Luisa e Il Silenzio - Claudio Piersanti
Luisa e Il Silenzio - Claudio Piersanti
Luisa e Il Silenzio - Claudio Piersanti
1.
Quando la radiosveglia si accese stava sognando una lunga scala sospesa nel vuoto. Erano le sei
in punto. Luisa aprì gli occhi e per qualche secondo continuò a vedere la scala che aveva salito per
ore. Era la scala interna di un palazzo senza pareti e solai, dove letti, bagni e cucine ondeggia‐vano
sulla voragine nera. Tutti gli appartamenti erano abitati e la vita scorreva quasi normale. Ricordava
bene l’espressione seccata di una madre che richiamava di continuo i suoi tre figli, felici di
volteggiare come scimmie tra una trave e l'altra. State fermi, ripeteva come in un ritornello,
altrimenti cadrete di sotto, state fermi! Un sogno assurdo pieno di vertigini e complicazioni già
dimenticate, ma per niente sgradevole. Lei ci viveva con qualcuno, nel palazzo delle vertigini. Ma con
chi? Aveva gli occhiali da sole a specchio come quelli di Renata, non ricordava altro.
Accese la luce e indossò in fretta la vestaglia di lana. Fuori era buio pesto e Taria sapeva di gelo.
I termosifoni li avrebbero accesi alle sei e mezzo, troppo tardi per lei che abitava al quarto piano. Gli
inquilini della mansarda si lamentavano perché casa loro non si scaldava prima delle nove. I soliti
inconvenienti dei vecchi impianti centralizzati. Per fortuna le stufette elettriche ci mettevano cinque
minuti a rendere frequentabili il bagno e la cucina.
Andò a prepararsi il caffé e accese la radio. Poi tolse il telo dalla gabbia del canarino e aspettò il
primo tepore accanto alla fiamma azzurrognola della caffettiera, che certo non la scaldava ma le
faceva compagnia. Dalla finestrella della cucina poteva vedere un lungo tratto del viale illuminato dai
lampioni sospesi, l'edicola già aperta circondata da pacchi di giornali ancora da disfare e, in pane,
l'ingresso del bar. Attorno alle luci si addensava in grandi aloni l'umidità della notte e sui marciapiedi
occhieggiavano larghe bave di gelo che i passanti imbacuccati evitavano con cura. C'era un mucchio
di gente che si svegliava prima di lei, non poteva lamentarsi. Inoltre quella settimana era il turno di
Walter e non doveva tirare fuori la macchina dal garage. Anche se avrebbe guidato lui si sentì in
dovere di controllare la densità della nebbia. Accostandosi al vetro riuscì a distinguere abbastanza
bene i rami nudi degli ippocastani che svettavano sui cancelli dei giardini pubblici. Una nebbia
leggera per la stagione.
Il caffè venne su col solito gorgoglìo allegro, e mentre lo versava iniziò il giornale radio. Sua
madre diceva che la prima ora dopo il risveglio è la più bella del giorno e aveva ragione. L'aveva
sperimentato da ragazza: valeva più quell'ora di studio che un pomeriggio intero. Mangiò quattro
biscotti, vuotò la tazza, e accese la sua prima Multifìlter. Il pacchetto che aveva appena aperto le
sarebbe bastato esattamente due giorni, se qualcuno in ufficio non dimenticava di comprarsele. Le
notizie del mattino erano cattive, due guerre almeno e i soliti terribili incidenti stradali. Alla fine del
notiziario, dopo una sigla squillante che le piaceva, intervistarono un attore italiano che aveva avuto
successo in America e rispondeva al telefono da Los Angeles. Cosa significava davvero, nella vita di
un uomo, andarsene a passeggio per Los Angeles, salire in una suite al centesimo piano e ammirare
la città illuminata ai suoi piedi, e pensare che nei televisori di tutte quelle case appariva spesso la sua
bella faccia allegra? Soltanto a qualcuno, e sono pochissimi, tocca una vita straordinaria, tutti gli altri
devono accontentarsi di quella che hanno. Luisa non soffriva d'invidia, non ne aveva mai sofferto.
Molte sofferenze non le erano state risparmiate ma non si considerava
più sfortunata degli altri. Aveva la sua radio, la sua sigaretta, e cominciava a diffondersi un bel
tepore. Niente lasciava presagire che sarebbe stato un giorno diverso dagli altri.
Con la vestaglia finalmente aperta sul pigiama da uomo, e con la radio sotto braccio e la
sigaretta in bocca, andò canticchiando verso la doccia. Il bagno era piccolo e la stufetta lo riscaldava
perfettamente. Ogni mattina si stupiva di come riusciva a passare dal freddo intenso del risveglio al
momento della doccia. Scendeva dal letto convinta di doverla evitare e invece la faceva sempre
volentieri. Una doccia breve, di cinque minuti appena, che però era il suo ingresso ufficiale nella
giornata. Dopo la doccia si pettinò e si truccò in fretta, con pochi gesti automatici. Si concentrò
soltanto sulla linea del rossetto, che doveva seguire esattamente i contorni delle labbra. Andava
orgogliosa della sua bocca ben disegnata, paragonabile addirittura a quella bellissima di sua madre.
Per il resto non si considerava né bella né brutta e invecchiare non la cambiava di molto. Aveva
sessantanni ma quando era in forma non li dimostrava. L'unico vero segno di vecchiaia era un neo
oblungo che le era cresciuto negli ultimi mesi all'altezza della clavicola. Ne vedeva spesso di simili, e
ben più deturpanti, sui nasi e sulle facce delle persone di una certa età. Il suo almeno poteva
nasconderlo.
Scelse un abito senza pensarci troppo e cominciò a vestirsi. I suoi vestiti erano tutti abbastanza
eleganti e sempre ben stirati, anche se al lavoro li nascondeva sotto il camice. I primi anni l'aveva
odiato, quel camice azzurro, forse perché dovevano portarlo soltanto le impiegate e i magazzinieri, i
livelli più bassi dell'azienda. Poi aveva cominciato ad apprezzarlo, un po' per le sue ampie tasche e un
po' perché proteggeva i vestiti. Ora che non era più obbligata a portarlo lo trovava addirittura
elegante. Aveva preso il vezzo di tenere il colletto un po' alzato, e quando percorreva i corridoi
infilava le mani nelle tasche del camice e giocherellava con le sigarette e l'accendino. Si immaginò di
camminare così e le venne voglia di essere già in ufficio: ricordava tutti i lavori lasciati in sospeso e
anche la lista di quelli che l'aspettavano nel pomeriggio. Niente di speciale, era un periodo tranquillo.
Doveva affrettarsi se voleva bere un cappuccino al bar. Finì di vestirsi, si ricontrollò velocemente allo
specchio, e decise di mettere la pelliccia anche se non le piaceva più come le stava. Il cappello di lana
e i guanti li indossò in ascensore: l'ombrellino pieghevole si era rifiutato di entrare per intero nella
borsetta e lei aveva deciso di infìschiarsene.
Come al solito fu la prima a uscire dal suo palazzo. Il freddo le gelò subito la faccia e le gambe, e
sulle lenti degli occhiali si depositarono migliaia di minuscole gocce di nebbia gelata. Attraversò il
viale ed entrò spedita nel bar. C'erano sette, otto persone, che sembravano molte di più per via delle
enormi giacche a vento e dei cappotti di montone. Asciugò gli occhiali con un tovagliolo di carta e
bevve il suo cappuccino tiepido tutto d'un fiato.
"Sto facendo tardi" disse al barista, che le rispose con le solite considerazioni sulla fretta.
Non era così tardi, aveva la mania della puntualità e sapeva che Walter si sarebbe trovato in
difficoltà all'incrocio dove avevano appuntamento. I vigili sopportavano a stento che accostasse
giusto il tempo di farla salire, e se erano di cattivo umore fischiavano furibondi e alzando il loro
guanto fosforescente li cacciavano senza pietà, come se fosse casa loro, quell'incrocio!
Faceva da anni lo stesso tratto di strada a piedi ma ogni volta lo trovava meno breve di come lo
ricordava. Cominciava camminando piano e poi senza accorgersene allungava il passo e arrivava al
semaforo quasi di corsa, con i polpacci indolenziti e il fiatone. Al semaforo, dove il suo viale incrocia‐
va un viale più grande, c'era una certa animazione: alcuni passanti con borse e valige pestavano i
piedi e fissavano l'Alt come un nemico.
Walter non era ancora arrivato: erano le sette e un quarto, rischiava davvero di fare tardi.
Una ragazza in giacca di pelle e minigonna nera stava lavando le vetrine ancora buie di una
banca. Non era carina ma gli uomini le lanciavano lo stesso lunghe occhiate vogliose. Due ragazzi
fecero addirittura un commento piccante. Gli uomini non capiscono niente di bellezza femminile;
quando poi sono giovani guardano le più carine soltanto per caso. Hanno in classe delle ragazze
deliziose e sgomitano come cretini davanti a due gambe storte coperte da una calza a rete.
Walter non si vedeva. Eppure non c'era tanto traffico. Gli autobus, sporchi di fango fino ai vetri,
portavano centinaia di persone stipate verso le periferie industriali, e in quel punto acceleravano per
immettersi nella corsia centrale. C'era un solo vigile, quello alto dalla faccia severa, ma se ne stava
tranquillo nel suo angolo, giocava col fischietto e azionava svogliato i pulsanti dei semafori.
Alle sette e venticinque Luisa cominciò a preoccuparsi. Ancora un minuto e sarebbe stato
ritardo certo. Bloccata lì, con la sua macchina chiusa in garage a non più di duecento metri. Decise di
tornare indietro ma le sue gambe non obbedirono, anzi il suo contegno si fece più pacato, non
lasciava trasparire la minima ansia, il minimo desiderio di un altro posto che non fosse quello. Lo
stesso temperamento orgoglioso di sua madre.
Walter arrivò alle sette e ventotto. Si guardarono attraverso i pedoni che li dividevano e lei capì
subito cos'era successo perché Walter indicava la faccia desolata di Giancarlo, in ritardo per la terza
volta nel giro di un mese. Quando Annarita andava ancora con loro era più spesso lei la causa dei
ritardi. Per fortuna aveva deciso di andare sempre da sola, almeno d'inverno.
Mentre le aprivano la portiera, e Giancarlo, contorcendosi, tirava indietro il suo sedile per farla
salire al volo, Luisa pensò che quella era la sua famiglia, le persone che vedeva di più e che
conosceva meglio: Walter, suo collega da vent'anni, Giancarlo, Renata, forse Annarita. Non era
arrabbiata per il ritardo, in fondo minimo, anzi rideva, perché Giancarlo faceva il buffone e
confessava di essere una merda, e voleva tagliarsi le vene o andare in pensione. Giancarlo era un bel
ragazzo di ventisei anni. Anche se era biondo aveva una barba ispida e dura come quella di un moro,
e se ne faceva un problema perché contrastava con i lineamenti delicati del viso. La tagliava tre volte
alla settimana, e quel mattino l'aveva tagliata. Il suo dopobarba troppo speziato suscitò le consuete
proteste di Luisa, che pretese di aprire un po' i finestrini. Si scambiarono battute sulla frivolezza di
uomini e donne finché non uscirono di città. Sulla tangenziale c'era già traffico, soprattutto nella
direzione opposta alla loro, dove una lunga scia di fari se ne stava rassegnata e immobile, in assoluto
silenzio, mentre nuvole leggere di nebbia salivano dalla campagna e avvolgevano le luci
dell'illuminazione stradale.
"Oh che cuccagna!" esclamò Walter, e senza bisogno di chiedere permesso accese la radio,
sintonizzata su una stazione locale che trasmetteva musica tranquilla, ottima per guidare o come
sottofondo discreto ai lavori domestici. Di solito nel quarto d'ora che passavano in tangenziale non
parlavano: la guida era più impegnativa, e i rari commenti riguardavano il traffico, che andando
avanti si infittiva. Uno stupido tamponamento, oppure uno di quegli inspiegabili ingorghi alla loro
uscita, che era l'ultima prima dell'ingresso in autostrada, potevano costare ore di stipendio e di
cattivo umore. Anche per questo non parlavano, scrutavano con ansia l'evoluzione di ogni
rallentamento e tiravano un sospiro di sollievo quando la macchina riprendeva velocità. Qualche
volta Giancarlo usava il cronometro che aveva avuto in regalo per un compleanno e si divertiva a
prendere i tempi. Quel giorno, con poco traffico e poca nebbia, uscirono dalla tangenziale dopo
quattordici minuti e dieci secondi. In fondo alla rampa trovarono il semaforo verde, così
imboccarono a gran velocità la stradina che costeggiava il canale, una scorciatoia che faceva
risparmiare almeno cinque minuti. A un certo punto si doveva attraversare un paesino di poche case,
una piazzetta minuscola attorno a una brutta fontana di cemento e un semaforo che Walter
detestava.
Luisa notò una finestra spalancata, e un uomo calvo o rasato a zero che, con la sigaretta in
bocca e le braccia conserte, guardava il panorama di arbusti e di nebbia grigiastra. Non doveva avere
più di quarantanni e le era sembrato un uomo bellissimo. Forse era un cantante di qualche gruppo
moderno, che aveva appena finito di esibirsi in un locale dalle parti dell'università e stava per
andarsene a dormire. Walter e Giancarlo si erano messi a parlare di calcio e continuarono fino alla
fabbrica.
Timbrarono il cartellino alle sette e cinquanta. L'ingresso principale, quello di rappresentanza e
per i dirigenti, era ancora chiuso. La guida rossa che saliva le scale era pretenziosa e del tutto fuori
luogo. Luisa la scrutava ogni mattina con profondo ribrezzo. La loro sarebbe stata una fabbrica più
che decorosa senza quella stupida guida rossa che la umiliava. Il vecchio non lo capiva, gli piaceva
troppo salire imperioso la sua scala. Le faceva pena, povero vecchio, forse non era di animo buono
ma poteva vantarsi di non avere mai licenziato uno dei suoi operai. I più anziani erano in pensione da
tempo. Che c'era di male se gli piaceva salire le scale a petto in fuori come un ammiraglio? Era
vecchio, e la sua vita si poteva definire riuscita. Nello spogliatoio, dove indossò il camice, continuò a
pensare al suo capo. Se lo ricordò quando si era messo a piangere davanti a lei perché la moglie era
stata operata e non gli avevano lasciato molte speranze. Le aveva confidato tutto come a un'amica,
senza vergognarsi delle lacrime, le aveva raccontato del loro arrivo dal Veneto quasi sessantanni
prima, della sua storica decisione di stabilirsi lì, e anche dei figli, del piccolo che avevano perduto. Lei
non era riuscita a dirgli niente, era rimasta impalata davanti a lui con i suoi tabulati tra le braccia. Per
un attimo le ritornò la commozione di quel giorno e si diede della stupida. La moglie del vecchio alla
fine si era salvata e lei, che invece aveva perso tutti i suoi familiari senza misericordia e senza nnvii, si
commuoveva per un vecchio fortunato e carico di quattrini! Accanto allo spogliatoio delle donne
c'era la sala del campionario. Giochi e scatole giacevano su lunghi scaffali, immersi in un disgustoso
odore di plastica. Nella penombra i giocattoli davano malinconia e lei aveva imparato a non guardarli
troppo: la scatola del topo Virgilio, le automobiline acrobatiche, le serie infinite di pupazzetti da
montare destinati alle uova di cioccolata e ai biscotti, gli scaffali metallici impolverati, le pile di
puzzle, le annate degli album di figurine, i vecchi tubi di neon. Quella stanza per lei era l'obitorio
della fabbrica.
L'ultima novità era una catapulta gialla e rossa made in Taiwan. Lanciava palline di gomma
pesante che sarebbero sparite per sempre sotto i mobili di migliaia di case. Alla Giochi intelligenti
SpA costava mille lire, ma il prezzo finale si sarebbe aggirato sulle quindicimila e a pensarci sembrava
una truffa; se ci pensava e guardava la faccia dei dirigenti le sembrava di lavorare per dei farabutti e
quindi di esserlo anche lei, che in piccolo partecipava agli utili della ditta. Cento adulti, settanta
operai autisti compresi, sette dirigenti e ventitré impiegati, che vivevano e lavoravano con
giocattolini da due soldi, e in questo modo partecipavano all'andamento dell'economia e della città,
e forse del mondo intero. Dov'è il motore di tutto, dove sarà mai il cuore che dà energia a tutte le
cose? Se lo chiedeva da tanti anni e non aveva mai trovato una risposta. Il mondo, per Luisa, restava
un grande mistero.
Attraversò il salone a testa bassa ed entrò nella zona degli uffici. Le segretarie delle vendite
finsero di non vederla ma lei non se la prese, erano soltanto due oche che passavano il tempo a farsi
le unghie. La terzultima porta in fondo al corridoio era la sua: se si sbrigava poteva evitare di essere
vista dai colleghi che prendevano il caffè dietro il paravento di legno, e che l'avrebbero costretta a
berne uno con loro. Lo ripeteva da anni che lei il caffè voleva berlo più tardi, che ne aveva già presi
due, ma alla fine si ritrovava il bicchierino di plastica in mano e in bocca una sigaretta proibita che le
pesava come un peccato. A quell'ora non aveva voglia di parlare, preferiva aspettare le otto
leggendo la pagina locale del giornale seduta sulla sua vecchia poltroncina girevole. Le piaceva
allungare le gambe sotto la scrivania, appoggiare bene la schiena, e sprofondare cinque minuti nei
fatti di cronaca, in strazianti incidenti stradali o in sanguinose liti familiari. Il muratore F.G. che
pistola in pugno aveva fatto irruzione in casa di E.N., sua ex convivente, e l'aveva obbligata a
chiamare il suo attuale compagno... la prognosi era riservata per entrambi... Rapina alla gioielleria
Federici... Pinze chirurgiche rinvenute nella pancia di un geometra... Poveraccio quanto avrà
sofferto. Forbici taglienti nella pancia, assassini! Le dispiaceva per le vittime, leggendo solidarizzava
con loro, però doveva ammettere che si rilassava. Non se ne faceva una colpa. Invecchiando aveva
imparato a trasformare il male in un argomento di conversazione, come quando parlava con Walter
delle analisi del sangue e degli infiniti problemi renali che lo affliggevano.
Alle otto in punto passò il capo del personale, un ragazzo di trent'anni che non aveva neppure il
coraggio di guardarla. Il vestitello grigio troppo grande, le mani allacciate dietro la schiena, l'aria
goffa da timido che cerca di apparire severo. Quando passava, il ragazzo delle spedizioni faceva un
gestaccio col dito, ma non faceva più ridere nessuno.
2.
Quella mattina i dirigenti e il commendatore avevano un'importante riunione con i capiarea e ci
fu un continuo viavai di segretarie con foglietti e vassoi di caffè sin dalle nove. Quando lasciavano la
porta socchiusa anche Luisa poteva dare un'occhiata attraverso la sua parete di vetro e vedere le
espressioni affaticate di quattro uomini in maniche di camicia, uno con le mani tra i capelli che
scrutava i suoi fogli, un altro che allungava il braccio grosso da ex contadino e faceva di no col dito
tozzo ma ben curato in direzione di qualcuno che non si vedeva, due che parlottavano tra loro e
sicuramente facevano commenti sulle segretarie perché avevano entrambi le palpebre un po' chiuse
come fanno gli uomini che parlano dei sederi delle donne. Sarebbero restati chiusi lì dentro almeno
fino ali una e trenta, poi sarebbero andati a pranzo in centro, dal solito Franco, per tornare soltanto
verso le quattro, un po' alticci e sghignazzanti, il vecchio allegro davanti a tutti, col sigaro puzzolente
e l'alito che sapeva di grappa, e subito dietro il figlio, detto "il dottorino" anche se ormai si avviava ai
cinquanta, ridacchiarne vicino al padre ma sotto sotto depresso come sempre. Bella vita, quella del
dirigente, e senza parlare degli stipendi e degli extra. Comodo restare al lavoro fino alle otto di sera e
rincasare quando in tangenziale non ce più traffico, soprattutto se al mattino si può arrivare alle
dieci o anche più tardi. Sono quelle due ore che fanno la differenza.
La mattina si faceva sempre più grigia. Le luci al neon erano accese in tutte le stanze e già le
bruciavano gli occhi. Almeno da mezz'ora non passava nessuno nel viale d'accesso alle fabbriche:
adesso finalmente stava arrivando un fattorino imbacuccato, con una scatola legata sul portapacchi
del motorino. Luisa lo fissò a lungo, presa da un'insolita preoccupazione materna per quel ragazzo
che andava in giro col freddo e la strada bagnata, e solo per portare un'agenda o un'altra
stupidaggine natalizia. Di solito i ragazzi non le piacevano, quello invece la inteneriva. Forse perché
stava lavorando. Per fortuna uno dei farabutti della Carrozzeria Moderna gli era andato incontro e il
ragazzo era risalito sul motorino, che per non perdere tempo aveva lasciato acceso. L'avrebbe
guardato volentieri fino alla curva ma si accorse che Renata aveva interrotto anche lei il lavoro al
computer e la stava fissando intenerita, col suo solito sorriso a bocca aperta che aveva imparato da
bambina e che da grande la faceva sembrare un po' tonta. D viso rotondo di Renata aveva soltanto
due espressioni: poteva essere molto triste o molto allegro, non conosceva sfumature. Quando era
allegra, e apriva la bocca carnosa da bambola, apparivano i suoi denti rovinati dalle caramelle che
mangiava di continuo per fumare poco, e quindi anche ridendo non trasmetteva allegria ma
tristezza, e nessuno la frequentava volentieri. I colleghi le erano grati per i mille favori che elargiva in
tutti i reparti ma nessuno si spingeva mai oltre un cordiale saluto attraverso il vetro mentre
andavano alla macchinetta del caffè.
"Non ce la facciamo più, per stamattina" disse facendo la vocina da bimba prima che Luisa fosse
di nuovo troppo concentrata sullo schermo.
"Se partiamo così non arriveremo mai" le rispose Luisa riprendendo il lavoro. Era stata brusca,
dopo un minuto se ne dispiacque e aggiunse: "Le hai già passate le somme della cartella rosa?".
"Signorasì, finite da un pezzo."
Luisa lo sapeva ma finse di esserne sorpresa e annunciò che le avrebbe offerto il caffè. Si
accesero una sigaretta, una delle due che avevano deciso di concedersi fino all'ora di pranzo, e
sprofondarono nel lavoro e nelle solite fantasie. Nei momenti di pausa Renata si preoccupava in
silenzio per i suoi due figli, contava i compiti in classe falliti, le cattive compagnie, le polpette già
pronte nel surgelatore, le camicie che doveva comprare alle svendite. I pensieri abituali di Luisa non
si allontanavano mai troppo dal suo presente, soprattutto quando era in ufficio. In quel momento si
fermarono proprio lì accanto perché cominciò a pensare a Renata, l'unica impiegata che dipendeva
direttamente da lei e che adesso la faceva sentire in colpa. Arrivando l'aveva salutata appena ed era
sprofondata nella lettura del giornale. Si comportava con lei come tutti gli altri, insomma la
dimenticava, e Renata se ne accorgeva e ne soffriva, moltiplicava le sue affettuosità, lavorava di più
e con maggiore attenzione. In fondo non era stupida, un cuore buono non è mai stupido, e a volte
parlava bene, era informata, conosceva i cantanti, gli uomini politici, i giornalisti della televisione. Ma
parlava troppo, e spesso con la vocina di una signorinella di dieci anni. Cercava anche di sorridere,
come una bambina, e con quei denti neri dava il colpo di grazia. Doveva trovare il modo di
correggerla, erano cinque anni che ci pensava, da quando l'avevano messa nel suo ufficio. Se ti
mancano i soldi per il dentista te li presto io, avrebbe voluto dirle, ma sapeva che non era quello il
problema. Bastava guardarla. Continuava a ingrassare e non le importava, non aveva cura neppure
del suo grembiule, che ormai non le stava più ed era sempre rammendato attorno ai bottoni. Aveva
trentotto anni e ne dimostrava cinquanta. Eccola lì, sulla sua sedia sgangherata, le cosce paffute
allargate come una bambina che guarda la tivù, con quella sciatteria che a volte le donne si
permettono quando sono tra loro.
Dipende dalla madre che hai avuto, pensò Luisa, e ricordò volentieri la sua per diversi minuti,
con serenità, costringendosi a non ricordarla com'era diventata con la malattia, ma immaginandola
giovane e sana, con il sorriso luminoso e gli occhi nocciola che brillavano come due cristalli. Sua
madre non era mai sciatta, neanche alle sei del mattino, neanche d'inverno, e allora non c'erano
stufette elettriche o termosifoni programmabili, e il freddo durava almeno fino alle dieci.
Un po' alla volta i numeri dei tabulati occuparono tutti i suoi pensieri e la madre si dileguò.
Accadeva il miracolo, come ogni giorno, quel giorno soltanto un po' in ritardo. I giocattoli si
trasformavano in numeri, che interessavano banche e grossisti, negozianti, rappresentanti, venditori
di spazi pubblicitari: ora i numeri meritavano tutta la sua at‐tenzione, e Renata non osava
disturbarla, nessuno si fermava più a fare due chiacchiere, il tempo scivolava via, svaniva. Era questa
la Luisa che conoscevano i suoi colleghi. In una vecchia caricatura, realizzata da un centralinista che
sapeva disegnare molto bene, Luisa era ritratta davanti allo schermo del computer, con il collo da
uccello proteso in avanti e gli occhiali spessi come fondi di bottiglia. Accanto a lei, sempre in
caricatura, la sua stampante umanizzata sfornava chilometri di fogli pieni di numeri. Qualche volta il
commendatore in persona si fermava sulla porta e la guardava soddisfatto, perché Luisa non si
accorgeva neanche di lui.
Era una brava impiegata, stimata da tutti i colleghi per la puntualità e la precisione, ma non si
impegnava così a fondo per compiacere chi le passava lo stipendio: lavorava bene per obbedire a un
comando interiore e non le sfuggivano neppure per caso segni di sottomissione o di rispetto
eccessivo. Arrossiva d'orgoglio anche quando andava dal vecchio a fargli gli auguri di Natale e lui le
consegnava personalmente il solito pacco dono e la gratifica di fine anno. Qualcuno la trovava
troppo attaccata al lavoro, e forse un po' fredda, ma soltanto i due o tre che avevano avuto modo di
sperimentare le sue pepatissime reazioni ne parlavano sempre male.
