corrisponde è connesso con il problema della
conoscenza e con la fondazione metafisica dell’intelligenza. Lo Stato platonico è uno stato di ragione
perché governato dalla razionalità: la politica è attività volta a garantire il comando del razionale cui
l’irrazionale deve essere sottomesso; il bene supremo dello stato è la sua unità sostanziale, che
scaturisce dalla comunanza del piacere e del dolore. Questo stato che somiglia a una “persona” si
fonda su un ordinamento collettivistico ed è governato dai custodi filosofi che ispirano i loro
provvedimenti al modello dello stato perfetto: prima cura dei governanti sarà sorvegliare che il sistema
educativo non incorra in deviazioni. La politica demografica deve mantenere la popolazione costante
con riferimento al numero di 5.350: la città deve avere tanti abitanti quanti sono necessari alla difesa e
alle altre attività che forniscono beni e servizi indispensabili. Ci deve essere un severo controllo delle
nascite con unioni predeterminate dai custodi che dovranno informarsi sui criteri dell’eugenetica.
Abolizione della famiglia e della proprietà. Ad un matrimonio privato è sostituito un matrimonio di
stato: l’unione dell’uomo con la donna sin che sono in grado di procreare può essere consentita solo
dai custodi. Bisogna educare uomini e donne in vista di una dedizione assoluta allo Stato: il
consumismo deve liberarli da tutti quegli interessi che possono distrarli dal loro servizio; la loro
felicità consiste nella consapevolezza che la salvezza della polis dipende dalla loro opera e nella
sicurezza che i loro bisogni ed esigenze saranno soddisfatti.

-La decadenza dello stato ideale


Anche la polis per Platone non si sottrae al processo di trasformazione e corruzione: è opera dell’uomo
e partecipa al ciclo cui sono soggette tutte le cose naturali: nascita sviluppo e morte. Il processo di
decadenza inizierà quando i custodi sbaglieranno i calcoli che presiedono alle generazioni umane
delle classi: individui appartenenti alla prima classe si troveranno nella seconda o nella terza o
viceversa. Verrà intaccata l’armonia fondamentale e comincerà a trasformarsi la classe dei custodi o la
classe di governo. La polis passerà attraverso le forme di governo che corrispondono alle fasi
degenerative: dall’aristocrazia che è la forma di governo propria della città ideale dei reggitori
filosofi, alla timocrazia (il governo dei forti, degli animosi, dei guerrieri che allontanano i saggi dal
potere), all’oligarchia, il governo che si fonda sulla sola ricchezza con l’esclusione dei poveri, alla
democrazia (governo che si basa sulla maggioranza dei non abbienti con l’esclusione dei ricchi) e
infine alla tirannide, la pessima tra le forme corrotte di governo. Questo processo, per Platone,
rappresenta la crisi del razionale e l’emergere dell’irrazionale, sino a che quest'ultimo si sostituisce
in tutto e per tutto al primo.

-La crisi della democrazia e la tirannide

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Platone vive in un periodo storico caratterizzato dalla crisi profonda dell'ordinamento democratico
ateniese: il processo e la condanna a morte di Socrate ne sono la dimostrazione più significativa. La
forma di governo si corrompe e si trasforma quando viene assolutizzato il principio che ne costituisce
il fondamento cioè quando diventa unico oggetto dei desideri degli uomini lo scopo che essa si
prefigge: la libertà. Questa diventa principio che legittima ogni forma di arbitrio e che a poco a poco
determina una forma di latente anarchia. La “Repubblica” si conclude con un richiamo al problema
religioso: alla sopravvivenza dell’anima, al giudizio cui tutti gli uomini saranno sottoposti dopo la
morte, alla metempsicosi, alla continua reincarnazione delle anime finché non riescono a purificarsi,
alla scelta che ogni anima fa della sua futura vita. La libertà dell’individuo è affermata sul piano
religioso: la vita che viviamo è il risultato di una libera scelta della nostra anima.

2)Aristotele: La politica come scienza

-Contesto storico
Nel 367, all'età di 17 anni, andò ad Atene al fine di entrare a far parte dell'Accademia di Platone, che si
trovava all'epoca a Siracusa. Vi rimase per ben 20 anni svolgendo un'attività di insegnamento, sino alla
morte di Platone che fu nel 348-347: in realtà se ne sarebbe già andato prima in quanto aveva idee
divergenti da quelle del maestro, ma si trattenne fino alla sua morte per il rispetto che aveva nei
confronti di Platone; tra i motivi del suo allontanamento possiamo annoverare la crescente ostilità che
si era venuta a creare ad Atene verso il re macedone Filippo. Nel 343 Filippo lo invitò a corte in veste
di precettore di Alessandro. Qui rimase a lungo finchè Filippo non fu assassinato da Pausania nel 336
e Alessandro gli succedette al trono. Nel 335 Aristotele fece il suo rientro ad Atene e svolse attività di
ricerca e di insegnamento nel Liceo, un ginnasio vicino al tempio di Apollo (originariamente fu
chiamato "peripato", passeggiata e luogo di discussione), raccogliendo intorno a sé amici e scolari. La
tradizione vuole che Aristotele, accusato di empietà a causa dei suoi difficili rapporti con la monarchia
macedone, abbia allora pronunciato la celebre frase: "Non voglio che gli Ateniesi commettano un
secondo crimine contro la filosofia", alludendo alle vicende di Socrate. Di fatto egli si allontanò da
Atene e si ritirò a Calcide, nell'isola di Eubea, dove la famiglia di sua madre aveva possedimenti: qui
morì intorno a 62 anni nel 322 a.c.un anno prima di Alessandro Magno. Proprio rispetto a Platone ha
origini sociali e geografiche differenti: abbiamo detto che non era di Atene e questo aspetto contribuì
al fatto che Aristotele desse meno peso alla politica rispetto a Platone, che si sentiva pienamente
cittadino della polis. Le filosofie di Platone e Aristotele sono anacronistiche, qualcuno ha definito il
pensiero di Aristotele un nobile insuccesso o la morte del cigno della Polis. Con la morte di Aristotele
mutò la prospettiva ideologica, nacquero le filosofie post aristoteliche (cinismo, epicureismo,
stoicismo). C’è un aggettivo che corrisponde ad Aristotele, un profondo realismo. Lui rinuncia ad un
sogno Platonico della Kallipolis. L’obiettivo di Aristotele è quello di creare ed offrire un modello di
Polis che potesse adattarsi alla realtà sociale e politica dei cittadini. Aristotele frequenta per circa
19-20 anni l’accademia di Platone. Non aveva una sorta di mito nei confronti del suo maestro, ma si
fece una propria idea di Polis, una polis che si affaccia all’uomo. La mesotes è la cosa importante, il
giusto mezzo, nulla di eccessivo. In questo riprende il concetto di giusta misura in termini non
sistematici che esprime Platone nelle Leggi, con la medietà che finisce per ovviare agli eccessi,
Aristotele ne fa il suo cavallo di battaglia.

-La famiglia
Platone aveva parlato dell’uomo come uomo del bisogno, Aristotele lo enfatizza con una sostanziale
differenza, l’uomo ha bisogno della Koinonia, comunicare con gli altri, da qui la frase che l’uomo è
un animale politico, si realizza all’interno dello stato.L’uomo è la forma della koinonia politica (la
comunità politica); la prima forma di koinonia è la famiglia. Viene poi il gruppo parentale che
riconosce un progenitore comune; la tribù che comprende più gruppi gentilizi; il villaggio che
comprende più tribù; la polis che comprende più villaggi. Tutte queste forme di “koinonia” sono le
fasi necessarie del processo storico di formazione della polis e corrispondono anche ai tipi di

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aggregazione umana, mediante cui si esprime la politicità dell'uomo. Nella famiglia ci sono 3 tipi di
comando ed obbedienza sui quali si fonda la costituzione della polis che per Aristotele è appunto un
sistema di comandi ed obbedienze. Essi sono quelli che intercorrono tra padre e figlio, marito e
moglie, padrone e schiavo e si distinguono secondo la gerarchia naturale delle intelligenze: il figlio
l’ha in potenza, la moglie attenuata, lo schiavo ha poche capacità intellettuali. Ci sono 3 tipi di autorità
(arché):
1. nei confronti dei figli ed è simile a quella del re sui sudditi;
2. nei confronti della moglie ed è come quella del magistrato sui cittadini;
3. nei confronti dello schiavo ed è quella del despota.
La giustificazione della schiavitù secondo Aristotele è data dalla gerarchia naturale delle intelligenze,
sulla quale si fonda l'ordine della comunità politica: la schiavitù è per natura, in quanto lo schiavo è
dotato di intelligenza appena sufficiente per il lavoro che svolge, e quindi deve essere guidato dal
padrone per conseguire la felicità. Il governo della famiglia è definito da Aristotele con il termine
economia (oikos=famiglia, nomos=regola) nel cui ambito sono precisati i criteri da seguire
nell’attività volta a procacciare i beni materiali necessari. La produzione della ricchezza è indicata
con il termina crematistica. La prima trova un limite nelle necessità della comunità, la seconda non
incontra limiti. La sua visione realistica, può l’uomo vivere senza la famiglia? Rimprovera il
maestro Platone di un elemento fondamentale, Platone pensava che tra gli uomini ci fosse una sorta di
volersi bene, Aristotele mette un concetto fondamentale: la cattiveria umana. Nell’uomo prevalgono
gli istinti egoistici, non è possibile concepire una società collettivistica, vedeva inattuabile una società
dove tutti si vogliono bene, visione Machiavelliana. Quando si parla di Aristotele si fa riferimento
all’opera politica esclusivamente. Un’opera importante è “l’etica nicomachea”, lui divide qui le virtù
etiche e dianoetiche, vuole dimostrare che nel pensiero politico greco etica e politica devono essere
indissolubili. La famiglia e la proprietà privata: la prima è così indispensabile perché è qualcosa di
naturale nell’uomo, sulla proprietà privata Aristotele ha una visione molto chiara. Nella famiglia ci
sono quelli che Aristotele chiamerà come autori. Qui ci sono i rapporti di comando ed obbedienza,
Platone credeva nella parità di uomo e donna, Aristotele non è dello stesso avviso. Vi è una
gerarchia naturale, parlando delle intelligenze, l’uomo ha una intelligenza superiore alla donna. Per
questo la donna è subordinata all’uomo, esistono tre rapporti di comando ed obbedienza: marito
moglie, padre-figlio, padrone-schiavo. Non sempre le opere vengono tradotte alla lettera, schiavo e
servo c’è differenza, per Aristotele è uguale comunque. Sono degli uomini che hanno un’intelligenza
meno sviluppata rispetto agli altri. Non si crea una guerra tra padroni e schiavi, si crea un rapporto
scambievole tra il padrone che ha la funzione di garantire al servo la sua sopravvivenza, in cambio dei
servizi che il servo fornirà al suo padrone cioè c’è un rapporto di tutela e protezione. In Aristotele si
affacciano alcuni elementi di quello che sarà lo stato libertario.
-Proprietà privata
Perché la proprietà privata è così importante? Vexata quaestio che divide molti pensieri politici, la
proprietà privata la considera come la gratificazione delle energie che l’individuo spende per
interessarsi. Nell’uomo emergono i sentimenti egoistici, il diritto di escludere gli altri dalla proprietà è
umano, la proprietà privata costituisce un’ingiustizia, c’è chi lavora di più e chi di meno. Non tutti
spendono le loro energie nel lavoro. Aristotele non è fautore di una concezione privatistica della
proprietà: ritiene che la migliore proprietà sia quella privata integrata dalla comunanza dell’uso. Una
proprietà in cui venga posto in risalto il fine sociale, che non sia considerata nell’unica prospettiva del
singolo ma con riferimento anche alle esigenze della collettività.

-Amicizia
Un’altro concetto importante in Aristotele è il concetto di Philia, amicizia, L’amicizia aristotelica
contempla una triplice accezione, che possiamo ritrovare sempre più attuale proprio oggi. Aristotele

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riconosce che vi può essere una ricerca verso l’utile, amicizia di minor valore, paragonabile alle
conoscenze di bisogno pratico per ottenere favori; un’amicizia basata sul piacere invece si colloca
tra l’utile e il bene, ma è ancora troppo finalizzata ad un obiettivo, lo stare bene, e risulta essere
superficiale; la philia più grande è invece quella basata sul bene. La prima è tipica dell’età adulta
e della vecchiaia, periodi di vita in cui si perde d’interesse le relazioni, si guarda al proprio comodo
e a ciò che è più conveniente. È invece tipica dell’età giovanile l’amicizia basata sul piacere. Solo
l’amicizia rivolta al bene, fa stare bene l’uomo. Aristotele nell’Etica Nicomachea lo ricorda:
l’amicizia vera è la più rara perché richiede tanto tempo per essere messa alla prova e consolidata. Si
tratta di un legame fraterno (in termini moderni) che si basa di fatto sul bene reciproco e sulla fiducia.

-Forme di governo
Anche Aristotele cura in maniera sistematica la politica demografica, a differenza di Platone che
vedeva nel mare la possibilità dell’assalto di barbari, lui riteneva che il mare fosse una risorsa.
Aristotele fa la distinzione delle costituzioni:
- Archè Politike il governante agisce a favore dei suoi cittadini,
- Arkè dispotiche quando i governanti agiscono secondo i propri interessi.
In base a questo Aristotele propone 6 costituzioni, che a differenza di Platone non sono una la
degenerazione dell’altra, per Aristotele il discorso è diverso, esistono dei modelli e degli archetipi, il
quadro delle costituzioni previste da Aristotele che ne studia una infinità non si esauriscono in questa
classifica. Non esistono solo 6 costituzioni, esistono costituzioni quante sono le qualità di una Polis, a
seconda del clima. Le forme rette sono la Monarchia, l’aristocrazia e la Politeia, le forme degenerate
sono la democrazia, timocrazia, tirannide. Aristotele invece crede che non esiste la forma ideale, ma
una costituzione applicabili ai tempi contemporanei, la Politeia è la fusione tra due forme
degenerate, la democrazia che viene rappresentata dalla classe del popolo e l’oligarchia che è
rappresentata dalla classe dei ricchi, nessuna di queste può governare, al ricco non basta accumulare
ricchezze, il ricco tendenzialmente una volta accumulato vuole il potere e da questo scaturisce l’abuso.
Il povero non può governare perché non ha nulla, si spingerebbe per imprese spregiudicate, ha bisogno
di risolvere i problemi della criminalità. Torna alla mesotes, la classe media che è arrivata
sacrificandosi, ad avere una posizione soddisfacente e conosce l’importanza della stabilità economica,
la classe media è l’ago della bilancia. Aristotele fa un’analisi molto puntuale, approfondita e
distaccata delle altre forme. Se esistesse veramente il Basileus, certo che la monarchia sarebbe la
forma migliore, il re avrebbe tutto e non aspirerebbe a nulla, ma non è applicabile nei tempi. Chi lo
dice che da un monarca perfetto poi ne viene uno allo stesso tempo buono. Lo stesso vale per
l’aristocrazia, lui proviene dalle file aristocratiche eppure ammette che è così. Chi lo dice che i figli
aristocratici non siano rampolli che abusano il potere? Aristotele affida tutti i suoi poteri alla classe
media. La classe media è in grado di conciliare gli eccessi. Invece sulle tirannidi ci sono due modi
per esercitarla: la tirannide tout court lui assume il potere ed esercita uno stato di polizia, incute
terrore ai suoi sudditi. Un tiranno che mette le classi sociali le une contro le altre, incrementa le spie e i
relatori, instaura una sorta di stato di polizia. Il secondo modo è anche peggiore, lui si ammanta di
atteggiamenti benevoli, lui assume la formula machiavelliana cioè che in politica l’importante è
sembrare non essere, dopo tanti secoli Machiavelli farà di questa forma il suo cavallo di battaglia,
basta che appari buono leale fedele e rispettoso della legge, questo tiranno si atteggia a buon re e cerca
di conciliare i contrasti ma è un tiranno velato. La differenza dopo questa analisi delle forme di
governo, due elementi che vanno chiariti è la differenza che fa Aristotele tra il buon cittadino e uomo
probo, lui sostiene che tutti i cittadini devono essere dotati di questa virtù, la Doxa Aletè , in realtà il
buon cittadino dovrebbe avere la capacità di saper comandare e di poter obbedire, ma l’uomo probo
è colui che è dotato della virtù politica, la devono possedere soltanto quei cittadini che devono agire

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nelle cariche pubbliche. Non tutti devono essere dotati di questa virtù politica, quindi il cittadino è
colui che partecipa alle cariche pubbliche.

-Concetto di unità
Il concetto di Unità: L’Unità è un elemento fondamentale, ma chiarisce la Polis è costituita da tante
unità, quindi a suo avviso si può parlare di unità articolata. Per Aristotele c’è l’individuo da
tutelare, nel futuro dovrà avere la priorità sullo stato. Alessandro Magno inizia una delle più grandi
conquiste che la storia ricorda, riesce a conquistare quasi tutto il mondo abitato. Questi era stato
educato e seguito dal suo maestro Aristotele ed aveva fatto suo il patrimonio intellettuale di
quest’ultimo ed il potere crebbe in maniera smisurata. In Egitto assimilò questo amore smisurato per il
potere, arriva al punto di trasformarsi da primo semplice inter partes ad un Dio. Quando muoiono
Alessandro ed Aristotele muta la prospettiva filosofica e tutti i principi alla base della polis vengono
annientati. Le poleis greche vivono un momento non solo culturalmente ma irreparabile di decadenza
totale. Vivono la questione sociale, nasce un nuovo modo di affrontare il mondo, la città-stato (polis)
muore e si passa a delle semplici città, il popolo greco si annulla e si annulla anche la personalità
dei greci. Nascono il cinismo, l’epicureismo e lo stoicismo. Il cinismo non è una filosofia costruttiva
bensì distruttiva. Il cittadino doveva ripiegarsi in se stesso, vivere di nascosto. L’epicureismo anche è
in polemica con la mentalità filosofica greca, considerava l’uomo come individuo e non cittadino,
materialista perché sosteneva che l’uomo doveva mirare alla propria felicità (atarassia) il forte
individualismo si contrappone alla partecipazione del cittadino greco alla vita politica. Vi è però se
vogliamo un aspetto positivo, si perde l’idea dell’uomo come cittadino della Polis e nasce il
cosmopolitismo cioè l’uomo si trasforma da cittadino della Polis a cittadino del mondo. Lo stoicismo,
quando parliamo di stoicismo non possiamo non fare riferimento alla figura di Zenone, lo stoicismo
attraversa tre fasi importanti: lo stoicismo antico, stoicismo medio che si differenzia dal precedente
per il suo carattere eclettico, in quanto influenzato sia dal platonismo che dall'aristotelismo e
dall'epicureismo ed infine, abbiamo il cosiddetto stoicismo nuovo o romano, che abbandona la
tendenza eclettica cercando di tornare alle origini, lo stoicismo a differenza del resto, dà importanza al
senso del dovere, all’amore per la patria, al rigore morale e importanza alla politica, l’uomo si realizza
partecipando alla politica quindi gli stoici consideravano gli uomini.

-La politica (opera) e le scienze dell'uomo


Aristotele continua ad indagare sul problema del fondamento scientifico della politica. Per lui, la
politica è una delle 4 discipline in cui si articola la scienza dell’uomo: le altre 3 sono la psicologia,
l’etica e la retorica. Platone le trattava tutte insieme in una prospettiva filosofico-politica, mentre lui le
distingue. L’opera di Aristotele si intitola appunto “Politica”: appartiene al terzo gruppo degli scritti
aristotelici, quelli di carattere scientifico, redatti dalla scuola istituita da lui ad Atene, il liceo. Nel
primo libro si conclude l'analisi aristotelica sulla polis per quanto riguarda l'individuazione dei
principi costitutivi della sua organizzazione. Secondo Aristotele, la polis è connaturata all’uomo; esso
è uno zoon politikon, un essere politico, e la sua umanità si esprime nella sua politicità. Per realizzarsi
e raggiungere la felicità l’uomo deve vivere nella polis. La comunità politica per lui si caratterizza
per l’affermazione relativa alla pluralità delle forme secondarie di socialità poste dalla natura che lo
stato deve mantenere in sé rispettandone l’autonomia. Questa concezione è in contrasto con la tesi
platonica secondo cui tra l’individuo e lo stato non deve esserci alcun diaframma ma una
immedesimazione di tipo organico. Dice che il collettivismo proposto da Platone è irrealizzabile
perché contrasta con la naturale struttura della società politica. La famiglia e la proprietà sono i due
istituti fondamentali dello stato, presupposto del processo di articolazione da cui si origina la società
politica. Abolire la proprietà sarebbe abolire l’unico criterio per fissare la giusta ricompensa per il
lavoro svolto dai singoli. La società collettivistica non riesce neanche a realizzare l’unità: uno stato del

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genere si scinde in due classi contrapposte: i guerrieri che hanno la forza militare e i lavoratori che
sono sottoposti ai primi.

-Lo studio della politica e i principi fondamentali della polis


Lo studio della politica è distinto in 4 grandi parti: la prima tratta della costituzione migliore, che
corrisponde ai principi assoluti in sede filosofica, la seconda studia come realizzare tale
costituzione, la terza si occupa della costituzione vigente per studiare i provvedimenti che consentono
di renderla stabile, e l'ultima analizza la costituzione più adatta a tutte le città per individuare i
principi comuni a tutte le costituzioni reali. La costituzione migliore è quella in cui ogni cittadino
possa meglio provvedere alla sua prosperità materiale e alla sua felicità. L’ordinamento politico
della città deve essere informato che tra gli eguali ci deve essere compartecipazione dei diritti e dei
beni tranne il caso in cui ci sia qualcuno che emerge per virtù e capacità pratica alla cui volontà è
giusto obbedire. Se la felicità è inscindibile dalla virtù, la potenza e il dominio non sono il fine della
polis ma devono essere dei mezzi per assicurare la difesa di essa. La guerra deve essere combattuta
avendo sempre di mira la pace. Il comando è legittimo solo se esercitato nei confronti di quelli che
la natura destina ad obbedire. Estendere il potere al di là dei limiti fissati dalla gerarchia naturale è
un atto di sopraffazione. La struttura sociale della polis e la suddivisione in classi sociali si fonda
sui compiti che devono essere assolti dalla comunità: l’alimentazione, le arti per le merci necessarie
alla vita associata, la difesa militare, la finanza pubblica, il culto divino, la decisione sugli interessi
generali e i diritti reciproci. A questi compiti corrispondono 6 classi: agricoltori, artigiani, guerrieri,
benestanti, sacerdoti e magistrati. Deve sussistere un rapporto di proporzione tra le parti che formano
la polis in modo da armonizzare gli individui e le loro attività con il tutto e conseguire l’ordine (taxis).
Il senso del limite deve presiedere alle attività che si svolgono nella polis: la proporzione, la misura,
l’armonia sono i principi sui quali si fonda l’ordine. Il territorio deve essere scelto in modo da
garantire alla città l’indipendenza economica e la difesa: deve essere fertile ed avere uno sbocco al
mare che faciliti i commerci. Deve essere praticabile per i suoi abitanti e difficilmente accessibile per i
nemici. La collocazione ideale della città è tra terra e mare in modo che possa essere aiutata da tutte le
parti. Il legislatore deve preoccuparsi della sanità della stirpe tramite leggi matrimoniali che
devono essere informate ai criteri dell’eugenetica, sia per prevenire malattie o deformità, sia per
esercitare un controllo sulle nascite. La popolazione deve essere proporzionata alle esigenze della
città, né troppo piccola né troppo grande, in modo da consentire a tutti i cittadini di conoscersi e di
comprendere in una visione sintetica tutta la popolazione e devono condurre una vita politica
autosufficiente. I popoli possono essere divisi in 3 razze le cui caratteristiche sono determinate dal
clima: clima freddo: i popoli dei paesi del nord sono di temperamento vivace ma non molto
intelligenti; clima caldo: i popoli del sud (Asia e Africa), sono intelligenti e abili nelle arti ma non
hanno forza morale il che li predispone alla servitù politica; clima temperato: solo la stirpe greca che
vive in una zona mediana combina i caratteri nordici e quelli asiatici e ha quindi intelligenza e forza
morale. Se l’animale è mosso dagli istinti, l’uomo, invece, si governa tramite la ragione che gli
consente di disciplinare ed educare la sua natura. Il nesso tra comando e obbedienza è la virtù,
propria dell’uomo dotato di ragione, dell’uomo probo. Il mezzo più importante per formare un
cittadino virtuoso è l’educazione. Quella dei giovani deve essere informata alla costituzione vigente e
l’istruzione dei giovani deve essere affidata allo stato perché la preparazione per il raggiungimento di
un fine comune deve essere comune a tutti quelli che si propongono quel fine.

-Organizzazione della polis


La città ha una formazione complessa ed è composta da diversi elementi: l’elemento più importante ai
fini della costituzione è il cittadino, cioè chi può partecipare al governo della polis. La virtù del
cittadino consiste nel saper comandare e nel saper obbedire. La costituzione (politeia) ha per oggetto

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l’ordine delle magistrature (archai), il modo con cui vengono assegnate (to kùrion),
l’attribuzione della sovranità, la determinazione del fine di ciascuna associazione (koinonià):
essa va distinta dalle leggi (nòmoi) che fissano le norme in base a come i magistrati esercitano il
loro potere (archein) e puniscono i trasgressori. La classificazione delle istituzioni si basa sul fatto
che il governo è il potere sovrano e può essere detenuto da uno, da pochi o da molti, che possono
esercitarlo nel rispetto della comune utilità o nel proprio interesse: nel primo caso ci sono le 3
costituzioni perfette, monarchia, aristocrazia e politica o democrazia dei liberi; nel secondo la
tirannide, l’oligarchia e la democrazia della moltitudine. Per Aristotele, la politica è la
costituzione per antonomasia: essa è caratterizzata dal fatto che la cittadinanza è riconosciuta solo a
quelli che per condizioni sociali possono conseguire la virtù del cittadino e sono liberi. I liberi hanno
tutti la stessa dignità e diritti e tra loro vige il principio d’uguaglianza e tutti devono esercitare il potere
alternandosi al governo. All’interno di ognuna delle 6 costituzioni ci sono 3 altre sottospecie.
Aristotele fa una distinzione tra costituzione materiale e formale. È convinto che solo in una
categoria ristretta di persone altamente selezionata dal punto di vista delle tradizioni e dell’educazione
(l’accademia platonica), sia possibile esprimere quell’armonia e concordia di intenti e quelle capacità
intellettuali che sono le premesse perché il governo operi nel rispetto delle leggi. Nella democrazia i
molti non hanno alcun sentimento di rispetto e obbediscono solo se obbligati dalla paura che
impedisce loro di commettere malvagità. Tra la politica e la democrazia ci possono essere tante
composizioni intermedie a seconda delle diverse composizioni sociali della polis. Nella città ci
sono le seguenti categorie: agricoltori, operai, commercianti, guerrieri e politici. La costituzione
assume caratteristiche diverse a seconda della prevalenza di questa o quella categoria. I molti possono
esprimere una opinione più valida e giusta dei pochi: questa è la giustificazione al principio della
maggioranza, norma fondamentale per ogni ordinamento democratico. Aristotele accetta la
“teatrocrazia” che Platone rifiutava: come il pubblico giudica meglio degli esperti l’opera che è stata
rappresentata, così la maggioranza dell’assemblea esprime sui provvedimenti che riguardano il
governo un giudizio più affidabile di quello dei singoli. Sarebbe però pericoloso ammettere i molti
alle magistrature più importanti che detengono la guida politica della città: essa invece può
deliberare sui normali affari pubblici e partecipare alle elezioni dei magistrati. Così sia attua un
contemperamento tra l’aristocrazia o oligarchia e la democrazia e si realizza una costituzione che
è un giusto mezzo tra gli estremi. Il principio fondamentale cui deve ispirarsi l’ordinamento
politico è la sovranità della legge, che deve essere superiore a qualsiasi cittadino e tutti i magistrati
devono essere guardiani e servi della legge. La costituzione deve sottomettere la volontà dell’uomo a
quella della legge. Questo principio trova la sua attuazione solo in una costituzione che si basi
sulla classe media che è veramente libera in quanto non è corrotta o fuorviata dagli interessi delle
grandi ricchezze né condizionata dalle necessità giornaliere. È in grado di mantenere l’equilibrio tra
ricchi e poveri. Solo una forte classe media può assicurare l’equilibrio sociale necessario per la
democrazia.

-La teoria dei conflitti sociali e politici


Il metodo cui si serve per analizzare i diversi tipi di costituzione è confermato nel libro V della
“Politica” dedicato allo studio delle cause delle tensioni e dei conflitti sociali che sfociano nella
trasformazione violenta delle costituzioni. Il presupposto di fondo è che l’ordine (taxis) deve essere
considerato come il fine ultimo della politica in quanto scienza dei mezzi più idonei a conservare il
potere. Tutti i tipi di costituzione si equivalgono in quanto garantiscono una certa misura di ordine e
stabilità politica. Si tratta di rendersi conto delle cause che determinano la trasformazione di una
costituzione per individuare le massime per conservarla. Le tensioni, i conflitti e le trasformazioni
violente appartengono alla patologia della polis. Stasis = sedizione, ribellione, rivolta; Metabolè =
mutamento cambiamento, trasformazione della costituzione. I conflitti sociali e politici sono

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determinati dall’ineguaglianza e dal desiderio di attuare l’eguaglianza, possono essere finalizzati alla
deposizione dei governanti per sostituirli con coloro che hanno promosso la rivolta o cambiare del
tutto la costituzione. I fattori che provocano l’insorgere della rivolta sono 3:
1) morale-ideologico, le condizioni che giustificano l’insurrezione;
2) lo scopo che si intende perseguire;
3) le occasioni che consentono di iniziare la rivolta.

Il governo deve porre una cura costante nella difesa dell’ordine politico, in quanto le rivoluzioni
sono la conseguenza di una serie di atti che considerati isolatamente sono deboli ma nel loro insieme
determineranno una situazione che non potrà più essere controllata. Chi detiene una certa potenza alla
fine cercherà di organizzare una rivolta per avere l’intero controllo del potere o perché non sopporta
che venga detenuto da altri. Le aristocrazie e le oligarchie finiscono per le lotte e le divisioni interne:
vengono promosse da parte dei ricchi che non hanno parte del potere e con l’aiuto del popolo riescono
ad abbattere il governo oligarchico, ma può accadere anche che gli esclusi organizzino una rivolta per
riconquistare il potere. Nei regimi monarchici le ingiustizie, la requisizione dei beni privati e il
disprezzo con cui sono trattati i sudditi sono la causa delle rivolte. Occorre distinguere il regno dalla
monarchia: il primo si fonda sul consenso dei sudditi, la seconda esercita un potere indipendente dal
consenso. La tirannide può essere conservata con due politiche diametralmente opposte:
1) applicare i principi e le massime di governo del potere tirannico: controllo totale sui cittadini
con spie, delatori e sorveglianza.
2) conservare la sostanza del potere imitando nella forma il governo monarchico: il tiranno deve
far mostra di perseguire la pubblica utilità soprattutto in piano finanziario; deve avere un
comportamento nobile e seguire una vita morigerata per ispirare rispetto e non paura; onorare i
cittadini più eminenti ma evitare che qualcuno diventi troppo potente.

Le trasformazioni violente della politica e della democrazia sono provocate dalla mancata
osservanza del diritto. Nelle democrazie occorre impedire che il cittadino acquisti una potenza tale da
mettere in pericolo la stessa costituzione; sono necessarie norme che consentano all’assemblea di
allontanare dalla polis coloro che possono assumere per la loro autorità, l’iniziativa di una modifica
radicale della costituzione.

3)Autorità, potere, impero: l'esperienza politica romana

-La formazione della repubblica: la costituzione


Gli elementi costitutivi della civitas romana erano: - la gens: gruppi di famiglie che riconoscevano un
progenitore comune, i loro capi (patres familiarum), il rex, il populus (l’insieme degli armati forniti
dai gruppi gentilizi). La famiglia e la gens erano comunità sovrane: il pater familias aveva la
signoria assoluta su tutti i suoi soggetti, parenti e clienti e diritto di vita e morte sugli stessi. Il rex
aveva l’imperium: era comandante militare, sacerdote e giudice. Era assistito da un consiglio di
anziani e per le pratiche del culto da un consiglio di pontefici che avevano il compito di custodire e
interpretare le tradizioni religiose. Il popolo era formato unicamente da guerrieri e partecipava alla
creazione del re mediante l'acclamazione espressa nei comizi curiati. La plebe, costituita da piccoli
proprietari, cittadini liberi, artigiani, che non appartenevano a nessun gruppo era esclusa dalla civitas e
sottoposta al dominio delle gentes. La contrapposizione tra patrizi e plebei caratterizza la storia

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della costituzione del diritto romano. La necessità di difesa e di espansione del dominio imposero la
trasformazione dell’esercito gentilizio basato sulla cavalleria in esercito oplitico fondato sulla fanteria
pesante che richiedeva un reclutamento che finì per coinvolgere anche la plebe. Il territorio cittadino
fu diviso in 31 circoscrizioni (tribù) che erano la base per il reclutamento e per il pagamento dei
tributi. A tal fine il popolo era distinto in 6 classi sulla base del censo in 193 centurie che fornivano i
diversi contingenti dell’esercito. Ai comizi centuriati furono demandate le decisioni sulla pace e sulla
guerra, l’elezione dei magistrati, l’approvazione delle leggi. Intorno al 509, con la fine del dominio
etrusco a Roma, l’oligarchia gentilizia sostituì al rex una magistratura annuale, prima il magister
populi, poi due pretori e infine due consoli. L’imperium trovava dei limiti sia nella breve durata
dell’incarico sia nella collegialità in quanto uno dei due poteva bloccare le iniziative del collega.
L’esigenza della sempre più complessa organizzazione della civitas portarono all’istituzione delle altre
magistrature della repubblica: i censori (ex consoli) che avevano il compito di iscrivere i cittadini
nelle liste censuarie e sottintendevano la morale pubblica; i questori ai quali fu affidata
l’amministrazione dell’erario, i pretori che sovrintendevano la giustizia e gli edili curuli, competenti
per la polizia urbana. Per evitare abusi nella nomina dei magistrati fu fissato un cursus honorum, un
ordine prestabilito delle cariche, con limitazioni di età e con precise scadenze. La magistratura
straordinaria, propria della costituzione romana, è la dittatura, deliberata dal senato in caso di
grave pericolo della civitas. Nella costituzione repubblicana si distinguevano le magistrature cum
imperio (dittatori, consoli e pretori) e quelle cum potestate che avevano dei compiti definiti dalla
legge. L’aristocrazia rappresentata dal senato accolse le richieste di un primo riconoscimento della
plebe nella civitas repubblicana, con l’istituzione di una nuova magistratura ed organi propri della
plebe. Furono istituiti 10 tribuni della plebe con la facoltà di esercitare lo ius auxilii e lo ius
intercessionis contro giudizi penali o arresti illegali e provvedimenti arbitrari a danni dei plebei e
imporre il veto agli atti pubblici dei magistrati e alle deliberazioni del Senato. Nel 286 la “lex
Hortensia” equiparava i plebisciti alle leggi.

-Il diritto nell'esperienza politica romana


Il diritto è l’anima della civitas, è la sua ragion d’essere: è la logica giuridica che consente di
organizzare la civitas, di risolvere le tensioni, i conflitti, i contrasti di interesse fra le diverse classi
come fra i singoli. Quindi esso è la vera forza della civitas, ciò che permette ad essa di concentrare
tutte le energie della collettività per conseguire i suoi fini. Il diritto, inoltre, è connesso con le norme di
carattere sacrale e religioso e per molto la sua regolazione rimase prerogativa del collegio dei
pontefici. Ma si cominciò dal periodo monarchico a distinguere ciò che si riferisce direttamente al
sacro, ovvero il fas, e ciò che invece è manifestazione dell’imperium del rex. La giurisprudenza è la
fonte più importante delle norme giuridiche che riguardano la disciplina dei rapporti e degli interessi
dei singoli. Si pone così la distinzione tra privato e pubblico: il primo trova la sua disciplina sulla
base dell’iniziativa dei singoli, mentre il secondo trova la sua fonte nella lex, approvata dai comizi
curiati. Si pone così la distinzione tra lo ius civile, che riguarda i rapporti fra i cives, i cittadini, e lo ius
publicum che riguarda l'organizzazione della civitas in quanto res publica. La costituzione è il modo
per trasformare la civitas in una repubblica il cui fondamento è dato dal diritto.

-Il potere: imperium, auctorita e potestas


L'esperienza politica romana individua tre posizioni tipiche del comando, che si esprime
nell'organizzazione politica della repubblica.
1) L'imperium è un potere originario nel senso che non promana dall’ordinamento
giuridico-politico della res publica ma attiene all’esistenza stessa della civitas, alla sua unità
reale. È illimitato e si estende su tutto e su tutti.

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2) L'auctoritas questa forma di comando scaturisce dalla preminenza e dal prestigio che una
persona, un ordine, un’istituzione hanno nella società, indicata con il termine autorità.
L’ordinamento repubblicano riconosce un ruolo importante per l’auctoritas del senato, per la
quale le proposte di legge dovevano ricevere l’assenso del senato.
3) La potestas (il potere) la volontà è l’energia che dà vita all’azione, distinta dalla ragione. Una
volta scoperta l’autonomia della volontà, per portare a compimento l’azione non basta volerla,
si richiede che il soggetto abbia un potere adeguato per realizzarla. Il diritto fa sussistere il
potere degli associati, del singolo, dei magistrati, del popolo; la ragion d’essere del potere sta
nell’organizzazione della società attuata mediante il diritto; come la volontà, allorché si
riferisce ai fini specifici della società, non può determinarsi se non tramite il diritto, così il
potere non può sussistere e realizzarsi se non mediante il diritto.

-Polibio
Nel 1500 ci furono autori che per costruire una sorta di filosofia, volevano trovare un punto di contatto
tra stoicismo e cristianesimo. La figura di un autore che risalta è quella di Polibio. Polibio è un autore
greco, nasce nel 200 a.c. proviene da una famiglia altolocata, viaggia molto, persona di grande cultura,
dopo la battaglia di Pigna viene fatto prigioniero dai Romani in quanto considerato sostenitore del
partito macedone, entrò in confidenza con Paolo Emilio. Lui divenne l’amico di cultura, trasfuse tutta
la sua cultura greca nel mondo romano, lo credono come amico di famiglia. Furono anni in cui lui
entrò in contatto col mondo romano e fu attratto dal pensiero di Aristotele e Rodi. Le Poleis greche
sono state abbattute così e il popolo romano ha conquistato tutto? Questo l’assunto di Polibio, lui
voleva capire nelle amicizie. Erodoto descrive i fatti sulle grande battaglie, anche di effetto, la
mentalità di Polibio è diversa, lui va alla ricerca delle cause, richiamo a Tucidide. Dopo la vittoria
definitiva su Cartagine la potenza romana era destinata a dare attuazione al programma di Alessandro
Magno di unificazione del mondo abitato. Polibio era convinto che le conquiste romane realizzate in
poco più di 50 anni rappresentassero un fatto straordinario senza precedenti nella storia umana che
poteva essere compreso tenendo conto non solo della storia degli avvenimenti che avevano sancito la
supremazia di Roma, ma anche le ragioni specifiche della sua potenza militare. Queste ragioni erano
politiche e si riferivano alla costituzione, che garantiva disciplina, unità e stabilità. La costituzione,
come aveva notato Aristotele, è unitamente connessa con la vita della città: occorre rendersi conto del
modo con cui si formano gli aggregati politici per intendere le ragioni, le cause della loro nascita, del
loro sviluppo, della loro decadenza e della loro fine. Le comunità si costituiscono per un istinto
proprio di tutti gli esseri viventi che si uniscono per difendersi dai comuni pericoli: il gruppo riconosce
come guida l’essere più dotato e forte. La ragione, che distingue l’uomo dalle bestie è nella
consapevolezza dei benefici che la vita sociale procura. La comunità promuove la formazione di
sentimenti e di convinzioni comuni circa il bene e il male, il giusto e l’ingiusto. Ciò consente agli
uomini di intendere il vantaggio che loro deriva dal conseguire le norme della virtù. Uno spirito
profondamente pragmatico, 50 anni soltanto, va ad indagare ed inizia uno studio molto tranquillo
delle costituzioni, c’è un realismo pessimistico. Teorico della anaciclosi, fortemente convinto della
circolarità della storia. Forme di Governo per Polibio La prima costituzione è la monarchia e
dalla sua degenerazione deriva la tirannide; a questa subentra il governo dei ricchi e dei potenti
contro la quale insorge il popolo per instaurare la democrazia. Ma anche questa degenera in
oclocrazia (dominio della moltitudine) che determina una situazione di lotte di partiti e fazioni alle
quali pone termine la monarchia. Questo è il compimento del ciclo delle costituzioni. Ogni
costituzione ha in sé i principi, le cause della sua corruzione-degenerazione e della decadenza e
dissolvimento. Nelle costituzioni rette il potere si fonda sul consenso dei governati, in quelle
degenerate sulla forza e sulla paura; nella monarchia e nell’aristocrazia chi governa si avvale della
persuasione e rispetta i limiti che gli sono posti dai valori etico-religiosi, dalla giustizia. Ogni

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costituzione si fonda su un accordo tra chi detiene il potere e la maggioranza degli associati: quando
questo rapporto di fiducia viene meno la costituzione comincia a corrompersi. Il governo richiede
una sana virtù civile, ma questa virtù si consuma con il tempo e già nella seconda generazione
comincia a subentrare nei governanti l’orgoglio e il desiderio di primeggiare che suscita risentimento e
odio del popolo. Con il passare delle generazioni si modificano i sentimenti e le convinzioni e il
popolo decade a livello della plebe, della moltitudine e si confonde con essa. Il potere passa così dal
popolo alla moltitudine, che diventa il dispotico signore dello stato (passaggio dalla democrazia
all'oclocrazia).

-Costituzione mista
Polibio pensa che i romani abbiano ideato un processo di coopartecipazione politica di tutte le classi
per arrestare questa decadenza (coesistenza di diverse istituzioni alla Res Publica, ovvero alle cose che
appartengono al popolo, il quale ha la capacità di decidere). Si arriva così ad una costituzione perfetta:
i consoli detengono il potere più alto, mentre il senato ha il compito di far rispettare la legge (forma di
governo: governo misto). Polibio dice che si possono studiare degli accorgimenti per rendere la
costituzione più duratura possibile per garantirne la stabilità. Occorre predisporre un limite al
potere e cioè un altro potere che lo freni, che gli impedisca di diventare assoluto e mutarsi nella
forma di governo imperfetto. Per garantire la stabilità, le costituzioni perfette devono limitarsi a
controllarsi a vicenda: la migliore forma di governo deve essere riconosciuta nella costituzione mista,
che riesce a comporre in un armonico sistema i principi delle 3 costituzioni perfette: monarchia,
aristocrazia e democrazia. Questa costituzione fu realizzata per la prima volta da Licurgo a Roma: il
principio monarchico è rappresentato dal potere dei consoli, i quali hanno il potere esecutivo
comprendente il comando della forza militare e il governo della repubblica; il senato rappresenta il
principio aristocratico essendo formato dai capi dei gruppi gentilizi con un incarico a vita: la sua
competenza si riferisce al potere amministrativo, cioè al controllo delle entrate e delle uscite, alla
politica estera, alla soluzione delle controversie che possono nascere nell’ambito delle relazioni con
altri stati. Il potere giudiziario e legislativo sono attribuiti ai comizi, cioè al popolo che fa così valere
il principio democratico. In tal modo la costituzione romana è formata da organi che si controllano a
vicenda bilanciandosi l’uno con l’altro, realizzando quella costituzione che era nei voti di Aristotele.
Essa, grazie alla forma mista di governo, è riuscita a far coesistere i pochi con i molti, in un sistema
istituzionale che lega saldamente gli uni agli altri in uno stesso destino politico. Ma anche la
costituzione romana non si sarebbe potuta sottrarre al processo di decadenza che caratterizza tutti gli
stati. Le pressanti richieste della plebe per una più equa distribuzione delle terre pubbliche furono
all’origine del pessimismo dell’aristocratico Polibio.

-Cicerone
La valutazione teorica sull'esperienza politica romana fu svolta da Cicerone (106-43 a.C.), giurista,
filosofo e uomo politico: i suoi scritti politici più importanti sono “De re publica”, “De legibus”, “De
officiis” (possono essere definite orazioni di difesa per i politici). Fu il teorico della libertà
repubblicana di contro agli orientamenti politici che ritenevano essere possibile garantire l’ordine, la
pace sociale, il dominio e la potenza di Roma con una radicale riforma della costituzione. Ritiene che
la politica rappresenti il culmine dell’attività dell’uomo. Riconosce un nesso tra teoria e pratica nel
senso che l’opera dell’uomo di stato non è altro che l’attuazione di quei principi, di quei valori che
vengono professati in sede teorica: c’è quindi nella politica una risposta filosofica che si deve
riconoscere al fine di migliorare la nostra preparazione.

-Società per Polibio e Cicerone

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Polibio rifiuta l’idea utilitaristica e pattizia della società; ritiene che ci sia una naturale
predisposizione degli uomini a vivere in società, così come rifiuta il mondo virtuale: gli uomini non
decidono di istituire la repubblica per scopi personali, l'uomo è già un animale sociale, ha piacere a
vivere con gli altri (mettere in comune ciò che è più prezioso per le loro vita attraverso la
comunicazione attiva). La prima vera causa di aggregazione non è la necessità ma il bisogno, il fatto
che l’uomo a differenza degli altri animali può sopravvivere solo se viene allevato, aiutato dai suoi
simili. L’uomo non ama vivere in solitudine ma con gli altri uomini perché solo nella società può
esprimere la sua natura razionale; esso è portato per natura a conoscere la verità e a far conoscere la
verità (processo che attende di essere verificato); a volere la giustizia e farla rispettare (realizzazione di
un patto sociale); ad essere benevolenti e generosi. Sono questi i 3 aspetti dell’onesto. Esistono tanti
tipi di società per quanti sono i tipi di solidarietà umana: la famiglia, il gruppo parentale, le
associazioni, le aggregazioni e associazioni particolari. Lo Stato viene visto come una moltitudine di
uomini che cercano di raggiungere la verità utile attraverso il diritto (iunus: potere con cui può nascere
qualcosa di comune). Lo Stato è fondato sulla società degli uomini ma nello stesso tempo se ne
distingue per una specifica autonomia: ciò che consente allo stato di partecipare alla società ma di
esserne distinto è il diritto. Il diritto promana dalla natura dell’uomo ed è connesso ai valori oggettivi
che formano l’onesto, trova il suo più valido collegamento con la giustizia che garantisce la sua
efficacia di vincolo sociale che fa di una pluralità di uomini e cose un'unità reale, il popolo, la Res
publica (sostituisce la polis). Cicerone non usa il termine polis che corrisponde in latino a civitas ma si
serve del termine res publica per indicare l’organizzazione politica in quanto tale, connessa con il
diritto. La parola status significa condizione, modo d’essere dove status-republicae indica la
costituzione con un significato giuridico politico. Lo stato per Cicerone è la cosa pubblica cioè la
cosa che appartiene al popolo, il quale non è qualsiasi insieme di individui ma è quella moltitudine che
si è associata per una comune utilità e mediante il vincolo del diritto.

-Il problema della libertà


Per Cicerone la costituzione romana riflette i principi cui si forma la costituzione mista, teorizzata
da Dicearco e dopo da Polibio: l'ordinamento repubblicano cerca di contemperare il potere dei consoli
con quello dei tribuni della plebe, il potere del popolo con l'autorità del Senato. I singoli costituiscono
una unità e possono diventare popolo solo grazie al diritto. Il diritto può rimanere come vincolo
fondamentale nella società politica solamente se nello stato, per quanto riguarda l’organizzazione
politica si afferma il principio di libertà. Per Cicerone la libertà è essenzialmente repubblicana. Si
riferisce al ruolo che viene riconosciuto al popolo nella costituzione romana, al fatto che il popolo sia
titolare della summa potestas che corrisponde alla sovranità popolare degli stati contemporanei.

-Il principato
La vittoria di Ottaviano nel 31 a.C. su Antonio pose fine al tormentato periodo delle guerre civili e
consentì di concentrale il potere nelle mani del generale vincitore e risolvere così il problema della
crisi politica dello Stato romano. Era certamente la fine della repubblica, ma l'odio e il disprezzo per
l'antica monarchia erano così vivi nei romani che Ottaviano scelse di legittimare i nuovi poteri sulla
base delle leggi e delle istituzioni repubblicane e rifiutò l'appellativo di rex. Come osserva lo Schulz,
non vi fu una legge fondamentale che distinguesse nettamente il vecchio dal nuovo regime politico;
anzi ci si preoccupò di collegare il vecchio con il nuovo, di legittimare quest'ultimo come la
continuazione del primo e “di rappresentare l'innovazione come una restaurazione”. Si era dato vita ad
una nuova magistratura, di particolare rilievo costituzionale, ma che presupponeva quella del
precedente ordinamento: Ottaviano doveva avere una situazione di primato in confronto agli altri
senatori. Di fatto egli rivestiva i poteri di un re, ma dal punto di vista giuridico costituzionale gli stessi

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poteri gli pervenivano dal senato e dal popolo romano. In sostanza con i poteri conferitigli, Ottaviano
avevano instaurato il principato, una nuova forma di organizzazione politica della respublica, in cui la
cura e l'amministrazione dello stato dipendeva dalla volontà del princeps. La codificazione e la
raccolta delle leggi romane, ordinata da Giustiniano nel 528, costituiscono la testimonianza più
significativa della nuova forma di convivenza politica che il genio politico romano era riuscito a
realizzare: un sistema di amministrazione del potere politico completamente spersonalizzato, onde
l'uomo che svolge mansioni politiche si spoglia della sua personalità di uomo privato per acquisire
unicamente quella di uomo pubblico, la cui attività è regolata da una serie di norme giuridiche.

4)S. Agostino: Stato e ordine politico

-Contesto storico
Agostino nasce nel 354 a Tagaste, nell' attuale Algeria. La madre Monica é cristiana e sarà la figura
dominante nella vita del figlio. Il padre Patrizio, pagano, pur avendo scarsi mezzi, gli fa impartire
un'educazione letteraria e retorica. Agostino studia a Madaura e poi nel 371 a Cartagine, ma non
apprende il greco. Respinto dalla rozzezza dei racconti e dello stile della Bibbia, legge un'opera
perduta di Cicerone, l' Ortensio, dove trova teorizzato il primato della vita filosofica. Si avvicina allora
ad una forma di religione di tipo gnostico, il manicheismo, ampiamente diffuso in Africa. A Cartagine
il manicheismo si era insediato già dal 297. Si trattava di una religione dualistica, nella quale
confluivano elementi di origine persiana, ma soprattutto elementi gnostici, anche cristiani. Il nucleo
era il riconoscimento dell' esistenza di due regni, della luce e delle tenebre, ciascuno retto da un
principio divino. La vita del manicheo era vista come preparazione all'evento che avrebbe posto fine
alla mescolanza di luce e tenebre, per il manicheismo è il male il creatore del mondo e
paradossalmente questo è il peggiore dei mondi possibili ( l'esatto contrario di quanto dicevano gli
Stoici). Il manicheismo era una religione che andava incontro ad un personaggio come Agostino che
sentiva assai forte il senso del peccato in quanto essa dava al male consistenza ontologica: da giovane
Agostino aveva condotto una vita piuttosto dissoluta e peccaminosa e questo lo testimonia egli stesso
affermando di aver proferito in gioventù queste parole “Signore dammi la castità, ma non adesso”.
Tutte queste esperienze lasciano tracce in lui: del manicheismo permane in Agostino l'idea del senso
del peccato e la visione dell' umanità come "massa damnationis", dello scetticismo gli rimarrà l'idea
dell'impossibilità di avere certezze. Nel 382 decide di trasferirsi con la madre, la concubina, il figlio e
alcuni amici a Roma, dove insegna retorica, riscuotendo successo e attirando l'attenzione di Simmaco,
prefetto della città. Questi riceve l'ordine di scegliere un professore di retorica per Milano, dove risiede
la corte imperiale, e propone Agostino. Anche per l'appoggio di influenti manichei (sebbene Agostino
si fosse già sganciato da tale religione), la proposta fu accolta. Nel 384 Agostino arriva a Milano e può
assistere alle prediche del vescovo Ambrogio. Nel 385 decide di farsi catecumeno, Agostino rimane
affascinato dal cristianesimo in chiave platonica, raffinato ed esauriente, a differenza di quello della
madre: in questo periodo il cristianesimo sta sempre più diventando la religione di stato, anche grazie
ad Ambrogio; Agostino scopre che ciò che dice il vangelo di Giovanni é affine a ciò che dicevano i
neoplatonici ed in particolare Plotino: in principio era il Logos. Nel 386 avviene la conversione, che
egli racconterà più tardi nelle Confessioni. In particolare, egli progetta di comporre una serie di scritti
sulle arti liberali. Nel 395 é nominato vescovo coadiutore e l'anno successivo, alla morte di Valerio,

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vescovo a pieno titolo di Ippona . Sono anni in cui con gli scritti e con la predicazione Agostino
combatte anche contro la Chiesa del vescovo Donato, fondata su una concezione rigoristica e settaria
della comunità ecclesiale, dalla quale devono essere esclusi tutti gli impuri . Nella lotta contro i
donatisti, Agostino non esita ad appoggiarsi alle autorità imperiali e ad auspicare l'uso di mezzi
coercitivi anche violenti: l'umanità, caduta con Adamo nel peccato, ha bisogno di freni, che le
impediscano di ricadere nel male. Anche per rispondere alle accuse dei pagani, che imputano le
sventure dell'impero all'ira degli dei contro i cristiani, Agostino compone nel 413 i primi tre libri della
"Città di Dio". L' opera sarà completata nel 426 raggiungendo il numero complessivo di 22 libri. In
essa Agostino tenta di dimostrare la superiorità del cristianesimo su tutta la cultura pagana e sugli
pseudo-valori che la sorreggono, ma nel frattempo egli è costretto anche ad affrontare un nuovo
avversario, il pelagianesimo, che ai suoi occhi minaccia anch'esso, come il donatismo, di frantumare
l'unità della Chiesa e del suo insegnamento. Nell' agosto del 430 Agostino è colpito da febbre e poco
dopo muore .

-Civitas Dei
impero romano d'occidente e cristianesimo- La distinzione tra ordine spirituale ed ordine
temporale, venuta fuori nel periodo del Cristianesimo, viene approfondita nel suo significato
teologico, filosofico, storico e politico, in una delle più grandi opere di S. Agostino (354- 430), il “De
civitate Dei” (416-427). In quest'opera la politica è valutata nella prospettiva di una concezione
teorico-filosofica della storia universale ed ha un preciso riferimento alla concezione ciceroniana della
repubblica, ai rapporti tra l’impero e la chiesa ed alle questioni più complesse poste da quei rapporti
all’etica cristiana. Sant'Agostino scrisse l’opera in occasione della conquista e del sacco di Roma da
parte dei Visigoti. Sembrava aver trovato fondamento l’accusa rivolta ai cristiani dagli ambienti
politici che erano rimasti fedeli alla religione degli antichi dei di Roma, di aver promosso la decadenze
della potenza militare dell’impero con la diffusione dei loro ideali avversi all’etica civile romana. In
quest'opera, S. Agostino voleva dimostrare l’inconsistenza di questa accusa valutando i rapporti tra
Cristianesimo e Impero. Ci sono 2 modi di vivere, due mondi umani, due popoli, due città che
risalgono alle origini della storia del genere umano e sono il costante punto di riferimento della storia
universale. Le due città sono la Civitas Dei e la Civitas terrena: civitas indica l’unità degli intenti
che ispira tutti i comportamenti di coloro che la costituiscono, tra cui concordia ed affinità tra i suoi
componenti. La Civitas dei è composta da coloro la cui vita è ispirata all’amor dei. La Civitas
terrena è formata da coloro che ispirano le loro azioni all’amor sui. L’amor di sé, portato sino al
disprezzo di Dio generò la città terrena, l’amore di Dio, portato sino al disprezzo di sé generò la città
celeste.
-Civitas Dei e Civitas terrena
Il vincolo che unisce gli uomini delle due città è l’amore: amor sui e amor Dei. Per Sant'Agostino
l’amore è il principio dinamico della volontà, ciò che spinge la volontà a volere, l'energia che le
consente di durare nello stato di tensione per conseguire il suo fine, è il “peso” dell'uomo, ciò che gli
da consistenza. L’amore è un’energia che tende a conseguire una serie di beni secondo un determinato
ordine. L’amore di se stesso esprime un proprio ordine che si realizza nella città terrena; amare se
stessi significa conseguire tutti i beni terreni che possono darci piena soddisfazione, in modo che il
nostro animo non sia più turbato e rattristato. Infatti la soddisfazione è lo stato di pace con se stesso, ed
è proprio il desiderio di pace che spinge l’uomo ad uscire da se stesso e stabilire rapporti sociali con
gli altri. Il desiderio della pace è una caratteristica della natura dell’uomo; la pace è la ragion
d’essere della società umana e la ricerca di essa coincide con la ricerca della felicità, che è
tranquillità e ordine (guerra: manifestazione di disordine).

-Il fondamento dello stato

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Il fine ultimo della politica è quello di conseguire e mantenere la pace: la repubblica, l’autorità, il
potere, le istituzioni, le leggi debbono essere predisposte in vista della pace. Per avere la pace gli
uomini devono avere desideri e comportamenti che siano in essa corrispondenti. La pace si riflette
nella società degli uomini, nella famiglia e nello stato; ci sono due paci: quella della città celeste e
della città terrena: la prima è eterna perché ha il suo fondamento in Dio, mentre la seconda è insidiata
dalle passioni sempre mutevoli degli uomini, quindi è incerta, provvisoria e può essere infranta dagli
odi e dalla lotte. La pace è “l’unione nell'ordine”. L’ordine è la disposizione che assegna ogni cosa
al suo posto. Questa disposizione ritrova la sua fonte e legittimità in Dio, nella sua legge, la legge
eterna che corrisponde alla ragione e alla volontà di Dio e comanda di conservare l’ordine naturale e
proibisce di turbarlo. Questa legge è costitutiva della coscienza dell’uomo e le consente di percepire i
principi primi dei comportamenti umani cioè le evidenze morali che sono comuni a tutti gli uomini e
che formano la legge naturale.

-Differenze tra Cicerone e S.Agostino


Secondo Cicerone la repubblica è la cosa del popolo ed esso non è una qualsiasi moltitudine di
individui, ma la loro unione mediante il vincolo del diritto e della comune utilità. Quindi, mentre
Cicerone trovava la giustizia nel diritto, Agostino dice che la vera giustizia è quella che si fonda sulla
legge eterna, che si esprime nella volontà di Dio e si attua solo nella città di Dio; nella città terrena
esiste solo una giustizia terrena. Per Sant'Agostino, lo Stato deve essere definito come la cosa del
popolo, ma il popolo deve essere definito come l’unione degli individui fondata sulla concorde
comunione delle cose che essi amano. Lo stato e l’ordinamento politico sono l’amore di tutti i
consociati per determinate cose e solo l’amore può stabilire un reale rapporto di unione, di comunione
dei sentimenti e di fare della moltitudine un’unità che sia il fondamento dello stato. Lo stato è
costituito dai seguenti elementi:
1. un’associazione di individui
2. un capo che comanda
3. un patto sociale
4. una serie di convenzioni precedentemente concordate: il potere di governo si fonda quindi sul
consenso dei cittadini, espresso dal patto sociale e le leggi sono il risultato di un accordo tra i
consociati.

-Differenza tra potere e dominio


Sta nel fatto che il primo si esercita sulle creature razionali, mentre il secondo su quelle irrazionali; il
potere rispetta i diritti dei suoi sottoposti, il dominio asservisce in tutto e per tutto le persone ai fini di
chi lo esercita. Inoltre c'è una corrispondenza tra l’oggetto dell’amore e l’ordine della società
politica: questo muta col mutare di quello. Quanto più l’oggetto dell’amore corrisponde alla virtù
tanto più l’ordine politico sarà stabile e lo stato sarà in grado di garantire la sicurezza. Le tradizionali
virtù terrene sono: temperanza, prudenza, fortezza e saggezza, ed esse anche se non sono
illuminate dalla fede, se vengono perseguite con costanza possono far sussistere un ordine terreno e
quindi un ordinamento politico ben costituito. Se l’oggetto dell’amore non è consono alla virtù perché
si vogliono soddisfare i desideri dettati dalle passioni si inizia un processo di disarticolazione
dell’unità degli intenti, entra in crisi la concordia tra i consociati e le divisioni degenerano in
contrapposizioni. Così il popolo non sarà più in grado di autogovernarsi, le scelte dei magistrati sono
dettate dalla corruzione di quanti aspirano al potere per favorire le loro malversazioni. Diviene
necessario, come unico rimedio, che il governo venga assunto su iniziativa di una persona dotata di
virtù e autorità o da una ristretta aristocrazia o da uno solo: si accenna così alla crisi della repubblica
romana e alla costituzione dell'autorità imperiale.

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-Decadenza dell'impero romano
Per Sant'Agostino il motivo della crisi e della corruzione è nella natura dell’uomo che è
contraddittoria; è questa la ragione della tendenza al disordine di ogni società politica. L’uomo, proprio
perché ama se stesso aspira alla pace e vuole l’ordine, ma le cose che desidera e i suoi fini spesso
contraddicono questa aspirazione. Vuole l’ordine e la pace ma quello che fa provoca il disordine e la
guerra. L’amore dei beni temporali, come l’amore per il sapere e per la verità scaturisce nell’uomo
da un sentimento indefinito del bene assoluto cioè Dio: l’uomo che vive per la città terrena senza alcun
pensiero per la città celeste non riesce a riconoscere il vero oggetto di questo desiderio indefinito e
persegue una serie di verità e beni terreni che per essere finiti non riescono mai a soddisfare il suo
desiderio di felicità e di verità che in effetti aspira al sommo bene e alla verità assoluta. Di qui nasce
l’insoddisfazione e l’inquietudine che spingono l’uomo alla continua ricerca di nuovi beni e nuove
verità. Il popolo romano dalle origini sino alla fine della repubblica amò sopra ogni cosa la gloria che
accompagna e legittima le imprese grandiose, che esaltano le virtù civili, sì che gli stessi popoli
soggetti riconoscevano la superiorità romana. Sant'Agostino dice che bisogna distinguere l’amore
per la gloria dall’amore della potenza e del dominio che spesso si tramuta in libidine di dominio.
Quando, dopo la morte di Augusto, all'amore della gloria cominciò a subentrare l'amore della potenza
e del dominio, iniziò il declino delle antiche virtù civili, cui fece seguito la corruzione dei costumi.
Questa fu la vera causa delle rovinose sconfitte di Roma.

