Clarich - Manuale Di Diritto Amministrativo
Clarich - Manuale Di Diritto Amministrativo
Clarich - Manuale Di Diritto Amministrativo
1. Premessa
Il diritto amministrativo può essere definito come quella branca del diritto pubblico interno che ha per oggetto
l'organizzazione e l'attività della pubblica amministrazione. In particolare, riguarda i rapporti che quest'ultima instaura
con i soggetti privati nell'esercizio di poteri ad essa conferiti dalla legge per la cura di interessi della collettività.
2. Modelli di Stato e nascita del diritto amministrativo
2.1. Stato amministrativo
Prendendo in esame il caso francese, la nascita dello Stato moderno, con l'unificazione del potere politico del re, andò
di pari passo con la formazione di apparati amministrativi stabili, al centro e in periferia, posti alle dirette dipendenze
del sovrano (gli intendenti del re) e contrapposti a poteri locali. Nell'esperienza francese lo Stato assoluto si definiva
già come Stato amministrativo. Era inoltre uno Stato che estendeva il suo raggio di azione a numerosi campi. Nel corso
del XVIII secolo lo Stato assoluto assunse i caratteri dell'assolutismo illuminato, cioè detto Stato di polizia, offrendo ai
propri sudditi provvidenze di vario genere. L'espansione dei compiti dello Stato e l'attribuzione di poteri amministrativi
ai funzionari delegati del sovrano e agli apparati burocratici stabili portarono poco a poco all'emersione della funzione
amministrativa come funziona autonoma, non più compresa in quella giudiziaria. La Rivoluzione francese del 1789 e
le costituzioni liberali approvate nei decenni successivi portarono alla nascita del modello dello Stato di diritto (o Stato
costituzionale).
2.3. Stato guardiano notturno, Stato sociale, Stato imprenditore, Stato regolatore
Nel XIX secolo nacque lo Stato guardiano notturno che aveva due compiti: la garanzia dell'ordine pubblico interno e la
difesa del territorio da potenziali nemici esterni. Dunque, alla società civile e al mercato spettava lo svolgimento delle
attività economiche e la cura di altri interessi della collettività (es. sanità). La visione liberista e liberale di questo Stato
entrarono in crisi verso la fine del XIX, inizio XX secolo. Queste trasformazioni portarono il passaggio a un modello di
Stato detto “Stato interventista”, “Stato sociale” o “Stato del benessere” (Welfare State).
I primi interventi furono attuati dalla Germania bismarckiana e nell'Italia giolittiana. Nel corso del secolo si ebbero
grandi sviluppi che portarono lo Stato ad intervenire sempre più nei vari settori, in particolare nelle attività economiche
e sociali, i quali portarono a un aumento della spesa pubblica. Lo “Stato imprenditore” si trasformò via via in “Stato
regolatore”, il quale rinuncia cioè a dirigere o gestire direttamente attività economiche e sociali e si fa invece carico di
predisporre soltanto le regole e gli strumenti di controllo necessari affinché l'attività dei privati, non vada a ledere
interessi pubblici rilevanti. Però con la crisi del 2008, che ha colpito anzitutto gli Stati Uniti, si è visto le carenze
strutturali di tale modello. Per far sì che si evitasse un crollo del sistema finanziario, sono state attuate misure di
intervento pubblico diretto e indiretto utilizzando un gran numero di risorse pubbliche. A livello europeo è stato
introdotto il Sistema europeo di vigilanza finanziaria (SEVIF).
3.2. La sociologia
La sociologia analizza le relazioni fattuali di potere interne e esterne agli apparati burocratici e la varietà dei bisogni e
degli interessi della collettività di cui essi si fanno carico. Il potere è un fenomeno sociale prima ancora che giuridico
presente in ogni collettività un minimo organizzata.
Va precisato che anche il diritto privato include in qualche caso principi propri del diritto amministrativo. Come per
esempio nel diritto societario.
CAPITOLO III - Il rapporto giuridico amministrativo
1. Le funzioni e l’attività amministrativa
L’amministrazione attiva consiste nell’esercizio, attraverso moduli procedimentali, dei poteri amministrativi attribuiti
dalla legge ad apparati pubblici al fine di curare, nella concretezza dei rapporti giuridici con soggetti privati, l’interesse
pubblico.
o Le funzioni. Innanzitutto, dobbiamo precisare che il termine funzione ha una molteplicità di significati. Per
esempio, esso può essere riferito ai vari tipi di attività posti in essere dagli apparati pubblici, e in questo senso si
distingue tra funzione di amministrazione attiva, di regolazione e di controllo. Per funzioni amministrative si
intendono i compiti che la legge individua come propri di un apparato amministrativo, in coerenza con la finalità
ad esso affidata. L’apparato è tenuto ad esercitarle per la cura in concreto dell’interesse pubblico. In relazione ad
esse la legge conferisce agli apparati amministrativi i poteri necessari (attribuzioni) e distribuisce la titolarità di
questi ultimi tra gli organi che compongono l’apparato (competenze).
o L’attività amministrativa. L’attività amministrativa consiste nell’insieme delle operazioni, comportamenti e
decisioni (inclusi i singoli atti o provvedimenti amministrativi) posti in essere o assunti da una pubblica
amministrazione nell’esercizio di funzioni affidate ad essa da una legge. L’attività amministrativa è rivolta a uno
scopo o fine pubblico, cioè alla cura di un interesse pubblico e, per questo, anch’essa è dotata del carattere della
doverosità. Il mancato esercizio dell’attività può essere fonte di responsabilità. E ciò a differenza di quanto accade
nell’ambito dei rapporti di diritto comune, nei quali l’esercizio della capacità giuridica da parte dei soggetti privati
è di regola libero.
All’attività amministrativa si riferisce l’art. 1 l. n. 241/1990 che dichiara: “l’attività amministrativa persegue fini
determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di
trasparenza”. Per quanto riguarda la separazione tra l’attività amministrativa e attività di diritto privato, la
giurisprudenza tende a ritenere che l’amministrazione svolge attività amministrativa “non solo quando esercita
pubbliche funzioni e poteri autoritativi, ma anche quando, nei limiti consentiti dall’ordinamento, persegue le
proprie finalità istituzionali mediante un’attività disciplinata in tutto o in parte dal diritto privato”. Da qui è sorta
la distinzione tra “attività amministrativa privatistica” e “attività d’impresa di enti pubblici”.
o Il potere. I poteri amministrativi conferiscono agli apparati che ne assumono la titolarità una capacità giuridica
speciale di diritto pubblico che si concretizza nell’emanazione di provvedimenti produttivi di effetti giuridici nella
sfera dei destinatari. Essa si aggiunge, integrandola, alla capacità giuridica generale di diritto comune, intesa come
attitudine ad assumere la titolarità delle situazioni giuridiche soggettive attive e passive previste dall’ordinamento,
di cui essi, al pari delle persone giuridiche private, sono dotati. Bisogna fare una distinzione tra potere in astratto
e potere in concreto. La legge definisce gl’elementi costitutivi di ciascun potere (potere in concreto). Ove manchi
la norma attributiva del potere in astratto, si configura un difetto assoluto di attribuzione, che determina la nullità
del provvedimento. Il potere ha il carattere dell’inesauribilità, cioè fin tanto che resta in vigore la norma attributiva,
esso si presta a essere esercitato in una serie indeterminata di situazioni concrete. Ogni qual volta poi si verifica
una situazione di fatto conforme alla fattispecie tipizzata nella norma di conferimento al potere, l’amministrazione
è legittimata a esercitare il potere (potere in concreto o atto di esercizio del potere) e a provvedere così alla cura
dell’interesse pubblico. Oltre che legittimata l’amministrazione è tenuta ad avviare un procedimento che si
conclude con l’emanazione di un atto o provvedimento autoritativo idoneo a incidere unilateralmente nella sfera
giuridica del soggetto destinatario e a porre una disciplina del rapporto che nasce tra il privato e l’amministrazione.
o L’atto e il provvedimento. Nell’ordinamento italiano manca una definizione di atto o provvedimento
amministrativo. Qualche indicazione si può ricavare dalla Costituzione e da alcune leggi generali. In particolare,
l’art. 113 Cost. che stabilisce: “Contro gl’atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela
giurisdizionale” (comma 1); la legge determina quali organi giurisdizionali abbiano il potere di “annullare gli atti
della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge”. Altre disposizioni legislative rilevanti
si ritrovano nella l. 241/1990, integrata poi dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15, che pone una disciplina generale
del procedimento amministrativo e dell’atto amministrativo. Anzitutto, l’art. 1, comma 1-bis, n. 241/1990,
introdotto dalla l. 15/2005, stabilisce che la pubblica amministrazione agisce di regola secondo le norme del diritto
privato “nell’adozione di atti di natura non autoritativa”. Quest’ultimi vanno dunque distinti dagli atti aventi natura
autoritativa, per i quali, invece, vale il regime pubblicistico proprio degli atti amministrativi. Inoltre, l’art. 3 l. n.
241/1990 stabilisce che ogni provvedimento amministrativo deve essere motivato, indicando un elemento
formale tipico degli atti amministrativi che li differenzia dagli atti privati. L’art. 7 prevede che l’avvio del
provvedimento deve essere comunicato “ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a
produrre effetti diretti” e l’art. 21-bis specifica “il provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati acquista
efficacia nei confronti di ciascun destinatario con la comunicazione allo stesso effettuata”. Queste disposizioni
richiamano implicitamente un’altra caratteristica dei provvedimenti e cioè l’autoritarietà (o imperatività) intesa
come attitudine a determinare in modo unilaterale la produzione degli effetti giuridici nei confronti dei terzi. L’atto
amministrativo può essere definito come una manifestazione di volontà, espressa dall’amministrazione titolare
del potere all’esito di un procedimento amministrativo, volta alla cura in concreto di un interesse pubblico e tesa
a produrre in modo unilaterale effetti giuridici nei rapporti esterni con i soggetti destinatari del provvedimento
medesimo (per es. un decreto di espropriazione, un’autorizzazione).
o Il procedimento. Le leggi amministrative attribuiscono alle pubbliche amministrazioni poteri finalizzati alla cura
degli interessi pubblici. L’esercizio del potere avviene secondo il modulo del procedimento amministrativo, cioè
attraverso una sequenza, individuata anch’essa dalla legge, di operazioni e di atti strumentali all’emanazione di un
provvedimento amministrativo produttivo degli effetti giuridici tipici nei rapporti esterni. Il provvedimento ha
diverse funzioni: garantire la partecipazione dei privati all’esercizio del potere attraverso la presentazione di
memorie, di documenti e in taluni casi anche attraverso l’audizione personale, e ciò a tutela dei propri interessi,
che sono suscettibili di essere pregiudicati dall’emissione del provvedimento amministrativo; consentire
all’amministrazione di acquisire informazioni utili ai fini dell’adozione del provvedimento; assicurare il
coordinamento tra le pubbliche amministrazioni.