Quella mattina la pagina dei riepiloghi la tenne occupata fino all'una: ormai le colonne dei
numeri le obbedivano ser‐vili e scorrevano in ordine perfetto, li guardava e li riguarda‐va e faceva di
sì con il capo come se avesse davanti una sco‐laresca che ripeteva in coro la lezione. Tolse gli occhiali
soddisfatta e li pulì con un angolo di camice, secondo lei il tessuto più adatto del mondo per pulire le
lenti.
"Allora si va?" le chiese Renata.
"Accidenti, piove."
"E noi prendiamo l'ombrello. Oggi mi sono portata l'ombrellone della Ferrari."
"Dici di andare a piedi?" Allungò la gambe sotto la scrivania e guardò gli operai che correvano
nel parcheggio riservato riparandosi con giornali e pezzi di cartone.
"Povera Luì che aspetta il birichino Walter..."
"Perché, è già andato?"
"Con i soliti amichetti, sono stati i primi. Possiamo prendere la mia macchina, se proprio ci
pesano le gambe."
"No, andiamo a piedi."
Renata non guidava bene e davanti alla tavola calda non era facile trovare un parcheggio, ci
voleva Walter, che era sempre fortunato con i parcheggi ed era anche bravo a inventarsi quelli che
non c'erano.
Fatti dieci metri si pentirono della loro decisione. L'ombrello, anche se era grande, non riusciva
a proteggerle dalla pioggia sottile, e il freddo non era per niente diminuito. Qualcuno offrì un
passaggio, ma Luisa rifiutò.
"Abbiamo detto che si va a piedi e si va; siamo mica due pappemolli.''
"Io sì" protestò Renata, che aveva !a sciarpa fin sotto gli occhi e le mani sprofondate nelle
tasche, il più vicino possibile al calore delle cosce. "Se ci prende su andiamo anche col Muto..."
"Il Muto?" disse Luisa scandalizzata. Il Muto era uno dei guardiani, una specie di cameriere in
seconda che si occupava delle commissioni più insignificanti, a quel che si diceva guadagnandoci
anche qualche extra. Non era muto, parlava poco e soltanto in dialetto. Luisa non sprecò la voce, per
lui, gli fece segno di no con l'ombrello e il Muto accelerò soddisfatto.
"Non nevica perché fa troppo freddo" si lamentò ancora Renata. La tavola calda era sulla
statale, a circa trecento metri dalla fabbrica. Potevano già vederla: macchine e camion le
sfrecciavano davanti con le luci accese, lanciando spruzzi di pozzanghera sulle automobili
parcheggiate e sui passanti.
Giunte al semaforo attraversarono con prudenza anche se era verde: era l'unico semaforo nel
raggio di un chilometro e molti automobilisti se ne accorgevano all'ultimo momento. La tavola calda
era affollata e piena di fumo. Se l'aspettavano. Ogni giorno si proponevano di andare presto ma non
ci riuscivano mai. Trovarono posto accanto al bancone del bar, in un minuscolo tavolo per due.
Walter e gli altri colleghi frequentabili erano già al caffè, e la cameriera stava portando via le loro
tovaglie di carta. C'era bistecca, quel giorno, o la solita mozzarella. Presero entrambe bistecca e
verdure, due piatti che Luisa non cucinava volentieri in casa. Renata mangiava sempre carne, a
pranzo e a cena: i ragazzi le chiedevano cotolette e polpette, e lei li accontentava, cucinava
tonnellate di cotolette e polpette, e patatine fritte. Luisa si era stancata di sconsigliarle
un'alimentazione così pesante: Renata portava l'esempio dei suoi suoceri, gran mangiatori di carne e
fumatori, che godevano di ottima salute per la loro età.
"Scusa Luì se non ti porto a casa" era venuto a dire Walter sghignazzando e col cappotto già
abbottonato. "Ho appuntamento con quella laggiù."
Indicava una ragazza molto carina, forse una studentessa, che doveva avere più o meno l'età di
sua figlia.
"Ti basta poco per abbandonare una signora sotto la pioggia." Avrebbe dovuto rimproverarlo
perché il suo alito sapeva di grappa e il medico gli aveva proibito di bere, ma non voleva guastargli il
buon umore. Lui infatti sbirciò ancora la ragazza carina.
"Ci ho pensato parecchio e ho scelto lei" dichiarò soddisfatto.
"Che uomini..." disse Renata, che trattava Walter come un ragazzo di vent'anni, bello e forte, in
grado di fare qualunque conquista.
Walter se ne andò con i suoi compagni d'ufficio e arri‐varono le bistecche, grandi e ben cotte.
Insieme alle verdure piccanti formavano un piatto da vero ristorante e ne furono contente.
Bevevano entrambe poco vino tagliato con l'ac‐qua, e spesso nella bottiglietta da un quarto ne
lasciavano metà.
Mangiarono con calma senza parlare. Dietro al bancone c'era il televisore acceso e si sentivano
a casa, come davanti al telegiornale della cena. Poi ordinarono il caffè e cominciarono a guardare
fuori. La pioggia era diminuita e stava salendo la nebbia.
"Era meglio se le industrie le facevano in Sicilia" teo‐rizzò Renata. "Perché le hanno fatte quassù
che c'è un tem‐po che fa sempre schifo?"
Luisa le rispose sforzandosi di sorridere. Da qualche mi‐nuto si sentiva strana e non capiva
perché. Salutò altri colle‐ghi che uscivano, accese una sigaretta. Anche la studentessa e la sua amica
se ne stavano andando. La porta cigolava di continuo. All'improvviso sulle studentesse, sui colleghi,
sui tavoli dove giacevano ossi rosicchiati di bistecca e tovaglioli di carta bisunti, su tutto, anche sulle
cameriere e sulle bottiglie del bar, scese una nube di odori cattivi. Ora il locale intero era immerso in
un disgustoso odore di grasso bruciato che le rivoltava lo stomaco. Il cuore cominciò a batterle forte,
la fronte e il viso avvamparono in un formicolio ostinato che non passava neppure sfregandosi con le
mani. Aveva senz'altro le labbra pallide, anche se Renata non lo notava: se le mordicchiò a lungo ma
inutilmente, perché erano quasi insensibili. Doveva cercare di scuotersi se non voleva svenire. E
pensare che Walter se n'era appena andato! L'unico che avrebbe saputo aiutarla. Un liquido amaro
le salì in gola minaccioso e lei fu pronta a ricacciarlo indietro. Vomitare davanti a tutti, Dio mio. La
carne avariata, il veleno, il fuoco nello stomaco. Dio mio, pregò serrando i muscoli delle mascelle,
Dio mio aiutami! Renata continuava a non accorgersi di niente; si lamentava del fumo e strizzava gli
occhi annoiati. Accidenti a lei, gridò Luisa dentro di sé, non vedeva com'era diventato squallido quel
bar‐trattoria? Non sentiva quell'insopportabile fetore di carne alla piastra? Doveva uscire subito da
quel posto infernale, doveva correre fuori. Si buttò la pelliccia sulle spalle e uscì all'aperto
camminando dritta come un soldato.
Non pioveva più. L'aria era fresca e profumata di terra. D cuore continuava a batterle forte in
fondo alla gola, e anche le tempie pulsavano insieme al cuore. Aveva avuto paura di non farcela e
invece era uscita e cominciava a sentirsi meglio. Non era niente di grave. Se lo ripeteva ma le veniva
da piangere. Per un attimo aveva temuto di avere qualcosa di grave e si era spaventata, ora doveva
calmarsi. Una paura spaventosa che ancora non passava. La paura di non sopravvivere, addirittura.
Fece una lunga serie di respiri profondi tenendo gli occhi chiusi. Le macchine che passavano solleva‐
vano un vento leggero che le faceva bene.
"Vedrai che ti resta fedele" le disse Renata fingendosi seria. Si era imbacuccata di nuovo, e la
guardava da una sottile fessura tra la sciarpa e il cappello. Sul momento Luisa non seppe cosa
risponderle. Poi si ricordò dello scherzo e le sfuggì un'alzata di spalle.
"Per quello che me ne importa" le disse con freddezza. Ma cercò subito di cambiare tono. "C'è
una puzza, là dentro. .. dà il voltastomaco."
"E tutto quel fumo? Bah..."
Tornando verso la fabbrica Renata cominciò a raccontare con infiniti dettagli un film che aveva
visto di recente. Luisa non riusciva a seguirla ma era contenta di non dover parlare. Era troppo
concentrata sui suoi passi: le gambe le tremavano ancora dalla paura e non voleva cadere. Ogni
tanto Renata si fermava per sottolineare un passaggio importante e Luisa ne approfittava per
riposarsi. Fingeva di interessarsi alla trama del film e invece cercava di spiegarsi il suo strano malore.
Si sentiva ancora addosso e nello stomaco quel fetore di carne bruciata, ricordava esattamente
quell'improvvisa tristezza che per un attimo aveva reso squallida ogni cosa.
Forse un colpo di freddo, si disse non trovando altre spiegazioni. Si tranquillizzò e aumentò i
suoi segni di assenso al racconto del film. Poi vide che Walter, nonostante il freddo, aveva
abbandonato gli amici al parcheggio e le stava raggiungendo a piedi. Lui se ne sarebbe accorto, che
stava poco bene, e lei l'avrebbe tranquillizzato. Non è niente, decise di dirgli, cose da vecchie.
"Devi essere la prima a sapere che ho deciso di lasciarla" le disse riprendendo lo scherzo di
prima.
"Te l'avevo detto! " commentò pronta Renata.
Walter si mise alla sinistra di Luisa e la prese a braccetto.
"Te lo ricordi Scriboni?" le chiese con aria complice.
"Quell'antipatico invertito" commentò Renata.
"Se ne parlava adesso in macchina. Sarà stato antipatico ma se n'è andato da signore. Dov'è
Scriboni? Come mai non c'è niente sulla scrivania? Se ne andato senza salutare nessuno, ecco dov'è!
Vi ha mandati affanculo. Abbiamo fatto una carrellata di quelli che sono andati via e avevamo tutti la
stessa impressione: riescono in qualcosa solo quelli che vanno via."
"Ma lascia perdere" disse Luisa annoiata. "Se la smetti di strapazzarti quei poveri reni chi sta
meglio di te?"
"Hai già noi tutti i giorni, che vuoi di più?" la spalleggiò Renata.
"Mi dai tu uno squillo quando hai finito?" chiese Walter ignorando Renata.
Si separarono senza saluti e raggiunsero i loro uffici. I bagni erano affollati: le impiegate
entravano con gli astucci e si lavavano i denti e si pettinavano. Luisa sarebbe andata più tardi. Non
voleva correre il rischio di assistere al lavaggio delle ascelle di una cavallona della contabilità. Aveva
lo stomaco già abbastanza in disordine. Ma proprio una di queste ragazze se la trovò in ufficio che
aspettava, tranquillamente seduta davanti alla scrivania, e con la sua conchiglia preferita in mano.
Luisa controllò in fretta le carte che le aveva portato e le restituì in malo modo.
"Non ce l'ho con te ma se sotto si illudono che ogni mese vi rifacciamo il lavoro si sbagliano di
grosso. Roba come questa non la prendo più, di' pure che ti ho detto così.
Appena la ragazza fu uscita, piuttosto scura in volto, Renata cercò di fischiare per
complimentarsi col suo capo.
"Un'altra volta la mando dal dottorino" aggiunse Luisa, con il tono di chi non ammette
discussioni. Poi accese lo schermo e tornò alle sue colonne di numeri. Aveva bisogno di stare un po'
sola, in realtà i numeri non li guardava, li faceva andare su e giù senza uno scopo. L'insensibilità dei
suoi colleghi la stava offendendo sempre più profondamente. Era stata male e nessuno se ne era
accorto, anzi continuavano a scaricarle addosso i loro problemi senza degnarla di uno sguardo, di
una minima attenzione. Begli amici che aveva, bei colleghi! SÌ ricordò della conchiglia, abbandonata
sul bordo della scrivania, e la rimise nella vaschetta piena di sabbia dell'Adriatico, dove c'erano altre
conchiglie più piccole, tutte bianche e lucide come piacevano a lei.
"Mettiamo a posto il mare. Luì?" bisbigliò Renata. Lei allora sorrise e pareggiò la sua piccola
spiaggia con i polpastrelli. I suoi scatti d'ira passavano in fretta, non duravano mai più di un minuto.
Ricominciò a piovere fìtto. Sul vetro esterno scorrevano grossi rigagnoli e sui rami neri dell'albero
che avevano davanti brillavano gocce sempre nuove che crescevano e cadevano e subito si
riformavano. Nel cielo grigio apparve addirittura un velocissimo bagliore, seguito da un tuono
lontano. Tuoni d'inverno! pensò sfregandosi le mani. Nel viale avanzava una macchina con le luci
accese e i tergicristalli al massimo: le ruote spruzzavano come fontane alte parabole d'acqua.
Annusò il buon profumo della pioggia e tutto le parve bello, compresi i cespugli verdi e neri che deli‐
mitavano la zona industriale. Laggiù iniziava la campagna: verde scuro, nero, marrone, acquitrini
grigi e lingue di nebbia che avanzavano come in una fiaba. La bellezza della natura, aveva ragione sua
madre, faceva pensare a Dio. Ma allora perché era così agitata?
Per non pensarci riprese il lavoro e parlò a lungo al telefono con diversi rappresentanti. Verso le
quattro cominciò a farsi buio. Quando la guardò si accorse che Renata aveva tolto di mezzo la
tastiera e stava scrutando fuori, con la fac‐cia sprofondata tra le braccia conserte, come una
bambina che sta per addormentarsi a tavola. Guardava fuori anche se
non vedeva niente. I vetri riflettevano soltanto i mobili e le luci al neon del loro piccolo ufficio.
3.
Il viaggio di ritorno era sempre un po' triste. Walter e Giancarlo pensavano ai loro appuntamenti
piacevoli o spiacevoli e alle mille cose che avevano da fare, e non parlavano neppure di calcio. Luisa
sapeva che la sera non erano più tanto amici, e che mentre si avvicinavano le luci del centro loro tre
tornavano a essere degli estranei, e quasi si vergognavano di essersi visti così tanto durante il giorno.
Ascoltavano in silenzio tutto il giornale radio e poi la musica anche se era brutta. Se qualche
automobilista lo sfidava Walter pigiava sull'acceleratore e a volte si metteva a gridare, e minacciava
addirittura di scendere per fare a pugni. Succedeva soprattutto quando la notte precedente non
aveva dormito per il mal di reni, oppure quando era in lite con la moglie. Luisa scendeva al solito
incrocio e faceva in fretta la sua piccola spesa quotidiana: latte, due panini, una mozzarella, mezzo
chilo di frutta. D'inverno la sua giornata fuori casa si concludeva alle sei e mezzo del pomeriggio.
Chiudeva a chiave la porta e si metteva in pigiama e vestaglia.
Quella sera chiuse la porta con un piacere particolare, e non solo perché fuori il freddo si era
fatto pungente. I suoi colleghi non l'avevano degnata di uno sguardo per tutto il viaggio. Stupida lei
che continuava a pensarci. Lei era la donna del mattino presto, poteva avere loro notizie soltanto
alle sette del mattino, quando si partiva per la periferia, sempre insieme per risparmiare sulla
benzina. Non c'era nien‐t'altro, tra loro: avrebbe potuto vestirsi da Arlecchino e non se ne sarebbero
accorti. Avrebbe potuto addirittura crepare senza mutare di una virgola i loro programmi serali.
Si preparò in fretta una minestra in brodo e la mangiò svogliatamente seguendo il telegiornale.
Non si sentiva ancora in forma. Era abituata a stare sempre bene e non sapeva come comportarsi.
Forse la minestra avrebbe cancellato quel ricordo di carne bruciata che ancora la nauseava. Le
consuete brutte notizie del telegiornale catturarono la sua attenzione e la tirarono un po' su. Coprì
con il telo il canarino, già accoccolato sull'altalena, e si consolò pensando che non tutti avevano una
casa confortevole come la sua. Le tendine nuove rendevano graziose le finestre, la poltrona Frau
ereditata dalla madre l'aspettava accogliente come ogni sera, anche la vecchia bambola sembrava
che la salutasse col suo braccìno. Allungò le gambe sullo sgabello e si coprì con la vestaglia. Non
stabiliva mai un orario preciso, si addormentava senza bisogno di riti. Se un film le piaceva restava
sveglia fino a tardi, se era brutto e non c'erano trasmissioni interessanti si addormentava per la noia
e raggiungeva il letto a fatica.
Dopo un breve servizio giornalistico iniziò un film d'amore. Era una storia ambientata nella
Francia del dopoguerra, e i due protagonisti, un uomo e una donna ancora giovani, non avevano la
vita facile. Quando finalmente i due riuscirono a passare una notte insieme nella camera spoglia di
un albergo Luisa si sentì in imbarazzo e andò a versarsi un bicchiere d'acqua. Aveva avuto anche lei le
sue carezze e i suoi baci, anche lei aveva emesso sospiri simili a quelli dell'attrice, e quindi non capiva
perché le scene d'amore più realistiche le facevano sempre quell'effetto. Le guardava per un po' ma
poi doveva distrarsi per non morire d'imbarazzo. Venne l'alba, nel film, e i due innamorati si
separarono tra le macerie, tornando ai loro umilianti lavori.
A questo punto, improvviso come una spallata sulla porta o un vetro rotto da un mattone,
squillò il telefono. Luisa lo lasciò squillare tre o quattro volte e non rispose. Lo guardò come per
accertarsi che fosse veramente il suo ma non cercò neppure di alzarsi, e il telefono smise di squillare.
Lei non telefonava quasi mai, e non riceveva più di due o tre telefonate alla settimana. Quando
Walter e Giancarlo si lamentavano delle loro spaventose bollette quasi li invidiava.
Pensò che avrebbe fatto meglio a rispondere, poteva essere Walter, forse aveva problemi con la
macchina e voleva chiederle di usare la sua. Se era così avrebbe richiamato più tardi, non c'era da
preoccuparsi. Per ora poteva continuare a sperare che Walter offrisse la sua macchina anche per la
settimana successiva. L'inverno precedente lui e Giancarlo le avevano permesso di non guidare fino
alla metà di febbraio, un pensiero che aveva apprezzato moltissimo, tanto che aveva regalato a
entrambi una cravatta di gran firma.
Riprese a guardare il film giusto in tempo per conoscere la vecchia fidanzata del protagonista,
decisamente più bella della nuova. Aveva un'espressione scanzonata, poteva sembrare anche troppo
dura, e parlava con la schiettezza di un maschio, ma si capiva che era una persona affidabile, che
aveva soltanto sofferto troppo e ormai non credeva più negli uomini. Luisa scelse di essere lei e si
raggomitolò felice nella sua poltrona.
Durante la pubblicità il telefono suonò ancora, e stavolta fu pronta ad alzarsi. Rispose al
secondo squillo, ma dall'altra parte non parlava nessuno. Disse pronto due o tre volte poi restò a
lungo in ascolto. Riusciva a sentire soltanto un lontano ronzio di automobili. Stavano chiamando da
una cabina. Luisa cercò di ridere e disse convinta: "Walter sei tu? Non fare lo scemo". Neppure
stavolta ebbe risposta. Non poteva essere Walter. Uno scherzo senza battute non era da lui. A quel
punto avrebbe imitato la voce del commendatore o quella del sindaco. Luisa avrebbe voluto
riagganciare ma non lo fece, e commise l'errore di lasciarlo fare a chi l'aveva chiamata. La rabbia la
fece sudare, e il caldo intenso che la invase la costrinse a sbottonare il pigiama e a bere un po'
d'acqua fresca. Poi, senza motivo, andò ad aprire la finestrella della cucina e si sporse a guardare. Il
viale era deserto. Nella cabina di fronte non c'era nessuno, il bar era chiuso. Non sospettava niente
di preciso: guardava laggiù perché non sapeva cos'altro guardare. Poco dopo, annunciato dal rumore
dei suoi passi, un signore elegante attraversò il viale all'altezza del bar. Andava di fretta, senza
guardarsi attorno, consapevole delle sue spalle grandi e del timore che incutevano. Luisa pensò che
stava andando da una donna. Continuò a guardarlo finché non scomparve in una strada secondaria,
e soltanto allora si accorse che stava prendendo freddo. Sudata com'era rischiava di buscarsi un altro
malanno. Soltanto a pensarci si sentì attraversare da mille brividi. Chiuse la finestra e tornò in
poltrona tremando come una foglia. Si coprì bene con la vestaglia e infilò mani e piedi sotto il
cuscino, ma anche così il freddo non se ne andava.
A pensarci bene il malore che aveva avuto in trattoria poteva essere un presentimento. Fino a
qualche anno prima non ci credeva, nei presentimenti, aveva cambiato idea quando era mona sua
madre. Quel giorno non c'erano stati segni di peggioramento, ma lei era entrata nella camera
d'ospedale con un pensiero che non riusciva a cacciare: quella era l'ultima volta che avrebbe visto
sua madre viva. E non si stupì quando nel pomeriggio la madre morì davvero. Anche gli animali, si sa,
fiutano la morte in anticipo. Ma adesso che genere di presentimento stava avendo? E chi
riguardava?
Non riusciva a pensare. Un rumore proveniente dall'esterno la fece trasalire, e per alcuni
secondi trattenne il respiro. Era soltanto la serranda di un garage, un vicino che andava a dormire.
Non stava succedendo niente, doveva calmarsi. Aveva ricevuto una stupida telefonata anonima,
tutto qui, succedeva ogni giorno a chissà quante persone. Erano come i rumori delle macchine e
delle motociclette, rumori fastidiosi che salivano dalla città. In una serata normale non ci avrebbe
fatto caso. Doveva soltanto riprendere calore. Anche da piccola aveva difficoltà a riscaldarsi dopo
aver preso freddo, sua madre doveva sfregarla con lo scialle di lana scaldato vicino alla stufa.
Cercò di seguire il film ma della storia dei due innamorati non le importava più niente. Si decise
a tirare fuori il braccio dalla vestaglia di lana e cambiò programma. Un dibattito politico poteva
andare bene, di solito si addormentava quasi subito. Partecipava anche una donna, una famosa
politica. Stava parlando lei. Le diede ragione, e subito dopo si ritrovò a essere d'accordo anche con
l'altro oratore, che pensava esattamente l'opposto, e condivise anche i dubbi del terzo, perché aveva
un modo franco di parlare e anche l'espressione di un uomo conta qualcosa. Cambiò canale ma non
trovò altro che conversazioni e opinioni, e lei di opinioni non ne aveva, non pensava mai niente di
interessante, vegetava. Se lo diceva spesso, forse senza crederci del tutto. Il suo cervello doveva
essere piccolo, dovevano mancarne dei pezzi fondamentali, non era normale capire così poco.
Il freddo non passava. Stretta nella vestaglia andò a prendere il termometro e si misurò la
febbre. La colonnina di mercurio salì appena di due o tre linee. Segno di stanchezza, o di debolezza,
come era infatti scritto nel termometro. O forse stava covando una brutta influenza, che avrebbe
dato un senso a tutte le stranezze della giornata. Per distrarsi cercò di immaginare almeno cento
facce, le sue compagne del corso CED, addirittura due o tre compagni di scuola compreso quello che
era morto in moto, e un insegnante, e la tenda dove aveva dormito almeno vent'anni prima durante
una gita in montagna, e i vecchi amici di allora, il corrimano in ferro battuto nella casa dov'era nata...
No, troppa confusione. Era meglio pensare a Bruno. Se lo aspettava che avrebbe pensato a lui.
Ricordò tutti i suoi ricci, che ormai si erano fatti in gran parte bianchi ma lei li ricordò com'erano un
tempo. Un riccio più piccolo gli si attorcigliava attorno al lobo dell'orecchio sinistro, in un modo così
vezzoso che all'inizio aveva pensato a un trucco di barbiere, e invece era naturale come tutti gli altri.
Quelli che preferiva erano sul collo, di un castano più chiaro e morbidi come quelli di un bambino.
Erano belli anche i grandi ricci del capo e della fronte, quasi neri, lunghi, robusti, che a metterci
dentro le dita ci si riposava. Mentre li ricordava accarezzava la vesta glia aprendo e stringendo le
dita, come se accarezzasse gatto. Finalmente il calore stava riconquistando tutto il co po e si sentiva
più calma. Ricordò un pomeriggio sul fiume lei e Bruno seduti su un masso rotondo, i galleggianti
sotf' che saltellavano sulla corrente e si immergevano e riemerge vano come due soldatini
traballanti. Il leggero rumore d fiume, che appena chiudeva le palpebre per prendere il sol sul viso
diventava una presenza viva che scorreva nella su grande vena di rocce, e il ronzio di un moscone,
che sembr va felice del sole e libero come nessun uomo sarebbe m stato. Bruno era a torso nudo,
con un asciugamano bianc sulle spalle per non bruciarsi e un giornale ripiegato in quat tro che non
finiva mai di leggere. C'era l'odore del fiume forse di qualche fiore lontano, e soprattutto c'era il
profum della pietra che si scaldava, un profumo pulito che saliva in sieme al calore. Cos'era successo
dopo? Avevano litigato" Avevano parlato? Non riusciva a ricordarlo e non le importa va. Ricordava
bene i ricci schiariti dall'estate che si arrampi cavano sul bordo dell'asciugamano. Chiuse gli occhi e
riusc a ricordare anche la voce leggera di Bruno. Mentre parlava apriva molto la bocca, troppo,
faceva smorfie incoerenti, per esempio sembrava sul punto di ridere quando invece stav per
arrabbiarsi, oppure le stringeva il braccio con la sua ma‐no forte e sembrava stesse per gridares e
invece le diceva qualcosa di carino. Era una voce povera di suoni, poco più che sussurrata,
confidenziale, adatta ai suoi segreti balordi. "Ci credi sul serio?" cominciava così quasi tutti i discorsi.
E poi seguiva la spiegazione caotica che nessuno capiva e che' invece sembrava contenesse, a
giudicare dalla sua faccia rag‐giante, l'essenza della verità, che proprio nel suo essere nascosta non
tutti potevano cogliere. Bruno smascherava i se‐greti del mondo e nessuno ci credeva, nemmeno lei,
anche se naturalmente evitava di dirglielo. C'è chi parla sempre di calcio e chi di politica: Bruno si
interessava di interpretazioni, e qualche volta ci prendeva. Mafia, massoneria, servizi segreti,
questure, giudici...