-La pace terrena e il problema della guerra


La città di Dio vive come pellegrina nel mondo ma si serve della pace terrena come di un bene che
appartiene all’ordine della creazione divina ed è quindi impegnata a promuoverla ed a mantenerla,
informandola agli ideali ad ai valori dell'insegnamento divino e cristiano. Fra le questioni più rilevanti
per quanto riguarda il rapporto fra la politica e la religione cristiana vi è quella della guerra, nei cui
confronti il Vangelo avrebbe espresso un divieto assoluto: al cristiano non è concesso l'uso delle armi,
deve pertanto rifiutarsi di usarle e di combattere. Il precetto fondamentale della legge eterna è che sia
conservato l’ordine naturale, vale a dire, per quanto riguarda la città terrena che sia conseguita e
conservata la pace: la guerra è il rimedio estremo con cui lo stato assicura e difende la pace terrena
contro le insidie e le violenze dei malvagi. La guerra giusta deve essere sempre finalizzata alla pace e
deve essere intrapresa solo per la difesa.

-Stato e Chiesa
Altro tema di particolare rilievo nei rapporti tra Stato e Chiesa si riferisce all'intervento del primo
e all'uso delle sue leggi e della relativa coercizione, per quanto riguarda la difesa dell'unità della
Chiesa nei confronti degli scismi e delle eresie: l'impero aveva riconosciuto il principio dell'unità di
fede come il presupposto fondamentale di quella concordia degli intenti e dei voleri di tutti i suoi
membri necessaria per un'efficace politica di difesa della sua integrità politica e territoriale dalle forza
disgregatrici. In effetti Sant'Agostino riconosceva che l'uso della coercizione nell'ambito religioso
sollevava gravissimi problemi in ordine alla libertà di coscienza, cioè alla libera adesione al credo
cristiano, determinante per quanto riguardava il valore stesso di quell'adesione, che se forzata si
sarebbe trasformata in un atto meramente formale, un'ipocrita finzione.

-Realismo Agostiniano
Il pessimismo agostiniano che scaturisce dall'importanza che riveste il problema del peccato e del
male nell'esperienza cristiana non deve essere inteso come la fatalistica accettazione della natura
corrotta dell'uomo e come l'implicita legittimazione dell'ordine costituito, infatti Sant'Agostino non è
Lutero: il suo pessimismo esprime, invece, una concezione realistica dell'uomo, della sua natura e
quindi della politica e delle istituzioni in cui si realizza, tra cui in primis lo Stato. Il

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pessimismo-realismo agostiniano non indica solamente i limiti dell'azione dello Stato, ma esercita
anche una funzione critica nei confronti della stessa religiosità cristiana, per quanto riguarda la
sempre ricorrente “tentazione” di liberare in modo definitivo la città terrena dal male, di far del Regno
di Dio una vivente realtà sociale.

5)San Tommaso: Bene comune, comunità politica, potere

-Contesto storico
Nato a Roccasecca (1225-26), oblato al monastero di Montecassino, studiò a Napoli. Entrò nell'ordine
domenicano nel 1244, contro la volontà della sua aristocratica famiglia. Da Napoli si recò a Parigi per
proseguire i suoi studi fino al 1248 sotto la guida di Alberto Magno, che poi accompagnò nel suo
ritorno a Colonia (1248-1252). Erano gli anni della polemica contro i regolari, che si chiuse con
l'intervento del papa Alessandro VI, a cui sia Bonaventura che Tommaso dovettero l'insediamento
nelle rispettive cattedre parigine di teologia (1256-57). Tra il 1257 e il 1273 l’Aquinate produsse la
maggior parte delle sue opere. Fatto ritorno nella provincia romana dell'ordine domenicano insegnò
nello studio della Curia Papale sotto il pontificato di Urbano IV (1261-1264) L’abate emanò
l’enciclica Eternis Patris, in cui veniva dichiarata la volontà di inserire la tomistica
nell’insegnamento scolastico.. Trascorse gli anni italiani tra Roma, Viterbo e Orvieto, le città in cui
risiedeva la corte papale, luoghi ricchissimi di fermenti intellettuali, dove si trovarono riuniti filosofi,
scienziati, traduttori. Il ritorno a Parigi, nel 1269, portò Tommaso nel cuore del dibattito
universitario sugli argomenti più controversi della filosofia aristotelica, ovvero la dottrina
dell'unicità dell'intelletto possibile e quella dell'eternità del mondo. Poi il ritorno a Napoli
avvenuto nel 1272. Qui insegnò teologia fino al 1273. Non sappiamo che cosa successe durante la
messa mattutina celebrata il 6 dicembre 1273, data che segna la cessazione definitiva dell’intensa
attività di scrittore di Tommaso. Alle insistenze di Reginaldo da Piperno perché riprendesse a scrivere,
l’Aquinate rispose: "Reginaldo, non posso, perché tutto ciò che ho scritto è come paglia per me."
Convocato a Lione per partecipare alla commissione preparatoria del secondo concilio ecumenico,
morì il 7 marzo 1274, a Fossanova, durante il viaggio. I cristiani avevano formato la res publica
cristiana, passano 8 secoli fino alla nascita di San Tommaso, tra Agostino e Tommaso passa un periodo
di tempo lungo. Tommaso vive quando il cristianesimo era già radicato, vive in un periodo di
profonda rinascita intellettuale.
Una schiera nutrita di pensatori che non sempre sono seguaci del cristianesimo, personaggi non
cattolici ma si appassionarono ed elaborarono il pensiero di San Tommaso. Le teorie atomiste, diffuse
tra i suoi contemporanei il sistema di San Tommaso, Papa Paolo VI nel 1974 in una lettera
apostolica fa riferimento esplicito al tomismo, per cui il sistema filosofico di San Tommaso
diventa una filosofia ufficiale nell’ambito della chiesa. La summa teologica è di tre parti, Tommaso
muore compilando la terza parte, l’intenzione era quella di parlare ai principianti, gli incipientes,
elaborato attraverso le questiones, il carattere di Tommaso è quello di non dare mai una risposta
assoluta, valuta sempre gli aspetti positivi e negativi, queste quaestiones pongono degli interrogativi
che restano aperti. L’obiettivo di Tommaso parte dall’idea di conciliare, arduamente, ragione e fede,
ancora più ambizioso, di cristianizzare il filosofo per eccellenza: Aristotele. Una caratteristica di
Tommaso è il profondo realismo. Ciò che divide Aristotele da Agostino è la visione del mondo,
l’uomo nasce già con il peccato originale, l’uomo deve impegnarsi per riscattarsi dal male, Agostino
parla di questo. Il mondo è come un torchio che spreme, nessuno escluso. L’uomo aspira al bene e alla
pace, ma fa comunque il male. Questa dialettica si va trasformando in Tommaso che dice: il bene può
esistere senza il male, laddove il male non può esistere senza il bene. In questa vita certo che esiste
il male, noi dobbiamo cercare di riscattare, l’uomo può vivere comunque una vita contrassegnata

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dall’ordine, dalla serenità, dall’amore, qui si contrappone al sistema Agostiniano. Anche nel rapporto
tra Sant’Agostino e San Francesco c’è uno scontro qui, i due ordini hanno uno stile di vita particolare,
i francescani ponevano come obiettivo una povertà evangelica, la fratellanza. L’ordine dei domenicani
ha una visione diversa, si professano come predicatori, dedicano la loro vita allo studio, ed erano
esperti nelle lingue. Condussero una crociata contro i saraceni etc, e combatterono addirittura una
politica dei vari imperatori che avevano trasferito dei concetti, amano l’azione, San Tommaso si
rispecchia in questa idea dei domenicani, lui non può pensare che veramente in questa terra ci sia la
fratellanza umana. Questa idea di abbandonare i beni terreni per dedicarsi solo alla sfera spirituale, era
un retaggio dei cosiddetti eletti. Con la riscoperta della politica di Aristotele, San Tommaso si
concentrò sulla scienza della politica: per San Tommaso è la scienza dell’agire umano, che indaga
l’azione degli uomini, è la scienza architettonica ne attribuisce una grande importanza Tommaso non
fu rivoluzionario ma fu progressista. Pone le basi di quello che sarà lo stato costituzionale
moderno, ci sono due modelli di stato: lo stato assoluto contrapposto al costituzionale. Il primo è
Ab-solutus sciolto dal vincolo dalla legge, può essere di uno di pochi di molti. Lo stato costituzionale
sempre di uno pochi o molti ma può essere vincolato dalla legge.

-Diritto di resistenza
Un altro elemento fondamentale è il diritto di resistenza. S. Tommaso si pone il problema di
indicare la forma di governo che consenta di far valere nei confronti dei governanti precisi limiti
giuridici, affinché il potere non violi la legge, non diventi oppressivo trasformandosi in tirannide.
Arriva alla conclusione che la miglior forma di governo è quella della costituzione mista, fondata
sull’armonico contemperamento della monarchia, dell’aristocrazia e della democrazia che
assicura l’unità di comando, la partecipazione dei migliori al governo e l’elezione dei governanti da
parte del popolo. È la costituzione per eccellenza della quale aveva già parlato Aristotele, dove il
potere è disciplinato dalle leggi della comunità. Il problema è se è lecito ai sudditi ribellarsi ad un
tiranno? Tiranno non è solo chi governa anteponendo il suo interesse a quello generale, ma anche chi
ha conquistato il potere con la violenza. La tirannide è il trionfo della passione sulla ragione, e la
rivolta nei confronti del tiranno più che un diritto è un fatto: l’oppressione diventa talmente
intollerabile che determina una reazione da parte dei sudditi. Ma questo fatto è comunque un episodio
gravissimo per il turbamento che porta all’ordine e alla pace nella società. Questo problema può essere
risolto solo se il diritto di resistenza al tiranno viene sottoposto ad una procedura
giuridico-costituzionale, se cioè viene trasformato in un legittimo intervento degli organismi che
rappresentano la società, solo gli organi competenti possono utilizzarlo, in ultima istanza qualora le
istanze lo richiedessero, mai il singolo individuo può ribellarsi e agire liberamente nei confronti del
tiranno. Altrimenti si violerebbe il patto tra governanti e governati. Ovviamente è fondamentale che
le leggi vadano modificate, ma bisogna essere cauti, chiarisce questo punto, dobbiamo cercare di
sopportare in tutti i modi il sistema della tirannide, si rischia di arrivare ad una situazione peggiore di
quella precedente, se noi deponiamo un tiranno si corre il rischio che subentri un governante che usa
mezzi anche più violenti di quello precedente, tutti si ribellano alla crudeltà di questo tiranno.
-La politica scienza autonoma
San Tommaso fu un grande filosofo che accolse l'eredità aristotelica e la ripensò, alla luce dei valori
propri della tradizione cristiana (1226-1274). Lui colse le nuove esigenze maturate nella società del
suo tempo portandole a una compiuta teorizzazione, nella quale sono armonicamente sistemate la
religione, la filosofia, l'etica e la politica. Nel Commento alla “Politica” di Aristotele, Tommaso dice
che la politica deve essere considerata come scienza autonoma: il campo della filosofia si estende a
ciò che può essere conosciuto con la ragione e fra i vari oggetti che la ragione conosce vi è la città che
viene considerata come un tutto. La disciplina che studia la città come un tutto è la scienza politica ed
è certamente autonoma, in quanto si svolge secondo un metodo che le è proprio, ma nello stesso tempo

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è connessa sia alla filosofia che all'etica, intesa come scienza. La politica non appartiene al genere
delle scienze speculative che riguardano il momento della comprensione, ma a quello delle scienze
pratiche che si riferiscono all’operare; tuttavia essa non può essere concepita come scienza pratica
come le arti meccaniche, ma va considerata come scienza che si riferisce all’azione degli uomini e che
ha come oggetto i comandi, le disposizioni e gli ordini: può essere considerata la scienza dell’agire. La
politica, coerentemente con l'insegnamento aristotelico, deve essere intesa come scienza
architettonica che presiede al coordinamento di tutte le altre discipline che riguardano le attività
che si svolgono nella società. La città, cioè l’oggetto della scienza politica alla stessa maniera delle
cose fatte dagli uomini mediante le arti meccaniche, è realizzata dagli uomini mediante la ragione. La
politica in S. Tommaso è considerata anche nella prospettiva cristiana dell’ordine come insieme di
rapporti istituiti dalla ragione dell’uomo. La società politica non corrisponde alla gerarchia fissata
dalla natura ma è considerata come l’ordine voluto dalla ragione dell’uomo per raggiungere i fini
propri della sua natura. L’ordine politico è voluto e realizzato dall’uomo mentre l’ordine naturale
esiste indipendentemente dalla volontà umana.

-L'uomo e la comunità politica


L’uomo viene considerato da San Tommaso come l’autore della comunità politica e non solo per
conseguire le cose essenziali che gli sono necessarie per sopravvivere, ma anche per conseguire quei
beni morali che solo la società gli può offrire e che gli sono necessari per raggiungere la perfetta
sufficienza della vita, non solo per vivere ma per vivere bene. Tommaso definisce l’uomo un
animale sociale anziché un animale politico: la prima è la formula già usata da Seneca per
sottolineare che il problema della felicità e quindi del sommo bene riguarda solo l’individuo e non ha
alcun riferimento allo stato; mentre la seconda adoperata da Aristotele significa che la perfezione
dell’uomo, la sua felicità, consiste nel partecipare come libero alla vita della polis. Se l’uomo è un
animale sociale, la civitas non ha solo un valore strumentale ma è fatta dall’uomo per realizzare
la sua natura. La civitas ha un fondamento nella natura dell’uomo. Non esiste una connessione
organica tra l’individuo e la società ma una connessione d’ordine fondata sulla natura sociale
dell’uomo e resa operante dalla sua ragione e dalla sua volontà. Il movimento dell’individuo non è
determinato dalla società, ma al contrario, il movimento della società è prodotto da quello degli
individui che la compongono. La libertà è la caratteristica essenziale dell’uomo in quanto capacità di
autodeterminazione razionale che è il vero principio delle sue azioni e comportamenti. La civitas ha
un suo specifico fine: il bene comune, a sua volta distinto dai beni particolari dei singoli. Tommaso
usa come equivalente di civitas e respublica il termine communitas per porre l’accento sul fine
della società, il bene comune che è definito l’ordine nella pace. L’unità d’ordine e la pace possono
essere conseguiti se esistono nella comunità una o più persone che dirigono i comportamenti dei
singoli verso il bene comune, altrimenti la società si disarticola in gruppi e fazioni contrapposte, dato
che i singoli hanno sempre di mira il loro bene particolare. Come nel corpo umano vi è una forza che
coordina e dirige ad un unico fine le funzioni dei singoli organi, nello stesso modo nella società deve
esserci una forza politica che coordini le attività dei singoli, volte al conseguimento del bene comune.

-Legge e ragione
Nel rapporto volontà-ragione S. Tommaso riconosce nella ragione una preminenza sulla volontà:
l’obbligatorietà della legge scaturisce dalla sua razionalità, non risiede nella volontà e nel comando del
principe. I comandi del principe devono essere intrinsecamente razionali cioè conformi ai principi
posti dalla ragione umana. La legge è un ordinamento della ragione in vista del bene comune,
promulgata da colui cui spetta il governo della comunità; ha il compito di disciplinare il
comportamento degli individui in vista del bene comune. Poiché riguarda il bene comune, deve essere
deliberata dalla comunità o dal suo legittimo rappresentante. La legge positiva in quanto ordinamento

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della ragione in vista del bene comune ha come presupposto l’ordine che regna nell’universo della
creazione. La legge eterna che si identifica con la ragione di Dio, immutabili valide per tutti i popoli,
sono le leggi frutto della retta ragione, costituiscono una sorta di mediazione tra l’uomo e Dio,
sono simili, si avvicinano e fanno da tramite tra le leggi divine e le leggi umane; la legge divina
manifestata agli uomini per il tramite della Rivelazione, e la legge di natura che si manifesta nella
spontanea inclinazione dell’uomo ai fini razionali. Per la legge di natura l’uomo è in grado di
distinguere il bene dal male, di avere il sentimento del giusto e quindi di definire i precetti relativi al
giusto naturale. Essa sancisce i diritti della personalità dell’uomo, il diritto alla conservazione della
vita, alla formazione della famiglia, educazione dei figli e vivere nella società. La legge umana si
distingue in diritto delle genti e diritto civile: entrambe derivano dal diritto naturale ma il primo
riguarda la convivenza degli uomini in generale ed è ricavato soprattutto dal diritto naturale, mentre il
secondo comprende le disposizioni che si rendono necessarie per la vita comune nell’ambito della
società politica e dipendono da particolari esigenze dei singoli stati. Secondo San Tommaso, la legge
umana è necessaria perché gli uomini non si adeguano spontaneamente ai precetti della ragione;
l'uomo infatti può essere facilmente distolto a causa delle passioni e dei vizi, quindi la legge umana ha
la funzione di costringere l’uomo a seguire le norme per conseguire il bene comune.

6)Machiavelli: Realismo politico e autonomia della politica

-Contesto storico
Nasce il 3 maggio del 1469 a Firenze, dove trascorre la maggior parte della sua esistenza. Machiavelli
è senza dubbio uno dei più importanti personaggi nella storia della letteratura italiana. La famiglia
d’origine di Machiavelli era antica, ma decaduta, e fin dall’adolescenza il giovane ha dimestichezza
con i grandi classici latini. La prima notizia certa che si ha di Machiavelli risale al 1498 e riguarda una
lettera nella quale lo scrittore esprime pareri molto duri in merito all’operato di Girolamo Savonarola.
Sarà proprio in seno al governo della repubblica fiorentina, alla caduta di Girolamo, che Machiavelli
inizierà la sua carriera politica come secondo segretario della Cancelleria della Repubblica e, in
seguito, segretario del consiglio dei Dieci. Come già anticipato, Niccolò Machiavelli entrò in politica
con l’avvento della repubblica fiorentina e, da lì, il suo ruolo divenne sempre più importante.
Machiavelli svolse una serie di missioni diplomatiche molto delicate, affidategli per il suo ingegno,
presso la corte di Francia, la Santa sede e la corte imperiale di Germania. Con queste esperienze
Machiavelli sviluppò il suo sistema di pensiero verso una determinata direzione, tenendo le
comunicazioni ufficiali tra gli organi di governo centrali, ambasciatori e funzionari dell’esercito sia nel
caso in cui fossero impegnati all’estero, sia quando erano in territorio fiorentino. Proprio grazie a
queste missioni diplomatiche, Machiavelli ebbe l’opportunità di osservare alcuni principi, capendo le
differenze nel modo di governare e l’indirizzo politico di ognuno. In particolare, Machiavelli lavorò
per Cesare Borgia, avendo l’occasione di conoscerlo e di interessarsi all’astuzia politica e al pugno di
ferro dimostrati dal tiranno. A partire da questa esperienza, successivamente Machiavelli tratteggerà
nella stragrande maggioranza delle sue opere analisi politiche molto realistiche della situazione
contemporanea a lui, mettendole a confronto con altri esempi storici, soprattutto con riferimento a
quella romana. Anni e anni di osservazioni permisero a Machiavelli di scrivere molto riguardo la
politica, a come dovrebbe essere un buon governante e il suo impegno nei confronti dello stato
fiorentino diede come frutto il dotarsi di un esercito proprio, non più fatto di mercenari. Machiavelli
era convinto che la situazione italiana dell’epoca richiedesse un nuovo tipo di politica, basato su
“prudentia et armi”, saggezza ed armi. Nel 1513, scoperta una congiura contro i Medici,
Machiavelli viene poi arrestato e ingiustamente torturato in quanto sospettato di complicità. L’autore
dovrà attendere l’elezione di Papa Leone X (della famiglia dei Medici) per essere libero. A quel punto

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si ritirerà nella sua proprietà di Sant’Andrea, in pausa dalla carriera politica, e qui comincerà a scrivere
le sue opere più importanti nel periodo per lui più prolifico, gli anni tra il 1513 e il 1525. In questi
anni Machiavelli scrisse le sue opere più grandiose: tra le altre ricordiamo “Discorsi sopra la prima
deca di Tito Livio”; “Il Principe”, opera che fonda la politica come scienza e la distingue rispetto a
morale e religione; “Dialoghi dell’arte della guerra”; “Discorso sopra il riformare lo stato di Firenze”;
“Istorie Fiorentine”, l’opera che tratta della storia di Firenze e che costò a Machiavelli cinque anni del
suo tempi (1520-1525). Anche dopo la loro cacciata nel 1527, a seguito del sacco di Roma da parte di
Carlo V, Machiavelli provò invano a mettersi al servizio della Repubblica, ma il suo comportamento
con i Medici aveva reso sospetta la sua condotta. Proprio quell’anno, nel 1527, il 21 giugno
Machiavelli muore, per cause naturali, a Firenze all’età di 58 anni. Dopo di lui si inaugurò un filone di
pensiero politico che va sotto il nome dei teorici della ragione di stato. Pur mostrando una relazione,
non potevano manifestare le loro idee. Si andò sviluppando un fenomeno che si chiama tacitismo.

-La concezione dell'uomo


Il suo pensiero politico (Machiavelli 1469-1527) è connesso all’amara e sofferta esperienza della
profonda crisi politica che investe l’Italia alla fine del 400: con la discesa di Carlo VIII si scoprì che
le alleanze degli stati italiani non erano più in grado di fronteggiare le potenze militari di Francia e
Spagna. Le sue maggiori opere “Il Principe” e “I discorsi” nascono proprio dalla volontà di captare
l'esperienza politica italiana e di indicare il programma e i mezzi atti a garantire la stabilità e
l'indipendenza. La politica italiana era caratterizzata da una profonda crisi dell’etica civile e dalla
corruzione degli ordini politici che vanificava qualsiasi tentativo di dare stabilità e sicurezza agli stati.
Il disordine della sostanziale anarchia politica dell’Italia deve essere ricondotta alla natura
dell’uomo: l’animo umano permane identico nella storia, l’umanità dell’uomo è intrasformabile.
La situazione umana nel cui ambito si esprime la politica è caratterizzata dalla dialettica
ordine-disordine, nel senso che l’ordine è continuamente insidiato dal disordine, per il quale l’uomo
sembra avere una vocazione e nel contempo l’ordine nasce dal disordine. Il fatto che la politica sia
caratterizzata dal continuo mutamento dipendono dalla natura dell’uomo; esso è strutturato in modo da
aspirare costantemente a volere tutto, mentre dispone di mezzi limitati che gli consentono di
conseguire poco, e questo fa sì che l’uomo viva in uno stato di perenne incontentabilità che lo spinge a
volere sempre di più e modificare le situazioni nelle quali si trova. Questa incontentabilità che
caratterizza l’animo umano lo porta ad oscillare tra la noia e dolore. La natura umana fa sì che l’uomo
si tormenti nel male, così l’uomo si toglie da questo per ricercare il bene, ma quando è stato
conseguito non soddisfa più l’uomo, lo annoia, così che torna nel male. Per quanto riguarda il
popolo ha una visione pessimistica, diventa vulgo per Machiavelli, diventa massa perditionis per
Spinoza, massa per Rosmini, putrefazione passiva per Marx. Il popolo viene strumentalizzato dal
governante. Come la creta nelle mani di un artista, il popolo perde completamente, lo stesso vulgo si
trasforma, nei discorsi, in populus. Portatore di virtù politiche, stavolta non intendiamo la virtù nel
senso classico della parola, ma nella virtù repubblicana. Le stesse virtù di cui godeva il popolo
romano, intesa come autodeterminazione, come amore per la patria.

-La politica come “verità effettuale”


Per Machiavelli esiste una contrapposizione tra quello che si deve fare e quello che si fa: egli
intende istituire un rapporto diretto, immediato con quello che si fa, con la realtà, con la verità
effettuale della cosa, che per essere intesa per quello che è non può più essere mediata e interpretata
alla luce degli schemi della politica classica, ma deve essere considerata con assoluta immediatezza.
La prospettiva politica classica viene capovolta: la politica non è più costruita sulla teoria, sulla
scienza, ma diventa analisi e descrizione del comportamento politico quale effettivamente si
realizza. Diventa criterio di interpretazione della storia e questa indica in concreto come si

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determinano le situazioni politiche tipiche da cui è possibile ricavare le regole cui deve informarsi
l’azione politica.

-Il concetto di Stato


La politica consiste nello studio dei mezzi e accorgimenti mediante cui l’uomo viene sottratto al
disordine, verso cui tende naturalmente, per essere mantenuto nell’ordine. Usa la parola Stato per
indicare che la comunità politica ha una sua autonoma ragion d’essere, cioè ritrova in se stessa la
giustificazione della sua esistenza: perciò lo stato è definito come dominio che ha imperio sopra gli
uomini; si identifica con la forza e si realizza nel comando che esercita su coloro che sono assoggettati
al suo potere. Lo stato è concepito come forza perché è solo grazie a quest’ultimo che l’uomo è
sottratto al suo egoismo, alla dispersione e al disordine generati in lui dalla sua malvagità. Solo la
forza mantiene gli uomini uniti nella società; quindi la dinamica della politica si esprime nella lotta per
la conquista e la difesa del potere. Distingue due tipi di stato:
- il principato → è quello stato e ordine politico caratterizzato dalla unità di comando,
realizzata da un solo individuo (ma non inteso automaticamente come governo assoluto)
- la repubblica → è quella forma di stato in cui assume rilievo determinante l’autorità del
popolo, che gode di un’ampia libertà in quanto può partecipare al governo della cosa pubblica.

Machiavelli è un forte sostenitore della costituzione mista a modello di quella romana, fondata
sulla compartecipazione al potere politico del principe dell’aristocrazia (ottimati) e del popolo. Per
quanto riguarda i principati li distingue in:
-principati ereditari sono quelli gestiti dal principe;
-principati misti sono quando un principe annette al proprio stato un territorio conquistato;
-principati nuovi, il principe che si trova a gestire un principato nuovo comporta difficoltà.
Poi ci sono i principati civili, ecclesiastici, conquistati per virtù, ci sono anche i principati conquistati
per scelleratezza. Poi esistono i principati ottenuti per virtù o per fortuna. Quelli conquistati per
virtù sono i più duraturi del tempo. Ma si possono conquistare anche per fortuna che però sono di
breve durata, come quello di Cesare Borgia considerato proprio il Principe, l’ideale del salvatore della
patria, l’uomo forte che avrebbe davvero potuto salvare il paese. Parlando dei principati nuovi,
l’autore suggerisce regole ferree e fondamentali che un principe dovrebbe applicare, sono 4:
- il principe deve abitarci.
- mandare una parte del proprio popolo originario, sul territorio che si è conquistato.
- non deludere chi ha aiutato nella conquista, essere riconoscente.
- non bisogna mai chiamare una presenza straniera

-Azione necessi e necessitant


I veri problemi politici nascono con i principati nuovi perché si tratta di procedere ad una accurata
analisi che tenga conto di tutti gli elementi della situazione e delle diverse reazioni che la politica del
nuovo principe suscita nei sudditi. Ogni atto politico con cui si modifica una precedente situazione per
conquistare o mantenere il potere ne determina una nuova nel senso che offre diverse possibilità di
scelta e consente di optare per l’una o per l’altra azione politica. Essa è necessitata dalla situazione in
cui si trova chi opera ed una volta che compio una scelta io debbo subire le conseguenze di questa
scelta, errata o giusta che possa essere. e necessitante in quanto crea una nuova situazione che
ritorna sull’uomo politico, costringendolo ad agire, cioè ad adoperare delle scelte: una volta attuate
queste scelte il politico diventa prigioniero degli avvenimenti politici che lui stesso ha determinato.
Machiavelli ricorre all’esempio storico di Luigi XII, re di Francia, l’ambizione che spinge i Veneziani
a chiamare in Italia Re Luigi XII per i loro domini. Conquista il ducato di Milano, questa è l’azione
necessitata, ora il problema è che invece di perseverare, invece di conquistare con i Veneziani,

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favorisce il Papa Borgia, quindi tradisce il principio dei Veneziani, tradisce la quarta regola del
Principe, chiama in casa Il re di Spagna. Arrivare all’Unità d’Italia. L’azione necessitante è la scelta
che il governante deve fare in politica, occorre fare quella razionale, perché poi non si può più tornare
indietro. Gli stati partecipano alla stessa natura degli uomini: tendono, per conservarsi a estendere
il loro dominio. Le situazioni politiche non sono altro che il risultato dell'equilibrio fra le potenze
che riescono ad esprimere gli stati. Inoltre le azioni in politica devono essere coordinate al fine
che si intende conseguire, e tale coordinazione è possibile solo alla luce di un'analisi obiettiva delle
strategie politiche coronate da successo in casi analoghi, che ci consentono di formulare delle regole
generali, con cui prevedere le conseguenze che discendono, necessariamente, da un determinato
comportamento.

-Le caratteristiche del principe


Nel Principe, Machiavelli, ci indica il comportamento che un principe deve mantenere nei
confronti della parola data, i patti sottoscritti con altre potenze lo vincolano nella sua azione politica e
la morale e i valori religiosi delimitano il suo potere nei confronti dei sudditi. In poche parole, vuole
individuare le qualità che il principe deve avere per essere lodato e non disprezzato dai sudditi dato
che il principe deve far tutto al fine di evitare il loro odio e riuscire a mantenere lo Stato dopo averlo
conquistato. La politica è lo studio dei mezzi con cui conquistare e conservare lo stato; occorre che
il principe ponga attenzione ai vizi che gli tolgono lo stato: è meglio essere giudicato parsimonioso
anziché liberale dato che la libertà lo costringe ad attingere in misura eccessiva ai patrimoni dei
sudditi determinando un sentimento di odio per la sua rapacità. È meglio essere considerato pietoso
che crudele: però bisogna prestare attenzione al fatto che possono verificarsi situazioni in cui essere
pietoso si rivela controproducente per la tranquillità e la pace dei sudditi mentre un atto di fermezza e
crudeltà evita mali di gran lunga maggiori. Meglio essere amato che temuto ma data la natura degli
uomini è più prudente fondare il potere su un salutare timore. La prima preoccupazione del principe
deve essere di evitare l’odio e il disprezzo, perché la prima passione vince il timore che il potere
incute ai sudditi e li induce a combattere il principe, la seconda spezza il vincolo che unisce i sudditi al
principe e in caso di necessità non potrà contare su di loro. Solamente la forza e l’accortezza sono i
principi fondamentali cui deve ispirarsi l’azione del principe, in quanto solo con questi mezzi le
passioni possono essere disciplinate. Ci sono due modi di governare: il primo con le leggi e il
secondo con la forza: il secondo proprio delle bestie, il primo proprio degli uomini; ma poiché il
primo a volte non è sufficiente, bisogna ricorrere se necessario al secondo. Un principe deve saper
bene usare la bestia e l’uomo, la volpe e il leone. Il principe deve saper dissimulare, trovare le
giustificazioni convincenti della mancata osservanza dei patti sottoscritti. Sono affermazioni che
operano una distinzione tra gli interessi politici e i principi fondamentali della morale e sembrano
implicare la riduzione della morale alla politica. Ai fini politici non c’è bisogno che il principe sia
pietoso, umano, religioso, sincero, leale, fedele: l’importante è che sembri essere tale e che
sembri essere attento osservante della religione. In politica l’essere non corrisponde al sembrare:
noi non sembriamo quello che siamo. Due sono le sfere nel cui ambito deve essere valutata l’azione:
quella privata e quella pubblica, sociale, politica, nella quale l’azione ha una risonanza più ampia.
Mentre nell’ambito della sfera del privato sussiste l’uguaglianza tra l’essere e il sembrare, nella
sfera pubblica tale corrispondenza viene meno: accade che azioni che hanno come fine il bene dei
consociati sembrano per questi ultimi perseguire fini opposti. Per questo il principe deve sembrare
umano, fedele, religioso, nel senso che deve comportarsi in modo tale da ingenerare in chi considera i
suoi atti il convincimento che questi ultimi sono ispirati a quei valori. La società politica non può
esistere senza che questi valori vengano affermati e quindi riconosciuti.

-Necessità, fortuna, virtù

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Machiavelli propende per una concezione naturalistica della storia, nel senso che il corso degli
avvenimenti umani segue il ciclo naturale degli esseri viventi onde gli stati nascono, diventano potenti,
decadono e poi muoiono per rinascere e ripercorrere le stesse fasi. Questo movimento ciclico quale
passaggio dall’una all’altra forma di governo, compiono le istituzioni. Lui è convinto che la storia
sovrasti gli uomini nel senso che essi non riescono ad orientarla secondo i loro propositi. L’uomo e
cioè il politico può inserirsi nel corso degli avvenimenti sfruttando le occasioni favorevoli e
predisponendo gli opportuni mezzi per eliminare e ridurre al minimo i danni provocati dalle situazioni
sfavorevoli. Per inserirsi il principe deve essere dotato di virtù: la virtù di Machiavelli non indica la
capacità dell’individuo di saper regolare i suoi comportamenti secondo le norme della morale, ma
l’assoluta concentrazione di tutte le sue energie sul fine proprio della politica, la conquista e la difesa
del potere. Da tale concentrazione scaturisce la prudenza cioè la capacità di razionalizzare i propri
comportamenti per indirizzarli al conseguimento del fine. La virtù si contrappone alla fortuna che
indica l’indeterminatezza propria del corso degli avvenimenti umani, che si sono sottratti al controllo
degli uomini. La fortuna è connessa con la tendenza alla dispersione e al disordine che è una delle
caratteristiche fondamentali della natura umana. La fortuna viene paragonata a un fiume il cui corso,
non essendo regolato da opere di sistemazione degli argini distrugge le campagne e le città che
attraversa. La virtù costituisce l’argine più efficace nei confronti del fiume impetuoso che scorre nella
storia e che alla fine dilaga in quei paesi che per essere sforniti di virtù rappresentano lo sfogo di
questa piena. Ciò è quello che accade all’Italia che al momento della piena (invasione da parte di Carlo
8°) si è trovata sprovvista degli argini efficaci. La virtù può sempre contrastare la fortuna e a volte
sottometterla. La politica è la possibilità dell’uomo virtuoso di farsi artefice della storia.

-I Discorsi e l'ordinamento repubblicano


Nell’analisi machiavellica la dinamica politica scaturisce dalla contrapposizione politica-morale,
politica-religione, fortuna-virtù, necessità-libertà. La distinzione contrapposizione
politica-morale-religione è il vero nucleo problematico della concezione machiavellica dello Stato, e
questa contrapposizione è stata colta dagli interpreti e critici di Machiavelli, nell'evidente contrasto tra
il Principe e i Discorsi. Il primo è il codice dei tiranni, lo scritto che insegna come fondare e
mantenere un governo assoluto, mentre il secondo svela l'anima repubblicana di Machiavelli: in
quest'opera la preoccupazione fondamentale è di dimostrare sulla base di quali ordini politici e
mediante quale precettistica sia possibile fondare e conservare uno stato che abbia come principio
primo il suo ordine politico e la libertà del popolo. Il pessimismo che caratterizza il Principe nei
confronti dell’umanità si converte in una concezione positiva in quanto “i molti” diventano un
soggetto attivo e sono considerati come popolo. I Discorsi vogliono studiare i motivi per cui il
contrasto tra nobili e plebei, tra senato e popolo, che caratterizzò la storia di Roma, invece di condurre
come Firenze lo stato alla rovina, fu la causa determinante della sua grandezza. Al popolo bisogna
affidare i poteri necessari per difendere la libertà contro i tentativi dei grandi di instaurare un regime
oligarchico; il vivere libero è l’ideale politico supremo che deve immedesimarsi col popolo.
Quest'ultimo è in grado di garantire una stabilità politica superiore a quella del principato, ed è meno
diffidente del principe nei confronti dei cittadini che con la loro attività politica hanno acquisito grandi
meriti nei confronti dello Stato. La repubblica rispetto al principato offre più garanzie di fedeltà ai
patti sottoscritti. Se il Principe studia i problemi che si pongono intorno allo stato potere, allo stato-
forza, i Discorsi trattano problemi inerenti allo stato comunità; la forza politica non è più lo strumento
di cui si serve il principe per conquistare e mantenere lo stato ma viene vista in questo caso nella sua
genesi: si cerca di capire cosa sia la forza per individuare il rapporto tra questa e lo stato-comunità, e
come genera nella società politica: promana dalla virtù di cui sono capaci tutti i componenti della
stessa comunità. Nel Principe lo Stato è formato per opera del principe che lo forma a sua immagine e

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somiglianza e il popolo è soggetto puramente passivo. Nei Discorsi, invece, si genera da se stesso,
nasce e si forma nella storia.

-Ordine, leggi e costumi


L’organizzazione dello stato-comunità si struttura in 3 livelli tra loro connessi: costumi, leggi e
ordini. Questi ultimi sono le fondamentali istituzioni politiche sulle quali si basa la costituzione dello
Stato. Ordine si riferisce al modo in cui viene esercitato il potere cioè al diverso grado di
partecipazione del popolo e dei nobili all’amministrazione del potere e il modo in cui venivano
assegnate le cariche pubbliche. Il popolo come anche il principe devono essere costantemente
disciplinati e raffrenati dalle leggi. È il sistema delle leggi che garantisce la libertà e soprattutto la
sicurezza. Il potere del principe incontra limiti precisi nel sistema delle leggi. I costumi sono il vero
fondamento dell’organizzazione statale in quanto è in essi che si esprime quella virtù che consente a
tutti i consociati di partecipare alla vita della collettività con consapevolezza dei fini comuni. Il senso
della comunità si radica e si esprime nella religione, nelle forze con cui si realizza il culto divino.

-Religione e ordine politico


La religione è essenzialmente timore di Dio, quel timore che è il presupposto dell’obbedienza alla
legge e al comando dei magistrati, il fondamento della fede sia privata che pubblica. Con la religione
gli uomini passano dal piano della ferocia a quello dell’umanità civile che consente una vera società
politica. L’ordine politico come insieme di ordini e leggi si fondano sul sentimento religioso della
collettività. L’autorità di Dio è il principio di legittimazione di tutte le leggi umane e di tutte le altre
autorità umane. Man mano che la religione si depotenzia nella società, la forza che si esprime nel
potere deve crescere e aumentare la pressione sui soggetti sino a diventare assoluta; quando si
sostituisce al timore di Dio il timore degli uomini, i governi hanno una breve durata. La virtù politica
di cui fu capace Roma, che le consentì di vincere tutti gli avversari e di diventare lo Stato più potente
dell'antichità, scaturisce dalla religiosità di cui fu capace il popolo romano. Essa consente all’uomo il
massimo della concentrazione, è il presupposto di ogni forma di autodisciplina e pertanto della
costanza di saper mantenere l’impegno di anteporre il bene della comunità a quello privato. La
religione toglie l’uomo alla sua naturale inclinazione alla dispersione, al disordine, incertezza,
egoismo, preserva il popolo dalla corruzione che si determina allorché non si avverte più
l’importanza dei valori etico-civili e diventano invece preminenti gli egoistici interessi dei singoli. La
cura principale delle repubbliche e dei principi consiste nel mantenere incorrotta la religione in
quanto dalla sincerità, dalla purezza, dipendono le virtù politiche del popolo, i buoni costumi, ordini,
leggi. La corruzione che caratterizza la politica italiana dipende dalla corruzione della religione,
conseguenza del comportamento scandaloso del clero e della chiesa romana, che essendosi allontanata
dai valori cristiani ha provocato un diffuso scetticismo e irreligiosità, causa di quella totale assenza di
valori etico-civili della società italiana che è il presupposto della corruzione che ha reso gli italiani
servi dello straniero.

7)Bodin: Lo Stato e la comunità internazionale

-Contesto storico
Bodin nacque ad Angers nel 1529, da famiglia borghese; suo padre, un artigiano, aveva sposato
Caterina Dutertre, di un'onesta famiglia borghese anch'essa e da essa aveva avuto quattro figli. Pare
che Bodin sia entrato nel convento dei Carmelitani di Angers in età assai giovane, probabilmente nel
1545. Forse a questo ingresso in convento non fu estraneo il vescovo di Angers Gabriele Bouvery. La
vasta conoscenza che Bodin manifesta in tutta la sua opera, fa pensare ch'egli abbia risieduto presso il

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convento dei carmelitani di Parigi e frequentato il Collège des quatre langues, unico centro di
iniziazione a quel genere di studi. In ogni caso Bodin dovette essere sciolto dai voti nel 1548 o 1549,
probabilmente per un intervento del vescovo Bouvery. Ed è a questo punto della sua vita che dovrebbe
collocarsi un suo soggiorno a Ginevra. La tesi protestante che insiste su questo soggiorno ginevrino
ha a sue pezze d'appoggio una pretesa adesione del Bodin al calvinismo, attestata da una lettera
riportata dal Colomiés sulla base di una testimonianza orale; Della sua presenza a Ginevra nel 1552
resta un atto di matrimonio con Typhanie Renaud. Nel decennio 1550-1560 vediamo invece Bodin a
Tolosa, insignito del grado di hallebardier presso quella università, dove doveva passare anni
importanti e molto travagliati. Hallebardier, sorta di grado intermedio fra la condizione di studente e la
dignità di docente. Non fu mai possibile al Bodin ricalcare le orme del suo maestro Du Ferrier, che
aveva preso la via della carriera politica attraverso la cattedra all'Università di Tolosa e l'altra funzione
che questa dignità gli permetteva di assumere nel parlamento di quella città; forse Bodin aveva
sognato di attuare un simile passaggio mediante la presidenza del collegio. Tuttavia nel 1561, in un
clima di rinnovate speranze per i fautori del rafforzamento dell'autorità dello Stato, gli fu possibile
farsi eleggere avvocato del parlamento di Parigi e questo spiega la fine della sua carriera
universitaria e l'inizio della sua attività politica, ma il 1577 aveva segnato l'inizio della disgrazia
politica di J. Bodin; oltre a dimostrarsi sostenitore ad oltranza della pacificazione religiosa contro i
progetti di lotta alla confessione protestante di larga parte dell'assemblea, si fece anche difensore
accanito dei diritto del Terzo Stato che gli sembravano lesi dalla proposta di affidare a un ristretto
consiglio di pochi membri le deliberazioni dell'assemblea stessa. Tale atteggiamento gli fruttò la
diffidenza e il disfavore di Enrico II, che si accentuarono negli anni successivi. Deluso nella speranza
di divenire maestro delle richieste a corte, si vide poco dopo costretto a ripiegare sulla sua nuova
carica presso il Tribunale presidiale di Laon. Guardato con diffidenza e sospetto da ogni parte, tenuto
decisamente lontano dalla corte e relegato alla sua parte di notabile di provincia, Bodin finiva la sua
vita vittima della peste a Laon nel 1596.

-Situazione politica
Vive in una situazione politica importante. La Francia sia per la posizione geografica che per resto
era predominante nell’ambito del panorama europeo. A regnare sulla Francia vi era Federico II di
Valla, marito di Caterina De Medici. Enrico II muore in età ancora giovanile e lascia 4 figli maschi e
femmine, muore il primo figlio e Francesco II eredita il trono, ma muore dopo il secondo anno, gli
succede il II figlio, ma per poter regnare occorreva aver compiuto il 14esimo anno di età, ed in Francia
vigeva la legge santa, che escludeva dal trono le donne. Le regine non avevano la capacità di regnare,
il secondo figlio però era in età minorile e quindi prende le veci di Carlo Coverè la regina, che era
italiana ed era una donna e quindi non aveva i pieni poteri di regnare sulla Francia. La Francia viene
quindi privata dei poteri e provoca una delle più grandi crisi. Era un personaggio abilissimo, una
donna che riuscì a tenere le redini del potere. In seguito alla riforma protestante in Francia si andò
sviluppando la corrente del Calvinismo: Ugonotti e Cattolici. Alla morte di Enrico II dal 1559, si
apre una delle fasi più critiche della storia d’Europa, un lunghissimo periodo che va sotto il nome di
guerre di religione. Non si trattava solo di interessi francesi, in quanto erano guerre civili.
L’Inghilterra appoggia il candidato Ugonotto. Noi sappiamo bene che nel 1572 ricorre la famosa strage
di San Bartolomeo, l’abilissima Caterina, colei che incarna il Machiavellismo, organizzò una delle
stragi più fastose, 3000 ugonotti furono sterminati e il partito ugonotto si sentì particolarmente ferito.
In questo dramma ha un ruolo determinante Bodin. Scrive due opere, prima del suo capolavoro:
La Repubblica i VI libri. Prima di uscire questa opera esce l’opera di Methodus. Un opera di grande
spessore. La data è fondamentale, esce nel 1566, prima della strage di San Bartolomeo, Bodin fu
stimato ed amato soprattutto dal re di Francia e Caterina, la quale si avvale dei consigli di Bodin. A
distanza di 10 anni nel 1576, Bodin fa uscire un’altra opera. L’opera ebbe una vastissima diffusione e

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un grandissimo successo. In Francia c’era una distinzione tra gli stati generali e il resto. Gli stati
generali costituivano delle assemblee rappresentate da nobiltà, clero e popolo. In Francia c’erano delle
corti di giustizia, ad esempio i parlamenti erano corti di giustizia ed avevano un compito giuridico
preciso. Esercitavano solo un controllo di legittimità, e ciò spesso provocò un conflitto tra il Monarca
e i Parlamenti, perché qualora si rifiutavano di approvare le leggi del monarca, il monarca imponeva ai
parlamenti di registrare gli atti che aveva emanato, avevano una funzione formale, e quando il
monarca andava a perdere il potere, i parlamenti avanzano delle pretese più sostanziali e non formali,
volevano esercitare il cosiddetto controllo di merito, volevano entrare nel merito degli atti e delle
leggi, rettificare le leggi emanate dal monarca, ma non finisce qua. Regna la totale crisi sotto tanti
aspetti. Vi era un'ulteriore crisi, determinata dalla conflittualità non solo tra re e parlamenti, ma
tra re e stati generali, nobiltà. Il potere viene dal basso, secondo questa visione in Francia si traduce
in una funzione primaria che doveva rispettare gli stati generali, dovevano avere una funzione
legislativa, anche il terzo stato avrebbe dovuto partecipare alla formazione della legge. Una visione
della piramide, dal basso verso l’alto, secondo questa visione che si riallaccia alla teoria del diritto
divino dei re, questi pensatori sostenevano che gli stati generali pur mantenendo una funzione di
grande rilievo e spessore dovevano avere una visione consultiva, una sorta di anello di
collegamento tra il vertice e la base, attraverso gli stati generali il monarca veniva tra quello e il
giudice. Attraverso gli stati generali il monarca è stato sensibilizzato, Bodin imbocca questa strada,
restava sempre una funzione consultiva per cui veniva esclusa la possibilità. Prima di iniziare a parlare
dei contenuti più strettamente politici, Bodin entra a far parte della fazione Ugonotta e quella cattolica.
Lo chiamerei movimento di idee: politik. Milita in questo partito, o fazione. I quali considerando che
il tempo è tiranno racchiude in cinque punti:
-la sovranità di cui è esclusivo titolare il monarca viene intesa come un potere assoluto di derivazione
divina, la intangibilità delle leggi fondamentali del regno;
-l’indipendenza del regno di Francia dal papato, due poteri;
-una sorta di laicizzazione dello stato;
-la possibilità della pacifica coesistenza delle due religioni dello stato: tolleranza, tolleranza,
tolleranza;
-il valore preminente della pace.
Parla e profondamente coinvolto ed emotivamente nelle cose. Quello che interessa il politik e Bodin
consisteva nel salvare l’unità della Francia, salvare il salvabile. Occorreva salvare la Francia, che
rischiava di essere sottomessa, la Spagna aveva mire espansionistiche attraverso i cattolici, mentre per
la Francia la fortuna era stata maligna. Per questi 6 libri dello stato usa questa metafora: la Francia è
come una nave che sta per naufragare. Bodin cade in disgrazia ad un certo punto non solo per essere
diventato rappresentante del terzo stato, ma soprattutto perché scrive un’opera all’ex tribunale del
sant'uffizio, vengono consegnati faldoni e faldoni di condanna a quest'opera, si chiama la
demonomania degli stregoni, un'opera che Bodin scrive. Voleva compiere una sorta di studio. Alla
morte di Machiavelli si era sviluppata in tutta Europa una virulenta situazione cioè non potevano
manifestare le loro idee e rischiavano la censura. Infatti seguaci di Traiano Boccalino, ma soprattutto
di Giovanni Botero, di un personaggio che non disprezzava gli argomenti di Machiavelli, soprattutto
durante il 600 si imbattono nelle più gravi condanne.

-Il rapporto tra Machiavelli e Bodin


Nel Methodus i riferimenti ai discorsi sopra la prima decade di Tito Livio di Machiavelli sono
abbastanza evidenti e abbastanza sistematici e ciò pone una benevola accettazione dei principi
Machiavelliani, ma nella notte di San Bartolomeo muta l’atteggiamento di Bodin nei confronti di
Machiavelli, Bodin si rivolge in maniera quasi di disprezzo nei confronti di Machiavelli, di aver fatto
della tirannia un elemento di forza, di aver ridotto la religione come instrumentum regni e soprattutto

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di aver separato nel principe la sfera del diritto da quella della politica. Definisce testualmente
Machiavelli come colui che ha tentato il guado della politica, cioè gli da dell’ignorante delle belle
lettere ma in realtà Bodin dipende molto di più da Machiavelli di quanto si pensasse, non volendolo
accetta molti più dettami di quanto si creda.Secondo Bodin, Machiavelli non riesce a fare della
politica una scienza, poiché non ci mette il diritto. Lui se la prende con Machiavelli perché la
tirannia è sbagliata, ritiene che i monarcomachi fossero peggiori del tiranno stesso, nell’opera de iure
ac belli pacis distingue tra tiranno ex parte exercitii con titolo e senza titolo, nel secondo caso può
essere ucciso, nel primo caso i popoli non possono farci nulla, perchè è legittimo, ritenere che lo stato
debba caratterizzarsi con un governo giusto che si eserciti con un potere sovrano, deve rifarsi della
giustizia e della morale per difendersi, le famiglie sanno che dai loro scontri per il potere e la violenza
nasce il loro stato.

-Il concetto di sovranità


Bodin passa le prerogative della sovranità, questo è l’aspetto più delicato, il monarca può far emanare
e promulgare la legge anche senza il consenso del popolo. Giudicare in sede di appello i giudizi dei
magistrati, destituire o nominare alcuni grandi ufficiali dello stato, può esentare i suoi sudditi dal
pagamento dei tributi. Ci sono delle prerogative che fanno pensare ad una monarchia tout court, si
rende conto che un monarca rischia di trasformarsi in un potere arbitrario da assoluto, è vero che il re è
supra legem, ma quando parla di queste leggi è rispetto al diritto positivo, incontra dei limiti. Non è un
potere assoluto, tre sono gli ordini di leggi che vanno a limitare il potere del monarca. Le leggi divine,
le leggi fondamentali dello stato, tra cui la legge salica, in quanto Caterina sarebbe stata regina e
non reggente. Il terzo ordine di leggi sono le leggi naturali, eterne e immutabili, al di sopra delle
leggi positive. Tra le leggi di natura, Bodin include la proprietà privata. Questa è un diritto
assoluto degli individui. C’è un unica eccezione, qualora il monarca dovesse avere bisogno di un
terreno, può privarmi di questo bene ma solo dietro un congruo indennizzo, solo se il bene viene
finalizzato al bene comune, per l’utilità dell’intera comunità. Il concetto di sovranità permette di
stabilire i rapporti che devono intercorrere fra la monarchia e gli Stati Generali , i quali affermavano il
pieno diritto ad eleggere lo stesso re. La teoria della sovranità però dimostra che gli Stati Generali non
possono rivendicare nessun potere autonomo nei confronti della monarchia. Essi hanno il compito di
informare il re sulla situazione del paese, riguardo i provvedimenti e proposte. La decisione ultima
spetta a chi detiene il potere sovrano cioè al re. Il potere dello stato sovrano però è sottoposto a una
serie di limiti. Per Bodin sussistono delle leggi fondamentali che non possono essere modificate dal
re. Ad esempio la legge salica che esclude le donne dalla successione al trono. L’altro limite è
rappresentato dalla proprietà: per Bodin la proprietà è un diritto assoluto per cui il re non può
privare il suddito della proprietà, in quanto è una forma di garanzia della libertà civile dei cittadini.

-Forme di governo
Bodin distingue le varie forme di governo: lui sosteneva che la forma migliore fosse la monarchia,
esso non crede molto alle altre forme, crede in questa per una questione di azione politica, non poteva
mai concepire una forma di governo dove il potere è parcellizzato nella democrazia, sostiene che
una forma democratica in quella particolare epoca storica sarebbe stata un controsenso, solo un
monarca avrebbe potuto assommare nelle proprie mani tutto il potere. Bodin non crede
assolutamente nella costituzione mista in linea di principio: non si può mettere la costituzione mista,
date le contingenze storiche non si poteva pensare ad una costituzione mista, distingue la titolarità
della sovranità dall’esercizio di essa. Quando Bodin parla di sovranità, intende un concetto molto
più ampio, può essere di uno, di pochi e di molti, lui lo intende in senso molto più ampio. Una cosa è
la titolarità della sovranità, una cosa è l’esercizio di essa, Bodin la chiama status civitatis:
regime. La titolarità si distingue dal modo in cui si applica. Per esempio nella monarchia il titolare è

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il monarca, ma bisogna vedere la titolarità. Il regime è un regime monarchico, però bisogna tenere in
conto il modo in cui si esercita: si può esercitare democraticamente il modo di essere monarca, opero
e agisco in modo democratico oppure può essere un monarca che opera in maniera aristocratica,
concedo solo ad una certa parte di sudditi, a partecipare alla cosa pubblica, questo vale anche per le
varie forme di governo.

-Criteri di giustizia
Fondamentale per Bodin è il criterio della giustizia, ci sono degli atteggiamenti di Bodin, ci sono tre
criteri di giustizia,
- aritmetico, si riferisce naturalmente all’uguaglianza numerica di tutti i cittadini, non convince
Bodin, tutti gli uomini sono uguali, si finisce in qualche modo per limitare i meriti di alcuni
individui.
- geometrico dice Bodin si basa sulla proporzione, sono nella parte superiore della scala quelli
più dotati e questo andrebbe in qualche modo a non andare bene.
- armonico riunisce gli altri due criteri ed è caratteristico della Monarchia, secondo Bodin si
valorizzano i termini dell'individuo e si stabilisce un criterio di uguaglianza di fronte al
monarca.
Il problema fondamentale è quello del tirannicidio, non c’è autore che non affronta il problema del
diritto di resistenza. Il problema del tirannicidio, il grande interrogativo è se è lecito ai sudditi
ribellarsi ad un governante che si atteggia a tiranno e distingue il tiranno ex parte esercizi, dal tiranno
che abusa del suo potere. Se il tiranno è arrivato al potere abusando, in tal caso è assolutamente giusto
ribellarsi al tiranno che si è comportato in questa maniera. Chiarisce senza grandi interpretazione che è
giusto che il popolo si ribelli al tiranno, quale soluzione pone Bodin al tiranno? quando si comporta in
maniera tirannica si può ricorrere all’intervento della potenza straniera, può legittimamente intervenire
e ristabilire l’ordine costituito e deporre il monarca che è stato eletto legittimamente.

-La religione
L’ultimo elemento è il problema della religione di Bodin, la maggior parte degli studiosi di Bodin
sostengono che facesse proprie le idee dei cattolici, c’è qualche voce più isolata che nega la sua
militanza nel cattolicesimo. A suo avviso, il cattolicesimo rappresentava l’unità dello stato. Infranta
dalla riforma protestante. Cosa suggerisce Bodin? sempre avendo accolto la lezione del politik, in
realtà il monarca per evitare di schierarsi da una parte o dall’altra, quale atteggiamento deve assumere
il monarca? quello super partes, ma qualora optasse per una religione, cattura il consenso dei suoi
sudditi comportandosi secondo i dettami della religione che ritiene migliore. Lo stato si origina
attraverso un processo storico, la religione è uno dei primi elementi per cui l’uomo si umanizza, passa
dallo stato di ferinità ad uno stato civile, attraverso il timore religioso. La religione come freno alle
relazioni, il freno che frena le passioni per cui si trasformano anche in ratio Nel 1576 Bodin pubblica a
Parigi un'opera di teoria politica Les six livres de la République scritta in volgare francese, e
tradotta in latino nel 1582. L’opera rispecchia i problemi della politica francese durante le guerre
di religione che pongono il problema dell’unità dello Stato francese: rivendica l’autonomia dello stato
e sancisce la nascita dello Stato “costituzionale” moderno. Il trattato inoltre riconosce il carattere
fondamentale dello Stato nella sovranità, un potere assoluto e perpetuo proprio dello Stato che non è
soggetto ad alcuna legge fuorché a quella di Dio e della natura. Bodin in questo modo stabilisce il
fondamento giuridico che garantisce la totale autonomia della dimensione pubblica rispetto a quella
privata, giustifica perciò la necessità di una suprema autorità che si ponga al di sopra dei sudditi. I
poteri che rientrano nella sfera della sovranità si riferiscono alla potestà di fare le leggi, di
modificarle, di interpretarle. Esprime dunque il fulcro della sovranità, alla quale si legano tutti gli altri
poteri che sono incisivi per l’esistenza dello Stato:

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1. Dichiarazione di guerra e proclamazione della pace;
2. Esame in sede di appello dei giudizi e dei magistrati;
3. Nomina e deposizione degli ufficiali statali;
4. Imposizione dei tributi;
5. Concessione di grazie secondo la legge;
6. Fissazione del valore legale della moneta;
7. Obbligo di giuramento di fedeltà ai sudditi.

-Lo Stato
Nella République Bodin riprende la stessa definizione di Stato che aveva già dato nel Methodus.
Per Stato si intende il giusto governo che si estende su diverse famiglie. Gli elementi dello Stato
sono:
- La famiglia: gruppo sociale originario e naturale in cui emergono le prime forme di relazioni
fra gli individui che ritrova la sua unità nel potere del pater familias. Per Bodin la famiglia
precede storicamente lo Stato.
- Le cose comuni: costituite da beni, servizi. Lo Stato implica la sfera del pubblico: il
patrimonio comune, il tesoro pubblico, le piazze ecc.
- La sovranità: vero fondamento dello Stato su cui poggiano le leggi, le ordinanze.
- Il giusto governo: sovranità e governo giusto sono legati fra loro in quanto l'uno presuppone
l’altro.

In contrasto con la teorizzazione di Polibio della concezione dello Stato misto, Bodin afferma che
la sovranità appartiene esclusivamente a una persona, nel caso della monarchia, o a pochi nel caso di
un’aristocrazia o ancora al popolo nel caso di una democrazia. La costituzione mista dunque
rappresenta una mera finzione e irrealizzabile. Il tentativo di attuarla determinerebbe inevitabilmente
conflitti tra i diversi poteri per poi degenerare in una guerra civile. L’altra opera di Bodin si intitola
Methodus ad facilem historiarum cognitionem nella quale vengono enunciate le tesi riproposte
ne La République riguardanti il rapporto fra storia e politica. Nell’opera Bodin spiega che
l’uomo è libero nelle sue scelte, nelle sue azioni e che la sua storia non è prestabilita dalla natura,
né dalla volontà di Dio. L’uomo attraverso la sua volontà e autonomia ha creato gli ideali sui quali si
fondano i principi della società. A questo proposito le testimonianze storiche ci informano che le
prime forme di società politiche, soprattutto quelle greche ed ebraiche, siano il risultato di un lungo
processo storico iniziato da uno stadio primitivo dell’uomo, dominato del tutto dagli istinti e dalla
continua lotta per la sopravvivenza. Dunque la società di natura era sostanzialmente ferina,
determinata dalla violenza, sopraffazione e da continue lotte. Bodin osserva che l’uomo inizia a
diventare razionale soltanto quando riesce a svincolarsi dalle passioni e istinti e inizia ad
esercitare la sua volontà, volontà che pone dei limiti all’assoluta libertà. La prima forma di
disciplina della volontà per Bodin è la religione, in quanto essa si esprime attraverso un sentimento
di timore, sottomissione di Dio che spinge l’uomo primitivo ad aggregarsi con altri: si formano così i
gruppi, le famiglie, le tribù. Inoltre la religione ingloba tutte le forme di usi, costumi, leggi, istituzioni.
Queste forme di aggregazione costituiscono le prime forme di politica che per Machiavelli erano
costituite dalla forza e che per Bodin sono rappresentate dalla volontà. Tale volontà nelle istituzioni
politiche è caratterizzata dalle leggi. Quindi per Bodin lo Stato è una volontà che si esprime
attraverso la monarchia assoluta è lo stato più sicuro e il migliore di tutti. La democrazia invece
oltre a disperdere il potere è anche rischiosa per via del progetto egualitario che l'accompagna. La
comunità politica è quindi un governo giusto, cioè ordinato, conforme a certi valori morali di ragione,
giustizia; lo Stato si identifica nel governo, il governo giusto è quello che soddisfa il bene dei

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cittadini e il bene dello Stato. Bene comune e individuale si incontrano; la famiglia è il punto di
partenza, il caposaldo e il modello della comunità politica ben ordinata, è una componente
naturalistica, la prima istituzione. La sovranità è la forza coesiva, unificatrice della comunità
politica, lo Stato non esiste se non c'è un potere sovrano. Per Bodin il principio che fa esistere lo
Stato è il “summum imperium”, la “summa potestas”. La sovranità unisce gli uomini in gruppi
sociali. Bodin, contrario a qualunque tipo di governo misto, distingue i vari tipi di governo ed esclude
la possibilità di dividere le prerogative della sovranità per costituire uno Stato aristocratico o popolare.
La monarchia è il governo naturale, la forma di Stato in cui la sovranità assoluta risiede in un solo
principe. La monarchia di Bodin non è però un sistema tirannico, al di sopra delle leggi del sovrano si
trovano infatti le leggi di natura, riflesso della ragione divina. In questa occasione Bodin distingue i 3
tipi di potere: sovranità, dominato, tirannia. I primi due sono giusti, la tirannia invece non
esprime alcun valore di disciplina e volontà; non si fonda sulla forza, ma sulla violenza. Il sovrano
deve rispettare quindi la libertà naturale dei sudditi e la loro proprietà. Bodin si difende dall'accusa di
assolutismo ricordando di avere chiaramente evidenziato i Limiti del potere sovrano: Il diritto divino
e naturale, le leggi fondamentali del regno concernenti la trasmissione del potere sovrano, il diritto di
proprietà dei capifamiglia, le stesse leggi del sovrano laddove richiamino norme appartenenti ai due
diritti superiori, le obbligazioni assunte con patti e giuramenti anche nei confronti dei propri sudditi e
degli stranieri e il dovere di impartire giustizia guardando al modello supremo rappresentato dal
governo divino del mondo. Non si tratta di una sovranità illimitata, senza leggi morali, è una
monarchia assoluta ma non arbitraria, che permette anche un consiglio permanente, gli Stati generali e
provinciali come organi di consultazione, ma anche corporazioni, comunità, forme di associazione
intermedia tra lo Stato e i sudditi, che non devono travalicare la sfera dell'autorità del sovrano.