5. Il potere discrezionale
La discrezionalità costituisce la nozione più caratteristica del diritto amministrativo. Essa è presente anche in altri
ambiti del diritto pubblico. Infatti, si parla di solito di discrezionalità del legislatore e di discrezionalità del giudice. Nel
diritto amministrativo la discrezionalità connota l’essenza stessa dell’amministrazione, cioè della cura in concreto degli
interessi pubblici. Questa attività presuppone che l’apparato titolare del potere abbia la possibilità di scegliere la
soluzione migliore nel caso concreto. La discrezionalità amministrativa consiste nel limite di scelta che la norma rimette
all’amministrazione affinché essa possa individuare, tra quelle consentite, la soluzione migliore per curare nel caso
concreto l’interesse pubblico. La scelta viene fatta attraverso una valutazione comparativa degli interessi pubblici e
privati più importanti, acquisiti nel corso dell’istruttoria procedimentale. Tra questi c’è l’interesse pubblico primario
individuato dalla norma di conferimento del potere e affidato alla cura dell’amministrazione titolare del potere.
Quest’ultima ha il compito di massimizzare la realizzazione dell’interesse primario. L’interesse primario deve essere
messo a confronto e valutato con gli interessi cosiddetti secondari. In alcuni casi sono individuati dalle norme che
disciplinano il particolare tipo di procedimento, in altri vengono fuori nel corso dell’istruttoria. La discrezionalità
amministrativa grava su quattro elementi logicamente distinti:
1. Sull’an, cioè sul se esercitare il potere in una determinata situazione concreta ad emanare il provvedimento.
2. Sul quid, cioè sul contenuto del provvedimento che, all’esito della valutazione degli interessi, pone la regola per il
caso singolo.
3. Sul quomodo, cioè sulle modalità da seguire per l’adozione del provvedimento al di là delle sequenze di atti imposti
dalla legge che disciplina lo specifico provvedimento.
4. Sul quando, cioè sul momento più opportuno per esercitare un potere d’ufficio avviando il procedimento e, una
volta emanato quest’ultimo, per emanare il provvedimento, pur tenendo conto dei termini massimi per la
conclusione del procedimento.
3. b) La cosiddetta imperatività
L’imperatività o autoritarietà consiste nel fatto che la pubblica amministrazione titolare di un potere attribuito dalla
legge può, mediante l’emanazione del provvedimento, imporre al soggetto privato destinatario di quest’ultimo le
proprie determinazioni. Nell’imperatività si manifesta la dimensione verticale (di sovraordinazione) dei rapporti tra
Stato e cittadino che si contrappone a quella orizzontale (di equiordinazione) delle relazioni giuridiche privatistiche. Il
provvedimento è imperativo in quanto ha l’attitudine a modificare in modo unilaterale la sfera giuridica del soggetto
privato destinatario senza che sia necessario acquisire il suo consenso. L'imperatività coincide con l'unilateralità nella
produzione di un effetto giuridico che accomuna ogni atto di esercizio di un potere in senso proprio. L’imperatività del
provvedimento non presuppone la validità del medesimo, cioè la sua piena conformità alla norma attributiva del
potere. Anche l’atto legittimo ha l’attitudine a produrre gli effetti tipici che potranno essere rimossi, insieme al
provvedimento emanato, soltanto ove quest’ultimo venga annullato o in seguito a una sentenza di annullamento
all’esito di un ricorso innanzi al giudice amministrativo o in seguito all’annullamento pronunciato dalla stessa
amministrazione in sede di controllo o nell’esercizio dei poteri di autotutela. Vale cioè il principio di equiparazione
dell’atto invalido all’atto valido. Solo il provvedimento affetto da nullità in base all'art. 21-septies l. n. 241/1990 non
ha carattere imperativo e dunque le situazioni giuridiche soggettive di cui è titolare il soggetto privato destinatario
non sono danneggiate e “resistono” di fronte alla pretesa dell'amministrazione.
4. c) L'esecutorietà e l'efficacia
L'esecutorietà, un'altra caratteristica dei provvedimenti amministrativi, è disciplinata dall'art. 21-ter l. n. 241/1990.
Essa può essere definita come il potere dell'amministrazione di procedere all'esecuzione del provvedimento imposta
per legge in caso di mancata cooperazione da parte del privato obbligato, senza dover prima rivolgersi a un giudice
allo scopo di ottenere l'esecuzione forzata. Come esempio di esecutorietà può essere preso l'ordine di abbattimento
di un edificio abusivo. Se il proprietario dell'immobile non provvede spontaneamente alla riduzione in pristino,
potranno essere gli stessi dipendenti del comune, o un'impresa privata all'occorrenza incaricata a porre in essere le
attività necessarie. Il privato destinatario non è tenuto a collaborare attivamente, ma non potrà opporsi alle attività
esecutive, comportamento che potrebbe rilevare addirittura in sede penale. Quindi mentre l'imperatività opera sul
piano della produzione degli effetti giuridici, l'esecutorietà opera su quello delle attività materiali necessarie per
conformare la realtà di fatto alla situazione di diritto così modificata dal provvedimento amministrativo. Il comma 1
dell'art 21-ter precisa che il potere di imporre coattivamente l'adempimento degli obblighi è attribuito
all'amministrazione solo “nei casi e con le modalità stabiliti dalla legge”. In relazione agli obblighi che nascono per
effetto di un provvedimento amministrativo, quest'ultimo deve indicare il termine e le modalità dell'esecuzione da
parte del soggetto obbligato. Inoltre, l'esecuzione coattiva può avvenire solo precedentemente l'adozione di un atto
di diffida con il quale l'amministrazione intima al privato di porre in essere le attività esecutive già indicate nel
provvedimento, concedendo così al privato un’ultima chance.
In definitiva, in base al comma 1 dell'art. 21-ter l'esecutorietà del provvedimento si concretizza nell'avvio di un
procedimento d'ufficio in contraddittorio con il soggetto privato. Infine, il comma 2 cita in modo specifico l'esecuzione
delle obbligazioni che hanno come oggetto somme di denaro, precisando che ad esse si applicano le disposizioni per
l'esecuzione coattiva dei crediti dello Stato. L'esecutorietà del provvedimento presuppone che il provvedimento
emanato sia efficace e esecutivo. La l. n. 241/1990 dedica due articoli ad essi. Secondo l'art. 21-bis il provvedimento
limitativo della sfera giuridica dei privati acquista efficacia con la comunicazione al destinatario. Da qui viene fuori la
distinzione tra provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei privati e provvedimenti ampliativi della sfera giuridica
dei privati. I primi hanno natura di atti recettizi, perché la loro efficacia è subordinata alla comunicazione
all'interessato. L'esecutività del provvedimento è disciplinata dall'art. 21-quater, secondo il quale i provvedimenti
amministrativi efficaci sono eseguiti immediatamente, salvo che sia diversamente stabilito dalla legge o dal
provvedimento amministrativo. Quindi all'efficacia del provvedimento segue la necessità che esso venga portato
subito ad esecuzione, a seconda dei casi, dalla stessa amministrazione che ha emanato l'atto, oppure dal destinatario
del medesimo là dove il provvedimento faccia sorgere in capo a quest'ultimo un obbligo di dare o di fare.
5. d) L’inoppugnabilità
Un'altra caratteristica è l'inoppugnabilità (o meglio detta incontestabilità), che si ha quando cominciano i termini
previsti per l’esperimento dei rimedi giurisdizionali davanti al giudice amministrativo. In particolare, l’azione di
annullamento del provvedimento va proposta nel termine di decadenza di 60 giorni (art. 29 Codice del processo
amministrativo); l’azione di nullità è soggetta a un termine di 180 giorni; l’azione risarcitoria può essere proposta in
via autonoma (cioè senza la parallela azione di annullamento) nel termine di 120 giorni (art. 31, comma 4, e art. 30,
comma 3, Codice). Per il diritto privato si possono avere termini di prescrizione molto più lunghi. D’altra parte,
l’inoppugnabilità non esclude che l’amministrazione possa mettere in discussione il rapporto giuridico esercitando il
potere di autotutela (annullamento d'ufficio che può essere disposto ai sensi dell'art. 21-nonies l. n. 241/1990 “entro
un termine ragionevole” o revoca ai sensi dell'art. 21quinquies l. n. 241/1990). L’atto amministrativo può diventare
inoppugnabile anche per l’acquiescenza da parte del suo destinatario. Essa consiste in una dichiarazione espressa o
tacita di assenso all’effetto prodotto del provvedimento.