Andò a riporre il termometro nello stanzino degli ospiti, a per precauzione tenne la vestaglia
sulle spalle. Il calore si può perdere in un attimo e per riprenderlo può volerci un'ora. E se non lo
riprendi, il calore? Se la temperatura continua a scendere, si muore di freddo a un certo punto? A
venti gradi? A dieci? La luce dello stanzino, che lei usava come ripostiglio, era limitata a una
lampadina nuda. Il letto nell'angolo, senza cuscino, era coperto con un vecchio telo indiano che lo
proteggeva dalla polvere. Come letto per gli ospiti aveva avuto ben poco lavoro. Sotto ci teneva due
vecchie valige di Bruno, che aveva abbandonato da lei anche un tavolinetto sgangherato pieno di
cianfrusaglie. Aprì un cassetto e trovò due scatole di medicine scadute da anni, alcuni manuali
sull'organizzazione del personale e sulle leggi del lavoro, un libretto sanitario ingiallito, alcune ricette
del dottor Sacchetti. Impilati sulla scrivania quattro libri comprati sulle bancarelle: un romanzo
dell'orrore e tre manuali di filosofie strane con le copertine piene di lance e simboli magici. Lei li
odiava, quei libri. Bruno li aveva comprati in un brutto momento: non dormiva bene, soffriva di
strane malattie, o sem‐plicemente temeva che ne avrebbe sofferto in futuro. Qual‐che volta gli
mancava il respiro. Niente di grave, dicevano i medici. Ma lui non migliorava. Mesi e mesi quasi
senza par‐lare. Senza neppure vuotare un posacenere, senza fare asso‐lutamente niente. Lei allora,
con la disperazione ottusa dei giovani, l'aveva tradito con un uomo insignificante e senza nessun
piacere. Stupide tragedie, a pensarci adesso, storie patetiche. Se avessero avuto dei figli lui non si
sarebbe am‐malato e sarebbero rimasti insieme. Erano stati bene così a lungo, ma non era nato
niente da loro. Non era colpa di nes‐suno. Forse poverino si era sentito sterile. Doveva pensarlo con
affetto, Bruno era la sua giovinezza, che grazie al cielo era stata bella.
Aprì un libro a caso e lesse due o tre massime di un sag‐gio orientale, che trovò di una banalità
sconcertante. Lunghi giri di parole per dire cose tanto semplici che tutte le madri dicono ai figli. Sul
bordo della pagina Bruno aveva annotato qualcosa con la biro azzurra dell'ufficio, ma non si capiva
niente. Non lo vedeva da almeno un anno, e ne erano passati quasi dieci da quando si erano
separati. Ogni tanto una telefonata formale per parlarle di vecchie carte smarrite. Viveva in un
quartiere nuovo, dove lei non era mai stata. Non sapeva nient'altro, anche le più vaghe conoscenze
comuni le aveva perse di vista. Sospettò per un attimo che fosse lui l'autore della telefonata
anonima, ma pensandoci meglio le sembrò impossibile.
Chiuse la porta dello stanzino e tornò davanti al televisore. Parlavano di un paese africano pieno
di morti, venivano mostrati tanti morti secchi e neri allineati all'ingresso di un villaggio, e vegliati da
uomini secchi e vivi che non dimostravano alcun dolore. Un vecchio cantava o forse pregava. Non
sapeva niente di quel paese: durante il servizio avevano detto il nome un paio di volte ma lei non
l'aveva memorizzato. Non immaginava neppure vagamente in quale parte dell'Africa dovesse
collocarlo. Si diceva Africa, e bastava per capirsi. Qualche volta anche lei nominava scandalizzata i
bambini africani, ma in realtà non provava vero dolore, e soltanto questo le dispiaceva: non provare
niente. Anche la voce commossa del conduttore era finzione, neppure a lui importava davvero, stava
semplicemente lavorando.
Cominciava a sentirsi stanca, ma se fosse andata a letto subito non avrebbe chiuso occhio tutta
la notte. Doveva aspettare il momento giusto, si conosceva. Aveva un leggero ronzio nelle orecchie,
si sentiva la testa vuota. Anche sforzandosi non riusciva più a pensare niente di bello, così le
tornarono in mente l'indifferenza dei suoi colleghi, il malore nella tavola calda, e soprattutto quella
telefonata vigliacca che ancora la faceva infuriare. Ripensandoli di continuo i diversi episodi della
giornata si confusero formando un insieme mutevole, diventando di volta in volta l'uno causa dell'al‐
tro. Dopo un'ora di queste meditazioni caotiche cominciò a formulare le ipotesi più bizzarre,
compresa quella del malocchio, anche se non era mai stata superstiziosa. Sua madre aveva una gran
paura del malocchio. Un paio di volte l'anno la portava in cucina e la sottoponeva alla prova dell'olio.
Quanto ce n'è! sospirava, e quanto è cattivo! E giù preghiere e formule magiche, l'interminabile
nenia del suo antico esorcismo.
Se ci credeva sua madre, si chiese seria Luisa, perché non doveva crederci lei? Forse qualcosa di
malefico stava davvero cercando di entrare nella sua vita. Qualcuno la odiava, covava del
risentimento, o invidia malvagia, forse ben camuffata dietro a un sorriso. Ci sono uomini con l'invidia
nel cuore, diceva sua madre, che anche senza volerlo ci avvelenano con la loro stessa presenza. Chi
poteva essere nel suo caso se non Bruno? Sua cugina non aveva abbastanza cervello neanche per il
malocchio. Guardandosi attorno un po' intimorita si accorse che gli occhi di vetro della bambola
erano puntati proprio su di lei. Era una bambola antica di un certo valore, che teneva bene in vista al
centro del divano nuovo. Allungando il piede poteva sfiorarle il vestito di seta. I suoi occhi sbarrati
bianchi e azzurri sembravano vivi. Molti anni prima aveva visto un film in cui le bambole si
animavano trasformandosi in assassine. Ricordava bene la loro arma, un pungiglione sottile nascosto
nella struttura del braccio. Uccidevano anche i bambini, questo l'aveva colpita. Non avendo cuore
erano capaci di qualunque atrocità.
Dai viali di circonvallazione giunse improvviso lo stridio dei freni di un camion, lungo e
straziante, che a quell'ora di notte la scosse fino alla più sottile fibra nervosa. Per rompere la
tensione Luisa pronunciò ad alta voce il nome della bambola: "Valentina". Come per ricordarle la
loro antica amicizia. Ma si accorse subito che aveva sbagliato a parlare, a far risuonare la sua voce
nella stanza. I vicini, che di solito tenevano il volume della tivù troppo alto e tiravano continuamente
lo sciacquone fino alle tre di notte, quella sera sembravano tutti addormentati. Dopo qualche
minuto sentì battere leggermente alla porta del bagno. E poi sentì il rumore sottile che può fare una
stoffa cadendo sul pavimento. Un brivido le fece accapponare la pelle e cominciò a piangere.
Cercava di contenersi ma un gemito le sfuggiva dal naso, un mugolio che sembrava il lamento di un
animale e la faceva piangere di più. È qualcosa, pensò, qualcosa sta entrando in casa mia. Si sforzò di
guardare ancora la sua bambola e le parlò col pensiero: se lo muovi, quel braccìno, se lo muovi
anche solo di un centimetro mi farai morire. E guardandosi attorno con circospezione disse alle altre
oscure presenze: restate dove siete, vi prego nel nome del Signore, non voglio vedervi.
Valentina continuava a fissarla, gli occhi di vetro sbarrati come quelli di una piccola pazza, il
braccìno a mezz'aria e le dita protese ad afferrare un gioco che non c'era. Luisa si accomodò meglio
sulla poltrona, una gamba le formicolava e non riusciva a normalizzare la circolazione. Se avesse
avuto una figlia l'avrebbe chiamata Valentina. Valentina. Un nome enorme. Le capitava spesso, nel
dormiveglia e qualche volta anche quando pensava: un nome o dei particolari insignificanti di un
oggetto qualsiasi ingigantivano nella sua mente. Se chiudeva gli occhi i mobili della sua stanza
aumentavano di volume e le apparivano in tutti i particolari, la piccola scalfittura sul tavolinetto
diventava uno squarcio dove poteva perdersi, e la punta di un dito si trasformava in una distesa
irregolare di pelle squamosa segnata da un'antica ferita, e le ginocchia ruotavano come due immensi
pianeti deserti.
Dio mio, pensò, mi sta venendo l'influenza di sicuro. Si addormentò con la paura dell'influenza,
arrotolata come un gatto. Verso le quattro si risvegliò infreddolita. La vestaglia le era caduta a terra e
le gambe non volevano saperne di raddrizzarsi. La bambola non le faceva più nessun effetto, l'ap‐
partamento era quello di sempre. Ci fosse stato anche un minuscolo spiraglio tra i due mondi cosa
avrebbe impedito a suo padre di varcarlo dopo tanti anni, anche soltanto per farle una carezza? Suo
padre che non resisteva dieci minuti senza prenderla in braccio e riempirla di baci e carezze non
avrebbe resistito tutti quegli anni senza toccarla o senza mostrarsi. Lo stesso sua madre, perché
erano stati una famiglia felice per il poco che era durata. Riuscì ad alzarsi e a raggiungere zoppicando
il suo letto freddo. Rideva di sé e scuoteva benevolmente il capo. Sto diventando una vecchia
rimbambita, si disse. Il mondo vero è quello che si vede alle quattro di mattina. Limpido come se
l'avessero appena creato, immerso in un piacevole vuoto attraversato soltanto dai piccioni. Non
aveva l'influenza, non aveva presentimenti, non aveva niente. Tutto stava tornando normale. Spense
la luce e inarcò la schiena. Il motore scoppiettante di una macchina che passava le fece allegria:
stavano finendo la benzina, o forse il motore andava in panne, comunque un bel guaio col tempo
che faceva.
4.
Gli effetti di quella strana notte si fecero sentire a lungo. Nonostante la stanchezza accumulata
si addormentava sempre più tardi, stordita da ore di televisione, e ogni mattina era sul punto di
decidere di non andare al lavoro. Non prendeva un giorno di malattia da anni e aveva ancora
qualche residuo di ferie da consumare, ma preferì non perdere il ritmo. Del resto, a parte il fastidio
della passeggiata mattutina fino all'incrocio, andare al lavoro le faceva più bene che male. Walter e
Giancarlo, che finalmente si erano accorti del suo mutamento d'umore, non le fecero domande.
Soltanto Renata le chiese a bassa voce se qualcosa non andava. "Sono stanca" rispose senza
guardarla, "non so, mi sento giù." Renata, che non aveva mai sentito il suo capo dare una risposta
simile, si profuse in mille consigli, dalle cure ricostituenti a base di ginseng ai medici più miracolosi
della città. Luisa commentò i consigli alzando le spalle e rimettendosi al lavoro, che per fortuna
riusciva ancora a distrarla. A volte cercava di costringersi a parlare, anche del più e del meno, ma
quando si decideva le parole le fuggivano via di mente. DÌ cosa avrebbe dovuto parlare, si diceva,
cosa aveva da dire, alla fin fine. Tacere era più riposante, e lei aveva bisogno di riposo.
Nel viaggio d'andata del mercoledì mattina le accadde un altro episodio sgradevole. Erano
appena usciti dalla tan genziale e si stavano incolonnando al semaforo, ma la stradina lungo il canale
che percorrevano di solito era bloccata. Da lontano non si capiva da cosa. L'autista della macchina
che li precedeva era sceso sotto la pioggia gelida, e questo aveva messo Luisa in allarme. "Dio mio un
incidente" aveva esclamato diventando pallida. Anni prima, poco più avanti, aveva visto il corpo
insanguinato di una donna caduta col motorino e non era più riuscita a dimenticarlo. Stavolta si
trattava soltanto di un gatto, appena investito da una macchina. Walter, per togliersi dalla strada
principale, aveva affiancato l'auto assassina e da lì potevano vedere il povero animale ferito a morte,
che però ancora miagolava e mostrava i denti a chi cercava di avvicinarsi. Era un bellissimo gatto
nero, giovane, col pelo folto e lucido. L'uomo che l'aveva investito si stava chinando su di lui e Luisa
sperò che lo raccogliesse, che insomma facesse qualcosa per aiutarlo. Ma l'uomo, dopo averlo
afferrato con un certo schifo per la collottola, lo adagiò sul bordo della strada e risalì in macchina.
Nel frattempo si erano incolonnate diverse altre macchine e qualcuno cominciava a protestare.
Giancarlo si sporse dal finestrino per guardare meglio e il gatto gli soffiò contro infuriato. "Povera
bestia!" disse Giancarlo, "è paralizzato." Scosse la testa in un brivido di freddo e aggiunse:
"Vaffanculo!". Nessuno capì a chi o a che cosa fosse diretto. Walter alzò le spalle e disse: "Meglio lui
che una persona.
"Ma senti che ragionamento" si indignò Luisa, che si era resa conto di avere immagazzinato per
sempre un'altra immagine spiacevole.
"Perché" disse Walter sardonico fissandola nello specchietto, "avresti preferito una bella
vecchietta?"
"Continui con questo discorso?" disse Luisa alzando la voce, che le uscì squillante e con un forte
accento dialettale che non le piaceva. "Bisogna per forza paragonare la disgrazia di un gatto con
quella di una persona? Ci siamo ammattiti? Se c'era una vecchietta, per terra, potevi anche dire
fortuna che non era un ragazzo, e se era un ragazzo fortuna che non era una classe in gita, e così
via... Che ragionamenti fai? È un essere vivente che crepa in mezzo alla strada: se non ti fa pena lui
vuol dire che non ti fa pena niente... Poverino, era un bel gattone."
"Secondo me te la prendi troppo" le rispose Walter, e la discussione si spense.
Il giovedì mattina, dopo un'altra notte difficile, piena di sogni incomprensibili e risvegli
improvvisi, il commendatore in persona la convocò nel suo ufficio. Lei andò e lo trovò ancora avvolto
nel suo grande cappotto, in piedi davanti alla finestra che dominava l'ingresso dello stabilimento e il
parcheggio.
"Non avete freddo, di là?" le chiese pigiando il didietro contro il termosifone.
"Sì, hanno acceso tardi, stamattina..."
"Lo so, lo so, ma crepiamo di freddo." Poi si sfregò le mani, giocando con la fede e con il grosso
anello d'oro che doveva piacergli parecchio visto che anche in altri momenti se lo rigirava con
soddisfazione attorno al dito. Luisa non sapeva che altro dirgli e sperava di chiudere presto
l'incontro. Si aspettava qualche indicazione particolare di contabilità ma non vedeva carte in giro. Il
vecchio invece non aveva fretta. Si sfilò il cappotto con molta delicatezza, come se fosse fragile, e
chiamò la segretaria.
"Si sieda un momento, signora Luisa, ci facciamo preparare un buon caffè" le disse
accomodandosi nella sua ampia poltrona dirigenziale, dove secondo lei non doveva sentirsi troppo a
suo agio. Le sembrava un cameriere seduto sulla poltrona del padrone, con indosso magnifici abiti
non suoi che non sapeva portare. L'effetto grottesco aumentava se il vecchio accendeva il sigaro,
trasformandosi in una caricatura di industriale come quelle che si vedono nei cartoni animati. Luisa
sedette in una delle tre poltrone sistemate davanti alla grande scrivania di legno chiaro e si accese
una sigaretta.
"Vorrei chiederle un favore personale" disse il vecchio. "Non ho avuto tempo di occuparmi dei
miei conti privati, negli ultimi mesi, e adesso mi ritrovo con un cassetto pieno di carte arretrate. I
commercialisti. Io sa meglio di me, sono bravi soprattutto a emettere fattura. Insomma, mi piacereb‐
be che venisse a darci un'occhiata lei. È un lavoro extra, naturalmente. Allora, ci darebbe
un'occhiata?"
"Non so, posso provarci" rispose lei senza esitare, guardandolo fisso con un'audacia che stupì lei
stessa. Lo stava immaginando come se potesse vederlo dall'interno: le sue vecchie vene marroni,
color sigaro, il fegato, di un marrone più scuro, il cervello grigio e giallognolo, pieno di vene nere.
"Brava, mi toglie un pensiero. Ha visto? Lei voleva andarsene in pensione e io le raddoppio il lavoro.
Come farei senza la mia signora Luisa?"
Arrivarono i caffè e il vecchio accese il suo sigaro.
Si accordarono per quello stesso pomeriggio, e lei telefonò a Walter per dirgli di non aspettarla.
Non gli disse che tipo di contrattempo aveva avuto. Non disse niente neppure a Renata, che aveva
una gran voglia di sapere e forse meditava di strapparle qualcosa durante il pranzo. Ma all'una Luisa
le chiese di portarle un panino e restò sola in ufficio, anche se non aveva niente di particolare da
fare. Guardò Renata andar via in macchina da sola e non si sentì in colpa. Sì, lo ammetteva senza
difficoltà, si stava dando delle arie, faceva il capuffìcio, ma quel giorno aveva bisogno di complimenti
come del pane, a costo di farseli da sé. Anche il commendatore le riconosceva dei meriti, si fidava
ciecamente di lei, e non si sbagliava. Lei era una persona che non tradiva, gli altri se ne accorgevano
subito. Pensò agli episodi più gratificanti della sua carriera, in particolare alla cerimonia di chiusura
del corso. Era arrivata prima pur essendo la più vecchia delle allieve, e non aveva neppure dato il
meglio di sé. Era risultata tra le prime anche nel corso avanzato di contabilità, dove c'erano persino
cinque laureate. A questo doveva pensare, alla familiarità che aveva col vecchio e che tutti le
invidiavano, e non a quel povero gatto che moriva.
Ma era morto davvero? O qualcuno più coraggioso di lei l'aveva soccorso? La spina dorsale rotta
non si aggiusta, pensò, non bastano nove vite, non bastano tutte le vite del mondo per impedire una
morte che deve avvenire. Allungò le gambe sotto il tavolo e guardò il cielo carico di pioggia gelida e
neve, che quel giorno le parve più cupo del solito, e più minaccioso. Verso l'alto le nubi erano così
nere che facevano immaginare un pozzo nel cielo; le sottili nuvole bianche a spirale che vi
apparivano servivano soltanto ad aumentarne la terribile profondità. Le case e le fabbriche
sembravano giocattoli, sotto quel cielo, e gli ometti indaffarati diventavano tante formiche, convinte
che il loro mucchietto di terra fosse il centro del mondo.
Renata rientrò in ufficio attorno alle due, lamentosa per il gran freddo: indossava un pesante
maglione da montagna sopra al grembiule e si sfregava le mani invocando l'imbottita del suo letto e
il caminetto prefabbricato che tirava tanto bene. Luisa finse di essere presa dal lavoro. L'ufficio le
sembrava anche troppo caldo, gli impiegati e gli operai passavano gran parte del tempo a lagnarsi, in
fondo i padroni non avevano sempre torto. Pensò: se il commendatore avesse il comando della città
non ci sarebbero ragazzi fastidiosi per le strade ne scherzi telefonici, né sassi né bottiglie di birra sca‐
gliate contro i muri.
Poco dopo Renata le mostrò al terminale un problema secondo lei insormontabile e che invece
era soltanto l'ennesimo frutto della sua sciatteria.
"Bambina, guarda che sono milioni!" le disse Luisa. "Bisogna starci con la testa, sennò ci
mandano a pelare le patate."
Renata si rimise al lavoro e non le rivolse più la parola. Adesso la odiava, Luisa lo sentiva ma non
le importava: parlare con chiarezza le aveva fatto bene, doveva farlo più spesso. Il vecchio pagava
puntualmente e loro dovevano lavorare, questa era la regola. Il mondo poteva anche essere un
mattatoio di gatti e di uomini, o un bazar di giocattoli stupidi e di stupidissimi bulloni, ma almeno
una regola doveva restare.
Nel suo cervello apparvero in perfetto ordine colonne di numeri e norme che aspettavano
soltanto di essere utilizzate. Le cifre verdi che scorrevano nello schermo avevano un aspetto
familiare, come i contorni di un viso visto molto da vicino. Lavorò bene fino alle cinque e trenta: poi
la chiamò il commendatore, che si era liberato e non voleva farle fare troppo tardi. Se ne andarono
insieme scendendo sul tappeto rosso della scala principale. Al cancello lì aspettava il Muto, che per
quella sera avrebbe guidato la grande Mercedes del proprietario. In Mercedes anche le stradine
squallide della periferia sembravano più decorose, e i rumori del traffico erano quasi impercettibili.
Dopo un breve tratto di tangenziale salirono verso un quartiere residenziale che Luisa conosceva
appena. La pioggia si era trasformata in nevischio fitto, le strade erano deserte e molte finestre delle
ville e dei condomini lussuosi erano illuminate. A metà salita presero a destra: era via del Giglio, e il
cancello della villa si aprì davanti al muso della Mercedes.
"La metta subito in garage e ci vediamo domattina" disse il vecchio scendendo, "la signora
prenderà un taxi."
Salì le poche scale insieme a Luisa, borbottando contro il Muto, che non si poteva mandare in
giro con una macchina come quella, soprattutto con la neve e il ghiaccio. L'autista si era preso una
brutta bronchite e non guariva anche se gli aveva mandato il suo medico personale, un professore
che insegnava all'università. La cameriera aprì il portone di casa e prese i cappotti.
"Le faccio fare tardi proprio in una serata come questa" disse con il suo tono più bonario. "Sono
stato fortunato, non posso lamentarmi, tutti corrono, tutti mi danno una mano..." E intanto le fece
strada verso lo studio, che a Luisa parve stupendo. C erano molti libri d'arte, poltrone bellissime,
quadri antichi illuminati con cura, e una scrivania di ciliegio con il ripiano di cuoio.
"Sa cosa ci facciamo preparare?" le disse indicandole la grande poltrona dirigenziale, "un bel
punch al mandarino. Maria, ascolta..." e la lasciò sola a girarsi sulla poltrona di cuoio, ipnotizzata dai
mille oggetti preziosi che per un attimo diventarono soltanto suoi. La poltrona poteva oscillare
avanti e indietro, e lei si stava cullando dolcemente quando il vecchio la raggiunse col sigaro acceso.
Indovinò il suo stupore e disse guardandosi attorno: "Ogni cosa che vede ha una storia. Ci vorrebbe
un mese per raccontarle tutto". Spinse una poltrona accanto a lei e aprì il cassetto più grande.
"Questo è il libro del personale della casa... Questi sono i resoconti dei bollettini e di tutte le
spese..." Luisa ebbe la sensazione che il vecchio le nascondesse i suoi veri dubbi: forse cercava
qualcosa di preciso e voleva metterla alla prova. Non la incantava più da anni, con quell'aria
sorniona. Prima di lasciarla sola le disse soltanto: "Scuserà se mia moglie non viene a salutare, ma lei
sa che non c'è da offendersi".
"Ci mancherebbe. Le faccia tanti auguri, se si ricorda di me."
Rimasta sola accese la calcolatrice elettronica e cominciò la sua verifica. I quaderni privati del
vecchio erano in ordine perfetto, e scritti in bella calligrafìa come si faceva una volta. I conti
dell'amministratore e del commercialista erano invece approssimativi e poco comprensibili, e
diverse spese non risultavano documentate. Trovò anche una nota bancaria: in quel conto personale
il vecchio teneva parcheggiato quasi un miliardo, in titoli di stato e contanti. Strano che l'avesse di‐
menticata lì in mezzo al quaderno. Mentre ci pensava notò un pupazzo di plastica esposto nella
vetrina di cristallo tra statuette e porcellane preziose: un oggetto senza valore che il vecchio, molti
anni prima, aveva venduto a una fabbrica di formaggini. Nel giro di pochi mesi quel pupazzo era
finito in tutte le famiglie italiane e aveva contribuito a costruire anche quella villa, rendendo
possibile il suo stipendio e quello dei suoi colleghi. Era un affarino di plastica blu alto tre o quattro
centimetri, realizzato grossolanamente con le tecniche dell'epoca: raffigurava un bambino che
saltava felice afferrando con una mano la punta del suo buffo cappello da clown. Prima di riprendere
il lavoro pensò: se nel giorno del giudizio il Signore chiederà al vecchio e ai suoi operai "Che cosa
avete fatto della vostra vita?" noi mostreremo il pupazzetto blu.
Non era il momento di fantasticare. Doveva concentrarsi e fare bella figura. Alle otto, quando
aveva appena cominciato a riempire gli spazi bianchi dei quaderni, entrò il vecchio per dirle che
aveva fatto preparare la cena anche per lei, se si accontentava di una cena da vecchi.
"Non ce la farò a finire stasera" gli disse lei accettando l'invito.
"E lei venga domani mattina. Le basta domattina?" "Penso di sì."
"Se non le basta torni in ufficio quando le pare. Adesso smettiamola con i numeri e andiamo a
cena. Siamo io e lei, mia moglie ha già mangiato qualcosa, cena presto."
Anche la sala da pranzo era bella, ma le fece meno impressione dello studio. Al centro del
tavolo c'era un piccolo bouquet di fiori. La cameriera servì il brodo di carne e versò il vino. Luisa si
sentiva del tutto a suo agio. Il vecchio, che pure era molto cortese, aveva l'espressione un po'
assente di chi ha troppi pensieri e anche se era con lei continuava a pensare come se fosse solo.
"Cosa faceva suo padre?" le chiese dopo aver finito la minestra.
"Era impiegato alle poste."
"Il mio aveva un negozio di otto metri quadrati... "
Luisa fìnse di non conoscere la storia del padre e del negozietto, del piccolo commercio di caffè
che era diventato un grande commercio e riascoltò tutta la storia per la terza o quarta volta.
Mangiarono filetto ai ferri con verdure bollite, e conclusero il pasto con un sorbetto di limone,
che il vecchio considerava irrinunciabile.
"Mi piacerebbe che lei seguisse i miei conti anche in seguito" le disse dopo averla squadrata a
lungo. "Il segreto sta tutto nella fiducia. Scegliere bene e avere fiducia. Mio figlio sarebbe un
magnifico direttore generale, e invece è un coglione. Lo chiamano ancora dottorino, vero?"
"Sì. Ma non per prenderlo in giro."