8)Suarez

-Vita
Francisco Suarez, Doctor Eximius, pio ed eminente teologo, come lo denominò Paolo V, nacque a
Granada, il 5 gennaio, 1548 e morì a Lisbona il 25 settembre 1617. Entrò nell'ordine dei gesuiti a
Salamanca, il 16 giugno, 1564; e in questa città studiò filosofia e teologia dal 1565 a 1570. Insegnò
filosofia ad Avila e Segovia (1571), e successivamente, teologia sempre ad Avila e Segovia (1575),
Valladolid (1576), Roma (1580-85), Alcalá (1585-92), Salamanca (1592-97) e Coimbra (1597-1616).
Tutti i suoi biografi dicono che fu un eccellente religioso uso alla pratica della mortificazione,
laborioso, modesto e dedito alla preghiera. Godette di tale fama di saggezza, a tal punto che Gregorio
XIII assistette alla sua prima conferenza a Roma; Paolo V lo invitò a confutare gli errori del re James
d'Inghilterra e desiderò trattenerlo presso di sé, per approfittare della sua erudizione. Filippo II lo
mandò all'università di Coimbra per dare prestigio a quell'istituzione e quando Suárez visitò
l'università di Barcellona, i dottori dell'università gli vennero incontro con le insegne delle loro facoltà.
I suoi scritti sono caratterizzati da profondità, da penetrazione, da chiarezza espositiva e testimoniano
l'eccezionale conoscenza del loro autore, sia di autori eretici che ecclesiastici. Bossuet disse che le
scritture di Suárez contenevano tutta la filosofia scolastica; Werner afferma che se Suárez non è il
primo teologo della sua età, è, senza dubbio, fra i primi; Grotius stesso riconosce in lui uno dei più
grandi teologi e profondi filosofi e Mackintosh lo considera uno dei fondatori del diritto
internazionale.

Gesuita spagnolo, a favore del diritto di resistenza. Scrive le opere principali, il tractatus sulle leggi e
sulla legislazione di Dio, è importante perché più che la figura di Francisco in genere, è importante lo
schieramento che fa da sfondo, un movimento che ha il nome dei monarcomachi, nel 1600 fa uscire

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l’opera De rennio e regali potestati. Nell’ambito dei monarcomachi, assume posizioni abbastanza
estreme, addirittura in Italia vi è un autore contemporaneo a Machiavelli, Mario degli alberteschi che
arriva a sostenere che è lecito ad un figlio uccidere il padre che si comporta da tiranno. Il quale
sostiene che il potere deriva da Dio, dice pure che viene dato e ceduto dal monarca dal basso.
Francisco Suarez ammette il diritto di resistenza ma occorre prevederlo anche da un punto di vista
giuridico, si trova su una posizione non estrema, va regolato secondo i dettami costituzionali, inoltre
Suarez è noto per la sua visione, ed è un anticipatore degli internazionalisti, sostiene che vadano
risolti attraverso l’arbitrato internazionale, dati i tempi. Cerca di distinguere potere temporale e
spirituale, riprende la concezione di San Tommaso della comunitas, il potere di autogovernarsi, la
libertà di autogovernarsi che porta a costituzionalizzare la monarchia, il potere politico non nasce nella
communitas, ma nella società, viene dalla comunità il potere politico e non da Dio, identifica:
monarchia e aristocrazia che nascono per consociativismo del diritto positivo, anche la democrazia ma
nasce soprattutto dal diritto naturale perché il popolo ha questa spinta ad autogovernarsi, queste fonti
sono il bene comune, il discorso di Suarez non si ferma alla base ma cerca di andare fuori dal suo
stato, crea un pensiero molto forte in Kant nella pace perpetua che è la nascita del diritto delle genti,
tramite cessione di democrazia che ha l’aspetto da seguire il pacta sunt servanda, questa nasce per
salvaguardare i diritti di ognuno, la guerra la concepisce come una difesa, ma laddove ci sentiamo
minacciati della nostra libertà, credeva che con la diplomazia si gestissero meglio i conflitti
internazionali dopo la guerra.

-Suarismo
Nella scolastica, egli fondò una sua propria scuola, il "Suarismo", i cui più importanti principi
caratteristici sono:
1. il principio d'individuazione degli esseri nella loro propria concreta realtà;
2. la pura potenzialità della materia;
3. il singolare come l'oggetto di una cognizione intellettuale diretta;
4. una distinzione non concettuale fra l'essenza e l'esistenza degli esseri generati;
5. la possibilità di una sostanza spirituale soltanto numericamente distinta da un'altra;
6. l'ambizione per l'unione ipostatica come la colpa degli angeli caduti;
7. l'Incarnazione del Verbo, anche se Adamo non avesse peccato;
8. la solennità del voto solo nel diritto ecclesiastico;
9. il sistema del Congruismo che modifica il Molinismo tramite l'introduzione di circostanze
soggettive, così come dello spazio e del tempo, propizie all'azione della Grazia Efficace e con
la predestinazione ante praevisa merita;
10. la possibilità di difendere la medesima verità sia con la scienza che con la fede;
11. la credenza nella divina autorità contenuta in un atto di fede;
12. la produzione del corpo e del sangue di Cristo tramite la transustanziazione come costituzione
del sacrificio eucaristico;
13. la grazia finale della Santissima Vergine maria superiore a quella degli angeli e dei santi uniti.

9)La corrente del giusnaturalismo

Il primo giusnaturalista della storia fu Ugo Grozio, che lo identifica.

-Clima culturale
Il clima culturale vedeva il tramonto della civiltà medievale, per il nascere delle nuove classi sociali
come la borghesia e delle arti che caratterizzarono tutto il secolo e si contrappone al rinascimento che

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aveva rappresentato una rottura con il passato ma si rifaceva ai modelli classici, venne per tanto
riscoperto un filone di pensiero chiamato: diritto naturale, rivisto sulle basi del metodo scientifico
razionale, la volontà di adattare alla politica le leggi della scienza, che ha degli assiomi
incontrovertibili e immodificabili.

-Rapporto con il passato


I giusnaturalisti evitavano di citare esperienze precedenti facendo minimi pensieri col passato, a
cui spetta l’elaborazione di un idea secondo cui l’uomo arriva al cogito ergo sum, lo stato è
caratterizzato dallo ius naturali, in cui trova una posizione importante l’individuo, è importante
considerare che al diritto naturale si sono ispirati padri costituenti come Thomas Jefferson, c’è
un'attenzione nuova verso alcuni strati sociali per il giusnaturalismo, la struttura delle opere
contengono elementi comuni, l’interpretazione varia da autore ad autore, ci sono una serie di norme e
precetti che provengono dalla ragione, gli elementi della struttura comuni a tutti sono il rapporto tra
governanti e governati, lo stato di natura è la condizione degli uomini precedentemente alla
formazione dello stato, per alcuni buono, cattivo o via di mezzo.

-Formazione dello stato


Per tutti i giusnaturalisti lo stato avviene con un accordo volontario tra le persone, c’è un
avversione ad Aristotele che pensava l’uomo zoon politikon, quindi i giusnaturalisti venivano pure
visti come atei, perché materialisti.

-Nascita
Si parlava dell’inizio del giusnaturalismo facendo riferimento alla scuola del diritto naturale, il cui
capostipite era Ugo Grozio, che scrive l’opera del 1625 “De iure belli ac pacis”, questa idea di far
nascere il giusnaturalismo nel 600, in dottrina è riconosciuta abbastanza erronea, viene tracciato
un lunghissimo excursus che parte da molto prima. Trova linfa vitale nel 600, però possiamo
tentare una periodizzazione, in tre periodi: l’età dei precursori fino a Grozio, l’età della formazione
Pufendorf, Thomasius, la terza età della scuola costituita dagli allievi. Nel 600 trova un grande vigore
ed in qualche modo nel giusnaturalismo le idee confluiscono nell’illuminismo, ma alcuni sintomi li
troviamo nella dichiarazione di indipendenza degli stati uniti ed anche nella dichiarazione dei diritti
dell’uomo e del cittadino, tutti questi concetti sono squisitamente noti anche durante il periodo
rivoluzionario, il vero nemico del giusnaturalismo è costituito dal periodo napoleonico della
costituzione dei codici. Nasce la scuola storica del diritto che si pone in posizione diametralmente
opposta a quella della storia del diritto naturale. Scuola storica del diritto pone in opposizione il diritto
positivo, il colpo definitivo al giusnaturalismo fu dato da Hegel, si impegna dopo Vico a combattere
su tutti i fronti il giusnaturalismo che cade quasi completamente nell’oblio.

-Il diritto naturale


costituisce il fondamento dell’autonomia dello Stato e il presupposto per la costituzionalizzazione del
potere politico.
-Viene ripresa la concezione tomistica della comunità politica, costituita e posta in essere dagli
individui.

-La sovranità
si fonda sul diritto di natura, ed è conseguenza necessaria dell’unione degli individui in società.

-L’essenza del potere politico

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risiede nel comando e, se necessario, nella forza. L’uomo non possiede tale potere, in quanto non può
costringere il suo simile. Perciò il potere non deriva dai singoli individui, ma promana dalla comunità
in quanto unità reale. Si differenzia la potestas economica (potere del padre di famiglia) con la
potestas iurisdictionis (potere politico): il primo è un potere di direzione, mentre il secondo indica
comando e coazione.

-La famiglia come gruppo sociale


non è una comunità perfetta, in quanto non può assolvere a tutte le esigenze dell’individuo e del
gruppo.

-Comunità
concepita come unità reale, e costituisce il principio e la ragion d’essere dell’autonomia,
dell'indipendenza e della libertà della stessa comunità.

-La comunità
sussiste come un insieme organico ed unitario di rapporti fra tutti gli individui che la costituiscono,
avente una sua ragion d’essere autonoma, che la rende superiore ai singoli. (rapporto unità-totalità). La
sovranità non è attribuita da Dio ai monarchi, ma dalla comunità.

-Il potere
dato che attiene al governo della comunità, deve essere sempre finalizzato al bene comune: la
comunità ha il diritto di resistere con la forza al re che si comporti da tiranno.

-La forma di governo


viene scelta dalla comunità: monarchia, aristocrazia o democrazia vengono scelte in base alle
particolari esigenze. La Democrazia corrisponde all’essenza della comunità, in quanto il potere
politico appartiene ad essa. Monarchia e aristocrazia trovano il loro fondamento solo sul diritto
positivo umano, la democrazia anche su quello naturale. La Monarchia è legittimata dall’atto di
concessione del potere politico da parte della comunità, atto irrevocabile ha potere assoluto e deve
quindi essere interpretato come un “patto” con determinate condizioni cui anche il monarca deve
prestare rispetto e se le viola scatta la resistenza attiva.

-Il potere politico


non può rivendicare una investitura divina poiché sulla base del diritto di natura esistono norme
fondamentali che regolano l’esistenza della comunità. Il potere risulta “costituzionalizzato” Deve
agire nell’ambito di norme che hanno un valore superiore alla volontà di chi lo detiene. Diritto di
natura fonte delle norme del diritto positivo. Il genere umano va riconosciuto come un vero
ordinamento. La consuetudine è una fonte del diritto, in quanto tali norme possono essere dedotte
dal diritto di natura, in quanto corrispondono alla natura razionale dell’uomo.

-Le norme del diritto internazionale


consentono la collaborazione fra gli Stati appartenenti a diverse comunità, senza tali norme non è
possibile il miglioramento delle condizioni umane: la società internazionale integra e completa
l’attività dei singoli Stati.

-Il diritto di guerra

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trova disciplina nel diritto delle genti, che sancisce come lecita solo la guerra giusta, combattuta per
difendersi da una ingiusta aggressione prima di intraprendere la guerra però bisogna tentare di
risolvere i conflitti mediante la diplomazia.

-Elementi comuni per cui individuiamo un autore giusnaturalista


Tutte le idee dei giusnaturalisti confluiranno nell’illuminismo, fa piazza pulita di tutto quello che lo
aveva preceduto, cancella e prende le distanze da tutto quello che era stato considerato
precedentemente. Tutti gli elementi che avevano dominato, vengono assolutamente respinti,
l’elemento che viene più rifiutato è la storia.
-Alla base dell’idea giusnaturalista c’è la ragione, considerata fredda, astratta e deduttiva, qualsiasi
problema veniva affrontato al vaglio della ragione.
-L’indagine sulla natura dell’uomo, i giusnaturalisti prefigurano l’uomo allo stato di natura, l’uomo
è dotato di una ragione attiva.
-Lo stato non nasce per un processo storico, ma da un contratto, affinché prenda vigore occorre il
consenso degli individui. Perché gli uomini debbono cambiare lo stato? allo stato di natura gli
uomini sono tutti liberi ed uguali, questo è l’idea dei giusnaturalisti, gli uomini sono esseri dotati
di ragione, per stipulare un contratto occorre la capacità di agire e la capacità giuridica, i
giusnaturalisti parlano della società di natura e della società civile, mentre lo stato viene anche
chiamato società politica, L’uomo è libero e uguale, qual’é il problema dello stato di natura? nello
stato di natura sono tutti liberi e uguali ma partono dall’idea che nello stato di natura sono liberi e
illimitati. Si crea una guerra di tutti contro tutti, necessità di vivere in uno stato che rappresenti
l’ordine. Lo stato pre politico in cui gli uomini sono tutti liberi e uguali: stato di natura. La natura
non offre i beni per tutti, tutti aspirano ad ottenere dei beni, da qui la guerra di tutti contro tutti, il filo
rosso che lega questi autori è il fatto che gli uomini allo stato di natura sono tutti dotati di una
ragione dispiegata, una vis attiva.

10)Hobbes: Ragione, legge di natura e politica

-Contesto storico
Hobbes nacque nel 1588, a Westport, città che lasciò all’età di quindici anni per proseguire i suoi studi
a Oxford, dove scopre il nominalismo e la scolastica. Impegnato come precettore di William
Cavendish, duca di Newcastle, accompagna nel 1610 il suo allievo in Italia ed in Francia. A partire dal
1620, Hobbes lavora con il Cancelliere dello scacchiere e filosofo Francis Bacon, per il quale
manifesta poca stima, ma che gli permette di entrare in contatto con l’ambiente scientifico: acquista
familiarità quindi con la filosofia meccanicista (allora la più avanzata dottrina scientifica nel settore)
e dimostra un grande interesse per i vecchi filosofi materialisti e le ricerche fisiche sulla
conservazione del movimento. Presso i difensori dell’ortodossia teologica, passa per un impostore ed
è vittima dei loro attacchi nel 1624. Tucidide di cui traduce nel 1628 “La guerra del Peloponneso”,
rappresenta per Hobbes un modello della conoscenza, prima che scopra, nel 1629, a Parigi, il
metodo ispirato da Euclide, che inizia ad applicare nel suo breve Trattato dei primi principi. Un
nuovo viaggio nel continente, nel 1631, gli permette di incontrare Mersenne e Galileo. Nel 1640,
mentre scoppia la Prima, cruenta, rivoluzione inglese, Hobbes redige gli Elementi di legge naturale
e politica. Per prudenza, si stabilirà in Francia, dove frequenta fino al 1651, sia Mersenne che
Gassendi (ossia l’ala materialista della filosofia francese del momento), studia l’anatomia con Vésale
ed approfondisce le sue conoscenze in chimica. Più tardi, si legherà d’amicizia con William Harvey,
che aveva scoperto la circolazione del sangue e con il quale condividerà le stesse affinità
metodologiche. Nel 1660, gli Stuart ritornano sul trono e, benché Carlo II non fosse ostile a Hobbes,

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quest’ultimo dovrà difendersi contro numerose accuse di tradimento e di ateismo. Il filosofo muore a
Hardwick Hall, il 4 dicembre 1679. Scrive il de cive e poi il Leviatano, in questo contesto individua
una soluzione di tipo assolutistico, un'autorità forte capace di ristabilire la pace, in entrambe le
opere viene auspicata la monarchia, al pari di Machiavelli considera gli uomini opportunisti, ma
essendo le risorse limitate si creeranno cose di conflitto. Per Hobbes l’amicizia è negativa, perché o
gli serve o è considerato inferiore. Il 21 luglio 1683, l’università di Oxford condannerà il De cive
(uscito nel 1642) e il Leviatano (pubblicato nel 1651) accusando queste opere di attribuire all’autorità
civile un‘origine popolare e considerare il termine “conatus” (il desiderio, o meglio l’istinto di
autoconservazione) come una legge fondamentale della natura. Per capire Hobbes occorre fare un
breve riferimento storico, nasce proprio nel momento in cui la flotta spagnola, minaccia le coste
inglesi, lo spavento della mamma di Hobbes incide molto sulla sua vita, al punto che tutti gli studiosi
riportano questa frase: la paura ed io siamo gemelli. Il Terrore in quel periodo è molto importante, vive
in un periodo in cui vede alternarsi una serie di drammatici eventi, Carlo I viene decapitato,
subentra il lungo periodo del governo di Cromwell, poi c’è il ritorno degli stuart con Giacomo II e
Carlo II, un continuo conflitto tra corona e parlamento e Hobbes non ha la fortuna di assistere alla
vittoria della monarchia costituzionale e non assiste mai alla pace in Inghilterra. Per Hobbes proprietà
privata è un male perché fonte di lotte. Si passa in Hobbes al positivismo giuridico con l’uomo che
accettando la situazione diventa protagonista passivo, Hobbes è considerato un autore di transizione,
critica molto Aristotele per il suo relativismo, ritiene che l’autorità sovrana deve essere unica, i
difetti tipici di un sovrano tiranno si molteplicherebbero per ognuno di loro, Hobbes individua la non
conoscenza specifica del popolo in azioni di governo, per l’importanza del compito spetta solo a pochi
uomini capaci, in una discussione non si cerca mai la verità. Il sentimento che più affligge Hobbes è
la costante paura causata dai continui conflitti dell’epoca. Dunque in questi anni il filosofo
inglese si dedica soprattutto alle questioni politiche. Il suo primo scritto prettamente di natura
politica fu Elements of Law, al quale fa seguito il De cive (la cui prima edizione privata è del 1642) e
al Leviatano (1651), considerato il suo capolavoro. Al rientro in patria, Hobbes si dedica al De
corpore (1655) e al De homine (1658), che compongono con il De cive i suoi Elementi di filosofia.
Teorico per eccellenza dello stato assoluto.

-La filosofia
La filosofia hobbesiana, prendendo spunto dall’indagine meccanicistica e matematico-geometrica di
Cartesio, Galilei e Bacone vuole fondare una filosofia su basi razionali come quelle delle discipline
scientifiche. Questa indagine razionale nasce dalla concezione nominalistica che Hobbes ha del
linguaggio, per cui i nomi che l’uomo dà alle cose sono arbitrari ma necessari per garantire la
comunicazione tra gli esseri umani. Per Hobbes il linguaggio è strettamente connesso al
ragionamento e alla conoscenza. Da queste basi logico-linguistiche il ragionamento di Hobbes
conduce ad un netto materialismo, per cui egli afferma che gli unici oggetti su cui si possa avere
conoscenza sono i corpi fisici, gli oggetti estesi per cui il movimento è la loro essenziale
determinazione. Nella concezione hobbesiana quindi non si può pensare a uno spirito umano
incorporeo, difatti equivarrebbe a dire che non esiste. Allora sia gli oggetti che le sensazioni
prodotte dagli organi di senso sono considerati movimenti, e anche l’immaginazione e il
pensiero, in accordo con la sua teoria della conoscenza, sono fenomeni riconducibili al
movimento, poiché sono generati dal radicamento delle immagini in idee attraverso i sensi. Il
corpo è quindi l’unica realtà, mentre il movimento è la spiegazione più generale dei fenomeni naturali.
Il succedersi di desideri dell’uomo e le decisioni che comportano delle conseguenze buone o
cattive, fanno parte del processo di decisione. Questo processo si compie con l’atto della volontà di
fare o non fare una determinata cosa: il bene è quindi ciò che giova all’individuo, il male ciò che gli
provoca danno. Il desiderio non può mai essere del tutto soddisfatto, poiché a un desiderio e a

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un’azione compiuta se ne succederanno immediatamente di nuove: questo movimento è fondamentale
per la vita umana e, anzi, la assicura, poiché la cessazione del desiderio equivarrebbe alla cessazione
della vita. La filosofia politica di Thomas Hobbes è contenuta principalmente nella sua opera più
celebre, Il Leviatano, ma altrettanto importante è la trattazione contenuta nella precedente
trattazione, il De cive (1642) nel quale affronta il problema del fondamento della società politica e
della sua organizzazione. Si fonda su due postulati, da cui si dipana l’intera trattazione:
1. Ogni uomo è affetto da una bramosia naturale che lo porta a voler godere da solo di quei beni
che dovrebbero essere comuni. Per Hobbes, quindi, l’uomo è un animale mosso da pulsioni
egoistiche.
2. Ogni uomo per natura ritiene la morte violenta il peggior male possibile e la sfugge in ogni
modo; ovvero, in ogni uomo, sin dallo stato di natura, è insito l’impulso
all’autoconservazione.

Contrariamente alla concezione aristotelica dell'uomo come "animale sociale" che tende cioè a
vivere aggregandosi in comune con gli altri, Hobbes è invece convinto che nello "stato di
natura", quando non esiste ancora la società umana, ogni singolo uomo, tende ad acquisire per
sé tutto ciò che favorisce il suo movimento vitale. Poiché infatti ogni uomo tende
all'autoconservazione cerca di procurarsi senza alcun limite tutto ciò che serve alla sua protezione.
Però ciò che fa il singolo lo fanno anche gli altri individui al punto che le azioni di uno si
scontrano con l'uguale tendenza, reazione, degli altri ed allora alla fine si genera la lotta per la
predominanza dell'uno sugli altri, la guerra di tutti contro tutti, dove ogni singolo diviene lupo per
ogni altro uomo (homo homini lupus). L’associazione in gruppi nasce così dal timore reciproco o dal
bisogno, non certo dalla benevolenza. Il timore scaturisce dall’uguaglianza naturale degli uomini,
che li porta a desiderare le medesime cose, e dell'antagonismo che deriva dai contrasti e
dall’insufficienza di beni.

-La concezione dell’uomo


Una visione quella di Hobbes molto pessimistica dell’uomo: l’uomo come tutti i giusnaturalisti,
Hobbes parte dall’indagine, come si comporta nei confronti degli altri uomini, fortemente influenzato
dalle idee cartesiane, dice che nell’uomo si gelano sempre una serie di sensazioni di desiderio e
insoddisfazione. I beni in natura sono pochi, tutti gli uomini aspirano a realizzare questi beni, ha un
continuo desiderio di potere, nell’uomo allo stato di natura prevale una sorta di prevaricazione nei
confronti degli altri uomini, qual è l’obiettivo dell’uomo? quello di sorpassare di continuo chi ci
precede, questo è l’obiettivo, la felicità, superare nella corsa della vita gli altri uomini, abbandonare la
corsa significa morire, qual è l’idea che ha Hobbes dell’amicizia? non esiste l’amicizia perchè uno
dovrebbe essere amico con tutti, lo zoon politikon è completamente ribaltato, contrario di Aristotele,
l’amicizia non esiste, soltanto da chi traggo una certa utilità. L’uomo non solo cerca di prevaricare ed
essere migliore, ma è addirittura aggressivo, qui la guerra di tutti contro tutti fa da sfondo. Tutti gli
uomini sono liberi e tutti gli uomini sono uguali, il famoso ius in omnia, diritto assoluto di tutti con
tutti, l’uomo è libero e ha la libertà fin dove le forze glielo permettono, è ovvio che l’uomo più forte
avrà la meglio sulla persona più debole più anziana, ma la persona può essere più astuta e vincere la
guerra. Come si esce da questo stato di profonda angoscia? Hobbes sa perfettamente che la libertà è
un bene supremo ma anche molto precario, perché si possa trasformare in licenza, per Croce ci
sono sempre due grandi attori: libertà e autorità. Hobbes sceglie l’autorità in questo scenario. La
guerra di tutti contro tutti, Hobbes cerca un rimedio attraverso delle alleanze, o attraverso la forza
perché si può in qualsiasi momento uccidere o con la persuasione cerchiamo di allearci per questo
scopo, uno cede lo ius in omnia per spartire con gli altri alleati.

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-Lo stato di natura e leggi
Dati questi presupposti (l’uguaglianza naturale e la volontà di nuocere al prossimo) lo stato di natura
è uno stato di guerra di tutti contro tutti, continua e costante; Hobbes lo definisce, con una celebre
formula latina, bellum omnium contra omnes. Non essendoci legge, nello stato di natura non vi è
nemmeno una distinzione di giusto e ingiusto e ciascun uomo ha diritto su qualsiasi cosa. Ma siccome
l’istinto naturale dell’uomo lo porta a fuggire il male più grande che può concepire, cioè la morte
violenta, e siccome lo stato di guerra non può che concludersi con la distruzione dell’umanità, la
ragione umana suggerisce l’adozione delle leggi e del vivere civile. Per Hobbes, il primo di questi
vincoli fondamentali è la legge naturale, il prodotto della ragione umana condizionata dal
contesto in cui opera e capace di prevedere situazioni future e di agire nel modo più conveniente.
La legge naturale mira quindi a imporre all’uomo una disciplina che lo protegga dagli istinti
antagonisti e che gli consenta di conseguire un miglioramento della propria vita. Da questi
presupposti derivano tre norme fondamentali della legge naturale:
1. Conseguire la pace se ci sono i presupposti per ottenerla o, in caso contrario, prepararsi al
meglio per la guerra; «Pax est quaerenda» è un principio di natura utilitaristica.
2. Se è necessario al conseguimento della pace, rinunciare al diritto su tutto e avere tanta libertà
quanta ne hanno gli altri rispetto a ciascuno.
3. Osservare la parola data (pacta servanda sunt).

La seconda legge è quella che porta al passaggio dallo stato di natura allo stato civile, ovvero a
quel patto sociale mediante cui gli uomini rinunciano al “diritto su tutto” (ius in omnia) dello stato
di natura trasferendolo a terzi in modo tale che, con la sottomissione della volontà di tutti, si realizzi
uno stato che si ponga a difesa per tutti. Questo trasferimento porta così alla costituzione dello Stato
che assimila in sé la volontà di tutti e colui che lo rappresenta è il sovrano. Hobbes diventa così il
principale e più coerente teorico dell’assolutismo: il “patto” è irreversibile e unilaterale, in quanto il
potere trasmesso al sovrano non può essere revocato dai cittadini, e il monarca non è sottoposto alla
legge di natura, in quanto è lui stesso che legifera su ciò che si deve intendere per giusto o sbagliato. Il
potere sovrano, inoltre, non è divisibile in poteri che si limitino vicendevolmente, poiché il loro
accordo negherebbe la libertà dei cittadini e il disaccordo la guerra civile. Solo lo Stato può quindi
distinguere il bene dal male, all’infuori di quei criteri particolari che ne dissolverebbe l’azione. Lo
Stato quindi deve essere obbedito al di sopra della legge stessa, come il mostro biblico del
Leviatano che incute sottomissione ad ogni nemico: Questa è l’origine del Leviatano: per l’autorità
conferitagli da ogni singolo uomo della comunità, ha tanta forza e potere che può disciplinare, col
terrore, la volontà di tutti in vista della pace interna e dell’aiuto scambievole contro i nemici esterni.

-Chiesa e stato
L’assolutismo hobbesiano si riflette anche sui rapporti che devono intercorrere tra Stato e
Chiesa; per Hobbes, infatti, potere statale e potere ecclesiastico coincidono, poiché non può esservi
un’altra autorità indipendente rispetto al sovrano. Hobbes chiarisce la distinzione tra fede, che
riguarda ogni singolo individuo nella sua intimità, e professione di fede, che riguarda gli atti formali
esterni. Questi ultimi devono essere uniformati per garantire l’unità della Chiesa e, attraverso essa,
dello Stato. L’identificazione della Chiesa con lo Stato e la riduzione della religione nell’ambito
della politica, sono per Hobbes l’unica soluzione in grado di assicurare la pace e la tranquillità alla
società inglese. Le controversie emerse riguardo la nuova organizzazione da attribuire alla Chiesa e il
riconoscimento delle Chiese dissidenti sono state la causa scatenante della guerra civile. Hobbes nega
alla chiesa cattolica qualsiasi sistema istituzionale e soprattutto respinge la sua universalità: la
Chiesa universale per Hobbes rappresenta un regno costituito da uomini che credono in Dio e lo

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riconoscono come il sovrano del mondo, sui quali però non può esercitare nessun tipo di potere in
quanto non rappresenta una realtà fisica. Dunque poiché la sua presenza è del tutto nominale, la Chiesa
cattolica è spogliata di qualsiasi potestà giurisdizionale. In ultima analisi per Hobbes in uno Stato
cristiano non esiste contrasto tra il cristiano e l’autorità politica. Infatti per quanto riguarda le
questioni sulla salvezza dell’uomo il sovrano delega agli ecclesiastici il compito di occuparsene; ma
questo incarico non rappresenta il riconoscimento dell’autonomia della classe sacerdotale, bensì un
potere delegato unicamente dal sovrano.

11)Spinoza: Stato e libertà

-Contesto storico
Spinoza nasce ad Amsterdam il 24 novembre 1632, figlio di Michael e Hanna. La famiglia era di
origine marrana: i marrani erano gli ebrei spagnoli che fecero finta di convertirsi al cristianesimo,
costretti dal re Ferdinando d’Aragona. Il padre di Spinoza emigrò in Olanda in seguito alle
persecuzioni sugli ebrei del re del Portogallo. Nel 1654 muore il padre e entra in società col fratello
Gabriel. Nel 1655 Spinoza fa vari importanti incontri e nell’anno successivo avviene la famosa
scomunica da parte della comunità ebraica. Egli non abiura e non rientrerà mai all’interno della
comunità. Tra il 1656 e il 1658 frequenta la scuola di latino del presunto libertino van Emden e sempre
in questi anni approfondisce lo studio delle opere di Cartesio. Nel 1658 scrive il “Trattato
sull’emendazione dell’intelletto”. Nel 1661 si trasferisce a Rijnsburg e inizia la corrispondenza col
tedesco Oldenburg, segretario della Royal Society di Londra. Sempre in questo anno scrive il “Breve
trattato su Dio, l’uomo e il suo bene”. Nel 1662 inizia a scrivere l’“Etica”. Nel 1663 pubblica
l’unica sua opera uscita in vita col suo nome: “I principi della metafisica di Cartesio, parte I e
parte II” e in allegato i “Pensieri metafisici”. Nel 1665 Spinoza comunica a Oldenborg di aver
iniziato la stesura del “Trattato teologico politico”. Nel 1670 pubblica il Trattato e durante l’anno si
trasferisce all’Aja. Nel 1672 assiste alla trucidazione dei fratelli de Witt, assassinati dalla folla
inferocita a causa dei rivolgimenti politici che porteranno gli Orange al potere. Nel 1673 Spinoza
rifiuta una cattedra di filosofia a Heidelberg, invitato dall’elettore del Palatinato, in quanto sotto
l’autorità statale non si sentiva sufficientemente libero di dire quel che pensava. Nel 1675 si reca a
Amsterdam per curare l’edizione dell’Etica che però non verrà che pubblicata postuma in quanto,
dopo la condanna della censura del Trattato Teologico Politico, preferisce attendere ancora alla
pubblicazione. Nel 1676 riceve la visita di Leibniz e inizia a comporre il “Trattato Politico” rimasto
incompiuto. Il 21 febbraio del 1677 all’età di quarantacinque anni, Spinoza va incontro alla morte.
Nell’anno stesso della sua morte, il suo amico Mayer porta a compimento le opere postume e pubblica
“l’Etica More Geometrica demonstrata”. Spinoza era un ebreo portoghese, lo si considera il
filosofo che ha concepito la modernità, vive nella repubblica delle province unite, protagonista della
prima rivoluzione europea dove una piccola potenza si ribella agli spagnoli di Filippo II che la porterà
alla dichiarazione di indipendenza con la Spagna, dove era lecito praticare le varie sette, sviluppo di
traffici internazionali dove nasce la finanza con la banca di Amsterdam e sutri. Applicò il metodo
scientifico naturale alle sacre scritture, ma arriva ad una conclusione a cui neppure si era permesso,
ovvero l’equiparazione di Dio e della natura, per questo fu cacciato dalla sinagoga per le sue idee
blasfeme, la libertas philosophandi era importante e rifiutò una cattedra ad un principe per questo. Il
trattato filosofico politico del 1670 uscì anonimo e il libro venne condannato al rogo: la scrive
contro i teologi calvinisti rigidi e contro altri. Machiavelli lo definisce uomo acutissimo e
prudentissimo, allo stato di natura sia gli uomini che gli animali hanno il diritto di fare tutto quello
che vogliono etc, per questo il desiderio che porta gli animali e l’uomo ad agire, dipendono dall’istinto
di conservazione per evitare la morte e conservarsi in vita, da qui equiparazione tra diritto e dovere,

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ovvero pesce grande che mangia quello piccolo, creando motivi di corrispondenza diversa, formare
una società civile con un patto con cui gli uomini cedono i propri diritti, non al sovrano ma allo stato
così si forma la democrazia. Il pensiero di Spinoza porta a conclusioni differenti da Hobbes, perché
afferma che uscire dallo stato di natura si arriva all’abolizione tra governanti e governati
attraverso un contratto volontario. Il cittadino è il protagonista della produzione delle norme
statali, il problema per Spinoza è che alle persone è richiesta obbedienza non assoluta e totale
come Hobbes, ma possono non cedere a chi li rappresenta tutte le facoltà, l’unica facoltà che
l’uomo non può cedere è il diritto di pensare liberamente, il diritto di fare quello che posso e non
fare quello che mi è possibile. Mantiene il diritto di pensare liberamente e si traduce in due facoltà:
libertà di coscienza e libertà di pensiero, che diventano le basi per il costituzionalismo moderno.
Questa tolleranza deriva dall’analisi della qualità dell’800. Ritiene quindi che se l’individuo dispone
della libertà di opinione non si generano conflitti e lotte sociali, si tollerava senza promuovere ai
cattolici la propria religione all’interno delle proprie dimore. Traccia un confine tra diritto di
pensiero e diritto di agire. La facoltà di distinguere tra bene e male appartiene solo al sovrano, al
singolo spetta il diritto di cambiare una legge. Siamo in presenza di una repubblica e non una
monarchia, emerge una visione di pluralismo. Spinoza che aveva letto Machiavelli riprende questo
argomento, si darà vita al socialismo, Spinoza come Hobbes pur essendo più libertario nega il diritto
alla resistenza ponendo che se l’autorità nega la libertà di pensiero lo stato si dissolve
automaticamente e si ritorna allo stato di natura. Lo stato non esiste più in quel momento. Il sovrano
perde il potere di sovranità diventando un privato se non un nemico l’uomo ha diritto di difendersi.
Tutti i principi hanno una loro tradizione.

-Filosofia, religione e politica


Spinoza concentrò i suoi interessi nei rapporti tra filosofia, religione e politica per individuare i
principi sui quali fondare l’ordine politico in modo da risolvere i conflitti religiosi che dividevano le
società politiche e garantire la libertà dell'indagine filosofica. Il suo pensiero politico è sollecitato
dalla situazione politica olandese caratterizzata dai contrasti tra i calvinisti ortodossi e quelli che
aderivano all’umanesimo erasmiano. Per Spinoza l’insidia più pericolosa per la ragione è la
superstizione: la situazione di insicurezza e paura in cui si trova l’uomo, spiega come mai esso sia
portato a dare sempre una spiegazione fantastica ai fenomeni naturali e ritenere che le vicende della
sua vita siano determinate da entità da venerare, per ottenere aiuto e libertà dai mali. Le divisioni e i
conflitti dipendono dall’influenza che i teologi e gli ecclesiasti hanno acquistato sul popolo: animati
dall’ambizione si comportano più da retori che da dottori della chiesa, preoccupati di salvaguardare il
proprio prestigio e scalzare gli avversari. Questo ha svuotato la religione cristiana del suo contenuto
per ridurla ad un insieme di pratiche. La religione è degenerata in superstizione.

-Vecchio Testamento: religione e politica


Bisogna procedere ad un esame del fondamento della religione cristiana che si riferisce alle sacre
scritture e al vecchio testamento. Il Trattato teologico politico è il primo moderno tentativo di
spiegazione del testo biblico, condotto secondo criteri scientifici volti a spiegare la Bibbia. Essa deve
essere considerata alla stregua di un documento storico ed interpretata con lo stesso metodo di cui ci
serviamo per gli altri documenti storici. Spinoza ritiene, come Hobbes, che non ci sia differenza tra
la ragione, lume naturale, quale è data a tutti gli uomini e la ragione quale risulta dalla
rivelazione dei profeti: l'insegnamento dei profeti, ai quali è attribuita la rivelazione della parola di
Dio, è formulato con termini ed espressioni ispirati e suggeriti dalla loro immaginazione; quindi
sarebbe sbagliato attribuire alle espressioni profetiche un valore ad un contenuto puramente razionali.
Una lettura attenta della Bibbia ci dimostra che il fine ultimo di ogni uomo è quello di considerare la
conoscenza di Dio come il sommo bene: ma solo il saggio si rende conto dell'autonomia della ragione

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e comprende che la nostra vita deve essere finalizzata all'amore di Dio; il racconto biblico ha invece lo
scopo di rendere partecipe anche la massa. Esiste una conoscenza di Dio fondata sulle opinioni vere ed
è quella che viene offerta dalla Bibbia e che è adeguata alle capacità intellettuali delle masse, e una
conoscenza tutta intellettuale di Dio, propria del saggio. Per Spinoza la natura delle norme che
riguardano il culto divino deve essere cercata nel rapporto che queste hanno con la società
politica. Essa, infatti, è la condizione necessaria affinché gli uomini possano provvedere ai bisogni
materiali e a conseguire il perfezionamento della loro natura. Poiché la maggior parte degli uomini
cerca di perseguire il proprio utile, per fondare e mantenere la società è necessaria l’istituzione di un
potere coattivo che con le leggi riesca a controllare le passioni e le cupidigie degli uomini. Dato che la
natura umana non sopporta la costrizione assoluta, occorre studiare i modi per temperare il potere. La
religione ha il compito di far sì che gli uomini obbediscano più per devozione che per timore;
interviene in ausilio delle leggi dello stato affinché il comportamento della massa si adegui alle
prescrizioni delle leggi. La ragione e la filosofia hanno come oggetto la verità, la conoscenza
intellettuale dell’identità di Dio e natura, mentre la religione e la teologia hanno come oggetto la pietà
e l’obbedienza che debbono essere ispirate alla massa degli uomini.

-La concezione dell'uomo e lo stato di natura


Spinoza considera l’uomo come un dato della natura che ritrova nella sua potenza, nel suo
istinto di autoconservazione, nella volontà di vita, la causa di tutti i suoi comportamenti. Nello
stato di natura l’essere dell’uomo si identifica con la sua potenza, cioè con la forza che è in grado
di esprimere e mediante la quale si serve di tutte le cose che ritiene utili alla conservazione. Gli uomini
sono tutti uguali in quanto tutti si determinano sulla base del puro istinto e non può esistere distinzione
tra bene e male, giusto o sbagliato. Gli uomini dominati da un solo istinto di autoconservazione,
vivono in uno stato di guerra continua, in balia della sorte, senza possibilità di garantire il proprio
futuro. Questa situazione convinse gli uomini che l’unico modo per sottrarsi a questa situazione era di
associarsi per provvedere collettivamente a ciò che è necessario alla sopravvivenza. La differenza tra
la concezione del contratto sociale di Hobbes e quello di Spinoza sta nel fatto che per Spinoza la
formazione della società civile avviene mediante la costituzione di un potere comune che deve essere
esercitato sulla base della volontà di tutti. La natura della società politica è essenzialmente
democratica in quanto gli uomini costituiscono la società in vista della utilità di ciascuno e di tutti e
per sottoporre il proprio comportamento alla guida della ragione. L'uomo perviene alla razionalità
allorché si rende conto che solamente mediante l'istituzione della società riesce ad ottenere una
maggiore utilità e che la società rappresenta un male minore, rispetto a quello cui può incorrere
nella società di natura. Se la società si fonda sulla ragione non si può affermare che gli uomini si
determinino nel loro comportamento solo mediante la ragione: nell’uomo permangono gli istinti
e le passioni che sono i veri moventi delle azioni, ma se potessero manifestarsi con piena libertà
provocherebbero la distruzione della società.

-La sovranità dello Stato: autorità e libertà


Il patto sociale attua un unione tra individui che collegialmente hanno il diritto di disporre di ciò
che appartiene alla società. Il potere sovrano non si distacca e si contrappone, come in Hobbes, alla
totalità dei cittadini, ma si attiene alla stessa collettività, cioè al popolo. Occorre trovare un tipo di
ordinamento politico che possa moderare gli animi e frenare sia i governanti che i governati in modo
che né questi si trasformino in ribelli, né quelli in tiranni. Le difficoltà di un ordinamento politico a
base democratica nascono dal fatto che gli uomini non regolano i propri comportamenti nella società
secondo i precetti della ragione, anzi, spesso si lasciano guidare dal proprio istinto che consiste nella
ricerca del piacere e nel sottrarsi ad ogni impegno che comporti sacrificio e fatica. La prima esigenza
dello Stato è di resistere alla dispersione e disgregazione che sono generate dalle passioni; per

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questo è necessario riconoscere al potere sovrano una larga sfera di autonomia ed una posizione di
indipendenza nei confronti dei cittadini. Su questo punto Spinoza, sulla linea di Machiavelli, Bodin e
Hobbes ribadisce il principio della assoluta obbedienza alla potestà sovrana perché la fedeltà dei
sudditi è la condizione indispensabile affinché possa sussistere la società politica come garanzia di
pace e di sicurezza. L’individuo con il patto sociale ha conferito tutto il suo potere alla collettività.

-Diritto di resistenza
Spinoza non riconosce la legittimità della resistenza attiva nei confronti del potere tirannico. Il
suddito non può contrastare con la forza il tiranno ingiusto in quanto la sua azione avrebbe come
conseguenza la fine dello stato. Spinoza rifiuta quindi il diritto di resistenza attiva e riconosce il
massimo di autonomia ed indipendenza al potere sovrano, ma non vuol dire che egli sia sostenitore del
governo assoluto, che non consente al popolo alcuna libertà. La società politica si costituisce in
quanto è l'espressione della ragione degli uomini, che si rendono conto che con il coordinamento
delle loro attività e il reciproco aiuto riescono a conseguire quell'utile che costituisce l'oggetto costante
delle loro aspirazioni. Per Spinoza utile e ragione coincidono. Il potere dello stato sovrano è
l’unificazione dei poteri dei singoli individui. La democrazia è la forma di governo che più delle
altre rappresenta l’essenza della società politica in quanto realizza la coincidenza dell’utile di chi
detiene il potere con l’utile della collettività. Spinoza nel Trattato teologico politico insiste che non
si può parlare di una cessione totale del potere, si che l'individuo non possa incutere più alcun
timore a chi governa: dobbiamo pensare che l'individuo nel fondare la società si riservi parte della sua
potenza, ma per sua volontà.

-Lo Stato e la libertà di pensiero


Il fine dello stato è la libertà dell’individuo, ovvero l’organizzazione politica deve consentire
all’uomo di vivere in pace e sicurezza affinché possa, mediante la ragione, affrancarsi dal dominio
delle passioni e cooperare con i suoi simili alla realizzazione di una sempre più compiuta vita sociale.
Ogni individuo conserva il diritto di giudicare e la libertà di pensiero che aveva allo stato di
natura; nessun potere può essere concepito così assoluto da poter pretendere di governare i pensieri
dei suoi sudditi, i quali per diritto di natura sono ingovernabili. È assurda la pretesa del potere
politico di imporre ai sudditi determinate convinzioni e di mettere al bando questa o quella filosofia
in omaggio al credo filosofico di chi comanda. Lo stato che lo fa nega la sua ragion d’essere.

-Libertà religiosa
La libertà di pensiero deve essere connessa alla libertà religiosa. Se la religione è autonoma, se il
sommo bene è l’amore intellettuale di Dio, lo Stato deve riconoscere che questa religiosità che si
esplica nel comportamento del saggio è connaturata alla ragione sulla quale si fonda e quindi deve
rispettarla e difenderla. La chiesa dipende dallo Stato perché essa esiste nell’ambito della società
politica e la sua azione è possibile solo se la legge statale la riconosce. La religione è importante ai
fini della salvezza del vincolo sociale, dell’armonia e della disciplina, dato che in essa si esprimono
i valori e i sentimenti che ispirano i comportamenti della maggioranza. È la religione che ispira l’etica
civile su cui si fonda l’ordine politico. Lo stato si fonda sull'autonomia della ragione e il suo fine
ultimo è la libertà di pensiero e religiosa, che è la caratteristica indispensabile affinché lo stato possa
essere autonomo e indipendente, possa porsi come autorità sovrana nei confronti dei singoli e delle
confessioni religiose. Lo stato trova così la sua legittimazione e non ha più bisogno di ricorrere al
diritto divino per giustificare il suo potere di fronte ai sudditi.

12)Locke: Società di natura, società civile e Stato costituzionale

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-Contesto storico
La famiglia di John Locke rappresenta bene l’ambiente puritano, il mondo dei piccoli proprietari,
attaccati alla legge divina ed ai diritti nuovi degli imprenditori, che avrà ragione della monarchia
assoluta. La giovinezza di Locke coinciderà, infatti, con la Rivoluzione inglese (che comincia nel
1642 e terminerà nel 1649) con la deposizione e l’esecuzione del re Carlo I, e con il Commonwealth,
posto sotto l’autorità di Cromwell fino alla morte di quest’ultimo, nel 1658. Il padre di John Locke
prenderà parte alla guerra civile nell’esercito del Parlamento. Il giovane Locke entra alla Westminster
School nel 1647 ed al Christ Church (Oxford) nel 1652. La sua cultura letteraria si estende allora alle
discipline linguistiche, utili all’analisi delle Sacre Scritture. Dal 1666 al 1683, Locke è il consigliere di
lord Ashley, e fa ingresso così in politica nelle file di coloro che vogliono limitare il potere degli
Stuarts, restaurati sul trono dal 1660. Parteciperà anche alle attività dei whigs contro Carlo II. Nel
1671, inizia ad elaborare ciò che diventerà il Saggio sull’intelletto umano. Locke farà un lungo
soggiorno in Francia (particolarmente a Montpellier dal 1675 a 1677), e nel 1684, egli si stabilirà in
Olanda, a Utrecht. Rientrerà in Inghilterra soltanto nel 1689, poco tempo prima che Guglielmo
d’Orange diventasse re dell’Inghilterra e che la sovranità del Parlamento fosse definitivamente
garantita. Questo stesso anno appaiono, in forma anonima, i due Trattati sul governo. La Lettera sulla
tolleranza, apparsa in latino nel 1689 nei Paesi Bassi, è tradotta in inglese nel 1690, anno della
pubblicazione del Saggio sull’intelletto umano: quest’ultimo sarà oggetto di modifiche, nel corso delle
quattro edizioni successive (1694, 1695, 1700, 1706). La traduzione francese del Saggio, apparsa nel
1700, susciterà in reazione il lavoro di Leibniz, Nuovi saggi sull’intelletto umano, che tuttavia sarà
pubblicato soltanto nel 1765, dopo la morte dei due filosofi.
La vita pubblica di Locke- ricevette la nomina, nel 1696, di Commissario dell’Ufficio del commercio
e delle colonie - fu soprattutto dedicata alle riforme monetarie, alla creazione della Banca d’Inghilterra
ed alla questione delle colonie. La sua opera filosofica, con i Pensieri sull’istruzione (1693) e
soprattutto il Cristianesimo ragionevole (1695), che causò una polemica con il vescovo Stillingfleet
sulla questione della Trinità, inaugurò le grandi querelle tra liberi pensatori e teologi. Dopo avere
redatto il suo “discorso sul metodo”, Della condotta dell’intelletto, Locke morì nel 1704. Per Locke,
la scienza abbraccia tre domini: la fisica, o filosofia naturale, che indaga la costituzione, la proprietà
e le operazioni dei corpi e degli animi; l’etica, che determina le norme che conducono alla felicità ed
alla retta condotta; la semiotica, o scienza dei segni. →Questa interpreta le parole, che rappresentano
le nostre idee, e le nostre idee, che sono i segni delle cose. Locke vive nel vivo conflitto tra la corona
e il parlamento che affonda le radici in tempi più lontani, nasce nel 1200, muta dalla parola latina
parlamentum e inizialmente costituivano una sorta di grandi assemblee di stato cui partecipavano
grandi ereditari di corte o ecclesiastici che avevano una funzione molto meno evidente etc. Il
parlamento aveva una funzione meramente consultiva, costituiva una sorta di anello tra il vertice e la
base, collegava la periferia al centro e il monarca attraverso il parlamento riusciva a calibrarsi sulle
esigenze dei suoi sudditi. Andò diffondendosi la formula che ciò che riguarda tutti da tutti deve
essere approvato. Il potere viene dal basso verso l’alto. Locke incontra uno dei personaggi più di
rilievo: lord Ashley che divenne conte di Sharburry, era un personaggio di grandissimo spessore,
sostenitore della difesa delle colonie, il quale diventa gran cancelliere d'Inghilterra, assumendo delle
posizioni contro la monarchia assoluta, posizioni anti-stuart, viene appoggiato dal parlamento e ricopre
queste cariche, gli capita di cadere in disgrazia, l’incontro con lord Ashley di Locke fu fatale, dando
per scontato che lui guarisse Ashley dalla malattia, lo segue e rimane profondamente colpito anche
politicamente, infatti la politica condotta da Lord Ashley influenzò molto il pensiero di Locke, e
fu costretto a lasciare L'inghilterra per la Francia (il lord) ma presto torna in Inghilterra e divenne
presidente del consiglio privato del Re, dopo fu arrestato per le sue idee e quindi fu costretto a lasciarla

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definitivamente e si trasferisce in Olanda, anche Locke lascia l’Inghilterra va in Olanda e diventa
amico di Guglielmo D’Orange, siamo arrivati al 1688-1689 con Guglielmo viene a crearsi in
Inghilterra la monarchia costituzionale, essendo fuggito dall’Inghilterra viene visto come se avesse
lasciato il trono, segna la fine della monarchia assoluta. In Olanda elabora le sue grandi opere, tra i
tanti problemi politici, rimase molto influenzato dalla politica liberale di Ashley scrive ben due opere,
un saggio sulla tolleranza elaborato insieme al saggio sull’intelligenza umana, e poi l’epistola
sulla tolleranza. Negli ultimi anni si preoccupa poi di temi economici, con riscontro
nell’elaborazione della sua teoria politica. Grande capolavoro i suoi due trattati sul governo, l’opera
nella quale sono contenuti i temi principali del pensiero politico di Locke, i due trattati sul
magistrato civile, opera che va citata perché è la testimonianza delle iniziali posizioni di John
Locke, le prime erano orientate presso temi Hobbesiani, Locke agli inizi della sua elaborazione
politica si appassionò dei temi Hobbesiani al punto di scrivere quest’opera in un certo senso. In
questo excursus ideologico Locke fu profondamente influenzato dall’amicizia con Lord Ashley,
in quest’opera lui si allinea alle posizioni Hobbesiane, di difesa della monarchia assoluta.

-I due trattati sul governo: polemica a Filmer


perché sono due trattati? il primo sul governo ha una impostazione completamente
storica-polemica, nel secondo invece espone quello che è il suo sistema dottrinale, nel primo
trattato è un'opera polemica che si riallaccia anche ad elementi storici, in questa opera Locke
polemizza con un altra opera, il cui autore era Robert Filmer, si chiama patriarca o il potere
naturale del Re. L’opera fu scritta prima del 1653, quello che è sicuro è che quest’opera fu composta
prima della morte dell’autore, ma uscì 27 anni dopo nel 1680. Robert Filmer vuole sostenere una tesi
importante vuole dimostrare che il potere assoluto dei monarchi deriva direttamente dal potere di
Adamo, il monarca tout court deriva da Adamo, era una tesi inconcepibile come si poteva
dimostrare che il potere dei re deriva da Adamo, era impossibile dimostrare una cosa del genere,
perciò nella prima parte Locke prende una posizione contro Robert Filmer, in quest’opera
manifesta tutte le sue idee liberali e parla anche delle prime aperture democratiche. Nel pensiero
politico di Locke, il contrasto è politico e non ideologico, attacca Filmer da questo punto di vista. Nel
secondo trattato sul governo Locke elabora le sue idee: Locke come gli altri giusnaturalisti indaga
sull’origine della società dello stato, come si atteggia l’uomo nello stato di natura? Per Locke in
primis nello stato di natura esiste il bene e il male, il giusto e ingiusto, per Locke tutti gli uomini sono
liberi ed uguali, non bisogna mai attentare quello che non vorresti fosse fatto a te, in primis per Locke
esiste una legge di natura che è sacrosanta, questa legge insegna a tutti gli uomini che nessuno
dovrebbe mai nuocere agli altri nella vita, nella salute, nella libertà e nella proprietà e nei possessi

-Stato di natura
Un altro elemento che distingue Locke dagli altri, questo è un elemento fondamentalissimo nel
pensiero di Locke, parla dello stato di natura dove l’uomo lavora, introduce nella sua elaborazione
l’idea del lavoro. L’uomo lavora, presume che l’uomo trasferisca le sue energie sul prodotto su cui
lavora. Inizia così ad introdurre in maniera molto più sfumata l’idea della proprietà, perciò dal
momento che trasferisce le energie quell’elemento diventa suo, se io entro in possesso di alcuni frutti,
quando divento proprietario di quel frutto? dal momento in cui lo colgo, dal momento in cui lo
mangio, proprietario di quel frutto quando trasferisco le mie energie su quel frutto, di qui nasce il
concetto della proprietà privata dalla fase iniziale dello stato di natura. La proprietà è lo ius
excludendi omnes alios, questa è la proprietà, l’uomo lavora, trasferisce le sue energie ed esige quel
pezzo di terra sul quale lui ha trasferito le sue energie, quel prodotto è frutto del suo sangue, delle
energie, poi Marx supera di certo questo concetto. L’idea che Marx riprende da Locke, dovrebbe
essere suo, aveva ragione che per chi lavora c’è sempre chi sfrutta, tutto si adagia, l’uomo quindi

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lavora, non tutti gli uomini, ma in generale Locke si rende conto che se accumuli eccessivamente un
bene rischi di nuocere ad altri, l’uomo deve razionalizzare anche l’uso della proprietà, se accumulo
decine di mele, ghiande frutti è ovvio che di questi beni privo altri individui, di lavorare e godere di
questi frutti, anche la proprietà privata va razionalizzata, Locke dice in fondo i beni che offre la
terra sono deteriorabili, fondamentale è l’idea dello scambio, di qui inizia il discorso della moneta,
per evitare che il bene sia deteriorabile, poi Locke approfondisce molto l’idea del consumo.

-L’individuo e la società politica


Diritto di autotutela Ci sono i buoni e i cattivi nello stato di natura, questo è un ragionamento di
Locke, succede che nello stato di natura esistono anche dei degenerati, può succedere che un
degenerato privi della forza o della salute, quindi violi i quattri principi sui quali si basa l’idea
Lockiana di legge di natura, tutta la comunità ha interesse a liberarsi del degenerato, perché la figura
del degenerato va a destabilizzare l’armonia dello stato di natura, sarà la persona offesa che cercherà di
farsi valere col degenerato, tutti gli altri è vero che vorranno liberarsene ma incute paura, sono io che
finisco per diventare parte in causa o giudice e avrò interesse, allora finisce che la persona offesa
finisce per essere giudice e parte in causa, perché nello stato di natura non esiste chi assume la
funzione giurisdizionale, ci sarà una guerra che si presenterà solo in un secondo momento quando
l’individuo dovrà far valere il diritto di autotutela, se non c’è un istituto che mi difende anche la parte
offesa compie gesti ingiusti, tenderò ad irrogare una sanzione superiore all’effettivo danno subito, ad
enfatizzare il danno ricevuto, rischia di irrogare una sanzione a punire il suo aggressore in maniera più
forte del danno subito. Questo è il problema che pone Locke nello stato di natura, è certo che
questa terra che non è endemica allo stato di natura, l’altro aggressore si difende da qualcun altro
ancora, se tutti gli uomini fossero bravi e si occupassero della comunità tutto questo non succederebbe,
ma non è possibile che non ci siano degenerati e che quindi si crei la guerra, occorre individuare un
sistema che garantisca la vita, la salute, la libertà e la proprietà e il possesso dei beni. Quindi anche
per Locke lo stato nasce come male minore, ma a differenza degli altri due giusnaturalisti io cedo i
diritti alla nuova struttura cui darà vita, ma lo stato che si andrà a creare lo creeremo attraverso un vero
e proprio contratto, ci sono degli obblighi giuridici mancando i quali Locke ammette la resistenza
attiva. Prima possibilità: il potere esecutivo emana i decreti, questi provvedimenti emanati
vengono ratificati tranquillamente dal potere legislativo che ammette che sono adeguati, i decreti
emanati dall’esecutivo non sono opportuni, rifiuta di fare la ratifica e suggerisce all’esecutivo di fare
questi elementi. Questi provvedimenti entrano in vigore, se io vivo la minaccia di uno stato
nemico che sta per invadere il mio territorio è ovvio che le decisioni saranno repentine, il potere
legislativo si rifiuta di dare la ratifica perché crede che siano sbagliati, si cerca di arrivare ad una
posizione diplomatica, non si riesce neanche a conciliare le due posizioni Si crea una
conflittualità dei due poteri, in primis si cerca per via diplomatica di sedare questi due conflitti,
qualora non si trovasse un accordo interviene il popolo con il diritto di resistenza che dovrà
essere obiettivo, Locke crede che abbia una funzione primaria, addirittura lui parla di un appello al
cielo nella sua spiegazione, secondo il linguaggio di Locke si ritorna allo stato di natura perché il
popolo si riprende il diritto di autotutela che si realizza nello stato di natura. Nel potere legislativo ed
esecutivo occorre usare la ratio e emanare provvedimenti per evitare lo strumento della
resistenza attiva. Sarà il popolo che interverrà e dovrà rivoltarsi anche contro il parlamento se serve.
Quale messaggio vuole trasmettere Locke? due poteri in funzione debbono sempre e comunque
utilizzare il loro potere a favore degli interessati, della collettività altrimenti ritorna lo stato di natura.
Locke è molto interessato al problema religioso affrontato sul saggio sulla tolleranza e l’epistola, già
il titolo recita in maniera chiara che era molto sentito a Locke, lui distingue dalle azioni esteriori a
quelle interiori. Significa che qualsiasi credo religioso, nessuno può intervenire nell’animo, per i
giusnaturalisti solo Dio conosce i cuori, per quanto riguarda le azioni esteriori Locke dice che qualsiasi

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popolazione può decidere le regole religiose, un massimo rispetto da parte dello stato per le azioni
esteriori, a queste azioni lo stato non deve intervenire a regolarle, chi trasgredisce sarà punito
dall’istituzione religiosa di riferimento, lo stato ha il dovere di intervenire quando gli ordini emanati
dall’istituzione ecclesiastica vadano a nuocere le norme emanate dallo stato. Unica eccezione: l’altro
atteggiamento di rifiuto non si sa se è dovuto a motivi personali o altro, è nei confronti della chiesa
cattolica, c’è una certa riserva nei confronti dei cattolici, lui accusa il cattolicesimo di un eccessivo
dogmatismo e agli eccessi dell’inquisizione. Nell'ambito della riflessione politica, Locke cercò di
ideare un sistema basato sull'utile della convenienza, che potesse fornire il miglior vantaggio per tutti.
Dapprima gli parve che solo lo stato assolutistico hobbesiano potesse garantire il raggiungimento di
questi scopi. Ma in seguito al fallimento della restaurazione monarchica degli Stuart, egli si convinse
che lo stato assoluto non si adattava alle tendenze naturali che gli uomini cercano di assecondare
unendosi in società.

-Patto sociale
Anche per Locke come per Hobbes lo stato di natura è caratterizzato da una condizione di
eguaglianza degli individui. Mentre per Hobbes si tratta di un’uguaglianza basata sulla forza,
per Locke è un’uguaglianza di diritti. Nello stato di natura ogni uomo è quindi libero, non
sottomesso perciò ad alcun potere: gode di un diritto ”naturale” alla vita, alla libertà e alla proprietà.
Per Locke dunque lo stato di natura non è necessariamente uno stato di guerra come lo
intendeva Hobbes, ma una condizione di pacifica convivenza. Lo stato nasce come difesa dalla
guerra. Per Locke la natura e i contenuti stessi del patto tra sudditi e sovrano erano profondamente
diversi da quelli teorizzati da Hobbes. Lo stato di natura, inteso come la condizione iniziale
dell'uomo, secondo Locke non si manifesta come un "bellum omnium contra omnes" ma come
una condizione che può invece portare a una convivenza sociale. Locke partiva dalla teoria del
contrattualismo (già avanzata da Thomas Hobbes e ripresa poi nel celebre Contratto Sociale di
Jean-Jacques Rousseau). Nello Stato di natura tutti gli uomini possono essere uguali e godere di una
libertà senza limiti; sorge a questo punto l'esigenza di uno stato, di una organizzazione politica che
assicuri la pace fra gli uomini. A differenza di Hobbes, infatti, Locke non riteneva che gli uomini
cedessero al corpo politico tutti i loro diritti, ma solo quello di farsi giustizia da soli. Lo Stato non
può perciò negare i diritti naturali, vita, libertà, uguaglianza civile e proprietà coincidente con la
cosiddetta property, violando il contratto sociale, ma ha il compito di tutelare i diritti naturali
inalienabili propri di tutti gli uomini. Locke infatti sosteneva la doppia natura pattizia, come nella
più autentica tradizione giusnaturalista: Pactum Societatis e Pactum Subiectionis. In Hobbes,
invece, i due patti erano unificati nel patto d'unione secondo il quale i sudditi, emancipandosi
dallo stato di natura alienavano tutti i diritti al sovrano, tranne il diritto alla vita. Infatti il
sovrano, se non avesse mantenuto in capo a questi ultimi il diritto alla vita, avrebbe corso il rischio di
essere esso stesso ucciso. In Locke, invece, nel passaggio dallo stato di natura allo stato civile o
politico il suddito conserva tutti i diritti tranne quello di farsi giustizia da sé. Il passaggio allo
stato civile o politico è indispensabile proprio per tutelare tutti i diritti che lo stato di natura
assegna all'uomo a partire dalla proprietà stessa. Questo comporta, quindi, l'istituzione di nuove
figure atte a far rispettare questa disposizione: i magistrati, i tribunali e gli uomini di legge.