La SCIA ha soltanto la funzione di sollecitare l'amministrazione a verificare se l'attività in questione è adatta alle norme
amministrative e a richiedere nel caso informazioni e chiarimenti. In caso di “accertata carenza dei requisiti e dei
presupposti” previsti dalla legge per lo svolgimento dell'attività l'amministrazione, entro 60 giorni, può richiedere al
privato di adattare l'attività alla normativa vigente entro un termine fissato. Se ciò non avviene, emana un
provvedimento motivato di divieto di prosecuzione dell'attività e di rimozione dei suoi effetti. Quindi le attività
assoggettate al regime della SCIA restano libere. Il campo di applicazione della SCIA non è definito con precisione dalla
legge. L'art. 19, che è inserito nel Capo IV l. n. 241/1990 dedicato alla Semplificazione dell'azione amministrativa, si
limita a porre un criterio generale in base al quale la SCIA sostituisce di diritto ogni tipo di atto autorizzativo “il cui
rilascio dipenda esclusivamente dall'accertamento di requisiti e presupposti richiesti dalla legge”. Un secondo criterio
è che deve trattarsi di atti autorizzativi per i quali non sia previsto alcun limite o contingente complessivo o altri
strumenti di programmazione di settore. Accanto a questi due criteri generali, l'art. 19 prevede alcuni casi di esclusione
quando entrino in gioco interessi pubblici particolarmente rilevanti (ambiente, difesa nazionale ecc.), oppure di atti
autorizzativi imposti dalla normativa europea. Resta peraltro incerta la questione della tutela del terzo che affermi di
subire una lesione nella propria sfera giuridica per effetto dell'avvio dell'attività. Nel caso della SCIA manca un
provvedimento che consenta il ricorso al giudice amministrativo da parte del terzo. Il terzo che desideri contrastare
l'avvio dell'attività deve invitare l'amministrazione a emanare un provvedimento che ne vieti l'avvio o la prosecuzione
e se l'amministrazione non provvede può rivolgersi al giudice per fare accertare l'obbligo di provvedere.
9. Le autorizzazioni e le concessioni
1. L'autorizzazione è l'atto con il quale l'amministrazione rimuove un limite all'esercizio di un diritto soggettivo del
quale è già titolare il soggetto che presenta la domanda. Il suo rilascio presuppone una verifica della conformità
dell'attività ai principi normativi posti a tutela dell'interesse pubblico. Quindi le autorizzazioni danno origine ai
diritti soggettivi il cui esercizio è subordinato a una verifica preventiva del rispetto dei presupposti e dei requisiti
stabiliti dalla legge in relazione all'esigenza di tutela di un interesse pubblico.
2. La concessione è invece l'atto con il quale l'amministrazione attribuisce ex novo o trasferisce la titolarità di un
diritto soggettivo in capo a un soggetto privato. Le concessioni si dividono in due categorie: le concessioni
traslative e le concessioni costitutive. Le prime trasferiscono in capo a un soggetto privato un diritto o un potere
del quale è titolare l'amministrazione (es. concessione di un bene demaniale per l'installazione di uno stabilimento
balneare). Le seconde attribuiscono al soggetto privato un nuovo diritto. (es. un'onorificenza). Per quanto riguarda
l'oggetto, le concessioni sono di varie specie. Ci sono le concessioni di beni pubblici, come i beni demaniali; le
concessioni di servizi pubblici o di attività sottoposte (art. 43 Cost.) a un regime di monopolio legale o di riserva di
attività a favore dello Stato o di enti pubblici; le concessioni di lavoro (es. realizzare una ratta autostradale) o di
servizi assimilati dal Codice dei contratti pubblici e normali contratti.
Infine, fanno parte delle concessioni alcuni tipi di sovvenzioni, sussidi e contributi di denaro pubblico erogati, per
il perseguimento di interessi pubblici (sociali, economici, culturali) alle quali fa riferimento l'art. 12 l. n. 241/1990.
Ci sono figure intermedie di atti autorizzativi, di fatto si dividono in: autorizzazioni costitutive, permissive e ricognitive.
Per quanto riguarda le licenze (caccia, pesca ecc.), esse hanno due caratteristiche: riguardano attività in cui non sono
rinvenibili preesistenti diritti soggettivi dei soggetti privati; il loro rilascio è subordinato a valutazioni di tipo tecnico o
discrezionale o di coerenza con un quadro programmatico che ne comporti la limitazione, previsto per esempio nei
piani commerciali.
La distinzione tra autorizzazioni e concessioni è stata rivalutata in base al diritto europeo, il quale ignora la distinzione
tra diritto soggettivi e interessi legittimi e che tende a considerare in modo unitario gli atti che realizzano forme di
controllo ex ante, sia alla luce del diritto interno. Alla fine, ciò che conta, sia per le autorizzazioni sia per le concessioni,
è che in mancanza di assenso preventivo dell'amministrazione l'attività non può essere intrapresa.
Nei casi in cui il numero delle autorizzazioni deve essere limitato “per ragioni collegate alla scarsità delle risorse naturali
o delle capacità tecniche disponibili” o per altri motivi interpretativi di interesse generale, il loro rilascio deve avvenire
attraverso una procedura di selezione pubblica sulla base di criteri resi pubblici, atti ad assicurare l'imparzialità (art.
16). In conclusione, alla luce dell'evoluzione del diritto europeo e del diritto interno, la distinzione più rilevante in
materia di autorizzazioni e concessioni, è tra atti vincolanti e atti discrezionali. Per le prime l'atto amministrativo è la
fonte diretta dell'effetto giuridico prodotto; nel secondo l'effetto giuridico si ricollega direttamente alla legge, cioè al
verificarsi di un fatto sussumibile nella norma.
11. Altre classificazioni: atti collettivi, atti plurimi, atti di alta amministrazione, atti collegiali
I provvedimenti amministrativi possono essere classificati in base anche ad altri criteri.
1. Il criterio dei destinatari del provvedimento consente di individuare prima di tutto la categoria degli atti
amministrativi generali. Essi si rivolgono, invece che a singoli destinatari, a classi omogenee più o meno ampie di
soggetti. Dagli atti generali vanno tenuti distinti gli atti collettivi e gli atti plurimi. Anche i primi si riferiscono a
categorie, generalmente ristrette, di soggetti considerati in modo unitario, ma che, a differenza degli atti generali,
sono già individuati con precisione individualmente (effetti prodotti dallo scioglimento di un consiglio comunale
nei confronti dei singoli componenti dell'organo collegiale). Invece gli atti plurimi sono atti rivolti anch'essi a una
pluralità di soggetti, ma i loro effetti, a differenza degli atti collettivi, sono scindibili in relazione a ciascun
destinatario. (es. il decreto che approva una graduatoria di vincitori di concorso).
2. Gli atti di alta amministrazione sono venuti fuori quando si è posta la questione di distinguere gli atti amministrativi
dagli atti politici, quest'ultimi non sottoposti a regime del provvedimento amministrativo. Tra di essi rientrano gli
atti che, a differenza di quelli amministrativi, sono liberi nel fine e che sono emanati da un organo costituzionale
(in particolare il governo) nell'esercizio di una funzione di governo.
3. Un altro criterio di distinzione riguarda la provenienza soggettiva del provvedimento. Accanto ai casi in cui il
provvedimento è emanato da un organo competente di tipo monocratico, si pongono i casi in cui il provvedimento
è espressione della volontà di più organi o soggetti e ha quindi natura di atto complesso. Per esempio, il decreto
interministeriale, espressione della volontà paritaria e convergente (con funzione di coordinamento) di più
ministri, o un decreto del presidente della Repubblica che controfirma l'atto del ministro precedente. Ci sono
anche gli atti collegiali in cui il provvedimento è emanato da un organo composto da una pluralità di componenti
designati con vari criteri (elezione, nomina da parte di organi politici). Le delibere assunte dagli organi collegiali
avvengono con modalità procedurali definite negli statuti o nei regolamenti dei singoli enti e amministrazioni.
1. Nel caso di invalidità propria o derivata hanno importanza i vizi dei quali è affetto l'atto. Nel caso di invalidità
derivata, l'invalidità dell'atto deriva per propagazione dell'invalidità di un atto presupposto (es. l'illegittimità di un
bando di gara). L'invalidità derivata può essere di due tipi: ad effetto caducante, e in questo caso travolge in modo
automatico l'atto assunto sulla base dell'atto invalido; a effetto invalidante, e in questo caso l'atto affetto da
invalidità derivata, per quanto a sua volta invalido, conserva i suoi effetti fino a che non venga annullato. L'effetto
caducante si verifica in presenza di un rapporto di stretta casualità tra i due atti: il secondo costituisce una semplice
esecuzione del primo. Invece quando l'atto successivo non costituisce una conseguenza inevitabile del primo, ma
presuppone nuovi e ulteriori apprezzamenti, l'invalidità derivata ha soltanto un effetto viziante, con la
conseguenza che essa deve essere fatta valere attraverso l'impugnazione autonoma di quest'ultimo.
2. Considerando l'invalidità originaria o sopravvenuta trova applicazione nel diritto amministrativo anche il principio
del tempus regit actum, secondo il quale la validità di un provvedimento si determina con riguardo alle norme in
vigore al momento della sua adozione. Si parla di invalidità sopravvenuta dei provvedimenti amministrativi nel
caso di legge retroattiva, di legge di interpretazione autentica e di dichiarazione di illegittimità costituzionale. Nelle
prime due ipotesi, la retroattività della nuova legge rende viziato il provvedimento emanato in base alla norma
abrogata. Nella terza ipotesi, poiché le sentenze di accoglimento Corte Costituzionale hanno efficacia retroattiva,
esse rendono invalidi i provvedimenti assunti sulla base delle norme dichiarate illegittime e ai rapporti giuridici
venuti fori anteriormente, a meno che non si tratti di rapporti esauriti, cioè di fattispecie ormai interamente
realizzate.
Il settore in cui è nata ed è stata più dibattuta la questione dell'espropriazione nel quale si contrappone la cosiddetta
“occupazione usurpativa” alla “occupazione appropriativa”. La prima avviene quando il terreno viene occupato in
carenza di qualsivoglia (in “via di fatto” o in carenza di potere); la seconda quando l'occupazione avviene nell'ambito
di una procedura di espropriazione (a seguito della dichiarazione di pubblica utilità) sebbene illegittima.
L'annullabilità è disciplinata dall'art. 21-octies l. n. 241/1990 e dall'art. 29 Codice. Invece la nullità è disciplinata dall'art.
21-septies l. n. 241/1990 e dall'art. 31, comma 4, Codice che disciplina l'azione di nullità.
13. L'annullabilità
In generale, l'atto amministrativo affetto da incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge viene qualificato
come illegittimo (e quindi soggetto ad annullamento). Invece la l. n. 241/1990 ripercorre la distinzione civilistica tra
nullità e annullabilità. Infatti, l'art. 21-octies fa riferimento a quest'ultima. Mentre l'art. 21-nonies usa ancora la
terminologia “provvedimento amministrativo illegittimo” prevedendo che esso possa essere annullato d'ufficio.