"Quarantasette anni e lo chiamano dottorino..." commentò il vecchio amareggiato. Chissà se
sapeva che lo chiamavano "il vecchio"? si chiese Luisa trattenendo il sorriso. Lo chiamavano
commendatore solo in sua presenza. Ma per tutti era "il vecchio", e a guardarlo da vicino, sotto la
luce impietosa di una lampada bassa, si rese conto che ormai era vecchio davvero e cominciava a
prendere quel colorito da morto che non si può nascondere. Un uomo così vecchio continuava a
vivere e a ragionare mentre un giovane gatto col pelo lucido e due occhi verdi luminosi come
smeraldi stava marcendo sul bordo di una strada! Ora capì cosa l'aveva tanto impressionata: la
fierezza del suo miagolare contro tutti, e la sua eleganza, intatta nonostante la spina dorsale
spezzata. Un uomo caduto a terra diventa volgare o grottesco: facile immaginare il vecchio col
pancione all'aria in fondo alle scale gelate, un grosso animale rovesciato incapace di rialzarsi, con le
gambe e le braccia agitate nel vuoto. Esaurite le lamentele sul figlio smidollato il vecchio sbadigliò
ripetutamente e lei propose di chiamare un taxi.
"Ne prenda uno anche domattina, c'è brutto tempo. Venga con comodo. E quando ha finito
faccia chiamare in ufficio, così le mando la macchina. O prenda un altro taxi, se non si fida di quel
cretino."
Luisa si fece portare il cappotto e aspettò insieme al vecchio davanti alla porta.
"Quando nevica è bello tornare a casa" disse il vecchio. "Se la coscienza è tranquilla si dimentica
tutto e ci si gode il calduccio. Ecco che arriva il taxi. La mia signora Luisa! Oggi l'ho fatta lavorare
troppo."
Le aprì la porta e il cancello, e dandole la mano le disse: "Stia attenta a non scivolare e grazie di
cuore".
Diceva spesso "grazie di cuore", e sempre con la sua voce un po' finta, ma a Luisa fece piacere.
Così come trovò bello andare in macchina a quell'ora sotto la neve, e senza il pensiero di guidare. Le
luci erano quasi tutte spente, e anche le tracce di pneumatici sulla neve erano rare, e avevano una
loro bellezza.
Nei viali trovarono ancora un po' di traffico, ma nessuno correva. Era una notte ammutolita
dalla neve, che continua va a cadere in piccoli fiocchi. Il profumo di neve filtrava dai finestrini, e lei
pensò con orgoglio: sono una donna a cui si affidano tutte le cane. Suo padre e sua madre sarebbero
stati orgogliosi di lei. Sapeva ormai quasi tutto del suo datore di lavoro: già conosceva i conti esteri, i
punti imbarazzanti del bilancio aziendale, e ora cominciava a conoscere anche i conti domestici,
l'intimità più profonda di una famiglia borghese. E lei non avrebbe rivelato a nessuno neppure uno
dei numeri che le erano stati confidati.
Il tassista ascoltava la radio e non sbirciava dallo specchietto, così lei appoggiò tranquillamente
la nuca sul bordo del sedile e guardò verso l'alto i puntini bianchi che ondeggiavano nel buio. Ebbe
un pensiero di gratitudine per il vecchio che le pagava il taxi e il lusso raffinato dei fiocchi di neve
spiati dal calduccio di una poltrona.
Quando il taxi la lasciò sola davanti al suo palazzo continuò a guardare la neve che svolazzava
debole attorno ai lampioni. Lasciò il cappotto sbottonato, non faceva freddo. Pensò per un attimo di
fare il giro dell'isolato ma ebbe paura di essere vista dai vicini e aprì subito il portone. Chiamò
l'ascensore e salì al suo piano. Il pianerottolo sembrava illuminato da una luce diversa dal solito, più
tenue e grigia, come se avessero cambiato le lampadine. Aprì la porta e se la chiuse
immediatamente alle spalle, prima ancora di accendere la luce. Nel momento in cui toccò
l'interruttore e vide la bambola sul divano si rese conto che non l'aveva mai vista così, con gli occhi di
vetro puntati sulla porta. Maledizione! Era appena tornata a casa e già le si stava accapponando la
pelle. Anche i rumori del canarino, che si era messo a svolazzare nella gabbia, avevano qualcosa di
sinistro. Lo coprì e in un attimo accese la tivù e una dopo l'altra tutte le luci di casa. Mentre
appendeva il cappotto nell'armadio si ricordò che non aveva ancora chiamato Walter. Erano le undici
e mezzo ma lui andava a letto tardi. Lo chiamò e si inventò una scusa, non voleva dirgli che era stata
a cena dal vecchio e che il giorno dopo sarebbe tornata nella villa. Gli disse che doveva
accompagnare sua nipote da qualche parte.
In tivù non c'era niente di bello. Si fermò sull'immagine di un imbonitore che vendeva falciatrici,
un ometto che nella sua evidente falsità risultava alla fine più sincero di altri. Dopo le falciatrici un
altro imbonitore presentò due bellissime pistole che sparavano come quelle vere. "Siamo in casa da
soli" ipotizzò il venditore, "sentiamo un rumore in cucina. E che facciamo? Andiamo in pigiama a
vedere? E se ci fosse davvero qualcuno con cosa ci presentiamo? Con il nostro pigiama? O forse...
con questa." Lo diceva con l'espressione più seria e affidabile del mondo, col suo bel faccione da la‐
dro buono. Che gente incredibile c'è in giro per il mondo, pensò Luisa stringendo le labbra. Aveva
fatto male a bere due bicchieri di vino, dal commendatore. Anche con il filetto aveva esagerato, e
adesso si sentiva pesante. Prese due alka seltzer e andò a prepararsi per la notte. Mentre si lavava i
denti doveva sempre fare qualcos'altro, così tornò con lo spazzolino in bocca davanti all'imbonitore,
che stava ricaricando la pistola. In quel momento squillò il telefono.
Luisa morse lo spazzolino e non rispose. Quando gli squilli cessarono cominciò a piangere. Ce
l'avevano proprio con lei, la odiavano, volevano farla impazzire!
Il mattino dopo, attorno alle nove, chiamò un taxi e si fece portare in via del Giglio. Anche se
aveva dormito poco e male lavorò quasi fino all'una, interrompendosi soltanto per il caffè, che la
cameriera le servì insieme a ottimi pasticcini alla crema. La moglie del commendatore non si fece ve‐
dere neppure quella mattina.
Verso l'una un taxi la portò velocemente in ufficio, appena in tempo per parlare col vecchio.
Doveva mostrargli un elenco di domande lungo due pagine. Qualcosa di strano aveva trovato,
compreso un clamoroso errore in una voce importante dell'ultima dichiarazione dei redditi. Il
vecchio le diede la soddisfazione di telefonare al suo commercialista davanti a lei. "Se non andiamo
d'accordo possiamo divorziare, negli affari sono favorevole al divorzio" disse il vecchio dondolandosi
sulla poltrona, esibendo proprio per lei un'aria combattiva e compiaciuta di sé. Le fece anche
l'occhietto. Luisa si era distratta, scrutava con grande attenzione le macchie della vecchiaia che si
allargavano sulla fronte e sul viso dell'uomo. Macchie di morte, le definì, gocce di morte piovute dal
cielo.
"Allora, le piace lavorare nel mio studio?" le domandò il vecchio dopo la tirata d'orecchie al
commercialista.
"Se si potesse mi trasferirei là" disse lei per fargli piacere. In realtà nella villa le mancavano la
sua poltrona, il suo piccolo mare, la vista sul viale d'accesso, persino il caffè della macchinetta. E
naturalmente i suoi manuali, le raccolte delle leggi fiscali. Mentre lui si dilungava sulla
ristrutturazione della sua villa lei continuava a spiargli le macchie scure. Sì, il commendatore era un
vecchio falso e melenso, in fondo un violento, ma era anche un brav'uomo, un vecchio quasi morto
che la stimava e che con lei non si era mai permesso un gesto scortese.
La invitò a colazione ma lei capì che non diceva sul serio e disse che preferiva fare due passi fino
al bar. Da circa un'ora era riapparso il sole, che faceva brillare la neve sui tetti dei capannoni e sui
cespugli ai bordi delle strade.
Le sembrò meraviglioso passeggiare sotto il sole e dovette trattenere una risata solitaria che
l'avrebbe messa in imbarazzo con i colleghi che tornavano dal pranzo. Anche se i suoi colleghi non
notavano proprio niente. Non apprezzavano neppure il suo modo di camminare, la sua lunga falcata,
la schiena che restava dritta, la fronte alta. Quasi tutti gli altri camminavano con sciatteria, così come
vestivano. Se si resta a lungo nello stesso posto di lavoro gli altri non ti notano più. C'era il sole, la
neve brillava, e i suoi colleghi gironzolavano trascinando le scarpe come prigionieri in un cortile sen‐
za recinto.
In quella strada, nei capannoni di periferia, nella trattoria affollata sulla statale, si consumava la
loro esistenza. Suo padre l'avrebbe trovato insostenibile. Non discutono, lavorano malvolentieri e
male, non leggono i giornali, non capiscono, vogliono restare schiavi! I suoi compagni di lavoro, con il
loro torpore, sembravano rispondere proprio così: vogliamo restare schiavi, lasciateci in pace. E forse
neppure si accorgevano del sole, o preferivano ignorarlo. Aspettavano che l'inverno riprendesse il
suo corso.
Renata le stava venendo incontro sorridente, con il cappotto sbottonato e le mani ubere dai
guanti. La sua faccia tonda era la più allegra della compagnia e le venne voglia di abbracciarla.
"Come siamo belle oggi" le disse prendendola a braccetto.
"Grazie capo" disse Renata. "Oggi mi sembra di rinascere."
"Stanotte vedrai che brinata."
"Stanotte se Dio vuole saremo nel lettone... Posso accompagnarla al bar? Oppure i suoi rapporti
segreti con l'alta dirigenza lo proibiscono?"
"Ma quali rapporti segreti" disse Luisa, "sono soltanto conti. Sicura che hai voglia di
accompagnarmi?"
"Sicura. Voglio fare rifornimento di sole." Camminarono un po' e aggiunse: "Comunque un
segreto c'è, e come".
La sua grande figura era in quel momento tutta tenerezza, bontà allo stato puro, e Luisa non
riuscì a tacere su tutto.
"Qualcosa c'è, una stupidaggine. Solo che mi fa rabbia. Ho avuto tre o quattro telefonate
anonime. Non dicono niente, stanno lì... "
"Tre o quattro?" disse Renata tornando a sorridere. "Cosa vuoi che sia, c'è chi ne riceve
centinaia. Saranno i soliti ragazzacci."
"Forse..."
"Sai cosa dice il mio edicolante che è un uomo molto saggio? Che la città è sempre più piena di
matti. E lui li vede tutti. Povera Luì vittima dei matti. Sai cosa potresti fare? Mettere la segreteria
telefonica, per non dargli soddisfazione. Il mondo è pieno di matti e stronzi."
"Beh, io e te non siamo matte."
"Escluse io e te. E pochi altri."
Giunte alla tavola calda Luisa si fece incartare un panino e una lattina d'aranciata, e tornarono
subito fuori.
"In una cassetta di mio figlio c'è la storia del Nulla che avanza" disse all'improvviso Renata. "È un
bel film. Il Nulla è una specie di nemico oscuro che si espande. Anche adesso quando commento un
fatto mostruoso con mio figlio gli dico: è il Nulla che avanza."
E il commendatore, pensò Luisa, fa parte del Nulla o è dei nostri? Fa parte del Nulla, decise
pensando ai pupazzi di plastica. Il Nulla vince sempre. Ma esiste il Nulla? Lei non sapeva niente. C era
il sole, e c'era anche Renata, buona come il sole.
"Sai che faccio?" disse aprendo la borsa, "colazione al sacco."
Sedettero sul gradino di cemento che circondava la caldaia e Luisa mangiò con gusto il suo
panino.
"Walter e Giancarlo non si sono visti?" chiese aprendo la lattina d'aranciata.
"Sono andati a pranzo da soli, penso alla pizzeria del paese. Un incontro segreto.
Chiacchieravano, complottavano fitto, anche stamattina quando sono arrivati."
"È la crisi prima delle vacanze di Natale" disse Luisa.
"Sì brava, è la crisi...”
5.
Li odiava perché la facevano sentire la solita vecchia isterica, li odiava soprattutto per questo.
Finché nevicava o gelava la città sarebbe rimasta abbastanza tranquilla, ma bastava una giornata di
sole come quella appena trascorsa e i più impazienti ricominciavano a farsi sentire. Per giunta era ve‐
nerdì sera, l'aveva dimenticato.
Da qualche minuto tre o quattro ragazzi davanti al bar prendevano in giro un certo Mauro, e lui
rispondeva con una sorta di muggito che la faceva fremere di rabbia. Forse l'aveva svegliata proprio
quel muggito e adesso avrebbe fatto fatica a riaddormentarsi. I rumori e le risate potevano tenerla
sveglia per ore. Non erano ragazzi giganteschi e pericolosi come quelli di dieci, quindici anni prima.
Visti da soli sembravano bambocci incupiti da un rimprovero, tenevano la faccia bassa come se si
vergognassero di esistere. Erano sbarbatelli, o poco più. Animali randagi.
Uomini come suo padre sarebbero scesi in strada e li avrebbero scacciati con la loro sola
presenza. Suo padre aveva i polsi grandi e le mani forti come due morse. Le unghie un po' a spatola
sempre curate lo facevano sembrare un nobile guerriero d'altri tempi. Neppure in cinque avrebbero
osato affrontarlo. Non dovevano essere di più, in quel momento. Soltanto una pattuglia dell'esercito
che sarebbe arrivato.
La primavera si stava avvicinando. Non le era mai successo di temerla già in dicembre. Pochi
giorni di caldo e sarebbero rispuntati ragazzi e zanzare, il cattivo odore degli insetticidi, le voci delle
televisioni, i boati delle motociclette.
Ora parlavano e ridevano in cima alla salita dei garage. Qualcuno si era fermato con la macchina e
teneva il motore acceso. Aprivano e sbattevano le portiere di continuo. C'era un po' di vento, forse
avevano freddo. Perché allora non andavano a casa?
Luisa pensò di accendere la luce ma ci rinunciò. Nel giro di cinque minuti sarebbe finita davanti
alla tivù e si sarebbe depressa. Tanto valeva aspettare il sonno nel suo letto. Il riscaldamento era
spento e stava bene sotto il piumone. L'aria fredda le rinfrescava le guance. Anche se non dormiva
poteva immaginare qualcosa. Da ragazza era capace di fantasticare per ore e adesso non
fantasticava quasi più. Non approfittava della sua libertà. Poteva immaginare e dirsi tutto quello che
voleva. Per esempio: le mancava un uomo? Pronunciò dentro di sé la parola "uomo" in un modo che
le parve sguaiato, e se ne vergognò. L'uomo era una cosa lucida, un essere meschino con la faccia
sempre rivolta al pavimento, un glande color fegato di vitello, teso e lucido, e macchie appiccicose
lanciate lontano. Fiocchi di sperma bianchissimo e caldo. Anche i suoi compagni di lavoro erano
queste cose. Anche Lorenzo. Chissà che fine aveva fatto. Ormai non si scambiavano più neppure le
cartoline delle vacanze ma si emozionava ancora se lo pensava. Elegante, robusto, volitivo, capace di
mettere in soggezione anche il vecchio che infatti non lo amava. Lorenzo era stato per tre anni il
consulente meglio pagato in azienda: sapeva tutto di leggi internazionali, regolamenti doganali,
sistemi bancari, comunità europea. Aveva vissuto cinque anni a Bruxelles. Forse aveva imparato
lassù a comportarsi così bene a tavola. Perché era anche lui figlio di un povero cane, che certo non
tagliava le bistecche con tutta quella grazia. Aveva cinquantatré anni, due meno di lei, quando si
erano conosciuti. E un giorno, durante un pranzo di lavoro, le aveva detto: "Perché non ci
sposiamo?". Era già stato sposato una volta, con una belga, ma il matrimonio era durato poco.
Purtroppo non ricordava quasi niente delle loro conversazioni. Era meno bello di Bruno, ma più
affascinante. Renata lo chiamava Clark Gable. Anche lui sapeva i nomi di tutti gli attori e conosceva
molti più film di Renata. La sera si cambiava d'abito e andava al cinema anche da solo. Quando era in
città abitava nel residence La perla. "Perché non ci sposiamo?" Forse non diceva proprio sul serio.
Che notti insonni le era costata quella domanda. Anzi che notti meravigliose, che sogni, che viaggi
infiniti in tutte le città del mondo. L'aveva detto in quel modo spiritoso perché era un uomo
intelligente e sapeva che un rifiuto avrebbe guastato tutto. Le lasciava la più completa libertà. Alla
fine il pensiero di una nuova vita a due le era parso insensato. E soprattutto faticoso. Gli aveva detto,
ma senza che apparisse una risposta, che lei era una donna troppo delusa, gli aveva lasciato
immaginare chissà quale disastro con Bruno. Proprio in quei giorni c'era stata la sentenza definitiva
di divorzio. Mentre lei parlava Lorenzo l'ascoltava con partecipazione, e ogni tanto diceva "certo", o
annuiva con il capo. Non aveva fatto neppure una domanda. Quando era passato in ufficio per
salutarla, allo scadere del suo ultimo contratto, l'aveva baciata forte sulle guance, e Renata aveva
visto dal corridoio e si era immaginata chissà cosa. La verità era che non lo desiderava sessualmente.
Anzi, che non desiderava più nessuno. E se qualche volta sognava ancora di fare l'amore sognava
soltanto Bruno. Perché lui la sapeva toc‐care come se il suo corpo gli appartenesse, e infatti era stato
suo, glielo aveva regalato lei. Avevano fatto l'amore migliaia di volte. Di solito prima di cena, o la
domenica mattina. Se ci ripensava le tornava quasi la voglia. Adesso le avrebbe fatto bene. Dopo si
sarebbe riaddormentata come un bambino tra le sue braccia. Si appartenevano davvero, Dio santo
se si ap‐partenevano.
I suoi genitori l'avevano adorata, Bruno l'aveva coperta di baci. Quante cose aveva avuto, che
bella vita, tutto sommato lunga e facile, e piena di consolazioni. Gli ultimi raggi di sole ed ecco
Lorenzo che le voleva bene. Un bene in vrabbondanza. Non poteva lamentarsi.
Si addormentò pensando a Lorenzo, ma un rumore svegliò quasi subito. Nient'altro che uno
stupido rumo domestico, pensò. La casa che si assesta, come diceva sua madre.
Ma quell'aria fredda, anzi gelida, da dove veniva? Sembrava fosse caduta una parete del
soggiorno, a giudicare vento che entrava. Freddo e rumore di carte.
Poi sentì il rumore sordo di un oggetto che si spezzava sul pavimento.
Accese la luce azzurra e proprio in quel momento la porta della cucina, che restava sempre
aperta, si chiuse da so con un rumore rabbioso. Lei si alzò e chiuse la porta d camera. C'è qualcuno,
pensò, c'è qualcuno di là! Giunse le mani e si curvò ripetutamente in avanti fino a toccarsi le
ginocchia. Non doveva lasciarsi prendere dal panico, doveva reagire. Ma come? Cominciò a vestirsi
senza pensare a quello che faceva, e in un attimo si trovò completamente vestita. Poco prima era in
pigiama nel suo letto e adesso era pronta per uscire.
Doveva fuggire, non sapeva da cosa ma doveva fuggire, anche se era notte fonda e fuori c'era
un freddo che non riu‐sciva neppure a immaginare. Via subito, senza guardare di là. Riaprì la porta,
corse nel corridoio, dove afferrò le chiavi il cappotto la borsa, e gettò appena un'occhiata al
soggiorno mentre apriva la porta di casa: la bambola era caduta, le tende svolazzavano alte, dalla
finestra spalancata entravano il vento e il buio. Non ebbe il coraggio di guardare più a lungo. Chiuse
la porta a chiave e attese a debita distanza che si aprisse l'ascensore, che per fortuna si illuminò
vuoto. Poi, con l'ansia nel cuore, scese a piano terra. A volte i ragazzi sedevano sul gradino del
portone, ma lì non li temeva. Temeva di più i vicini di casa, perché era follia uscire con quel tempo e
così tardi. Non aveva neppure l'orologio.
Quattro o cinque ragazzi parlavano dentro una vecchia macchina: bevevano birre in lattina e
fumavano. Nessuno si accorse di lei che usciva e attraversava la strada. Non la odiavano, o se la
odiavano non lo sapevano.
Luisa non se la sentì di camminare lungo il viale: si infilò in un vicolo che portava al vecchio
mercato, quasi buio ma al riparo dal vento. Con le mani in tasca e il cappotto ben chiuso non sentiva
freddo, e le gambe sembravano felici di liberarsi in quel passo veloce che la scaldava. Andava via ed
era felice, scappava da qualcuno che adesso non poteva più raggiungerla, e non aveva più
importanza sapere chi fosse. Ragazzi ubriachi. Ladri. Bruno impazzito. O qualcosa di più misterioso
che non riusciva a capire.
Le strade erano tranquille, poteva attraversarle anche un bambino. All'altezza del mercato
incrociò una macchina delle guardie notturne. Alcune finestre erano illuminate e la piazzetta
sembrava allegra, addirittura bella: le casupole verdi con la struttura di ferro battuto, le vecchie luci
appese agli angoli delle strade, il vento freddo e leggero che sapeva ancora di neve. Fece due volte il
giro della piazza, perché le piaceva e perché non sapeva ancora quale direzione prendere. Alla fine
scelse la strada che attraversava il centro e che poi si perdeva sui colli. Non le era mai capitato di
vederla deserta. Camminava di buon passo, ma si rese conto che non era quello giusto. Se corri le
distanze sembrano infinite e hai paura di non farcela: le grandi distanze si vincono con una marcia
metodica non troppo affrettata. A casa non voleva tornare, anche se la paura stava passando e le
venivano in mente mille spiegazioni ragionevoli: il vento, una finestra aperta, una corrente d'aria.
Cominciò a preoccuparsi per il suo canarino. Per fortuna la gabbia era ben fissata al muro e non
doveva essere caduta. Era abituata a pensare soltanto a se stessa e aveva dimenticato il suo
animaletto proprio nel momento del pericolo.
Cento metri più avanti una macchina attraversò la strada a gran velocità, e rese più evidente il
silenzio che c'era. Mezzanotte, forse l'una, e neanche un passante per strada. Soltanto Luisa, che
camminava in direzione dei colli. Pensò che nella borsetta aveva quattro o cinque banconote di
grosso taglio e le sembrò prudente nasconderle nel reggiseno: ne lasciò soltanto una nel borsellino,
le avevano detto che i rapinatori si irritano se non trovano niente, e diventano violenti. Sua cugina,
che era stata derubata due volte, lasciava sempre una banconota ben in vista nell'ingresso, e
nascondeva i gioielli in un sacchetto immerso nel detersivo in polvere della lavatrice.
Doveva far sistemare le finestre raggiungibili dal cornicione, e cambiare la serratura, e forse
anche la porta di casa. Si accorse che stava pensando a forme di difesa come se avesse paura del
mondo intero, e invece era in strada da sola, a due passi dai locali più malfamati della città, e non era
per nulla spaventata. Cominciava a percepire i suoni di un locale notturno chiuso varie volte dalla
polizia, ma neppure quello le faceva paura e non cambiò strada. Giunta all'altezza del locale vide tre
macchine piene di ragazzi davanti alle porte nere del locale. Si fermò un attimo sotto la luce
lampeggiante del semaforo, come per sfidarli, e i ragazzi non la degnarono di uno sguardo.
Non aveva paura. Era soltanto triste e non era abituata a esserlo. Riprese a camminare con
meno convinzione, pensando che non sapeva più perché stava camminando da sola a quell'ora di
notte. Le sgradevoli vibrazioni della musica sparirono presto. Una delle macchine che aveva visto
davanti al locale le passò accanto con la radio a tutto volume e si allontanò rombando. Soltanto una
guerra poteva sfoltirli, quei ragazzi, non era sempre stato così, in tutte le epoche? Ce ne sono troppi.
A suo padre sarebbe dispiaciuto sentirglielo dire, ma suo padre non la conosceva, la stupidità dei
ragazzi. Il fastidio che provocano, il senso di disgusto, per non parlare della delusione, che pesa più di
tutto. Immaginò la città in armi, gente che buttava benzina dalle finestre o sparava sui ragazzi in
motocicletta, immaginò addirittura un notiziario televisivo in cui si davano sorridendo notizie del
genere: un'anziana signora ha abbattuto con la sua carabina almeno venti ragazzi che passavano in
motocicletta sotto le sue finestre. Un uomo riesce a colpire con i suoi piombini il centro di una
pupilla a cento metri. I corpi carbonizzati di ragazze e ragazzi che orinavano davanti a una scuola. È il
nostro vizietto, diceva ammiccando il bel presentatore della trasmissione che si stava inventando.
Ragazzi fulminati, infilzati sulle lance dei cancelli, sbranati da cani assassini.
Percorse quasi tutta la via con questi pensieri, cercando di spiegarli al padre, che da vecchio
socialista si ribellava e le diceva: questo è il loro modo di soffrire, in fondo non sono cattivi. Lei gli
rispose sconsolata: mi fanno schifo, mi fanno tanto schifo. Fino a quel momento non sapeva di
provare una sensazione così precisa. Con suo padre doveva ammetterlo: stava cambiando. Si era
sempre considerata una donna buona ma adesso cominciava a guastarsi. È una legge della natura. Lo
sanno tutti. Si diventa più aspri, col tempo, più duri. E per fortuna! Anche questo suo padre non
poteva saperlo, lui non invecchiava mai. Forse i sentimenti appassiscono insieme alla pelle. Piano
piano ci crescono sopra le rughe e le macchie. Una perdita naturale, non doveva farsene una colpa.
Al posto dei sentimenti era cresciuta quella strana energia che adesso la faceva camminare senza
paura.
Era sbucata dalla grande porta medioevale, il centro era finito. La strada attraversava i viali di
circonvallazione spazzati dal vento e saliva verso la collina. I semafori non funzionavano più a
quell'ora e le macchine sfrecciavano liberamente nelle due direzioni. Attraversò in fretta e si fermò
preoccupata all'inizio della salita che si perdeva nel buio. I vecchi lampioni di ferro che avrebbero
dovuto illuminarla bastavano appena a illuminare se stessi. Il freddo si era fatto pungente e
sembrava che scendesse dalla collina insieme al vento per intimarle di non salire. Se passi di qua, le
disse la sua voce interiore, sarai marchiata come pazza furiosa.