-La distinzione dei poteri


Per Locke il potere non è e non può essere concentrato nelle mani di un'unica entità, né tanto
meno è irrevocabile, assoluto e indivisibile. Il potere supremo è il potere legislativo, non perché
senza limiti, ma perché è quello posto al vertice della piramide dei poteri, il più importante. È il potere
di predisporre ed emanare leggi e appartiene al popolo che lo conferisce per delega ad una figura
preposta ad adempierlo. Subordinato al potere legislativo, c'è il potere esecutivo che appartiene al

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sovrano e consiste nel far eseguire le leggi. Successivamente Locke individua altri due poteri
ascrivibili ai precedenti: il potere giudiziario rientrante nel potere legislativo, è preposto a far
rispettare la legge, la quale deve essere unica per tutti e deve far sì che tutti siano uguali di fronte ad
essa e che ci sia certezza del diritto (principio di legalità). Quindi il potere legislativo esplica due
funzioni: quella di emanare leggi e quella di farle rispettare. Il potere federativo - nel significato
derivato dal latino foedus, patto- che rientra nel potere esecutivo e prevede la possibilità di muovere
guerra verso altri Stati, di stipulare accordi di pace, di intessere alleanze con tutte quelle comunità
extra - pattizie, ovvero che si collocano al di fuori della società civile o politica. Se così non fosse
stato, il popolo aveva il diritto di resistenza contro un governo ingiusto.

-La libertà politica e l’ideale della tolleranza


Ne l’Epistola sulla tolleranza scritta nel 1685 originariamente pubblicata nel 1689 in latino e
immediatamente tradotta in altre lingue, Locke affronta il problema della tolleranza religiosa in un
periodo in cui si temeva che il Cattolicesimo potesse prendere il sopravvento in Inghilterra
alterandone la funzione di Stato laico. Scrive anche un saggio sulla differenza dello stato e della
chiesa nel 1773 nel quale ribadisce la posizione della chiesa, la quale deve rimanere una sfera
separata. Locke svolge così le sue considerazioni: egli ritiene che le rivelazioni religiose, contenute
nelle varie scritture delle religioni positive, siano accomunate da alcuni principi di fondo,
semplici dogmi, dettati dalla natura stessa e validi per tutti per la loro intrinseca razionalità. In
questa sua concezione di una religione naturale prevalente e antecedente alle religioni positive,
Locke anticipa le posizioni che saranno proprie del deismo. Proprio perché la religione naturale è
razionale, i suoi semplici dogmi possono essere rispettati da tutti senza difficoltà, e non v'è alcun
motivo per cui lo stato debba imporre una determinata religione positiva. Lo Stato deve invece
essere laico, anche perché un'eventuale violazione di queste sue necessarie caratteristiche
sarebbe controproducente: scaturirebbero lotte religiose destinate a gravi conseguenze anche
politiche.

-Hobb, Spin, Lock a confronto


Hobbes Spinoza Locke

Proprietà privata esiste lo ius in omnia, la proprietà privata non elemento essenziale già
tutti gli individui dello può esistere nello stato nello stato di natura, per
stato di natura hanno di natura Locke ius excludendi
gli stessi diritti sui omnes alies
beni offerti dalla
natura, naturalmente
per Hobbes non esiste
la proprietà privata

Cessione dei diritti l’uomo cede tutti i l’uomo cede quasi tutti i gli uomini si limitano a
diritti anche quello diritti tranne la libertà di delegare il potere al
alla vita pensiero monarca che però deve
garantire tutti i diritti
naturali, qualora non lo
facesse esiste il diritto di
resistenza

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Contratto si entra nel contratto si entra nel contratto in esiste un vero e proprio
in senso senso unidirezionale, il contratto che prevede
unidirezionale, il monarca preferisce la prestazioni corrispettive
monarca preferisce la monarchia obbligatorie, lo stato deve
monarchia ottemperare agli impegni
presi

Uguaglianza deve essere assoluta non evidenziata deve esistere anche un


uguaglianza politica, non ci
devono essere troppe
distinzioni neanche tra
uomo e donna

Forma di governo monarchia assoluta democrazia con prevede una monarchia


obbedienza assoluta costituzionale, stato
liberale con superiorità del
potere legislativo
sull’esecutivo

Libertà tutto ciò che le forza l’uomo può fare tutto l’uomo è libero da ogni
gli permettono, ciò che gli è dettato potere superiore ed è
nessuno ci obbliga ad dalla natura sottomesso solo alle leggi
obbedire alle leggi di di natura
natura

Stato di guerra endemico endemico viene in un secondo


momento per tutela dei
propri poteri

Bene o male non esiste differenza non esiste differenza è presente forza giusta e
nello Stato di Natura nello Stato di Natura violenza quindi esiste bene
e male

Criterio di giustizia non vi è l’idea di non vi è l’idea di giusto presenza di forza giusta e
giusto ed ingiusto ed ingiusto nello Stato forza ingiusta
nello Stato di Natura di Natura

Diritto di resistenza resistenza passiva resistenza passiva resistenza attiva

Funzione strumento assoluto del strumento assoluto del strumento attivo del potere
dell’individuo potere potere

Partecipazione non partecipa alla vita non partecipa alla vita partecipa
dell’individuo alla politica politica
vita dello Stato

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13)Vico: Politica e storia

-Vita
Vi è una ragione illuministica dove si ha un esclusivo primato della ragione che costituisce un dato
fondamentale. L’illuminismo è la continuazione della visione giusnaturalistica, gli illuministi
finiscono per glorificare la ragione. La ragione nell’atto del conoscere nella sua essenza è
sostanzialmente libertà, la ragione è inscindibilmente connessa con la storia. La visione del rapporto
ragione-storia si sostanzia in una frase di Vico pronunciata e interpretata così: ragione e storia si
sostanzia nell’esigenza di risolvere criticamente la ragione naturale per affrontare la ragione storica.
La prima visione della ragione illuministica, ragione glorificata, seconda visione rapporto
ragione-libertà, terza visione rapporto ragione-storia. Vico nasce a Napoli nel 1668 da famiglia di
umili origini, numerosa, il padre gestiva una piccola attività di libraio, Via San Biagio dei Librai dove
Vico viveva, inizia i propri studi da gesuita, sono legati soprattutto alla grammatica, logica e
retorica, si allontanò e comincia ad elaborare gli studi della metafisica di Suarez. Il padre teneva ai
suoi studi giuridici e lui li iniziò, però non frequentò le lezioni di diritto civile e canonico perché lui si
definiva autodidatta e riesce a prendere la laurea in giurisprudenza. Arrivò ad essere precettore per i
figli di Domenico Rocca e sembra che lui elaborasse e si impegnasse per il suo sistema dottrinario.
Ritorna a Napoli e vince la cattedra di retorica, anche se aspirava alla cattedra di diritto civile,
quando ricopre questa cattedra, pronuncia 7 importantissime orazioni, che costituiscono l’inizio
della riflessione di Vico sui grandi temi che andrà a sviluppare nel corso delle sue opere, una in
particolare del 1708: l’ordine degli studi dei nostri tempi, il “de ratione”, opera importante perché
rispecchia la cultura del suo tempo. Nel 1710 scrive un altra opera che dedica ad un suo conoscente
Mattia Doria: “La sapienza degli antichi popoli italici”. Pone le base del suo sistema, scrive un'opera
storica sulle gesta di Antonio Carafa che pubblicò nel 1716, poi segue la pubblicazione di due grandi
opere, una nel 1720 chiamata il “De Uno” molto complessa, poi il “De Constantia iuris prudentes”
nel 1722, entrambi raccolte in un capolavoro vichiano che è il “Diritto universale”, opera molto
importante e complessa. Gli anni passati nel Cilento sono gli anni in cui Vico medita e riflette anche
sul suo rapporto col giusnaturalismo, esce la sua opera che esce prima col titolo Scienza Nuova
in forma negativa che va perduta in cui sono poste le basi del suo sistema politico-filosofico. La
scienza nuova viene smarrita e Vico ripubblica riprendendo i temi della scienza nuova in un'altra
opera che si chiama: “Principi di una scienza nuova” che esce nel 1725, il suo carattere
particolare lo porta ad una sorta di perfezionismo perciò va un pò in confusione spesso, riscrive la
scienza nuova traendo solo i punti fondamentali e nel 1730 esce la “Scienza nuova II”, che
comunque non soddisfa Vico che continua a riportare modifiche, aggiornamenti e miglioramenti.
Muore nel 1744 e i suoi seguaci elaborano la “Scienza nuova II”, riescono a reinserire le aggiunte che
aveva fatto Vico e postuma esce la Scienza nuova II aggiornata.

-La critica
è stata molto severa con Vico, generalmente in dottrina gli studiosi erano d’accordo a paragonare
Vico ad Hegel infatti viene chiamato l’Hegel italiano, ma gli ultimi studiosi negli ultimi vent’anni
hanno voluto separarli. Bobbio ci rende molto l’idea della personalità Vichiana: non fu un uomo del
suo tempo, per un certo tempo fu in ritardo e per un certo tempo in anticipo, i cattolici lo condannano
come un eretico, i cartesiani come stravagante, ora tutti lo vogliono per se, i cattolici lo fanno
seguace gli altri lo esaltano, per capire Vico occorre capire l’anima del filosofo tradizionale e
quella dell’innovatore, legate dal filo unitario del suo profondo anti-illuminismo. Vico fu molto
disdegnato dal suo tempo, viene considerato un filosofo solitario, condusse una battaglia di
retroguardia, andò contro tutto e tutti e fu disdegnato, ostacolato dai filosofi cartesiani e disdegnato

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anche dalla cultura cattolica. Era consapevole di questo rifiuto, al punto tale che quando esce la sua
scienza nuova lui vuole farne un omaggio ad un suo amico, un tale Giacco, recentemente è uscito un
saggio di Gaetano Calabrò, scrive un contributo che si chiama L’uomo nuovo di Vico e racconta
questo episodio, Vico manda un esemplare della sua scienza nuova a questo Giacco, scrive “io fo
come l’avessi mandata nel deserto” sapeva perfettamente che avrebbe riscosso solo critiche. Vico è
legato in senso stretto al pensiero politico di Gravina, con ambienti in comune, Vico mostra parole
di grande esaltazione del pensiero di Gravina e lo considera uno dei suoi studiosi contemporanei
importanti. Inoltre per quanto riguarda il rapporto di Vico con Cartesio: Cartesio modello dei
giusnaturalisti, cominciamo col dire che Vico entra in contatto amichevole con l’ambiente dei
cartesiani, sembra muoversi con personaggi come Leonardo di Capua, anni di profonda
contaminazione intellettuale, stagione florida, la Napoli della fine 600 e inizio 700 una sorta di culla
della società.

-Contesto storico
Vive un periodo di grandi riforme di Carlo III di Borbone, grande rinascita intellettuale e politica
ma questo sembra non cogliere Vico, che conduce una battaglia diversa, va controcorrente,
sembra essere del tutto sordo a questo movimento. I suoi contemporanei lo definiscono, il forestiero
nella sua patria, Vico agli occhi dei suoi contemporanei, si dirige in tre direzioni:
-contro le opere cartesiane,
-contro la cultura laica di ispirazione cartesiana avversa contro qualsiasi cosa spirituale,
-verso una cultura di una classe politica dirigente nuova che viene chiamata quella del ceto
civile, una nobiltà di toga forse di borghesia costituita da ufficiali, notai, legati al mondo giuridico e si
definivano i novatori, anticurialisti.
Vico si pone contro tutte e tre. La chiesa cattolica rimproverava a Vico perché credevano che lui
rifiutasse l’idea dell’Eden, anche se non vero. Per quanto Vico sapesse di aver scritto opere
impegnative non si è mai reso conto dell’importanza del suo genio, questi dichiara di essere debitore
e di essere stato influenzato da quattro autori: Platone, Tacito, Bacone e Ugo Grozio. Lui ha una
profonda cultura romanistica quindi si capiscono i primi tre, ma non si capisce la dipendenza da
Grozio, perché considerato infatti il padre fondatore del giusnaturalismo moderno, quando lui
stesso dichiara di voler superare il giusnaturalismo e creare una nuova filosofia che si opponesse.
Sicuramente Vico deve aver attinto molto dalla filosofia Groziana, trova punti di contatto, fu un
progressivo distacco da essa, si parla infatti di giusnaturalismo rovesciato e di un seguace di
Grozio a rovescio, porsi in posizione critica e si possono trovare riferimenti a Grozio separati dal
suo essere giusnaturalista.

-Bodin e Vico
Vico considera Bodin un grandissimo giurista, il più erudito come lo definisce lui degli ultimi
politici, tuttavia dedica il 7 capitolo nella quinta sezione a confutare alcuni principi dei suoi, lui in
particolare travisa la famiglia di Bodin, quella di Vico è una famiglia allargata, Vico li chiama Famoli
e Bodin i servi, clientes del mondo romano. Molti sono punti di convergenza tra i due: rapporto
politica-storia-diritto, il concetto di immanenza divina in tutti gli eventi umani, l’origine della
società civile. Bodin vive prima, aveva ritenuto che lo stato nasce attraverso un processo storico,
l’elemento di fondo è la forza: lotta tra genti maggiori e minori anche Vico sostiene ciò ed inoltre la
forma di Stato in entrambi è lo stato autoritario, monarchico, l’errore di Vico è quello di fare dello
stato assoluto lo stato del suo tempo. Nonostante Vico caldeggia la famiglia assoluta, ma per Bodin
era costituita dai pater familias dalla moglie dai figli e dai servi, non è una famiglia nucleare ma
partecipano anche i servi, con rapporto di tutela etc, anche per Vico c’è la famiglia intesa il pater
familiarum e poi i famoli, non sono famiglie nucleari ma allargate.

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-Giusnaturalismo e realismo politico
Nel dottrinarismo politico della seconda metà del Seicento si afferma il primato della ragione di
contro alla tradizione e a qualsiasi forma di autorità: la ragione è in grado di fornire tutte le regole
per organizzare e regolare la vita sociale degli individui. Il diritto, vincolo della società, non è altro
che espressione della ragione, cioè consapevolezza degli individui dei fini che intendono perseguire
con la società, la pace è garanzia dei loro possessi e il benessere garanzia delle loro libertà
fondamentali. Il giusnaturalismo, interpretato da questi autori, è la riduzione della società alla
volontà ed alla ragione dell'individuo: il consenso degli individui, espresso nella forma giuridica del
contratto è l'atto di fondazione della società politica, che esiste solo perché è stata voluta dagli
individui. Il dottrinarismo politico di ispirazione giusnaturalistica riduce l'autorità al potere
politico, unica fonte di qualsiasi obbligo: il potere politico detiene il monopolio della forza e del
diritto, perché si fonda sull'unico principio di legittimazione, il consenso degli individui, che lo
costituiscono mediante il contratto sociale. Il rapporto storia-politica ha una originale e profonda
interpretazione in Giambattista Vico (1668- 1744). La scienza nuova di Vico nasce proprio
dall'esigenza di risolvere criticamente la ragione giusnaturalistica, per fondare invece la ragione
storica e pervenire ad una concezione politica che colga il fondamento reale degli Stati e che
serva da orientamento nel governo della società.

-Il De ratione studiorum


Nel suo primo scritto “Metodo degli studi del nostro tempo”, la politica, come scienza e arte di
governo, è riferita alla prudenza, all’accortezza con la quale cerchiamo di renderci conto della
particolarità degli eventi e ci sforziamo di individuare i principi e le regole che si adattano a un
determinato fatto: dunque la prudenza, saggezza politica, consiste nella capacità di saper valutare le
situazioni in quel che hanno di peculiare, e saper usare i mezzi adeguati ad esse. Ma le situazioni non
sono altro che il risultato dell’attività umana determinata dall’arbitrio dell’uomo e caratterizzate
dall’incertezza e dal presentarsi con caratteristiche sempre differenti ed essere sempre nuove. La
scienza della natura tende a una conoscenza unitaria che si esprime mediante un principio che ci
consente di spiegare la realtà mentre la politica cerca di conoscere le cose per individuare le possibili
cause di esse e scegliere poi la più probabile. Va riconosciuto un valore positivo non solo al principio
razionale della mente ma anche alle passioni che dominano il campo del concreto agire umano e della
politica: passioni che devono essere comprese e indirizzate verso i fini che la mente definisce sul piano
del vero; ciò è possibile solo con l’eloquenza che sa commuovere e entusiasmare gli animi.

-Critica cartesiana
Vico nella sua opera rileva che il principio fondamentale della filosofia cartesiana non costituisce
un criterio sicuro sul quale si possa fondare la ragione scientifica; il fatto che di tutto si possa
dubitare tranne che del pensiero, non esprime una certezza assoluta, non appartiene quindi alle scienza,
ma alla conoscenza. Non è un sapere assolutamente sicuro di se stesso ma una conoscenza comune
che fa parte dell'esperienza di tutti.

-Nuova fondazione del sapere


Secondo Vico, invece, il criterio sul quale fondare la ragione deve essere individuato tenendo
conto della distinzione tra il vero e il fatto: quindi si può avere una vera scienza solo dalle cose
che noi facciamo (factum), e la scienza deve preoccuparsi di trovare il modo in cui le cose che
intendiamo conoscere si generano. Da questo punto di vista solo Dio ha una vera conoscenza della
natura in quanto creatore dell’universo, (verum) l’uomo, invece, può avere di essa solo una
conoscenza limitata. La matematica e la geometria sono scienze vere in quanto i principi sono

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formulati dalla mente umana. Nelle opere “Diritto universale” e “Scienza nuova” Vico dice che la
vera conoscenza scientifica si riferisce alla storia in quanto è fatta dagli uomini. Tutte le
manifestazioni del fare degli uomini sono collegate tra di loro e si compongono in una sistematica
connessione nelle società politiche. Vico afferma il primato della politica come scienza del mondo
umano delle nazioni sulle scienze della natura in quanto perviene ad una conoscenza esaustiva del
suo oggetto di studio. La politica deve considerare la reciproca conversione del vero e del fatto,
resa possibile dalla mediazione del certo (certum) che è una parte della verità, che può essere
conosciuta dall’uomo nelle particolari condizioni storiche in cui si trova. La certificazione del vero
avviene mediante l’autorità che consente al fare dell’uomo di consistere come mondo umano e di
costituire e far sussistere lo stato. Vico è quindi il teorico dell'autorità, come vero principio
costitutivo degli ordinamenti politici: nella sua concezione politica il potere è un mero strumento,
un mezzo per conseguire i fini che sono posti, indicati dall'autorità.

-Il concetto di autorità


L’autorità come certificazione del vero è connessa al fare dell’uomo, come principio costitutivo
della sua umanità e personalità. L’uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio: Dio è sapienza,
volontà e potenza. Anche l’uomo è sapienza, volontà e potenza ma a motivo della sua originaria
corruzione queste tre facoltà divergono tra loro nel senso che la volontà pretende di dominare la
ragione. Da questa pretesa si genera la cupidigia da cui scaturisce l’amore di se stessi; questa viene
eccitata dalle cose finite e corporee di cui sentiamo la mancanza, che si compongono agli uomini
tramite i sensi. I sensi che sono stati dati all’uomo per la difesa della vita, vengono assunti come
arbitri in grado di giudicare il vero delle cose. La ragione sottomessa ai sensi non può conoscere
il vero. La corruzione dell’uomo significa il dominio della volontà che dovrebbe essere suddita
alla ragione: la stoltezza dell’uomo consiste nella sapienza dei sensi che è la causa dell’ignoranza del
vero da cui scaturisce l’infelicità dell’uomo. L’uomo è costituito da mente e corpo: la prima è
spirituale, la seconda è finita e materiale. Le tre facoltà dell’uomo, la ragione, volontà e potenza,
sono connesse tra loro nel senso che in ognuna di esse sussistono le altre. Una di esse può attuarsi
solo se realizza le altre due. Le tre facoltà si esprimono nel fare dell’uomo: come dominio, in
quanto diritto di usare le cose secondo ragione; come tutela in quanto diritto di difendere la nostra vita
e di provvedervi; come libertà in quanto diritto di determinare le nostre azioni. L’autorità è costituita
dal dominio, tutela e libertà. Il primo modo in cui si manifesta l’autorità è la forza cioè l’energia
con cui l’uomo si realizza come unità sussistente. Essa non è un dato fisico ma si genera
nell’interiorità dell’uomo che sola può disciplinare e indirizzare il movimento del corpo. L’uomo si
distingue dagli animali e dai bruti in quanto si muove e non subisce con passività gli impulsi che
riceve dall’esterno. Distinzione tra forza e violenza: la forza è l’energia umana con cui si fa valere
la ragione, la giustizia, il diritto; La violenza promana dal predominio della volontà sulla ragione,
dalla cupidigia, dal dominio dei sensi sulla ragione, è negazione della ragione, della giustizia e del
diritto, non fonda la società ma la strumentalizza e la sfrutta. La società si costituisce in quanto
esprime una forma di partecipazione degli uomini alla verità, alla giustizia e all’equità.

-La genesi storica della società politica


L’essenza della società politica si esprime nella sua genesi storica: occorre quindi analizzare il
processo di formazione della società con riferimento all’uomo primitivo che vive allo stato di natura.
Esso non è diverso dalle bestie: conduce una vita errabonda e ferina vivendo nella promiscuità; in lui
la ragione è sprofondata nel corpo, rinchiusa nell’istinto. Tali nature non riescono a stabilire alcun
rapporto tra loro. La genesi del movimento attivo dell’uomo che gli consente di uscire dalla vita
bestiale è connessa a due fondamentali modi di avvertire e conoscere la realtà che si fondano
sulla religione e sulla fantasia, sulla capacità che ha l’uomo di vivere una particolare esperienza e di

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raffigurarsi questa stessa esperienza. La prima esperienza religiosa di uomo primitivo deve essere
commisurata alla sua immane natura: si esprime nel terrore religioso che l’uomo prova in occasione
di un fenomeno naturale, il fulmine. Il terrore religioso rinserra gli uomini primitivi nelle grotte e
li sottrae alla loro libertà bestiale, li induce a cercare di interpretare le manifestazioni del cielo, i
fulmini, il volo degli uccelli, per conformarsi al volere della divinità. Il primo rapporto da cui si
origina la sua umanità è quello che l’uomo stabilisce con Dio. Al terrore religioso è connesso un
altro sentimento da cui si generano tutte le regole che disciplinano il comportamento dell’uomo: il
pudore per cui l’uomo non si accoppia più con la donna davanti ai suoi simili ma poiché teme Dio si
nasconde nelle grotte trattenendo con sé la sua compagna. Si esprime così il vero rapporto umano.
L’unione dell’uomo con la donna. Lo scopo del matrimonio è di certificare la prole: la certificazione
dei rapporti tra genitori e figli è il presupposto di ogni tipo di società. Il timore di Dio e il pudore
generano un altro sentimento in virtù del quale l’uomo si riconosce nel suo simile e lo riconosce
come uomo: la pietà verso i defunti: per questo l’uomo non abbandona il morto ma lo seppellisce. Il
timore di Dio, il pudore e la pietà verso i defunti si manifestano nelle prime 3 istituzioni
dell’umanità: la divinazione, i matrimoni e le sepolture. Il processo di evoluzione del gruppo
familiare è promosso dall’esigenza di procurare i mezzi di sussistenza e coltivano la terra: nasce
così la prima delle arti umane: l'agricoltura a cui si dedicano quei gruppi umani che per aver espresso
una forma di culto, per contrarre nozze, per osservare il rito delle sepolture, costituiscono le genti
maggiori. A queste si contrappongono le genti minori che sono formate da gruppi umani che
continuano nella vita ferina propria dell’orda primitiva. Questi uomini invadono i campi coltivati dalle
genti maggiori che parte ne uccidono e parte ne risparmiano in vita a patto di coltivare la terra: il
rapporto servo-padrone esprime la genesi della società politica e si fonda sulla forza. Con la tutela si
costituisce la famiglia vera e propria che è formata dai genitori, dai figli e dai “famoli”, cioè dai
clienti che in cambio della protezione lavorano i campi e prestano i servizi per la famiglia e per il
gruppo gentilizio cui appartengono. Si forma il primo nucleo politico composto da individui non
uniti dal vincolo di sangue ma sono assoggettati al dominio dell’assoluto potere sovrano del pater
familias. Si esprime così la seconda forma di autorità, quella del pater familias. Il rapporto tra genti
maggiori e minori, tra nobili e clienti è la premessa per intendere il processo storico-politico che
portò alla costituzione della società politica e alla terza forma di autorità, quella che si esprime
nello Stato. Le società primitive del periodo delle cosiddette monarchie familiari sono caratterizzate
da ammutinamenti di famoli contro i nobili. Dal conflitto tra genti maggiori e minori nasce la
prima forma di comunità statale: i gruppi gentilizi; i padri di famiglia si riunirono in ordini cioè
misero in comune le loro forze e i loro averi e nominarono un capo comune per guidarli nella lotta
contro i famoli ammutinati. Si costituì la prima comunità politica mediante l’unione di più gruppi
gentilizi.Vico è profondamente convinto del continuo intervento della provvidenza divina nelle
azioni umane, viene così introdotto il principio della eterogenesi dei fini: gli uomini si pongono
degli obiettivi e da qui ci aspettiamo determinati risultati ma spesso accade che l’intervento della
provvidenza divina finisce per deviare i nostri obiettivi, si realizzano fini non previsti né voluti, ma
addirittura anche contro il nostro volere, questa idea è presente anche in Sant. Agostino e un pò in
Machiavelli, ci sono due visioni, la visione cristiana e quella laica, la prima identifica in Dio il
risultato di questo cambiamento, la visione laica, ad esempio di Adam Smith identifica l’intervento
con qualcosa di misterioso.

-La fondazione dello Stato


La rivolta delle genti minori è risolta con una prima concessione da parte delle genti maggiori: il
cosiddetto dominio bonitario dei campi che è consentito alle genti minori sulla base di una
concessione del gruppo gentilizio: è questa la prima legge agraria che regola i rapporti tra
aristocrazia e plebe. L’emanazione della legge delle XII tavole è la seconda importante vittoria

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della plebe contro l’aristocrazia. Il motivo ispiratore della famosa legge fu di garantire alla plebe il
dominio “quiritario”, proprio dei nobili cioè la proprietà piena dei beni. Ma la proprietà delle genti
minori, alla morte del proprietario ritornavano all’originario concedente aristocratico in quanto la
plebe non aveva diritto di disporre per testamento il patrimonio. A tal fine la plebe pretese e ottenne il
diritto di contrarre nozze solenni, partecipando agli auspici dei nobili e conquistando la piena
cittadinanza. Ottenuta la ragion privata degli auspici, cioè quanto attiene al dominio, alla libertà,
alla tutela, i plebei conseguirono la ragion pubblica cioè furono ammessi al consolato, ai sacerdoti
e al pontificato. Venne poi concesso la parificazione della plebe alla nobiltà. Il dominio, la tutela
e la libertà sono le fasi del processo storico di formazione e sviluppo delle società politiche. Il
dominio è caratteristico delle monarchie familiari, la tutela è la ragion politica delle aristocrazie, la
libertà è il risultato di un processo storico in cui la ragione eroica delle classi dominanti si venne
umanizzando sotto pressione delle richieste delle genti minori. Punto più alto cui perviene lo stato si
realizza quando si perviene ad una reale compartecipazione tra politica, leggi e ragione quale si
esplica nella filosofia e nelle discipline scientifiche. Lo stato può essere concepito come un uomo in
grande in quanto non è altro che l’originaria autorità naturale dell’uomo; esso deve essere
concepito come un'entità che consiste nel diritto. La prima legge universale è l’uomo, la seconda
è quella del pater familias, che precedono lo stato e in esso si integrano.

-Le società politiche


Le società politiche nascono, crescono, maturano e decadono fino alla distruzione. La religione è
il fondamento della società politica: l’uomo si toglie dal suo stato errabondo quando riconosce
un’entità superiore che lo domina e lo governa. La ragione ritrova la sua energia nella religiosità,
nella fantasia che la alimentano e che le consentono una presa vitale sulla realtà. La crisi dell’ordine
politico si determina allorché la libertà ha perso l’avvertenza del suo fondamento etico religioso, dei
principi oggettivi che segnano un confine sicuro tra libertà, licenza e arbitrio ed è vista in funzione
dell’utilità dei singoli individui o delle fazioni che riescono a impadronirsi del potere. Tra la ragione e
l’ordine politico c’è un nesso vitale: come la ragione è promossa dall’ordine politico in quanto ne
costituisce la sua più vera legittimazione, perché la ragione riconosce quella verità che è a fondamento
della società politica, la ragione è coinvolta nel processo di decadenza e disarticolazione della società e
ne diventa una delle cause principali in quanto impedisce che gli individui possano comunicare tra loro
il vero e l’equo che fanno consistere la società politica. La situazione di anarchia che si determina può
avere 3 soluzioni:
1) il popolo può consentire che tutti i poteri vengano concentrati nelle mani di uno solo che con
la forza delle armi garantisca pace e sicurezza. Il monarca rende tutti uguali nei suoi confronti,
difende il popolo dai potenti e garantisce al popolo la libertà naturale.
2) quando i popoli non consentono che un monarca concentri in sé tutti i poteri, è destinato a
essere governato da altre nazioni che l’hanno sottomesso. Chi non è in grado di governare
deve essere governato da chi ne è capace.
3) crisi dell’ordine politico e della civiltà che investe la società umana che è dominata dalla
cupidigia dei beni materiali. Questo genera nella società la violenza, la ferocia, la crudeltà che
scatena gli uomini gli uni contro gli altri in lotte che hanno fine solo quando tutto viene
distrutto e l’uomo viene riportato alle condizioni iniziali tipiche dello stato di natura.
Dal momento in cui la ragione arriva nella sua fase migliore ecco che questo momento è così
fugace e quasi impercettibile, si chiude il corso storico (teoria dei corsi e ricorsi storici), quindi la
ragione e quindi la libertà comincia a degradare, pian piano gli uomini cominciano a perdere di
nuovo la percezione della ragione, si allontanano dal giusto, comincia ad emergere la pars
destruens ed iniziano a perdere la ragione di Dio quindi l’uomo comincia a tornare alle barbarie.
Vico intravede tre possibilità: la divina provvidenza fa uscire il salvatore della patria (come

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diceva Machiavelli) che riprende in mano le redini e riporta la nazione verso la civiltà, seconda
possibilità la nazione entrata nella barbaria viene assorbita dalla nazione che sta vivendo una
fase florida di espansione, la terza possibilità che ormai la nazione entrata in profonda crisi
attraverso sofferenza e tormenti, come araba fenice possa risollevarsi si chiude un ciclo e ne
comincia un altro, si rigenera da sola e passa nuovamente tutte le fasi.

14)Montesquieu: Libertà e Stato costituzionale

-Contesto storico
Charles-Louis de Secondat, barone di Montesquieu, era figlio di Jacques de Secondat, barone di
Montesquieu (1654-1713) e di Marie- Françoise de Pesnel, baronessa di la Brède (1665-1696): nacque
da una famiglia di magistrati appartenenti alla cosiddetta nobiltà di toga, nel castello di la Brède, nei
pressi di Bordeaux. Montesquieu fu sempre fiero del nome che portava. [1] Dopo aver frequentato il
collegio di Juilly e seguito gli studi di diritto, divenne nel 1714 consigliere del parlamento di
Bordeaux. Nel 1715 sposò Jeanne de Lartigue, una giovane di religione protestante proveniente da una
ricca famiglia di recente nobiltà che gli portò una grossa dote. Alla morte dello zio nel 1716 ereditò
una vera fortuna, con la carica di Presidente del parlamento di Bordeaux e la baronia di
Montesquieu. Abbandonate le cariche appena possibile, si interessò al mondo ed al divertimento. In
quell'epoca l'Inghilterra s'era appena costituita in monarchia costituzionale in seguito alla Gloriosa
rivoluzione (1688 – 1689) e si era unita alla Scozia nel 1707 per formare la Gran Bretagna. Nel 1715 il
Re Sole era morto dopo un lunghissimo periodo di regno e gli successe un re più debole. Queste
trasformazioni nazionali lo influenzarono molto e ad esse si riferirà spesso nelle sue opere. La
sua passione per le scienze lo condusse ad esperimenti scientifici (anatomia, botanica, fisica, etc.).
Egli scrisse su questi argomenti tre comunicazioni scientifiche: Les causes de l'écho (le cause
dell’eco), Les glandes rénales (le ghiandole renali) e La cause de la pesanteur des corps (le cause
della pesantezza di corpi)[2]. Poi orientò la sua curiosità verso la politica e l'analisi della società
attraverso la letteratura e la filosofia. Nel 1721 pubblicò anonimamente ad Amsterdam le "Lettere
persiane" che conobbero un notevole successo. Nel 1726 Montesquieu vendette la sua carica per
pagare i suoi debiti ma conservò prudentemente il diritto ereditario su di essa. Dopo la sua elezione
nella Académie française (1728) si dedicò ad una serie di lunghi viaggi attraverso l'Europa: Austria,
Ungheria, Italia (1728), Germania (1729), Olanda ed Inghilterra (1730) nella quale soggiornò più di un
anno. In questi viaggi si occupò attentamente della geografia, dell'economia della politica e dei
costumi dei paesi che visitava. Nel 1735 era stato indirizzato alla Massoneria in Inghilterra [3]. Di
ritorno al castello de la Brède, nel 1734, pubblicò una riflessione storica intitolata “Considérations
sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence” (Considerazioni sulle cause della
grandezza dei romani e della loro decadenza), coronamento dei suoi viaggi, e raccolse numerosi
documenti per preparare l'opera della sua vita: De l'esprit des lois (Lo spirito delle leggi).
Pubblicato in forma anonima nel 1748, grazie anche all'aiuto di Madame de Tencin, questo capolavoro
ebbe un successo enorme. Esso stabilisce i principi fondamentali delle scienze economiche e sociali
e concentra tutta la sostanza del pensiero liberale. Il libro ebbe un successo particolare in Gran
Bretagna. Ma dall’altro suscita le critiche molto aspre da parte della cultura cattolica. Infatti a
seguito degli attacchi che il suo scritto subì, Montesquieu pubblicò nel 1750 la Défense de l'Esprit
des lois (Difesa dello spirito delle leggi). Paola Berselli Ambri scrive “l’opera fu conosciutissima,
letta, criticata, attaccata, stroncata sotto tutti gli aspetti dall'ideologia al politico al religioso, ma
mai ignorato, esso costituisce la pietra miliare del pensiero moderno” e pensava sempre
Montesquieu con grande umiltà “posso dire di aver lavorato tutta la vita, chiunque altro che
avrebbe lavorato quanto me avrebbe fatto meglio di me” alcune opere di Montesquieu non sono

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state pubblicate e forse disperse per questo motivo. Dopo la pubblicazione del Lo spirito delle
leggi Montesquieu fu circondato da un vero e proprio culto. Egli continuò i suoi viaggi in Ungheria, in
Austria e in Italia, dove soggiornò un anno e nel Regno Unito, in cui si fermò per un anno e mezzo.
Afflitto dalla quasi totale perdita della vista, riuscì a partecipare comunque alla stesura
dell'Encyclopédie. Morì nel 1755 a causa di una forte infiammazione.

Montesquieu è considerato da tutti il filosofo della libertà, nel senso che costituisce l’elemento
fondante di tutta la sua speculazione dottrinale. I primi anni della sua vita sono contrassegnati
dal regno di Luigi 14° che costituisce l’assolutismo per eccellenza, lui mostra subito il suo rifiuto
di ogni forma di dispotismo, lo critica, mostra tutto il suo disprezzo nei confronti di questo tipo
di regime, l’erede destinato al trono Luigi XV, che però non poteva salire al trono, ci sono 8 anni di
reggenza da parte di Filippo d’Orleans, il ruolo dei parlamenti in Francia erano delle vere e proprie
corti di giustizia, avevano il ruolo di registrare gli atti emanati dal monarca, avevano un
controllo di legittimità, ma rivendicavano un ruolo più rilevante ed esercitare un controllo di
legittimità e verificare che questi provvedimenti del re fossero a norma, invece durante il regno
di Luigi XIV i parlamenti erano messi a tacere. Montesquieu vive sotto un regime assoluto e
questo spiega la sua aspirazione affinché il potere del monarca trovasse dei limiti,e quindi
elabora un sistema al contrario che potesse arginare lo strapotere del monarca. Il bene supremo,
la libertà è il bene amato di più da Montesquieu, lui definisce la libertà con un modo condivisibile:
il bene che ci fa godere di tutti gli altri beni. Sapeva pure che la libertà senza freni rischiava di
trasformarsi in licenza, il concetto di abuso di potere quindi, un grande timore per lui. L’abuso di
potere porta ai regimi assoluti. La legge è l’anima che percorre in tutte le opere di Montesquieu, la
libertà quindi è fare tutto ciò che leggi permettono, per questo la sua è la libertà giuridica. Un altro
elemento che caratterizza tutto il pensiero di Montesquieu è il profondo realismo, ci sono molti
elementi già presenti in Aristotele, Il realismo è sempre presente nella sua visione, la sua polemica
di qui nei confronti delle idee giusnaturalistiche che taccia di essere astratte. Altro elemento
fondamentale è il filo rosso che lega tutti i pensieri liberali. Per questi autori il filo rosso che li lega è
la relatività, ovvero l’esatto contrario dell’assolutezza, tende sempre a valutare gli aspetti positivi e
negativi di una questione, secondo Montesquieu occorre guardare entrambi, per poi prendere una
decisione. Non bisogna mai prendere decisioni preconcette. Un altro elemento da evidenziare è il
rapporto con l’illuminismo, la posizione sua era una giusta via di mezzo, c’era un impostazione
squisitamente illuminista, i testi erano impregnati di questa filosofia, nelle lettere persiane e in altri
commenti rifà una descrizione, in parte le apprezza e ne è condizionato, dall’altro se ne distacca, si
rende conto che non bisognava assolutizzare le idee presenti nei confronti dell’esaltazione della
ragione.Le lettere persiane anticipano molti temi, descrive due personaggi, due persiani, che
provengono da un mondo completamente diverso dal nostro e compiono un viaggio di istruzione, è
una critica arguta molto forte, per cui è una satira, Montesquieu vuole colpire le istituzioni
accese, questi signori provenendo da un’altro mondo sono ancora più oggettivi nel descrivere questo
sistema, profonda critica dei sistemi. Alla base delle lettere Persiane, viene lo studio molto
sistematico delle leggi. Montesquieu distingue il diritto delle genti che regola il rapporto tra i diversi
stati, il diritto politico che regola i rapporti tra governanti e governati, e diritto civile che regola i
rapporti tra gli uomini.

-Lo spirito delle leggi


Il pensiero politico di Montesquieu trova ispirazione nella polemica nei confronti della
monarchia assoluta di Luigi XIV come forma di governo che contrasta le tradizioni politiche della

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Francia e degli Stati europei. Nella sua opera “Pensieri” ha formulato una definizione della libertà
che esprime l'idea ispiratrice della sua speculazione politica: <La libertà è il bene che ci fa godere di
tutti gli altri beni>. Una delle sue opere più impegnative è “lo spirito delle leggi”. Le leggi sono
analizzati con riferimento alle manifestazioni della vita sociale; sono 32 libri distinti in 6 parti. Le
prime due trattano temi politici come le forme di governo e la monarchia costituzionale fondata sulla
divisione dei poteri e sulla libertà politica del cittadino. La parte terza illustra i rapporti tra la legge e
il clima, l’ambiente e lo spirito generale della nazione. La quarta si riferisce alle leggi che attengono
al commercio, alla moneta alla popolazione. La quinta esamina i rapporti tra legge e religione. La
sesta studia le origini e la formazione delle leggi. Il concetto di legge deve essere fondato sul
principio che ci consente di intendere il diverso, il particolare e il generale. Le leggi sono la
manifestazione di un ordine articolato che si fonda sulla natura delle cose; sono i rapporti
necessari derivanti dalla natura delle cose. Le leggi positive, poste dalla ragione dell’uomo, che a
differenza del mondo fisico e degli animali, è capace di formulare le regole per il suo comportamento.
L’uomo è sottoposto alle leggi divine e a quelle della natura. La società è un “fatto naturale” e
l’uomo deve costituirla: nello stato di natura l’uomo non ha una ragione attiva ma solo la facoltà di
ragionare, ha solo una predisposizione alla ragione: è dominato dall’istinto di conservazione,
consapevole della propria debolezza, dell’avvertenza dei bisogni, del desiderio di comunicare con i
suoi simili. Dalla famiglia si generano i gruppi sociali primari: le genti, tribù, villaggi. Il gruppo
implica la coordinazione delle attività di più individui per il perseguimento di scopi che non
possono essere raggiunti dai singoli. La formazione di gruppi sociali distinti, la necessità di
provvedere ai conflitti pongono le premesse da cui scaturiscono i 3 tipi di diritto:
1. diritto delle genti: regola i rapporti tra le diverse società
2. diritto politico: disciplina i rapporti tra governanti e governati.
3. diritto civile che regola i rapporti tra gli individui.

-Legge e ragione umana


Il diritto è formato dalle situazioni in cui vengono a trovarsi gli uomini. L’area della politica che
si riferisce allo stato è determinata dal confluire delle forze particolari nella forza generale, dei rapporti
tra le forze particolari cioè gruppi sociali minori nei quali è inserito l’individuo. L’unione delle forze
particolari richiede anche l’unione della volontà dei singoli che determina la formazione dello stato
civile, della società civile, distinta dallo stato, che è il presupposto del diritto civile, distinto da quello
politico. Questo si fonda sulle forze particolari cioè su gruppi sociali minori, il diritto civile sulla
volontà degli individui. La legge è la ragione umana in quanto governa tutti i popoli della terra. E
le leggi politiche e civili sono casi particolari in cui questa ragione umana si applica. Cogliere il nesso
che unifica tutte le leggi rispettandone le particolarità, stabilire le relazioni fra esse e quelle con
l’ambiente, con i popoli, la storia, significa intendere lo spirito delle leggi. Le leggi devono essere
adatte al popolo per il quale sono fatte; devono essere in rapporto con la natura e con il principio di
governo costituito; devono essere in relazione col carattere fisico del paese; devono essere in rapporto
col grado di libertà che la costituzione è capace di sopportare, con la religione degli abitanti, le loro
disposizioni, la loro ricchezza, il loro numero. Finalmente esse hanno relazioni reciproche tra loro.
Esse nel loro insieme formano lo spirito delle leggi.

-La costituzione e il diritto


Nella prima parte l’analisi viene finalizzata al problema della libertà politica che è definita con
riferimento alla sfera di autonomia e indipendenza di cui può godere l’individuo.Ci sono tre
approcci all’idea della libertà: c’è una libertà giuridica che è tipica di Montesquieu, c’è la libertà
etica in Rousseau come rappresentante e la libertà economica che è di Adam Smith con cui si
inaugura un nuovo approccio politico. La libertà coincide con le leggi positive nel senso che il diritto

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delimita la sfera di azione dell’individuo nella società. La libertà è il diritto di fare ciò che le leggi
permettono. Se un cittadino potesse fare ciò che le leggi proibiscono non sarebbe più libero perché
tutti gli altri avrebbero anch’essi lo stesso potere. Noi siamo liberi perché viviamo sotto leggi civili. La
libertà deve essere riferita alla sfera patrimoniale che diventa la pietra angolare sulla quale si basano
tutti i rapporti della società civile. Acquistano importanza le leggi che disciplinano la sfera
patrimoniale. Devono consentire a ogni individuo di accedere alla proprietà. La proprietà appartiene
alla sfera del diritto civile e quindi non può essere regolata dal diritto politico. Nessuno può essere
privato dei suoi beni sulla base della legge politica. La libertà implica anche la sicurezza dei
cittadini, assicurati dalle leggi con cui vengono tutelati i beni personali fondamentali: la vita,
l’onore, il patrimonio.

-Le forme di governo


Esistono 3 tipi di governo e quindi 3 costituzioni:
1. repubblica: si ha quando il potere sovrano appartiene al popolo e può essere aristocratico
(sovranità ai nobili) o democratico (sovranità a tutto il popolo).
2. monarchia: il potere è di uno solo, che però governa secondo leggi fondamentali che
disciplinano e delimitano il suo potere
3. dispotismo: il potere appartiene ad uno solo che governa a suo arbitrio.

La natura del potere sovrano deve essere distinta dal principio di ciascuna delle tre costituzioni.
I principi sono: la virtù: come amore della patria per il governo repubblicano democratico o come
etica della moderazione di quello aristocratico; l’onore per il governo monarchico come rifiuto di
compiere alcun atto che possa ledere la dignità, l’indipendenza; la paura per il governo dispotico. Il
principio della forma di governo deve essere considerato come il sentimento fondamentale, che orienta
tutti i comportamenti degli individui, e che, di conseguenza, determina il rapporto
comando-obbedienza, che vincola gli stessi individui nei confronti di chi detiene il potere politico.

-La monarchia costituzionale


La monarchia è la forma di governo basata sulle leggi fondamentali che riflettono una società
gerarchizzata e articolata e strutturata in una molteplicità di ordini. I poteri intermedi
costituiscono la natura del governo monarchico. Lo stato è più saldo, la costituzione più incrollabile, la
persona dei governanti più sicura. La monarchia è caratterizzata dall’esistenza dei corpi intermedi
che si pongono tra i cittadini e chi detiene il potere impedendo a quest’ultimo di raggiungere il
cittadino dove il comando deve essere mediato da una molteplicità di istituzioni che garantiscono
all’individuo la libertà. Tra i poteri intermedi il più importante è la nobiltà formata
dall’aristocrazia di sangue e dall’aristocrazia minore cui apparteneva la nobiltà minore. La politica
si propone fini che possono essere conseguiti con la coordinazione di una molteplicità di
provvedimenti e azioni i cui risultati impegnano più generazioni. La vita degli stati e dei popoli deve
svolgersi in una unità. La politica non è fatta dagli individui ma dalle istituzioni cioè dagli individui
connessi agli interessi generali e permanenti di una determinata collettività che sono in grado di
esprimere le caratteristiche peculiari di un popolo. Gli interessi dello stato possono essere garantiti
solo salvaguardando i principi informatori delle leggi fondamentali. Ma perché ciò sia possibile
occorre che ci sia nello stato un deposito delle leggi che le conservi e le faccia valere. Questa
funzione non può essere assolta da un monarca perché è un individuo e quindi una volontà
mutevole che può diventare arbitraria. Deve essere assolta da un potere intermedio, la
magistratura. Affinché il poter non esca dalla sfera che gli è propria deve essere mantenuto nei limiti
da un altro potere che gli si contrapponga. La forma di governo che offre maggior libertà è la
monarchia moderata, temperata dalle leggi fondamentali. La sovranità deve essere distinta in 3

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poteri: esecutivo, legislativo, giudiziario. Questi poteri sono tali in quanto sono attribuiti a tre
distinti ordini sociali o corpi politici, che detengono un potere reale nella società, dove possono
controllarsi a vicenda contrapponendosi a chi tenti di sopraffare l’altro. La teoria della tripartizione
dei poteri esprime, a livello dell'organizzazione costituzionale dello Stato, la convinzione profonda
di Montesquieu che la libertà politica dipende dalla pluralità delle situazioni giuridicamente
garantite e dal loro reciproco controbilanciarsi, al fine di assicurare agli individui il bene per cui
viene costituita la società politica, la sicurezza, la stabilità e la tranquillità. Il dispotismo si attua
quando nello stesso organo si concentra il potere di fare le leggi, eseguirle e giudicare. Nello stato
costituzionale alla monarchia viene attribuito il potere esecutivo, all’aristocrazia e al popolo
quello legislativo, all’aristocrazia di toga il giudiziario. Il potere legislativo deve essere
organizzato in due camere sul modello inglese: la prima rappresenta il popolo, la seconda
l’aristocrazia. Montesquieu sostiene la monarchia costituzionale. Il potere esecutivo è sulle mani
del monarca, ma sulla scorta di Locke, il potere legislativo non può autoconvocarsi perché si
rischierebbe l’abuso di potere, ma infatti con Montesquieu parliamo di bilanciamento dei poteri, il
potere arresti il potere, tutti i poteri sono sullo stesso equilibrio, il potere esecutivo che convoca quello
legislativo, c’è un controllo del potere, quando questo non ottempera ai suoi doveri di far rispettare la
legge allora interviene il giudiziario che può agire contro tutti i ministri ma non contro il monarca, la
figura del monarca è sacra e inviolabile. Il potere giudiziario, che riguarda la sfera delle leggi penali e
civili, Montesquieu ci tiene a chiarire il comportamento che dovrebbe assumere lo stato nei
confronti di alcuni delitti delle leggi penali, è ovvio che mettere a rischio l’unità dello stato era un
pericolo per la politica estera etc, Montesquieu dedica molte pagine alle leggi penali, ammette
quattro generi di delitti: primi sono quelli contro la religione, i delitti contro la religione lui li
chiama sacrilegi semplici che prevedono l’emanazione di atti e parole che vanno contro la religione, in
questo caso Montesquieu teme l’ingerenza dello stato e sostiene che spetti alle istituzioni religiose
regolare e punire chi commette questi preamboli, gli altri delitti sono quelli che vanno ad
infrangere la tranquillità dello stato, in questo caso è di competenza dello stato, terzo caso delitti
quando i cittadini commettono violenza contro i beni degli altri cittadini, in questo caso occorre
che i magistrati valutino caso per caso, i quarti sono quelli che attentano alla vita all’integrità
fisica contro altri cittadini, in questo caso Montesquieu prevede la pena di morte.

-La religione
La religione è un freno per il potere politico alla sua tendenza di diventare assoluto. Il
Cristianesimo ha ispirato i principi del diritto pubblico europeo dal quale trae fondamento la
monarchia costituzionale. Un territorio ristretto favorisce la costituzione repubblicana, un
territorio medio quella monarchica costituzionale, uno vasto quello dispotico. La costituzione
politica, il sistema delle leggi positive che vi corrisponde e i principi delle forme di governo sono il
risultato di un lungo processo storico.

15)Rousseau: Libertà e uguaglianza

-Contesto storico
(Ginevra, 28 giugno 1712 – Ermenonville, 2 luglio 1778) Nato da un'umile famiglia calvinista di
origine francese, ebbe una giovinezza difficile ed errabonda durante la quale si convertì al
cattolicesimo (per poi tornare al calvinismo e approdare infine al deismo), visse e studiò a Torino e
svolse diverse professioni, tra cui quella della copia di testi musicali e quella di istitutore. Trascorse
alcuni anni di tranquillità presso la nobildonna Françoise-Louise de Warens; quindi, dopo alcuni
vagabondaggi tra la Francia e la Svizzera, si trasferì a Parigi, dove conobbe e collaborò con gli

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enciclopedisti. Nello stesso periodo iniziò la sua relazione con Marie-Thérèse Levasseur, da cui
avrebbe avuto cinque figli. Il suo primo testo filosofico importante, il Discorso sulle scienze e le arti,
vinse il premio dell'Accademia di Digione nel 1750 e segnò l'inizio della sua fortuna. Dal primo
discorso emergono già i tratti salienti della filosofia rousseauiana: un'aspra critica della civiltà
come causa di tutti i mali e le infelicità della vita dell'uomo, con il corrispondente elogio della
natura come depositaria di tutte le qualità positive e buone. Questi temi sarebbero stati
ulteriormente sviluppati dal Discorso sull'origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli
uomini del 1754: da questo secondo Discours emergeva la concezione di Rousseau dell'uomo e
dello stato di natura, la sua idea sull'origine del linguaggio, della proprietà, della società e dello
Stato. Un altro testo, il Contratto sociale del 1762, conteneva la proposta politica di Rousseau per
la rifondazione della società sulla base di un patto equo – costitutivo del popolo come corpo
sovrano, solo detentore del potere legislativo e suddito di sé stesso. Questi e altri suoi scritti
(soprattutto l'Émile, sulla pedagogia) vennero condannati e contribuirono a isolare Rousseau rispetto
all'ambiente culturale del suo tempo. Le sue relazioni con tutti gli intellettuali illuministi suoi
contemporanei, oltre che con le istituzioni della Repubblica di Ginevra, finirono per deteriorarsi a
causa di incomprensioni, sospetti e litigi, e Rousseau morì in isolamento quasi completo.

Considerato per alcuni versi un illuminista, e tuttavia in radicale controtendenza rispetto alla
corrente di pensiero dominante nel suo secolo, Rousseau ebbe influenze importanti nel
determinare certi aspetti dell'ideologia egualitaria e anti-assolutistica che fu alla base della
Rivoluzione francese del 1789; anticipò inoltre molti degli elementi che, tra la fine del XVIII e
l'inizio del XIX secolo, avrebbero caratterizzato il Romanticismo, e segnò profondamente tutta la
riflessione politica, sociologica, morale, psicologica e pedagogica successiva. Alcuni elementi della
sua visione etica erano stati ripresi in particolare da Immanuel Kant. Rousseau fu anche un
compositore, e la sua opera più nota è L'indovino del villaggio. Le idee di Rousseau ebbero una
risonanza europea e mondiale, tale da ispirare le future costituzioni degli Stati Uniti e della
Rivoluzione francese. 1778 fondamentale importanza, Rousseau muore prima della rivoluzione
francese, costituì elemento fondante per tutto il pensiero.

-Il contratto fraudolento


Rousseau vuole prendere le distanze da Vico, man mano che sviluppa la ragione, coloro che sono in
anticipo verso tutti quanti cominciano a razionalizzare, nasce l’idea di proprietà privata. L’epilogo è
quello che si crea uno hiatus tra i ricchi che sono pochi e i poveri la maggioranza, cosa succede?
Il discorso sull’origine: i ricchi escogitano un sistema per poter ingannare i poveri, attraverso uno
strumento giuridico che è il contratto fraudolento, non ha nulla a che fare con il contratto sociale,
questo è un contratto ingannevole, Rousseau riporta nelle pagine del discorso sull’origine come se il
lettore lo stesse vivendo, perché bisogna combattere? si firma il contratto e gli uomini cadono
nella trappola, non si rendono conto di essere caduti in una trappola che i ricchi avevano loro
imposto, quindi lo stato per Rousseau nasce da un contratto fraudolento. Lo stato nasce
attraverso un ingiustizia, si è stabilito uno stato in cui i ricchi attraverso questo contratto escono
e legalizzano la loro posizione di ricchi e i poveri la loro posizione di subordinati nei confronti dei
ricchi. Cosa succede nella società civile? i poveri si rendono conto dell’ingiustizia dopo,
razionalizzano e si rendono conto che vengono ridotti in servitù, nasce la guerra di tutti contro tutti
e in questa situazione caotica ecco che si ritorna allo stato di uguaglianza dello stato di natura, ma
mentre nella fase originaria tutti gli uomini erano uguali nella libertà, ora tutti gli uomini sono
uguali ma nella servitù, dietro questa suggestiva descrizione dell’origine della società civile, vi è una
forte denuncia. Hobbes lo descrive come un grande autore, uno dei geni più fulgidi che la filosofia
abbia mai visto. Secondo Rousseau, quando vi è questa lotta armata, si crea uno stato di anarchia

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ed emerge sempre il conflitto. Si genera questa società bellicosa, emergerà la figura del despota
che rende tutti servi sotto il suo deplorevole dominio, tra Rousseau e Hobbes qual’è la
differenza? Rousseau nutre grande rispetto ma prende la distanza, Rousseau è padre fondatore
della democrazia, ma il grande errore commesso da Hobbes è quello di aver collocato la guerra di
tutti contro tutti allo stato di natura, mentre per Rousseau questa guerra avviene nella società in
una fase già successiva.

-Libertà, interessi e volontà


Ci sono tre modi per affrontare il tema della libertà: Montesquieu come una libertà giuridica, fare
tutto ciò che le leggi permettono, la libertà economica con Smith, quella di Rousseau è una libertà
etica: Rousseau riprende questi temi cercando di presentare al lettore una sua proposta,
un’ampia premessa, Rousseau richiama l’attenzione del lettore, dicendo state attenti, quello che sto
affrontando è un problema importante che richiede la massima attenzione, lui elabora quella che è la
sua proposta di uno stato che potrebbe a suo avviso rimediare a tutti gli errori che sono presenti
nella società a lui contemporanea, parte da una sua proposta, qual’è il modo per cui le cose
funzionino, parla del contratto sociale: tutti hanno gli stessi diritti, naturalmente per Rousseau a
differenza dei giusnaturalisti esiste la proprietà privata, non rinnega niente, secondo Rousseau il
vero male della società consiste in questa diversificazione tra i ricchi e i poveri,, ciò non vuol dire
che ci sia una condanna, considera fondamentale regolare la proprietà privata, non abolire niente,
sostiene che la proprietà privata deve esistere, una parola richiede Rousseau: il sacrificio. Non
possiamo capire Rousseau se non capiamo il sacrificio, naturalmente e volontariamente per chi non
vuole entrare a far parte di questa società, chi vuole entrare a far parte di questa nuova
struttura è un atto volontario, tutti si spogliano di tutti i propri diritti, qualsiasi diritto di cui
godeva nello stato precedente, per cederli al corpo sovrano, il quale è il corpo politico, cioè il
popolo, l’individuo si spoglia dei propri diritti ma assume una duplice veste, la veste di cittadino,
laddove gli individui partecipano facendo parte tutti quanti del corpo politico, tutti coloro che
accettano questi patti sono cittadini laddove partecipano alla situazione della legge, sono invece
sudditi laddove sono tenuti ad obbedire alle leggi cui ciascuno ha contribuito a formare,
emanare, proporre, c’é una partecipazione collettiva e diretta alla gestione del potere. Rousseau parla
di tre interessi: gli interessi individuali, gli interessi che accomunano gli individui in gruppo, poi
l’interesse generale, che corrisponde a quello del corpo politico sovrano, è ovvio che ciascun individuo
darà la precedenza assoluta all’interesse individuale, in secondo luogo perseguirà quello particolare,
poi quello generale. A ciascun interesse corrisponde una volontà: individuale, particolare e
generale. Ovviamente cosa pretende dagli individui Rousseau? un profondo sacrificio, ogni
individuo dovrebbe mettere a tacere gli interessi individuali e quelli particolari a favore di quelli
generali, il sacrificio di ciascuno in questo senso, la tensione etica sta nel cercare sempre di guardare e
ragionare in funzione della volontà generale nonché degli interessi generali.

-Instituto del mandato


I funzionari e i tecnici hanno la funzione di far eseguire la leggi, e, per paura che tra questi
funzionari possano prevalere gli interessi particolari, cioè che la funzione esecutiva possa
abusare di questo ufficio, Rousseau prevede l’istituto del mandato, un contratto che può essere
sempre revocato, il mandante è l’intero corpo sociale, i mandatari sono gli ufficiali, il mandato che
è stato loro affidato può essere in qualsiasi momento revocato, ecco che il potere legislativo è il potere
sovrano. Rousseau paragona il potere legislativo al cuore, se priva l’individuo della funzione
cardiaca, l’individuo muore,, di qui l’importanza che ha per Rousseau il potere legislativo, rapporto
fiduciario tra l’intero corpo sovrano e questi mandatari, va a rappresentare l’idea di Rousseau
dell’unità totale, Rousseau esce il contratto sociale nel 1762, si rende conto di certe anomalie, si

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rende conto che il modello di stato basato sulla democrazia diretta possa essere applicabile ad
uno stato che abbia delle caratteristiche di un certo rilievo, sempre tramite incaricati e
commissari, lui si rende conto che questo suo tipo di stato non è applicabile in alcuni stati, come
le antiche poleis, o anche “nelle piccole città asiatiche, nelle città della Svizzera, come Ginevra”, non
applicabili alle grandi città.

-Considerazioni sul governo della polonia


Nel 1772 sono passati 10 anni dall’uscita del contratto sociale, esce un'opera che si chiama le
considerazioni sul governo della Polonia, introduce a distanza di 10 anni l’idea della
rappresentanza, su una sorta di revisione, si rende conto che non è possibile negli stati e nelle
nazioni applicare questo suo modello che proprio mai Rousseau rivendicherà, si rende conto
della impossibilità di applicare questo modello alle nuove dimensioni territoriali che andavano
assumendo le città europee. Città in espansione che contavano un numero elevato di abitanti, perciò
rivede queste sue posizioni, introduce con determinate regole il sistema della rappresentanza,
dove non utilizza alcun giudizio se non di estremo apprezzamento. C’è il problema sul sistema
politico inglese, Rousseau a differenza di Montesquieu non credeva che il sistema politico inglese
potesse garantire la libertà, chi ha votato non ha più la possibilità di intervenire, questa è la visione di
Rousseau che contrasta con quella di Montesquieu. Prevede delle restrizioni di una rappresentanza,
lo scrive a distanza di 10 anni, sostiene ad esempio che debbano esistere dei rappresentanti, ma
non debbano durare in carica in un periodo troppo lungo per evitare l’abuso del potere,
debbono ovviamente provenire da qualsiasi ceto sociale, lui è a favore dell’uguaglianza,
ovviamente lui prevede questo tipo di stato parlando della Polonia, aveva rivisto molte sue
composizioni, senza mai rinnegare il suo modello di stato.

-La religione
L’ultimo problema riguarda la religione: distingue tre tipi di religione: la religione dell’uomo, la
definisce quella senza chiese, senza templi, prevede il rapporto diretto dell’uomo con Dio, rimane
nella propria coscienza, la seconda religione del cittadino, una religione tipica di ogni paese, prevede
templi, riti, etc. Poi la religione del cittadino è una religione in cui c’è una compenetrazione tra aspetto
spirituale e il resto, la terza forma è la cosiddetta religione del prete, quella che è pericolosa per
Rousseau, prevede due autorità, due centri di potere, per cui analizza le tre religioni per proporre il suo
modello. La religione dell’uomo viene apprezzata da Rousseau, mette in risalto ombre e luci, è
una religione positiva perché non ci sono interferenze tra lui e il Dio, ma l’aspetto negativo è che
questa religione finisce per distogliere l’uomo da quello che è l’obiettivo politico e sociale, le luci
è che è una religione tutta interiore, è bello il rapporto che deve avere con Dio, le ombre si
concretizzano nel fatto che l’uomo è assorbito nella sua fede e perde l’impegno politico, la religione
del cittadino è la religione nazionale, ha degli aspetti positivi, essendoci una fusione tra potere
temporale e spirituale, non attenta l’unità dello stato, ma l’aspetto negativo è che tendono a
forme di integralismo, che rischia di trasformarsi in una sorta di fanatismo, la terza forma è la
peggiore, prevede due capi: è la più pericolosa perché attenta al principio che Rousseau ritiene
sacro santo che è quello della sovranità dello stato. In Rousseau unità articolata, Montesquieu
unità totalità, Platone sta in Rousseau e Aristotele in Montesquieu. L’unico modo per uscire da questa
situazione, ha fatto bene Hobbes a riunire le due teste dell’aquila in quanto aveva previsto lo
stesso corpo di fedeli da un lato e di laici dall’altro, Rousseau considera fondamentale questa
cosa, gli individui sono fedeli e cittadini, parla di professione di fede, Rousseau condanna il
cattolicesimo perché pone dei dogmi molto forti, che obbliga il fedele a seguirli, per Rousseau
invece ci sono i fedeli che devono rispettare gli articoli dell società civile, ma chi non rispetta
viene condannato a morte.