In realtà annullabilità e illegittimità sono vocaboli intercambiabili ma non si può ritenere che tutti gli atti illegittimi
siano annullabili.
Le conseguenze dell'annullamento, cioè il venir meno degli effetti del provvedimento con efficacia retroattiva (ex
tunc), non cambiano in base al tipo di vizio accertato. Comunque, l'annullamento elimina l'atto e i suoi effetti in modo
retroattivo e grava sull'amministrazione l'obbligo di porre in essere tutte le attività necessarie per ripristinare, per
quanto possibile, la situazione di fatto e di diritto in cui si sarebbe trovato il destinatario dell'atto dove quest'ultimo
non fosse stato emanato (c.d. effetto ripristinatorio). Invece ciò che varia in funzione del tipo di vizio è il cosiddetto
effetto conformativo dell'annullamento, cioè il vincolo che nasce in capo all'amministrazione nel momento in cui essa
emana un nuovo provvedimento in sostituzione a quello annullato. Da questo punto di vista la distinzione più notevole
è tra vizi formali e vizi sostanziali. Se il vizio è formale o procedurale, come la mancata acquisizione di un parere
obbligatorio o la rilevazione del vizio di incompetenza, non è da escludere che l'amministrazione possa emanare un
nuovo atto del contenuto identico rispetto a quello dell'atto annullato. Se invece, il vizio è sostanziale, come per
esempio la mancanza di un presupposto o di un requisito posto dalla norma attributiva del potere o un eccesso di
potere per falsificazione dei fatti, l'amministrazione non potrà ripetere l'atto annullato. Per quanto riguardano i profili
processuali, l'art. 29 Codice del processo amministrativo dichiara che contro il provvedimento affetto da violazione di
legge, incompetenza ed eccesso di potere può essere proposta l'azione di annullamento davanti al giudice
amministrativo entro 60 giorni. L'annullabilità non può essere rilevata d'ufficio dal giudice, ma, in base al principio
dispositivo, può essere pronunciata solo in seguito alla domanda proposta nel ricorso che deve indicare anche in modo
specifico i profili di vizio denunciati (motivi di ricorso). Inoltre, l'art. 30 Codice stabilisce che insieme all'azione di
annullamento può essere proposta anche l'azione risarcitoria.
14. a) L'incompetenza
L'incompetenza è un vizio del provvedimento adottato da un organo o da un soggetto diverso da quello indicato dalla
norma attributiva del potere. Quindi si tratta di un vizio che riguarda l'elemento soggettivo dell'atto. Si distingue tra
incompetenza relativa e incompetenza assoluta. La prima si ha quando l'atto viene emanato da un organo che
appartiene alla stessa branca, settore o plesso organizzativo dell'organo titolare del potere, mentre la seconda, che
determina nullità o carenza di potere (difetto di attribuzione), si ha quando esiste un'assoluta estraneità sotto il profilo
soggettivo e funzionale tra l'organo che ha emanato l'atto e quello competente. Sul piano descrittivo il vizio di
incompetenza si divide in: incompetenza per materia, per grado, per territorio.
1. L'incompetenza per materia riguarda la titolarità della funzione (es. le materie urbanistica e commerciale hanno
ambiti di disciplina adiacenti);
2. L'incompetenza per grado si riferisce all'articolazione interna degli organi negli apparati organizzati secondo il
criterio gerarchico (organizzazioni militari o di polizia);
3. L'incompetenza per territorio riguarda gli ambiti in cui gli enti territoriali o le articolazioni periferiche degli apparati
statali possono operare (es. le prefetture di due province adiacenti). Dal punto di vista del regime giuridico, al vizio
di incompetenza non si ritiene applicabile l'art. 21-octies, comma 2. Inoltre, il vizio di incompetenza assume una
priorità rispetto ad altri motivi formulati nel ricorso.
1. Errore o falsificazione dei fatti. Se il provvedimento viene emanato sul presupposto dell'esistenza di un fatto o di
una circostanza che invece risulta inesistente o, viceversa, della non esistenza di un fatto o di una circostanza che
invece risulta esistente viene fuori la figura dell'eccesso di potere per errore di fatto (o anche falsificazione dei
fatti).
2. Difetto di istruttoria. Nella fase istruttoria (d'indagine) del procedimento l'amministrazione è tenuta ad accertare
in modo completo i fatti, ad acquisire gli interessi rilevanti e ogni altro elemento utile per operare una scelta
consapevole e ponderata.
3. Difetto di motivazione. Nella motivazione del provvedimento l'amministrazione deve dar conto all'esito
dell'istruttoria, delle ragioni che sono alla base della scelta operata. Essa deve consentire una verifica del corretto
esercizio del potere, cioè della procedura seguita per pervenire alla determinazione contenuta nel provvedimento,
ricavando la serie degli elementi istruttori rilevanti e operando l'analisi degli interessi. Il difetto di motivazione ha
varie sfaccettature. La motivazione può essere insufficiente, incompleta o generica, se da essa non si manifesta
compiutamente la procedura logica seguita dall'amministrazione e quindi non vengono fuori le ragioni sottostanti
la scelta operata. Inoltre, la motivazione può essere illogica, contraddittoria, o incongrua, quando essa contenga
proposizioni o riferimenti a elementi incompatibili tra loro. Infine, può essere perplessa o dubbiosa dove non
consenta di individuare con precisione il potere che l'amministrazione ha inteso esercitare.
4. Illogicità, irragionevolezza, contraddittorietà. Si è osservato che il diritto amministrativo assume che la pubblica
amministrazione agisca come un soggetto razionale. Quindi, vieni fuori un vizio di eccesso di potere tutte le volte
che il contenuto del provvedimento e le statuizioni dello stesso fanno emergere profili di illogicità o
irragionevolezza, apprezzabili in modo oggettivo in base a regole di esperienza. Una sottospecie di illogicità e
irragionevolezza può essere considerata la contraddittorietà interna al provvedimento. Questa viene fuori se non
c'è consequenzialità tra le premesse del provvedimento e le conclusioni tratte nel dispositivo. La contraddittorietà
può essere anche esterna al provvedimento, cioè essere rilevata dal raffronto tra provvedimento impugnato e altri
provvedimenti precedenti dell'amministrazione che riguardano lo stesso soggetto.
5. Disparità di trattamento. Il principio di coerenza e il principio di eguaglianza impongono anche all'amministrazione
di trattare in modo uguale casi uguali. Il vizio può venir fuori sia nel caso in cui casi uguali siano trattati in modo
diseguali, sia nel caso in cui casi diseguali siano trattati in modo uguale. Per stabilire se le situazioni da confrontare
sono identiche o differenziate va utilizzato il criterio della ragionevolezza. Il vizio di cui si parla emerge spesso nei
giudizi comparativi, nelle progressioni di carriera o nel riconoscimento di altri benefici ai dipendenti pubblici. Per
far sì che sia censurata la disparità di trattamento è necessario che il provvedimento sia discrezionale e che la
comparizione si riferisca a provvedimenti emanati in modo legittimo.
6. Violazione delle circolari e delle norme interne, della prassi amministrativa. L'attività della pubblica
amministrazione deve essere posta in essere non solo in corrispondenza con le disposizioni contenute in leggi,
regolamenti e in altre fonti normative, ma anche in corrispondenza con le norme interne contenute in circolari,
direttive, atti di pianificazione o di altri atti contenenti criteri e principi di vario tipo che hanno come scopo quello
di orientare l'esercizio della discrezionalità da parte dell'organo competente a emanare il provvedimento.
7. Ingiustizia grave e manifesta. In qualche rara occasione la giurisprudenza, per ragioni equitative, si spinge fino al
punto di censurare provvedimenti discrezionali il cui contenuto appaia in modo palese e manifesto ingiusto.
La giustificazione teorica delle figure sintomatiche dell'eccesso di potere è controversa. o Secondo alcune teorie, esse
rilevano essenzialmente come prove indirette dello sviamento di potere e hanno una valenza essenzialmente
processuale. Cioè possono essere ricondotte allo schema civilistico delle presunzioni. o Secondo altre teorie, le figure
sintomatiche hanno ormai raggiunto una completa autonomia dallo sviamento di potere e hanno una valenza
sostanziale, prima ancora che processuale. Cioè esse sono riconducibili a ipotesi di violazione dei principi generali
dell'azione amministrativa e più precisamente dei principi logici e giuridici che dirigono l'esercizio della discrezionalità.
o Di recente le figure sintomatiche sono state qualificate come clausole generali (buona fede, imparzialità) che,
analogamente a quanto accade nelle relazioni giuridiche privatistiche, fanno nascere obblighi comportamentali
nell'ambito del rapporto giuridico amministrativo frapponendosi tra la pubblica amministrazione e il cittadino.
17. La nullità
L'art. 21-septies l. n. 241/1990 prima di tutto individua quattro ipotesi di nullità:
1. La mancanza degli elementi essenziali associa la nullità del provvedimento a quella del contratto (art. 1418, comma
2, cod. civ.), anche se la l. n. 241/1990 non li elenca in modo preciso.
2. Il difetto assoluto di attribuzione corrisponde alla figura dello straripamento di potere che avrebbe potuto
costituire il primo modello dell'eccesso di potere.
3. La violazione o elusione del giudicato si ha quando l'amministrazione in sede di nuovo esercizio del potere in
seguito all'annullamento pronunciato dal giudice con sentenza passata in giudicato emana un nuovo atto che si
pone in contrasto con quest'ultima quando essa ponga un vincolo puntuale e non lasci all'amministrazione alcuno
spazio di valutazione.
4. La quarta ipotesi di nullità si riferisce ai casi in cui la legge qualifica espressamente come nullo un atto
amministrativo (nullità testuale).
Un'ipotesi di nullità prevista per legge riguarda gli atti adottati da organi collegiali scaduti, passato il tempo di 45 giorni
in cui possono comunque essere posti in essere solo gli atti di ordinaria amministrazione (legge 15 luglio 1999, n. 444).
Sul versante processuale, l'art. 31, comma 4, Codice del processo amministrativo introduce un'azione per la
declaratoria della nullità che può essere proposta davanti al giudice amministrativo entro un termine di decadenza
breve (180 giorni) e ciò in relazione all'esigenza di garantire stabilità all'ordine dei rapporti di diritto pubblico. A
differenza di quanto accade per l'annullabilità, la nullità può essere sempre rilevata d'ufficio dal giudice o opposta dalla
parte resistente (pubblica amministrazione).