Notti d'inverno notti d'inferno, diceva una filastrocca di sua madre. Ripetendosela attraversò,
orgogliosa del suo coraggio, le strisce pedonali che aveva scelto come confine estremo e affrontò la
salita. Da lì in poi cosa avrebbe potuto raccontare a una pattuglia della polizia? Cosa avrebbe potuto
inventarsi? Si è rotta la macchina, ecco cosa avrebbe detto, e stava cercando un posteggio di taxi o
almeno un telefono. Era una donna libera, se aveva voglia di fare una strada in salita doveva poterlo
fare liberamente in qualunque ora e senza vergogna. Aveva bisogno di salita. Aveva bisogno di al‐
lontanarsi ancora dalla casa e dal suo maledetto telefono, dalle sue finestre spalancate. Ancora
duecento, trecento metri, e avrebbe visto i primi alberi della collina: aveva bisogno anche di alberi.
Erano bellissimi cipressi che indicavano la strada di un convento dove un tempo abitavano le suore.
La madre ci andava ogni tanto a trovare un'amica che si era fatta suora quando erano ragazze.
Quella che stava salendo era la salita dei pellegrini, che nel passato la percorrevano anche in
ginocchio per venerare una madonnina custodita dalle suore. Ondate di freddo spazzavano la strada
e le facevano chinare il capo, ma lei continuava a salire, passando ogni tanto da un marciapiede
all'altro per evitare le lastre di ghiaccio. Sulla sinistra, tra case eleganti mai troppo vicine, cominciava
a vedere parte della città, illuminata da una luce che non riscaldava. La riscaldò un po' il ricordo delle
verze cotte da sua madre sulla stufa a carbone: ricordò esattamente il profumo e il caldo che
diffondevano nello stomaco. Le piaceva in particolare quella parte della verza che ha la stessa
consistenza della patata dolce: se la immaginò leggermente dorata dal fuoco vivace, con appena un
profumo di pepe e i cristalli di sale non ancora sciolti del tutto. Al mondo non c'era niente di più
buono.
I muscoli dei polpacci cominciarono presto a farle male e la costrinsero a rallentare ancora il
passo. In quel tratto la strada diventava sopraelevata e per un centinaio di metri si separava dal
vecchio tracciato: tre piloni di cemento affondavano in un giardino nero circondato da una siepe
brinata. Sul marciapiede di sinistra avevano appena montato una ringhiera nuova, comoda per
appoggiarsi e guardare. C'era anche un buon appoggio per i piedi, e lei li lasciò riposare a lungo uno
dopo l'altro, mentre guardava con estrema attenzione la parte superiore della stazione centrale,
appena re‐staurata e illuminata come una chiesa. Dalla città non salivano rumori, sentiva i soffi
lunghi del vento e soprattutto il suo cuore, che pompava con uno strano disordine e scaldava
l'interno del corpo, mentre all'esterno la pelle gelava. Come i cespugli e gli alberi d'inverno.
Non doveva essere fuori a quell'ora, se lo disse stirando con sollievo i muscoli del collo. Adesso
che si era sfogata doveva tornare, se saliva ancora non avrebbe avuto la forza di tornare indietro. E
doveva sbrigarsi, il freddo si stava facendo insopportabile. Decise di salire ancora un po', voleva toc‐
care almeno un cipresso. Superò la curva e si trovò di fronte al bivio che ricordava bene: a destra
iniziava la piccola strada del convento, trasformato da anni in una scuola privata. Quella era la strada
dei cipressi. Poteva vederli. Salì a fatica altri cento metri e scelse l'albero a cui appoggiarsi. Da lì la
città appariva sterminata, non riusciva neppure a riconoscere il suo quartiere. Appoggiò la nuca alla
corteccia e chiuse gli occhi. Immaginò di non tornare mai più a casa, di andare avanti per sempre, di
camminare per tutto il tempo che le restava e trasformarsi in barbona, e morire di freddo su una
panchina. Se era quello, che voleva, non c'era bisogno di camminare tanto, poteva farlo anche lì. In
fondo nel suo destino cerano soltanto ragazzi fastidiosi sotto le finestre e telefonate senza parole. Si
lasciò scivolare sull'erba e riaprì gli occhi. Stavolta si concentrò sul prato che si stendeva ai suoi piedi.
Lo illuminava un leggero chiaro di luna, che lo faceva sembrare incantato. Sull'erba erano adagiate
grandi macchie di neve gelata, bianche come lenzuola. Non le importava se il cappotto si stava
rovinando e la gonna e le calze si sporcavano di terra. Il vento spostava velocemente una grande
nube illuminata dalla luna, e la luce aumentava dappertutto, sulla città brillavano anche tre stelle,
quasi uguali e alla stessa altezza. Richiuse gli occhi e si addormentò profondamente. La risvegliò il
vento, che nel dormiveglia le sembrò la mano di una donna. Aveva voglia di continuare a dormire,
ma sapeva che non si sarebbe più svegliata. Per sfida tenne chiuse le palpebre ancora un istante,
pronta però a spalancarle di nuovo. Ormai aveva deciso di alzarsi e tornare a casa. La città era
bellissima, era bellissimo guardarla con la schiena appoggiata a un vecchio cipresso. Perché mai
avrebbe dovuto lasciarsi morire? Cosa le passava per la mente? Qualunque cosa le stesse
succedendo procedeva a ondate come le malattie, come il vomito o come la febbre. Povera Luisa
che invecchia, si disse mettendosi in piedi, povero cervello che ha paura di tutto. Insieme al vento
era calato anche il velo invisibile che trasforma le cose, che ora le apparivano banali.
Tornò verso casa camminando piano, stanca e svuotata. Le uniche parti del corpo ancora
sensibili erano i polpacci indolenziti e i piedi torturati dagli scarponcini. Riattraversò come in sogno i
viali deserti, e poi la via infinita che portava al vecchio mercato. Pensava soltanto al suo letto, non le
importava niente di ladri e ragazzi sbandati. Quando si ritrovò davanti al portone di casa si vergognò
di sé e aprì in fretta. Il bar era chiuso, in strada non c'era nessuno. Doveva soltanto dormire,
avvolgersi in tutte le coperte di lana che aveva e dormire fino a mezzogiorno. Non controllò i danni,
non raccolse neppure la bambola rovesciata. La gabbia del canarino era ancora coperta e ben salda
al suo chiodo. Chiuse le finestre in cucina e in soggiorno e andò a buttarsi sul letto, togliendo
soltanto le scarpe e il cappotto. Trovò appena la forza di alzarsi un'ultima volta per chiudere a chiave
la porta della camera. Poi spense la luce e si abbandonò al sonno godendo di ogni centimetro
quadrato del suo letto.
Di solito si svegliava presto anche il sabato mattina. Quel sabato mattina lo passò invece quasi
tutto a letto. Il telefono la svegliò una prima volta attorno alle nove. Pochi squilli, non avrebbe fatto
in tempo a rispondere neppure se avesse voluto. Non aveva il telefono in camera. Era frastornata, le
gambe le facevano male, anche i fianchi erano indolenziti, e solo allora si rese conto che aveva
dormito vestita. La gonna era tutta arrotolata e le stringeva i fianchi, la giacca era irrimediabilmente
stropicciata. Si spogliò senza scendere dal letto e dormì ancora un po'. Quando il telefono la svegliò
di nuovo, squillando non più di tre o quattro volte, si mise a sedere e pensò che doveva andare al
lavoro, che Walter cercava di svegliarla da chissà quanto tempo, che aveva fatto fare tardi ai colleghi.
Poi ricordò che era sabato e tutto quello che era successo. I suoi abiti erano sparsi sul tappeto, gli
scarponcini sporchi di fango erano accanto alla porta. Li aveva tolti senza neppure slacciarli, senza
riempirli con la carta di giornale come faceva sempre quando si bagnavano. Le erano costati un
occhio della testa, quegli scarponcini, li aveva acquistati appena in ottobre.
Si riappisolò e risvegliò di continuo fin dopo mezzogiorno. Le era capitato soltanto due o tre
volte, negli ultimi trent'anni, e sempre per colpa dell'influenza. Infilò il suo comodo pigiama da uomo
e si alzò, sopportando l'acuirsi del dolore alle gambe. Se lo aspettava. Se lo meritava. Perché era una
stupida e una fifona. I bambini dell'asilo nido stavano giocando all'aperto, dopo tanti giorni di
freddo. Si chiamavano, strillavano, ridevano, uno sciame di suoni allegri che l'attirò alla finestra.
Ometti e donnine si inseguivano impazziti di felicità. I cavalli con le molle, le corde, il castello di
legno, i pneumatici a dondolo. Più indaffarati di una squadra di operai. Cari piccoli gnomi, li definì
dentro di sé. Doveva imparare da loro. Da piccoli si è saggi e gentili, poi rapidamente si peggiora.
Riempì di colla la crepa che si era aperta sul viso della bambola e la rimise a gambe larghe sul
divano. Si era rotto anche un brutto vaso di porcellana, e aveva rovinato una tenda chiudendola
nella finestra.
Un colpo di vento, ammise sollevando il telo del canari‐fio. L'aveva spaventata a morte un
semplice colpo di vento. Il vetro della finestrella in cucina si era incrinato in un angolo, ma per il
momento reggeva. Mentre aspettava che venisse su u caffè si massaggiò i polpacci con una pomata
che le scaldò subito i muscoli, e rispose al telefono senza timori, pronta a Un‐a risposta vivace. Era
sua cugina, che le disse d'averla chiamata più volte sin dalle nove. Stavano partendo per la
campagna e voleva invitarla ad andare con loro, ma ormai si era fatto tardi e non potevano più
aspettarla. "Perché non vieni in treno domani?" le propose. "Stiamo a pranzo insieme e poi torniamo
con la macchina." Luisa disse che le facevano male le gambe, ma non escluse di raggiungerli il giorno
dopo. Spense il caffè, che bolliva già da un paio di minuti, e andò a berselo davanti al televisore. Il
canarino non aveva risentito della lunghissima notte che anche per lui era appena finita: il rumore
del caffè che bolliva gli aveva stuzzicato la voglia di cantare e continuava a sgolarsi. "Bravo" gli disse
Luisa, "che bella canzone."
Peccato per le gambe, le sarebbe piaciuto andare in campagna. Fino a tre o quattro anni prima,
quando sua nipote Cristina era ancora adolescente, pranzava nel loro cascinale quasi ogni domenica.
Spesso dopo una mattinata di gare al palazzetto dello sport. Era brava, Cristina. A tredici anni era
una delle migliori ginnaste in città e aveva sfiorato le Olimpiadi. Un corpo esile animato da un filo
d'acciaio flessibile e indistruttibile. Quando saltava come un uccello inseguita dal nastro, o quando
con grazia infinita afferrava al volo le clavette, il suo cuore di zia, sia pure di secondo grado, si riem‐
piva d'orgoglio. Poi, a quindici anni e da un giorno all'altro, si era disamorata della ginnastica ed era
diventata una stupidina come le altre. Ma accidenti se era stata brava. E quante belle domeniche le
aveva regalato. Anche il canarino, che in quel momento cantava a squarciagola, glielo aveva regalato
lei. Soltanto da Cristina avrebbe accettato un dono cosi inadatto alla sua vita. Di quel periodo restava
soltanto il cascinale, che ogni tanto le piaceva rivedere. D'inverno il ristorante del paese era deserto
anche il sabato e la domenica. Dal terreno di sua cugina si saliva per una strada bianca riparata da
arbusti sempreverdi e in un attimo si arrivava alla porta antica del paese, sormontata da uno
stemma pretenzioso: un leone rampante avvolto in due bandiere. Un tempo quello stesso stemma
incuteva chissà quali timori ai contadini che salivano in paese, e ora soltanto i pochi turisti lo de‐
gnavano di un'occhiata. Tutte le paure con gli anni diventano ridicole. Le sue, che erano paure
ridicole già in partenza, svanivano nel giro di poche ore.
Perché parlavano così forte, erano soltanto quattro gatti! Disturbavano già da un po' e lei faceva
finta di non sentirli. Parlavano forte per il gusto di disturbare, e per lo stesso motivo tenevano la
musica alta, lo facevano apposta. Al piano di sotto stavano giocando a carte, e ogni tanto ridevano e
gridavano tutti insieme, donne e uomini. Erano ubriachi, indemoniati dal vino e dalle carte, e anche
le loro risate facevano paura. Questo è l'inferno, pensò rattristandosi. L'inferno esiste davvero. Del
paradiso invece non c'è traccia. Forse inghiotte i beati e li porta in salvo lontano. Sua madre era cre‐
dente, suo padre sperava nell'uomo nuovo. Poi lui smise di credere che sarebbe mai esistito, il suo
uomo nuovo, e sua madre cominciò a dubitare anche lei, e sul letto di morte aveva detto: "Mettere
al mondo i figli è da irresponsabili. Dopo chi li aiuta? Forse aveva ragione tuo padre, che infatti
poverino non si è più visto neanche in sogno... ".
Aveva ragione suo padre? Lui che aveva letto gli opuscoli che parlavano della scimmia e
dell'uomo, e diceva che Dio è l'uomo stesso, che Dio è fatto a immagine e somiglianza dell'uomo, e
infatti c'è scritto Figlio dell'Uomo, e aggiungeva sempre che cerano state delle falsificazioni
consapevoli, che era come se li vedesse davanti ai suoi occhi quegli ingannatori della povera gente.
"È come nelle fiere. Ci sono i compari dei truffatori che dicono d'aver vinto e mostrano i soldi, e salta
fuori anche il testimone, e quello che si convince e comincia a giocare per tirarsi dietro i polli."
Lei che non diceva il falso nella dichiarazione dei redditi neppure per cento lire perché si sentiva
osservata! I santi invece, nelle loro caverne di sabbia, i santi che scrivevano in ginocchio sui sassi con
il lumino acceso sopra il capo, riuscivano a sentirsi soli e a mentire?
Immaginò un panorama di dune sabbiose, e il cielo divenne il cielo stellato di un deserto, e
immaginò anche il santo che scriveva il libro di Dio. "Io l'ho visto" sta scrivendo in questo momento.
E invece non è vero. Una bugia di una riga. Di dieci righe. Di mille righe. Una bugia durata quasi
duemila anni. Ma se quel libro era falso erano falsi tutti i libri, come i bilanci e i libri contabili, e non
c'erano maestri di saggezza ma truffatori astuti e consapevoli, e i libri non avevano un bel niente da
insegnare.
6.
Il giorno dopo andò volentieri in campagna da sua cugina. Con la scusa del male alle gambe
preferì non tornare in città con loro, che sarebbero partiti dopo cena, e prese un treno nel
pomeriggio. Si era tolta la voglia di fare due passi all'aperto e di pranzare in un buon ristorante poco
affollato: le chiacchiere della cugina e soprattutto quelle della nipote l'annoiavano a morte, preferiva
il silenzio dell'uomo, che come mille altre domeniche aveva passato tutto il tempo seguendo le
partite alla radio, senza mai fare commenti né manifestando un tifo particolare.
Avevano mangiato tortelli di zucca e bevuto vino rosso del posto che anche lei aveva voluto
assaggiare: mezzo bicchiere soltanto, ma ne era valsa la pena. Ogni tanto le gambe le avevano fatto
un po' male, quindi non aveva dovuto far altro che accentuare il dolore. Da qualche anno succedeva
sempre così, con sua cugina. Si lasciava convincere al telefono, uscivano insieme, poi nel giro di un
paio d'ore non la sopportava più e per qualche settimana, finché durava il ricordo della delusione,
non la chiamava, o si inventava delle scuse se chiamava lei.
II treno le sembrò confortevole e pieno di persone interessanti. Seduto vicino a lei c'era uno
strano ometto elegante. All'inizio le era parso una ragazza vestita da uomo, poi un ragazzo uscito da
un collegio, e quando si era presentata l'occasione di guardarlo bene l'aveva trovato simpatico. Non
era un ragazzo, ma un uomo dall'età indefinibile, grosso modo tra i trenta e i quaranta. Era quasi un
nano, ma ben proporzionato. Aveva i capelli neri pettinati all'indietro, un blazer di lana, un bel
cappotto ripiegato accanto alla valigetta, ma soprattutto colpiva il suo foulard, annodato sotto il
colletto aperto della camicia, blu scuro come i calzini che si intravedevano sotto i pantaloni di
velluto. Era a suo agio in tutto, nel suo vestito démodé come nel porgere il biglietto, che nelle sue
mani ben curate sembrava il biglietto del Trans Europa Express e invece era di seconda classe e il
treno era un modesto diretto che fermava in tutte le stazioni. Quando l'uomo si mise in bocca una
sigaretta lei si affrettò a prendere una delle sue e lui, sempre con estrema eleganza, si sporse un po'
e azionò alla giusta distanza il suo accendino d'argen‐to. Si scambiarono un sorriso senza parole.
Luisa non ebbe il coraggio di disturbarlo con un tentativo di conversazione. Avrebbe voluto sentire
almeno la voce, di un uomo così strano: se la immaginava sottile come quella di un giovane ben
educato. Pensò che le sarebbe piaciuto parlare con lui, le sarebbe piaciuto diventare sua amica,
perché certamente si trattava di una persona buona e socievole. Era così sereno, questo in
particolare la colpiva, di una serenità maturata in sofferenze che non riusciva a indovinare. Quando il
treno arrivò in città lei sperò che si sarebbero salutati, ma non accadde. Sarebbe accaduto in un
vecchio scompartimento, purtroppo non usava negli scompartimenti aperti come il loro, grandi
come una strada piena di sconosciuti. Continuò a pensare all'ometto anche in taxi, le dispiaceva
dimenticarlo subito. Fossero diventati amici. Gli avrebbe parlato della sgradevole sensazione che
provava tornando a casa, come se non fosse più sua, e lui l'avrebbe capita. Gli avrebbe preparato
volentieri il pranzo della domenica, e sarebbe andata al cinema con lui, o a teatro, o semplicemente
a passeggio nei giardini pubblici. Poteva esserci anche qualcosa di più tra loro, chi poteva escluderlo.
Non era affatto brutto, anzi emanava un fascino molto particolare e doveva essere delicato con le
donne. L'avrebbe voluto accanto a sé, in quel momento, le sarebbe piaciuto essere accarezzata.
Poteva ancora succederle, perché no, se avesse frequentato altri ambienti si sarebbe sentita meno
arida. Non incontrava da anni qualcuno che si potesse definire interessante e la vita che conduceva
le avrebbe offerto sempre meno occasioni. Anche per questo non aveva voglia di tornare a casa.
Faceva freddo, il tassista non si lamentò per il tragitto troppo breve. Lei comunque si scusò,
scendendo, e disse anche che aveva male ai polpacci, che davvero le facevano sempre più male.
Aveva sbagliato a camminare dal cascinale al paese, aveva chiesto troppo alle sue gambe stanche.
Davanti al bar c'erano soltanto due macchine con i vetri appannati, piene di ragazzi che non la
degnarono di uno sguardo. Salì al suo piano e infilò la chiave nella serratura, che si aprì al primo giro.
Di solito chiudeva con tutte le mandate ma doveva essersene dimenticata nella fretta d'uscire. Tolse
il cappotto e andò in cucina a scaldarsi un po' di latte. A parte l'indolenzimento ai polpacci era stata
una buona giornata. I ragazzi giù in strada stavano stracciando un canone, forse il contenitore di una
pizza, ma non parlavano forte e tenevano la radio spenta.
Mentre fissava il latte, che sembrava insensibile alla fiamma, ripensò alla porta di casa. Era
sicura di averla chiusa con tutte le mandate, come faceva sempre, anche quando scendeva a fare la
spesa. Doveva essersene dimenticata. Da qualche giorno lasciava tutto aperto, porte e finestre, e poi
si spaventava. Ecco, aveva appena pensato alla paura e già le sembrava di sentire un rumore. C'era
qualcuno, in casa? No, era soltanto il rumore del frigorifero. Abbassò la fiamma al minimo e andò ad
accendere le luci in camera e in bagno. Non c'era nessuno, neanche sotto il letto. Stava tornando in
cucina quando squillò il telefono. Era a due passi così lo sollevò prima che suonasse una seconda
volta. Stavolta non sentì i soliti rumori della strada, soltanto un ronzio che lentamente si trasformò in
fischio. Mise giù il telefono e corse a spegnere il latte, che si stava gonfiando nel pentolino. Aggiunse
un po' di latte freddo e riempì la tazza. Avesse avuto il numero di telefono di quell'ometto avrebbe
potuto descrivergli la paura nel momento stesso in cui la provava. Chissà quante volte avevano
telefonato mentre era via. Cercò di distrarsi immaginando il suo mare, che la distendeva sempre. La
vecchia pensione dove andava con la madre: pranzo alle tredici cena alle venti, pasta con le vongole
veraci o trancio di pesce‐non‐so‐che‐cosa, e il muretto accanto al marciapiede, più in là alcune
erbacce e poi la spiaggia, il mare tranquillo come uno stagno.
Si era appena messa il pigiama quando suonarono il campanello, così piano che non l'avrebbe
sentito se non avessero suonato altre due volte in rapida successione. Lo sapeva che sarebbe
successo qualcosa, se lo sentiva. Anche se i brividi le gelavano la pelle sollevò il citofono e disse
pronto. Si aspettava un silenzio terribile, invece sentì tossicchiare. E poi sentì una voce che
borbottava delle scuse. Era Bruno.
"Potevi almeno telefonare" disse lei.
"Due cabine rotte, giuro, mi sono fermato due volte. Mi servirebbero delle fotografìe, se le hai
ancora. Ma se vuoi passo un altro giorno."
Luisa aprì senza fare altri commenti. Dunque Bruno aveva deciso di manifestarsi apertamente.
Doveva essere entrato in casa nel pomeriggio, e uscendo aveva dimenticato di chiudere con tutte le
mandate, e certamente era lui anche l'altra notte. Voleva spaventarla a morte. Voleva farle del male.
Pensò addirittura di chiamare la polizia e invece aprì la porta e andò a sedersi in poltrona. Accese
anche la televisione, per darsi un tono. Proprio mentre l'ascensore si stava aprendo decise di
abbassare un po' la luce, e lo accolse in penombra, con lo sguardo fisso sulla televisione che invece
neppure vedeva.
Bruno non si avvicinò. Restò fermo all'altezza della sua vecchia stanza.
"Ci metto un attimo" le disse, ed entrò nella stanzetta. Lo vide appena un istante: capelli
bianchi, tante rughe in più, lo stesso sguardo spiritato sotto due cespugli cresciuti a dismisura.
Le faceva paura e la incuriosiva enormemente. Avrebbe voluto controllare cosa stava
combinando, sentiva tirare un cassetto dopo l'altro, e quella non era più la sua stanza, non poteva
lasciargliela perquisire. Ma non disse niente. Bruno, lo capì dal rumore, si era seduto sul letto e
rovistava tra le fotografie. Respirava rumorosamente per la sua sinusite cronica, una specie di effe
prolungata che emetteva inspirando ed espirando, con due tonalità diverse. Respirava e forse medi‐
tava di farle del male. Ma perché?
"Quella col luccio, te la ricordi?" le chiese a un certo punto.
"Non so dov'è" rispose lei, "l'ho vista tante volte ma non so dov'è."
Lui riprese a scartabellare, e andò avanti a lungo.
"L'ho trovata" annunciò finalmente. Uscì dalla stanza ma non si avvicinò molto. Si rigirava tra le
mani la vecchia foto in bianco e nero. Ridacchiò e aggiunse: "È meglio che non ci guardiamo
"Gentile. Questa si può regolare come si vuole" disse lei abbassando ancora un po' la luce. "Vuoi
una grappa?" Andò a versargli da bere e non si fermò un secondo più del necessario davanti a lui. Lo
trovò dimagrito in viso e con l'addome un po' gonfio, malaticcio, ma soprattutto lo sentì estraneo.
Non restava niente tra loro, neanche un sottile richiamo.
"Parlavo per me, sia chiaro..." farfugliò lui come se avesse capito in ritardo l'ironia di Luisa.
"Dicevo per me."
Poi bevve con calma la grappa, gustandola molto rumorosamente e con grande mimica facciale,
forse per non parlare.
"Stai bene?" chiese Luisa.
"Sì... abbastanza... Non ho mai brillato come salute, ma insomma..."
"E non hai nient'altro da raccontarmi?"
"No, niente di nuovo... è da tre mesi che dovevo passare, poi una cosa e un'altra... pesco, vado
in campagna... È morto Giovanni, lo sapevi? Quello della Lancia."
"Poverino. E di cosa?"
"Un colpo e via, il mese scorso. Usciva dal bar ed è caduto per terra. Questa è l'unica novità,
bella no?" Guardò il suo luccio e cambiò discorso. "È una scommessa, 'sto cazzo di pesce... non ci
credono che l'ho preso... mi sono ricordato che c'era la foto... beh, io l'ho pescato... "
"Sì sì, l'hai pescato."
Bruno bevve un altro piccolo sorso e riguardò la sua foto allontanandola come fanno Ì vecchi.
"Che giornata, eh? E stavamo andando via... Succede sempre così. Tu stai bene..." disse con una
smorfia imbarazzata.
"Un po' stanca..." Lo guardò attentamente e aggiunse: "È un periodo che ricevo telefonate
strane. Suona e non dicono niente".
Bruno restò tranquillo, non reagì in alcun modo al suo sguardo.
"So che rifanno le centraline. Staranno cambiando anche la tua. O forse è un corteggiatore, che
ne sai?" Rise soffiando dal naso ma tornò subito serio. "Stavi andando a dormire?"
"È un po' tardi."
"Certo, scusa tanto il disturbo, scusa." Mandò giù quel che restava della grappa e andò verso la
porta. Doveva avere ancora qualcosa in mente perché si fermò e la guardò sventolando la foto.
"Sul serio, prima parlavo per me. Non ti trovo per niente invecchiata, sei sempre uguale."
Lei cercò di sorridergli, ma non riuscì a rispondergli niente. Ora sapeva con certezza che non era
lui l'autore delle telefonate, e in pochi secondi se lo ripetè mille volte. Bruno aveva soltanto bisogno
di una foto. Chiuse gli occhi un istante e quando li riaprì se lo trovò accanto. Il torace e le braccia di
Bruno erano in ombra, lei invece era illuminata e si sentiva a disagio. La mano di Bruno si avvicinò al
suo viso e le toccò dolcemente la guancia. Non osava accarezzarla, si limitava a toccarla. Poi le spinse
i capelli dietro l'orecchio, come aveva fatto migliaia di volte. Luisa non riusciva a parlare né a
muoversi. Sentiva soltanto la pressione dei capelli dietro al suo orecchio. Restò immobile anche
quando lui la baciò sulla bocca. Un bacio leggero che la fece rabbrividire.