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-Natura e società
Rousseau (1712-1778) ha il suo centro ispiratore negli ideali della libertà e dell’uguaglianza che
devono essere fatti valere con un rinnovamento totale della società, delle tradizioni, delle leggi,
delle istituzioni. Tale rinnovamento trova esito nella democrazia, in quanto unica forma di governo
in cui si possano garantire libertà e uguaglianza. Il suo pensiero muove da un presupposto
fondamentale, ovvero la contrapposizione tra società e individuo, tra le esigenze proprie della
natura dell'individuo e la vita dove l'uomo è costretto a vivere nella società. L’uomo civilizzato nella
società nega i principi, i valori, l’ordine della natura. Scrive “il discorso sulle scienze e sulle arti”
in cui è esaminato il concetto di progresso e si tratta di capire se ha reso l’uomo più civile. Dice
che non ha portato alcun miglioramento; il progresso delle scienze e delle arti si traduce in un
aumento di ricchezza che determina l’amore per gli agi, il lusso, e l’amore per la ricchezza fa
perdere di vista alla società gli scopi della sua costituzione, il valore della virtù civica, il sacrificio
per il bene della comunità. Contrappone i costumi “rozzi ma naturali”, spontanei, sinceri a quelli
civili ma corrotti: la civiltà promossa dalle arti e le scienze nasconde l’artificiosità dei sentimenti. La
scienza tende a diventare uno strumento politico nelle mani dei governanti e si fa portatrice non
tanto di verità quanto di opinioni che avalla con il prestigio della sua autorità. La diffusione dei
lumi promossa dall’enciclopedia non promuove una crescita culturale ma si fonda sul
nozionismo e nasconde le difficoltà reali connesse all’acquisizione di autentica cultura. È
sostenitore della primitiva ignoranza, della semplicità e spontaneità dell’uomo primitivo. La ragione
e la scienza sono svuotate da qualsiasi contenuto etico e umano.

-Formazione della società politica


La contrapposizione tra l’uomo come è nella natura e la società civile quale risulta dal progresso è
approfondita nel “discorso sull’origine della ineguaglianza”. Vuole individuare le cause in cui
l’uomo originariamente libero e felice perviene ad una situazione opposta. L’uomo vero e autentico
era quello dello stato di natura quando non c’era la società civile. Nello stato di natura l’uomo è
libero ed uguale, è sollecitato dall’istinto e dai bisogni e conduce una vita semplice e tranquilla.
Al contrario di quello che pensava Hobbes, per Rousseau l’uomo primitivo è pacifico; la natura
umana si esprime nell'amore di sé stesso che è temperato da un altro sentimento: la pietà che l’uomo
avverte nei confronti dei suoi simili. La civiltà tende ad attenuare il sentimento fondamentale
dell’uomo perché la ragione dissolve la compassione. La ragione educa il sentimento
contrapposto all’amor di sé stesso, l’amor proprio per cui l’uomo diventa individuo cioè si chiude in
se stesso e riporta tutto a se stesso cercando l’esaltazione di sé per primeggiare sugli altri. Essa si
forma in un lungo processo storico nel corso del quale si perfezionano sia la capacità umana di
espressione e di comunicazione che le capacità industriali mediante le quali l'uomo si procura i
beni per soddisfare i suoi bisogni vitali. La ragione ha un'origine sociale: si perfeziona con la
formazione di gruppi sociali sempre più ampi; essa si manifesta come il mezzo più efficace per
organizzare e sviluppare sempre di più la società.

-La società civile e il male


La scoperta delle arti, la lavorazione della pietra, ferro, bronzo, l’agricoltura, consentono all’uomo di
formare associazioni naturali: la famiglia, la tribù, il villaggio, in cui si esprime la socialità primitiva
dell’uomo. Si pongono le prime differenze tra gli uomini connesse alle attività che si svolgono in
quelle prime società naturali. Queste disuguaglianze vengono istituzionalizzate e riconosciute con
l’istituzione della proprietà privata che è il moltiplicatore delle ineguaglianze e la loro
legittimazione. L'ineguaglianza genera nella convivenza umana le passioni e la primitiva etica
comunitaria si corrompe: l'ambizione, l'orgoglio, l'astuzia, la frode e il timore tormentano gli animi

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degli uomini; la società diventa un campo di lotte fra opposte fazioni. Il contrasto tra ricchi e
poveri determina uno stato di guerra permanente di tutti contro tutti. Questa situazione indusse
i ricchi, che vedevano in pericolo i loro patrimoni, a proporre una nuova forma di associazione
che garantisse la pace per tutti e il bene di tutti con la costituzione di un potere supremo che
imponesse a tutti il rispetto di comuni norme di convivenza sulla base di un comune accordo
garantendo quindi la pace. È questa l’origine della società politica fondata su un contratto sociale
proposta dall’intelligenza dei ricchi che raggirarono i più deboli per servirsene garantendone i loro
possessi sottomettendoli al loro potere. Il progresso delle società politiche ha rafforzato sempre più il
predominio dei pochi sui molti, sì che la società si fonda sulla repressione. Più la società progredisce
più l’uomo diventa schiavo di essa; il termine finale di questo processo è il dispotismo che
riproduce, rovesciata, l’originaria situazione di uguaglianza della società di natura. Tutti, ricchi e
poveri, aristocratici e plebei, si trovano alla mercé del potere dispotico. La storia viene
considerata da Rousseau un progresso degenerativo che svuota l’uomo della sua vera umanità e
lo trasforma in un uomo “artificiale”. Questo conflitto insanabile fra le due personalità, naturale e
artificiale, dell'uomo porta all'incontentabilità dell'uomo, che poi può degenerare in disperazione,
propria dell'uomo civile. La conclusione di Rousseau è quindi che l'uomo, che è anche artefice
della società, è a sua insaputa catturato nel meccanismo sociale una volontà generale (è il nucleo
centrale di tutta la concezione politica di Rousseau per poter esprimere la volontà generale è
necessario innanzitutto che gli individui siano liberi e ciò può essere reso possibile solo con la
legge ma non è semplice perché la legge rende liberi solo e solo se essa è espressione della volontà
di tutti cioè i cittadini obbediranno alle leggi da loro stessi imposte ma non come un'imposizione
quindi obbediamo a noi stessi), plasmato dalla società, formato a sua immagine e somiglianza e
costretto a vivere una personalità “artificiale”. Per questi motivi la società, complesso di istituzioni
che si fondano tutte sulla proprietà privata, è la vera, unica causa del male, che viene definito da
Rousseau “male sociale”.

-Il Discorso sull'economia


Opera scritta nel 1755 che affronta il tema dell'ineguaglianza, della povertà e della miseria come
problema sociale. Rousseau definisce l'economia con un preciso riferimento al concetto classico
aristotelico, oikos=casa, nomos=legge. Il governo della famiglia deve essere distinto da quello
dello stato: ovvero, il potere politico non può derivare da quello paterno come aveva sostenuto Filmer.
L’economia privata deve essere indirizzata alla famiglia e deve informarsi ai criteri che sono
propri dell’ordine familiare mentre l’economia pubblica deve essere finalizzata allo stato e deve
essere guidata dai principi che sono propri dell'ordine politico. La società può essere
considerata, con un richiamo alla concezione platonica, come un corpo organico vivente simile a
quello dell’uomo. La stretta analogia fra il corpo umano e quello politico consente a Rousseau di
poter affermare che anche nel corpo politico deve sussistere un principio di unità che conferisce vita,
esistenza reale, al corpo politico: deve esserci pertanto un “io comune al tutto”. Ed è proprio in
quest'opera che Rousseau introduce il concetto della volontà generale. L’io comune si esprime
come volontà generale che ha come scopo la vita del corpo politico e dispone in viste della difesa e
della conservazione del corpo politico. La volontà generale esprime la regola del giusto e
dell’ingiusto ed è la fonte della moralità pubblica e privata. Il bene della collettività deve essere il
fine della volontà di tutti; per poter esprimere la volontà generale si richiede che gli individui siano
liberi, che abbiano la possibilità di ricercare i fini della collettività in modo da poter conciliare la
libertà dei singoli con l’autorità, il bene individuale con quello della società. Ciò è possibile grazie
alla legge che è il comando oggettivo in quanto espressione della volontà generale. Rousseau afferma
il primato delle leggi come l’insieme delle regole che consentono agli uomini di essere liberi e
uguali. Il compito di chi governa è di mantenersi fedele alle leggi perché sarà di esempio. L’arte di

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governo è il saper orientare le coscienze dei cittadini affinché il loro comportamento si adegui alle
leggi; il governo saggio sa nascondere il suo potere, così da guidare lo stato in modo che i cittadini non
se ne rendano conto ed abbiano l'impressione che tutto possa attuarsi senza l'opera del governo.
L'ordine politico proposto da Rousseau per potersi attuare ha bisogno dei “cittadini”, di persone
che vengano educate dalla comunità politica, a vivere la politica secondo i principi e i valori sopra
citati, persone che spontaneamente vogliono all'unisono la volontà generale. La virtù civile e
repubblicana si esprime nella libertà e nell’uguaglianza che è possibile quando le leggi
impediscono la formazione di disparità sociali, favorendo la redistribuzione della ricchezza tra il
maggior numero di cittadini in modo da creare una generale situazione media. Il sistema politico
sociale che propone Rousseau non rifiuta la proprietà privata, che riconosce come la base
dell’edificio politico, lo scopo principale del patto sociale mediante il quale si da vita alla società. La
proprietà però incontra un limite preciso nell’etica civile, nella virtù repubblicana, che sancisce il
principio dell’uguaglianza tra i cittadini; essa deve essere finalizzata ai bisogni e alla capacità di lavoro
del singolo. Il sistema tributario deve impedire l’eccessivo accumularsi della ricchezza. L’ordine
politico delineato da Rousseau è fondato sulla piccola e media proprietà ed è riferito alle esigenze
della famiglia o al massimo del gruppo parentale caratterizzato da attività artigianali e manifatturiere e
commerciali che devono essere armonizzate con l’agricoltura considerata come l’attività economica
primaria. L’economia pubblica non ha tanto come scopo la produzione di ricchezza, compito
dell’economia privata, quanto quello di amministrare la ricchezza prodotta per i fini propri della
collettività per consentire ai cittadini di conseguire la felicità.

-Il contratto sociale


Pretendere di vivere nella società civile cercando di appagare le naturali aspirazioni è impossibile;
l’uomo naturale è un intero assoluto che non ha altro rapporto se non con se stesso o con il suo
simile. L’uomo civile è invece una unità frazionaria il cui valore è il rapporto con l’intero che è il
corpo sociale. Il vero problema politico è fare in modo che l’uomo non si consideri più un assoluto ma
una parte di un tutto. Rousseau scrisse il “Contratto sociale”, che rappresenta la conclusione della
sua speculazione politica. La società e le istituzioni negano la naturale libertà dell’uomo: <l’uomo
è nato libero e ovunque è in catene>. La libertà dell’individuo si realizza nell’atto di volontà con
cui gli individui fondano la società politica. Il contratto sociale, proprio perché deve intercorrere tra
tutti gli individui che si associano in quanto esseri liberi, non deve essere ricondotto a contratto
storico, a documenti, ma deve essere considerato come condizione indispensabile da riconoscere
se vogliamo affermare la libertà dell’uomo nella società politica. Il contratto sociale impegna
ciascuno ad alienare tutti i diritti di cui gode alla comunità cui si da vita, così da ricostituire, nel
momento della fondazione della società, l’uguaglianza naturale fra tutti i contraenti. Così
l’individuo si spoglia della sua personalità storica e riceve la personalità di cittadino. Il contratto
sociale libera l’individuo dal condizionamento dell’istinto della società di natura, per farne un
essere morale che informa i suoi comportamenti alla razionalità. Le precedenti istituzioni vengono
rinnovate e prima fra tutte quella che garantisce il possesso dei beni: la proprietà privata. La
proprietà tradizionale è una usurpazione dei beni che appartengono alla collettività, resa
possibile dal sistema politico fondato sulla forza. Il possesso e il godimento dei beni è legittimo solo
nei limiti del soddisfacimento dei bisogni necessari. In virtù del contratto sociale gli individui
conferiscono alla società tutti i loro possessi e la società glieli restituisce legittimando il possesso e
trasformando il godimento in proprietà privata. Questa si fonda sulla legge della comunità che ha
un diritto sovrano su tutti i beni dei componenti.
-Legislatore e leggi
Il contratto sociale fa di una moltitudine di individui un'unità, un corpo politico, lo Stato.
L’unione degli associati forma il popolo. Gli associati sono cittadini in quanto partecipi dell’autorità

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sovrana o sudditi in quanto sottoposti alle leggi dello stato. Il sovrano è il corpo politico nella sua unità
e la sovranità appartiene all’attività di questo corpo. La sovranità è inalienabile e indivisibile, è la
volontà generale in atto che, in quanto principio dell’unità del corpo politico, non può essere concessa
e delegata dal popolo ad alcun individuo. Se il contratto sociale fonda lo stato, le leggi lo fanno
agire. La legislazione deve essere informata ai due principi dell’uguaglianza e la libertà. Lo stato è un
ente morale che deve trasformare l’uomo da essere naturale a essere morale; deve liberare
l’uomo dagli impulsi della sua natura che tendono a farne un assoluto cioè un essere che riporta
tutta la realtà che lo circonda a se stesso. Rousseau distingue 4 tipi di leggi:
1. le politiche che definiscono i rapporti tra corpo politico e stato
2. le leggi civili che trattano i rapporti tra i singoli individui e tra i singoli e lo stato
3. le leggi penali che fissano le sanzioni per chi disobbedisce alle leggi
4. le leggi scritte nel cuore, nell’animo di ognuno cioè i costumi, le usanze e l’opinione
pubblica che formano la vera costituzione dello stato.

Il governo è il corpo intermedio posto tra i sudditi e lo stato, incaricato dell’esecuzione delle leggi
e il mantenimento della libertà politica e civile. Le forme di governo sono 3:
- monarchia (potere nelle mani di un solo sovrano),
- aristocrazia (potere affidato ad una minoranza elettiva/ereditaria)
- democrazia (potere affidato alla maggioranza dei cittadini).
Rousseau è critico della monarchia, riconosce gli aspetti positivi dell’aristocrazia elettiva e giudica
pessimo il governo fondato sull’aristocrazia ereditaria.

-La costituzione democratica


La migliore forma di governo è la democrazia pura nella quale il popolo riunito in un’assemblea
formula le leggi, le fa eseguire e le interpreta. Ma questa democrazia non è mai esistita né potrà
esistere. I principi fondamentali della democrazia reale: occorre distinguere l’attività legislativa
da quella esecutiva, la prima si riferisce al bene pubblico, la seconda agli interessi e ai beni
particolari. L’attività legislativa è l’espressione della sovranità e della volontà generale. Deve essere
esercitata dall’intero corpo politico cioè dal popolo riunito nell’assemblea dei cittadini. Rousseau
sostiene la democrazia diretta. La legge deve essere approvata dalla totalità dei cittadini che non
possono essere rappresentati perché la volontà generale è intrasferibile ed è potere del magistrato.
L’attività esecutiva è affidata al governo che è istituito con una legge che gli conferisce i poteri
necessari per svolgere la sua attività. Rifiuta la concezione giusnaturalistica che riteneva il sussistere
tra il popolo e il governo un contratto che determina i rispettivi obblighi e diritti e conferiva
un'autonoma posizione al governo. I membri dell’esecutivo sono nominati dall’assemblea dei cittadini
e devono essere considerati dei commissari, degli incaricati, dei funzionari del popolo. Il governo non
ha autonomia nei confronti dell’assemblea. Afferma il primato del legislativo sull’esecutivo. In una
costituzione democratica la volontà generale ha come oggetto il bene comune; i partiti devono essere
banditi dall’ordinamento democratico. La legge è una dichiarazione della volontà generale, la
maggioranza esprime una decisione e quindi una volontà che si identifica con la volontà generale e
quindi con il bene comune. La minoranza non ha alcuna posizione autonoma da rivendicare e la sua
opinione è un errore che deve essere riconosciuto come tale dalla stessa minoranza.

16)Hume: Empirismo, economia e società politica

-Contesto storico

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Il pensiero di Hume è anche legato a quello di Rousseau, nel 2017 escono due saggi importanti, uno si
chiama “Contro Rousseau” e poi “a proposito di Rousseau”, evidenziano il rapporto conflittuale tra
questi due autori. Si tratta di due mondi diversi, Hume con il suo empirismo e la sua essenza
liberale, il modo di dare la priorità assoluta all’individuo, mentre Rousseau la dava allo stato.
Hume vive in Scozia, nasce ad Edimburgo, nel 1711, vive in un periodo di profonde trasformazioni,
la Scozia nei primi del 700 era un paese molto arretrato per cui dopo l’unione tra le due corone, anche
l’economia scozzese seguì l’andamento di progresso dell’Inghilterra. Il sistema scozzese costituiva un
modello economico-capitalistico. Hume nasce da una famiglia della piccola nobiltà che lo avvia verso
gli studi giuridici, decise di abbandonare la carriera forense alla quale lo aveva avviato la sua famiglia,
si trasferisce in Francia e comincia ad elaborare i problemi relativi alla filosofia, si occupò di
letteratura, storia etc, continua poi ad interessarsi di argomenti politici e morali, escono due opere,
ovvero i saggi morali e politici, questo è un momento molto delicato, lui da famiglia di rilievo
inizia la sua speculazione attestandosi su posizioni molto vicine al partito Whig, poi il suo
pensiero si allontanerà dalle teorie Whig e si sposta a posizioni Thory, senza trascurare
l’immagine su problemi come la tolleranza e la libertà di stampa. Continuò i suoi studi e scrisse
anche una storia dell’Inghilterra a partire dall’invasione di Giulio Cesare fino all’invasione del 1888.
Negli ultimi anni si occupò anche di pensieri religiosi: storia naturale della religione, che attirò
critiche violente da parte delle autorità ecclesiastiche e gli costò il titolo dell’infedele. La
caratteristica di Hume è il suo empirismo, infatti viene chiamato un empirista rigoroso . Lui sulla
scia di alcuni autori, tutto andava risolto col problema della storia, la riteneva una disciplina
principe, la definiva il gabinetto di sperimentazione. Un’altra caratteristica di Hume è la sua
grande motivazione, si avverte l'eco aristotelico, tutto andava risolto a suo avviso con la
moderazione, amava il giusto mezzo tanto decantato da Aristotele, nulla di eccessivo, la medietà.
Un’altro aspetto che va evidenziato, lui sosteneva che questo spirito di tolleranza, la moderazione,
sosteneva la causa delle colonie americane, è nota questa fase riportata da tutti gli studiosi, per
sostenere che bisogna rispettare gli usi e costumi. Questi coloni americani non avevano allontanato la
madre patria per arricchirsi, per trovare un loro status sociale, bensì per amore della libertà e per amore
della tolleranza religiosa, spirito di libertà e di religione.

Origine della società: si basa sulla tendenza umana a realizzare l’utile sociale. Torna l’idea di utile
anche nell’esercizio del potere: l’esercizio del potere dei governanti finisce per essere utile per i
governati.
La proprietà privata si legittima sulla utilità individuale e sociale. Essa viene vista in maniera
positiva da Hume, una visione liberale, sempre vista nell’ottica della gratificazione per l’individuo.
Dal risparmio si accumula la proprietà privata vista come giustificazione e gratificazione delle energie,
concetto tipicamente Lockiano, che anche lui aveva originariamente elaborato. Hume è un realista,
l’empirismo si avvicina molto al realismo, polemizza con i giusnaturalisti.

-Ragione e società
Come nasce lo stato per Hume, per Vico etc, Hume da buon empirista c’è astrattezza nelle ipotesi
giusnaturalistiche, non concepisce lo stato di partenza dove l’uomo aveva una ragione tutta sviluppata,
quindi come Vico la società politica non nasce dal contratto “non nasce da Minerva col cervello di
Giove” la ragione è soffocata dai sensi, per cui lo stato nasce, sulla scia di Jean Bodin prima dei
giusnaturalisti, come un atto di forza attraverso un processo storico. Nasce attraverso una conquista dei
più audaci che emerge rispetto alle masse, questa minoranza prende il sopravvento e prende in mano le
redini del potere. Lo stato non nasce da un contratto, attraverso un processo storico, atto di forza
di conquista di usurpazione, una delle caratteristiche di Hume è la sua moderazione, si avvicina
molto alla relatività di Montesquieu, la caratteristica del pensiero liberale è la relatività, quello di

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calcolare aspetti positivi e negativi, inversamente proporzionale all’assolutizzazione di un
principio, prima di arrivare ad una conclusione si valutano sempre tutti gli aspetti. Per quanto
riguarda il rapporto innovazione-tradizione, Hume difende la tradizione, il suo apprezzare la
storia come metro di misura del nostro operare, il passato aiuta a valutare il futuro, da un lato non
possiamo e non dobbiamo disdegnare la tradizione, però d’altro lato non si può in alcun modo
essere sordi all’idea del progresso, il cambiamento non deve essere considerato una cosa negativa,
occorre che il progresso avvenga gradualmente. Lui è contrario a qualsiasi brusco mutamento. La
riforma protestante è stato il risultato di una serie di elementi ad esempio. Per quanto riguarda la sua
indagine sullo sviluppo delle scienze e delle arti, comincia un'indagine interessante su come l’effetto
delle scienze e delle arti ha avuto nel riscatto dei servi della gleba, con il processo storico, il passaggio
dalla fase medievale a quella moderna è avvenuto attraverso quello delle arti. Contrario al monopolio
dell’aristocrazia, una troppo grande disuguaglianza tra i cittadini indebolisce lo stato, quindi è
assolutamente contrario ad una eccessiva disuguaglianza sociale. Nessuno escluso deve poter
accedere alle classi superiori, la solita dialettica tra autorità e libertà ritorna in Hume. In campo
economico, assolutamente contrario alla cristallizzazione delle posizioni sociali.

-Hume e Rousseau
lo stato di natura: Rousseau ci credeva Hume no.
Progresso scienze e arti: Hume manifesta apprezzamento per idea del progresso, Rousseau polemizza
non solo con Hume ma anche con le teorie illuministe.
Proprietà privata: in Hume è legata al governo della legge, il sistema va però operato da leggi
adeguate ed opportune. Rousseau la rivaluta sul discorso sull’economia politica, nel contratto sociale
l’accetta, ma va distribuita equamente.
La visione diametralmente opposta sul sistema politico costituzionale inglese: l’idea del sistema
politico inglese di Hume è che lo apprezza, anche se può essere migliorato, è il miglior sistema che
garantisce la libertà. Rousseau invece sostiene che il popolo inglese si illude di essere libero.
Il male e bene della società: Hume ha una visione realistica, si allinea alla visione degli illuministi,
sosteneva che era sufficiente correggere i difetti della società, visione piuttosto ottimista. Rousseau ci
dice che occorre radere al suolo la società, nata dal contratto fraudolento, visione estremamente
negativa, sono i ricchi che hanno ingannato i poveri, bisogna radere al suolo e costruirne uno dalle
radici, solo abbattendo il sistema precedente si può riedificare il regno della virtù.
L’autore liberale, l’autore democratico: Hume rientra nel filone del pensiero liberale e viene
apprezzato da autori contemporanei, mentre Rousseau è il padre fondatore dei principi democratici.

-Fondamento empirico della ragione


Hume rappresenta la consapevolezza critica del carattere pratico della cultura dei lumi e sottolinea
l’importanza di un’analisi approfondita delle passioni e sentimenti, che possa individuare quelli più
adatti alla vita civile. La politica è ricondotta ai fatti, alle esperienze convalidate dalla storia, ai
dati empirici: essa è studiata con indagini su problemi della vita politica inglese. La politica deve
ispirarsi allo spirito di moderazione, trovando nelle “dispute il giusto mezzo”. La filosofia deve
indicare il modo con cui la ragione può operare efficacemente nella società, tuttavia Hume ritiene
che dobbiamo interessarci solamente di ciò che rientra nel campo della nostra esperienza empirica,
fondata sulle sensazioni. Le idee sono il riflesso delle nostre sensazioni o impressioni, quando queste
perdono la loro iniziale vividezza: le relazioni idee-esperienza sono relazioni di fatto, considerabili
come situazioni ricorrenti. Anche la relazione causa-effetto è fondata sull’esperienza. L’intelletto è
pertanto la facoltà che ha l’uomo di descrivere i risultati della sua esperienza. Il compito della
filosofia è quello di definire l’ambito del nostro intelletto, per non esprimere giudizi che non trovino

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riscontro con l’esperienza. L’uomo infatti, oltre la facoltà razionale, possiede l’immaginazione, a cui si
accompagna la credenza.

-La politica
La politica non può essere fondata su principi eterni. Riferendosi alle concezioni politiche dei
partiti whig e tory viene osservato che quelle concezioni hanno un valore pragmatico e non
contengono alcun principio atto ad individuare la vera natura della società politica. La politica come
scienza si rende conto che le giustificazioni di carattere filosofico hanno solo un valore di
“copertura ideologica”: essa deve basare il suo esame sui fatti che ne sono il vero supporto. La storia
ci consente di scoprire i principi universali della natura umana, mostrandoci gli uomini nelle varie
circostanze, sussiste una natura umana identica nella storia, che ci consente di confrontare le diverse
esperienze politiche. La politica, in quanto conoscenza delle situazioni e delle condizioni di fatto
propri dei gruppi umani, deve seguire la stessa metodologia delle scienze della natura sono
inconsistenti le concezioni metafisiche della giustizia: il suo fondamento è in realtà l’utilità sociale è
giusto ciò che è socialmente utile. Vi è però un rapporto di reciprocità tra l’utile individuale e
quello sociale, nel senso che l’uno è la premessa per conseguire l’altro. Tale relazione è possibile
quando l’uomo perviene alla consapevolezza dell’utile: deve stabilire un rapporto tra i bisogni
presenti e i bisogni futuri, che devono essere immaginati.

-Giustizia e proprietà
La proprietà privata, che si legittima sull’utilità individuale/sociale, si basa sulla conservazione dei
beni disponibile per la produzione dei beni futuri. Le relazioni fra gli uomini finalizzate alla
collaborazione sono possibili solo se vengono fissate le regole che garantiscono la proprietà. La
giustizia ha come primo scopo la tutela della proprietà privata. Il secondo scopo è quello di garantire
le promesse e gli accordi, necessari alla collaborazione tra gli individui. Hume è critico sia della
concezione idilliaca della società di natura e delle concezioni collettivistiche, una società egualitaria è
irrealizzabile; se si tentasse di imporla si instaurerebbe un potere tirannico che genererebbe povertà. La
società politica si forma in un lungo periodo storico, nel quale gli uomini acquisiscono principi e leggi
che sono il frutto di esperienze individuali e collettive. La comunità non si fonda sul contratto, l’uomo
primitivo è incolto e dominato dagli istinti, incapace di pensare ad una ipotetica società.

-Forza, potere ed opinione


La società si costituisce mediante la forza. Il governo è formato da un’oligarchia che esprime i
comandi che vengono eseguiti dalla maggioranza. La sottomissione della maggioranza alla minoranza
di governo si fonda sull’opinione delle opportunità di ubbidire ai poteri. Occorre distinguere
quattro tipi di opinione: di interesse, di diritto, di diritto alla proprietà e di diritto al potere. Il
primo indica il senso di vantaggio generale che deriva dal governo. La seconda, la terza e la quarta
sono il risultato del processo di interazione che avviene tra gli individui in un decorso di tempo, solo la
tradizione fonda la convinzione del diritto e dà legittimità ai governi. Le riforme sono comunque
auspicabili, se dettate dalla ragione “illuminata”; sono le rivoluzioni che vanno evitate ad ogni
costo. Le innovazioni radicali sono pericolose perché spezzano la continuità delle generazioni che
è la vera struttura portante di ogni ordinamento politico. Le innovazioni che sono in sintonia con la
razionalità sono finalizzate alla libertà civile e politica. La dinamica della società è ricondotta allo
sviluppo della razionalità. La ragione comincia a manifestarsi con le prime attività empiriche, che
sottraggono l’uomo alle passioni (l’invenzione delle arti).

-Economia e società

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Il progresso delle scienze e delle arti è la premessa per il diffondersi della civiltà. L’attività
economica realizza la dinamica degli interessi fra le diverse categorie sociali. Il lavoro è l’attività
mediante cui si esprime la personalità dell’uomo. La felicità richiede che si compongano
armonicamente l’azione, il piacere e l’indolenza. (le arti promuovono l’azione). Le arti liberali
esprimono una forma di conoscenza che si basa sull’esperienza empirica e permettono di avere
controllo sull’attività svolta, la ragione che si sviluppa nelle arti liberali è l’acquisizione a livello
teorico della razionalità propria delle arti meccaniche: le une aiutano le altre. (il lavoro equivale al
sapere scientifico) Il progresso economico diventa fautore della libertà politica, cioè un principio di
dinamica sociale capace di realizzare le innovazioni necessarie alle nuove esigenze.

-Sviluppo economico e libertà politica


Il processo di emancipazione dei membri delle classi meno abbienti fu dovuto al progresso delle
arti meccaniche ed al commercio. Le trasformazioni sociali del medioevo prendono avvio proprio
dalla rinascita delle arti e del commercio, sussiste una corrispondenza tra l’attività economica (arti
e commercio) e lo Stato libero: la libertà politica è la premessa con cui possono progredire le arti.
Il dispotismo non può che deprimere il carattere dei sudditi: il popolo sotto un governo assoluto è
schiavo e non può sviluppare la ragione. La libertà è quindi condizione necessaria del progresso
e del diffondersi della ragione e della civiltà: è il principio animatore della società civile. Il
diffondersi dell’industria riflette a sua volta sull’ordinamento politico: esso tende a diffondere la
ricchezza fra le classi sociali, promuove un processo di mobilità sociale e sollecita una reale
collaborazione fra le diverse classi. Hume suggerisce così una politica economica e sociale
finalizzata alla ripartizione della ricchezza nazionale e che tende ad attenuare le distanze sociali.
Libertà: gli individui controllano il potere, in quanto chi lo detiene lo deve svolgere secondo leggi
predeterminate e conosciute. Il governo però deve interpretare anche le esigenze dell’autorità, che
attiene all’esistenza stessa della società civile. Vi sono quindi due principi alla base
dell’ordinamento: quello dell’autorità e quello della libertà. La prima esprime l’esigenza delle
continuità e della tradizione, la seconda l’istanza del continuo perfezionamento della società.

-La visione antropologica di Hume


In Hume il pensiero antropologico è il frutto delle riflessioni svolte sul piano empirico. L'uomo è
l'insieme di pensare, sentire, volere e agire; questi piani non possono essere separati e manifestano
un indissolubile interconnessione. La natura umana si manifesta attraverso l'intreccio di diversi fattori
razionali, sensibili, intuitivi. L'uomo di Hume sembra incarnare proprio la poliedricità di questi
elementi che si legano l'un l'altro. Malgrado non ci siano eccessivi riferimenti diretti, è evidente il
continuo confronto di Hume con la filosofia di Hobbes. La prima differenza sostanziale è legata al
rifiuto humeano di basare la sua antropologia esclusivamente sull'egoismo. Il metodo empirico lo
portava a sottolineare l'esistenza di altre qualità umane, quali la generosità e la benevolenza che,
seppur limitate, possono essere rintracciate nei comportamenti umani. Hume, nella sua antropologia,
analizza le medesime passioni e gli stessi dati empirici analizzati da Hobbes, ma “ciò che è diverso è
l'ordine e il rilievo dato alle diverse passioni e inoltre il tipo di relazioni che si istituisce tra di esse”.
Per Hobbes, l'uomo “naturale”, posto in una condizione di precarietà e di scarsità di risorse, oscilla
tra la paura della morte violenta e l'affermazione di sé, che ha come presupposto la ricerca della
sicurezza personale; per Hume, nelle stesse condizioni, l'uomo è motivato da una parte dall'egoismo
che lo spinge verso l'attività, il movimento, la ricerca del successo, dall'altra è spinto dalla benevolenza
e dalla generosità ad associarsi.

17)Smith

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Il pensiero politico ed economico di Smith era condiviso da molti autori: Ricardo, Mill, altri. Il fatto
che fu chiamato caposcuola è perché fu il primo a condividere queste idee liberiste. Il periodo più
fecondo è sicuramente quello del 1776 con la ricchezza delle nazioni fino al 1917, esce l’opera di
Davide Ricardo, principi di economia. La diffusione di queste idee attraversa tre fasi:
- fase di un grande ottimismo inaugurata proprio da Smith, l’altra figura emblematica che
rappresenta l’obiettivo liberista è quella di Jean Baptiste che è autore di un'opera che forma la
legge dei mercati e degli sbocchi.
- fase altrettanto feconda, emblematica la figura di Davide Ricardo, autore molto seguito, lui
difendeva la nuova borghesia che si andava affermando soprattutto in Inghilterra. Ci furono
una serie di fazioni in questo senso.
- terza fase quella della crisi totale, Thomas Malthus scrive un saggio sul principio di
popolazione nel 1798 ed è convinto che il processo economico si sarebbe avviato verso la
crisi.

-Contesto culturale
Adam Smith nasce in una cittadina sulla costa orientale della Scozia nel 1723 e muore nel 1790, il
padre morì alla sua nascita, iniziò gli studi all’università di Glasgow e poi ricoprì due ruoli importanti
nell’ambito accademico: professore di logica e di morale. Smith non aveva molta fiducia nei confronti
dei professori universitari. Scrisse un’opera che si chiama la teoria dei sentimenti morali,
importante perché l’immagine di Smith alla storia è quella di essere un economista tout court,
lui invece in filo diretto con Hume formula la teoria dei sentimenti morali: introduce il tema
della simpatia, negli uomini non c’è solo rigore scientifico, è fatto anche di sentimenti, c’è una
sorta di compassione e pietà nei confronti degli altri uomini. Scrive anche opere di un certo
spessore, dopo aver ricoperto la cattedra abbandona l’insegnamento, si occuperà dell’educazione di un
aristocratico del tempo, questo gli permise di viaggiare in Europa, soprattutto in Francia dove parlò
con d'alembert ed altri.

-Economia e società
Nel 1776 esce la grande opera di Smith che si chiama “indagine sulla natura e sulle cause della
ricchezza delle nazioni”. Parte da questa considerazione: l’uomo è uomo del bisogno. (concetto
già presente in Platone ed Aristotele) L’uomo non può da solo soddisfare tutti i bisogni, necessita
della collaborazione con gli individui, nasce l’idea della divisione del lavoro. Con Smith parliamo
di rapporti che si stabiliscono tra gli uomini di ordine economico. La divisione del lavoro non è frutto
della razionalizzazione dell’uomo o della pianificazione, ma una tendenza naturale degli stessi,
ciascun uomo si specializza su una determinata attività. Il famoso riferimento agli operai che devono
produrre gli spilli, per fabbricarlo servono tutta una serie di operazioni, ognuno si specializzerà nella
produzione di un determinato oggetto. L’uomo ha bisogno per produrre di dividere il lavoro, la
posizione di Smith è estremamente realistica, bisogna pensare che ci sia sempre una contropartita,
naturalmente la produzione deve supporre l’esistenza di un capo. Io debbo produrre ma in modo tale
da non dover accumulare una merce eccessiva. Introduce il discorso del baratto già affrontato da
Locke. Si innesta un altro discorso, che verrà ripreso da Marx, il valore d’uso e il valore di scambio,
per spiegare al lettore cosa lui intenda per uso fa riferimento all’acqua, un bene che ha un altissimo
valore d’uso e bassissimo valore di scambio. Il valore di scambio altissimo c’è l’ha il diamante, un
bassissimo valore d’uso.

-I fattori della produzione

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Il lavoro, il capitale e la terra sono i tre fattori importanti della produzione. La terra è un fattore
importante, non così determinante, in questo supera la concezione dei suoi amici fisiocratici, che
consideravano la terra tra i beni, a capo di questa scuola di pensiero vi era un economista che entrò in
conflitto con Smith si chiama Quesnay, perché questi riteneva la terra più importante. Smith si era reso
conto che i paesi britannici stavano avviando verso il processo di industrializzazione, quindi per lui il
lavoro. La terra da una rendita, per quanto riguarda il capitale è un fattore della produzione di
grandissima importanza, io ottengo profitto. Se invece utilizzo diversamente il capitale e lo do in
prestito ad un imprenditore che ha bisogno di danaro, io otterrò da questo capitale l’interesse. Smith
sulla scorta di Montesquieu considera di primaria importanza il lavoro, uno dei fattori principali più
importanti. Fa una distinzione seria, tra il lavoro produttivo e improduttivo. per Smith lavoro
produttivo è quello che porta ricchezza in un paese, lavoro produttivo causa di origine di ricchezza.
L’altro lavoro è improduttivo, serve, ma non porta nessuna ricchezza. Liberale. Il discorso della mano
invisibile lo dice anche nella teoria sui sentimenti morali, lo stato è come una macchina, se noi lo
facciamo da soli, questa macchina funzionerà perfettamente, discorso della eterogenesi dei fini. Katia
ci ricorda che in Vico è particolarmente presente: ognuno di noi persegue il proprio personale
interesse, se nasciamo liberi di orientare i nostri obiettivi senza un intervento di nessuno, alla fine
esistono delle forze endogene per cui si produrrà il benessere generale. Nasce quindi il discorso della
funzione dello stato, il quale deve intervenire il meno possibile nella vita della collettività, questa è la
teoria dello stato nullo. Dobbiamo essere liberi di orientare le nostre scelte in una certa
direzione, esistono delle forze misteriose, che lui individua in qualcosa che dirigerà le azioni
verso il benessere generale quando non si influisce troppo nella vita degli individui. Secondo la
corrente di Smith c’è lo stato nullo, lo dice anche nell’opera precedente, di lasciar andare le cose per
il proprio corso a differenza di Rousseau che deve sacrificarsi per lo stato, infatti qui ci troviamo in
una posizione opposta. Smith si orienta per la liberalizzazione dei commerci internazionali. Le
funzioni che deve avere lo stato sono 3:
- la difesa dagli stati esterni.
- funzione giurisdizionale: lo stato deve procurare questa funzione. Smith è molto innovativo,
sostiene che il potere giudiziario ha grandi responsabilità, si rischia la collusione tra potere
esecutivo e stato, il corpo dei giudici deve essere indipendente economicamente, così sarà
svincolato dalla tentazione di corruzione con il potere esecutivo.
- le opere pubbliche: lo stato deve intervenire, nessuno ha interesse a creare le opere pubbliche,
funzione dello stato.

Lo stato paternalistico è diametralmente opposto allo stato nullo. Il sistema fiscale è il concetto più
delicato, il contribuente deve essere conscio di quello che paga, con questi criteri: chiarezza,
certezza, limpidezza e semplicità. Per lui i clienti dovranno scegliere le modalità e i tempi in cui
pagare. Se il contribuente si sente vessato produce poi l’evasione, porta ai casi dell’usura che viene
condannata senza mezzi termini, quindi bisogna offrire al contribuente il modo di non sentirsi così.

-La formazione della società civile


La visione di un autore o di un altro è l’origine dello stato, Smith si allinea a quelle correnti di
pensiero che pensano alle origini dello stato come processo evolutivo. Smith fa riferimento alla
società di natura, questa evoluzione storica dello stato viene vista in chiave squisitamente economica,
quindi nella descrizione della origine della società, la prima forma di società nasce da un processo
storico. La prima fase è più primitiva. Qui nasce l’idea del lavoro improduttivo, lavoro dei campi.
L’uomo dovrà difendersi dagli attacchi dei nemici, nasce in maniera sfumata l’idea del lavoro
improduttivo, l’agricoltore fa lavoro produttivo, poi dovrà nascere la classe che dovrà difendere la
terra dagli attacchi esterni. Vi sono tre tappe fondamentali, corrispondenti a tre tipi di attività: la

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caccia, la pastorizia e l’agricoltura; che esprimono i primi tre tipi di società naturali. Solo con
l’agricoltura si costituisce un capitale che può avviare il processo di accumulazione.

-Società civile e società politica


Smith sostiene che la società di natura, utilizza lo stesso sinonimo, la chiama società naturale o
società civile, mentre la società civile o stato la chiama società politica o artificiale. Nella società
naturale Smith individua 4 forme di superiorità:
- la superiorità dovuta delle qualità naturali.
- la superiorità nei confronti della persona più adulta.
- la ricchezza, chi ha la proprietà è ricco.
- la nascita, chi proviene da famiglie nobili mostra una certa forma di superiorità.
La ricchezza delle nazioni pone il problema dei rapporti fra l’attività economica e la società
politica; proponendo uno studio dell’economia come analisi delle leggi che governano
l’organizzazione del lavoro produttivo: l’attività economica, realizzandosi, crea un insieme sistematico
di rapporti tra gli individui. Vi è un dualismo tra società civile e società politica (naturale e
artificiale): la prima scaturisce dall’attività economica e corrisponde ai rapporti nella produzione, la
seconda comprende le istituzioni poste in essere dagli uomini per difendere l’ordine. La ricchezza di
una nazione, cioè i beni (il prodotto), deriva dal lavoro della collettività. Il lavoro è considerato come
un’attività in cui si esplica la natura dell’uomo e si manifesta la sua personalità. La razionalità si
forma per tentativi che l’uomo fa per rendere più produttivo il suo lavoro. L’attività economica
corrisponde alla natura dell’uomo: il lavoro deve essere considerato la causa delle relazioni che si
istituiscono fra gli individui. Il principio dell’organizzazione e del perfezionamento dell’attività
lavorativa è quello della divisione del lavoro: ogni individuo svolge l’attività che gli è più adatta.
Così facendo si diminuiscono i costi ed aumenta la produttività, tale principio è la conseguenza
necessaria della tendenza naturale allo scambio. Lo scambio è possibile mediante l’istituzione del
“mercato”, che è essenziale per lo sviluppo dell’intera organizzazione economica. L’organizzazione
produttiva di Smith si fonda sull’industria.

-Il capitale
Le categorie economiche sono date dai tre fattori della produzione: il lavoro, il capitale e la terra
(la rendita). Il capitale è formato dai beni che sono sottratti al consumo e che sono destinati alla
produzione di altri beni. Esso viene distinto in capitale variabile e fisso. La funzione del capitale è
quella di predisporre i mezzi necessari alla produzione. Il fine della produzione economica, oltre a
quello di fornire i beni necessari, consiste nell’aumento della produzione stessa (accumulazione). La
produzione annuale viene ripartita mediante le tre remunerazioni: il salario, il profitto e la
rendita. In tal modo lo status sociale dell’individuo inizia ad essere definito sulla base del ruolo svolto
nell’organizzazione produttiva del lavoro. Il prezzo è l’equivalente monetario del valore della
merce: nelle economie primitive il valore era dettato dal valore d’uso, che era determinato dalla
quantità di lavoro necessario per produrre la merce. L’introduzione della merce consente di
formulare il prezzo nominale delle merci, che si avvicina a quello reale. Il sistema economico è
governato dalla legge naturale della sua riproduzione: il prezzo deve rappresentare il costo per
conservare ed aumentare le forze produttive. La società civile non si fonda sul contratto sociale, è il
risultato spontaneo e necessario dell’organizzazione del lavoro. Il costituirsi ed il formarsi della
società dipende dallo sviluppo economico, cioè da come si realizza la divisione del lavoro. A tal
fine è necessario che non tutti i beni di cui si dispone vengano consumati, risparmiandone una
parte: l’accumulazione del capitale è la condizione indispensabile per lo sviluppo economico. Le
forme storiche di società dipendono dalle forme con cui si realizza il processo di accumulazione. I
rapporti tra gli individui nella società naturale sono regolati da forma di subordinazione naturale.

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Esistono quattro forme di subordinazione: la prima si riferisce alla superiorità delle qualità
personali, la seconda scaturisce dalla superiorità d’età, la terza deriva dal possesso stabile della
ricchezza e la quarta è costituita dalla distinzione della nascita. Il sistema dei comandi e delle
obbedienze si fonda su un rapporto di subordinazione naturale che deriva dal possesso della
ricchezza e dalla distinzione con la nascita. Il potere si fonda invece sull’organizzazione
burocratica propria della società artificiale, e trova la sua legittimazione in una delle tre forme
di autorità. La proprietà, intesa come conservazione dei beni destinabili a capitale, nasce dalla
prima essenziale forma di controllo che l’individuo esercita sui propri bisogni e dalla previdenza
che la accompagna. La proprietà rappresenta che l’ordine civile sia informato al principio della
disciplina delle passioni. I mezzi di cui può disporre una società sono limitati: bisogna non disperderli.
La società artificiale viene presentata come la sovrastruttura di quella naturale (cioè
l’organizzazione produttiva del lavoro). La quantità di beni che viene annualmente destinato allo
Stato non deve intaccare il lavoro produttivo. Lo Stato viene considerato come l’insieme dei
servizi e degli uffici che debbono garantire la pace, la tranquillità e l’ordine della società
naturale: ha una funzione strumentale. I suoi fini sono determinati dalle esigenze fondamentali
della società naturale e devono consistere in compiti che non possono essere assolti dall’iniziativa
dei privati. L’apparato burocratico-amministrativo dello Stato va finanziato mediante le imposte.
L’amministrazione della giustizia deve essere finalizzata alla garanzia dei rapporti che si
istituiscono alla base della società privata: essa è infatti il risultato di un processo di accumulazione
dei risparmi scaturiti dal lavoro di più generazioni, e va difesa contro la naturale tendenza “altrui” di
impadronirsene. Deve essere sancita l’indipendenza e l’autonomia del potere giudiziario da quello
esecutivo.

-Libertà economica e politica


Ogni individuo deve essere riconosciuto libero di esplicare la sua attività al fine di migliorare la
sua condizione, senza arrecare danno agli altri. Nella teoria dei sistemi morali la società è un
sistema in cui le attività dei singoli, lasciate libere di autodeterminarsi, si collegano
spontaneamente, realizzando uno stato d’equilibrio che corrisponde alla migliore utilizzazione
delle risorse ed alla maggiore produzione di ricchezza. Tale mano invisibile realizza il principio
dell’eterogenesi dei fini: nel conseguire l’interesse privato viene conseguito anche quello collettivo. Il
relativo principio della libera concorrenza, nel rispetto della giustizia, deve informare il sistema
economico e politico: tutti gli individui devono potersi confrontare tra loro. Sulla base di questo
principio vanno abolite tutte le leggi che limitano l’attività del lavoro produttivo, vanno abolite
le leggi sui poveri, sui privilegi e sulle corporazioni. Va inoltre evitato il monopolio. Smith
sostiene la liberalizzazione del commercio internazionale. Il principio della libertà e
dell’autonomia va applicato anche ai domini coloniali: Smith riconosce il diritto delle Colonie
americane all’autogoverno ed all’indipendenza. Il dominio coloniale va ristrutturato ispirandosi al
principio della collaborazione. Per Smith (in critica con la pianificazione) è impossibile pretendere di
razionalizzare tutto ciò che compie la mano invisibile.

18)Burke: Storia, rivoluzione e Stato

-Contesto storico

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(1729-1797) Burke nasce a Dublino, in Irlanda, il 12 gennaio 1729 da padre anglicano e da madre
cattolica: con il fratello Richard viene educato da anglicano perché possa, in futuro, intraprendere la
carriera pubblica; la sorella, invece - com'era costume nell'Irlanda del tempo -, riceve un'educazione
cattolica. Ma l'ambiente cattolico in cui de facto vive, gli studi coltivati e la stessa appartenenza etnica
contribuiscono a creare in lui quello che è stato definito "stampo di pensiero cattolico". Dal 1743 al
1748 studia arti liberali al Trinity College di Dublino formandosi su autori classici greci e latini:
Cicerone (106-43 a. C.) e Aristotele (384-322 a. C.) esercitano sul futuro parlamentare un'influenza
profonda come maestri, rispettivamente, di retorica e di pensiero - lo stesso Burke verrà poi
considerato uno dei massimi prosatori di lingua inglese e di filosofia politica. Nel 1750, a Londra,
studia diritto al Middle Temple: presto però, stanco del pragmatismo materialista e della metodologia
meccanicista di cui è impregnato l'insegnamento, contrariando il padre, l'abbandona e si dà alla
carriera letteraria. Ma, con il tempo, il futuro statista acquisisce comunque una seria conoscenza del
diritto europeo continentale e di quello britannico, dalla romanistica al Common Law. Estimatore e
conoscitore del diritto naturale antico e moderno, approfondisce il pensiero di Cicerone e degli stoici
latini, e, fra i moderni, quello di Richard Hooker (1553-1600), che considera come la massima fonte
del diritto canonico dell'epoca della Riforma protestante. Questi (Hooker), pastore anglicano autore di
The Laws of Ecclesiastical Polity, detto "il Tommaso d'Aquino della Chiesa anglicana", continua, in
parte e a certe condizioni, la tradizione filosofica scolastica nell'Inghilterra dopo lo scisma della prima
metà del secolo XVI. Il 12 marzo 1757 sposa Jane Nugent. Il 9 febbraio 1758 Jane Burke dà alla luce
il figlio Richard, che morirà nel 1794. Nel medesimo anno, Burke comincia a dirigere l'Annual
Register, una corposa rassegna che, dal 1759, si occupa di storia, di politica e di letteratura, prima
solo britanniche, poi anche europee continentali, e che egli dirige, anche collaborando, fino al 1765.
Eletto alla Camera dei Comuni, Burke vi diviene presto la guida intellettuale e il portavoce della
"corrente Rockingham" del partito whig, la quale, peraltro, ha solo brevi successi politici fra il 1765 e
il 1766 e di nuovo, per pochi mesi, nel 1782. Burke siede dunque nei banchi dell'opposizione per la
maggior parte della propria carriera politica ed è durante questa seconda fase della sua esistenza che lo
statista-pensatore pubblica le opere più note. Il 9 luglio 1797 Burke muore nella sua casa di campagna
di Beaconsfield, in Inghilterra.

“Rivendicazioni della società naturale” è un'opera molto importante, riprende i temi di Voli Bruk,
filosofo inglese deista, credeva nella religione naturale, addirittura lui condiziona Montesquieu di
occuparsi della politica inglese, ma anche Voltaire a scrivere il brutus, tutti i pensatori politici che
erano stati educati alla cultura illuministica e ciò fu importante. Nel 1756 escono sia le rivendicazioni
sia il bello e il sublime. Tutti i pensatori politici che vivono in quest’epoca si confrontano
obbligatoriamente con l’illuminismo. Nella revendication riprende le idee di Volimbruck per
distaccarsene, lui contrappone la religione naturale a quelle storiche, le religioni storiche sono le verità
degli uomini primitivi etc, Volimbruk anticipa un concetto che verrà sviluppato nel secolo successivo,
cioè che la religione storica era uno strumento nelle mani dei sacerdoti a danno degli uomini. Al
contrario della religione teista, Burke considera le religioni un grande rilievo. In questa opera
riprende il discorso del giusnaturalismo e delle origini della società, lui è un giusnaturalista ma
anche un empirista, costituisce il suo cavallo di battaglia con il rapporto politica-storia. Per cui
rifiuta l’idea della nascita dello stato da un contratto, sostiene che questa ipotesi sia astratta,
occorre guardare ai fatti, c’è un certo empirismo, non evidente come Hume, ma c’è. Alle origini
della società, vi è la famiglia, nasce dalla società familiare, l’uomo non si accontenta con il
passare del tempo in questa società familiare, inizia a costruire delle società più ampie, nasce
così la società artificiale, la legge era alla base di questa società. L’uomo volle costruire una società
artificiale e da lì dice Burke, iniziarono tutti i mali, fu istituito il regno del male. Opera una sorta di
indagine statistica sul numero infinito di tragedie che la storia ha prodotto. Da qui l’immagine delle

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varie forme di governo, tutte frutto di un artificio dell’uomo, la prima forma di governo fu la
monarchia, la quale ben presto degenerò in tirannia, per ovviare a questa terribile forma di
governo, gli uomini inventarono il governo aristocratico, affidarono il potere a coloro che erano
migliori, che costituirono la classe aristocratica, si sperava che potessero garantire il benessere della
società, ma così non fu. Questi aristocratici erano estremamente gelosi dei privilegi e anche in
questa forma emerge ancora una volta la pars destruens, gli uomini allora dovettero inventarsi
un’altra forma artificiale che è la democrazia, si sperava che il governo del popolo avrebbe
garantito quel benessere, quella pace, ma così non fu, anzi Burke disse, rifacendosi alla questione
storica, per portare a lotte e fazioni, tutti aspiravano al potere, si istituì un governo ancora più
pesante dei precedenti, gli uomini dovettero inventarsi un’altra forma sperando che potesse garantire
la pace, ecco che nasce una ulteriore società artificiale, basata sulla costituzione mista. Si sperava
che si potesse realizzare un potere che arrestasse un’altro potere, la storia ci insegna che tra i poteri ci
fu una profonda diffidenza dell’uno nei confronti dell’altro e non fu possibile. Si arrivò ancora una
volta alla distruzione di tutto, e alla guerra di tutti contro tutti, ma i danni della società artificiale
non finirono qui, questi sono i danni politici, ma non inferiori sono stati i danni sociali, quali sono
i risultati del divenire storico, si andò a creare un divario incolmabile tra i pochi ricchi e
l’immenso numero di poveri, sembra Burke denunciasse lo status dei lavoratori, Burke inoltre
richiama il lavoro disumano a cui venivano sottoposti i lavoratori delle miniere, ai lavoratori
delle nuove fabbriche che stavano sorgendo, da un lato si aveva la maggioranza dei poveri ridotti
ad uno stato di profondo sfruttamento, disagio e sofferenza, da un lato i ricchi per tendenza a
volere sempre di più avevano una situazione di profonda insoddisfazione dello stato, da un lato la
felicità di pochi dall’altro lo sfruttamento di molti, la società scrive Burke si disarticola. E’ una
questione che ancora oggi è controversa, la società artificiale è quella che ha creato l’uomo,
un'opera di denuncia quella della rivendicazione, Burke soffriva dello stato in cui vivevano le
nazioni in quel periodo, torna il discorso che con lo sviluppo della ragione e con società più
articolate ed organizzate lui vede il male. L’altra opera “sul bello e sul sublime” il bello è tout
court, al contrario di Hume che la società nasce dalla forza e dalla violenza mentre in Burke questo
accade dopo l’articolazione delle società, il bello sta alla base. Poi si occupa della storia d'Inghilterra
che lascia incompiuto. Lui è a favore di una monarchia costituzionale. Tutte le forme degenerano.
Lui addebita tutte le colpe non tanto alle forme di governo, quanto l’animo umano, la sua lotta è
contro l’illuminismo: “nell’animo umano c’è molto di più dell’utile, di ragione, l’uomo è fatto
anche di sentimenti, di storia, di valori”. Lui anticipa la cultura pre-romantica. Delle riflessioni
sulla rivoluzione Francese del 1790, uscirono in 12 mesi 11 edizioni, furono vendute fino alla sua
morte 30.000 copie, nella sola Inghilterra 10.000 copie, opera che Re Giorgio III aveva detto che
qualsiasi buon cittadino avrebbe dovuto leggere. Tanti sono i temi affrontati, Burke contro le opinioni
più diffuse, vuole screditare le opinioni di chi sosteneva che la rivoluzione francese non fosse
stata altro che la ripetizione della gloriosa rivoluzione inglese, per Burke non era assolutamente
così: la riv. Inglese aveva l’unico obiettivo di portare miglioramenti alla costituzione di allora, è
stata chiamata gloriosa perché non ci fu un conflitto sanguinoso e dissacrante. Era una rivoluzione
dovuta dopo l’atteggiamento assolutistico dei re stuart, ma tutta altra cosa è stata la riv. francese
che ha voluto abbattere un sistema, per ricostruire una nuova società dalle radici. La storia
costituisce un punto di riferimento fondamentale per un futuro migliore, occorre cercare di
coniugare il passato con il presente, lui crede nel miglioramento e nel divenire storico, ma non
possiamo fare tabula rasa del passato, lui si rende perfettamente conto delle gravissime macchie
dell'Ancien Régime, bisogna condannare ma in maniera graduale. Lui è contrario a qualsiasi
forma di rivoluzione cruenta, lui non sopporta i filosofi illuministi, ammette che Rousseau fosse un
grande filosofo, ma lui dice: “se avesse vissuto qualche anno in più non sarebbe inorridito dal terrore,
dalla crudeltà giacobina, dalla pesantezza del movimento? io penso di si”. Ha abbattuto i privilegi

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dell’aristocrazia, è riuscito ad abbattere i privilegi degli ordini religiosi, la mano morta, ma a
queste classi sociali se ne è sostituita un'altra: la borghesia, “i borghesi e i ricchi”, classe sociale
costituita da intellettuali, da filosofi, da giuristi. Viene riconosciuta a Burke la lungimiranza
nell’esprimere i suoi giudizi, prevede un futuro drammatico per la Francia, lui dice: qual è
l’unico corpo che può imporre il suo potere? il popolo, ma fino ad un certo punto, l’esercito!! che
diventerà il solo padrone della Francia. Quando all’interno dell’esercito si troverà un generale
dotato di capacità straordinarie, riconosciuto dal popolo, questo diventerà il vero padrone della
Francia” sembra così prevedere il futuro di Napoleone Bonaparte, una grandissima lungimiranza,
questo generale porterà alla più drammatica delle dittature. Qual’è la funzione che dovrebbe avere
un monarca, un sovrano, un governante. Agire come un semplice amministratore della cosa
pubblica. La sua figura è complessa: da un lato divenne l’ispiratore delle teorie rivoluzionarie,
dall’altro delle teorie liberali come Tocqueville ed anche personaggi recenti, i quali utilizzarono
posizioni di Burke per cercare di contrastare ideologie totalitarie. Altri come Kirk sosteneva il
suo sistema come statuto del conservatorismo moderno. Affrontò le questioni più importanti
relative alla trasformazione dello Stato costituzionale in Stato parlamentare.

-Diritto di indipendenza ed autonomia delle colonie


Riguardo alla questione delle Colonie egli sostenne che il parlamento dovesse prendere atto che
esse sono diventate società politiche autonome, dato il loro livello di organizzazione sociale e
statale. Burke analizza la società americana, mettendo in rilievo l’importanza che hanno le
tradizioni religiose, al fine di comprenderne l’ordinamento politico e lo spirito di libertà. Viene rivista
radicalmente la vecchia concezione dell’Impero inglese, che deve essere considerato una comunità
in cui tutti i paesi che vi appartengono fruiscano della loro indipendenza ed autonomia, il regno
d’Inghilterra deve svolgere verso le sue Colonie una funzione di guida e di orientamento
(proponeva la trasformazione in Commonwealth). Durante la messa in stato d’accusa di Warren
Hastings, Burke sostenne che una politica di conquista ha dei limiti ben precisi negli intangibili diritti
che debbono essere riconosciuti ai popoli ed alle istituzioni, in quanto esprimono una civiltà. Il diritto
di conquista non giustifica in alcun modo il dominio tirannico: fra le forme di civiltà non è
possibile individuare alcun criterio formale di superiorità o inferiorità, in quanto tutte sono
forme originarie della socialità dell’uomo. L’Inghilterra deve stabilire con questi popoli rapporti e
vincoli che debbano fondarsi sui principi di una comune giustizia, che va rispettata da tutti.

-Corona e parlamento
Burke cerca di precisare il rapporto sussistente fra la Corona, il governo ed il Parlamento, per
individuare i presupposti del suo assenso ai provvedimenti del Governo. I conflitti politici
debbono essere considerati in una prospettiva storico-politica. In uno Stato costituzionale non si può
avere una concezione pragmatica o empirica della politica; occorre invece pervenire ad un vero
giudizio politico, in grado di valutare gli interessi in corrispondenza della situazione politica nella
quale si manifestano, in modo da indicare una linea politica coerente con i principi del sistema
costituzionale inglese. Il Discorso sulla mozione di conciliazione con le Colonie è un esempio del
metodo seguito da Burke per formulare un giudizio politico. Si cercava di concentrare il sistema
intorno alla Corona, svuotando la Camera dei Comuni delle sue funzioni: alla Corona, insieme al
governo, faceva capo l’apparato amministrativo, che consentiva al Re di offrire importanti
incarichi. Tale preminenza della Corona porta ad una commistione dell’attività politica e di
quella amministrativa, che dovrebbero rimanere distinte. Tale intervento della Corona aveva
causato la riduzione dei problemi politici a problemi amministrativi: tutta l’azione dei politici si
concentrava sui singoli provvedimenti, causando una disarticolazione del potere centrale in tanti centri
minori. La distinzione tra politica ed amministrazione si fonda sul fatto che la prima deve

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individuare i fini della collettività ed i mezzi adeguati per conseguirli, mentre la seconda si riferisce
alla realizzazione dei fini indicati mediante i mezzi decisi in sede politica. Gli interessi in quanto tali
appartengono all’amministrazione. La politica seguita dalla Corona si fondava su un empirismo
che non riusciva a concepire una visione sistematica ed unitaria degli interessi. I partiti non
debbono essere considerati alla stregua di fazioni che perseguono fini in contrasto con la collettività,
ma come associazioni di individui che hanno una comune concezione politica, sulla cui base
propongono provvedimenti coordinati. Solo tramite i partiti, in quanto portatori di idee politiche si può
esprimere un governo caratterizzato da un vero programma. Esso se espressione di una maggioranza e
confrontato dal consenso dell’opinione pubblica conferisce al governo unità d’azione. L’opinione
pubblica ha una posizione di particolare rilievo, essa è una componente essenziale del sistema
costituzionale che fa del Parlamento un vero organo politicamente rappresentativo: Burke è contrario a
che il mandato parlamentare venga considerato come un mandato “imperativo”.