18. L'annullamento d'ufficio, la convalida, la ratifica, la sanatoria, la conferma, la conversione, la revoca, il recesso
1. L'annullamento d'ufficio. L'annullamento del provvedimento può essere pronunciato oltre che dal giudice
amministrativo in caso di accoglimento del ricorso proposto dal titolare dell'interesse legittimo, anche in altri
contesti e da altri soggetti: dalla stessa amministrazione in sede di esame dei ricorsi amministrativi, dagli organi
amministrativi nominati al controllo di legittimità di alcune categorie di provvedimenti; dal ministro con
riferimento agli atti emanati dai dirigenti ad esso sottoposti; dal Consiglio dei ministri nei confronti di tutti gli atti
degli apparati statali, regionali e locali. Il cosiddetto annullamento straordinario da parte del governo previsto
dalle disposizioni da ultimo citate rientra tra gli atti di alta amministrazione ampiamente discrezionali e persegue
appunto un fine specifico, cioè quello di “tutela dell'unità dell'ordinamento” di fronte al rischio che gli enti
territoriali autonomi assumano determinazioni anomale. Proprio per la sua particolare delicatezza, l'annullamento
straordinario richiede l'acquisizione preventiva di un parere del Consiglio di Stato. Un tale potere, in seguito a una
sentenza della Corte Costituzionale (n. 227/1989) non può essere esercitato nei confronti degli atti delle regioni,
data la particolare posizione costituzionale di cui godono. L'annullamento d'ufficio è disciplinato in termini generali
dall’art. 21-nonies l. n. 241/1990. Per far sì che l'amministrazione possa esercitare in modo legittimo il potere di
annullamento d'ufficio devono esistere quattro presupposti esplicitati dall'art. 21-nonies l. n. 241/1990.
o Il primo è che il provvedimento sia “illegittimo ai sensi dell'art. 21-octies”, e quindi sia affetto da un vizio di
violazione di legge, di incompetenza o di eccesso di potere, ma non si deve ricadere in una delle ipotesi del
comma 2 dell'articolo in questione.
o Devono esistere ragioni di “interesse pubblico”, rimesse alla valutazione dell'amministrazione, che rendano
preferibile la rimozione dell'atto e dei suoi effetti piuttosto che la loro conversazione, pur in presenza di
un'illegittimità accertata. L'interesse astratto al ripristino della legalità violata non è sufficiente, ma
l'amministrazione deve porre a fondamento un altro interesse pubblico che deve essere presente al momento
in cui è disposto l'annullamento d'ufficio.
o L'annullamento d'ufficio richiede un'analisi di tutti gli interessi in gioco che deve essere esplicitata nella
motivazione. Devono essere valutati specificamente, oltre all'interesse pubblico all'annullamento, da un lato
quello del destinatario del provvedimento; dall'altro quello degli eventuali controinteressati.
o Infine, la valutazione discrezionale deve tener presente il fattore temporale. L'annullamento può essere attuato
“entro un termine ragionevole”. Se è passato tanto tempo dall'emanazione del provvedimento illegittimo
prevale tendenzialmente l'interesse a mantenere inalterato lo status quo ante e a tutelare l'affidamento creato.
Invece se l'annullamento rileva immediatamente l'illegittimità del provvedimento emanato l'amministrazione
può procedere all'annullamento d'ufficio senza dover valutare in modo approfondito interessi diversi dal
semplice ripristino della legalità.
2. La convalida. L'art. 21-nonies, in alternativa all'annullamento d'ufficio, prevede che l'amministrazione possa
procedere alla convalida del provvedimento illegittimo, sempre per ragioni di interesse pubblico ed entro un
termine ragionevole. Se la convalida riguarda il vizio di incompetenza si parla di ratifica. Quindi la ratifica riguarda
le ipotesi in cui all'interno di un'amministrazione pubblica può, in base alla legge, esercitare in caso d'urgenza una
competenza attribuita in via ordinaria a un altro organo, che poi è chiamato a far proprio l'atto emanato.
3. La sanatoria. Si parla di sanatoria nei casi in cui l'atto è emanato in mancanza di un presupposto e quest'ultimo si
materializza in un momento successivo, o nei casi in cui un atto della sequenza procedimentale viene posto in
essere dopo il provvedimento conclusivo.
4. La conferma e l'atto confermativo. Ci può essere il caso in cui l'amministrazione arriva alla conclusione che il
provvedimento non è affetto da nessun vizio. In questi casi l'amministrazione emana un provvedimento di
conferma. Nella giurisprudenza si distingue tra conferma, che costituisce un provvedimento amministrativo
autonomo dal contenuto identico di quello oggetto del riesame, e atto semplicemente confermativo. Con
quest'ultimo l'amministrazione si limita a comunicare al privato che chiede il riesame che non ci sono motivi per
riaprire il procedimento e procedere a una nuova valutazione.
5. La conversione. Con riferimento ai provvedimenti affetti da nullità e annullabilità, si ritiene generalmente
applicabile, anche se manca una disposizione legislativa espressa, la conversione, sull'esempio del modello
civilistico (art. 1424 cod. civ.).
6. La revoca. Anche i provvedimenti perfettamente validi ed efficaci possono essere soggetti a un riesame che ha per
oggetto il merito (opportunità), cioè l'adeguatezza all'interesse pubblico dell'assetto degli interessi che vengono
fuori dall'atto emanato. Interviene qui la revoca del provvedimento. Il potere di revoca è considerato come una
manifestazione del potere di autotutela della pubblica amministrazione ammesso da sempre dalla giurisprudenza.
Un caso può essere quello sulle concessioni di illuminazioni a gas rilasciate a livello comunale, revocate dopo la
elettrificazione del Paese. L'art. 21-quinquies l. n. 241/1990 pone una disciplina generale della revoca
precisandone meglio i presupposti e gli effetti. Il comma 1 di tale articolo distingue due tipi: la revoca per
sopravvivenza e la revoca espressione dello jus poenitendi. Quest'ultima riguarda l'ipotesi di “nuova valutazione
dell'interesse pubblico originario”, che si ha nei casi in cui l'amministrazione si rende conto di aver compiuto analisi
errata degli interessi nel momento in cui ha emanato il provvedimento. A differenza dell'annullamento d'ufficio,
che ha efficacia retroattiva (ex tunc), la revoca “determina l'idoneità del provvedimento revocato a produrre
ulteriori effetti” (ex nunc). La revoca ha come oggetto provvedimenti “a efficacia durevole”, per esempio le
concessioni di servizi pubblici. Una novità introdotta dall'art. 21-quinquies per la revoca è la generalizzazione
dell'obbligo di indennizzo nei casi in cui essa “comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati”.
La revoca disciplinata dall'art. 21-quinquies va tenuta distinta dalla cosiddetta revoca sanzionatoria e dal mero
ritiro. La prima può essere posta dall'amministrazione nel caso in cui il privato, destinatario di un provvedimento
amministrativo favorevole, (autorizzazione, concessione ecc.) non rispetti le condizioni e i limiti in esso previsti, o
non intraprenda l'attività oggetto del provvedimento entro il termine previsto. Il mero ritiro ha per oggetto atti
amministrativi che non sono ancora efficaci.
7. Il recesso dai contratti. L'art. 21-sexies l. n. 241/1990 disciplina anche il recesso unilaterale dai contratti della
pubblica amministrazione prevedendo che esso sia ammesso solo “nei casi previsti dalla legge o dal contratto”.
Tra le disposizioni legislative che disciplinano in modo specifico il recesso dai contratti c'è quella in tema di
comunicazioni e certificazioni antimafia che lo prevede nei casi in cui emergano tentativi di infiltrazione mafiosa
(art. 4 d.lgs. 8 agosto 1994, n.490).
CAPITOLO V - Il procedimento
1. Nozione e funzioni del procedimento.
Il procedimento amministrativo può essere definito come la “sequenza di atti e operazioni tra loro collegati
funzionalmente in vista e al servizio dell'atto principale”. Esso è prima di tutto una nozione teorica generale del diritto
collegata alle modalità di produzione di un effetto giuridico. Nello schema già esaminato norma-fatto-effetto, l’effetto
giuridico nasce in collegamento, alcune volte quando si verifica un singolo accadimento (fatto giuridico semplice); a
volte quando si verificano una pluralità di accadimenti (fatti complessi). Il procedimento amministrativo ha diverse
funzioni.
1. Una prima funzione è quella di consentire un controllo sull'esercizio del potere (soprattutto ad opera del giudice),
attraverso una verifica del rispetto della sequenza degli atti e operazioni normativamente predefinite.
2. Una seconda funzione è quella di far venire fuori e dar voce a tutti gli interessi impressi direttamente o
indirettamente dal provvedimento. Ciò sia nell'interesse dell'amministrazione che può così ricoprire gli squilibri
informativi che spesso ci sono nei rapporti con i soggetti privati, sia nell'interesse di questi ultimi che hanno la
possibilità di rappresentare e difendere il proprio punto di vista. La partecipazione ha così una dimensione
collaborativa. Questo avviene soprattutto nei procedimenti di tipo individuale in cui il procedimento determina
effetti verso il destinatario.
3. Una terza funzione è quella del contraddittorio (scritto e a volte anche orale) a favore dei soggetti influiti
negativamente dal provvedimento. Essa riguarda soprattutto i procedimenti individuali, in cui l'amministrazione
esercita un potere che determina effetti restrittivi o limitativi della sfera giuridica del destinatario e il rapporto
giuridico si definisce in termini di contrapposizione, anziché di collaborazione. Il contraddittorio procedimentale
può essere verticale o orizzontale.
4. Una quarta funzione del procedimento è quella di operare da fattore di legittimazione del potere
dell'amministrazione e quindi di promuovere la democraticità dell'ordinamento amministrativo.
5. Infine, il procedimento ha la funzione di attuare il coordinamento tra più amministrazioni, ognuna delle quali deve
curare un interesse pubblico, nei casi in cui un provvedimento amministrativo vada a incidere su una pluralità di
interessi pubblici.