"Scusa" le disse Bruno. Lei fece di no con la testa per dirgli che non importava, e neppure
stavolta riuscì a parlare. Bruno tornò verso la porta e la salutò con uno dei suoi sorrisi forzati. "Tanti
auguri" le disse prima di uscire. Luisa chiuse gli occhi e ascoltò il rumore dell'ascensore che
scendeva. Aveva soltanto bisogno del suo luccio e non ci pensava neppure a farle del male. Ora stava
uscendo dall'ascensore e tra un attimo avrebbe aperto il portone: ecco, adesso era andato via, di
nuovo e forse per sempre. Sarebbe restato, ma soltanto per pochi secondi, l'odore aspro della
grappa che aveva bevuto. Le sue stupide premonizioni! L'aveva incolpato ingiustamente e ora se ne
vergognava. Era stata anche sgarbata, mentre lui a suo modo aveva usato il massimo della cortesia.
Scusa, scusa, le aveva chiesto scusa non sapeva più quante volte. Voleva la foto del luccio. E si
ricordava ancora della sua bocca, ne aveva nostalgia. Povero, dolce cane bastonato. Con la pancia
gonfia e le guance scavate, gli occhi sprofondati in dentro, quasi nascosti dalle rughe. Chissà cosa
mangiava e cosa beveva. E quella camicia vecchia che nessuno gli aveva stirato. Non chiuse occhio
tutta la notte. Era stata cattiva e ingiusta. Come quando l'aveva mandato via dieci anni prima. Non
voleva più bene a nessuno, si disse sconsolata, era una vecchia capra scontrosa.
Quella notte non accese mai la luce, aveva troppi pensieri e al buio ricordava meglio. Per
esempio Bruno da giovane. Il suo petto robusto, la peluria attorno ai capezzoli quasi neri, il sesso
scuro e grande, morbido come una stoffa. Com'era bello, anche troppo per lei, lo dicevano con
chiarezza gli occhi delle colleghe. Renata non l'aveva mai neanche sfiorato un uomo come lui. I ricci
attorno alle orecchie. Quante ore aveva passato a guardarlo. Decine, centinaia. Adesso si riducevano
a pochi minuti confusi. Che spreco, che strage di tempo. Quando ricordò esattamente le parole che
gli aveva detto tanti anni prima cominciò a rigirarsi nel letto. "Sei un nevrotico insopportabile!" gli
aveva gridato. "Sei un verme."
Certo, lui non aveva fatto niente per restare.
Ma aveva il suo orgoglio e lei l'aveva ferito.
Non erano diventati famiglia, si erano lasciati per incapacità accertata: falliti come famiglia.
Niente figli. Avrebbe fatto meglio a restare con lui, ammise alle prime luci del mattino. Amore o non
amore si sarebbero aiutati. Voleva il suo luccio, povero caro, l'aveva pescato davvero e lei poteva
testimoniarlo. E se invece il luccio era soltanto una scusa? Se aveva bisogno di parlarle? La tensione
le causò una forte acidità di stomaco, e dovette alzarsi per prendere due compresse.
Continuò a pensare a Bruno anche in ufficio, senza sentire la stanchezza della notte in bianco. L'unica
conclusione accettabile le sembrò questa: Bruno era in un momento difficile. Stava male e non aveva
nessuno che l'aiutasse, anche perché per carattere non riusciva a chiedere aiuto agli altri. Non
parlava neppure con i suoi migliori amici. Sì, era questa l'unica spiegazione. La foto del luccio era una
scusa. Le aveva chiesto aiuto e non l'aveva capito. Adesso che sapeva doveva fare qualcosa. Se stava
male l'avrebbe aiutato. Anche se non voleva più bene a nessuno restava sempre qualcosa di buono
dentro di lei.
Cercò il numero di telefono di Bruno e lo chiamò due o tre volte senza trovare nessuno. Meglio
così. Di certe cose non si parla al telefono. Doveva parlarci di persona. Fotocopiò lo stradario e studiò
il percorso migliore da casa sua, poi piegò il foglio e lo nascose nella borsetta.
Non disse niente ai suoi compagni di lavoro. Appena fu sotto casa rinunciò a salire e andò diritta
in garage. Non usava la macchina da settimane, da anni addirittura non la tirava fuori di pomeriggio,
ma quella sera gli ingorghi non le facevano paura.
Passati i giardini si accorse che il traffico era scorrevole: il flusso principale era quello che dalla
periferia calava verso il centro. Attraversò il grande ponte della ferrovia e dopo alcuni chilometri, con
la fotocopia dello stradario sulle ginocchia, si inoltrò in uno dei quartieri più nuovi di quella zona.
Non era un brutto quartiere: c'era un po' di verde e ogni gruppo di case aveva il suo parcheggio
riservato. I lampioni dell'illuminazione pubblica erano addirittura graziosi, per la loro forma
arrotondata e per la luce giallognola e discreta che spandevano attorno. Finalmente trovò il numero
civico che cercava e posteggiò proprio davanti. Bruno viveva lì. Ogni giorno, da anni, tornava a casa e
apriva quella porta, scegliendo la chiave alla luce giallognola del lampione. Nelle aiole che
decoravano il portone c'erano due grossi cespugli di pitosforo sopravvissuti al gelo. Pigiò il
campanello di Bruno e si avvicinò al citofono. Si schiarì la voce per dire bene il suo nome,
possibilmente con una punta d'ironia, ma nessuno glielo chiese. Suonò di nuovo e più a lungo, e
aspettò guardando attraverso il cristallo del portone le luci dell'ascensore e l'ingresso della casa.
C'era una grande pianta d'appartamento, accanto all'ascensore, carnosa e un po' appassita, con le
grandi foglie a forma di mano. Qualcosa di vivo che Bruno vedeva ogni giorno, e che certamente
contem‐plava aspettando l'ascensore. Poi l'ascensore salì al terzo piano e tornò a piano terra. Un
ragazzo con il cappotto troppo lungo le venne incontro e la guardò senza simpatia. Lei allora, per
sfuggire il suo sguardo, tornò a fissare il campanello di Bruno, e si accorse che sotto al suo c'era un
altro cognome, scritto su una striscia adesiva. Il ragazzo era già lontano, ma il portone, trattenuto da
un braccio automatico, non si era chiuso del tutto, così senza neppure deciderlo si ritrovò nell'atrio,
davanti alle buchette delle lettere. Lì i nomi erano scritti per intero. Accanto al cognome sconosciuto
c'era scritto: Daniela.
Luisa arrossì e si precipitò sulla porta, che però si era richiusa. Impiegò diversi secondi per
trovare il pulsante del tiro, e finalmente si allontanò dal palazzo come una ladra. Se avesse
incontrato Bruno sarebbe morta di vergogna. Si era impietosita, povera scema, lui invece viveva con
un'altra e chissà da quanto tempo. Stavolta aveva ragione lui, era lei la cretina. Mise in moto e partì
senza mettere la freccia, pigiando sull'acceleratore come non aveva mai fatto. Raggiunta la strada
principale rallentò e tirò il fiato. Adesso poteva anche ridere di sé, e dirsi "povera Luì, povera Luì..."
con la schiena rilassata sul sedile e la testa leggermente indietro che si godeva il riposo sul
poggiatesta imbottito. Non la invidiava davvero, quella Daniela, no, il Signore le era testimone, e
Bruno non le mancava affatto. Non era stata serena per anni, ininterrottamente, dal giorno della sua
partenza? Che figura stava per fare. Si immaginò nella sala da pranzo di Bruno, davanti al caffè
preparato da quella Daniela, e gli occhi di lui che la fissavano, e l'imbarazzo che l'avrebbe divorata in
quei terribili minuti. Era sfuggita a un pericolo enorme, era stata fortunata.
Il benessere seguito allo scampato pericolo durò poco. Il petto le si riempì d'ansia, e si sentì sola
come se fosse in casa e non nella sua macchina, a pochi metri da centinaia di akri automobilisti. Era
stata stupida a non pensarci prima: non doveva preoccuparsi per Bruno, ma per sé. Si comportava in
modo strano, usciva di notte, commetteva errori imperdonabili, come lasciare una finestra aperta o
dimenticare di chiudere la porta a chiave. Di questo passo prima o poi sarebbe uscita in pigiama e
avrebbe cominciato a parlare da sola.
Poco prima del grande ponte della ferrovia il traffico cominciò a infittire, e solo per passare il
ponte ci vollero dieci minuti. Tornando verso il centro si accorse di essere completamente sudata.
Aprì il finestrino e al primo semaforo rosso si sfilò anche il cappotto. Aveva caldo a dicembre, e alle
otto di sera! Come potevano resistere tutte quelle donne impellicciate che vedeva? Trovò il suo viale
pieno di traffico, con veri e propri ingorghi all'altezza dei ristoranti e del cinema, e naturalmente
sotto casa sua, dove una macchina impediva l'ingresso ai garage. Le venne voglia di suonare il
clacson ma si limitò a lampeggiare furiosamente, e dopo un po' un ragazzo uscì dal bar affollato e
masticando qualcosa spostò con calma la macchina, senza chiederle scusa, per nulla intimorito dallo
sguardo di rimprovero che lo fissava. Fosse stata un uomo sarebbe scesa e l'avrebbe preso a schiaffi.
Chiuse la macchina in garage e salì in casa con l'umore sempre più cupo. Lanciò le scarpe nel
corridoio e andò a sdraiarsi sul divano. Faceva troppo caldo. Tolse i vestiti e andò a mettersi il
pigiama. Poi si ricordò che non aveva pensato alla cena. C'erano involtini con le verdure, nel
surgelatore, ma non aveva fame. Meglio saltare la cena e andare a letto presto. Si sentiva stordita,
confusa. Il caldo d'inverno! Il traffico che ronza come un grosso animale! Così veniva ripagata la sua
stupida bontà.
7.
L'inverno durò poco, quell'anno. A Pasqua faceva caldo come d'estate e ci si vestiva leggeri.
Luisa aveva ripreso a guidare una settimana ogni tre, a turno con Giancarlo e Walter, che le avevano
regalato un altro inverno senza la tortura della guida. Ormai era più forte di lei: se c'era nebbia o se
nevicava non se la sentiva di mettersi al volante. Le veniva il sudore freddo solo a pensarci. Da
gennaio andava regolarmente un paio di volte al mese in via del Giglio, di solito il sabato pomeriggio.
Lavorava due o tre ore sulla scrivania con il ripiano di cuoio, poi prendeva il tè e tornava a casa in
autobus. Un piccolo lavoro, per una contabile del suo livello, secondo lei ricompensato anche troppo
generosamente. Il commendatore si sentiva più tranquillo, da quando le aveva affidato la sua
contabilità privata, e non perdeva occasione per manifestarle la sua riconoscenza. Con il primo
assegno extra Luisa si era comprata un vestito bellissimo che doveva ancora inaugurare. Lo tirava
fuori quasi ogni giorno dall'armadio e lo provava davanti allo specchio. Per non sgualcirlo se lo
appoggiava sul petto e lo teneva su con le punte degli indici.
Continuava a ricevere qualche telefonata anonima, ma non ci badava più. Stavano davvero
sostituendo le centraline e nel giro di pochi mesi sarebbero cambiati anche i numeri. Il suo nuovo
numero conteneva tre sette e per questo le pia ceva più del precedente. L'aveva subito imparato a
memoria, verificando con piacere che ricordava tutti i suoi vecchi numeri, compresi quelli
dell'azienda. La memoria restava eccellente, e in generale le sue condizioni di salute poteva definirle
discrete. Mangiare pochissima carne e molte verdure le faceva bene, doveva essersi intossicata
mangiando per anni in quella maledetta tavola calda. Ogni tanto si sentiva ancora qualche linea di
febbre, segnale di debolezza ostinata e di un indiscutibile calo di forma. L'arrivo del caldo non era
mai stato un buon momento per il suo organismo.
In primavera si imposero problemi più seri, che non poteva risolvere con la dieta. Ci si può
abituare a un telefono che squilla ogni tanto, non ci si può abituare a un disturbo che non è mai
uguale, che ogni giorno diventa peggiore e diverso. Ci si abitua anche ai treni che passano ma non ai
rumori imprevedibili e incostanti dei ragazzi, che potevano starsene tranquilli una sera o due, cioè
immersi nel loro cupo vocio, ma poi all'improvviso esplodevano e non c'era più modo di calmarli per
giorni e giorni. Stava assistendo a un nuovo cambiamento generazionale, si disse allarmata. Non li
aveva mai sentiti gridare così forte e così a lungo. Erano sempre lì, pomeriggio e sera, non avevano
mai nient'altro da fare. Più le giornate si facevano calde e più l'esercito dei fannulloni ingrossava, e
aumentavano le motociclette, i motorini, le enormi jeep da montagna.
Durante le vacanze pasquali, per distrarsi un po', decise di regalarsi una piccola gita fuori città.
Indossò il vestito nuovo e tirò fuori la macchina dal garage prima che arrivassero i ragazzi.
C'era molto nero, nel suo vestito estivo nuovo, ma chiunque l'avrebbe definito giallo. Grandi
petali color limone su sfondo nero brillante. Le stava molto bene, soprattutto alla luce del giorno,
che valorizzava le tonalità calde del giallo. Cercò di non farci caso ma nell'angolo in fondo alla discesa
c'erano due vomitate rosse dei soliti maiali notturni. Per la rabbia pigiò troppo l'acceleratore e fece
fischiare le ruote sul cemento. Le toglievano anche la felicità di un abito nuovo, sporcavano tutto.
Lanciò le sue rituali maledizioni e iniziò il viaggio a velocità moderata. Non c'era traffico, gli alberi dei
viali e i giardini erano in fiore, il sole cominciava a raggiungere i rami più alti. Era una splendida
mattina. Il cielo era azzurro chiaro e le case erano ancora in penombra, così i tetti si stagliavano scuri
contro l'azzurro e trasmettevano una bella sensazione di pace. Nel laghetto dei giardini, metà
marrone scuro e metà azzurro brillante, navigavano con straordinaria eleganza cigni e germani reali.
Passati i giardini prese per una piccola strada che saliva in collina. Aveva un vestito nuovo, era
assurdo tenerlo chiuso nell'armadio, e un buon pranzo fuori ogni tanto poteva permetterselo.
Mangiava sempre le stesse cose, per forza digeriva male e non aveva appetito.
Davanti alle ville e sui balconi occhieggiavano fiori di ogni misura, soprattutto rossi. Margherite,
ibiscus, giacinti, gerani, e molti altri che non conosceva. In collina dominavano pulizia e silenzio. I
beni preziosi appartengono sempre ai ricchi. I ragazzi con le moto lassù non trovavano posti
abbastanza grandi per radunarsi, quindi anche i figli dei ricchi la sera scendevano in città ad
appestare i quartieri.
Qualche anno prima Walter l'aveva portata a cena in un bel ristorante con terrazza che doveva
essere in quella direzione. Non ricordava il nome e non aveva potuto prenotare. Attraversò senza
difficoltà i quartieri periferici e finalmente uscì dal centro abitato. Le colline spoglie solcate dai
calanchi le erano sempre piaciute. Le case erano rare e per lo più abbandonate. Viaggiò per molti
chilometri senza incontrare nessuno. Il ristorante con terrazza non si vedeva. Le curve cominciavano
a stancarla, e il pensiero del ritorno le guastava il piacere del viaggio. Per fortuna in cima
all'ennesima collina riconobbe il gruppetto di case che annunciava il ristorante. Era stata così tesa
che negli ultimi chilometri aveva viaggiato sempre con la stessa marcia e il motore soffriva.
Il parcheggio del ristorante era ombreggiato. C'erano soltanto tre macchine, di cui due con targa
straniera. Troppo Presto per i clienti abituali. I tavoli in terrazza erano già ap‐parecchiati e una
leggera brezza faceva oscillare le tovaglie bianche. Al centro di ogni tavolo c'era un bel garofano rosa
e lei si sentì in dovere di annusare il suo, che però non aveva il profumo intenso che prometteva.
Scelse di mangiare pesce, anche se avrebbe speso di più. Chi poteva impedirglielo? Questa è la
libertà, si disse. Dal terrazzo si godeva la splendida vista dei calanchi e del grande cielo quasi bianco
pieno di vapori. L'argilla dei calanchi si asciugava al sole. Arrivarono i tagliolini al nero di seppia, che
le sembrarono eccellenti. Poi mangiò seppie ripiene, e le dispiacque lasciarne più di metà nel piatto.
Il cameriere ebbe lo scrupolo di chiederle se non andavano bene ma lei gli fece molti complimenti e
quasi si scusò, purtroppo non aveva più fame. Aveva bevuto un solo bicchiere di vino, eppure stava
cominciando a sudare. Si asciugò la fronte con un fazzoletto di carta, sperando che il cameriere e gli
stranieri non si accorgessero che dentro di lei si era riacceso il fuoco. Non le succedeva da tempo e le
fece rabbia. La sua gita era rovinata. Dai calanchi si alzavano i fantasmi del caldo, che distorcevano i
contorni delle colline verdi, lontanissime, dove cominciava la città. Anche i tedeschi, che avevano
scelto un tavolo assolato vicino alla ringhiera, ammiravano i calanchi e parlavano piano. Erano una
famiglia. I genitori avevano più o meno cin‐quant'anni, i figli, un maschio e una bellissima ragazza,
erano sui venti, e si comportavano da adulti, sorridevano senza sghignazzare e intervenivano di rado
nella conversazione. Gente del nord dalle movenze controllate. Un'altra razza, senza volgarità,
rispettosa degli altri e dei beni pubblici.
Ci teneva a far bella figura, con loro, e anche se si sentiva a disagio cercò di dominarsi
concentrandosi sui calanchi fumanti o seguendo i voli folli delle mosche sotto la tela bianca che
copriva il terrazzo. Il cameriere le portò il caffè e lei si sentì di nuovo inondata dal sudore vivo.
"Mi porterebbe un digestivo con molto ghiaccio?" gli chiese senza pensarci. Non aveva una
marca preferita, non ne beveva mai, e lasciò scegliere al cameriere. Il caffè e l'amaro la fecero sudare
di più. Ormai era inutile cercare di asciugarsi. L'abito nuovo le aderiva alla pelle dalla schiena alle
gambe. Scendevano giù due fiumi caldi di sudore, dal collo e dal petto. Accese una Multifilter e
chiuse gli occhi. Cercava di rinfrescarsi succhiando il cubetto di ghiaccio che sapeva ancora di amaro.
Doveva stare immobile e sperare nella brezza. Ogni tanto un soffio di vento le saliva sulle gambe, ma
svaniva subito come un'onda del mare, e lei cominciava a sperare nella prossima e intanto sognava.
Suo padre accaldato con la canottiera purtroppo non immacolata, seduto davanti alla finestra.
L'odore di femmina che sua madre emanava qualche volta d'estate, quando si sventolava con il
ventaglio rotto.
Due grosse gocce di sudore colarono lungo una guancia e caddero sul vestito. Il giovane tedesco
disse qualcosa di spiritoso e gli altri risero, superando per un attimo la soglia dell'udibilità. Una risata
sincera, familiare. Poi tornò il vento, che stavolta durò a lungo. Fresco come le labbra di un bambino.
Il sudore si asciugò e si riformò subito, ma meno copioso. Forse la temperatura stava scendendo.
Negli ultimi venti minuti aveva mosso soltanto il braccio destro. Il corpo non le rispondeva più, il
fondo d'amaro nel bicchiere e i due filtri giallognoli di sigaretta le davano la nausea. Il cameriere
stava servendo un secondo gelato ai giovani tedeschi e lei gli chiese il conto con un cenno. Si toccò la
fronte e si consolò sentendola asciutta. Anche il vestito si stava asciugando. Era apparsa una nube
sottile sulle colline lontane, e lei ci immaginò sopra un gigantesco piedistallo dove sarebbe apparso
un Gesù giovane, che pur da così lontano, grandioso com'era, fissava proprio lei a quel tavolo, e del
tutto inaspettatamente le trasmetteva il suo paterno perdono. Proprio te, Luì, proprio te volevo
vedere. Anche un capello dell'ultimo tra gli ultimi mi riguarda moltissimo. Anche a te voglio bene. Io
sono il padrone amorevole dei solitari, il caldo che senti è la mia fiamma e non devi più lagnarte‐ne.
Poi immaginò la Madre di Gesù, che copriva già tutto il cielo in un misterioso volo d'azzurro, mentre i
calanchi prorumavano di rose e di lei, e il mondo intero diventava una misera palla di terra che lei
prendeva tra le dita, e il cielo intero si riempiva del suo sguardo, e il suo sguardo era fisso su Luisa,
azzurro e dolce. Luisa si sentì in dovere di dare una ri‐sposta, così recitò l'Ave Maria per intero.
Svanite le sue fantasie religiose si diede dell'ipocrita. Prima si riempiva la pancia fino a scoppiare
e poi diceva le pre‐ghierine. Come se non sapesse che non c'è niente di più inascoltato delle
preghiere. D cielo è pieno di belle preghiere. Lei doveva restare con i piedi per terra e fare i conti con
l'odore di seppia, con il gusto aspro dell'amaro allungato nel ghiaccio, con il prurito da sudore che
asciuga. Tornò a casa con la triste convinzione che la sua dieta ferrea non sarebbe mai cambiata.
Non poteva più mangiare come una volta, doveva rassegnarsi.
Concluse le brevi vacanze pasquali tornò volentieri in ufficio. Alle otto meno cinque di un
martedì aprì il suo giornale sul tavolo e tirò un sospiro di sollievo. Renata invece non aveva voglia
d'ufficio e agitava i capelli sulla tastiera recitando un lamentoso "Si ricomincia, ohi ohi si ricomincia",
e poco prima anche Walter e Giancarlo s'erano lamentati della stessa cosa e avevano canticchiato
come due matti una musichetta della pubblicità. Luisa decise di ignorare Renata e gli altri colleghi
che transitavano lagnosi con i bicchierini di carta pieni di caffè e cioccolata e si immerse nella ricca
cronaca del giorno, che le offrì una notizia di grande interesse. Guardò e riguardò la foto sbiadita di
un vecchio mingherlino e baffuto e annunciò a se stessa: Ecco l'uomo. Doveva assolutamente
ricordarsi di portare a casa la pagina. Ecco la vittima insorta, ecco l'eroe! Il pover'uomo lo
tormentavano da vent'anni. Generazioni di giovani mostri. E uno di questi era lì, in una foto
giustamente più piccola, in qualità di "trucidato". Il giornalista non poteva simpatizzare con il
pensionato ma elencava la sua lunga e impeccabile vita lavorativa, e gli elogi sinceri dei vicini che lo
definivano gentile e riservato. Il suo dirimpettaio diceva testualmente: "In trent'anni non l'ho mai
sentito alzare la voce". Il ragazzo esibiva un grosso gozzo da maschio tonto. E due stupidi occhi
sporgenti. Di certo uno di quelli che ridono forte e fanno Uuuuh! Ooooh!... Un animale, che chissà
quante volte era venuto anche davanti al bar e a orinare sulla saracinesca del suo garage. A suo
favore il cronista registrava soltanto "l'indescrivi‐bile dolore dei suoi familiari". Atto primo: il
vecchietto grida qualcosa ai ragazzi che fanno chiasso in cortile all'una di notte. I ragazzi lo mandano
a quel paese. La stessa cosa fanno in pratica anche i vigili urbani ai quali l'uomo si rivolge per
l'ennesima volta. Il chiasso aumenta. Il vecchietto tira un po' d'acqua sul mucchio. I ragazzi lo
prendono a sassate, gli rompono un vetro della finestra. Atto secondo: il vecchietto, se Dio vuole,
tira una fucilata al più grosso e lo colpisce alla testa. Il ragazzo muore all'alba in rianimazione. Il
vecchietto viene trasferito in carcere. Ha il volto sereno. È un uomo buono! ecco l'uomo tormentato
dai rumori e dallo schifo, abbandonato da tutti e finalmente purificato dalla vendetta che spunta
ancora tra gli uomini giusti. Forse è impazzito, dice il giornalista, ma dentro di sé anche il giornalista
ha intuito la verità, e cioè che il vecchio è finalmente rinsavito, che ha ritrovato il suo orgoglio di
essere umano e di cittadino, che non è più un verme tremante rinchiuso ogni notte nella sua tana.
"Guarda un po'" disse Renata, "il dottorino ha fatto presto stamattina, ed è solo."
Luisa guardò il cancello principale: il dottorino non le fece nessuna impressione.
"Il vecchio sarà partito per le terme" si limitò a dire.
"Povero dottorino" ironizzò Renata con la vocina da bimba.
Poveri voi se muore il vecchio" disse Luisa, che riprese subito a leggere anche se il capo del
personale stava facendo il suo giro.
Un pensionato contro il mondo intero. Con la sua vecchia doppietta contro i giovani mostri.
Pensò di scrivergli, di andare al processo, di testimoniare davanti al giudice. Signor giudice sono
anch'io una vittima come il pover'uomo che lei ha imprigionato e che si presenta ora al suo giudizio.
Ogni essere umano ha diritto al silenzio, almeno di notte e almeno nella sua camera da letto. A casa
sua in collina, signor giudice, dove senz'altro abiterà in un piccolo quartiere di giudici, non ne saprà
niente, ma in centro e in tanti quartieri non si sopravvive più. Odore di piscia, signor giudice, odor di
latrina proprio davanti alla scuola delle suore, e pezzi di bottiglia, e lattine, e soprattutto le
maledette motociclette di ogni misura, che Dio stramaledica chi le ha inventate e chi le vende.
Ruuum! Ruuum! e poi le risate e i gridi, alle due di notte, ma anche alle tre. Signor giudice lei sta
commettendo una grave ingiustizia nei confronti di quest'uomo, lo sta trattando come un
delinquente e invece è una delle ultime persone perbene che ci sono in città. Uno di quelli che non
ha mai gridato neppure nella stanza più riservata di casa sua, uno che può abitare sopra la tua testa
ma è come se non ci fosse. Ecco cosa direbbero anche di me: è come se non ci fosse. Pantofole di
stoffa, signor giudice. Al massimo lo sciacquone fino a mezzanotte.