-Riflessioni sulla Rivoluzione francese


Su le Riflessioni sulla Rivoluzione francese, si rileva che gli avvenimenti francesi entrarono nella
politica inglese, dividendo il partito whig al governo in una maggioranza favorevole alla
Rivoluzione francese ed una minoranza (tra cui Burke) ostile alla Rivoluzione, tale contrasto
portò Burke ad uscire dal partito. Più tardi rileva che a volte si impongono scelte contrarie alla
disciplina del partito, in quanto attengono alle nostre convinzioni più profonde ed alla responsabilità
che abbiamo verso la nostra coscienza. L’analisi sulla rivoluzione si riferisce al periodo compreso
tra il 1789 e il 1790, quando l’Assemblea nazionale aveva varato importanti progetti di riforma.
Burke li analizza alla luce degli ideali che avevano promosso la Rivoluzione in Francia. Critica la
concezione secondo cui gli avvenimenti francesi sono solo una “ripetizione” della gloriosa
rivoluzione inglese del 1689. Per Burke sono diversi in quanto la rivoluzione inglese intese difendere
l’antico sistema costituzionale, in quanto il Parlamento inglese e le relative forze politiche si sentivano
inseriti in una tradizione. La Rivoluzione francese invece mira a ricostituire la società mediante la
ragione: la tradizione deve essere cancellata; essa è la coerente conclusione, sul piano della politica,
dell’affermazione illuministica circa l’assoluto primato della ragione. La critica alla ragione
illuministica viene svolta nel suo primo scritto politico Vindication of natural society e poi ripresa
nelle Riflessioni. La politica è una scienza sperimentale, in quanto insegna a costruire uno Stato. La
politica deve riferirsi ad un tipo di ragione che sia “plasmata” dall’esperienza. La politica, data
la sua complessità, non può essere compresa con i criteri dell’intelletto analitico. Per
comprenderle serve l’esperienza di più individui, in quanto quella del singolo non basta.

-Problema della continuità storica


La ragione sulla quale si basa la politica, che viene contrapposta a quella illuministica, si
identifica con la storia, ed è la consapevolezza della intrinseca razionalità della storia che si
manifesta mediante i costumi, le tradizioni e le istituzioni che garantiscono continuità al processo
storico. Le istituzioni della società, proprio perché sono risultato di un’esperienza storica, hanno una
loro precisa ragion d’essere: il presente in cui viviamo è connesso intimamente al passato. Il passato
vive nel presente, in quanto testimonia la personalità del popolo e fonda la sua identità. Le società che
rifiutano il passato si “tolgono” dalla storia: credono di rinnovarsi, ma in realtà realizzano un ordine
politico “astratto”, sostanzialmente statico. La costituzione deve essere concepita come l’espressione
dell’esperienza politica di un popolo, quale si è attuata nella storia. L'unico vero titolo di legittimità
del diritto è la prescrizione, cioè l’opinio iuris che scaturisce dallo spirito generale di un popolo. La
costituzione ha una natura essenzialmente prescrittiva: solo il decorso del tempo può legittimarla.
La conclusione è che l’attività di governo che si ispira al principio della volontà generale finisce poi
per pervenire a risultati opposti a quelli che intendeva conseguire.

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-Innovazione e conservazione
Burke è convinto che l’ordine francese dovesse essere riformato e rinnovato: lo Stato che non è
capace di riformarsi non è in grado di conservare ciò che ne costituisce il patrimonio più
prezioso. La tradizione deve essere considerata alla luce della dialettica conservazione-innovazione le
riforme devono connettersi organicamente con quanto deve essere conservato. La conclusione è che la
politica delle riforme ha dei tempi di esecuzione molto lunghi: il tempo della storia non può essere
accelerato.

-La rivoluzione ed il potere reale


La critica verso la Rivoluzione francese evidenza il dislivello che sussiste fra il piano formale ed
astratto delle riforme e quello della realtà politica. I provvedimenti più importanti sono quelli di
natura economico-finanziaria: la liberazione della proprietà immobiliare da tutti i vincoli
aristocratico-feudali e la conseguente confisca dei beni della Chiesa sono volti si ad escludere
l’aristocrazia e l’ordine ecclesiastico ma non sono a favore dell’intero popolo o a favore dell’alta
borghesia. La nuova classe politica crede che sia possibile governare il paese con leggi che dovrebbero
essere obbedite per la loro intrinseca razionalità: il potere invece si fonda su una forza che trova la sua
disciplina in ideali, valori e principi. Essi si esprimono nella società con forme che sono efficaci solo
se si basano sulla tradizione. La ragione ha dissolto i sentimenti e non è in grado di porre dei limiti
sostanziali al potere, che si manifesterà prima o poi come forza oppressiva. Il potere si manifesta
dapprima come dominio della ricchezza, creando una nuova classe politica di tipo oligarchico.
L’esercito obbedisce solo alle persone con le quali ha un rapporto di carattere istituzionale, cioè
ai propri comandanti. L’armata francese è quindi una forza autonoma, sulla quale il governo esercita
un controllo solo nominale. In Francia, soppressi i privilegi e le autonomie locali, rimane solo un
“corpo intermedio”: l’esercito, che detiene la sola forza di cui può disporre la nazione. Il problema
per Burke è quello di saper contemperare i diritti assoluti degli individui con le possibilità
storicamente concrete che la società ha di realizzarli, di armonizzare l’esigenza della libertà con
quelle del governo, che richiede limiti e restrizioni.

-Lo stato e la storia


Lo Stato è l’unità delle istituzioni mediante cui si attua nella storia l’umanità dell’uomo. La
libertà e la costituzionalizzazione della forza politica si fondano sul rapporto che si esprime nella storia
fra il popolo, civiltà e Stato. I fini dello Stato non possono essere in alcun modo riferito a quelli
mutevoli dei singoli individui; i fini dello Stato si realizzano solo nel corso di più generazioni. Lo
Stato non è posto in essere dalla volontà degli individui mediante il contratto sociale, ma
scaturisce dalla vita e dalle tradizioni dei popoli. Lo Stato di Burke è uno Stato-Civiltà: chi
detiene il potere politico non è altro che amministratore di un patrimonio di cui non può disporre, ma
che deve curare nell’interessi di tutti. Il presente non può assolutizzarsi, cioè rifondare l’ordine
politico. “Chiunque amministri lo Stato e ne detti le leggi, altro non è che un temporaneo
affittuario”.

19)Kant: Individuo, società e Stato

-Contesto storico

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(1724-1804) Kant nasce il 22 aprile del 1724 nella città di Königsberg(l’attuale Kaliningrad), al tempo
capitale del regno della Prussia Orientale, in un famiglia di modeste condizioni economiche ed assai
numerosa. La prima formazione è fortemente condizionata dalla madre, Anna Regina, fervente
seguace del movimento pietista: nel 1732, all’età di otto anni, Kant viene iscritto al collegio
Fridericianum, dove - grazie anche all’attivo sostegno economico della direzione della scuola -
approfondisce soprattutto gli studi di latino ed ebraico, trascurando inizialmente le scienze applicate.
Se questo periodo verrà successivamente ricordato dal filosofo come cupo ed assai infelice, la svolta
arriva nel 1740 (nel frattempo, tre anni prima è morta la madre), con l’iscrizione all’università
Albertina di Königsberg, dove, sotto la guida di Martin Knutzen, professore di logica e metafisica,
Kant scopre le scienze e, in particolar modo, il pensiero newtoniano (il grande scienziato inglese
era morto nel 1727), che resterà per il filosofo un punto di riferimento anche per gli anni della
maturità. Terminati gli studi nel 1747, per fronteggiare le difficoltà economiche dovute alla morte del
padre l’anno precedente, si dedica alla professione di precettore privato, approfondendo nel frattempo i
propri interessi e le proprie letture e pubblicando il primo lavoro (“Pensieri sulla vera valutazione
delle forze vive”). Nel 1755, ottenuto il dottorato e la qualifica di magister fondamentale per
l’abilitazione all’insegnamento, Kant arricchisce il suo bagaglio filosofico sia studiando i
metafisici tedeschi e Rousseau, sia occupandosi di argomenti tecnico-scientifici: nel 1755 pubblica
la “Storia universale della natura” e “Teoria del cielo” e la “Nuova spiegazione dei primi principi
della conoscenza metafisica”, l’anno successivo edita un saggio sui terremoti e una “Monadologia
fisica”, seguiti da lavori sulla morale, la metafisica, l’estetica (“Osservazioni sul sentimento del
bello e del sublime”, “Ricerca sull’evidenza dei principi della teologia naturale e della morale”,
entrambi del 1764; “I sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica”, 1766). Nel 1788
Kant pubblica la seconda opera maggiore (dopo aver curato la nuova edizione della “Critica della
ragion pura”): la “Critica della ragion pratica” (Kritik der praktischen Vernunft) sviluppa, in
accordo con il quadro teorico delle opere precedenti, la concezione kantiana della morale,
secondo un’indagine critica dei fondamenti dell’agire umano. Nel 1790, la “Critica del giudizio”
(Kritik der Urteilskraft) chiude il cerchio dei grandi lavori: questa volta il focus del ragionamento è
il giudizio estetico, con asserzioni che anticipano le posizioni romantiche degli anni a venire. Nel
1793 il saggio kantiano sulla religione (“La religione nei limiti della semplice ragione”) suscita le
reazioni ostili di Federico Guglielmo II, sovrano conservatore del Regno di Prussia, cui Kant si
piega per spirito d’obbedienza ma senza rinnegare ciò che ha sostenuto nella sua opera. È
l’ultimo passaggio significativo della vita di Kant: abbandonato l'insegnamento nel 1796, per il
progressivo indebolimento del fisico e della mente, il filosofo si spegne nell’amata Königsberg il 12
febbraio 1804. Nel 1795 scrisse un’opera densa di contenuti aprendo un dibattito già iniziato nel
1793. Fu l’anno che vide la conclusione momentanea, per la pace perpetua, del 1795, uscita
proprio nell’anno in cui si concluse il conflitto con la pace di Basilea, tra la Prussia e la Francia,
però un elemento va evidenziato è il fatto che viene riconosciuta da parte della sua Prussia la Francia
rivoluzionaria, un’opera importante, è un pò la conclusione di quello che è, una sorta di resoconto
delle sue idee politiche, “metafisica dei costumi” nel 1797. Un’opera importante è “risposta alla
domanda che cos’è l’illuminismo” Kant avvertì la necessità di manifestare il suo pensiero
relativamente all’illuminismo.

-Kant e l’illuminismo
Kant nel 1784 mentre stava elaborando le tre grandi critiche, si era posto il problema con
l’illuminismo, cosa è? questo problema costituisce uno dei pilastri di quella che è la costruzione
intellettuale di Kant, il filo rosso che lega le sue opere, lui manifesta il suo disappunto nei confronti

88
dello stato paternalistico, tutta la speculazione politica di Kant si concentra proprio l'individuo, è al
centro del suo interesse, dedica le pagine allo studio della natura. Kant quando scrive è dotato di una
chiarezza unica, definisce l’illuminismo: L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità
che egli deve imputare a se stesso, è la capacità di valersi del proprio intelletto senza influenzarsi
dall’altro, l’individuo deve saper usare la propria ragione”. Se lasciamo che l’uomo si faccia
guidare da qualcun’altro non sarà mai in grado di utilizzare la ragione. La posizione di Kant
inizia con una fase ottimistica, vuole infondere il coraggio nell’animo degli individui, vuole che siano
autonomi. Non è facile sviluppare il proprio intelletto. sostiene quindi che l’uomo debba usare la
propria ragione, Kant ritiene che sia assolutamente fondamentale che l’uomo debba usare il
proprio intelletto e la propria ragione. Fa una distinzione tra uso pubblico e uso privato della
ragione. Kant fa precedere questa distinzione con una incisiva frase: “io odo da tutte le parti gridare,
non ragionate! l’ufficiale dice non ragionate! ma fate esercitazioni militari, l’uomo di chiesa dice
non ragionate! ma credete, non c’è nessun signore che dice ragionate come volete ma obbedite,
qui è l’imitazione della libertà”. Per Kant è fondamentale il rapporto libertà e ragione, ragionare
significa essere liberi. Ricorre all’uso pubblico della ragione e l’uso privato: il primo sta nel fatto che
io essere umano qualsiasi ruolo svolgo ho il diritto di criticare un provvedimento del governo, delle
autorità costituite, ad esempio nella veste di ufficiale, è chiaro che lui come studioso intende
un’uomo libero, posso criticare un certo provvedimento, ma se io rivesto il ruolo di ufficiale e mi
vengono emanati degli ordini dalle autorità militari io sono costretto ad intervenire, in quanto
sono dipendente dalla autorità militare, come ufficiale sono costretto ad obbedire come libero
cittadino posso esprimere la mia opinione.

-Studio sulla natura umana


Kant da grande studioso si focalizza sullo studio della natura umana e intravede una
contraddizione parla di una socievole insocievolezza: dell’uomo ci sono due anime, l’uomo ha
bisogno di confrontarsi con gli altri non solo per l’utile, da una parte c’è una sorta di
antagonismo nei confronti degli altri, l’uomo vuole la concordia ma spesso si trova nella
discordia, l’uomo vuole il bene ma commette il male, c’è sempre una vena dall’ottimismo al
pessimismo. Nell’uomo è vero che c’è questa competizione nei confronti dell’altro, ma anche in
questo c’è un aspetto positivo, perché competizione significa miglioramento, lui si serve di una
metafora: “un albero lasciato crescere liberamente in un ampio spazio, tenderà a vanificare tutte le sue
posizioni dei suoi rami. Quest’albero crescerà in maniera disarmonica, ma se io circoscrivo gli alberi
in uno spazio stretto, nasce una competizione, per cercare la luce, gli alberi più audaci riusciranno a
superare gli altri e raggiungere la luce” sembra che ci sia l’eterogenesi dei fini, Kant non vede la
competizione nel suo aspetto negativo, se la competizione è sana porta ad un miglioramento.
L’uomo tenderà sempre a superare gli altri uomini. Kant scrive l’opera sulla pace perpetua, scritta
in un clima di entusiasmo perché viene scritta, dopo conseguenze di guerre che avevano
insanguinato l’Europa per decenni, tantissimi furono i vari progetti di pace, quasi tutti gli autori
avevano presentato importanti progetti di pace. Si ironizzò su questo progetto di pace perpetua
ad esempio Leibniz ironizzò su questo progetto che disse assurdo, per Voltaire si trattava di una
chimera, i toni furono piuttosto ironici, l’unico che veramente riuscì a capire questo progetto fu
proprio Kant il quale diffidava dei sogni e amava la realtà. Propone tre elementi che a suo avviso
dovrebbero tutti gli stati adottare perché si possa arrivare alla pace perpetua:
- ogni stato dovrebbe avere una struttura repubblicana.
- si formi una federazione di liberi stati, con rispetto dell’autonomia tra popoli.
- la repubblica deve essere basata sui principi della libertà e dell’uguaglianza.

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Kant è convinto che solo la forma repubblicana possa garantire la pace, la federazione di liberi
stati deve rispettare la sovranità di ciascun popolo e adottare leggi comuni che possano regolare i
rapporti tra questi stati nel rispetto dei costumi e delle leggi interne in ogni stato, il diritto di
ospitalità. Kant rifiuta ogni forma di colonialismo, dice che gli europei si sono comportati come
veri pirati nei confronti dei popoli, lui esprime un totale rifiuto. Lui dice che bisogna aprire le frontiere
a tutti. Il suo pensiero politico intende indicare i principi su cui basare l’opera di riforma delle
monarchie tedesche, fondate su un ordinamento aristocratico-feudale.

-Ragione e libertà
La filosofia indica in Kant le premesse essenziali e i criteri che ci consentono di poter conoscere la
politica, che non può essere scissa dalla ragione, ma ne è intrinsecamente connessa e la rende
intelligibile. La conoscenza si fonda sull’esperienza empirica (come Hume), ma le sensazioni in sé
stesse sono un materiale grezzo che viene “plasmato” dalla ragione. Tuttavia sussistono forme a
priori dell’intuizione sensibile (spazio e tempo), concetti e idee dell’intelletto e della ragione che non
possono essere ricavati dall’esperienza empirica, ma che sono le uniche condizioni che rendono
intelligibile l’esperienza. Gli oggetti della nostra conoscenza sono prodotti della nostra facoltà
razionale. La filosofia ha il compito essenziale di precisare i poteri e i limiti propri della ragione:
essa si presenta come una critica, cioè come una revisione sistematica del fondamento della ragione
(orientamento antidogmatico). La conoscenza scientifica, fondata sui giudizi sintetici a priori, è
possibile, a patto che la ragione non registri passivamente i dati che riceve dall’esperienza empirica: in
tal caso la ragione sarebbe un fenomeno della natura. La ragione, in quanto attività che produce
conoscenza, si toglie dal determinismo della natura: l’atto del conoscere, nella sua essenza, è libertà.
La filosofia kantiana sostiene che la libertà, in quanto fondamento della ragione, deve trovare un
riscontro sul piano politico, come diritto di discussione e di critica riconosciuto a tutti. A questa
libertà appartiene anche quella di esporre pubblicamente alla critica i propri pensieri. L’idea
della libertà costituisce per Kant il punto di passaggio dalla ragion pura a quella pratica. Deve
considerarsi pratico tutto ciò che è possibile per mezzo della libertà, intesa come l’assoluta
possibilità di autodeterminarsi indipendentemente da qualsiasi movente di carattere empirico, che non
può essere considerato causa determinante di quanto abbiamo deciso. La libertà si riferisce alla
volontà, che deve essere distinta dai desideri che promanano dai sentimenti di piacere e di
dolore. La volontà ha invece per oggetto un’azione avente un valore oggettivo: in essa forma e
contenuto si identificano. Per tal motivo l’oggetto della volontà è la legge morale. La razionalità
è il presupposto di ogni decisione della volontà libera, che si determina indipendentemente dal
condizionamento degli impulsi: solo la razionalità consente l’individuazione di una massima di
comportamento valevole per tutti gli altri uomini.

-Legge morale e valore assoluto della persona


La legge morale conferisce all’individuo la personalità, che lo rende autonomo ed indipendente dal
meccanismo della natura. La caratteristica fondamentale della legge morale è la sua purezza, dato
che nella sua determinazione non può intervenire alcun elemento che appartenga al mondo della
sensibilità: essa non deve avere alcun rapporto con i nostri impulsi. L’unico sentimento che
corrisponde alla legge morale è quello del dovere. La legge morale è il fondamento dell’agire
pratico, ciò che lo rende intelligibile. Kant distingue il bene morale dalla felicità e ritiene che il
primo debba avere l’assoluto primato. La felicità è definita come il “godimento durevole delle vere
gioie della vita”, quindi connessa al sentimento. Essendo essa un bene soggettivo, non può essere
predeterminato a priori sulla base di alcun principio, ma ci viene indicato solamente dalla personale
esperienza. I precetti si riferiscono ai comportamenti degli individui, volti al conseguimento della
felicità: la metafisica dei costumi è quella disciplina, che studia i rapporti fra morale e diritti, la

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prima che disciplina le attività “interiori”, il secondo disciplina l’azione esterna. Nella legge
sussistono due elementi: l’obbligo, in quanto si presenta come dovere, e l’impulso, che determina
l’individuo a compiere il dovere. Quanto i due si identificano, ci troviamo davanti alla legge
morale, quando l’impulso scaturisce da un principio diverso dall’idea del dovere abbiamo una
legge giuridica.

-Morale, diritto e costituzione


Alla morale e al diritto corrispondono la volontà e il libero arbitrio: la prima è la determinazione
che si riferisce al principio che regola l’azione, il secondo alla possibilità di attuare l’azione. La
conseguenza è che la volontà è libera, in quanto si adegua al principio secondo cui deve
determinarsi. Il diritto si riferisce alle azioni esterne degli individui e riguarda i loro rapporti,
consentendo la coesistenza di più individui, cioè di più liberi arbitrii. Il diritto è l’insieme delle
condizioni per mezzo delle quali l’arbitrio di uno può accordarsi con l’arbitrio di un altro secondo una
legge universale di libertà. Il principio della libertà consente di individuare la coazione, che si presenta
come l’uso della forza. Per Kant il diritto stretto (cioè quello che regola le azioni esterne) non si
fonda sulla coscienza che ognuno ha di rispettare l’obbligo, ma sulla possibilità di una costrizione
esterna che possa coesistere con la libertà di ognuno secondo leggi generali. La coesistenza degli
individui, resa possibile dal diritto, si richiama alla legge del movimento dei corpi nello spazio, per
la quale ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. La grande divisione del diritto,
considerato come scienza sistematica, è quella fra diritto naturale, che poggia sui principi a priori, e
diritto positivo, che promana dalla volontà del legislatore. Il diritto naturale è uno solo, la libertà,
da cui deriva l’uguaglianza, nel senso che tutti partecipano ad una identica situazione di reciproca
coazione. La società politica è l’unione degli individui mediante leggi giuridiche, formulata nel
contratto sociale. Esso non è un fatto storico, ma deve essere concepito come l’ipotesi che dobbiamo
necessariamente formulare per poter comprendere l’organizzazione politica. Infatti solamente tale
ipotesi permette di garantire la libertà e l’uguaglianza degli individui, in quanto la comune volontà
giuridica sulla quale si fonda lo Stato scaturisce dal consenso degli stessi individui che compongono la
società. La collettività può essere considerata come:
- Stato civile, dato dal reciproco rapporto degli individui riuniti nel popolo
- Stato, che è il tutto in rapporto con ogni suo membro
- Cosa pubblica, l’interesse che lega tutti a vivere nello stato giuridico
- Potenza, riferita agli altri popoli
- Nazione, quando si evidenzia la continuità delle generazioni di un popolo.

Kant accoglie da Montesquieu il principio che la volontà generale si articola in tre poteri: il
potere sovrano, che risiede nel legislativo, il potere esecutivo nel governo, il potere giudiziario nel
corpo dei giudici. Il legislativo rappresenta la premessa maggiore di un sillogismo pratico, il potere
esecutivo la proposizione minore e la sentenza del giudice la conclusione che si ricava dalla prima e
dalla seconda, quando viene riferita ad una questione particolare. Il potere legislativo promana dalla
volontà collettiva del popolo: la partecipazione degli individui al potere legislativo avviene tramite un
organo rappresentativo, alle cui elezioni sono ammessi solamente i cittadini attivi, cioè coloro che
hanno una reale indipendenza. Le forme di governo sono tre: autocrazia, aristocrazia e democrazia.
La più complessa è quella democratica, in quanto implica la volontà di tutti per formare un popolo,
la successiva volontà del popolo per formare una repubblica, ed infine una terza volontà collettiva che
riguarda l’attribuzione del potere sovrano ad un determinato corpo politico. Lo Stato ha il fine di
garantire la libertà, l’uguaglianza e l’indipendenza degli individui. La libertà implica che lo Stato non
può assumere il compito di rendere felici i sudditi: la felicità deve essere ricercata e conseguita da
ciascun individuo autonomamente. Ciò presuppone che i cittadini debbono essere pienamente capaci

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di vivere la propria vita in modo autonomo ed in grado di dare un proprio contributo al governo della
società. La libertà sollecita la presa di coscienza da parte dell’opinione pubblica che l’uomo è
diventato finalmente maggiorenne.

-Rapporti tra Chiesa e Stato e critica allo Stato “paternalistico”


Kant rifiuta qualsiasi forma di Stato paternalistico. “L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato
di minorità che egli deve imputare a sé stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto
senza la guida di un altro.” Bisogna riconoscere ad ogni cittadino l’uso pubblico della propria
ragione, cioè la possibilità di far conoscere le proprie idee mediante la stampa. Non può essere
ammesso l’uso privato della ragione, cioè la facoltà critica del funzionario nei confronti degli atti
pubblici che debbono essere eseguiti per il conseguimento dei fini di interesse generale. Questa
distinzione va applicata anche al campo religioso: bisogna rispettare i principi ma è riconosciuta la
libertà di manifestare la propria opinione. La costituzione della Chiesa non può essere considerata
immutabile, deve adeguarsi alle esigenze di una ragione veramente illuminata. La religione si esprime
nell’atto di fede nell’esistenza di Dio, che è giudice delle nostre intenzioni ed è pertanto presenta
nell’interiorità della nostra coscienza. Lo Stato non ha alcun potere sulla dottrina e sul culto della
Chiesa, può solamente richiedere che i doveri derivanti dall’appartenenza ad essa non
contrastino con le leggi, c’è piena libertà religiosa, ed i cittadini possono dar vita a nuove forme
di organizzazione ecclesiastica. Lo Stato deve garantire l’uguaglianza e nessuno può imporre
niente agli altri se non per il tramite delle leggi. La delimitazione dell’uguaglianza nell’ambito
giuridico-costituzionale significa abolizione di ogni privilegio. Tutti i cittadini hanno diritto a
conseguire la posizione sociale che corrisponde alle proprie capacità ed al proprio lavoro.
L’aristocrazia non può vantare alcun diritto agli incarichi più importanti e prestigiosi dello stato, ma
deve concorrervi con le altre cariche sociali. In vista di questo fine occorre predisporre una politica di
radicale riforma della grande proprietà: provvedimento legittimo in quanto lo Stato è la fonte del
diritto di proprietà privata, poiché gli appartiene la sovranità sul territorio. Tale relazione non va
concepita come un dominio dispotico, ma come la premessa indispensabile affinché i singoli possano
avere un dominio esclusivo di una parte del territorio. Lo Stato gode del diritto di potere espropriare,
dietro indennizzo, le proprietà necessarie per il conseguimento dei fini pubblici. Lo Stato esprime nel
contempo l’esigenza della conservazione del popolo come tale non può essergli negato il diritto di
richiedere ai ricchi di fornire i mezzi di sussistenza per le categorie sociali meno abbienti. (Kant non
vuole formare uno stato sociale, ma riportare nell’ambito dell’organizzazione pubblica il settore della
beneficenza).

-Stato e rivoluzione
L’individuo in quanto è membro di un popolo acquista il diritto alla sopravvivenza, che deve
essere garantita dallo Stato. Kant dichiarò adesione agli ideali di rinnovamento espressi dalla
Rivoluzione francese. Tuttavia il diritto di resistenza attiva non può essere accolto in uno Stato di
diritto: il popolo con l’insurrezione annienta la sovranità, riporta la società civile alla società di natura
e si annulla come popolo. La costituzione però non è rigida, ma flessibile: va continuamente
perfezionata dal sovrano. Può essere ammessa solo una forma di resistenza: quella di rifiutarsi di
compiere certi atti per il potere esecutivo. La rivoluzione può essere riconosciuta, in alcuni casi,
come un “dato di fatto”, quando crea una nuova organizzazione politica. L’illegalità della sua
origine e il suo modo di stabilirsi non possono sciogliere i sudditi dall’obbligo di adattarsi come
buoni cittadini al nuovo ordine di cose. Il monarca però non può essere in alcun modo processato e
condannato per gli atti inerenti alla sua passata amministrazione. La rivoluzione pone il problema di
intendere la funzione che hanno le lotte politiche e i conflitti nel processo di formazione della
società. Nella storia del genere umano vi è un “filo conduttore”, il principio di eterogenesi dei

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fini, per cui gli uomini, ricercando il proprio utile, pervengono a risultati diversi e non previsti, che
concorrono tutti alla formazione di una società fondata sul diritto. Il fine della natura è che l’uomo si
elevi, con le sue fatiche, ad essere degno della felicità. Ciò è realizzabile solo se si stabiliscono
rapporti stabili con altri uomini, condizione necessaria per lo sviluppo delle sue attitudini. Queste sono
promosse da due tendenze opposte che ispirano i comportamenti dell’uomo: la socievolezza e la
insocevolezza. Esse sono il fondamento della società e il principio della sua dinamica, la causa degli
antagonismi che impegnano gli uomini in un continuo perfezionamento. L’uomo è costretto dalla
natura ad entrare in società con i suoi simili; nello stesso tempo è proprio la società che sviluppa
nell’uomo la naturale inclinazione all’antagonismo col favorire le passioni: se non ci fosse la
contrapposizione non sarebbero state possibili le conquiste della ragione.

-Il diritto cosmopolitico


La storia del genere umano si rende intellegibile solamente se riconosciamo come termine finale il
perfezionamento della società civile, cioè una società di ragione, in cui le relazioni sono fondate sul
diritto. Tale perfezione non richiede una trasformazione radicale della natura dell’uomo che lo rende
un ente di pura ragione (solo dovere): diventerebbe una società di angeli. Le osservazioni devono tener
conto che l’uomo è “un animale che, se vive fra gli esseri della sua specie, ha bisogno di un padrone
che pieghi la sua volontà e lo obblighi ad obbedire ad una volontà universalmente valevole, sotto la
quale ognuno possa essere libero. Dalla politica di potenza e di dominio degli Stati moderni
scaturiranno le nuove condizioni politiche che renderanno necessario, secondo Kant, la
fondazione del diritto cosmopolitico, che consentirà di dirimere le controversie fra gli Stati senza
ricorrere alla guerra, che è un ritorno alla società di natura. La fine della guerra tradizionale non
dipenderà dalla buona volontà degli uomini, ma esclusivamente dalla necessità: le guerre moderne
implicano un costo sempre più crescente che non potrà più essere sopportato dalla collettività. I popoli
finiranno per entrare in una federazione di popoli. La forma politica dello Stato corrisponde ad una
determinata fase del progresso civile e giuridico: la società deve essere integrata dall’accordo
stabile e permanente dei popoli, che sia il presupposto di una confederazione di Stati. Kant precisa che
non si tratta di fondare uno Stato federale o cosmopolitico, in cui tutti i popoli ne formerebbero uno
solo. L’associazione dei popoli deve essere considerata come la base del diritto cosmopolitico: il
moltiplicarsi delle relazioni fra i popoli e la sempre maggior reciproca conoscenza tenderanno a creare
una comunità internazionale. Il diritto cosmopolitico sarà il logico e storico coronamento del diritto
pubblico interno e del diritto internazionale.

20)Hegel: Diritto, morale, etica. Il problema dello Stato

-Contesto culturale
(1779-1831) Georg Wilhelm Friedrich Hegel nasce a Stoccarda nel 1770 dal matrimonio tra Georg
Ludwig e Maria Magdalena Fromm. In casa riceve un'educazione rigidamente protestante, e al
ginnasio di Stoccarda si forma in modo approfondito in campo umanistico, soprattutto per quanto
riguarda la conoscenza dei classici latini e greci. Concluso il percorso scolastico, Hegel decide di
studiare Teologia allo Stift di Tubinga, un seminario che formava il ceto clericale protestante e il cui
percorso di studi si articolava in due anni di filosofia seguiti da tre di teologia. Durante gli anni di
seminariato, che permettono di avvicinarsi al pensiero di Kant, Rousseau e alle opere di Goethe, Hegel
stringe amicizia con il poeta Hölderlin e il filosofo Schelling, che avranno entrambi un loro peso nello
sviluppo del successivo sistema hegeliano. Se gli anni di studio lo avvicinano alle posizioni del
nascente idealismo tedesco, dal punto di vista politico il giovane Hegel non è insensibile al fascino e
alle suggestioni della Rivoluzione francese. Portato a termine il seminariato Hegel lavora come

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precettore presso una famiglia di Berna: è di questi anni lo studio della figura di Cristo (anche
sotto l'aspetto storico-sociale della religione), che si concretizza ne La vita di Gesù e in La positività
della religione cristiana. Nel 1797 Hegel si sposta a Francoforte grazie ad un impiego, sempre da
precettore, procuratogli da Hölderlin; la vicinanza con l'amico si riflette nella produzione dell'epoca,
da Lo spirito del Cristianesimo e il suo destino fino al Frammento del sistema, opere con cui si
allontana ulteriormente dal pensiero kantiano in materia di religione. Nel 1799 muore il padre, e
l'eredità ricevuta gli permette di abbandonare la carriera di precettore e di dedicarsi alla carriera
accademica. Approda così nel 1801 a Jena, l'università tedesca più attiva e stimolante di quel
momento, e ottiene poco dopo il suo arrivo l'abilitazione all'insegnamento. Qui Hegel rincontra l'amico
Schelling, anch'egli professore a Jena, e i due iniziano a lavorare insieme. Dalla loro collaborazione
nasce la rivista "Il giornale critico di filosofia", in cui Hegel si schiera a favore di Schelling nella
polemica di quest'ultimo contro Kant, Fichte e Jacobi. Nel 1803 Schelling abbandona Jena, e da
quel momento oltre alla distanza fisica inizia a interporsi tra i due amici anche una distanza
teorica, che si esplicita definitivamente nella Fenomenologia dello spirito, redatta da Hegel a Jena
e pubblicata nel 1807 a Bamberg. L'esperienza di Bamberg si conclude col trasferimento a
Norimberga, dove Hegel viene chiamato per dirigere il ginnasio locale. Qui Hegel sposa una
nobildonna, Maria von Tucher, e mette al mondo due figli, Karl e Immanuel (successivamente i due
coniugi accoglieranno in famiglia anche Ludwig, figlio avuto con una affittacamere di Bamberg,
Christiane Fischer). Hegel, accanto alla gestione del ginnasio, non tralascia la riflessione e la
produzione filosofica, e pubblica la Scienza della logica (1812-1816). Nei due anni che vanno dal
1816 al 1818 Hegel fa di nuovo esperienza dell'insegnamento universitario, questa volta a Heidelberg,
mentre nel 1817 pubblica l'Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, che verrà poi
rieditato nel 1827 e nel 1830. L'ultima fase della vita di Hegel lo vede professore all'Università di
Berlino, città che nel frattempo si è affermata come il più prestigioso polo culturale tedesco. Oltre alle
Lezioni universitarie - raccolte postume dagli allievi, e centrali per il lascito hegeliano all'idealismo
tedesco - Hegel pubblica nel 1821 i Lineamenti di filosofia del diritto, per poi morire il 14 novembre
1831.

-Religione e politica
Critica al progetto della riforma inglese (1831), lui studia teologia all’università di Tubinga, in quegli
anni elabora le sue idee sulla religione, escono opere dedicate al problema religioso che costituisce un
elemento fondamentale per lui, queste opere come La vita di Gesù 1795,e la positività della
religione cristiana tra il 1795/96, ma quella che colpisce di più per contenuti e profonda
preparazione storica è lo spirito del cristianesimo e il suo destino, opera che impegnò a fondo
Hegel, in un arco di tempo che va dal 1798 al 1799. Alla fine giunge alla conclusione che la religione
è “la ragion d’essere dello stato”. Secondo l’ottica Hegeliana è il Dio che segue i destini degli
uomini, l’uomo istituisce con lui un rapporto unico ed esclusivo, entra in termini filosofici, è il
collegamento tra il finito e l’infinito, la religione costituisce uno degli elementi di coesione di un intero
popolo. Il cristianesimo viene considerato come un insieme di regole di vita che il credente accetta. A
tale cristianesimo, religione positiva, Hegel contrappone un cristianesimo che si esprime sul piano
della pura morale, delineando la tendenza a considerare religioni, costumi, comunità e Stato come una
totalità vivente, che ha il suo centro unificatore nella religione. La religione viene considerata come il
modo d’essere originario nel quale si fonda ciò che caratterizza una comunità. La storia del popolo
ebraico è l’esplicazione della sua religiosità, che fa tutt’uno con i suoi costumi: Dio è venerato come il
Dio di Israele, il mondo che lo circonda è visto come estraneo ed ostile. Per tal motivo le vicende
politiche di Israele sono intimamente connesse al suo rapporto con Dio: la perdita dell’indipendenza
dipende unicamente dal fatto che Israele si è allontanato dal suo Dio. Il messaggio di Gesù deve essere
visto come il momento dialettico che supera la scissione infinito-finito, Dio-popolo. Nella sua

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predicazione, Dio non è signore, ma padre, e si istituisce con lui un rapporto d’amore, che opera la
riconciliazione del finito all’infinito. Sono così poste le premesse per il superamento della distinzione
kantiana/fichtiana fra religione e ragione, fra morale e diritto per intendere la religione come
l’esperienza vitale del rapporto dialettico. La dialettica non è altro che la concettualizzazione del
rapporto dinamico, della tensione che sussiste tra finito ed infinito

-La confederazione germanica e la rivoluzione francese


Affrontiamo i contenuti dell’opera: “la costituzione della Germania”, è un’opera molto complessa,
riflette la profonda amarezza che domina l’intero percorso ideologico di Hegel. Ne La costituzione
della Germania lo scontro con le armate francesi aveva dimostrato l’inconsistenza e l’inefficienza
politica dell’Impero, la confederazione germanica è lontana dall’essere un vero Stato: vi è una
scissione fra l’organizzazione giuridico costituzionale e le esigenze della collettività tedesca, l’attività
dello Stato, che andrebbe espressa nella politica, si realizza solamente nelle forme del diritto privato,
dato che i singoli Stati godono di indipendenza ed autonomia. Lo Stato germanico è un’associazione di
comunità sovrane, disposte a riconoscere le decisioni comuni solo quando non ledano il proprio
interesse. L’essenza dello Stato consiste nell’unione di una moltitudine di persone per la comune
difesa di tutto ciò che è la sua proprietà. La riduzione della vita politica ad un complesso meccanismo
giuridico ha come risultato la paralisi dell’attività politica dello Stato. Si è finito col sottoporre la
politica, che dovrebbe esprimere una valutazione unitaria degli interessi, all'amministrazione della
giustizia. Hegel distingue nettamente fra politica e diritto: critica la riduzione
giusnaturalistico-illuministica dell’essenza dello Stato al diritto. L’organizzazione politica germanica è
il risultato di un lungo processo storico in cui si sono definite una molteplicità di norme
consuetudinarie che in modo autonomo, senza alcun coordinamento, tutelando determinati e particolari
interessi, hanno dato vita ad autonomi poteri. La Riforma, spezzando l’unità della fede religiosa della
nazione germanica rinsaldò il particolarismo proprio dell’organizzazione politica dell’Impero. H.
apprezza il principe di Machiavelli, in quanto è la prima opera politica in cui è concepita l’idea
di Stato come forza. Per H. solo un uomo di eccezionale grandezza politica può fondare con la forza
il nuovo stato tedesco. La forza, la potenza, è il momento della fondazione dello stato. Richiamare
l’attenzione su questo punto non significa che tutto debba dipendere da quel potere, concezione che
viene rifiutata, lo Stato deve richiedere la libera partecipazione dei cittadini e degli enti minori. Ne La
costituzione della Germania Hegel esamina l’impotenza dell’impero, rilevando l’inesistenza di
un vincolo sostanziale che unisca le singole parti della confederazione germanica allo Stato,
l’Intero. Esso non è la somma delle parti, ma è ciò che risulta dalla loro reale unità, è pertanto
ciò che fa sussistere le parti nella loro specifica funzione in modo che la loro attività pervenga ad
un risultato unitario. Lo stato dice Hegel è costituito da alcuni elementi che sono necessari ed
alcuni che sono accessori, perché ci sia uno stato è necessario assolutamente due elementi:
l’apparato militare e il potere statale ma esistono anche quelli che Hegel definisce gli elementi
accessori: il tipo di forma di governo, il modo di scegliere la propria religione, il modo di
formulare le leggi, il sistema di tassazione, tutti accessori che debbono essere scelti liberamente dai
cittadini, in questa occasione va garantita la libertà del cittadino. La forma che lui ritiene migliore sia
comunque una monarchia sempre nell’ambito del rispetto della legge, la monarchia è simbolo di unità.
Lui poi a favore della libertà religiosa, ma non si può inserire tra quelli necessari perché la
religione non favorisce l’unità dello stato, si pensi al periodo della riforma protestante. Un elemento
fondamentale del suo pensiero politico, Hegel attribuisce una immensa importanza al rapporto
diritto-politica-storia, il colpo finale al giusnaturalismo fu inferto proprio da Hegel che lo critica per
la sua astrattezza, l’idea che si possa concepire di una ragione in grado di concepire uno stato e
formulare un contratto.

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-Concetto di intero e politica
Il compito della filosofia è quello di indicare come deve essere pensato l’Intero. L’intero, quando si
riferisce alla politica, si esprime come eticità, come la totalità dei principi (modello della polis
platonico-aristotelica). Negli scritti successivi viene osservato come la realtà del individuo possa
essere compresa mediante il concetto eticità: questa, come realtà sussistente, si identifica con il
popolo. L’individuo considerato come Io, è un’astrazione, come sono astratti i diritti naturali.
L’individuo esiste nel popolo e per il popolo. Il popolo, a sua volta, è un’individualità e come tale
esprime un suo proprio carattere/personalità, che sono il fondamento del sistema politico, nel senso
che tutti gli ordinamenti positivi sono collegati tra loro in modo da realizzare gli scopi dell’Intero.

-L’intero e dialettica
La dialettica è il procedimento logico che coglie l’essenza del divenire, del movimento reale per
cui l’Intero si articola, mediante un processo di scissione e contrapposizione. Essa si fonda sulla
convinzione che il movimento scaturisce dalla contrapposizione di due termini che si negano a vicenda
e tramite questa negazione si ricostituisce una superiore unità. I tre momenti sono l’affermazione, la
negazione e la negazione della negazione. La dialettica, come legge del divenire, ci rende
consapevoli che non possiamo assolutizzare uno dei suoi momenti. (il movimento si attua nella storia).
La politica deve essere concepita come attività, ma non solo come diritto (Kant) o morale (Fichte),
poiché è (la politica) la sintesi dialettica dei due, ed appartiene all’eticità. Se la politica è attività
pratica, deve essere riferita al principio stesso dell’attività, cioè la volontà. L’essenza della
volontà è la libertà, che diventa il valore centrale al quale deve informarsi l’organizzazione della
società e dello Stato. La libertà è l’essenza dell’uomo, e tale idea è venuta al mondo per opera del
Cristianesimo. Il diritto deve essere considerato come la forma dell’autodeterminazione della
volontà che si manifesta all’esterno: è anche la forma con cui si esprime la libertà e il sistema del
diritto è l’ineliminabile garanzia di libertà dell’individuo, in quanto ne definisce il contenuto.
L’individuo manifesta la sua volontà nelle tre fondamentali sfere giuridiche: la proprietà, il
contratto e l’illecito. La prima è il riconoscimento della volontà singola, il secondo è la negazione di
questa particolarità, riconoscendo l’unica volontà dei contraenti; mentre l’illecito è la negazione del
contratto e del diritto. La moralità è la sfera propria delle azioni che vengono indirizzate al
conseguimento del bene e, al contempo, la consapevolezza della libertà dell’interiorità, quando il
soggetto assolutizza la coscienza entra nella sfera del male. L’esperienza del male pone l’esigenza
di determinare cioè che è bene (le leggi). Si perviene così al terzo momento mediante cui la volontà
si determina, quello dell’eticità, che esprime la sfera del dovere che contiene in sé le due
precedenti sfere: quella del diritto e quella della moralità. Il metodo dialettico dello stato sono:
- famiglia (tesi)
- società civile o industriale (ant.)
- stato (sintesi)

-I 3 momenti della dialettica di Hegel


Per Hegel l’assoluto è divenire, e la legge che lo regola è la dialettica. Hegel ne distingue tre momenti:
l’astratto o intellettuale, il negativo-razionale, il positivo-razionale. L’astratto tesi) si ferma alle
determinazioni isolate della realtà. Il negativo-razionale (antitesi) nega le determinazioni astratte
dell’intelletto, rapportandole con le determinazioni opposte. Il positivo-razionale (sintesi) coglie
l’unità delle determinazioni opposte, ricomponendole in modo sintetico. Se l’intelletto è l'organo del
finito, la ragione è quello dell’Infinito, lo strumento con cui il finito viene risolto nell’Infinito.
Globalmente considerata, la Dialettica consiste quindi nell’affermazione di un concetto astratto e
limitato, che funge da tesi; nella negazione di questo concetto e nel passaggio ad un concetto opposto,

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che funge da antitesi; nell’unificazione della precedente affermazione e negazione in una sintesi
positiva comprensiva di entrambi.

-Individuo, famiglia e società civile


Hegel rifiuta la concezione contrattualistica della società: l’individuo, uti singulus, è
un’astrazione. Egli invece nasce in un gruppo le cui funzioni e relazioni sono definite dall’etica, la
famiglia. Con lo scioglimento della famiglia (maggiore età) o con lo scioglimento naturale (morte
genitori) l’individuo acquista la sua piena autonomia che si esplica nella seconda forma
dell’eticità, la società civile. Essa non è costituita dall’unione di più famiglie, ma dai singoli
individui: essa risulta quindi dal coordinamento e dalla esplicazione degli interessi particolari dei
singoli. La società si fonda sul sistema dei bisogni, sull’organizzazione per soddisfarli e sulle
istituzioni volte a tutelare gli interessi dei singoli. Hegel invece accetta il concetto
giusnaturalistico di società civile, definita come la sfera economica, volta al soddisfacimento dei
bisogni: la scienza economica individua i principi che ci consentono di procedere all’analisi del modo
mediante cui si organizza la società civile. Il sistema dei bisogni, converte l’interesse dei singoli
nell’interesse generale (eterogenesi dei fini ??). Ma ciò non significa che tutti abbiamo diritto ad una
eguale porzione del patrimonio generale. Le principali attività economiche raggruppano gli
individui in masse distinte: i proprietari di terra e gli agricoltori (stato sostanziale), lo stato
dell’industria e lo stato generale (interessi generali).

-Lo stato etico


Ogni individuo ha un ruolo sociale, che viene indicato dal ceto cui appartiene; ciascuno stato sociale
esprime una propria forma di eticità. L’organizzazione politica dello stato si fonda sul rapporto fra
gli stati e sul rapporto fra questi e il potere politico. Occorre riconoscere alla società civile un potere di
polizia, ciò di vigilanza e tutela per armonizzare i diversi interessi (??), tramite cui si evitano le
disfunzioni dell’attività economica. L’organizzazione della società civile trova il suo compimento
nella corporazione, cui fanno capo i ceti sociali; essa è il momento etico proprio della società civile
solo in essa l’individuo acquista la consapevolezza della dimensione etico-sociale della sua attività. La
società civile ha la funzione essenziale di portare gli istinti e bisogni degli individui dal livello
della rozza immediatezza naturale a quello della razionalità, conferendo così alle esigenze degli
individui la forma della universalità. Lo Stato è “la realtà dell’idea etica”: tale concetto è
connesso a quello della razionalità. Lo Stato è la consapevolezza del rapporto che lega fra di loro tutte
le determinazioni, tutte le sfere che consentono alla volontà dell’individuo di esprimersi a livello
dell’universale. Hegel critica Kant e Fichte per aver confuso lo Stato con la società civile. L’eticità
dello Stato non significa che esso sia un “assoluto”, in quanto non può comunque prescindere dalla
libera attività degli individui.

-Esecutivo, legislativo e rappresentanza politica


La costituzione politica si fonda sulla distinzione dei poteri, articolata in: potere legislativo, che
stabilisce “l’universale”, potere governativo, che riporta le sfere particolari sotto l’universale,
potere sovrano, che unifica i due precedenti. La sovranità è rappresentata da una persona, il
monarca, che in virtù della successione al trono garantisce continuità allo Stato. Per Hegel la
sovranità non appartiene né al monarca, né all’aristocrazia, né al popolo, appartiene allo Stato.
H. sottolinea la differenza fra la distinzione e la divisione dei poteri: la prima implica la
sussistenza di un armonico rapporto fra i poteri, in quanto derivano da un unico principio, la
seconda invece sottolinea la reciproca limitazione, fondata sull’autonomia assoluta dei poteri. Il
monarca, in quanto rappresentante della sovranità, assume le supreme decisioni che si riferiscono
all’unità ed all’esistenza dello Stato. L’esecuzione delle decisioni del monarca fa capo al potere

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governativo, costituito dalla pubblica amministrazione; il cui compito è quello di far valere nella
società civile gli interessi dello Stato. Ciò significa che la società civile deve governarsi da sé, in
autonomia; il governativo fa solo da tramite. Il potere legislativo è costituito: dal monarca, cui
appartiene la decisione suprema; dal potere governativo, che deve consigliare le soluzioni più
idonee alla tutela dell’interesse generale; dalle assemblee degli stati, alle quali compete
l’iniziativa delle proposte di legge. Non può essere ammessa la partecipazione del
popolo/dell’individuo al governo dello Stato. La rappresentanza non deve essere fondata sul
rapporto diretto fra popolo e rappresentanti, ma deve essere mediata dal sistema degli “stati”
sociali, le corporazioni. Tale rappresentanza organica esprime una classe politica o di governo
(classe generale) che è in grado di far valere l’ideale della razionalità dello Stato, unica garanzia di
libertà. L’assemblea legislativa, che deve essere divisa in due Camere per garantire un più ponderato
esame dei provvedimenti, è una deputazione dei ceti e delle corporazioni. Alla classe aristocratica
viene conferito il compito di rappresentare il momento della stabilità e della garanzia degli
interessi permanenti; classe mantenuta autonoma dall’istituto del maggiorascato. Tuttavia Hegel
ritiene che la costituzione politica debba fondarsi sulla classe media.

-Lo stato e la comunità internazionale


Lo Stato deve essere considerato non solamente come sovranità all’interno, ma anche come
sovranità all’esterno, come entità politica autonoma ed indipendente, che si afferma da sé stessa.
Le relazioni fra gli Stati sono regolate dal diritto internazionale, costituito dalle norme fissate dagli
accordi fra gli Stati, che debbono essere rispettate. Tale diritto non riesce però a disciplinare tutti i
rapporti. Ogni Stato ha il diritto di garantire con la forza quanto giudica essere determinante per la sua
esistenza, la guerra deve essere considerata come un fatto transitorio, che non vanifica il diritto
internazionale, ma ammette sempre la possibilità della pace. Lo Stato deve essere considerato nel
processo storico in cui si è formato: Hegel riconosce quattro periodi nella storia universale:
- L’orientale: lo Stato costituisce una totalità etica naturale e la religione pervade tutte le
manifestazioni di vita dello Stato. L’individuo non ha alcuna possibilità di autonoma esistenza
e le classi sociali sono caste, immobilità dell’ordine politico-sociale, il movimento si esprime
solo mediante le guerre.
- Greco; compare il principio dell’individualità libera. La libertà è intesa come piena
partecipazione alla vita dello Stato.
- Romano; in cui l’individualità trova realizzazione. È il mondo del diritto, della separazione
pubblico-privato, dove l’individuo ha i suoi fini, ma non li raggiunge.
- Cristiano-Germanico, l’individuo scopre il valore infinito della sua interiorità, che si conosce
come tale e si adegua all’universale. La rivoluzione francese è stato un fatto unico, in cui per
la prima volta viene espressa l’esigenza di adeguare la realtà esteriore al pensiero.

21)Owen: La rivoluzione industriale e le origini del socialismo in Inghilterra

-La nascita dell’industria moderna


(1771 – 1858) La rivoluzione industriale fu un punto di riferimento del dibattito teorico-politico
sui rapporti fra sistema produttivo e organizzazione politica, fra società e stato. Si sottolineava
così il nesso tra economia e politica. L’innovazione più radicale fu il macchinismo, la possibilità di
sostituire l’energia prodotta dal lavoro umano con quella della macchina. Il sistema economico
realizzava livelli di produzione prima inimmaginabili, producendo però anche effetti negativi che
ricadevano sulla classe lavoratrice (ad es. l’aumento dei prezzi). Il sistema industriale induceva i
proprietari delle fabbriche a ridurre i costi del lavoro, impiegando donne e bambini. La

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disoccupazione fu vista come conseguenza di un processo di sviluppo economico fondato
sull’impresa capitalistica, guidata dal profitto e dalla concorrenza. Si pose in tal modo la
questione sociale, come problema delle misere condizioni di vita della classe lavoratrice e dei
motivi per cui il sistema di produzione industriale generava tale miseria. Nel giornale inglese
Cooperative Magazine comparve, nel 1827, il termine socialist per indicare chi sosteneva il
principio che i mezzi di produzione dovessero appartenere all’associazione dei lavoratori.
L’elaborazione delle dottrine socialiste era stata accompagnata dai primi tentativi di dare agli operai
un'organizzazione in grado di tutelare i loro interessi. (trade unions, cartismo etc)

-La diffusione dei lumi e l’etica delle cooperazione


Owen è il primo teorico della questione sociale scaturita dalla rivoluzione industriale, derivando
le sue idee da un’esperienza diretta della fabbrica. La convinzione di fondo si richiama
all’illuminismo: la fiducia nell’opera della ragione, volta a liberare gli uomini dagli errori.
Grazie allo sviluppo delle facoltà razionali, gli uomini si renderanno conto che le loro sorti
dipendono unicamente dalla solidarietà e che la felicità del singolo dovrà essere proporzionata a quella
di tutti gli altri. La contraddizione fra le enormi capacità produttive del nuovo sistema industriale
e la miseria dei lavoratori dipende dal fatto che la produzione è informata al principio della
libera concorrenza, che spinge le imprese e le aziende, al fine di ridurre i costi, a comprimere i salari.
Tale principio sollecita una produzione incontrollata, che non tiene in conto le capacità di
assorbimento da parte dei mercati e le capacità di acquisto delle classi lavoratrici, con la conseguenza
di saturare i mercati e di determinare crisi di sovrapproduzione. Quando le fabbriche chiudono i
lavoratori perdono capacità di acquisto, bloccando le possibilità di ripresa economica. Il
problema è quello di riuscire ad equilibrare la produzione con il consumo. La soluzione implica una
nuova concezione della società, in vista di una riforma sistematica dei rapporti sociali, che consenta
di sostituire al principio della concorrenza, fondato sulla competizione alimentata dall’egoismo,
il principio della cooperazione, in base al quale le energie intellettuali e lavorative degli uomini
vengono coordinate a fini e risultati che si riferiscono a tutti. Si tratta di trasformare il carattere
degli uomini e di renderlo conforme a tale principio (!). Ciò è possibile perché la personalità degli
uomini è “plasmata” dall’ambiente in cui vivono, e “noi abbiamo i mezzi per modificare
l’ambiente”. Il primo mezzo è il sistema educativo, che deve essere riformato secondo la
pedagogia della cooperazione. Non deve essere informato alla repressione, ma deve contare sulle
naturali attitudini degli scolari al fine di rendere l’istruzione piacevole ed attraente. La nuova
pedagogia deve essere finalizzata a rendere partecipi i giovani del principio che la felicità del
singolo non può essere scissa da quella della comunità. Serve inoltre una riforma del sistema
sociale, in quanto sistema produttivo. Bisogna seguire il metodo della gradualità, attuando le
riforme lentamente e dimostrando i risultati positivi ad altre imprese che seguiranno la stessa
via. È una riforma graduale che non reclama un intervento dello Stato, ma che richiede
solamente quelle riforme legislative che consentano queste nuove forme di associazione e di
conduzione economica.

-La fabbrica come comunità


La prima esperienza era stata attuata nelle fabbriche tessili di Lanark, dirette da Owen, che ne
offrivano una concreta dimostrazione, si aumentò la produzione e diminuirono i costi. La nuova
società doveva costituirsi a partire dalla fabbrica, che deve essere considerata una vera e propria
comunità. Bisogna evitare la concentrazione della popolazione nei centri urbani e procedere ad
una redistribuzione delle forze di lavoro sul territorio, tramite la costruzione di aziende. Ciascuna
di essa dovrà avere una popolazione tra le 1200 e le 2000 unità che sarà ospitata in un villaggio
costruito secondo una planimetria rettangolare al cui centro vi è una piazza, nella quale saranno

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presenti gli edifici per i servizi comuni. Le fabbriche saranno sistemate vicino al villaggio,
inserendo così organicamente la fabbrica nella comunità. Owen sottolinea gli inconvenienti di
una specializzazione del lavoro, che deprime il carattere e riduce l’intelligenza dei lavoratori
bisogna creare le condizioni affinché nell’ambito della comunità si possa cambiare attività
lavorativa, in modo che venga a cadere la distinzione tra lavoro intellettuale e manuale. In tal
modo la direzione potrà essere affidata a tutti i lavoratori che abbiano esperienza e la cui età sia
compresa fra i 40 ed i 50. (le uniche distinzioni giuste si riferiscono all’età ed all’esperienza). Sulla
base dei principi di cooperazione e di mutualità ognuno potrà ritirare dai magazzini comuni i
beni che sono necessari ai suoi bisogni, mentre sarà compito dei dirigenti predisporre le scorte e
le riserve opportune per procurarsi quanto necessita ai membri dell’associazione e che non viene
prodotto in loco, mediante lo scambio del sovrappiù con i prodotti di altre aziende. Si
costituiscono così rapporti fra le singole aziende-comunità. L’unità di misura per regolare gli
scambi sia all’interno che fra le singole comunità è data dalla quantità di lavoro necessaria per
produrre i beni.

22)Constant: Liberalismo e Stato costituzionale

-Contesto storico
Il problema che anima l’intera filosofia di Constant è quello della libertà e dei suoi rapporti con
il potere: naturalmente ciò è dovuto, oltre che all’indole dell’autore, anche al particolare momento
storico in cui egli è vissuto. Due sono i tipi di libertà che Constant individua e distingue: da un lato,
c’è la libertà tipica delle antiche democrazie dirette, nelle quali il potere era nelle mani di tutti i
cittadini che partecipavano direttamente alla vita politica; dall’altro, c’è la libertà propria della
società moderna, in cui tutti gli individui intendono primariamente perseguire i propri interessi e
coltivare la propria sfera privata.

-Opere
Vive in un periodo di terrore giacobino, nell’era di Napoleone e nella sua caduta, molto presente è la
fine dell’impero napoleonico che segnò la restaurazione dell’antica monarchia e sale al potere Luigi
XVIII, fratello di Luigi XVI condannato nel 1793, e lui torna al potere emanando una famosa carta
costituzionale definita “concessa” dal monarca, in realtà sulla carta la costituzione si rifaceva al
modello inglese, invece il potere era molto nelle mani del re, il potere esecutivo esercitato dal monarca
e dai ministri, quello legislativo dalla camera dei pari, di nomina regia, vitalizia e poi la camera dei
deputati eletti su una base censitaria molto ristretta, il potere giudiziario esercitato da giudici nominati
dal re. Fu riformata la costituzione in senso liberale, ripristinata la camera dei deputati, e si avviò il
processo che arriva al 1848 con la fine della monarchia e l’affermazione della prima repubblica, ed è
in questo clima che opera Constant. Nasce a Losanna nel 1776, proviene da una famiglia aristocratica
che gli consentì di svolgere i suoi studi in Germania, in questo periodo conosce un personaggio noto a
tutti noi, Madame d'Estalle, nella vita sia politica di Constant, ma anche nella sua elaborazione
teoretica e politica e nella sua produzione scientifica. Viene eletto come membro del tribunato, il colpo
di stato di Napoleone con l’affermazione della autarchia militare, venne espulso dal territorio francese
e seguì madame d’Estalle, abbandona la Francia, va soprattutto in Germania, raggiunge Weimar ed
ebbe modo di incontrare personaggi come Goethe, Schiller, etc, durante questo periodo elaborò una
prima opera che si chiama “de la religion”, successivamente scrive un’opera polemica e dissacrante
“dello spirito di conquista e dell’usurpazione”, quando lui intitola quest’opera ha le idee molto
chiare, l’usurpatore è Napoleone Bonaparte. Sono anni in cui Constant elabora anche altri scritti,
un’altro che ha una certa validità politica che si chiama “principi di politica applicabili a tutti i

100
governi”, sono tutti pubblicati tra il 1914 e il 1918, dopo la sconfitta napoleonica di Waterloo, sono
anni molto importanti per lui perché inizia la fase di attività politica e di questi anni forse la più
importante opera “la libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni”, fu nominato nel 1819
deputato, inizia la sua vera campagna su campo, alla difesa del principio della sua elaborazione
politica, negli ultimi anni e l’anno della scomparsa il 1830 raggiunge l’apice della carriera
politica perché viene nominato presidente di sezione della segreteria di stato, scrive due opere
una “corso di politica costituzionale” per Napoleone e un’altra anche per lui “corso dei 100
giorni”. Il riferimento fondamentale del pensiero politico di Constant è condensato su alcuni concetti,
L’opera “de la religion” fu molto importante, che scrive una importantissima e ampia ed elaborata
situazione, in questa antologia Antonio Zamparini che ha curato molti saggi su Constant evidenzia
proprio il suo cavaliere errante, mette in evidenza già dall’uscita di quest’opera la religion, lo impegnò
per moltissimi anni e Constant mette in rilievo la sua posizione di polemica nei confronti del
cosiddetto edonismo, contro quella che lui chiama la logica edonistica, assume una posizione di
contrasto nei confronti dell’allora trionfante utilitarismo il cui portavoce è Bentham, padre
dell'utilitarismo moderno, bisogna valutare l’importanza di altri elementi come la religione, i
sentimenti, la storia, l’esaltazione della personalità dell’Uomo, da un lato la difesa della religione
contro il materialismo utilitaristico dall’altra l’accusa della religione considerata come istituzione
piuttosto che sentimento. Questo scatenò la critica degli utilitaristi e dei tradizionalisti. Il saggio
della libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni è un saggio che assume molta notorietà
per lui, non c’è scritto o saggio o pubblicazione che parlando del concetto di libertà non riporti la frase
di Constant: “ho difeso per quarant’anni sempre lo stesso principio, libertà in tutto: religione,
industria, politica, tutto, per libertà intendo il trionfo della individualità tanto sull’autorità che
vorrebbe governare per mezzo del dispotismo che acclamano il diritto di asservire le minoranze”
l’individualità e libertà sono i principi cardini per Constant, quando si parla di individualità si parla
di rispetto della personalità dell’individuo si distingue dall’individualismo che è la forma
negativa della libertà, forma di edonismo egoistico, la libertà fondamentale per amore della
quale Constant conduce una guerra senza esclusione di colpi è quella di stampa, il modello a cui
lui si ispira, è John Milton che nel 1694 fa uscire un'opera fondamentale per la libertà di stampa,
Milton combatte per la libertà di stampa e Constant si rallegra, chi distrugge un buon libro distrugge la
stessa ragione per Milton. Tradizionalmente si sostiene a ragione che mentre Finley nella sua opera del
72, esalta la democrazia degli antichi dicendo che era molto più sana, al contrario Constant
esalta la libertà dei moderni rispetto agli antichi, ma va anche sottolineato il fatto che è vero che
Constant preferisce la libertà dei moderni, ma giunge anche a capire che in realtà lui nutre una
grandissima stima nei confronti della libertà degli antichi in generale, mostra una sorta di
nostalgia dei vecchi tempi ed evidenzia l’importanza dell’umanità degli antichi capace di altruismo,
quello spirito di sacrificio che gli antichi avevano. In cosa si sostanzia la libertà degli antichi? come
una partecipazione attiva dei cittadini alla vita dello stato e si manifestava con la partecipazione
all’assemblea, si stabilivano i trattati di alleanza, si decideva l’imposizione delle tasse e dei tributi, la
vita del cittadino era tutta concentrata in quella dello stato, ben scarsa era la libertà individuale per gli
antichi, il cittadino non dedicava troppo tempo ai valori familiari, era soprattutto rivolto alla vita
politica, concepisce l’individuo al di là dello stato quindi ergo priorità assoluta dello stato rispetto
all’individuo. La concezione di Constant è che è a favore dell’individualità che si differenzia
dall’individualismo che lo porta a concepire lo stato sulla scia degli autori incontrati per cui ripropone
l’affermazione del cosiddetto stato minimo, lo stato deve prendersi cura della difesa,
l’amministrazione della giustizia, gestire le opere pubbliche, lo stato viene messo da parte rispetto
all’individuo. Ci sono differenze che Constant elenca puntualmente tra libertà di antichi e
moderni, in primis la dimensione territoriale, è ovvio che le repubbliche antiche avevano dei confini
ristretti, la repubblica più popolosa era di gran lunga più esigua rispetto all’eccezione del più piccolo

101
degli stati moderni, gli stati di oggi si estendono su una superficie immensa ed è possibile esercitare la
vita politica per gli individui, secondo elemento che viene affrontato in maniera sistematica è il
problema dell guerra, combattuta corpo a corpo, costituiva l’elemento fondante in quelle società, era
il pane quotidiano dei cittadini delle repubbliche antiche, nel mondo moderno invece la guerra ha
cambiato dimensione, non scomparirà mai. Constant come tutti gli autori ha la visione della relatività,
non condanna la guerra, è sempre un male, ma la guerra è ineliminabile, ma nei tempi moderni,
la guerra non sarà più lo scopo bensì un mezzo per difendere i propri confini, quella di cui parla
è un’altra guerra che si è andata affermando, è la guerra commerciale, Constant si occupa più
dell’aspetto politico ma non tralascia quello economico, non esce dalle maglie dell’economicismo.
Constant scrive che è un maledetto incidente il commercio, si comincia a concepire la
globalizzazione, infatti è una tendenza universale, vera via delle nazioni, felice accidente vuol dire che
era un episodio non abituale, ogni tanto si presentava, era un fatto sporadico, c’era nell’animo il
commercio, molti autori erano contrarissimi alla situazione, è stato difficile ridimensionare questa
idea, portava poi alla diffusione della pirateria, era un elemento che non era ancora concepito in
maniera razionale. Lui ha una visione Kantiana della felicità, non è lo stato che deve garantire la
felicità dell’individuo questo se la deve cercare da sola, però si augura che tutti i cittadini possono
combattere per la situazione. Per Constant la proprietà privata costituisce un elemento importante ed
ampia il quadro della situazione, per proprietà intende anche quella industriale, immobiliare etc, sulla
scorta di Smith difende a spada tratta l'idea della proprietà, costituisce a suo avviso la gratificazione,
l’uomo che non aspiri alla proprietà ha bisogno di fare, non gode di più, non ha più stimoli, ha un
grande rispetto dell’individuo, l’uomo ha bisogno di stimoli e di crescere, tra questo anche quello del
lavoro, della proprietà e della felicità. L’altra opera vediamo che l’usurpatore è Napoleone, c’è una
sorta di denuncia nei suoi confronti, distingue l’usurpazione della monarchia e dal dispotismo, la
monarchia è legittima perché si ha il monarca che prende il potere l’importante sia regolata da legge,
il dispotismo è una manifestazione e, tutti sono uguali di fronte al despota che mette tutti a tacere, c’è
il terrore negli occhi dei singoli, l'usurpazione è molto peggiore è la contraffazione della libertà come
dice lui, perché l’usurpatore ha bisogno di consenso, deve atteggiarsi a monarca, deve essere una
figura carismatica, deve catturare il consenso dei suoi sudditi, nel dispotismo regna il silenzio, lascia
all’uomo il diritto di tacere, rende l’uomo nudo, l’usurpatore lo condanna a parlare e lo
perseguita nel santuario intimo del suo pensiero e della sua coscienza.. L’idea importante di
Constant è quella del decentramento amministrativo, una serie di autonomie locali, sistema
capillare di parcellizzazione del potere, in modo che ci siano tanti centri di potere, c’è una somiglianza
con Montesquieu, che ha avuto intuizioni geniali ma ha dimenticato di prevedere la figura di una sorta
di presidente della Repubblica che faccia da bilancia dei poteri.