Accanto a modelli di coordinamento debole (il parere obbligatorio), la legislazione amministrativa prevede modelli di
coordinamento più forte (il parere vincolante, l'intesa, ecc.). Quando il coordinamento tra interessi non sia possibile
all'interno del singolo procedimento e l'avvio di un'attività da parte di un privato sia subordinata al rilascio di una
pluralità di atti autorizzativi all'esito di una pluralità di procedimenti autonomi paralleli, il coordinamento può avvenire
con altre modalità (la conferenza dei servizi, l'autorizzazione unica). (Vedi ss.)
3. Le fasi del procedimento La sequenza degli atti e degli adempimenti in cui si articola il procedimento può essere
divisa in varie fasi: l'iniziativa, l'istruttoria, la conclusione.
4. a) L'iniziativa
Prima di tutto bisogna fare una distinzione tra obbligo di procedere e l'obbligo di provvedere. In base al primo,
l'amministrazione competente è tenuta ad aprire il procedimento e a porre in essere le attività previste nella sequenza
procedimentale propedeutiche alla determinazione finale. Il secondo, una volta aperto il procedimento, impone
all'amministrazione di portarlo a conclusione attraverso l'emanazione di un provvedimento espresso. I due obblighi si
deducono dall'art. 2 l. n. 241/1990. Nei procedimenti su istanza di parte, l'atto di iniziativa consiste in una domanda
presentata all'amministrazione da un soggetto privato interessato al rilascio di un provvedimento favorevole. Però
non tutte le domande del privato fa nascere l'obbligo di procedere. Infatti, quest'ultimo nasce solo in base ai
procedimenti amministrativi disciplinati nelle leggi amministrative di settore. In alcuni casi il procedimento è aperto
da pubbliche amministrazioni che formulano proposte all'amministrazione competente. Nei procedimenti d'ufficio,
l'apertura del procedimento avviene da parte della stessa amministrazione competente a emanare il provvedimento
finale. Il problema dei procedimenti d'ufficio è il momento in cui nasce l'obbligo di procedere. Infatti, in molte
situazioni l’apertura formale del procedimento avviene alla fine di attività cosiddette preistruttorie, condotte sempre
d'ufficio, dai quali nascono situazioni di fatto che portano all'esercizio di un potere. Tra le attività preistruttorie va
incluso il potere di ispezione attribuito della legge ad autorità di vigilanza (Banca d'Italia, CONSOB) nei confronti di
soggetti allo scopo di verificare il rispetto delle normative di settore. L'ispezione consiste in una serie di operazioni di
verifica effettuate tramite un soggetto privato delle quali si dà atto in un verbale. L'ispezione può concludersi con la
constatazione che l'attività è conforme alle norme, o può far sorgere fatti che presentano qualche violazione. Solo in
quest'ultimo caso l'amministrazione è tenuta ad aprire un procedimento d'ufficio per constatare la violazione e che
può concludersi con l'adozione di provvedimenti ordinatori o sanzionatori. L'avvio dei procedimenti d'ufficio di tipo
repressivo, inibitorio e sanzionatorio può avvenire anche in seguito a denunce, istanze o esposti di soggetti privati.
L'amministrazione deve comunicare l'avvio del procedimento prima di tutto (e soprattutto) al soggetto o ai soggetti
destinatari diretti del provvedimento, cioè a coloro “nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a
produrre effetti diretti” (art. 7l. n. 241/1990). La comunicazione deve contenere l'indicazione dell'amministrazione
competente, dell'oggetto del procedimento, del nome del responsabile del procedimento, il termine di conclusione
del procedimento e l'ufficio in cui si può prendere visione degli atti (art. 8).
5. b) L'istruttoria
La fase dell'istruttoria del procedimento include le attività poste in essere dall'amministrazione e per essa dal
responsabile del procedimento allo scopo di accertare i fatti e di acquisire gli interessi rilevanti ai fini della
determinazione finale. Uno dei compiti che il responsabile del procedimento deve fare è valutare “le condizioni di
ammissibilità, i requisiti di legittimazione ed i presupposti che siano rilevanti per l'emanazione del provvedimento (art.
6, comma 1, lett. a), l. n. 241/1990). La fase istruttoria è retta dal principio inquisitorio. Infatti, secondo l'art. 6 (v.
sopra), il responsabile del procedimento “accerta d'ufficio i fatti, disponendo il compimento degli atti all'uopo
necessari”. Quindi quest'ultimo compie di propria iniziativa tutte le indagini necessarie per ricostruire in modo esatto
e completo la situazione di fatto, senza essere vincolato alle allegazioni operate da soggetti privati, ciò tenuto conto
che l'esercizio dei poteri avviene per curare interessi pubblici. I poteri, espressione della funzione consultiva, possono
essere obbligatori o facoltativi. I primi sono previsti per legge in base a specifici procedimenti e l’omessa richiesta
determina un vizio procedimentale che rende illegittimo il provvedimento finale. L’amministrazione cui vengono
richiesti deve lasciarli entro un termine di 20 giorni. In caso di ritardo, l’amministrazione titolare della competenza
decisionale può procedere indipendentemente dall’espressione del parere (art. 18, comma 2). Invece i pareri
facoltativi sono richiesti quando l’amministrazione che procede ritenga che possono essere utili ai fini della decisione.
I poteri possono essere, in casi frequenti, oltre che obbligatori anche vincolanti. La tendenza più recente
dell’ordinamento in tema di adempimenti istruttori è di liberare il più possibile i soggetti privati da doveri di
documentazione e di certificazione, imponendo all’amministrazione di acquisire d’ufficio i documenti attestanti atti,
fatti, qualità e stati soggettivi necessari per l’istruttoria (art. 18, comma 2, l. n. 241/1990). Ai privati può essere richiesta
soltanto l’autocertificazione, che consiste nella possibilità per i soggetti privati di dichiarare sotto propria
responsabilità il possesso di determinati stati e qualità. La fase istruttoria è aperta agli aiuti dei soggetti che abbiano
diritto di intervenire e partecipare al procedimento (art. 10 l. n. 241/1990). Quest’ultimi sono i soggetti ai quali
l’amministrazione è tenuta a comunicare l’avvio del procedimento. Hanno facoltà di intervenire anche soggetti
portatori di interessi pubblici o privati, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, ai quali
possa derivare un pregiudizio del provvedimento (art. 9). Dal punto di vista organizzativo l’istruttoria è affidata alla
figura del responsabile del procedimento, assegnato di volta in volta dal dirigente responsabile della struttura subito
dopo l’apertura del procedimento. Il suo nominativo viene comunicato o reso disponibile su richiesta a tutti i soggetti
interessati. (art. 5 l. n. 241/1990). I compiti del responsabile del procedimento sono indicati nell’art. 6 l. n. 241/1990
e includono tutte le attività propedeutiche all’emanazione del provvedimento finale e l’adozione “di ogni misura per
l’adeguato e sollecito svolgimento dell’istruttoria” (lett. b)). Nei procedimenti a istanza di parte il responsabile del
procedimento è tenuto ad attivare una fase supplementare di contraddittorio nei casi in cui l’istruttoria effettuata dà
esito negativo e porterebbe all’adozione di un provvedimento di rigetto dell’istanza (art. 10-bis l. n. 241/1990 aggiunto
dalla l. n. 15/2005).
1. Il provvedimento deve essere emanato entro il termine stabilito per lo specifico procedimento. Prima di tutto l’art.
2 pone l’obbligo a ciascuna pubblica amministrazione di individuare i termini per ciascun procedimento con propri
atti di regolazione e di renderli pubblici. Di regola la durata massima non deve superare i novanta giorni (commi 3
e 4). Se le amministrazioni non stabiliscono un termine, il termine generale è di 30 giorni (comma 2). In definitiva,
la disciplina del termine del procedimento amministrativo posta dall’art. 2 l. n. 241/1990 crea il principio della
certezza del tempo dell’agire amministrativo. Il termine può essere sospeso per un periodo non superiore a 30
giorni in caso di necessità di acquisire informazioni o certificazioni (coma 7). I termini finali hanno di regola natura
ordinatoria, perché la loro scadenza non fa venir meno il potere di provvedere, né rende illegittimo (o nullo) il
provvedimento finale emanato in ritardo. Se non viene rispettato il termine di conclusione del procedimento può
provocare conseguenze di vario tipo, come la nascita di una responsabilità di tipo disciplinare nei confronti del
funzionario o una responsabilità di tipo dirigenziale nei confronti del vertice della struttura (art. 2, comma 9, l. n.
241/1990). Il mancato rispetto del termine può costituire anche motivo per l’esercizio del potere sostitutivo da
parte del dirigente sovraordinato (art. 16, comma 1, lett. e), comma 1, lett. d), d. lgs. 30 marzo 2001, n. 165). Il
potere sostitutivo adesso è disciplinato anche nell’art. 2 l. n. 241/1990 al quale sono stati aggiunti di recente alcuni
commi (d. l. 9 febbraio 2012, n. 5). L’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento
può anche far nascere l’obbligo di risarcire il danno a favore del privato (c.d. danno da ritardo).
2. Può accadere che l’amministrazione non concluda il procedimento entro il termine fissato per legge o stabilito
dall’amministrazione e la situazione di inattività si protragga nel tempo. Così, si pone la questione del silenzio
dell’amministrazione. Fino ad anni recenti il silenzio della pubblica amministrazione di fronte a istanze o domande
presentate da soggetti privati per ottenere un provvedimento favorevole è stato quello del cosiddetto
silenzioinadempimento. In questi casi l’inattività mantenuta oltre il termine assume il significato giuridico di
inadempimento dell’obbligo formale di provvedere posto dall’art. 2 l. n. 241/1990, cioè di concludere il
procedimento con un provvedimento di accoglimento dell’’istanza, o con un provvedimento di rigetto della
medesima. Però gli effetti ricavati dall’azione del privato contro il silenzio-inadempimento non sono molto efficaci.