Ripiegò il giornale, lasciando in bella vista la foto del suo vecchio eroe, e accese lo schermo.
Scrivere lettere ai giudici le sembrava già una stupidaggine. Peggio che scrivere ai giornali. Cosa
sperava di ottenere? Le avrebbero riso dietro, l'avrebbero trattata da vecchia. Non ci sarà mai
giustizia a questo mondo. Le si confusero le idee e preferì iniziare il lavoro, che trovò semplice e
riposante come sempre. I numeri sono fatti apposta per essere domati, non ci vuole del genio.
Interessi passivi, costi di gestione, accantonamenti. Tutte invenzioni umane, fatte da noi per noi.
"Hai saputo di Benzi?" andò a dirle all'orecchio Walter verso le undici, tutto eccitato e con l'aria
da cospiratore.
"Hai saputo o no?" le disse ancora, a voce più alta.
"E chi se ne frega, scusa! non vedi che sto facendo un ragionamento?" gli rispose seccata. E non
cercò neppure di rimediare, lo lasciò andar via con la coda tra le gambe. I numeri la stavano
distogliendo dai suoi pensieri e voleva riprendere il filo interrotto. Non le importava di litigare con
Walter, non le importava più niente del passaggio in macchina e del piccolo risparmio che faceva.
L'inverno era lontano e per il momento non le dispiaceva guidare. Non doveva sentirsi incatenata a
quei due soltanto perché guidavano meglio di lei. Poteva anche mandare tutti al diavolo e andare in
pensione. Renata cominciò a borbottare un rimprovero ed ebbe la sua parte.
"Cerca di non mettertici anche tu, per cortesia! "
Le sembrò piacevole il silenzio che seguì al suo comando. Trovava gratificante quel rancore
sordo che si sentiva attorno, quelle brutte parole che le venivano indirizzate in silenzio, vecchia
isterica, leccapiedi, venduta... Si immerse nei grandi numeri di un nuovo prodotto, appena distribuito
e già venduto in centinaia di migliaia di pezzi. Miliardi di lire. Esattamente 2 miliardi e 723 milioni più
spiccioli. Non è vero che per un contabile i numeri sono tutti uguali. I grandi numeri la riempivano di
orgoglio, anche se sapeva di non avere alcun merito. Il merito andava all'ufficio estero, al
commendatore che aveva fiutato l'affare, ai venditori: lei faceva soltanto i conti, ma comunque si
sentiva importante. Che diavolo di testa ci voleva per capire che un affarino di plastica con quattro
molle poteva dar da mangiare a centinaia di famiglie, e figurare nei numeri alti di un fatturato, ad‐
dirittura cambiare il mondo, anche se di pochissimo. Bisogna crederci, per riuscire negli affari. Un
giocattolino insignificante dava la sua piccola spinta alla grande palla! Mentre Bruno e lei, e suo
padre e sua madre, Walter, Giancarlo, potevano tutti polverizzarsi e svanire senza che cambiasse
nulla.
Verso mezzogiorno concluse il suo lavoro e come sempre portò i fogli riassuntivi al dottorino,
che trovò stanco e ingolfato di carte nell'ufficio del padre. Non gli importava niente dei numeri di
Luisa, li guardò addirittura annoiato. Era pallido e smunto, anche le labbra aveva pallide. Non era
altro che un figlio, non sarebbe mai diventato uomo.
"Insomma..." le disse deluso restituendole i fogli.
"Il commendatore è andato alle terme?" gli chiese per cortesia.
"È partito ieri sera con mia madre. Beato lui."
Luisa tornò al suo tavolo senza neppure accorgersi della presenza di Renata, che si stava
grattando la testa e non vedeva l'ora di parlarle.
"Meglio non pensarci al mare, Luì! "
Luisa aveva guardato soltanto di sfuggita la sua microscopica spiaggetta da scrivania, ma lo
sguardo era tornato subito alla foto del suo vecchio eroe. Se lo immaginò in una cella oscura, lunga e
stretta, con la testa tra le mani bagnate di lacrime. Chissà se in carcere, almeno di notte, c'è un po' di
silenzio, o se è tutto un russare e peggio, richiami, risatine di giovani maschi.
Si chiese allarmata: una volta ottenuto, questo prezioso silenzio, sarebbe stata meglio? Sarebbe
cambiata? Il silenzio che aveva richiesto si ingigantì nella sua mente come un fantasma che prende
corpo. Divenne presto un silenzio profondo. Milioni di chilometri di nulla attorno a lei. Provò a
chiedersi come un vero scienziato: cosa mi sta succedendo in questo mare di silenzio? Una risposta
deve esserci! Riuscì a rispondersi soltanto: fa caldo. Fa un gran caldo e non si respira. Questo le stava
accadendo. Il sudore le scendeva sul petto e lungo le braccia, il cinturino dell'orologio le bruciava il
polso e il colletto del grembiule le segava il collo come una corda di canapa.
"Luì ti senti male?" fu pronta a dirle Renata.
"Ho caldo. Vado a sciacquarmi in bagno. No, vado da sola, grazie."
Il bagno era deserto, ma doveva affrettarsi. Di lì a poco sarebbero arrivate le oche della
segreteria a lavarsi i denti e a sciacquettarsi le ascelle. Tolse gli occhiali e si lavò a lungo la faccia.
Davanti al lavabo c'era un lungo specchio che giungeva fino alla finestra, impossibile non guardarsi.
Era sicura di vedersi rossa come un'ubriaca e invece non lo era. Sudava ma fuori non si vedeva. Era
soltanto pallida. E la pelle delle guance era opaca e insana. Gli occhiali le avevano scavato un solco
nell'osso del naso, e forse a causa delle lenti la pelle attorno agli occhi si era fatta fragile e quasi
trasparente. Sarebbe apparsa più o meno così, appena morta.
Perché lei era molto malata. Proprio nel bagno aziendale, doveva fare una scoperta simile.
Cos'altro erano quelle continue oscillazioni di temperatura se non soprassalti di un motore che si
spegne, cos'altro le sue cupezze, le febbricole, le grandi paure. Il suo vestito di legno, come lo
chiamava suo padre, da qualche parte lo stavano già preparando. Se lo immaginò attorno e si guardò
allo specchio come se lo vedesse davvero. Pallida, tra quattro tavole inchiodate. Le mani rigide, la
bocca socchiusa in una smorfia. In questa intimità estrema la sorprese la più stupida delle segretarie,
che si avvicinò al lavabo oscillando sui fianchi come faceva con i maschi.
"Buongiorno" disse imbarazzata la ragazza. Poi si afferrò le ciglia dell'occhio destro e senza
motivo le tirò come se volesse strapparle.
"Buongiorno" rispose Luisa. Si aggiustò i capelli con la punta delle dita e tornò nel suo ufficio.
"Andiamo a pranzo?" le chiese Renata con un sorrisetto finto di chi non vuole drammatizzare.
"Se me lo porti mangio un panino."
"Tutto a posto, comandante?"
"Sì."
Nel pomeriggio disse a Giancarlo che sarebbe tornata più tardi, con la corriera o con qualche
ritardatario.
"Per un paio di settimane sarà meglio se vengo con la mia macchina" gli disse in corridoio, "farò
sempre tardi." Visto che Giancarlo non diceva niente aggiunse per non offenderlo: "Così vi lascio un
po' liberi, ma fate i bravi".
Alle cinque li guardò andar via: prima, seconda, terza, seconda, prima... Provò una profonda
tristezza quando l'au‐tomobile dei suoi compagni di viaggio sparì dietro l'angolo della carrozzeria.
C'era ancora il sole, un dolce tramonto primaverile. Le lunghe scie degli aerei e le piccole nubi basse
sull’orizzonte erano di un bel rosa. Anche se non le guardassi, pensò, sarebbero ugualmente belle.
Decise di aspettare che partisse l'autista con la posta del pomeriggio. L'avrebbe accompagnata fino
alla stazione, e da lì sarebbe tornata a casa a piedi, fermandosi lungo la strada per la spesa. Sperava
di trovare zucchine già pronte da fare al forno. Dopo cena davano un film di fantascienza, in
televisione. Pensava a queste cose, e non fingeva di lavorare. Quando squillò il telefono rispose un
po' sorpresa. Era la segretaria del dottorino, che le chiedeva di verificare un conto, secondo lei
grossolanamente inesatto. Luisa riaccese il computer con un gesto di sfida, già preparando dentro di
sé la strigliata per la ragazzina impertinente. Un errore grossolano lei! e nel conteggio delle
prenotazioni! Trovò subito la pagina incriminata e controllò. C'era un errore terribile, che neppure
Renata aveva mai commesso.
Andò a portare il foglio con la correzione alla ragazza che la stava aspettando e non riuscì a
mostrarsi disinvolta. La ragazza, per toglierla d'imbarazzo, disse che anche i più grandi computer del
mondo qualche volta sbagliano, ma Luisa la salutò senza risponderle e tornò in ufficio. Ricontrollò
ancora la pagina con l'errore, e non trovò spiegazioni. Il momento in cui aveva battuto quelle cifre
era scomparso dalla sua memoria. Ormai aveva smesso di controllare i numeri, li contemplava, si
sentiva tradita anche da loro. Il fattorino stava caricando i sacchi pieni di posta e lei lo seguì con lo
sguardo cercando di distrarsi. Quattro sacchi, probabilmente premi per i bambini che avevano
inviato i punti. La faccia serena del ragazzo che stava per fare l'ultimo viaggio della giornata. Poi
avrebbe fatto la doccia e sarebbe andato a divertirsi con gli amici. Le sembrava un tipo da biliardo, e
doveva essere bravo. Aprì il vetro per il poco che era possibile e gli gridò di aspettarla. Poi corse a
togliere il grembiule.
8.
Le dispiacque prendere dei giorni di malattia proprio quando non c'era il commendatore. Lui
l'avrebbe chiamata per chiederle come stava e le avrebbe raccomandato il riposo, forse l'avrebbe
fatta visitare dal suo medico. Purtroppo il vecchio era alle terme. A lui l'avrebbe detto subito che
aveva cambiato idea sulla pensione. Un cervello che si occupa di numeri è più delicato degli altri,
basta un niente per comprometterlo. E lei ormai dimenticava numeri di otto cifre. Una malattia, non
poteva farci niente.
Si era comprata una decina di riviste a caso, tanto per impedirsi di guardare sempre la
televisione, che durante il giorno le dava malinconia. Molti articoli parlavano di comete, ed erano
ben illustrati da foto e da grandi disegni. In quel periodo si aspettava il passaggio di una cometa.
Lesse con grande attenzione l'intervista a un famoso astrofisico americano, che le sembrò un genio.
Doveva essere un uomo affascinante, a giudicare dalla foto. Un signore alla mano, con la camicia a
scacchi e i pantaloni di tela ben stirati. Trovò invece irritanti gli articoli di medicina. Sconfiggeremo
tutto, è questione di giorni, le nuove frontiere, ormai siamo in grado, pensate che un tempo. Quasi si
stupivano quando qualcuno osava lamentarsi: ma come, soltanto perché non ha più il sedere si
sente infelice? Non le piace questo bel sacchettino lr>odore, sterile e invisibile che raccoglie le feci
all'esterno del corpo? Luisa avrebbe fatto volentieri la contabile per l'astrofisico, ma con gli esperti
della salute si sentiva di salire in cattedra. Un articolo particolarmente spudorato si intitolava: la vita
comincia a sessant'anni. Sono proprio venditori di fumo questi esperti della salute! Ma se nemmeno
il raffreddore riuscite a debellare! Luì non è scema, si disse orgogliosa, Luì mica si lascia
infinocchiare. Come diceva sua madre: Lisetta capisce al volo.
Si era formata una piacevole corrente fresca, che attraversava il soggiorno e usciva dalla finestra
spalancata della camera da letto. Lei se la godeva in poltrona, nel suo grande pigiama azzurro da
uomo. Si aspettava una crisi di panico da quando aveva deciso una volta per tutte di andare in
pensione e invece si crogiolava in una pigrizia del tutto sconosciuta, lucida e paciosa. Andava in
pensione, d'accordo, ma prima o poi ci andavano tutti. I suoi acciacchi non le permettevano più i
soliti strapazzi, ci volevano riposo e dieta, e l'aiuto del Signore.
Per pranzo si sarebbe preparata risotto con gli asparagi e già ne pregustava il profumo. Il
verduraio le aveva tenuto da parte degli asparagi bellissimi. Ammucchiò le riviste sul pavimento e
calcolò i mesi di preavviso che la dividevano dalla pensione. Se le imponevano di restare per tutto il
periodo previsto dal contratto di lavoro sarebbe stata libera alla fine di settembre. Naturalmente
avrebbe preso altri giorni di malattia, e preteso il conteggio dei giorni di ferie arretrate. Il suo unico
dovere consisteva nel chiudere bene i conti dei quali era responsabile. Per il resto il suo lavoro era
sempre in ordine perfetto e non ci sarebbe stato bisogno di un vero passaggio di consegne. Che
colpo per il commendatore. Che delusione. Non poteva più occuparsi di lui. La loro lunga
collaborazione era finita. Cercò di scegliere con cura le parole con cui gli avrebbe annunciato che se
ne andava, ma una frase le sembrava troppo sdolcinata, un'altra troppo arrogante, e non ne venne a
capo. Alla fine decise di dare l'annuncio a voce al capo del personale, senza tanti problemi. Verso
mezzogiorno le telefonò Renata. Per correttezza verso il capo del personale non le anticipò niente
delle sue decisioni.
"Tanti saluti anche dai ragazzacci, che sono venuti in pellegrinaggio davanti al tuo mare. Dicono
che senza di te si annoiano.
"Dicono, dicono..." Voleva essere più gentile, con Renata, ma non aveva voglia di scherzare.
"Allora come stai?"
"Mi sento un po' stanca. Hai visto cos'ho combinato?"
"Febbraio al posto di gennaio, marzo al posto di aprile..." Renata non riuscì più a controllarsi e
cominciò a ridere. Era il suo modo di sdrammatizzare. "Secondo me avevi il febbrone. La signora
viene a lavorare con la febbre, vuol fare l'eroe del lavoro! Me lo prometti che stavolta te li prendi un
po' di giorni? Il vecchio è andato in vacanza, tu potrai startene a casa una settimana? Ohi, non è mica
tua la fabbrica."
"Sì, una settimana come minimo."
"E ti curi, ti fai vedere dal medico e prendi le medicine e mi chiami se ti serve qualcosa?"
"Non ce l'ho, la febbre, posso uscire."
Le dettò il calendario dei lavori più urgenti e tornò a occuparsi del pranzo. Tagliando gli asparagi
ripensò con freddezza ai suoi errori. Forse nel suo corpo, senza che lei se ne accorgesse, si stava
svolgendo una battaglia terribile contro il male, e il cervello aveva altro da fare che seguire
l'ordinaria amministrazione. Diceva l'astrofisico che la morte delle stelle implicava un avvenimento
straordinario capace di rovesciare il tempo. La dissoluzione di Luisa cosa comportava? Forse niente.
Sarebbe diventata una ridicola carcassa di cartone com'era suo nonno quando lo avevano riesumato
per metterlo nel! ossario. Un mostriciattolo di ossa e cartone. Fare il risotto le era sempre piaciuto
perché l'aiutava a pensare. Girare con il cucchiaio di legno era come camminare, o come remare in
un fiume grande e tranquillo. Lei, che non aveva patenti stretti e impegni testamentari a parte la sua
piccola casa, come avrebbe dovuto prepararsi a diventare un mostriciattolo di cartone? Ma sua
madre e suo padre si erano forse preparati? E tutti gli altri? La massa sterminata di tutti gli altri?
Miliardi e miliardi e miliardi... Erano già tutti là. Si do vrebbe aver paura di un posto dove non si
conosce nessuno se invece ti dicono: ascolta, nell'altra stanza ci sono i tuoi genitori e i tuoi nonni...
Se ti dicono così perché dovresti avere paura? I maschi se la fanno sotto quando si ammalano, le
donne sono più coraggiose. Sua madre manteneva una sua grazia anche quando vomitava verde, e
non gridava mai. Dalle camere degli uomini salivano infiniti lamenti. No, Luisa se ne sarebbe andata a
modo suo. Non sarebbe mai entrata nelle camerate sporche degli ospedali. Piuttosto si sarebbe
ammazzata. Lei non doveva recitare per nessuno. Era il capo assoluto di se stessa e non intendeva
cedere il comando. Anche pensando a come sarebbe morta si comportò con il distacco dei capi che
mandano degli altri a morire al posto loro. A suo tempo si sarebbe uccisa col gas, stabilì assaggiando
il risotto, e la casa l'avrebbe lasciata alla scuola delle suore, con la raccomandazione di tenere
sempre pulito il giardino. Se ci si pensa bene si trova sempre una soluzione.
I bambini avevano appena pranzato e ora giocavano e strillavano nel giardino delle suore. Le
facevano compagnia. Non le dava fastidio proprio tutto. Neanche i fidanzati che si appartavano
lungo il muretto. Erano un po' patetici, finti, ma non le davano fastidio. Se non altro stavano zitti. I
bambini le piacevano, le piacevano anche i richiami delle suore, che per fortuna erano giovani e si
divertivano insieme ai bambini.
Accese la tivù soltanto quando portò il risotto in tavola, profumato come doveva essere. Le
notizie del telegiornale, a tratti molto drammatiche, non sovrastarono mai la sua attenzione per il
risotto. Se degli uomini erano stati così mostruosi da inventarsi la Resurrezione figuriamoci cosa
doveva essere la realtà dei telegiornali e delle riviste. Quasi certamente quelli che apparivano come
salvatori erano in realtà i responsabili del male che dicevano di combattere. Non si diffida mai
abbastanza di chi vuole aiutarci a tutti i costi e si finge premuroso e commosso. I tagli e le mutilazioni
inutili sul corpo di sua madre, per esempio. Ecco come l'avevano aiutata. Cannule nel naso, aghi
nelle vene, il catetere, le piaghe lasciate imputridire.
Walter e Giancarlo non la degnavano di una telefonata. Come stai, quando torni, ti passiamo a
prendere, vuoi un po' di spesa, o cose del genere. Niente. Quel che si dice il riserbo. Comunque, il
suo pranzo era migliore del loro. Rompere gli asparagi con i denti procura un piacere molto raffinato.
Il profumo di asparagi, carnoso e metallico, si fonde perfettamente con gli aromi del vino, anche se è
vino diluito in molta acqua.
Da circa mezz'ora non c'era più traffico, in strada. La piccola pausa dell'ora di pranzo. C'erano
pochi ragazzi davanti al bar, che parlavano quasi normalmente. Luisa accese una sigaretta e la fumò
con calma. Non aveva mai marinato la scuola, da ragazza, ma se si provava quel che provava lei in
quel momento si era persa qualcosa. In pigiama alle due del pomeriggio in un giorno lavorativo, con
le gambe allungate sul divano e la sigaretta tra le dita! Si stirò per bene e portò via il piatto. Poi tornò
a sdraiarsi sul divano. Il canarino portava per le lunghe la sua melodiosa risposta al rumore
dell'acqua e per non sembrargli insensibile modulò anche lei un bel fischio. Il venticello l'accarezzava
dolcemente: se stava tranquilla non soffriva né il caldo né il freddo. Le automobili corrono da
qualche parte, il barista serve il caffè, il benzinaio riapre la pompa, l'uomo vestito di blu torna in
banca. Lei non aveva fretta, anzi si beava nell'ozio, ancora piena di profumi di vino e di asparagi.
Soltanto una vaga ansia, un'eccitazione che le correva lungo la pelle ma che nasceva tra lo stomaco e
il cuore. La strana felicità della disubbidienza, la felicità dei birichini. In realtà lei non disubbidiva a
nessuno, era il cam‐biamento che avveniva troppo in fretta. Rombò un aereo, che però non apparve
nel suo scacco di cielo. Poi un ragazzo chiamò forte qualcuno, cinque o sei volte, mentre gli altri
ridevano. Il venticello si fece ancora più fresco, e Luisa pensò che quella era la sua temperatura
ideale. Aveva tante cose da fare, e soltanto un po' d'ansia nel petto. Il commendatore l’avrebbe
chiamata, prima o poi. Anche Walter.
Il vecchio la chiamò in sogno poco più tardi. Da un Grand Hotel dal nome tedesco
impronunciabile.
"Mi ha detto mio figlio che sta poco bene."
"Sì, commendatore." Voleva dirgli qualcos'altro ma non le riuscì. Sorrideva, anche se nessuno
poteva apprezzare questo suo sforzo. Forse sorrideva in un modo troppo servile, si rimproverò.
Gente abituata a chinare la testa. Da milioni di anni. Non si piacque ma non poteva più migliorare.
"Allora, cos'ha?" le chiese il commendatore un po' seccato. L'eccesso di servilismo irrita i
potenti. Anche questo avrebbe dovuto saperlo. L'eccesso di timidezza, anche. Il comportamento
corretto è nel giusto mezzo, in una striscia invisibile. Un filo da equilibrista.
"Perdo colpi. Da qualche mese non sto tanto bene. Pensavo di andare in pensione."
Il vecchio non disse niente. Non se l'aspettava. Era deluso. Un silenzio che aveva la strana forma
di un imbuto nero, di una piccola voragine.
"Non ho una malattia precisa" cercò di spiegare Luisa. "Non faccio che sbuffare dal caldo,
digerisco male, ho la testa tra le nuvole. "
"Sciocchezze" ridacchiò lui. "E ancora qualche sprazzo di gioventù. E allora io, che divento
sempre più freddo, che dovrei dire? Metto i calzettoni di lana e sto zitto. La maglia con le maniche
lunghe, anche i mutandoni, fino a maggio. Da ottobre a maggio. Non crederà davvero alla balla delle
terme? Sono in una clinica dove ti riscaldano il sangue artificialmente. Ci vogliono dei bei soldini,
sa?"
"Ma allora, peggiorerò... " disse lei con un filo di voce.
"Certo" le assicurò lui con saggezza. "Lo sanno tutti, be‐nedetta Luisa. Non c'è dolore più grande
del freddo."
"Lo so" ammise lei, che adesso stava per piangere. Perché aveva freddo davvero, e i brividi la
svegliarono. Era seminuda sul divano, davanti alle finestre spalancate, e non riusciva quasi a
muoversi dal freddo. Appena riuscì a muovere le braccia si rovesciò addosso i cuscini del divano e
lentamente riprese calore. Era notte, aveva dormito a lungo.
Il commendatore non l'avrebbe chiamata mai. Le avrebbe stretto la mano l'ultimo giorno di
lavoro, l'avrebbe ringraziata come faceva con tutti, le avrebbe fatto gli auguri senza alzarsi dalla
poltrona, senza smettere di pensare ai suoi affari neanche un secondo. Nessuno è importante come i
suoi affari. Soltanto sua moglie, forse. Nonostante tutto si accorse di ammirarlo. Ci sono uomini con
questo talento nel sangue, uomini costanti che non si distraggono mai dai loro obiettivi. La signora
Luisa se ne vuole andare? Arrivederci e grazie. Quante signore Luisa ho visto sedersi nel suo ufficio,
neanche lo immagina. Nessuno è indispensabile, in azienda.
Luisa pensò con orgoglio che neppure l'azienda era indi‐spensabile a lei e passò il resto della
notte a mettere ordine nel suo futuro. Con la meticolosità che tutti le riconoscevano. Stava entrando
in una fase nuova e non aveva ancora nessun programma. Si deve fare subito quello che c'è da fare,
senza aspettare domani. La scrivania di un pelandrone è sempre stracolma di carte; la scrivania di un
gran lavoratore invece è sempre libera e in ordine perfetto. Doveva scrivere lettere, consegnare
certificati, cercare vecchi documenti... All'alba aveva già chiaro un primo elenco particolareggiato
delle incombenze che l'aspettavano. Verso le dieci andò dal suo medico, che non vedendola da anni
non le negò un certificato di malattia, anzi lo scrisse con troppa convinzione, e scrisse anche una
lunga ricetta di farmaci che l'avrebbero aiutata. Le consigliò di prendere subito appuntamento con
un noto specialista e lei copiò senza protestare indirizzo e numero di telefono. Il dottore scrisse una
lunga lettera d'accompagnamento e gliela consegnò imbustata insieme alla ricetta. Ci voleva un
controllo generale, era stata un po' birichina a non farsi vedere per anni. Sì, assicurò lei, avrebbe
fissato un appuntamento al più presto. Certo che non si sentiva troppo giù. Grazie, grazie!
Buongiorno! Uscì dallo studio medico e, come aveva stabilito, andò ad aspettare il 47, che Passava
proprio lì vicino. Aveva cose più importanti da fare che perdere tempo per ambulatori e farmacie
come i pensionati che ammuffivano in sala d'attesa, carichi di analisi e lastre, sprofondati nel
confronto dei loro globuli rossi. Vigliacchi. Loro strisciavano, lei camminava a testa alta.
Il 47 faceva capolinea al cimitero comunale, e parecchi posti erano occupati da vecchiette che
portavano fiori comprati al mercato. Luisa era senza fiori, non aveva in programma visite ai suoi cari.
Aveva deciso di comprarsi un loculo e voleva sceglierlo con cura. Al telefono le avevano detto che
poteva scegliere tra diverse soluzioni. Non era una faccenda urgente ma non ci aveva mai pensato e
bisognava pensarci. Forse c'era di mezzo anche un pizzico di scaramanzia, ammise sorridendo:
preparandosi al peggio si vive più a lungo.
Le fece da guida un uomo anziano, che lavorando lì trovava normale che qualcuno andasse a
scegliersi la tomba. L'uomo sembrava sinceramente convinto della parte nuova del cimitero, che
all'inizio Luisa non voleva neppure vedere. Era molto lontana dal cancello, dall'altra parte della
collina, non le era mai capitato d'andarci. Percorsi due o tre viottoli apparvero, oltre una lunga siepe,
le cappelle nuove, in semicerchio davanti a un prato. Sulla destra, in piccoli blocchi, le sistemazioni
più economiche, ma sempre di un certo livello. Quattro, cinque piani al massimo. Assomigliavano
alle case della parte bassa dei colli: non erano ville, ma si potevano definire palazzine di lusso.