-La rivoluzione francese


Alla fine dell’impero napoleonico in Francia tornò l’antica casa reale con Luigi XVIII, che
concesse una carta costituzionale: il monarca, capo dell’esecutivo, nominava il governo; il potere
legislativo era distinto in due camere, quella dei deputati, eletta da un corpo elettorale molto
ristretto su base censitaria, e quella dei Pari, di nomina regia; esse non avevano nessun diritto di
iniziativa, che spettava al re; il potere giudiziario era affidato ai giudici, nominati dal re.
Nell’ambito di questa costituzione presero vita poco a poco i primi partiti: gli ultrarealisti
(aristocratici), gli indipendenti (Constant, liberali), i dottrinari (guizot, monarchici
costituzionali), e i repubblicani (democratici). La “seconda” Restaurazione accentuò il carattere
reazionario e repressivo della Restaurazione e gli indipendenti e i dottrinari assunsero un ruolo di
opposizione al governo. Vi fu tentativo di restituire poteri alla Chiesa, affidandole le scuole,
promuovendo leggi contro il sacrilegio e la libertà di stampa. Si rafforzò l’opposizione liberale, che
conseguì la maggioranza alla Camera. Dopo tre giorni di combattimenti a Parigi, il re Carlo X

102
abdicò. Fu chiamato al trono Luigi Filippo D'Orléans, re dei Francesi. La costituzione fu
riformata in senso liberale: si riconobbe alla Camera il diritto di iniziativa legislativa, si sancì la
responsabilità dei ministri e si abolì l’ereditarietà della camera dei Pari; la legge elettorale fu
riformata abbassando il censo, allargando il corpo elettorale alla classe media. Tale periodo si
concluse nel 1848, con la rivoluzione del febbraio, che sancì la fine della monarchia e l’avvento
della seconda repubblica. Constant indagò il problema di individuare il principio sul quale fondare
un ordinamento politico in grado di accogliere le esigenze di profondo rinnovamento politico e civile
espresse dalla Rivoluzione e di garantire, nel contempo, i cittadini da qualsiasi forma di oppressione e
arbitrio. Ritenne che nel corso di questi avvenimenti si è espresso un nuovo sentimento
dell’individualità e della libertà, su cui deve essere riorganizzato lo stato. I suoi scritti hanno lo scopo
di difendere l’individualità in tutte le sue manifestazione. La libertà è intimamente connessa al
valore fondamentale che assume nella civiltà moderna l’individualità, il sentimento della
originarietà e dell’autonomia dell’individuo. Tale sentimento è a sua volta connesso con
un’esperienza religiosa, che scopre la coscienza come momento centrale dell’esperienza che
avverto l’infinito, Dio. Il sentimento religioso è connesso con le passioni nobili; come queste esso
non può essere spiegato da un punto di vista meramente razionale: c’è un sentire che precede la
ragione, che ha una sua giustificazione, poiché attiene alla capacità dell’uomo di percepire i valori
morali e spirituali, che sono altro dalla realtà sensibile ed empirica regolata dalla ragione. Nella
libertà religiosa, e nella libertà di coscienza, è radicata la libertà di pensiero, che si esprime
mediante la libertà di parola e di stampa, che sono le libertà politiche fondamentali
dell’individuo. L’intero sistema costituzionale delle garanzie di libertà dell’individuo riposa sulla
libertà di stampa. Le libertà dell’individuo sono il limite sostanziale del potere politico. Constant
si richiama alla concezione rousseauiana della volontà generale, che fonda l’unità politica dello
Stato. Tale concetto di volontà va avvolto, poiché con esso si intende che il potere di un numero
ristretto di persone deve essere sancito dal consenso di tutti i cittadini. Non si può però accettare, da
Rousseau, il fatto che la volontà generale si costituisce mediante l’alienazione di tutti i diritti, per
ricevere la personalità del cittadino, la volontà diventa la legittimazione di una “autorità sociale”
illimitata. Ciò trova conferma nella proposta di religione civile, della quale lo Stato fissa i dogmi
fondamentali e che deve essere accolta da ogni cittadino: il tal modo l’individuo è subordinato al
governo.

-Il problema della legittimazione del potere


Lo Stato ha compiti ben definiti: la difesa nei confronti dei nemici esterni, il mantenimento
dell’ordine pubblico, l’amministrazione della giustizia come garanzia dei diritti di libertà e
l’intervento nelle grandi opere di interesse pubblico. Nel “Dello spirito di conquista e
dell’usurpazione”, 1814 viene giudicato l’ordinamento instaurato da Napoleone tra il 1799 e il 1813.
L’impero francese si fonda sulla forza militare, un esercito che per la leva obbligatoria risulta formato
da tutte le classi sociali, perciò l’ordine politico francese è la proiezione dell’ordine militare. Il fine
dell’Impero è diventato così la guerra e la conquista ed ha riproposto i sentimenti e le passioni proprie
della società antica. La politica di guerra e di conquista ha una conseguenza negativa sull’intera
nazione; le giustificazioni del governo per i suoi provvedimenti militari hanno il fine di suggestionare,
più che di convincere. Le affermazioni politiche e i programmi si svuotano e diventano formule per
giustificare le aggressioni. L’impero fondata sulla forza militare e sulla guerra, non è altro che
“usurpazione”, una nuova forma di governo, che si distingue dal dispotismo: questo nega tutte le
libertà politiche, quella le afferma e le sostiene in modo formale e strumentale, per rovesciare il
regime che soppianta. L’usurpatore svuota di contenuto le libertà e le riduce a strumenti per la
formazione di uno spirito pubblico a lui favorevole. In tal modo il potere, legittimato dalle leggi e
dalle istituzioni, diventa arbitrio, generando apatia nella società, dato l’impedimento alla

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manifestazione del pensiero, la più alta capacità spirituale. L’usurpazione porta alla sua
“autodistruzione”.

-Lo Stato costituzionale e i diritti di libertà dell’individuo


I diritti fondamentali dell’individuo sono del tutto indipendenti nei confronti dell’autorità
politica; essi sono: libertà personale, giudizio per giuria, libertà religiosa e di industria,
inviolabilità della proprietà e la libertà di stampa. La costituzione deve proibire qualsiasi atto che
attenti a questi diritti, sancendo che gli stessi potere costituzionali non possono sospenderli. Tale
indipendenza dei diritti presuppone che la sovranità popolare non sia concepita come affermazione
della volontà generale, ma come affermazione del primato della legge, in polemica con Rousseau, la
società non è un’entità superiore e distinta dai singoli. Per realizzare questo essenziale principio di
libertà occorre che la costituzione sia strutturata sulla divisione dei poteri, occorre distinguere il
potere del monarca costituzionale, irresponsabile, da quello esecutivo, costituito dai ministri,
responsabili politicamente e giuridicamente. Il primo è essenzialmente un potere neutro: ha il
compito di armonizzare gli altri poteri. Vanno distinti cinque poteri: quello reale, neutro; quello
esecutivo; il potere rappresentativo durevole, la Camera dei Pari; quello rappresentativo
dell’opinione, fatto valere da un’assemblea elettiva, la Camera dei deputati e il potere giudiziario. Il
potere reale risulta limitato dal fatto che la legge deve essere approvata dalle due Camere. Nel
contempo, però, il monarca interviene nel processo legislativo mediante la sanzione: può destituire il
governo, può sciogliere la Camera e dispone del diritto di grazia. Il difetto delle precedenti
costituzioni risiede nel fatto di aver ignorato l’esistenza e la funzione di un potere neutro, e di
aver confuso tale forza equilibratrice con uno dei poteri attivi, con il legislativo o con l’esecutivo,
nel primo caso si è affermata l’onnipotenza della legge nel secondo il dispotismo. C. ribadisce
che la rappresentanza politica debba essere fondata sulla proprietà, non solo fondiaria ama
anche industriale. La libertà non ha vere garanzie quando il diritto elettorale viene esteso alle
categorie sociali che non godono di indipendenza economica. La rappresentanza deve preoccuparsi
di promuovere quel progresso civile e sociale, una delle migliori garanzie dei diritti individuali.
L’ordinamento politico amministrativo deve essere informato ai principi del decentramento e di
un’ampia autonomia locale, che stabilisca fra i singoli e il potere centrale almeno due sfere, quella del
Comune e quella che raggruppa più Comuni (circondario). Occorre distinguere tre livelli di
interessi, quelli del comune, quelli del circondario e quelli generali che debbono essere curati dal
governo, gli altri due dalle rispettive autonomie. Il governo è autorizzato ad un intervento
sostitutivo solo nel caso in cui gli organi delle autonomie non svolgono i compiti loro assegnati.

23)Tocqueville: Libertà e uguaglianza- il problema della democrazia

-Contesto storico
(1805 – 1859) Alexis Henri Charles de Clérel de Tocqueville nasce a Verneuil-sur-Seine, in Francia, il
29 luglio 1805. Come è facile intuire dal nome altisonante, l’uomo proviene da una famiglia
aristocratica legittimista, ovvero sostenitrice del diritto dei Borboni di regnare in Francia. I genitori di
Tocqueville avevano rischiato, prima della caduta di Robespierre nel 1794, di avere la testa tagliata. A
partire dal 1820 entra in contatto con le letture di Montesquieu, Voltaire, Rousseau e Buffon, a cui ha
accesso grazie alla biblioteca del padre, grazie alle quali comincia a sviluppare un’idea sua, lontana da
quella della famiglia d’origine. Tocqueville concentra le sue analisi e le energie sulla fine
dell’aristocrazia a favore della democrazia liberale e sulla critica riguardo gli eccessi di violenza
ad opera dei rivoluzionari. Nel 1830, quando la rivoluzione porta sul trono Luigi Filippo d’Orléans,
Tocqueville ha una forte crisi spirituale e politica poiché combattuto tra la fedeltà del precedente re, in

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linea con gli ideali della sua famiglia, e il suo personale desiderio di dare appoggio al nuovo sovrano,
che era molto più in linea del vecchio con le idee liberali che albergavano nella sua mente. Lui si
occupa principalmente di politica, si focalizza sullo studio dell’uomo. Si dichiara uomo politico
perché ricopre cariche politiche, ci fu un sodalizio con Mill e sicuramente Tocqueville fu il primo che
tentò di conciliare libertà ed uguaglianza, “liberalismo e democrazia possono convivere insieme” il
liberalismo per tutto il 700 e l’800 era in profondo contrasto con la democrazia, si focalizzava
sull’individuo, priorità assoluta dell’individuo sullo stato, l’individuo è il soggetto principale. E’ ovvio
che il tentativo di Alexis de Tocqueville sembrava quasi una follia, fu l’anticipatore dei regimi
liberal-democratici. Nasce nel 1805 vicino Parigi, proviene da una famiglia di aristocrazia di sangue
non di toga, molto conservatrice legata ai principi dell'ancien régime infatti aveva una grande affinità
con essi, da lì inizierà il distacco psicologico, si laurea, entra nella magistratura come giudice istruttore
del tribunale di Versaille, inizia la carriera di magistrato con molta diligenza, il suo istinto lo porta a
seguire con attenzione gli eventi politici, si trattava dell’affermazione della monarchia di Luigi
d’Orleans che si dichiara re dei francesi piuttosto di Francia, lui nutre sospetti nei confronti di questo
regime, una delle frasi che tutti gli studiosi evidenziano: “io odio i regimi assoluti e disprezzo” quando
arriva al potere Orleans si rivolge così “io disprezzo il nuovo sovrano, ritengo più che dubbio il suo
diritto al trono, tuttavia lo sosterrò con più tenacia di coloro che gli hanno aperto la strada al potere e
che ben presto si dimostreranno come suoi padroni o nemici”, svolge con molta serietà il suo lavoro,
inizia a temere l’insofferenza del regime politico sulla magistratura, si rende conto di essere molto
distante dai costumi e dai principi cui l’avevano cresciuto, si rese conto che le condizioni politiche
della sua famiglia erano distanti dalle sue idee, coglie l’occasione, si reca con l’amico con cui
condivideva queste aperture, negli stati uniti d’america per studiare il sistema penitenziario americano.
L’uomo muore a Cannes nel 1859 per via della tubercolosi di cui si è ammalato.

-Il sistema penitenziario


Di mestiere Tocqueville fa, tra le altre cose, il magistrato. Lo scopo del suo lavoro è quello di
migliorare il sistema penitenziario francese, che ai suoi tempi è in crisi per colpa delle
inadeguatezze rispetto alle esigenze del paese. Proprio a questo scopo Tocqueville sceglie di studiare
il sistema penitenziario statunitense da vicino, partendo per l’America nel 1831; la verità su questo
viaggio, però, è che la ragione primaria della partenza va ricercata nella necessità dell’uomo di
allontanarsi dalla Francia per poterne vedere la situazione politica dall’esterno, in maniera più
neutrale. Nel corso del tempo che passa negli Stati Uniti Tocqueville non concentra i suoi sforzi
unicamente sul sistema penitenziario americano ma anche sul fatto che l’assenza di privilegi e
diritti di nascita dei ceti chiusi sia fonte di un clima in cui tutti possono emergere nella
competizione sociale partendo da uno stesso livello. Tutto ciò che viene osservato da Tocqueville in
America prenderà corpo nell’opera "La democrazia in America", pubblicata una volta tornato in
Francia in due parti (1835 e 1840). Si riflette la personalità di Tocqueville in questa lunga traversata
per arrivare in America, emerge questo distacco dalle idee conservatrice diffuse in Francia, dopo
l’affermazione della monarchia di Luigi Filippo, in quel periodo studia attentamente il sistema politico
americano, lì subentra la sua indole da sociologo e psicologo. Nel 1835 esce la prima parte del suo
capolavoro, “La democrazia in america”, opera che diede grandissimo successo e tutt’oggi ha un
successo straordinario, non c’è americano medio che non abbia coscienza di quest’opera in cui si
orientava sempre più verso idee liberali e conservatrici. Maturò il timore che il potere politico potesse
collidere con quello dei magistrati, per questo si dimette dalla carica dei magistrati, per protesta, e
cominciò la sua attività politica nel 1839, aderisce alle idee del 1848, viene proclamata la repubblica e
viene eletto deputato all’assemblea costituente, ricoprì questi incarichi fino a quando venne eletto con
la carica di ministro degli esteri ma durò poco, perché vi fu il colpo di stato nel 1851 di Luigi
Bonaparte che sciolse le camere e questo procurò a Tocqueville l’arresto. Nel frattempo nel 1840 esce

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la seconda parte della “democrazia in america” che non diede all’autore lo stesso successo della
prima. Negli ultimi anni elabora un’opera di grande importanza, “l'ancien régime e la rivoluzione”.
in cui lui rifletteva i temi della grande rivoluzione francese ed avrebbe voluto ampliare questi temi,
considerando che il colpo di stato di Napoleone aveva imbrogliato la carriera politica ma morì a
Cannes nel 1859.

-Democrazia
Il primo problema da affrontare è la riflessione in cui si origina tutto il pensiero di Tocqueville,
la democrazia. La democrazia a quei tempi nella Francia che si avviava verso il superamento
dell'ancien régime ma ancora ancorata da quei principi era considerata un pericolo, una forma di
governo che avrebbe destabilizzato il terrore politico, ma Tocqueville sosteneva che non
bisognava contrapporsi alla democrazia ma bisognava accettarne pregi e difetti. Inizia così la
sua riflessione sui pregi e difetti della democrazia, parliamo dell’istituto democratico tout court.
La democrazia comporta dei difetti per lui, comporta una sorta di invidia di coloro che sono alle
basi della tirannide, un altro difetto è la mancanza di lungimiranza, i membri non possono fare progetti
a lunga distanza. Ma non inferiori sono i pregi, la democrazia è una forza irresistibile che sprigiona
energie positive, stimola gli individui ad amare la patria. Lui detesta i principi assoluti, comincia
questa analisi degli stati uniti, fa questa riflessione molto realistica, lui sostiene che la storia degli stati
uniti è facilmente individuabile, per capire una persona dovremmo risalire alle origini, alle
motivazioni, qui si inserisce l’idea dello psicologo del sociologo, una persona va giudicata nel suo
percorso dall’infanzia alla maturità, lo stesso vale quando noi vogliamo capire la storia di un popolo.
Per quanto riguarda l’Europa riusciremo sempre per Tocqueville a ricostruire la storia dei nostri paesi.
La storia degli stati uniti costituisce un osservatorio privilegiato perché di essa possiamo costruire le
origini, come tutti quanti sappiamo lui dedica pagine con molta ricchezza di particolari sui coloni
americani abbandonano la madre patria, non sono avventurieri per ricchezza, vengono da famiglie
aristocratiche, si tratta di uomini e di donne che hanno amore di esprimere libertà per come essa si
presenti, lo spirito di libertà e lo spirito di religione indussero i pellegrini ad abbandonare la madre
patria e dovettero non solo scontrarsi con le tribù autoctone ma anche con terre sconfinate, e tutti una
volta abbandonato il ruolo che avevano nella madre patria, partirono dagli stessi livelli, per questo
l’idea di uguaglianza, con particolare riguardo dei paesi europei come Inghilterra, Scozia etc, C’era
un istituto politico chiamato Maggiorasco, perché negli stati uniti d’america non si è mai formata
l’aristocrazia? perché questo maggiorasco prevedeva che tutto il patrimonio della famiglia finisse nelle
mani del primogenito o dei figli maschi, questo patrimonio aumentava quando non veniva diviso ma in
america abolirono questa legge del maggiorasco e quindi tutti partivano dalle stesse origini. Un altro
elemento che colpisce T è il fatto che in America c’è un profondo dogmatismo ed era fortemente
incuriosito da come mai la democrazia americana garantiva un sistema di uguaglianza.

-La tirannide della maggioranza


Tocqueville distingue la ricerca applicata da quella pura, la prima è quella finalizzata per lo
stipendio del lavoro, la ricerca pura invece era di colui che si dedicava allo studio non solo
perché finalizzato ad una indipendenza economica, ma a quella tout court, questo ha portato ad
un livellamento sociale ed il mondo americano agli occhi di Tocqueville ha un certo livellamento
delle posizioni sociali. Tocqueville scrive quest’opera chiarendo subito al lettore che lui non vuole
fare l’esaltazione del popolo americano, lui vuole dimostrare come la democrazia ha trovato
applicazione in esso. Ha individuato delle regole per evitare la tirannide della maggioranza: il sistema
comunale, l’idea dell’america che sia frazionata attribuisce un sistema comunale, lui lo definisce la
palestra della libertà. Tocqueville quando scrive quest’opera cita in continuazione una delle opere
tanto care agli americani “il federalista”, una raccolta di 88 tesi usciti in varie edizioni, riuniti da tre

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grandi personaggi Hamilton, Jay e Madison che non è stata elaborata a tavolino ma attraverso
l’osservazione dei fatti e raccoglie le basi della struttura politica americana. L’america è dotata di una
struttura federale perché il sistema confederato fallì e fu trasportato nella struttura federale. Secondo
elemento di grande importanza è che gli stati uniti di america sono dotati di un forte
accentramento politico che bilancia quello decentrato. Terzo elemento di grande importanza è il
guru che si riuniva solo in alcuni casi. Quarto elemento è il sistema dello spirito leghista, fa un
esempio molto chiaro, generalmente in Europa per ricoprire la carica di magistrato occorreva fare una
sorta di concorso, era una carica che il magistrato ricopriva fino al suo pensionamento, nulla di più
diverso intende Tocqueville, lui paragona il magistrato ad una sorta di casta sacerdotale, lo spirito
leghista è la capacità di non avere il codice e si deve rifare al precedente giudiziale e questo comporta
la necessità che il giurista provenga da una famiglia dove si respirava la cultura giuridica. L’ULTIMO
elemento è la suprema corte federale, organo superiore che ha la funzione di controllo che l’operato
delle leggi emanate siano conformi alla costituzione, una sorta di controllo di legittimità, una sorta di
importante elemento di controllo.
Tocqueville e tutta la sua elaborazione si focalizza proprio sul problema della tirannide della
maggioranza, ci sono freni, ma c’è un rischio incontrollabile, la maggioranza finisce per avere un
potere formidabile: penetra nelle coscienze e lo fa nel modo sottile a differenza delle tirannide del
tempo, dentro questo cerchio lo scrittore è libero, ma guai se osa scavalcare questi limiti del cerchio, ”
l’uomo che esce fuori da questo cerchio formidabile è un emarginato e quindi questa forma di
tirannide è peggiore dell’antica piramide, qui non ci sono le catene fisiche ci sono le catene morali. Il
timore che lo assale, le conseguenze che lui definisce orribili che porta la maggioranza, sembra un
timore irreversibile, questo è un fenomeno che porta all’emarginazione ma anche al conformismo,
Tocqueville prefigura questi individui che si adeguano alle masse, tutto questo gregge segue le masse e
l’uomo finisce per perdere i suoi valori, l’uomo si perde nella folla, questa è una previsione dei fatti,
c’è un conformismo che porta a conseguenze aberranti, questa società andrà verso la valorizzazione di
processi di economicizzazione, l’individualismo reca con sé utilitarismo, pragmatismo ed edonismo,
questo porta una degenerazione della individualità, rinchiude l’uomo nella solitudine del suo cuore e
isola gli uomini gli uni dagli altri, questa società fortemente democratica è completamente ripiegata su
se stessa, così man mano che le condizioni economiche si eguagliano gli individui si fanno sempre più
piccoli. Lui prefigura una simbiosi tra lo sviluppo industriale e la potenza dello stato.

-Libertà ed uguaglianza
L’autonomia dell’individuo. Il problema politico della società post-Rivoluzione francese consiste
nel rapporto fra libertà ed uguaglianza. La democrazia non deve essere considerata solo secondo
principi teorici, ma in concreto, con riferimento al particolare ambiente in cui si attua.
L’indagine sull’organizzazione costituzionale dello Stato deve essere integrata da quella relativa alle
sue più importanti istituzioni civili e al ruolo delle diverse categorie e classi sociali. T. crede che la
democrazia è il fine a cui tende il processo storico: essa deve essere vista come il “movimento sociale”
che caratterizza la storia moderna e che ha dissolto l’ordinamento aristocratico-feudale. Qualsiasi
tentativo volto a contrastare l’instaurazione di una democrazia è destinato al fallimento. I governi
europei non si rendono conto che la “rivoluzione democratica” si realizza nelle condizioni materiali
della società. Occorre offrire alla democrazia stessa un sicuro orientamento, che scaturisca da una
analisi politica in grado di comprendere il mondo “rinnovato”.

-La nuova scienza della politica


La “nuova scienza politica” di Tocqueville ha lo scopo di comprendere le trasformazioni in atto
nella società europea. L’analisi politica deve tenere conto dei risultati cui è pervenuta l’indagine sulle
leggi e sulle istituzioni. “La Democrazia in America” e “L’Antico Regime” sono complementari,

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nel senso che la società americana esprime lo stesso principio democratico che caratterizza la storia
europea, vi è un collegamento tra la Rivoluzione americana e quella francese: gli emigrati che si
stabilirono in America alla fine del XVII secolo liberarono il principio democratico da tutto ciò contro
cui lottava in Europa, portandolo nel nuovo mondo, dove ha potuto svilupparsi. L’analisi politica di T
punta ad individuare i principi ispiratori dell’etica civile, gli ideali che sono in grado di orientare i
comportamenti degli individui e delle classi. Gli ideali politici presenti nella società moderna sono
due: libertà ed uguaglianza; con primato della prima, in quanto fonda il sentimento originario della
nostra individualità. Al sentimento della personalità corrisponde il modello di società
aristocratica, mentre al principio dell’uguaglianza corrisponde quello di società democratica. La
prima ritrova fondamento in una legge strutturale delle società umane, nel senso che i beni morali di
una società si concentrano in un numero ristretto di persone. L’aristocrazia è il costante termine di
riferimento per individuare gli ideali che caratterizzano la democrazia.
-La democrazia americana
Il modello di democrazia è quello americano, il suo studio inizia con un’analisi accurata delle
origini storiche: anche T. ritiene che la genesi storica esprime la ragion d’essere di una comunità.
Le prime Colonie che si insediarono sul territorio americano erano costituite, per la maggior parte, da
dissidenti religiosi, per poter professare il proprio credo in piena libertà. Religione e libertà politica e
civile si sostennero a vicenda, con reciproche influenze. Il sentimento della libertà scaturisce dal
sentimento religioso e da questo viene alimentato. In un territorio così vasto le nuove comunità
manifestarono subito una tendenza all’espansione: tutte le categorie sociali si sono impegnate in un
comune sforzo di collaborazione, che favorì uno spirito di solidarietà, si forma una società che tende a
trasformare le gerarchie, promuovendo un sostanziale pareggiamento delle classi, anche sul piano
economico. Le colonie americane sono caratterizzate da un’accentuata mobilità sociale; e a tale
principio si ispira la legislazione americana, che favorisce al massimo la circolazione della ricchezza.
La dinamica della società tende a portare tutti in un vasto ceto medio. Quando l’uguaglianza si è
realizzata nell’assetto sociale essa trasforma anche l’ordinamento politico: vi sono quindi due modi per
far si che gli uomini, uguali sul piano sociale, lo siano anche su quello politico: o dare a tutti gli stessi
diritti, oppure non darli a nessuno. Vi sono infatti due “tipi” di uguaglianza; una prima che spinge
la volontà degli uomini a rendersi uguali a chi è superiore, che conduce al progresso; ed una
seconda che corrisponde alla volontà degli inferiori di riportare i superiori al proprio livello, che
porta decadenza.

-Democrazia e sovranità
Nella democrazia si riscontrano pregi e difetti. Il desiderio dell’uguaglianza trova continue
sollecitazioni, ma mezzi limitati per essere appagato, ciò crea invidia, che orienta le scelte politiche
verso un generale livellamento, sacrificando le capacità ed i meriti migliori. Il suffragio universale
non garantisce i provvedimenti più idonei per gli interessi della comunità. La scarsa efficienza, la
mancanza di lungimiranza e l’instabilità legislativa-amministrativa costituiscono i lati negativi del
governo democratico, che si basa sull’opinione pubblica, mutevole poiché esposta alle influenze delle
passioni. La democrazia, mentre si preoccupa di tutelare gli interessi che hanno immediata risonanza
nell’opinione pubblica, tralascia gli interessi “permanenti” della comunità. Essa favorisce un generale
orientamento verso l’agire pratico, quindi verso un sapere che si basa sul buon senso, atto ad
individuare la soluzione dei problemi in termini semplici e pragmatici. I vantaggi che la democrazia
arreca sono superiori, ma non immediati. Nella società americana opera con forza la virtù civica.
Lo spirito civico è inseparabile dall’esercizio dei diritti politici, la democrazia diffonde fra i cittadini
l’idea dei diritti; ne consegue il rispetto per la legge. La caratteristica più positiva è
l’inseparabile energia che sollecita e l’intensa attività sociale che promuove. Inoltre garantisce
l’armonico soddisfacimento degli interessi delle diverse classi sociali. Affidare la gestione della

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cosa pubblica ad una sola classe sociale significa danneggiare le altre: la democrazia invece
finisce per comprendere elementi di tutte le classi sociali, contemperando gli interessi.

-Il rapporto tra maggioranza e minoranza


Il problema della democrazia riguarda il rapporto tra minoranza e maggioranza. La democrazia
non può essere considerata come la forma di governo che garantisca automaticamente la libertà: in
determinate situazioni la maggioranza può esercitare un potere assoluto (sull’assunto che vi sia più
saggezza tra molti uomini riuniti che in uno solo). La maggioranza ha un suo processo di
formazione, e si manifesta in occasione delle elezioni, è il risultato dei processi di
omogeneizzazione della società ed espressione dell’opinione pubblica. Il carattere assoluto del suo
potere emerge solo se si abbandona la prospettiva politico-giuridica dello stesso potere, che
formalmente rispetta la costituzione: la maggioranza tende ad esercitare una costante pressione
ideologica sui propri avversari e plasma l’opinione pubblica a sua immagine. Il risultato ultimo
dell’influenza della maggioranza è il conformismo, l’obbedienza meccanica su convinzioni che si
accettano, perché trasmesse dall’ambiente sociale in cui viviamo.

-Le garanzie della minoranza nella democrazia americana


La libertà si riduce all’esercizio di una serie di diritti che garantiscono la nostra tranquillità e il nostro
benessere. Tocqueville studia quindi come il sistema americano riesce a contenere la
maggioranza, grazie alla struttura federale rafforzata da ampie autonomie locali, che riducono il
potere dell’amministrazione centrale. Altro freno è rappresentato dalla particolare posizione
riconosciuta alla magistratura. Il primato del diritto sul potere si afferma nella Suprema Corte
federale, che da giudizi di legittimità sulle leggi. Infine un altro freno indiretto consiste
nell’impegno etico-religioso, che informa tutta la società americana. Le confessioni religiose
affermarono il primato della libertà di coscienza, che in tale società trova un preciso riscontro nella
vita civile e politica. “Democrazia in America” viene completato da una seconda parte, pubblicata
nel 1840, che analizza l’influenza del principio dell’uguaglianza sul pensiero, sui costumi e sulle leggi.
Tale attenzione ai “difetti” deriva dal fatto che la “rivoluzione democratica è un fenomeno
irreversibile”.

-Democrazia e industrialismo
Tocqueville coglie i processi involutivi propri della democrazia di massa, connessi alla
tendenziale parificazione delle condizioni sociali, promossa dal processo industriale, che mira a
formare una classe unica. T. rileva una “economicizzazione” della vita sociale e politica, che
svuota quest’ultima dei valori etico-politici, marginalizzando in tal modo le istanze di libertà. Il
sentimento dell’uguaglianza è certamente connesso con quella dell’indipendenza, che è il presupposto
della libertà; ma il processo di industrializzazione tende a trasformare il contenuto etico del sentimento
dell’uguaglianza ed a sostituirvi valori empirici (il desiderio dei beni materiali).

-Il primato della tecnica ed i pragmatismo


L’industrialismo reca con sé l’utilitarismo, il pragmatismo e il desiderio del benessere. Il
desiderio del benessere è la caratteristica saliente ed indelebile dell’età democratica. Il desiderio del
benessere tende a condizionare le attività degli stessi individui e ad esercitare influenza sul movimento
intellettuale, sui costumi e sulla politica. Fra gli orientamenti delle società industrializzate acquista
rilievo la tendenza a concentrare l’interesse intellettuale sulle questioni pratiche, che possono avere un
diretto ed immediato impiego nell’industria, per perfezionare la produzione, prevalenza delle scienze
applicate, a scapito di quelle teoriche. Il pensiero a livello teorico è invece, per Tocqueville, la vera
energia dalla quale promana l’intera attività sociale volta al progresso e al perfezionamento della

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società e qualora dovesse venire a mancare la sua influenza si assisterebbe ad un lento ed inesorabile
processo involutivo della società, che non sapendo rinnovarsi diverrebbe statica. I beni morali
finiscono così per ridursi ai godimenti ed ai diletti propri del benessere. La democrazia,
promuovendo l’idea del benessere, favorisce un’etica materialista, che pone le premesse del
conformismo democratico che sancisce il dispotismo della maggioranza. Il tendenziale
materialismo ha un’altra conseguenza negativa: induce l’individuo ad interessarsi solo della sua sfera
privata, dissolvendo in tal modo i vincoli sociali, a tale sentimento del valore assoluto della sfera
privata corrisponde l’individualismo. Esso spinge ogni uomo ad appartarsi dalla massa dei suoi simili
e a tenersi in disparte, una volta creata una piccola società per conto proprio, abbandona quella grande
a sé stessa. L’isolamento degli individui ha come conseguenza il dominio “ideologico” delle
masse, che sono tendenzialmente conservatrici, poiché rifiutano gli atteggiamenti di critica.

-La nuova potenza sociale dello stato


Il processo di involuzione delle società “egualitarie” ha un esito politico-istituzionale, che
conferisce allo Stato un vasto potere di intervento che finisce col controllare tutti i centri di
attività sociali. Così, mentre le condizioni sociali ed economiche si eguagliano, si pongono le
premesse per una cultura del “sociale” che riconosce alla società ogni diritto ed ogni potere. Il potere
delle società democratico-egualitarie si presenta come un nuovo “paternalismo”. Il processo di
formazione di un unico potere è sostenuto dal costante processo di industrializzazione. L’industria
richiede comunicazioni e un’organizzazione dei mercati. Lo Stato si dà pertanto una complessa
struttura burocratico-amministrativa, lo stato diventa il garante dei risparmi ed anche il
banchiere/finanziere da cui dipendono tutte le attività industriali. Per tal motivo mentre
l’industria si sviluppa, lo Stato aumenta i suoi poteri, generando rapporti di simbiosi, che si
alimentano a vicenda.

-La libertà come legittimazione della democrazia


Da questo nuovo tipo di Stato scaturisce il nuovo dispotismo. Il risultato di questa presenza statale
è che essa rende sempre meno utile e più raro l’impiego del libero arbitrio. Gli individui sono svuotati
della loro individualità e responsabilità. Il nuovo dispotismo consiste nel servirsi delle condizioni
sociali create dallo sviluppo industriale per dar vita ad un’organizzazione burocratico-amministrativa
che accompagna gli individui fino alla morte e li plasma secondo i propri intendimenti: questa
“servitù” può combinarsi con una forma esteriore di libertà, riuscendo a legittimare l’assolutezza del
nuovo potere sociale con il principio della sovranità popolare. L’analisi del processo involutivo delle
democrazie industrializzate non deve essere intesa come l’esito inevitabile: è una tendenza, che deve
essere contrastata. Se l’uguaglianza apporterà “schiavitù o libertà” dipende solo dalle scelte delle
nazioni e dalle loro leggi. Occorre rafforzare il sentimento di indipendenza, che unito alla libertà
politica potrebbe però generare situazioni di anarchia: essa però è un male minore, contro la quale si
possono prendere provvedimenti. La vera efficace salvaguardia è la religione, che esprime i valori
essenziali su cui si fonda la convivenza civile. Il cristianesimo sottrae gli individui e le masse alla
contingenza degli interessi immediati, riportandoli a ciò che trascende il presente.

24)Rosmini: Religione e libertà

-Contesto culturale

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(1797 – 18559 Della sua nascita, Rosmini renderà sempre grazie a Dio poiché «Egli la fece coincidere
con la vigilia della Beata Maria Vergine Annunziata». Viveva con sua sorella maggiore Margherita,
entrata nelle Suore di Canossa, e con suo fratello più piccolo, Giuseppe. Rosmini, terminato l'Imperial
Regio Ginnasio di Rovereto, al tempo città della Contea del Tirolo, compì gli studi giuridici e teologici
presso l'Università di Padova e manifestò il desiderio di diventare sacerdote. A questo proposito i
famigliari raccontavano come, fin dalla più tenera età, Rosmini leggesse alla luce della sua aureola. [2]
Fu nel giugno 1820, in occasione della venuta a Rovereto del Vescovo di Chioggia Giuseppe Manfrin
Provedi per consacrare le chiese di Santa Maria del Carmine e di Santa Croce, appartenente
all'omonimo Monastero, che Antonio Rosmini, prendendo parte alla cerimonia, ottenne da Monsignor
Manfrin il diaconato ed in seguito, a Chioggia, il 21 aprile 1821 ricevette l'ordinazione sacerdotale.[3]
Intanto iniziò a mostrare una profonda inclinazione per gli studi filosofici, incoraggiato in tal senso da
papa Pio VII. Dal 1826 si trasferì a Milano dove strinse un profondo rapporto d'amicizia con
Alessandro Manzoni che di lui ebbe da dire: «è una delle sei o sette intelligenze che più onorano
l'umanità». Manzoni assistette Rosmini sul letto di morte, da cui trasse il testamento spirituale
"Adorare, Tacere, Gioire". Gli scritti di Antonio Rosmini destarono l'ammirazione, tra gli altri, anche
di Giovanni Stefani, Niccolò Tommaseo e Vincenzo Gioberti dei quali pure divenne amico. Nel 1828,
dopo aver dovuto lasciare il Trentino, per motivi di forte ostilità per le sue posizioni incontrati da parte
del principe vescovo di Trento, il beato Giovanni Nepomuceno, fondò al Sacro Monte Calvario di
Domodossola la congregazione religiosa dell'Istituto della Carità, detta dei "Rosminiani". Le
Costituzioni della nuova famiglia religiosa, contenute in un libro che curò per tutta la vita, furono
approvate da papa Gregorio XVI nel 1839. A Borgomanero svolge la sua attività di insegnamento e di
guida spirituale in un collegio rosminiano, il "Collegio Rosmini", regolato dalla Congregazione delle
Suore della Provvidenza Rosminiane. Nel 1848 svolse una missione diplomatica per conto del Re di
Sardegna Carlo Alberto presso la Santa Sede. Il filosofo fu presidente dell'Accademia Roveretana
degli Agiati ed il suo posto, anni dopo la sua morte, dal 1872 al 1888, fu assunto da don Francesco
Paoli, suo segretario ed esecutore delle volontà, già direttore di Casa Rosmini. Tra le volontà del
filosofo vi fu anche quella di donare alla città di Rovereto un terreno nell'attuale zona di Santa Maria
per costruirvi l'ospedale cittadino, e don Paoli onorò tale decisione. Rosmini è sepolto all'interno del
Santuario del SS. Crocifisso di Stresa. Nella stessa chiesa si trovano le spoglie di Clemente Rebora.
La sua filosofia si orienta in tre direzioni: filosofia morale, filosofia teoretica, filosofia politica. Il
suo pensiero ha una grande importanza da un punto di vista squisitamente politico, prende parte attiva
nella vita politica di quegli anni, proviene da una famiglia molto agiata, sin dai primissimi anni della
sua giovinezza, manifestò questo suo amore per la religione e già manifestò la sua profonda vocazione
religiosa che lo portò a laurearsi presso l’università di padova. Dopo pochi anni, fu ordinato sacerdote,
non solo a livello teorico ma anche pratico, dedicò gli anni della sua giovinezza alla creazione di
istituti di carità, era fondamentale aiutare i bisognosi, fece della questione sociale uno dei suoi cavalli
di battaglia, naturalmente fondò l’ordine dei Rosminiani, non fu un personaggio fortunato, scrisse un
numero infinito di opere, che gli diedero un grande successo, il suo pensiero politico si diffuse in
Francia e i suoi testi furono adottati dagli studenti della Sorbona.

-Illuminismo e realismo cristiano


In Italia si era diffuso l’illuminismo, da un punto di vista filosofico riteneva che la ragione
costituisce l’elemento fondante e si mise sul piano degli illuministi per smentire il loro piano
dottrinario e cercò di conciliare ragione e fede, l’illuminismo aveva attribuito una grande
importanza alla ragione. Il suo pensiero fu contrastato, lui era un cristiano liberale, aveva fatte
proprie le idee liberali, fu contrastato da un lato dai liberali proprio, perché era una cultura
profondamente laica ed anticlericale, lui era un sacerdote, dall’altro le sue idee furono
ampiamente contrastate anche dalla cultura cattolica, era molto diffusa, la punta di diamante del

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cattolicesimo era costituita dai gesuiti, costituivano l’ala conservatrice del cattolicesimo. Si resero
conto i gesuiti dell'importanza del sistema rosminiano, cominciarono a contrastare il sistema di
Rosmini, lo attaccarono sotto tutti i profili, accusarono alcune opere di contenere posizioni eterodosse,
non in linea con i canoni religiosi, alcune sue opere vennero messe all’indice, i gesuiti si erano resi
conto che la figura di Rosmini era scomoda, ostacolava il primato assoluto di cui godevano. Rosmini
morì nel 1885, ed a pochi mesi della morte fu discolpato dalle accuse di aver scritto 40 proposizioni
eterodosse, i gesuiti non si fermarono lì, anche dopo la morte di Rosmini, tornarono alla ribalta e
cercarono ancora di invalidare e condannare alcuni contenuti delle opere. Iniziò a frequentare Papa Pio
IX, non solo come filosofo ma come uomo politico il Papa rimase colpito da lui, si vociferava che lo
volesse far diventare segretario di stato, nonostante le rimostranze dei gesuiti, ovviamente Rosmini, in
quegli anni, era una grande notorietà, tra il 1848 e il 1849 aderì alle idee liberali. “Politica I”
composta tra il 1822 e il 1826, Rosmini assume tre posizioni, ultraconservatrici, lui si ispira
all’autore più conservatore, Haller, ma anche pensatori francesi, posizione ultraconservatrice per la
sorta di monarchia assoluta anche feudale, negli ultimi libri prende coscienza che questa
monarchia assoluta, si attenua e questa sua posizione estrema porta Rosmini da posizioni così
rigide assunte inizialmente a posizioni molto più aperte e comincia a teorizzare una monarchia
non più assoluta, ma costituzionale. Dal 1827 elabora la “politica II”, il pensiero di Rosmini
subisce una grande trasformazione, una nuova realtà si stava presentando, l’aristocrazia aveva
perso rilievo, si andava affermando la borghesia. Quando scrive “la filosofia della politica” e “la
filosofia del diritto” nel 39 e nel 41 le sue posizioni sono molto più vicine all’idea liberale. L’epilogo
del suo percorso ideologico si conclude con posizioni molto più aperte che sono quelle presenti nella
“costituzione secondo la giustizia sociale” che esce nel 48, costituisce la fase conclusiva del percorso
intellettuale di Rosmini. Le opere del 48, la prima di queste che è la “costituzione secondo la
giustizia sociale”, molto importante l’opuscolo sull’unità di Italia, opera politica, facilita assieme
alle cinque piaghe della santa chiesa la totale rottura di Rosmini con Pio IX e i personaggi che
ruotano intorno alla curia romana. Le idee di Rosmini si erano aperte a posizioni molto più
innovative, l’appendice è la parte più politica e qua propone: una forma di governo federalista,
pensava che non fosse pronta l’Italia per una forma unitaria, prevede una sorta di
confederazione di stati, presieduta dal papa, questi quattro grandi stati sarebbero stati il Regno
di Sardegna, Lombardia e Piemonte primo Stato, secondo Stato il Granducato di Toscana, il
terzo Stato quello della chiesa, il quarto stato quello delle due sicilie. Questa struttura sarebbe
stata presieduta ideologicamente dal Papa, Rosmini prevedeva una sorta di alta corte di giustizia
politica che avrebbe avuto la funzione di regolare i rapporti tra i quattro stati e i rapporti
internazionali, le motivazioni del fallimento sono notevoli, in particolare, la vera motivazione era
che nessuno di questi stati avrebbe mai voluto rinunciare alla propria sovranità, Pio IX fa capire
che non avrebbe rinunciato al potere temporale, queste sono le motivazioni che fanno fallire il
progetto. L’altra opera che causa la reazione violenta da parte dei gesuiti, si chiama “le cinque piaghe
della santa chiesa”, uscite nel 1848, anno delle rivoluzioni:
- prima piaga: la incomunicabilità tra il clero e il popolo, il popolo non avverte più questa
sinergia con i rappresentanti del clero e si sente distante dai pastori della chiesa.
- seconda piaga: il clero è poco dedito agli studi, sembra poco interessato alla lettura
sistematica del vecchio e nuovo testamento per il popolo. Basava la sua cultura su dei semplici
compendi manualistici.
- terza piaga: i vescovi che dovrebbero rappresentare un corpus munito, non svolgono la
funzione, finiscono per essere più attratti dagli interessi temporali e politici, hanno perso l’idea
spirituale di guida del gregge.
- quarta piaga: le autorità politiche finiscono per intervenire continuamente nella nomina dei
vescovi, collusione del temporale con il secolare.

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- quinta piaga: ai vescovi va rimproverato il fatto di accumulare ricchezze.

-L’idea generalissima dell’essere


L’elemento fondante di Rosmini è la ragione, tentando sulla scorta della filosofia tomista di
coniugare ragione e fede, la ragione si deve conciliare con la fede, Rosmini è un liberale, nella sua
analisi, il sistema è quello della relatività. Ne la “filosofia politica” la ragione è l'elemento
fondante, nella società ci sono due elementi: c’è uno che attiene al sostanziale e uno che attiene
all’accidentale, la parte di questo scritto è rivolta ai governanti, il governante deve utilizzare al
massimo la sua ragione, se i governanti commettono degli errori politici, commettono degli
errori che rischiano di fare entrare una società in profonda crisi, e sulla scorta di Platone
Rosmini sostiene che spesso commettono il male per ignoranza, fanno degli errori di logica,
hanno male interpretato la situazione politica che si presenta, i governanti debbono sempre
tenere presente il sostanziale, se perdono di vista pur non volendolo, commettono un errore
gravissimo. Per spiegare il sostanziale e l’accidentale, Rosmini ricorre ad un paragone, quando
io costruisco un edificio devo basarmi su fondamenta ben solide, questo è il sostanziale, senza di
esso la società entra fatalmente in crisi, l’accidentale riguarda tutto quello che è l’arredamento
di una società, questo non porta a dei mali, si riesce a conciliare sostanziale ad accidentale, ma
non bisogna mai perdere di vista il sostanziale. Per ricorrere ad un paragone storico fa un
riferimento a Demostene che sentendo vantare Filippo di Macedonia perché era bello eloquente,
risponde stupito, queste sono doti che vanno bene per una donna, quello che interessa per un re è che
sappia dirigere l’azione politica verso il bene dei suoi sudditi, se questo governante ha anche altre doti,
quello riguarda l’accidentale, a questo riguardo, parlando di questo discorso si parla della sommaria
cagione. Rosmini fa riferimento a quattro età sociali: nella prima fase gli individui cominciano a
percepire il sostanziale, la seconda età si percepisce il sostanziale ma si comincia anche a
guardare al miglioramento, questa è la fase più prospera e più florida, in qualche modo abbellito
dalle accidentale, la fase del cammino storico delle società è la fase migliore, qui comincia ad
azionare il realismo, col passare del tempo si entra nella terza fase, che segna l’inizio della rovina
delle società, si comincia a perdere di vista il sostanziale, si è attratti dall accidentale, tutti quegli
elementi che guardano alla superficie e non alla sostanza, la quarta fase avviene il declino, si
perde completamente di vista il sostanziale, si è attratti soltanto dall accidentale. Concluso
questo ciclo storico, ci sono tre possibilità, la società è entrata in crisi ha perso di vista il
sostanziale, la ragione non è più in grado di spingere il sostanziale, gli uomini hanno smarrito la
ragione, ci sono due soluzioni: la società che è entrata in crisi viene assorbita da una società che
sta attraversando la fase fiorente, oppure la società dopo orribili convulsioni, si rigenera da sola
come araba fenice e rinizia nuovamente a usare la ragione e percepire il sostanziale. C’è
un'analogia forte con Vico, e anche con Polibio sicuramente. Rosmini è un realista, il lavoro dei
governanti ha spesso una funzione quasi soprannaturale, i governanti hanno delle responsabilità
immense, per poter agire per il bene dei propri governanti, deve conoscere molto bene “la mappa dei
cuori”, deve saper usare molto bene le statistiche perché costituiscono supporto valido ai governanti
che devono prendere le decisioni. Inoltre Rosmini individua due generi di ragione: la ragion
pratica delle masse e la ragione speculativa degli individui influenti. Gli individui influenti si
intende i governanti. La ragion pratica delle masse (massa damnationis per Spinoza, vulgo,
putrefazione passiva Marxiana del popolo) definisce un istinto che induce gli individui a percepire
il sostanziale, questo tipo di ragione col passare del tempo diventa sempre più ottusa, finisce col
tempo a scomparire. La ragione speculativa dei governanti si articola in due facoltà: pensare e
astrarre. La facoltà di pensare viene chiamata da Rosmini “l’estensione del calcolo”. L’altra
facoltà viene chiamata “altezza di astrazione”. Perchè Rosmini dice che la facoltà di astrarre è una
facoltà che si sviluppa molto velocemente, disarmonico nei confronti della facoltà di pensare che è uno

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sviluppo molto più lento. Vuole dire che spesso, gli individui influenti finiscono per disancorarsi dalla
realtà e perdere di vista le esigenze dei governati, fino a staccarsi dalla realtà e commettendo un errore
di logica, finiscono per provocare la crisi di una società in quanto non riescono più a concentrarsi sui
governanti. Nelle società vi sono tre fattori che intervengono a determinare il modo di essere di
una società, questi fattori vengono chiamati da Rosmini le forze sommarie, tutti quei fattori,
elementi che determinano il modo di essere di una società: il primo è lo spirito umano, è quel fattore
che privilegia l’opinione pubblica, quella volontà che spinge l’uomo ad agire, il secondo elemento è
quello che chiama le cose agli uomini desiderati, questo elemento riguarda la ricchezza, il potere e
via dicendo. Il terzo elemento è l’oggetto della forza, il modo con cui si organizza la società.

-Il fine della società


qual è il fine della società? per arrivare a questa conclusione, Rosmini distingue tre tipi di stato:
piacevole, felice, appagato. Il primo è quello in cui gli individui soddisfano i bisogni della sfera
biologica “se ho sete bevo etc”, quello della felicità sempre sulla scorta di Agostino non si realizza
in questo mondo, è nel mondo che verrà, non possiamo realizzare in questa terra la felicità,
l’appagamento invece sta nella mancanza della percezione del bisogno, io sono appagato quando
non avverto alcun bisogno, “è necessario che sia il tuo animo che ti giudichi ricco, non gli altri”
l’appagamento nell'interpretazione di Rosmini è qualcosa di individuale. Sono ricco dentro, si può
essere ricchissimi e non avere la gioia. A questo proposito Rosmini entra in polemica con tutte le
teorie del consumismo, la teoria della resistenza, i teorici della resistenza sono tutti coloro che
sono restii a qualsiasi genere di innovazione, contrari ad un continuo progresso della società, al
contrario di quelli del movimento, per Rosmini quelli della resistenza sbagliano, dobbiamo
aprire il nostro animo alle forme di miglioramento della società, non ci si può cristallizzare sulle
posizioni di resistenza. Emerge l’idea della relatività, tipica del liberale, ma questa divisione ha una
vera e propria validità politica, dietro questa sua idea c’è una contrapposizione di Rosmini nei
confronti delle teorie che allora erano più in voga e condivise dalla maggior parte dei pensatori.
Più l’uomo consuma, più la società progredisce più si va verso un benessere, non bisogna tenere
cristallizzata la società, dobbiamo incrementare negli esseri umani, i bisogni artificiali, occorre
fare leva sul bisogno dell’uomo, altrimenti finisce sempre per essere insoddisfatto. Rosmini dice
che i bisogni artificiali sono particolarmente gravi, questo incremento dei beni artificiali porterà
somma miseria e somma immoralità, porterà a ritmi disumani e alla società come piramide, con
base molto vasta e si chiude in cima, tutti cercheranno di salire i gradini della piramide, ma la
punta è stretta, gli uomini finiranno per sbranarsi gli uni con gli altri e si creerà la guerra più
accanita mai vista. Le università continueranno a far uscire nella società i giovani che sentono il
bisogno di fluire nelle cose pubbliche, lui è a favore di questa università e della meritocrazia. Se
noi aumentiamo questi bisogni fittizzi la società entrerà in crisi e l’individuo che dovrebbe essere
il fine della società finisce per diventare il mezzo. Privano l’individuo dei veri valori.

-L’idea dei partiti politici in Tocqueville e Rosmini


: Tocqueville ha una visione più moderata rispetto a Rosmini, fa una distinzione tra grandi e piccoli
partiti e difende quelli grandi, perché portatori di grandi ideale. Chi è veramente critico è Rosmini, li
definisce “il verme che corrode la società”, distingue tre generi di partiti: alcuni costituiscono
l’effetto di interessi materiali, condivisi da persone, da individui che provengono da tutte le classi
sociali, sono l’effetto di interessi materiali, i membri sono guidati da motivazioni economiche. I
secondi sono i partiti che sono effetto delle opinioni, i terzi partiti sono i peggiori a suo avviso,
effetto delle passioni popolari, li considera portatori di disordine della società, questi partiti
destabilizzano l’ordine costituito della società, ma ci sarebbe una possibilità per evitare la
demagogia di uno o un’altro partito, far si che nessun partito prevalga sull’altro. L’epilogo

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sarebbe mantenere l’equilibrio, se lasciamo tutti i partiti si creerebbe un forte antagonismo sociale che
mina l’ordine prestabilito; il secondo espediente è quello di creare un solo partito, il sistema
dell’assolutismo, anche nei confronti di questo sistema non è certo favorevole, il rischio è di creare la
demagogia in assoluto. Quando c’è un solo partito viene messo a tacere il principio della libertà, il
sistema che dovrebbe risolvere i problemi è quello di eliminare completamente i partiti. Bisogna
inculcare nei giovani i semi della giustizia e della morale, rivolgendo soprattutto l’educazione per
l’amore per tutto ciò che è giusto, retto e virtuoso.

-Questione sociale
L’altro problema affrontato è quello della questione sociale, si occupa dei poveri, della carità, fin
dagli anni giovanili crea questi istituti di carità, si ritira a Stresa e dedica gli anni della maturità ai
poveri alla carità, pur non tralasciando il resto. Le imposte devono essere chiare per i cittadini, i quali
devono votare per l'istituzione di esse, questo concetto è molto di Smith. Un’altra proposta è quella di
prediligere il sistema delle imposte dirette, con esclusione dei redditi più bassi, ci deve essere la
condivisione da parte dei contribuenti quando si va a pagare le imposte. L’elettorato attivo e passivo,
Rosmini manifesta il suo scetticismo nei confronti dell’elettorato attivo, lui sostiene che l’elettorato
attivo va riservato soltanto a coloro i quali dispongono di un certo reddito, le persone che non
percepiscono un reddito, non possono votare in quanto si ha il timore di una strumentalizzazione da
parte dei candidati. Rosmini acquista la consapevolezza dell’intimo nesso fra la teoria e la scienza
positiva dei fatti. Il nesso teoria-scienza va tenuto presente in politica, con l’avvertenza che una teoria
presuppone una concezione della ragione in grado di garantire la validità oggettiva dei risultati cui
perviene. Il razionalismo illuministico si esprime in un empirismo fondato sulle sensazioni, che non è
in grado di sintetizzare una concezione unitaria delle conoscenze, si tratta quindi di ritrovare il
principio che garantisce il fondamento oggettivo della conoscenza, che per Rosmini, è l’idea
dell’essere, la forma della verità, che ci consente di apprendere intellettivamente gli enti reali. L’essere
esprime inoltre il criterio fondamentale della morale. La politica è l’attività volta a realizzare la
società come entità, cioè a fare degli individui e delle cose una “vivente” realtà. Bisogna distinguerne
due parti: una prima teorica che definisce le ragioni ultime della politica, ed una seconda
scientifico-positiva che comprende le scienze politiche speciali.

-Il condizionamento sociale della ragione


La filosofia della politica non ha solo un intento speculativo, ma è una “dottrina”, cioè una concezione
sistematica della politica finalizzata all’attività pratica. Il fine della società politica è l’appagamento
degli individui che la formano, la realizzazione del loro bene eudemonologico, cioè relativo ad ogni
singolo individuo, che ne è giudice, distinto da quello morale, che è invece oggettivo ed universale e
non rientra nell’ambito della politica. L’appagamento investe l’intera personalità dell’uomo, la
politica non può essere ridotta allo studio dell’opinione pubblica, dell’economia o delle istituzioni:
deve studiarle tutte e tre. Le società politiche sono caratterizzate da un continuo movimento,
oscillando fra un limite inferiore ed uno superiore: raggiunto il primo le società si disarticolano, il
secondo invece corrisponde alla loro perfezione, che non si riesce a conseguire. Rosmini ricorre ai
concetti di sostanziale e di accidentale, nel senso che nella società vi è ciò che attiene alla sua
esistenza, la “sostanza”, e ciò che si riferisce al su perfezionamento, “l’accidente”. Le due regole
fondamentali della politica sono:
- Conservare e fortificare ciò che costituisce la sostanza della società, anche a costo di dover
trascurare l’accidentale.
- Non ricercare perfezionamenti a scapito di ciò che è sostanziale.

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La società è costituita dalle relazioni degli individui con le cose e dai vincoli che si stabiliscono
fra quelli. Le relazioni e i vincoli sono definiti “sociali”. Il diritto positivo li disciplina ed è definito
“sociale”, per distinguerlo da quello naturale. Il sentimento sul quale si fonda il vincolo sociale è la
benevolenza. La sfera del politico è delimitata dalle tre altre forme di società, che preesistono
alla società politica: la società teocratica cioè dell’uomo con Dio, la società del genere umano e la
società familiare. L’individuo non può essere risolto nella società o assimilato ad essa. Per Rosmini i
diritti della persona preesistono alla società, perché il diritto scaturisce dall’uomo in quanto persona,
così il compito del legislatore è quello di regolare le “modalità” del diritto. Nella società occorre
distinguere fra la società visibile (materiale) e quella invisibile (spirituale): alla prima corrispondono
i vincoli esterni e visibili, alla seconda quelli interni e invisibili. L’importanza della società materiale:
essa è la condizione dello sviluppo di quella invisibile. Le reali trasformazioni della società politica
avvengono in quella invisibile, che esprime la volontà comune volta a perseguire il fine della società;
se tale volontà cessa, la società politica si riduce ad un ordine del tutto formale, senza alcuna intima
forza di coesione: inizia la disgregazione. L’unione di più esseri in uno stesso posto non forma una
società, per la quale servono vincoli intellettuali e morali, coscienza di un fine comune e dei mezzi con
cui conseguirlo: cosa possibile solo mediante la ragione. La razionalità si esprime nell’ambito della
società materiale, che le fornisce i mezzi e crea le condizioni per crescere.