Quindi per risolvere il problema, nella legislazione amministrativa sono stati introdotti per singole tipologie di
procedimenti due regimi di silenzio cosiddetto significativo, che sono presenti nella l. n. 241/1990: il silenzio-
diniego (o rigetto) e il silenzio-assenso (o accoglimento). Il campo di applicazione del silenzio-assenso definito
dall’art. 20, commi 1 e 3, è individuato in base ad alcuni criteri di tipo negativo. Prima di tutto il regime non vale
nei casi di provvedimenti autorizzativi sostituiti dalla segnalazione certificata d’inizio di attività di cui all’art. 19,
soggetti a un regime di liberalizzazione. Inoltre, non vale per i procedimenti che riguardano un elenco piuttosto
lungo di interessi pubblici (comma 4). Il regime del silenzio-assenso ha alcuni difetti strutturali. Prima di tutto,
siccome esso può applicarsi anche a provvedimento discrezionali, la valutazione di interessi pubblici, di fatto, nei
casi di inattività assoluta dell’amministrazione, non viene operata. Seconda di poi, dal punto di vista del soggetto
privato che ha presentato istanza, il silenzio-assenso non soddisfa compiutamente l’esigenza di certezza in
relazione allo svolgimento di attività sottoposte a controllo pubblico.
3. Gli accordi integrativi e sostitutivi. Il provvedimento espresso emanato in modo unilaterale dall’organo
competente costituisce l’esito normale e più frequente del procedimento amministrativo. Tuttavia, esiste una
modalità alternativa di conclusione del procedimento che la l. n. 241/1990 tende a favorire e cioè l’accordo
integrativo o sostitutivo del provvedimento. In base alla l. n. 241/1990, l’accordo ha per oggetto il contenuto
discrezionale del provvedimento ed è finalizzato a ricercare una miglior composizione e mediazione tra l’interesse
pubblico perseguito dall’amministrazione procedente e l’interesse del privato spesso contrapposto al primo. Gli
accordi sono di due tipi e cioè integrativi o sostitutivi del provvedimento. I primi servono solo a concordare il
contenuto del provvedimento finale che viene emanato successivamente alla stipula dell’accordo e in attuazione
di quest’ultimo. Negli accordi sostitutivi gli effetti giuridici si producono in via diretta con la conclusione
dell’accordo, senza alcuna necessità di un atto formale unilaterale di recepimento.
Un’altra distinzione è tra procedimenti finali e procedimenti strumentali. I primi hanno la funzione di curare interessi
pubblici nei rapporti esterni con i soggetti privati, i secondi hanno una funzione prevalentemente organizzatoria e
riguardano principalmente la gestione del personale e delle risorse finanziarie.
Un’ulteriore distinzione è tra procedimento in senso proprio e procedura interna all’amministrazione. Il primo si
riferisce agli atti della sequenza procedimentale che trovano disciplina nella legge o in una fonte normativa in senso
proprio. Invece la procedura interna riguarda gli atti e gli adempimenti interni dell’amministrazione che sono previsti
da regole di tipo organizzativo o per procedure informali.
1. La conferenza di servizi istruttoria ha la funzione di promuovere un esame contestuale dei vari interessi pubblici
coinvolti in un procedimento singolo (art. 14, comma 1) o in più procedimenti amministrativi collegati riguardanti
le stesse attività o risultati (conferenza di servizi interprocedimentale) (art. 14, comma 3).
2. La conferenza di servizi decisoria sostituisce i singoli atti volitivi e valutativi delle amministrazioni competenti a
emanare “intese, concerti nulla osta o assensi comunque denominati”, che devono essere acquisiti per legge da
parte dell’amministrazione procedente (art. 14, comma 2). Essa è convocata obbligatoriamente se quest’ultima
non riceve i singoli atti entro 30 giorni dalla richiesta oppure quando una delle amministrazioni esprime il proprio
dissenso. La conferenza è convocata dall’amministrazione competente ad adottare il provvedimento finale, anche
su richiesta del soggetto privato interessato, nei casi in cui la conferenza abbia per oggetto atti di tipo autorizzativo
che condizionano l’avvio di una attività (comma 4). La conferenza di servizi si conclude con un verbale in cui sono
riportate le posizioni espresse da ciascuna amministrazione partecipante. I lavori della conferenza dei servizi
decisoria sono disciplinati da una serie di regole, e gli aspetti più rilevanti di questa disciplina sono: il primo riguarda
la partecipazione obbligatoria di tutte le amministrazioni invitate i cui rappresentanti devono essere muniti dei
poteri necessari per assumere determinazioni vincolanti; il secondo riguarda il dissenso manifestato da una o più
amministrazioni partecipanti alla conferenza di servizi.
3. Il terzo tipo di conferenza di servizi è quella preliminare (art. 14-bis) che può essere convocata su richiesta motivata
di soggetti privati interessati a realizzare progetti di particolare complessità o di insediamenti produttivi. Il privato
sottopone uno studio di attuabilità alle amministrazioni competenti a rilasciare gli atti autorizzativi, i pareri e le
intese ancor prima di presentare formalmente le istanze necessarie.
Accanto alla conferenza dei servizi l’ordinamento prevede altre forme di coordinamento.
o Il testo unico sull’ordinamento degli enti locali disciplina uno strumento di coordinamento analogo alla conferenza
di servizi decisoria costituito dall’accordo di programma (art. 34 d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267) promosso, a seconda
dei casi, dal presidente della regione, della provincia o del sindaco. Lo scopo dell’accordo è la definizione e
attuazione di opere, di interventi o di programmi di intervento che coinvolgono una pluralità di amministrazioni.
o La l. n. 241/1990 prevede come strumenti “per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di
interesse comune”, gli accordi tra pubbliche amministrazioni (art. 15). L’oggetto di questo tipo di accordi è definito
in modo generico e quindi consente di coprire un’amplissima gamma di situazioni nelle quali le amministrazioni si
trovino a interagire. o Uno nuovo strumento per attuare un coordinamento tra una pluralità di amministrazioni
competenti ad emanare atti di assenso necessari per lo svolgimento di particolari attività, è la cosiddetta
autorizzazione unica, in cui confluiscono i singoli atti di assenso (es. la costruzione e l’esercizio di impianti di
produzione di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili). o Uno strumento organizzativo concepito per
rendere più agevole il coordinamento e semplificare i rapporti tra amministrazioni e soggetti privati è il cosiddetto
sportello unico, cioè un ufficio istituito con la funzione di far da tramite tra questi ultimi e gli uffici e
amministrazioni competenti a emanare gli atti di assenso, i pareri e le valutazioni di volta in volta necessari.
o Tipo di procedimento: a) l’espropriazione per pubblica utilità. Prima di tutto il Testo unico enuncia il principio di
legalità precisando che l’espropriazione “può essere disposta nei soli casi previsti dalle leggi o dai regolamenti”
(art. 2, comma 1).
Il potere espropriativo è attribuito a tutte le amministrazioni (Stato, regioni, comuni) competenti a realizzare un’opera
pubblica (art. 6). Quindi si parla di potere “diffuso” e accessorio (cioè funzionale alla realizzazione dell’opera).
1. Il vincolo prestabilito all’esproprio genera un collegamento tra l’attività di pianificazione del territorio e il
procedimento espropriativo. Il vincolo può essere posto all’esito delle procedure di pianificazione urbanistiche
ordinarie o speciali o in seguito all’atto di approvazione di un progetto preliminare o definitivo di un’opera
pubblica. Il vincolo ha la durata di 5 anni e deve intervenire la dichiarazione di pubblica utilità entro questo termine
(art. 9, comma 2). Esso costituisce un atto impugnabile davanti al giudice amministrativo in quanto già produttivo
di effetti giuridici nei confronti dei proprietari.
2. Molte leggi ritengono la fase della dichiarazione di pubblica utilità assorbita e inclusa in altri atti. Infatti, in molti
casi la dichiarazione di pubblica utilità è implicita, perché costituisce uno degli effetti automatici prodotti da alcuni
atti come l’approvazione del progetto definitivo di un’opera pubblica, oppure l’approvazione di un piano di
lottizzazione (art. 12). La dichiarazione di pubblica utilità ha un’efficacia temporalmente limitata (5 anni, soggetta
a proroga) (art. 13) e prima della scadenza del termine deve intervenire il decreto di esproprio. La scadenza del
termine provoca l’inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità.
3. Il decreto di esproprio determina il trasferimento del diritto di proprietà del soggetto espropriato al soggetto nel
cui interesse il procedimento è stato avviato. A questo effetto si aggiunge anche l’estinzione automatica di tutti i
diritti reali e personali gravanti sul bene espropriato, escluso quelli compatibili con i fini cui l’espropriazione è
preordinata (art. 24).
4. Il decreto di esproprio deve indicare l’importo dell’indennità determinato provvisoriamente. Non appena sia
divenuta efficace la dichiarazione di pubblica utilità, il promotore della procedura espropriativa formula ai
proprietari un’offerta (art. 20). Quest’ultimi, eventualmente assistiti anche da propri tecnici di fiducia, possono
indicare quale sia il valore da attribuire al bene ai fini della determinazione dell’indennità. L’autorità procedente,
valutate le osservazioni degli interessati, determina provvisoriamente la misura dell’indennità. I privati nei 30
giorni successivi possono comunicare all’autorità espropriativa una dichiarazione irrevocabile di assenso alla
proposta. Se il privato non accetta o sono passati i 30 giorni, l’autorità espropriante emana il decreto di esproprio
e deposita l’indennità provvisoria rifiutata presso la Cassa depositi e prestiti.
Da questo momento in poi il procedimento per la determinazione in via definitiva dell’indennità ha uno svolgimento
autonomo, con un’ulteriore fase di contraddittorio con il privato. Infine, il procedimento prevede l’intervento di una
Commissione provinciale istituita presso l’ufficio tecnico erariale che procede alla determinazione definitiva
dell’indennità (art. 21). Il procedimento di esproprio è espressione di un potere tipicamente unilaterale. Tuttavia,
l’ordinamento tende a favorire soluzioni consensuali attraverso l’istituto della cessione volontaria del bene. Essa è un
diritto soggettivo dell’espropriando nei confronti del beneficiario dell’espropriazione che può essere esercitato fino
alla data in cui è eseguito il decreto di esproprio (art. 45). La vicenda espropriativa può dar vita al fenomeno dei
procedimenti collegati in parallelo. Nel senso che subito dopo la dichiarazione di pubblica utilità, l’amministrazione
può acquisire immediatamente la disponibilità materiale del bene, per iniziare subito i lavori. L’amministrazione può
avviare un procedimento autonomo, quindi parallelo, di occupazione d’urgenza (art. 22-bis).
Questo può avvenire in 3 ipotesi: quando l’amministrazione ritenga che l’avvio dei lavori sia così urgente da non
consentire il perfezionamento del procedimento ordinatorio; in base ai progetti delle grandi opere pubbliche previste
dalla cosiddetta legge obiettivo (legge 21 dicembre 2001, n. 443) per le quali l’urgenza è già accertata per legge;
quando la procedura espropriativa riguardi più di 50 proprietari.
Infine, la retrocessione dei beni espropriati consiste nel diritto del soggetto espropriato di riacquistare la proprietà del
bene nei casi in cui l’opera pubblica non viene realizzata o non tutto il bene espropriato viene utilizzato. La
retrocessione totale può avvenire nei casi in cui l’opera pubblica non sia stata realizzata nel termine di 10 anni
dall’esecuzione del decreto di espropriazione o anche prima quando risulti l’impossibilità della sua esecuzione (art.
46). L’espropriato può richiedere la restituzione integrale del bene e il pagamento di una somma a titolo di indennità.
La retrocessione parziale può essere richiesta per le parti del bene espropriato che non siano state utilizzate una volta
realizzata l’opera pubblica (art. 47). Tuttavia, il comune ha un diritto di prelazione sull’area inutilizzata che può essere
acquisita al patrimonio indisponibile dell’ente territoriale (art. 48, comma 3).
Il procedimento per l’inflizione delle sanzioni di tipo pecuniario è disciplinato dalla legge 24 novembre 1981, n. 689
che distingue più fasi: l’accertamento; la contestazione degli addebiti; l’ordinazione-ingiunzione.
1. La fase di accertamento consiste in un’attività di raccolta e di prima valutazione di elementi di fatto soggetti a
integrare una fattispecie di illecito amministrativo. L’attività pre-procedimentale consiste nell’assunzione di
informazioni, rilievi segnaletici, descrittivi e fotografici, ispezioni di cose e luoghi (diversi dalla dimora privata) e
altre operazioni. Queste attività sono effettuate dagli agenti accertatori individuati elle normative di settore, come
gli agenti e gli ufficiali di polizia giudiziaria e gli organi amministrativi addetti al controllo sull’osservanza delle
disposizioni, per la cui violazione è prevista una sanzione pecuniaria (art. 13). Le attività poste in essere e i risultati
confluiscono in un processo verbale redatto dall’agente accertatore e che vale come prova fino a querela di falso.
2. Se emerge una violazione, l’amministrazione procede alla contestazione dell’illecito al trasgressore. Dove possibile
la contestazione deve essere immediata e in ogni caso deve essere notificata entro 90 giorni dall’accertamento
(art. 14). La contestazione deve presentare in modo chiaro gli elementi che dimostrano in modo chiaro la
violazione. Entro 30 giorni dalla data della contestazione o notificazione della violazione, gli interessati possono
presentare scritti difensivi e documenti. Possono chiedere anche di essere sentiti personalmente dall’autorità
amministrativa (art. 18, comma 1). Entro 60 giorni dalla notificazione l’interessato può procedere all’oblazione,
cioè al pagamento di una somma ridotta.
3. L’autorità procedente, dove ritenga che sia provata la violazione, emana l’ordinanza-ingiunzione, cioè un
provvedimento motivato che determina la somma della sanzione pecuniaria e impone al trasgressore il pagamento
della stessa, insieme alle spese, entro 30 giorni. In caso contrario l’autorità dispone l’archiviazione con ordinanza
motivata comunicata all’organo che ha messo per iscritto il rapporto (art. 18). L’ordinanza-ingiunzione può anche
imporre sanzioni accessorie, come la confisca di cose, il cui uso costituisce violazione amministrativa (art. 20), o la
sospensione di una licenza (art. 21, ultimo comma). Il pagamento deve essere effettuato entro 30 giorni dalla
notificazione del provvedimento.
4. Contro l’ordinanza-ingiunzione può essere proposta opposizione davanti al giudice ordinario entro 30 giorni dalla
notificazione del provvedimento. La l. n. 689/1981 contiene un sistema organico e compiuto di norme sostanziali
e procedurali che è autosufficiente, tale da non chiedere integrazioni esterne da parte della l. n. 24171990. La l. n.
689/1981 costituisce una legge generale in tema di sanzioni amministrative.
Una specie di sanzioni amministrative è costituita dalle sanzioni disciplinari previste prima di tutto per i dipendenti
delle pubbliche amministrazioni, ma anche per altri soggetti sottoposti a regimi speciali e poteri di vigilanza attribuiti
ad apparati pubblici (es. i promotori finanziari vigilati dalla CONSOB).
Il d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, recante Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle pubbliche
amministrazioni, prevede che il dirigente dell’ufficio o, per le sanzioni più gravi, l’ufficio competente per i procedimenti
disciplinari che vengono a conoscenza di comportamenti illeciti di un dipendente pubblico devono contestare per
iscritto l’addebito “senza indugio e comunque non oltre venti giorni” (art. 55-bis, comma 2). Il dipendente è convocato
con un preavviso di 10 giorni per esercitare il proprio diritto di difesa con l’eventuale assistenza di un procuratore o di
un rappresentante di un’associazione sindacale (art. 55-bis, comma 2). Il dipendente può decidere di non presentarsi
e può limitarsi a inviare una memoria scritta. L’amministrazione procede, se necessario, a un’ulteriore attività
istruttoria. Il procedimento si conclude con l’archiviazione o con l’inflizione della sanzione (rimprovero scritto,
licenziamento, sospensione temporanea del servizio), entro 60 giorni dalla contestazione dell’addebito. 11. c) Le
autorizzazioni. Il permesso a costruire La direttiva 2006/123/CE pone il principio secondo il quale le procedure e le
formalità per l’accesso a un’attività di servizi devono essere “sufficientemente semplici” (art. 5). Gli stati membri
devono istituire sportelli unici presso i quali gli interessati possono eseguire tutte le procedure (art. 6) e acquisire tutte
le informazioni (art. 7). Un esempio di procedimento autorizzatorio disciplinato dal diritto interno è quello relativo al
rilascio del permesso a costruire disciplinato dal Testo unico in materia edilizia approvato con d.p.r. 6 giugno 2001, n.
380 (art. 20). Il procedimento inizia con la presentazione allo sportello unico per l’edilizia del comune di una domanda
sottoscritta, di regola, dal proprietario. Entro 10 giorni lo sportello unico comunica al richiedente il nominativo del
responsabile del procedimento. Quest’ultimo cura l’istruttoria acquisendo i pareri degli uffici comunali, nonché altri
pareri come quello dell’Azienda sanitaria locale e dei vigili del fuoco. All’esito dell’istruttoria, entro 60 giorni dalla
presentazione della domanda, il responsabile del procedimento formula una proposta al dirigente del servizio che nei
successivi 15 giorni rilascia il permesso a costruire. Passati tali termini “si intende formato il silenzio-rifiuto” (art. 20,
comma 9). L’interessato può a questo punto proporre un ricorso in sede giurisdizionale.
Un caso importante di differimento previsto per legge riguarda l’accesso ai documenti nei procedimenti per
l’affidamento di contratti pubblici, in relazione all’esigenza di non compromettere la regolarità della procedura. Infatti,
l’art. 13 Codice dei contratti pubblici vieta l’accesso all’elenco dei soggetti che hanno presentato l’offerta fino alla
scadenza del termine per la presentazione delle offerte.
Contro il diniego espresso o tacito dell’accesso (anche differimento) può essere proposto un ricorso giurisdizionale
entro 30 giorni davanti al giudice amministrativo. In alternativa al ricorso giurisdizionale, la l. n. 241/1990 prevede un
ricorso di tipo amministrativo attuabile, a seconda dei casi, davanti al difensore civico o alla Commissione per l’accesso
ai documenti amministrativi istituita presso la presidenza del Consiglio dei ministri (art. 25, comma4, e art. 27) che si
devono pronunciare entro 30 giorni. Finito questo termine, il ricorso si intende respinto e può essere proposto ricorso
in sede giurisdizionale.
Bisogna distinguere l’illecito riferito a semplici comportamenti degli agenti della pubblica amministrazione e illeciti
conseguenti l’emanazione di provvedimenti amministrativi. Quest’ultimo rientra nella categoria di danni conseguenti
a un incidente stradale causato da un automezzo militare; quelli subiti da uno scolaro non sorvegliato adeguatamente
dall’insegnante, ecc.
La condotta illecita deve essere imputabile all’agente in base all’art. 2046 cod. civ., che esclude che l’imputabilità in
caso di incapacità di intendere e di volere al momento in cui la condotta è stata posta in essere. Inoltre, deve essere
riferibile all’amministrazione in base al rapporto di immedesimazione organica. Quest’ultimo può spezzarsi solo nei
casi in cui il dipendente agisce per scopi personali ed egoistici al di fuori dei propri doveri. Cioè affinché nasca la
responsabilità occorre un legame di “occasionalità necessaria” tra attività illecita e mansioni del dipendente e a questo
scopo occorre verificare se il comportamento colposo o anche doloso sia comunque riconducibile a un interesse
dell’amministrazione. Analizzando il requisito della colpa bisogna soffermarsi sul rapporto tra colpa e discrezionalità.
La giurisprudenza afferma il principio secondo cui il potere discrezionale dell’amministrazione incontra un limite, non
soltanto nelle disposizioni di legge e di regolamento che stabiliscono determinate modalità di comportamento, ma
anche nelle comuni regole di diligenza e prudenza.
Sotto il profilo processuale, la responsabilità amministrativa viene accertata in un giudizio davanti alla Corte dei conti.
L’iniziativa processuale spetta alla Procura regionale della Corte dei conti competente. La Procura agisce d’ufficio o
anche su denunzia dei direttori generali e dei capi di servizio che vengono a conoscenza di fatti soggetti a costituire un
illecito erariale (art. 53 testo unico Corte dei conti).