-Problema dell’unità sociale


Rosmini sa che la società esercita influenza sulla razionalità: in alcune situazione si inizia un
processo di attenuazione della razionalità in termini di intelligenza, che è all’origine dei processi di
trasformazione involutiva della società. La riduzione della razionalità a strumento della società
materiale è la conseguenza di una politica basata sulla convinzione che il progresso della società
e quindi il movimento che lo sostiene siano promossi dall’attività economica: la razionalità deve
quindi fondarsi sui criteri dell’utile e della determinazione empirica. (orientamento ripreso da
Gioia, che nel prospetto delle scienze economiche aveva sostenuto che che il progresso va concepito
come sviluppo economico, che è promosso dalla diffusione dei consumi. L’attività economica deve
essere continuamente incentivata da “bisogni artificiali” che, rinnovandosi continuamente sollecitano
il sistema economico ad una produttività sempre crescente. Le civiltà ed i regimi sono connessi al
grado di diffusione dei consumi. Un’economia industriale, finalizzata ai consumi promuove un
orientamento democratico ed una cultura scientifico-positiva). Per Rosmini, nella ragione dobbiamo
distinguere due facoltà: quella del pensiero, che coglie gli enti reali, e quella dell’astrazione.
Quest’ultima ha valore strumentale, ovvero fornisce i mezzi per conseguire i fini della facoltà di
pensiero. Tali astrazioni sono produttive per la società, in quanto riferite agli enti reali dalla facoltà di
pensiero (l’intelligenza consiste nella capacità di armonizzare la facoltà di pensiero con quella di
astrazione.) (??) Per trovare i mezzi necessari al soddisfacimento dei bisogni artificiali, le energie
intellettuali sono concentrate sulla facoltà di astrazione, che acquista una decisa prevalenza su quella
di pensiero, finendo per sostituirvisi del tutto, la razionalità della società finisce col diventare la
copertura ideologica dell’irrazionale, inizia un processo di disarticolazione e contrapposizione delle
parti sociali (tensioni e conflitti). Quando la razionalità si identifica con la facoltà di astrazione, gli
individui assumono i mezzi come fini, ciò condanna gli individui a cercare con nuovi mezzi
l’appagamento, senza conseguirlo, paradosso delle società consumistiche: aumenta la quantità di beni,
migliorano le condizioni sociali ma cresce l’insoddisfazione. La previsione è una società caratterizzata
da uno stato di conflittualità permanente. Effetti disastrosi ha l’impatto della società industrializzata
sulle popolazioni con un’economia di sussistenza: i bisogni artificiali in questo caso hanno un effetto
distruttivo. La critica dell’economicismo non contraddice il suo liberalismo, che non afferma la
centralità dell’utile ma si riferisce al primato della persona.

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-La critica del perfettismo
L’economicismo di tendenza socialista che presuppone la riduzione dal male sociale e la tesi
rousseauviana che si debba rifondare la società in modo di farla corrispondere alla vera umanità
dell’uomo sono l’origine dell’orientamento politico definito perfettismo. Esso si ispira ad un
umanitarismo astratto, che misconosce il reale problema del male. La politica deve assumere un
atteggiamento critico nei confronti del perfettismo e deve evitare i beni che recano con sé mali
superiori al bene. Rosmini non critica il sistema di produzione industriale, che rappresenta uno
strumento di progresso della società. Si tratta di considerarlo per quello che effettivamente è: uno
strumento. Il sistema economico non ha in sé un principio di autoregolamentazione: Rosmini non
accoglie le tesi del liberalismo di ispirazione utilitaristica. R. ritiene che il governo debba seguire
un’attenta politica di sviluppo economico, intesa a fare in modo che esso si svolga con ritmi
proporzionati alle possibilità dell’intera comunità. Occorre promuovere una forma di educazione civile
e sociale, per diffondere la cognizione dei propri interessi. I bisogni artificiali debbono essere proposti
in una determinata misura che non pregiudichi il benessere delle famiglie. Lo sviluppo economico
deve essere informato alla politica dei redditi: i bisogni possono crescere nello stesso modo con cui
cresce il reddito.

-Stato costituzionale e dispotismo della società


La questione fondamentale, per quanto riguarda l’organizzazione politica dello Stato, si riferisce
all’individuazione dei principi che eliminino ogni possibilità di affermazione del “nuovo” dispotismo
(es. rivoluz. Francese). Sulla scia di Tocqueville R riconosce il problema del dispotismo della
maggioranza. La società civile presuppone tre altre forme di società: quella teocratica, la
familiare e quella del genere umano; che non sono risolvibili nella società civile. Il diritto è
intimamente connesso al concetto di persona. Coessenziale alla persona è la libertà, in quanto
principio di azione che domina tutti gli atti spontanei. Il diritto ha una connotazione personalistica,
ovvero è insito nell’attività della persona: esso non è posto dal legislatore, non scaturisce dalla volontà
sovranwa dello Stato né si basa sul contratto sociale, è l’attività della persona, quando è rivolta ad altre
persone per uno scopo considerato lecito dalla morale. La proprietà non si riferisce al dominio con le
cose esterne, ma deve essere considerata nel carattere specifico dei diritti e dei doveri giuridici. Due
conseguenze derivano dai rapporti persona-diritto libertà giuridica-proprietà: la prima si
riferisce alla quantità di potere che il governo può esercitare; esso non può essere considerato una
quantità fissa, perché tende a diminuire mano a mano che gli individui, tramite il progresso, acquistano
maggior controllo della loro sfera personale. La seconda conseguenza è che il potere della società non
può estendersi ai diritti che fanno capo alla persona, ma solo alla “modalità” degli stessi, per regolare
l’esercizio dei diritti. Nella distinzione fra diritti e modalità è essenziale che il potere legislativo non
possa disporre in alcun modo dei diritti degli individui: deve invece disciplinarne la tutela. I due
requisiti essenziali della società politica, l’universalità e la supremazia, debbono essere ristretti
dentro l’ambito della modalità dei diritti: se lo Stato interviene il suo potere diventa assoluto. Il
diritto, la cui essenza è la persona, è il principio costitutivo dell’organizzazione politica dello
Stato, al fine di garantire la libera espressione della persona contro ogni forma di dispotismo.

-I diritti della persona e la costituzione


Lo Stato costituzionale rappresentativo è caratterizzato dalla divisione dei poteri; inoltre “i diritti
di natura e di ragione sono inviolabili per ogni uomo” (Art 2 del progetto di costituzione). Questa
formula comprende i diritti della “dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, proposta da
Lafayette, di cui ne viene accolto il principio ispiratore: il primato della giustizia sulla politica,
distinguendo fra i diritti dell’uomo e del cittadino: i secondi attengono a precisi diritti costituzionali.
Tale art.2 sancisce il principio che le norme della costituzione debbano valere come preciso limite

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giuridico nei confronti dei poteri. Rosmini prevede una suprema corte di giustizia, il Tribunale
politico, con il compito di vegliare sull’esecuzione della costituzione e di garantire i diritti. Il compito
del legislativo è quello di regolare le modalità del diritto e di promuovere lo sviluppo delle ricchezze.
L’attività legislativa e la conseguente attività di governo si basano sulle risorse economiche della
società, che vengono destinate alle spese necessarie per l’organizzazione politico-amministrativa dello
Stato. Una corretta amministrazione della cosa pubblica è garantita quando le imposte sono votate da
coloro che debbono pagarle: la rappresentanza si articola nelle due Camere dei maggiori e dei minori
proprietari, distinte in base al reddito. L’elettorato attivo è limitato ai cittadini che hanno un reddito
soggetto ad imposta: Rosmini è contrario a fissare un censo alto per il diritto elettorale, come un censo
uguale per tutti (i piccoli proprietari si coalizzerebbero contro i grandi). Il presupposto di questo
sistema è che il carico fiscale venga prelevato sulla base delle imposte dirette, con esclusione dei
redditi più bassi di sussistenza, riducendo al minimo le imposte indirette che gravano sui consumi. Il
suffragio universale favorisce la formazione e la lotta delle fazioni e la corruzione elettorale e
deresponsabilizza gli elettori. Infine esprime una rappresentanza che cerca di realizzare un socialismo
di Stato, che finisce per accrescere a dismisura la spesa pubblica, deprimendo la produzione.
L’esclusione dall’elettorato attivo, per quanto riguarda le due Camere, è controbilanciata
dall’estensione dell’elettorato passivo a tutti i cittadini. Rosmini riconosce l’importanza della
questione sociale, la cui soluzione non può essere realizzata con riforme radicali della società, che
finirebbero con l’annullare i diritti sostanziali dei cittadini. La soluzione della questione sociale, cioè il
progresso civile e politico delle classi lavoratrici, deve essere promossa dal governo nel senso che
deve operare in modo che l’intera società realizzi le premesse di quel progresso.

-Stato costituzionale e questione sociale


Lo Stato deve garantire:
- Pronta ed efficace giustizia per tutti
- Concorrenza a tutti i beni sociali
- Facilità di migliorare la propria fortuna
- Lo sviluppo dell’industria e degli studi
- La miglior condizione economico morale Rosmini riconosce allo stato il diritto di promuovere
quelle iniziative economiche, che essendo necessarie per il progresso sociale, dovessero
risultare eccessivamente onerose per i privati.

Lo Stato deve fondare la sua attività di governo sull’opinione pubblica prevalente. Rosmini è
scettico nei confronti dei partiti, che sono un male necessario del sistema rappresentativo: ripone
invece la sua fiducia nel comune sentimento della giustizia, nella ragion pratica delle masse illuminata
e quella degli individui. Di qui la necessità che l’opinione pubblica si formi mediante il dibattito e il
confronto delle singole opinioni, che si rende possibile tramite la libertà di parola, di stampa, di
associazione e di riunione.

25)Marx, Engels: Società industriale e comunismo

-Contesto storico Marx

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Karl Marx nasce nel 1818 in Prussia, in particolare a Treviri, una città della Renania, in una famiglia
della borghesia agiata e liberale (il padre, Heinrich, è un noto avvocato). Frequentato il liceo nella città
natale, nel 1835 il giovane Marx si iscrive alla Facoltà di Legge dell’Università di Bonn, ma si
trasferisce poi a Berlino, dove entra in contatto con la “sinistra hegeliana”, costituita da un gruppo di
filosofi e discepoli di Hegel formatosi all'indomani della morte di quest’ultimo nel 1831. A contatto
con il pensiero dei giovani hegeliani, Marx decide di lasciare lo studio della giurisprudenza e si iscrive
alla Facoltà di Filosofia, laureandosi a Jena nel 1841 con una tesi sulla filosofia di Democrito ed
Epicuro. Il proposito di intraprendere la carriera accademica viene ostacolato dalla salita al potere di
Federico Guglielmo IV, che assume una tendenza conservatrice e anti liberale nell’amministrazione
dello stato e nella sua politica culturale. Nel 1845 Marx viene espulso da Parigi su richiesta del
governo prussiano e si trasferisce così a Bruxelles. Nello stesso anno scrive a quattro mani con Engels
L’ideologia tedesca (1845-1846) in cui viene teorizzata la concezione materialistica della storia in
opposizione al pensiero di Feuerbach; Marx vi aggiunge, in aspra polemica contro Proudhon, la
Miseria della filosofia (1847). I due filosofi entrano nella "Lega dei giusti", di cui fanno parte
artigiani e lavoratori tedeschi, e che nel 1847 diventa "Lega dei comunisti". Nel 1848 viene
pubblicato a Londra il Manifesto del partito comunista, steso da Marx ed Engels per il secondo
congresso della Lega; dopo la pubblicazione, Marx viene espulso dal Belgio, avendo disatteso
l'obbligo di non diffondere testi ed opere a contenuto politico. Ritorna a Parigi, dove il governo
rivoluzionario lo richiama dopo l’esilio, ma nel frattempo i moti rivoluzionari scoppiano anche in
Germania, e Marx dunque si reca a Colonia, dove fonda la “Nuova gazzetta renana”. Tuttavia la
repressione della rivoluzione porta ad un nuovo esilio, prima a Parigi, poi a Londra. Nella città inglese,
Marx vive con la famiglia in condiziona assai disagiate, che non lo distolgono dagli studi di economia
politica, condotti nella famosa biblioteca del British Museum. Nel 1850 viene pubblicato il testo Le
lotte di classe in Francia, analisi dei moti del ‘48 e del loro fallimento. Nel 1852 pubblica, invece, Il
diciotto brumaio di Luigi Bonaparte, testo sul colpo di stato bonapartista in Francia dell’anno
precedente. Tuttavia, Marx ha in cantiere una grande opera, che analizzi l’intera società capitalista e
che presenti in forma compiuta tutta la riflessione teorica a fondamento di una rivoluzione della
società in senso comunista e proletario. Questo testo, intitolato complessivamente Il Capitale, vedrà la
luce, dopo diverse revisioni, in periodi differenti: nel 1867 viene pubblicato il primo libro; scritti tra
1869 e 1879, il secondo e il terzo libro verranno pubblicati postumi da Engels nel 1885 e nel 1894. A
quest'opera monumentale, determinante nell'influenzare il pensiero filosofico-economico successivo,
Marx aggiunge nel corso degli anni i saggi Lavoro salariato e capitale(1849) e Salario, prezzo e
profitto (1865). Accanto allo studio e alle pubblicazioni, Marx si dedica all’attività politica, fondando
nel 1864 la Prima Internazionale, per coordinare gli sforzi e l'attività politica del movimento
operaio; per affermare la propria linea politica, sarà duro lo scontro con le posizioni dell’anarchico
Bakunin, fino all'espulsione del pensatore russo dall'Internazionale stessa. Karl Marx muore nel 1883,
dopo il peggioramento della sue condizioni fisiche e la morte della moglie Jenny, nel 1881.

-Contesto storico Engels


Nasce nel 1820 e muore nel 1895, a differenza di Marx proviene da una famiglia molto agiata, di
industriali tessili del cotone, dopo aver concluso gli studi secondari fu trasferito per un tirocinio
commerciale presso una ditta di Brera, un'esperienza determinante nella vita di Engels, lui vive sul
campo, può constatare con i suoi occhi quelle che fossero le esigenze degli operai, collaborò con
Marx, in cui ripercorre i vari momenti illustrati tra cui demistificare è riportare l’uomo alla realtà
concreta ed il concetto di alienazione religiosa: Engels ancora più di Marx si era posto il problema, fin
da giovane essendo stato educato al pietismo, si sente quasi in dovere di indagare questo problema,
dedica ampio spazio alle religioni etc, l’alienazione è una chiara denuncia del comportamento adottato
nei confronti del cristiano, il cristianesimo impone ai suoi seguaci la rassegnazione. L’individuo soffre

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in questa terra, accetta la realtà in cui vive, accetta la sofferenza, questa è una vita di passaggio,
quando soffri in questa terra ogni tuo atto verrà premiato, non crede nell’esistenza del mondo
ultraterreno, la religione è l’oppio dei popoli, promette dei premi inesistenti.
Marx affronta il concetto dell’alienazione religiosa nell’opera uscita nel 1845-46 nella ideologia
tedesca, scritta con Engels in cui Marx parla della morale cristiana di una separazione dell’uomo da se
stesso, questo concetto della morale cristiana non è solo presente in Marx ma è già stato affrontato da
altri autori, Rousseau sosteneva che la religione e la morale cristiana aveva distolto l’uomo dagli
impegni politici mentre un altro autore Feuerbach, servendosi della dialettica Hegeliana prevede tre
momenti: l’uomo si occupa di se stesso, avverte i suoi limiti, la sua insoddisfazione, la sua mediocrità,
l’uomo è insoddisfatto, nel secondo momento l’uomo scopre l’infinito, scopre Dio, nel terzo momento
si rifà alla dialettica Hegeliana, nega Dio e riscopre se stesso, nega i primi due, l’uomo è un
superamento dei primi due. Marx relativamente al cristianesimo avviene in una altra opera che esce
nel 1847, la gazzetta tedesca di Bruxelles, qui vi è una denuncia in cui sostiene che i principi del
cristianesimo sono ipocriti, c’è una esaltazione del proletariato. Oltre all’alienazione religiosa
abbiamo:
l’alienazione filosofica> ad Hegel interessa il mondo delle idee e a Marx il mondo materiale, Marx
non è contrario alla filosofia ma la filosofia pura, l’idea del filosofo che spinge troppo sui discorsi
tende a distaccarsi dalla realtà, assomiglia al discorso che Marx aveva fatto nei confronti del
cristianesimo, sul mondo della contemplazione e non materiale, bisogna cambiarlo, attraverso
un’azione politica coordinata e concreta,
l’alienazione politica> Hegel mette lo stato al centro ma non convince affatto Marx, Marx divide tra
struttura e sovrastruttura, quest’ultima va eliminata, la prima riguarda tutto quello che è economico,
per Marx lo stato deve scomparire, perché è sovrastruttura, è nel momento economico che va affilata
la nostra indagine, il momento più importante è quello della società civile.
l’alienazione sociale>, l’opera in cui Marx affronta in maniera sistematica l’alienazione sociale
insieme ad Engels, è il manifesto del partito comunista, parte da questa affermazione, nota a tutti: la
storia di ogni società è storia di lotta di classe, da quando il mondo è stato creato, gli oppressi e gli
oppressori, lui ricostruisce questo rapporto: “la storia di ogni società esistita fino ad oggi è storia di
lotta di classe, uomini liberi e schiavi, patrizi e plebei, padroni e servi della gleba”.

-Concetto di classe
Inizia la lunga disamina delle due classi principali, sono i due elementi fondanti che Marx va ad
analizzare, fa un riferimento preciso a quella che definisce la classe, ne parla in maniera indiretta, parla
di classe soltanto nell’opera di Luigi Bonaparte, scritta nel 1852, chiarisce il concetto di classe, nelle
opere precedenti ne aveva parlato in maniera indiretta, milioni di famiglie costituiscono una
classe, queste famiglie hanno in comune tre elementi, gli stessi interessi, la stessa cultura, lo
stesso modo di vita, ciò nonostante questi tre elementi non sono sufficienti perché si possa
parlare di classe, perché si possa definire tale è necessario un quarto elemento fondamentale che
è la coscienza di classe, cioè la consapevolezza di costituire una classe. Lui parla di classe
distinguendo il proletariato dal sottoproletariato, il primo col tempo ha assunto una coscienza di
classe, il sotto proletariato è un insieme di persone che non ha la coscienza di classe, nulla può fare.

-La borghesia ed il proletariato


La storia è storia di lotta di classe, quando gli individui hanno coscienza, lui fa riferimento a due
classi, la borghesia e il proletariato, già nel manifesto del partito comunista del 1848 vi è già un
anticipo del materialismo storico, la storia di ogni società è storia di lotta di classe tra oppressi ed
oppressori, l’elemento che unisce è il fattore economico. La borghesia ha assunto nell’economia della

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storia un ruolo fondamentale, con industrializzazione dei paesi, commercio etc, ha fatto in modo che a
questa classe sociale vanno riconosciuto tanti meriti, quello soprattutto di aver abbattuto il sistema
feudale, la borghesia ha costituito la stessa sua rovina, dopo averne esaltato le lodi, arriva a dimostrare
scientificamente le cause dell’inevitabile tramonto di essa, il ruolo che nella storia ha avuto la
borghesia è destinato nel futuro a ricoprirlo il proletariato. Perché arriva il tramonto della
borghesia? Marx polemizza col principio della libera concorrenza, la libera concorrenza porta ad
una cosa spietata tra i borghesi intesi come i capitalisti, il capitalista ha bisogno di allargare i suoi
orizzonti, ha bisogno di abbattere le barriere, tutti quei limiti che ostacolano la sua crescita, si crea una
guerra senza fine tra i borghesi. Come si fa a vincere sulle altre imprese? i lavoratori, gli operai, i
dipendenti, etc. nella lotta spietata tra i capitalisti, che sono alla spasmodica ricerca di abbattere
la concorrenza, alla fine di questo ci saranno i vincitori e i vinti, i vinti sono i capitalisti che
hanno dovuto soccombere di fronte alla concorrenza degli altri, finiranno per andare a limitare
nelle fila del proletariato, qui il proletariato avrà da questo acquisto un valore aggiunto, il
capitalista l’imprenditore anche se vinto conosce le armi, ha una preparazione tecnica, quel
corredo di conoscenze utili al proletariato, si potrà arricchire di queste nuove forze. E’ ovvio che
questa concorrenza spietata non è dovuta affatto per l’innato desiderio di nuocere, siamo lontani dalle
posizioni Hobbesiane, sono le leggi ferree del mercato che impongono questa lotta spietata, l’altro
danno inevitabile che porterà a conseguenze terribili è il fatto che i salari scenderanno ad un
livello così basso che non saranno più sufficienti a garantire l’esistenza degli stessi, il lavoratore
non sarà più in grado di permettersi la sua famiglia, il proletariato è la sorta di schiavitù alla
quale è costretto. Il proletariato abbatte con la forza il potere dei capitalisti.

-Marx e Proudhon
Marx rimane molto colpito dagli attacchi che provenivano da Proudhon e gli risponde in un’opera che
si chiama miseria della filosofia, perché Proudhon aveva scritto la filosofia della miseria. Proudhon
considerato fondatore del socialismo anarchico, lui propone che occorre istituire le banche del popolo,
che dovevano finanziare delle nuove imprese, associazioni, che avrebbero con il capitale dato o
gratuitamente o con tassi molto agevolati, delle imprese in cui i lavoratori siano al tempo stesso
proprietari e lavoratori, verrebbe a mancare il momento dello sfruttamento, queste società saranno
autogestite, le altre imprese resteranno in piedi, nessuno le vuole abbattere, Proudhon non accetta il
discorso, lui vuole cuocere a fuoco lento la classe borghese, lo stato è il comitato d’affari della
borghesia, è ovvio che le vecchie imprese finiranno per fallire, perché nascendo quelle nuove, dove i
lavoratori siano proprietari dei mezzi di produzione, verrà meno lo sfruttamento del capitalista nei
confronti del lavoratore, si creerà una rete capillare, Proudhon molto a favore del federalismo. Marx
risponde in modo categorico, muore e alla sua morte Engels continua ad elaborare le teorie del
capitale di Marx, dopo 12 anni si rende conto che le loro idee non avevano riscosso un successo
storico, perché la comune di Parigi sembrerebbe aver dato ragione più alle teorie di Proudhon
piuttosto che a quelle di Marx. Marx aveva osservato con molto rigore e attenzione sia il pensiero
di Smith, relativo al valore d’uso e di scambio e su quella base costituì il discorso scientifico e
guardò con particolare attenzione a Locke, aveva dato importanza al lavoro, quando l’uomo
lavora trasferisce le sue energie sull’oggetto che ha prodotto, finisce nelle mani del lavoratore
che ne ha piena proprietà, il problema è che il capitalista tende sempre a sfruttare fino al
massimo il lavoro dell’operaio, perché se non ritenesse quella impresa fonte di ricchezza,
orienterebbe i suoi interessi in un'altra direzione, il lavoratore è sempre sotto ricatto. Lui doveva
subire le condizioni offerte dal lavoratore, oppure moriva di fame. Il trasferimento delle energie di
cui parlava Locke invece di finire nelle mani del lavoratore, finisce nelle mani del capitalista, nasce il
cosiddetto plusvalore.

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-Il materialismo storico
Il materialismo storico è l’affermazione del legame diretto che esiste fra la storia e il modo con
cui l’uomo si organizza per produrre i beni necessari al suo sostentamento, tutto ciò che
appartiene al diritto, al costume è determinato al modo di essere dei rapporti di produzione. La
speculazione di Marx ed Engels è indissolubilmente connessa alla concezione materialistica della
storia, sempre e comunque determinata dall’influenza dall’economia, anche il pensiero non ha una sua
autonomia, le forme della società storicamente assunte dipendono dai rapporti economici
prevalenti costituiti da forze produttive e da rapporti di produzione, l’insieme dei rapporti di
produzione costituisce la struttura economica della società cui corrisponde una sovrastruttura
giuridica e politica. Entrambi credevano che il comunismo, inteso come processo storico di
liberazione dell’uomo, non può essere scisso dalla cultura: filosofia, storia, scienza, economia e
politica finiscono per coincidere. La politica, intesa come studio delle tensioni e dei conflitti fra le
classi, diventa una vera e propria scienza della storia, che ci consente di intendere il nesso sussistente
fra gli avvenimenti politici dei diversi paesi, in quanto compartecipi di un processo di sviluppo storico
che ha il suo fondamento nella dinamica della produzione.

-La critica della filosofia hegeliana


La critica della concezione hegeliana dello Stato muove dall'osservazione di Feuerbach, che nella
dialettica hegeliana occorre invertire i due termini fondamentali, per cui la realtà diventa il
soggetto e il pensiero diventa predicato. Hegel finisce per “rivestire” l’immediata realtà empirica di
una figura concettuale che presenta l’essenza dello Stato; si ha quindi una “assolutizzazione” ed una
piena legittimazione filosofico-politica di una empirica realtà politica e degli interessi materiali che
garantisce. Acquista particolare importanza il rapporto società civile-stato. Gli antichi ordini, che
nella concezione hegeliana consentono la mediazione fra soc.civile e stato, non possono più svolgere
questa funzione. Le caratteristiche della società contemporanea post-rivoluzione francese si basano
sulla trasformazione dei vecchi ordini in vere e proprie classi sociali, fondate sulla differenza della vita
privata dei singoli. L’attività che il singolo svolge nella società civile non determina più uno status
sociale: la società organica del medioevo si è disarticolata nella moltitudine degli individui, che
partecipano alla vita politica in quanto cittadini, cioè con una qualificazione che prescinde dalla loro
attività e corrispondenti status sociali. Per Marx le attuali classi sociali sono espressione della
separazione come legge generale della società: l’uomo è separato dal suo essere generale, cioè della
sua concreta umanità, si determina una scissione che investe la possibilità sociale di ciascun associato,
dalla quale scaturisce l’individualismo. La soluzione hegeliana cerca di conciliare il sistema
medievale degli ordini con il moderno potere legislativo su base rappresentativa: la
contraddizione può essere superata mediante un nuovo ordinamento della società, che elimini la
situazione di atomismo in cui versa, restituendo all’individuo la sua umanità. Ciò presuppone una
trasformazione radicale del concetto di elezione: essa è il rapporto immediato e diretto, non
rappresentativo ma reale, della società civile con lo stato politico. La contraddizione stato-soc.civile
viene così risolta ampliando il suffragio da attivo e passivo a tutti i cittadini. Solo mediante questa
riforma la società civile perviene ad una reale esistenza politica e si sostituisce allo Stato. Si ha in tal
modo la vera attuazione della democrazia, che è l’essenza di ogni costituzione politica; la costituzione,
la legge e lo Stato sono un’autodeterminazione del popolo.

-Critica della filosofia del diritto


Ne la questione ebraica, per la critica della filosofia del diritto di Hegel, Marx osserva che il
problema dell’emancipazione non può essere limitato agli Ebrei, in quanto investe la stessa
condizione umana. La critica della religione formulata da Feuerbach va portata a suo compimento: se
la religione è il risultato dell’alienazione dell’uomo, questi deve liberarsi dall’illusione religiosa per

122
riappropriarsi della sua umanità. La filosofia nella sua istanza critica deve diventare una vera e
propria forza materiale, in quanto deve porsi come fine quello di muovere le masse, si tratta di
porsi come obiettivo una rivoluzione radicale della società, che consegua la universale
emancipazione umana. La condizione affinché una classe possa promuovere tale lotta è che essa si
renda interprete delle esigenze di libertà dell’intera società. Ma perché una classe possa assumere
questo ruolo, occorre che tutti i “difetti” vengano concentrati in un’altra classe. Il proletariato accoglie
su di sé tutte le oppressioni e le ingiustizie della società; nella sua esistenza materiale vive la
negazione dell’umanità dell’uomo ed esprime per sé stesso l’esigenza di un recupero integrale
dell’uomo. Marx conclude il suo scritto precisando che la “filosofia trova le sue armi materiali nel
proletariato” e “il proletariato a sua volta trova nella filosofia le sue armi spirituali”.

-Marx: i manoscritti economico-filosofici


Ne “I manoscritti economico-filosofici” di Marx è essenziale il rapporto tra economia politica, in
quanto studio dell’organizzazione del lavoro, e la filosofia, che non può essere più scissa dalla
concreta esistenza umana e quindi dall’attività che rende possibile questa esistenza: il lavoro.
Viene evidenziato il rapporto di conflitto latente che sussiste fra lavoro e capitale, e la radicale
contraddizione dell’organizzazione dell’economia capitalistica, che produce ricchezza per i possidenti
e miseria per i lavoratori. L’effetto della libera concorrenza, che finalizza la produzione alla ricerca
del profitto, determina crisi di sovrapproduzione, con conseguente chiusura di industrie,
disoccupazione e caduta dei salari. (secondo Smith il salario è dato dalla quantità di beni che sono
necessari per far vivere il lavoratore e per mantenere i suoi figli, il termine dell’economia capitalistica
è l’infelicità della società). Il lavoro è l’energia dalla quale promana la ricchezza e quindi l’intera
organizzazione, esse non sono altro che il risultato dell’alienazione del lavoratore, cioè del
trasferimento della sua energia nelle merci prodotte. In questo processo di oggettivazione l’uomo si
aliena nelle cose che egli stesso produce. La miseria significa riduzione della ricca e completa
personalità dell’uomo, di tutte le sue capacità, all’istinto bestiale della mera sopravvivenza e
quindi alla negazione dell’umanità dell’uomo e della stessa civiltà. Il lavoro non è più espressione
della libera energia creatrice dell’uomo, in cui si attua la sua compiuta e vera personalità, ma è
imposizione. Tale situazione reca in sé, per un interno processo dialettico, le ragioni della sua stessa
negazione: si perviene al terzo momento della dialettica hegeliana, la negazione dell’economia
capitalistica e della società borghese che ne è l’espressione, è una conseguenza necessaria della
situazione di totale alienazione nella quale si trova la classe lavoratrice. La contraddizione fra
società astratta e reale deve essere risolta nel comunismo, che si instaura allorché il lavoratore potrà
riappropriarsi del suo lavoro.

-Ideologia tedesca
Nei manoscritti Marx distingue tre forme di comunismo: il comunismo “rozzo”, che si fonda su
una mera soppressione della proprietà privata, il comunismo politico, democratico e “dispotico”
che pur abolendo lo Stato non risolve l’alienazione umana, ed infine il comunismo proposto da
Marx, che attua “l’appropriazione dell’umana essenza da parte dell’uomo e per l’uomo. Da
questo punto di vista il comunismo si presenta come negazione della negazione, cioè come negazione
del lavoro alienato. “L’intero movimento della storia è quindi l’atto reale di generazione del
comunismo”. La politica, per Marx, è intimamente connessa a questa azione pratica, con la quale è
tolta la proprietà privata: la politica si riferisce quindi all’azione rivoluzionaria, mentre la politica
tradizionale è espressione di un’organizzazione caratterizzata dalla coercizione. Lo Stato si presenta in
Marx come l’istituzione che cerca di risolvere politicamente e non socialmente i problemi reali della
società. Nell’ideologia tedesca i due autori pervengono ad una prima esposizione sistematica
della concezione comunista. Si precisa la critica a Feuerbach per la concezione del materialismo

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inteso come realtà oggettiva: esso va rivalutato come la dimensione umana del processo di divenire
storico. Acquista valore determinate l’attività dell’uomo, in quanto da essa promana la realtà nella
quale si trova l’uomo, la materiale attività produttiva dell’uomo è la sua caratteristica essenziale.
Proprio da questa attività inizia il processo storico di produzione delle condizioni materiali di vita
dell’uomo, che sono il presupposto delle altre attività. L’ideologia è una conoscenza meramente
astratta, che serve a legittimare la condizione e lo status sociale di chi la formula e quindi a
nascondere la realtà.

-La formazione storica delle forze produttrici


L’acquisizione del fondamento ideologico della filosofia e soprattutto del pensiero e delle dottrine
politiche consente di formulare una “scienza della storia” e quindi di dare alla concezione comunista
un fondamento scientifico. Acquista particolare rilevanza l’economia, intesa come studio
dell’attività produttiva per comprendere le materiali condizioni di produzione, che costituiscono il
concreto sostrato di tutte le altre relazioni della società. Il principio della divisione del lavoro
informa il processo di sviluppo economico: la sua più importante applicazione riguarda il lavoro
materiale e spirituale, che ha il suo corrispondente materiale-sociale nella distinzione
città-campagna. La separazione tra città e campagna può venir concepita come il principio di uno
sviluppo di un’esistenza e di uno sviluppo del capitale indipendentemente dalla proprietà fondiaria,
cioè di una proprietà che trova le sue basi solo nel lavoro e nello scambio. La formazione di questo
tipo di proprietà, il capitale, è stata possibile grazie allo sviluppo del commercio, presupposto
per il sorgere delle manifatture e causa scatenante del terzo periodo della proprietà privata, cioè
la costruzione della grande industria. Gli effetti dell’industrialismo sono l’universalizzazione
della concorrenza, i moderni mezzi di comunicazione e il mercato mondiale: la trasformazione di
ogni capitale in capitale industriale. Con la grande industria ogni nazione tende a dipendere dalle
altre ed inizia un processo di radicale trasformazione delle precedenti forme di vita, sì che tutte le
relazioni vengono finalizzate alle esigenze della produzione. Pervenuto al suo ultimo stadio di
sviluppo, il sistema industriale rivela le sue contraddizioni fra le forze produttive e la forma di
scambio: la libera concorrenza determina crisi di sovrapproduzione, caduta dei salari, concentrazioni
di capitali, monopoli e miseria dei lavoratori. Si verifica così la contrapposizione tra capitale e
lavoro. Due sono le necessarie conseguenze; la prima si riferisce alla separazione delle forze
produttive dagli individui che le fanno sussistere (alienazione), la seconda riguarda la formazione della
classe proletaria. Il proletariato deve sopportare tutti gli oneri della società senza goderne i vantaggi e
che spinta a forza fuori dalla società, viene forzata ad una radicale antitesi con tutte le altre classi. Il
risultato della rivoluzione è l’instaurazione della società comunista. Lo stato nasce dalla
contraddizione fra l’interesse del singolo e quello collettivo: le lotte politiche non sono altro che forme
illusorie nelle quali vengono combattute le reali lotte delle diversi classi tra loro. Lo stato va
considerato nella sua materiale realtà, cioè come organizzazione che garantisce e fa valere il potere
della classe dominante: esso è strumento della produzione capitalistica. Il comunismo si afferma
come appropriazione da parte del proletariato di quelle stesse forze produttrici, rendendo
ciascun individuo titolare delle stesse, in grado di poter partecipare, con la sua attività sociale, alla
direzione ed al controllo delle forze produttrici, si attua la piena e vera libertà dell’individuo, che può
realizzarsi come “uomo totale”. Poiché il comunismo abolisce le contraddizioni fondate sulla
divisione del lavoro e sulla proprietà privata risulta che anche lo Stato viene abolito, sostituito
dalla libera organizzazione sociale, dall’associazione dei liberi lavoratori. La produzione si fonderà su
un’organizzazione del lavoro in cui sia consentita la possibilità di variare le attività lavorative per
promuovere ed arricchire le attitudini e le capacità di ciascuno.

-Il capitale

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Il pensiero economico di Marx si concentra sull’individuazione delle leggi fondamentali
dell’economia capitalistica per intenderne gli sviluppi. L’apprendimento di queste leggi permette
all’uomo di rendersi conto del modo in cui operano le forze produttive, per poterle governare secondo
un piano razionale. Il capitale è il complesso dei beni destinati alla produzione e sussiste per la
disponibilità da parte del capitalista di mezzi finanziari. Esso deve produrre per riprodursi,
caratteristica essenziale del capitale è il suo processo di accumulazione. Esso va concepito come una
vera e propria potenza sociale, che tende ad espandersi senza alcun limite. Per spiegare la
formazione del capitale si richiama alla teoria smithiana-ricardiana del valore dei beni, uguale al
lavoro necessario per produrli: il lavoro è una merce che viene venduta dall’operaio ed acquistata dal
capitalista. Il salario dell’operaio corrisponde al tempo di lavoro necessario a produrre i beni necessari
alla sussistenza ed a riprodursi come forza lavoro; l’operaio però lavora per un periodo di tempo
superiore a quello richiesto per la produzione dei beni che gli sono necessari, si genera un plusvalore
di cui si appropria il capitalista e che consente il processo di accumulazione. La contrapposizione tra
capitale e lavoro, basata sul fatto che il capitale per vivere deve sfruttare il lavoro, manifesta la
radicale contraddizione del capitalismo. Esso, a motivo della libera concorrenza, spinge
all’incremento delle forze produttive ed a una riduzione dei costi: ne risulta un aumento della
produzione, cui però non corrisponde un adeguato aumento dei salari, che sono contenuti in limiti
inadeguati alle possibilità di consumo. I lavoratori disoccupati, generano concorrenza nel mercato
del lavoro, riducendone il prezzo. In tal modo l’aumento della produzione non è consumato,
determinando una crisi di sovrapproduzione. Le crisi di sovrapproduzione corrispondono alla
fine di un ciclo economico, che caratterizzano il processo di sviluppo del capitalismo. Per superare
la crisi ed iniziare un nuovo ciclo, il capitalismo deve perfezionare e rinnovare le tecniche di
produzione, aumentare il capitale fisso e diminuire quello variabile, destinato ai salari. Ciò causa
la formazione di monopoli e trust internazionali che conquistano nuovi mercati: ogni ciclo
economico dà nuovo impulso alle forze produttive ed allo stesso tempo acquisisce le sue
contraddizioni, da una parte una ricchezza “sociale” sempre più grande, dall’altra un pauperismo
(Grave situazione di depressione economica) sempre più diffuso fra la classe lavoratrice.

-Stato e strutture di classe


Nell’analisi marxiana degli avvenimenti politici francesi fra il 48 e il 51, la politica è caratterizzata da
una molteplicità di forze, che non possono essere ricondotte al piano dei contrasti sociali, ma che
finiscono per confluire nello Stato, che ha una sua corposa realtà istituzionale. La sovrastruttura
politica ha uno spessore istituzionale, ideologico-culturale, giuridico che è estremamente difficile
spezzare. La dialettica delle classi è certamente riconducibile alla polarizzazione
borghesia-proletariato, ma, colta nel suo concreto contesto storico, si mostra differenziata. La dinamica
delle classi finisce per rafforzare l’autonomia dello Stato (ad es Napoleone). Questo stato trova nel
sistema delle imposte e nella corrispondente amministrazione tributaria i mezzi per affermare la sua
autonomia economica, mentre l’apparato burocratico amministrativo gli consente un efficace controllo
degli interessi. La logica della produzione capitalistica tende ad eliminare la piccola proprietà
contadina: disaggregata la sua base sociale, lo stato si disarticola.

-La comune ed il problema dello stato


La reale soluzione del conflitto società civile-stato richiede, secondo Marx, la costituzione di un nuovo
potere centralizzato, necessario per realizzare il passaggio dalla società capitalistica a quella comunista
(dittatura del proletariato, sul modello della costituzione giacobina del 1793). L’instaurazione della
comune, avvenuta a Parigi nel 1871, espresse un altro modello di Stato, alternativo a quello giacobino.

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La Comune fu difesa da Marx, che la considerò come il primo esperimento di un potere rivoluzionario
da parte del proletariato. Il modello di Stato proposto dalla Comune riflette indubbiamente più le
teorie di Proudhon, che quelle di Marx: rappresenta il tentativo di realizzare l’autogoverno delle
forze produttive, mediante una radicale democratizzazione dell’amministrazione delle città. Lo
stato francese si sarebbe così trasformato in una federazione di liberi comuni.

-Engels: rivoluzione sociale ed industriale


Engels sottolinea il fatto che la conseguenza più rilevante della nuova organizzazione economica
capitalistico-industriale è la formazione di una nuova categoria sociale, il proletariato, alla quale
spetta il compito di una trasformazione radicale dell’ordine sociale. L’Inghilterra ha compiuto,
nell’ultimo cinquantennio, una profonda trasformazione dal punto di vista economico sociale,
che deve essere considerata una rivoluzione. Viene sottolineato che è proprio la rivoluzione
industriale che ha svuotato di qualsiasi contenuto lo Stato e la sua organizzazione politica: la funzione
della scienza economica è quella di riportare nell’ambito delle categorie economiche tutti i problemi
della politica. Prima di Smith, e cioè prima della rivoluzione industriale, l’economia era un ramo
dell’attività dello Stato, secondo Engels invece, ha elevato l’economia dello Stato a essenza e fine
dello stato (la proprietà è l’essenza e l’arricchimento il fine dello Stato). Lo Stato diventa un mero
rivestimento della concreta realtà sociale. Engels svolge una critica radicale della costituzione e
delle istituzioni giudiziarie inglesi, per dimostrare come le libertà politiche e civili siano
apparenti e che nascondano il potere reale dei grandi partiti (l’aristocrazia terriera,
l’aristocrazia del denaro e la democrazia lavoratrice). La democrazia esprime la lotta delle classi
lavoratrici contro quelle possidenti, ma non è in grado di risolvere i problemi sociali, se intesa
come sistema politico. Anche Engels ritiene che l’avvento della società socialista dipende dalla
presa di coscienza del proprio ruolo da parte della nuova classe sociale. Le contraddizioni del
sistema industriale capitalistico, le ricorrenti crisi commerciali provocate dalla sovrapproduzione, la
conseguente concentrazione del capitale in poche mani e la proletarizzazione della media e piccola
borghesia, rendono inevitabile una soluzione rivoluzionaria della questione sociale.

-Engels: rivoluzione e stato


Le idee di Marx sul modo con cui si sarebbe instaurato il comunismo, si riferiscono agli avvenimenti
politici europei fra il 1840 e il 1870. È lo stesso Engels a riconoscere, nel 1895, l’errata valutazione
degli avvenimenti storici del 48 da parte di Marx. La stessa costituzione di partiti socialisti dimostrava
la concreta possibilità di una trasformazione legale dello stato borghese in una democrazia socialista. Il
compito che si poneva alla socialdemocrazia, secondo Engels, era quello di allargare sempre di più la
sfera del consenso, che consentisse di operare le riforme necessarie per instaurare la società socialista.
Nel 91 Engels affermò che il passaggio alla società comunista avrebbe dovuto essere attuato
mediante uno Stato democratico repubblicano. Del problema dei rapporti fra Stato socialista e
libertà gli scritti di Marx e Engels non offrono alcuna precisa indicazione.

26)Mill: Utilitarismo e liberalismo

-Contesto storico
(1806 – 1873) Stuart Mill nacque a Londra nel 1806. In giovane età si dedicò a diversi argomenti
(come greco, latino, algebra, filosofia e logica), e importante per la sua formazione e per il suo

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pensiero fu l’incontro con Bentham. Fondamentale per il pensiero milliano è il metodo induttivo,
secondo cui l’induzione è il processo attraverso la quale si costituisce il sapere. Essa, inoltre,
mostra come i fenomeni siano soggetti a leggi costanti (quindi a un determinato fenomeno ne
segue un altro secondo una connessione causale). Tuttavia ciò non permette di prevedere gli
eventi futuri in quanto la nostra conoscenza è “probabile”; viene quindi escluso il principio di
uniformità della natura che è esso stesso frutto di un’induzione. Mill nel corso della sua carriera
fu anche un economista, sostenitore del liberalismo radicale (in quanto egli era favorevole alla
valorizzazione dell’individuo e alla difesa degli spazi di libertà). Egli scrisse, in tale ambito,
un’importante opera intitolata “Principi di economia politica” dove distingue le “leggi di
produzione” (che dipendono dalla natura) dalle ”leggi della distribuzione” (che dipendono dalla
volontà umana e, quindi, possono essere modificate). Vive in Inghilterra in un momento di
grandi trasformazioni, non aveva accettato né la rivoluzione francese né Napoleone Bonaparte
né tantomeno i risultati del congresso di Vienna, diventa dopo questa il punto di riferimento per
fermare i regimi assolutistici in alcuni stati, dopo il fallimento delle rivoluzioni come quella
francese, trovano nell’Inghilterra un sicuro rifugio.

-L’età delle riforme liberali in Inghilterra


L’Inghilterra attraversa un momento di grandissime riforme, un processo che si diffonde per tutto
il 19 secolo, si parte dalla trasformazione del sistema elettorale, il primo colpo è proprio per il
sistema dei borghi fradici, un sistema complesso che assegna alla classe aristocratica e dei proprietari
terrieri il monopolio dei voti, il report bill apriva il diritto di voto ad una buona parte di
popolazione, per chi percepiva un reddito di 10 sterline almeno, questo report bill portò alla
guerra civile, da una parte la camera dei Lord e dall’altra la borghesia che invece credeva in
questa riforma, una guerra civile che fu superata quando il governo conservatore di Wilmington
si rese conto che la situazione stava degenerando e decise di concedere le prime grandi riformi,
ad opera del partito conservatore Tory e di Wilmington, l’abolizione del test act, sanciva in
maniera definitiva la parità di diritti, un risultato importante perché sancisce la cosa tra protestanti
luterani e anticonformisti e col susseguirsi dei vari governi una serie di importanti riforme,
l’abolizione della schiavitù nell’impero coloniale britannico, poi il factory act che regolava il
lavoro nelle fabbriche per ridurre il numero di ore dei lavoratori e per donne e giovani.
Successivamente queste riforme trovarono la loro realizzazione tra il 1830 e il 1840, età vittoriana
che continuò su questa linea, riforme che privilegiano le nuove classi che si andavano affermando da
un punto di vista economico, furono emanate una serie di leggi sul lavoro delle miniere, la legge
sull’orario di lavoro ed altre concessioni, queste leggi furono condivise sia dal partito del liberali
sia dai conservatori, che concessero una serie di riforme che cambiarono il volto dell’Inghilterra. Nel
1893 fu fondato il partito Laburista, anche la legge elettorale subì delle modifiche, nel 1866
concessero il diritto di voto ai cittadini anche se nel 1800 ci fu il suffragio quasi-universale in cui
veniva concesso il diritto di voto a tutte le classi. Questo susseguirsi di riforme troverà il teorico per
eccellenza che apre una nuova era, trasforma il liberalismo classico in un liberalismo democratico,
Jeremy Bentham, caldeggia queste riforme che trovarono applicazione in Inghilterra. I governi
dovevano ridurre al minimo l’infelicità degli individui e fare in modo che questa dovesse essere
sempre inferiore rispetto al resto, occorreva dare la priorità assoluta alla felicità rispetto alla
infelicità, occorre promuovere la felicità del massimo numero, gli strumenti che Bentham ritiene
utili è quello di cercare di avvicinarsi attraverso l’equiparazione delle classi lavoratrici, sia dal
punto di vista giuridico che sociale e civile, abolire l’istituto monarchico e la camera dei Lords,
propone l’istituzione di un governo rappresentativo dotato di un parlamento rinnovabile ogni
anno in modo di scongiurare il pericolo dell’abuso di potere, Bentham soprattutto in legame con

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Mill è la sua campagna, che doveva garantire la parificazione dei diritti dell’uomo e delle donne,
che infatti diventerà uno dei temi principali di essa.

-Utilitarismo, socialismo ed individualità


Mill si trovò ad affrontare la missione di riformare il mondo, di impegnarsi per diffondere in Europa e
non solo le idee di Bentham. A soli 12 anni conosceva le opere di Platone, Aristotele, Hobbes etc, il
giovane Mill si immedesimò perfettamente nella carica, accettò di buon grado questa missione, a 20
anni ebbe una forte crisi che lo accompagnò per diverso tempo, si rese conto che la sua inclinazione
non lo portava solo in quella direzione, si era reso conto dell’importanza dell’utilitarismo, iniziò ad
appassionarsi alle tesi di Coleridge, si appassiona agli studi di Tocqueville ed anche letteratura
romantica tedesca come Goethe, Fitche. Passò poco tempo e si appassionò anche agli studi di logica,
tant’è che uscì sistemi di logica, scrisse poi un’opera importante “principi di economia politica” nel
1848 che segna la prima fase di sviluppo dei sistemi economici. Scrive anche un'opera che si chiama
“assoluta libertà”, uscì nel 1859 contemporaneamente a due altre opere dove si occupa di politica. Ci
fu un incontro importante che cambiò la vita di Mill, ovvero quello con la sua seconda moglie
Harriet, lo fece appassionare ai temi legati alle donne ed in merito a ciò ricordiamo un'opera
importante ovvero “la soggezione delle donne” uscita nel 1869. Essa prese parte attiva nella
collaborazione delle opere di Stuart, soprattutto quando iniziò la carriera politica, eletto alla camera
dei comuni. Mill viene studiato con molta attenzione, Nadia Urbinati dice: “Mill pensatore di
frontiera, liberale ma molto ben disposto verso le situazioni, difensore del principio di uguaglianza ma
critico nei confronti delle idee democratiche, critico nei confronti dell’individualismo”. Per garantire
una giustizia sociale, serviva che lo stato si occupasse dei problemi dei bisognosi, doveva avere
una politica distributiva, contro ingiustizie sociali, per quanto riguarda il fattore economico
anche l’aspetto etico andava considerato, si fece sostenitore tout court della istituzione. Sulla
scorta dell’idea di Smith o Locke, Mill mostra il suo totale rifiuto dello stato paternalistico,
dovrebbe avere solo una politica distributiva rispetto all’indigenza e alla povertà, lo stato doveva
provvedere e non il cittadino, Stuart è difensore dell’individualità, ripercorre la strada Kantiana,
lo stato deve intervenire meno possibile nella vita dell’individuo, lui è difensore soprattutto della
sfera interiore dell’individuo, nessuno deve cercare di costringere l’individuo, solo in questo
aspetto riteneva che lo stato dovesse venire in soccorso e garantire qualcosa, il Kant economico
invece, l’idea di Stuart è delle società cooperative, lui ritiene che sia da contemplare la figura del
produttore-proprietario, gli individui dovevano essere al tempo stesso proprietario dei mezzi di
produzione e lavoratore, sosteneva l’autonomia del lavoratore. Naturalmente si impegnò tutta la vita a
combattere la classe parassitaria e ad manifestare il suo favore per la classe media. Mill si distanzia in
alcune posizioni dai socialisti, i socialisti ritenevano che la libera concorrenza avesse molte
responsabilità nella crisi profonda sociale, lui sosteneva che la libera concorrenza tendesse a far sì
che gli individui avessero indolenza, la libera concorrenza deve essere un incentivo per gli esseri
umani e per aiutare i collaboratori. In Mill c’è una classe media che va avanti grazie ai suoi
mezzi, la libertà e la democrazia, la libertà è fondamentale, lo stato per questo deve fare meno
possibile. Critica la democrazia così come veniva concepita ma ha un timore, l’idea della
tirannide della maggioranza. Anche se la stragrande maggioranza della società fosse nel vero, i
dissidenti esprimono sempre qualcosa che merita di essere ascoltato, anche la minima voce fuori dal
coro va ascoltata, anche la voce sbagliata se in silenzio fa perdere qualcosa alla verità, l’uomo deve
riscattarsi attraverso la propria individualità, il confronto dialettico è molto importante per la libertà.
Mill è a favore del suffragio ma che non deve essere universale, dovrebbero essere escluse ad
esempio le classi degli analfabeti. Conduce varie battaglie tra cui la trasformazione del sistema
maggioritario in proporzionale, e quella delle donne, sosteneva che la donna era relegata al ruolo
solo di madre e di moglie, ma avevano anche una maggiore intelligenza rispetto agli altri, e quindi

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dovevano avere un ruolo anche politico, una funzione importante dello stato. Un altro elemento che
va evidenziato è l’importanza che debbono avere le assemblee parlamentari che dovevano creare
la legge, con il compito di studiarla e formularla, articolo per articolo ed era convinto che occorreva
attribuire compiti completi alle persone dotate di saggezza. Mill dedica un saggio alla democrazia in
America, c’era una profonda connessione tra lui e Tocqueville tant’è che lo stesso Tocqueville
leggendo con passione l’opera di Mill si esprimeva: “non dubito che su questo terreno della libertà non
possiamo camminare senza darci la mano”. La figlia di Mill nel 1879 fece uscire un saggio
“frammenti sul socialismo” pubblicò e fece la premessa dove spiega che Mill rimase molto colpito
negli ultimi anni della sua vita dal fatto che il socialismo avesse avuto una grande presa non solo sugli
intellettuali ma anche sulle classi operaie, lui negli ultimi anni si impegnò a riflettere sui temi del
socialismo ma non può definire questa un’opera socialista, ma è un'opera che si occupa delle varie
gradazioni del socialismo. Tra le scuole gradualistiche e le scuole rivoluzionarie, secondo le sue
impressioni, Mill rifiutasse le scuole rivoluzionarie e che avesse fatte proprie le idee delle scuole
gradualistiche. Mill aveva detto: “nessuna comunità ha mai progredito tra il potere più forte e i poteri
rivali, tra le classi territoriali e quelle lavoratrici, tra gli ortodossi e gli altri religiosi, il potere più forte
è il confronto, grazie al quale si produce lo stato migliore”.

-Riforme
Tra il 44 ed il 66 le forze politiche e sociali inglesi avevano avviato, pur fra lotte e contrasti, un
processo di modernizzazione delle istituzioni politiche ed amministrative, con il quale si operava una
riforma della vecchia struttura aristocratico-feudale. L’Inghilterra diventò così il punto di riferimento
per chi lottava contro i governi assoluti della Restaurazione. Già nel decennio successivo a Waterloo
cominciarono ad esprimersi all’interno della stessa democrazia, che deteneva il monopolio della
rappresentanza parlamentare, iniziative per proporre il problema della riforma del sistema elettorale.
La nuova legge elettorale prevedeva la partecipazione della nuova classe media al governo della cosa
pubblica (Reform Bill). Durante il governo tory di Wellington furono deliberate due leggi con cui si
abolì il Test Act, che vietava ai cattolici ed ai protestanti non conformisti di occupare cariche
nell’amministrazione dello Stato e nelle amministrazioni locali, e si concedeva la parità dei diritti
politici ai cattolici. Nel 1833 fu abolita la schiavitù nell’impero britannico e fu varato il Factory
Act, la prima legge sul lavoro nelle fabbriche, mentre nel 1835 fu approvato il Municipal
Corporations Act, la prima riforma in senso democratico dell’amministrazione locale. Tale
modernizzazione continuò nell’età vittoriana, con un ulteriore legge, con la quale si abolirono i dazi
protettivi del grano, accogliendo il principio del libero scambio. L’avvento al governo delle forze
politiche di ispirazione liberale (Gladstone) rese possibile la seconda riforma elettorale del 66, con la
quale il diritto di voto fu allargato anche ai lavoratori non salariati. Nel 1884 tale diritto fu ampliati a
tutte le classi lavoratrici. La sua formazione culturale riguarda l’utilitarismo di Bentham e Coleridge.

-Moralità e società
Successivamente allargò i suoi studi, riconoscendo una psicologia associativa, acquisendo la
convinzione che la cultura era intimamente connessa con l’individualità. Filosofia, etica ed
economia si presentarono a Mill come le necessarie premesse per svolgere un discorso politico che
tenesse conto dei principali problemi politici del suo tempo. Mill cercò di definire una vera e
propria scienza generale della società, distinta in statica sociale e dinamica sociale, che
consentisse di formulare una dottrina scientifica del progresso sociale; tuttavia ne mancavano i
presupposti. La morale, il diritto e l’economia pongono in risalto il nesso sussistente tra
individuo, individui e società. Il fine della vita dell’individuo, la felicità, può essere conseguita
solamente con un ordinamento sociale che elimini gli ostacoli materiali e culturali al suo
conseguimento. La morale non è altro che il sentimento della socialità, che induce gli individui ad

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associarsi. Mill ritiene che il principio della giustizia reclami la progressiva eliminazione delle
ineguaglianze politiche e sociali, non più giustificate dal progresso della società e che non
consentono a numerose categorie sociali di conseguire la felicità. I progressi dell’inizio secolo hanno
suscitato nelle classi lavoratrici un’aspirazione all’autonomia, che possono essere conseguite
solamente mutando lo status del lavoratore salariato in quello del lavoratore proprietario. Società
corporative e altre forme di associazione sono il punto di arrivo di un processo di trasformazione
dell’organizzazione economica, fondata sulla proprietà del prodotto del proprio lavoro, la
distribuzione della ricchezza e dei ruoli sociali si fondano sul merito. Mill si rende conto dei rischi
insiti in una concezione economicistica della società, che vedrebbe nell’incremento della ricchezza
l’unico fine dell’uomo, che non avverte più la “solitudine”, da cui scaturiscono le energie morali ed
intellettuali. Il nuovo ordine sociale deve invece creare le condizioni affinché gli uomini non siano
più assillati dalla gara per le ricchezze. Mill nutre profondo dissenso per le teorie socialiste;
riconosce che la libera concorrenza produce alcuni mali, ma la sua eliminazione ne
determinerebbe di maggiori, in quanto verrebbe a mancare qualsiasi incentivo all’innovazione
ma ci sarebbe un “ristagno”.

-Il problema dei limiti del potere


I temi principali del suo dibattito sono la libertà ed il governo rappresentativo. Esamina la
natura e i limiti del potere che la società può legittimamente esercitare: nelle società antiche e
medievali la libertà era stata riferita alle limitazioni che si era riusciti ad imporre al potere. Con
l’avvento delle costituzioni democratiche, fondate sul principio della sovranità popolare, si è
ritenuto che non sussiste più l’esigenza di individuare e fissare i limiti del potere, dato che il
governo è espressione del libero consenso del popolo. Per Mill le formule di “governo di sé stessi”
o “il potere del popolo su sé stesso” sono sostanzialmente astratte. Il sistema democratico fa
derivare tutti i poteri dalla volontà del popolo; li unifica e li concentra nella maggioranza che si
afferma nelle elezioni. Una volta impadronitosi del potere, la maggioranza tende a conservarlo,
da qui scaturisce la cosiddetta tirannia delle maggioranze. Mill nota che le società contemporanee
tendono ad estendere sempre più il loro potere sull’individuo; ad esempio si assiste alla concezione
comtiana della nuova religione dell’umanità, che dovrebbe sostituirsi in tutto e per tutto alle religioni
tradizionali. Il principio che consente di definire rapporti fra l’individuo e la società e di stabilire
il limite del potere di questa nei confronti degli associati si fonda sull’esigenza della morale
utilitaristica di garantire la convivenza sociale. La società ha il diritto di usare la forza e di
costringere l’individuo ad un determinato comportamento solo quando questo arreca danno agli altri.
Solo l’individuo è l’unico giudice sovrano dei mezzi più adatti per conseguire il suo bene morale,
sussiste una sfera intangibile da parte del governo, nella quale l’individuo esprime con legittimità la
sua libertà. Tale sfera si riferisce innanzitutto alla coscienza ed alla libertà di pensiero. Altrettanto
importante è la libertà delle “tendenze”, cioè la libertà riconosciuta di indirizzare la propria attività e di
svolgerla secondo quanto si ritiene più confacente alle proprie inclinazioni.

-Dialettica delle opinioni


Mill pone in risalto l’importanza della partecipazione attiva degli individui alla formazione del
proprio patrimonio culturale: un sapere passivo non forma una personalità, occorre che
l’individuo riscopra da sé stesso le verità che gli vengono proposte. Ciò è possibile solamente
mediante un atteggiamento critico, quale scaturisce dalla libertà di pensiero. Per sviluppare questa
forma di “ragione” non basta un’indagine singola, ma risulta necessario il confronto dialettico delle
diverse opinioni. La “verità è una questione di combinazioni e di conciliazioni di contrari” la
politica e il sistema politico si fondano su due partiti, il conservatore ed il radicale. Solo in tal
modo si riesce ad individuare ciò che deve essere veramente conservato/rinnovato. Particolare

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rilevanza riveste l’opinione della minoranza: essa rappresenta in genere gli interessi che sono stati
trascurati; i dissidenti esprimono sempre qualcosa che “merita di essere ascoltato e la verità perde
qualcosa col loro silenzio”.

-Governo rappresentativo e democrazia


L’elemento principale della felicità umana, e il fattore determinante del progresso individuale e
sociale, devono essere ricondotti allo sviluppo autonomo dell’individualità. Il rischio della società
contemporanea caratterizzata dallo sviluppo economico-industriale è di creare condizioni sociali
che tendono a trasformare l’uomo in una macchina. Tale società è caratterizzata da un processo di
livellamento delle categorie sociali. La conseguenza è che la società ha preso il sopravvento
sull’individualità, di qui la necessità di definire i limiti del potere della società sull’individuo. Il
problema di questi rapporti è affrontato nello scritto dedicato all’analisi delle istituzioni
rappresentative. La tesi di Mill è che la miglior forma di governo deve essere ritrovata fra i vari
sistemi rappresentativi. Il governo rappresentativo richiede impegno da parte degli individui,
che sollecita le loro capacità intellettuali e morali: perciò bisogna garantire libertà di pensiero.
L’ipotesi che il governo migliore sia quello di un monarca assoluto illuminato non tiene conto che
questa forma di paternalismo politico finisce col privare il corpo sociale delle energie necessaria
al suo sviluppo ed anche alla sua esistenza, si elimina il movimento della società, riducendola in uno
stato di quiete e di immobilità, che costituisce l’inizio di un processo di decadenza. Devono essere
individuate le condizioni che consentono al governo rappresentativo di operare efficacemente:
occorre che il popolo sia disposto ad accogliere tale forma di governo, cioè che il suo sviluppo morale,
civile ed intellettuale sia tale da consentirgli di partecipare alla vita politica. Il parlamento può
esercitare un efficace controllo sull’esecutivo solo se è sostenuto da una solida opinione e dalla
fiducia del popolo. Ogni sistema costituzionale rappresentativo si fonda sull’equilibrio delle “parti”
che lo formano (Corona, governo, Parlamento) esistono limiti legali, indicati dalle norme
consuetudinarie della costituzione, cioè della morale politica positiva del paese. Occorre riconoscere
all’elemento popolare una supremazia in tutti i settori dell’attività governativa, corrispondente
alla sua forza reale nel paese: ciò significa riconoscere la più larga partecipazione del popolo alla vita
politica. Occorre anche allargare la partecipazione dei cittadini per quanto riguarda le amministrazioni
locali. Le assemblee parlamentari devono svolgere un’attività di indirizzo e di controllo nei
confronti del governo, rendendosi interpreti dei grandi orientamenti. Per Mill tali assemblee
parlamentari non sono assolutamente idonee a svolgere un’attività amministrativa, poiché essa
richiede una competenza specifica l’assemblea non è in grado di legiferare, lavoro che dovrebbe essere
svolto da una commissione di esperti che prepara il progetto di legge, secondo le indicazioni formulate
dall’assemblea, alla quale spetta la delibera in merito alla sua approvazione. In ogni ordinamento
costituzionale sussiste la tendenza del “potere prevalente” a diventare l’unico potere. Si tratta di
creare e sostenere un altro potere che possa equilibrare quello democratico, nella Camera dei
Comuni sussiste una minoranza che faccia da freno alla maggioranza, e dovrebbe essere costituita
dalle minoranze intellettuali. Le assemblee legislative hanno un limite etico-politico che non
dovrebbero mai infrangere: non debbono farsi promotrici di una legislazione di classe; ed è questo
il pericolo maggiore al quale si trova esposto il sistema rappresentativo: l’unico rimedio per evitarlo è
quello di fondare la rappresentanza politica sulla pluralità e dialettica degli interessi. Mill afferma così
il primato del momento etico-politico, mediato dalla cultura, dalla saggezza (la sophrosyne), sugli
interessi particolari dei gruppi o delle classi sociali.

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