C'erano ancora pochi ospiti fissi, ma le prenotazioni erano tante, soprattutto per le cappelle
familiari: erano previsti parecchi traslochi di estinti, che abbandonavano vecchie cappelle ormai
soffocate dalle grandi costruzioni degli ultimi trent'anni, palazzacci di venti piani già pieni di crepe. La
guida le confidò: "Fra cinque anni saranno tutte occupate". Superata la diffidenza iniziale Luisa
cominciò a trovare il posto di suo gusto. Ma non doveva farsi condizionare: quando si compra
qualcosa si deve valutare ogni particolare con calma. La strada era lontana e dietro al nuovo muro di
cinta si vedeva un bel campo di grano. Scesero una piccola rampa di scale, già abbellita da una siepe
odorosa. Anche il corrimano di metallo era stato scelto con cura e sul marmo delle scale non
mancavano le strisce antiscivolo. Visti da vicino gli arredi comuni, lampade e portafoto, erano
addirittura eleganti, senza finte fiammelle o angeli piangenti. Le piaceva l'ultimo blocco a destra, a
tre piani, il più vicino al muro di cinta. Aveva anche il portichetto più grande degli altri, e la vista, se
aveva senso occuparsene, era più ampia, spaziava oltre il campo recintato e scopriva un grande
quartiere moderno. "Questi quattro sono venduti" le disse subito l'uomo perché non li scegliesse
inutilmente. Sulla sinistra c'era una sola in‐quilina. Una ragazza morta a trent'anni, bruna, dal bel
sorriso sincero: la foto era stata scattata all'aperto, in un grande giardino. Doveva essere primavera,
indossava un abitino di cotone leggero, color azzurro mare. Era morta da quattro mesi appena. Che
ragazza simpatica, niente a che vedere con quel pesce lesso di sua nipote. Sì, sarebbe stata un'ottima
vicina. "Scelgo quella in alto" disse all'uomo, che approvò in silenzio. Sembrava che volesse dirle: non
preoccuparti che ti tratto bene, puoi morire tranquilla. "È la settecentoquattordici blocco B" le disse
scandendo ogni sillaba. E Luisa prese nota, scrivendo sul retro della ricetta che non avrebbe mai
usato. "C'è un po' da camminare" disse l'uomo mentre tornavano al cancello principale, "ma non si
viene qui per passeggiare." Luisa sorrise e si guardò intorno. L'odore dei ci‐pressi era delizioso e il
cielo chiaro era pieno di rondini allegre. Seduto dietro una minuscola scrivania l'uomo le preparò i
documenti da portare al Comune, e mentre scriveva si era messo a parlare di politica in dialetto, e lei
gli rispose a tono, contenta di essere trattata da vecchia cittadina: "Gli uomini ce l'hanno sempre con
i governi, le donne dicono che tanto sono tutti uguali". "Mi creda bella signora" le disse l'uomo,
"neanche i morti sono tutti uguali." E porgendole 1 suoi fogli le confidò la sua teoria su come
avrebbe dovuto essere un cimitero. Nient'altro che un gran buco comune alla base di un muro, dove
si infila la salma avvolta nel lenzuolo. Dall'altra parte del muro, invisibile, dovrebbe esserci il torno.
Le ceneri di tutti dovrebbero essere poi mescolate e usate per concimare fiori e piante. I parenti, se
vogliono, vanno davanti a quel muro e piangono, o mettono i biglietti ai morti come fanno gli ebrei
davanti al muro del pianto. Gli ^servienti dovrebbero raccogliere i biglietti e occuparsi dei fiori. E
forse tenere un registro pubblico, forse un computer. Cremato in questo punto il giorno X dell'anno
Y. "Ma visto che il muro crematorio non c'è" gli chiese Luisa, "che tipo di bara consiglia?"
"Quella che costa meno" consigliò subito l'uomo senza esitare, "la bara non ha nessuna
importanza, è una truffa bella e buona. Se li sputtani al cinema o nei mari del sud, i suoi risparmi."
Il mondo è pieno di uomini saggi inascoltati, pensò Luisa tornando alla fermata dell'autobus. In
alcuni punti della città, forse ogni giorno, spuntavano idee geniali che tutte insieme avrebbero
cambiato il mondo.
Al capolinea non c'erano autobus. Una vecchia la guardava dal suo bancone di fiori e Luisa si
avvicinò per ingannare l'attesa. Non offriva una grande scelta ma i fiori che aveva erano belli. Luisa si
sentì subito in colpa: le tombe dei suoi genitori erano là a due passi e non le visitava da mesi.
Comprò un bel mazzo di fiori e si affrettò verso un ingresso secondario che consentiva di aggirare
gran parte del settore monumentale. Non doveva percorrere più di cento metri, ma il peso
dell'acqua e lo scomodo contenitore bucato con cui fu costretta a portarla le costarono una sudata.
La tomba del padre era impolverata e spoglia. Luisa la pulì con un fazzoletto di carta, poi sistemò i
fiori, che erano davvero stupendi. La foto di suo padre era vecchio stile, e proprio per questo le
piaceva più di molte altre. Baffetti ben curati, basette leggermente lunghe, giacca grigia e camicia
abbottonata senza cravatta. Uno sguardo fermo e onesto, più da capitano dei bersaglieri che da
impiegato delle poste. La tomba di sua madre si trovava una decina di metri più avanti, al terzo pia‐
no. Pulì la lapide e la foto e mise i fiori che le restavano. Poi disse il Padre nostro e tornò in fretta alla
fermata dell'autobus. Fece appena in tempo a salire sul 47, che stava chiudendo le portiere. Sedette
nell'ultima fila e si voltò a guardare il cimitero, le sue lunghe file di cipressi, i negozi di fiori che lo
assediavano. Che luogo strano, pensò. Un cimitero è nello stesso tempo il posto più sacro e il più
insignificante del mondo. Mummie, pupazzi di cartone. Su quei poveri resti doveva regnare il Signore
dell'Apocalisse e della Misericordia infinita. Non c'è tra gli umani una pietà simile. Luisa chiuse gli
occhi e immaginò il manto bianco e profumato del Possente Sconosciuto pieno di compassione che
riprende tutto ciò che è suo. Anche i vostri capelli sono contati, in Cielo, ogni vostro più misero
escremento, ogni goccia di saliva, ogni goccia di sangue.
Giunse in Comune un po' affannata ma appena firmò l'assegno e lo consegnò all'impiegato
tornò a sentirsi di ottimo umore. Di solito quando incontrava gli impiegati pubblici, che trovava
ignoranti e rozzi, restava contrariata per ore, e immaginava discorsi infuocati da rivolgere al sindaco
e alla città. Ormai non aveva più bisogno di loro. Adesso il suo cervello poteva lasciarsi andare: aveva
pensato quasi a tutto. I conti veramente importanti erano chiusi. Le restavano circa quaranta milioni,
e naturalmente la casa, più qualche piccolo investimento, e poi la pensione, che per quanto modesta
a lei poteva bastare.
Il bar di fronte alla cattedrale aveva i tavolini fuori e le sembrò una buona idea comprare un
giornale e sedersi all'ombra a bere qualcosa. Ordinò un cappuccino e cominciò a leggere la cronaca
locale. Del suo eroe assassino si parlava soltanto in breve, per annunciare i funerali del ragazzo.
Guardò i giovanotti che le giravano attorno, in motorino o a piedi, e non li trovò troppo sgradevoli: di
mattina sono più buoni, pensò, forse hanno sonno i cucciolotti. Sempre in cronaca trovò la notizia di
due incidenti mortali: due ragazzi in moto e un vecchio precipitato in un fosso con la sua macchina.
Chissà se uno di loro sarebbe finito nella parte nuova del cimitero. I piccioni razzolavano tra i
tavolini, nell'aria galleggiava un tenue odore d'asfalto che non le dispiaceva. Sulla cattedrale batteva
il sole e la faceva brillare. Brillavano anche le grandi piante alloggiate nei vasi, e anche i fiori che
circondavano lo spazio del bar, ciclamini e gerani rossi e bianchi.
Pagò il cappuccino e andò a piedi verso casa, sostando per riposarsi in un paio di negozi che le
piacevano. Quando arrivò a casa aveva due buste di regali: alcuni film in cassetta e diversi gialli di
Maigret e Nero Wolfe. Dopo pranzo cominciò a leggere un giallo, ma aveva difficoltà a ricordarsi i
nomi dei personaggi e doveva continuamente ricorrere all'indice. Riusciva a seguire soltanto i pranzi
e le descrizioni dei delitti. Dopo un'ora si stancò della lettura e accese la televisione. Bisogna
riabituarsi a leggere, ci vorrà un po' di ginnastica. Guardò a lungo la trasmissione di una cartomante
che si faceva consultare al telefono. Era una donna della sua età, che forse ci credeva nei suoi
tarocchi, ma le sembrò soprattutto una furbacchiona, pronta a captare informazioni dai suoi clienti.
C'è stata una perdita, so che c'è stata, e dall'altra parte quasi lacrime. Sì è vero, c'è stata, e molto
importante per me. Troppo facile, pensò Luisa: quando una povera donna si riduce a telefonare alla
cartomante qualcosa l'ha persa di sicuro. Ogni tanto però la maga ci prendeva, e non sempre in
modo così banale. Lascialo perdere, stava raccomandando a una ragazzina dalla voce tremante, è
una faccenda che non va. Dici sul serio?! Sì, meglio parlare chiaro. Ci sono altre donne, altri interessi,
sei soltanto una specie di trastullo. Da lui non verrà mai nient'altro: tradimento, perdita di denaro,
addirittura pericoli personali anche gravi. Corre con Ja macchina? E allora lascialo perdere del tutto.
Ci muore qualcuno, con lui, se proprio lo vuoi sapere, è un uomo che porta male, anche se lui ne
esce sempre bene. Eccolo qua. Il demonio. La morte. Ciao bambina mia. Stai in guardia. Un'altra
telefonata. Pronto?
Apparve ancora la carta del diavolo, in televisione, e stavolta Luisa si spaventò. Se l'immaginò
nudo e sudato, con gli occhi iniettati di sangue, i ricci neri incollati dal sudore attorno a due piccole
corna appuntite. Senza zoccoli, con le mani bellissime, circondato da luci di fuoco. Un diavolo di circa
trent'anni, che naturalmente assomigliava a Bruno. Anche il sesso che gli penzolava davanti era
rosso fuoco, e lo rendeva ridicolo. Come poteva farle paura un diavolo travestito da Bruno? Le tornò
in mente una confidenza di sua cugina, che continuava a subire i frequenti assalti sessuali del marito
senza averne più voglia. Sono asciutta, le aveva confidato, è come infilarlo in una bistecca.
Espressione che l'aveva stupita, perché non apparteneva al suo linguaggio abituale. Probabilmente
sua cugina sperava di guadagnarsi la casa per la figlia, con le sue visite e la sua amicizia da ultima
parente. Niente di più facile. Faceva male a sperarlo. Andò a prendere un foglio e cominciò a
scrivere, sotta la sua responsabilità ed essendo pienamente vigile eccetera, che il suo appartamento
sito in via eccetera, lo donava alle Suore del San‐tissimo Cuore, che però potevano soltanto venderlo
per abbellire o comunque migliorare, e soprattutto tenere pulita, la loro scuola materna situata in
via eccetera sotto le sue finestre. Dei suoi residui bancari disponeva che venissero divisi al cinquanta
per cento tra sua cugina e le suore, al netto delle spese per il funerale. Al proposito, gradiva una
semplice bara di faggio e disponeva di essere traslata con carro comunale e senza fiori nella sua
proprietà numero eccetera presso il cimitero comunale, di sua proprietà secondo gli atti eccetera.
Rilesse due volte quel che aveva scritto e lo firmò. Era il primo giorno che dedicava soltanto a se
stessa e aveva già firmato un mucchio di carte. Aveva anche portato i fiori ai suoi genitori. Sì, stava
lavorando bene. Renata e Walter, per prendere decisioni molto meno importanti, si agitavano e si
lagnavano per mesi. Alzò un po' il volume della televisione e riordinò la casa. Poi si mise a stirare.
Non le dispiaceva, stirare, a volte la rilassava, ma ormai doveva farlo di mattina presto, quando era
fresco, oppure di sera. Stirava da dieci minuti ed era tutta sudata. Anche se non le piaceva continuò
a stirare in sottoveste. Aveva montato l'asse al centro del soggiorno, nel punto più ventilato della
casa, e per favorire le correnti aveva bloccato le porte con le sedie. Ma se il vento era caldo come
poteva rinfrescarla? Era un vento di citta, che sapeva di polvere e benzina, e anche di gomma
bruciata. Per sicurezza annusò il ferro da stiro ma l'odore non veniva da lì.
Le settimane che fu costretta a passare in azienda non fecero che accentuare il suo distacco,
anche perché aveva deciso di andare al lavoro da sola, con la sua macchina. Il commendatore,
tornato dalle cure termali, era sempre di cattivo umore e le teneva il broncio. Quando si
incontravano lo salutava per prima, ma lui si limitava a borbottare senza guardarla. Il dottorino
invece la salutava sempre, e qualche volta le sorrideva con il suo musetto da coniglio albino, forse
perché lei aveva osato sfidare il volere del padre. Luisa aveva sempre pensato che l'addio al lavoro
sarebbe stato un momento terribile, ma non fu così. Un giorno guardò con occhio diverso anche la
piccola spiaggia sulla sua scrivania, le conchiglie bianche e la sabbia che tante volte aveva toccato
con i polpastrelli. La sua spiaggia era una cianfrusaglia ridicola. Si girò tra le dita il grande posacenere
che la conteneva e la gettò nel cestino.
Non fece più errori, nei suoi conti, anche se aveva dovuto affrontare una grande mole di
arretrato. Del lavoro le pesavano soprattutto il viaggio di andata e ritorno e la conversazione con i
colleghi, che le parlavano sempre della sua pensione. Ormai l'azienda per lei non era altro che un
capannone come tutti gli altri, e anche il commendatore e i capi le sembravano insignificanti. La
stanza del campionario, che aveva sempre trovato sinistra, le dava ormai una vera e propria nausea,
e purtroppo anche la maggior parte dei colleghi le causava lo stesso disturbo. Quando Renata le
parlava doveva evitare di guardarla, e anche se non la guardava l'odore sgradevole che usciva dalla
sua vicina le dava il voltastomaco.
Proprio in quel periodo il commendatore assunse una nuova impiegata di alto livello, una
giovane donna laureata in materie letterarie che però si occupava di marketing. Aveva la bocca
brutta ed era anche piuttosto grassa, credeva di essere bella e invece sprizzava volgarità da ogni
poro. La vedeva spesso attraversare i corridoi con un vasetto di yogurt in mano, e quando incontrava
qualcuno rideva forte e mandava giù un paio di cucchiaiate senza curarsi di pulirsi le labbra. Così
quando parlava lanciava schizzi di yogurt sui suoi interlocutori e le si formava un po' di bava bianca
agli angoli della bocca. Luisa l'aveva accolta molto freddamente, e l'altra aveva risposto ignorandola.
Del resto era troppo impegnata nelle sue continue visite ai dirigenti: passava da un direttore all'altro
ancheggiando sul suo grande sedere, trasportando orgogliosa fascicoli sempre più pesanti. Bastava
guardarla per capire che non sarebbe durata a lungo.
Forse per far posto alla nuova arrivata le abbonarono gli ultimi due mesi di lavoro e Luisa si
trovò Ubera prima delle ferie estive.
"Tanti auguri e grazie" le disse il commendatore prima di rispondere a una telefonata. Le porse
la mano come avrebbe fatto un alto prelato, senza alzarsi, e rispondendo "pronto" con un filo di
voce.
"Auguri anche a lei" gli rispose girando allegra sui tacchi.
Poi scese la scala dei capi con la cartella strapiena dei suoi oggetti personali e attaccò un
biglietto in bacheca per i colleghi che erano già a pranzo:
SALUTI A TUTTI, LUISA.
A Renata l'aveva detto che sarebbe andata via senza salutare. Per tutti gli altri un biglietto
poteva bastare. Prima di voltare a destra, allo stop, guardò nello specchietto la sua azienda, e cercò
di capire cosa provava. Era tesa, il cuore le batteva forte, e le sfuggì un sorriso nervoso. Sono
contenta, pensò pigiando l'acceleratore, e imboccò fischiettando la strada di casa.
9.
Quando Renata le telefonava dall'ufficio Luisa non sapeva che dirle. Fingeva di interessarsi ai
suoi pettegolezzi ma in realtà l'annoiavano e non le stuzzicavano nessuna nostalgia. Anche i
complimenti più sperticati, che forse Renata arricchiva con qualcosa di suo, li dimenticava in un
attimo. La migliore contabile. Una persona corretta. Una così bella signora. Parole altisonanti che si
dicono quando non si ha niente da dire. Visi, stanze, giocattoli, strade di tanti anni, sbiadivano
dentro di lei ogni giorno di più, e senza lasciare tracce. Anche Renata, che aveva pianto al momento
dei saluti, se ne stava facendo una ragione e presto l'avrebbe dimenticata.
Il vuoto lasciato dal lavoro si faceva sentire soprattutto attraverso il corpo. A un certo punto del
mattino, tra le nove e le dieci, si trovava seduta al tavolo da pranzo con le braccia conserte e lo
sguardo smarrito nel vuoto. Il suo corpo conti‐nuava a sedersi a una scrivania, e gli occhi cercavano
inutilmente lo schermo di un computer. Anche le dita sembravano orfane della loro tastiera e non
sapevano che fare. Appena Luisa se ne rendeva conto si alzava e andava a sdraiarsi sul divano, e lì si
stirava, sbadigliava, muoveva le dita dei piedi. J‐fentacinque anni sono una vita. Era necessario un
periodo disintossicazione, non soltanto per il suo stomaco. Se lo stomaco poteva essere curato con
la dieta il resto del corpo aveva bisogno di svaghi e di nuovi interessi, e naturalmente d'aria aperta e
di sole. Cercò quindi di imporsi l'abitudine di andare ai giardini pubblici ogni mattina, se non pioveva
e se si sentiva bene. La febbricola, che aveva deciso di ignorare, le tornava soltanto di pomeriggio.
Verso le dieci infilava un giallo o qualche rivista nella borsa e camminava con calma fino ai giardini.
Non incontrava mai vecchi, soltanto studenti e mamme con le loro carrozzine. Gli studenti, quasi
tutti universitari, studiavano o dormivano, le mamme invece leggevano riviste e cullavano i figli,
ognuna con un suo ritmo particolare. Se i bambini piangevano le mamme andavano avanti e indietro
per un po', o li tiravano su e mostravano le ochette e i cigni. Un giorno notò che erano pochissime le
mamme con bambini già in grado di camminare. Erano tutte al lavoro, prese dai loro pezzetti di
plastica, dalle viti, dalle lettere commerciali. Che peccato, pensò, che perdita.
Più di un paio d'ore ai giardini non resisteva. La imbarazzava leggere e sentirsi continuamente
guardata, anche se in realtà nessuno la guardava in modo speciale. Stare in mezzo agli altri è una
gran fatica, a un certo punto viene voglia di tornare a casa e togliersi le scarpe e il vestito e indossare
qualcosa di veramente comodo. Le sarebbe piaciuto sbattere la porta in faccia anche ai rumori dei
ragazzi, ma quelli entravano dappertutto, invadevano la casa, le orecchie, il cervello". Non li vedi ma
ti stanno sempre addosso, e ti ricordano che non hai neppure una stanza che si possa definire tua,
che non hai veramente niente.
I ragazzi cominciarono a usare il piazzale dei garage per giocare a calcio. Ogni sera fino a
mezzanotte e oltre, qualche volta fino alle tre. Un vicino aveva protestato e i ragazzi l'avevano
mandato a quel paese. Con i loro muscoletti da palestra e lo sguardo fisso degli idioti non vedevano
l'ora di litigare. Vieni giù, stronzo! aveva gridato uno mettendosi sotto la luce del lampione. Non
sarebbe stato un peccato mortale ammazzarli con i vasi dei gerani che c'erano in terrazza, aveva
fatto bene il suo eroe vecchietto implacabilmente scomparso dalle notizie di cronaca, povero
martire. Basta con la difesa di questi deficienti. Non avrebbe mai più votato a sinistra, visto che la
sinistra li giustificava e li coccolava. Motori che si avviano, motociclette che si impennano,
musicaccia. Tum‐tum‐tum, tum‐tum‐tum! La stupidità avanza, il nulla avanza, l'impero del male! No,
Dio non può averla fabbricata della roba come questa. Anche se Dio esiste non ha di certo creato
questo mondo. Forse esiste altrove, e qua e là nell'universo nascono porcherie delle quali lui non è
responsabile. Perché gridavano? Perché imponevano la loro musica orrenda a tutto il quartiere!? In
certi momenti perdeva il controllo e dentro di sé gridava insulti che nella loro enormità le
rimbombavano in testa per ore. Porci! Stronzi! Figli di puttana!
La tranquillità era un suo diritto e la mancanza di interlocutori la faceva ribollire di rabbia.
Scrisse tre lettere al sindaco e le stracciò una dopo l'altra. In uno scatto di rabbia lanciò in strada una
sigaretta accesa e gridò "Basta" con tutta la forza che aveva. Non poteva andare avanti così. Non
riusciva a leggere, non riusciva a pensare ad altro che ai ragazzi. Un pomeriggio si sentì obbligata a
fare qualcosa e andò a comprare tre scatole di grossi chiodi d'acciaio. Li scelse con la testa larga e
piatta, perché potessero tenersi in piedi. Ogni sera, quando cominciavano i rumori, li tirava fuori
dalle scatole e li disponeva sul tavolinetto come soldatini del suo esercito personale. Anche se
guardava la televisione ogni tanto si distraeva e passava in rassegna il suo esercito di chiodi.
Per alcune sere si accontentò di schierarli, poi un pomeriggio decise che li avrebbe usati. Si coprì
i capelli con un fazzoletto che non usava mai, infilò un vecchio soprabito, e uscì che era quasi l'ora di
cena, quando il traffico per un momento si placava e i bar erano quasi deserti. Camminando lasciò
cadere manciate di chiodi nei punti stabiliti, davanti al bar e nei pressi dell'imbocco dei garage. Non
tutti i chiodi testavano dritti. Molti si sdraiavano sul fianco e non avrebbero mai fatto il loro dovere.
Ne rimase in piedi appena una ventina. Luisa attraversò due volte la strada per controllare: la prima
volta prese un aperitivo analcolico al bar, la seconda comprò una rivista d'arredamento. Si muoveva
con il coraggio di un soldato in missione oltre le linee nemiche, con la stessa ansia nel cuore. Stava
compiendo un gesto così abnorme che non riusciva a descriverselo. Salì in casa stravolta e
completamente sudata, ma senza pentimenti.
Dopo una lunga doccia cenò con calma e attese l'arrivo dei ragazzi. Era una sera calda, ne
sarebbero arrivati tanti. Infatti nel giro di un'ora il viale cominciò a popolarsi. Moto, macchine,
rumore di palla sgonfia contro il muro, gridi, risate, richiami. Nessuno si lamentava. E i suoi chiodi?
Com'era possibile? Verso le dieci, per fortuna, si formò un capannello attorno a una moto. Luisa si
precipitò nella terrazza condominiale per guardare meglio. La moto aveva una ruota a terra. Era una
grossa moto, delle più rumorose. Il giovanotto, un tipaccio grande e grosso come la sua moto, era
sceso e si stava sfilando il casco. Gli altri lo prendevano in giro, e lui bestemmiava. Non avrebbe
potuto colpire un bersaglio migliore. Ma era poco, pensò, troppo poco. Anche i vasi di gerani, si
sarebbero meritati, dritti sulle loro stupide teste.
Aspettò in terrazza altri dieci minuti, ma non accadde niente. La folla dei ragazzi inghiottì il
motociclista infuriato e tutto tornò come prima. Un po' delusa rientrò in casa e decise di guardare
E.T., anche se ormai conosceva a memoria tutte le battute e il pupazzo non la inteneriva più. Dopo
un quarto d'ora ammise che si annoiava. Erano appena le dieci e trenta. Si rivestì e andò a mangiare
un gelato. C'era un piccolo chiosco di fronte al cancello principale dei giardini. Passando in mezzo ai
ragazzi li trovò quasi normali, le sembrò ragionevole che tutti avessero voglia di stare all'aperto in
una bella serata come quella. Forse aveva sbagliato a seminare 1 chiodi. Si arrabbiava troppo e
perdeva il controllo. In fondo era estate.
Le luci artificiali non permettevano di vedere il cielo: doveva essere stellato, e da qualche parte
c'era senz'altro una grande luna. L'aria era fresca, e anche i pensieri le si formavano lucidi e sensati.
Mentre mangiava il gelato pensò che la sua vita doveva ancora prendere un ritmo. Stava vivendo
come se fosse in vacanza, e invece quella era la sua nuova vita. Lei aveva bisogno di abitudini, di
orari: il giovedì al cinema, la domenica in campagna da sua cugina, il lunedì bucato, il martedì stirare,
alle otto sveglia, alle nove spesa, alle tre lettura... La cameriera che le aveva portato il gelato e che
ora le mostrava il conto era molto gentile: le lasciò un po' di mancia e se ne andò nella direzione
opposta a quella di casa. Progettare i giorni futuri la rilassava. All'incrocio, anziché salire verso la
collina, prese una stradina del centro che portava al suo quartiere d'origine. Le piaceva riconoscere i
vecchi negozi, l'edicola, un'insegna sopravvissuta e ora esibita come un pezzo d'antiquariato. Al
posto di un elegante negozio di abiti c'era una sartoria senza pretese, piccola e satura di vapori. Suo
padre incontrava lì i suoi migliori amici, dietro una tenda spessa che sapeva di fumo. E lassù, in cima
alle scale, c'era il vecchio carcere. Salì le scale e trovò ancora la lapide.
Qui, le aveva detto suo padre indicando la lapide già allora quasi illeggibile, sono stati fucilati gli
anarchici. Gli ultimi italiani perbene. Uno di loro era amico intimo di tuo nonno, che era socialista, e
infatti guarda bene, proprio all'inizio: porta il mio stesso nome. Si leggeva soltanto l'ultima riga:
Assassinati dal piombo regio. In quel momento stava uscendo dal cinema una gran folla, e lei aveva
notato con tristezza che nessuno alzava lo sguardo verso la lapide dei poveri anarchici assassinati dal
piombo regio. Re assassini o incapaci, padroni ladri! Soltanto suo padre sapeva la verità del mondo. E
se ne andava avanti con le mani intrecciate dietro la schiena.
Ecco da che razza discende mio padre, si disse piena d orgoglio. Dai grandi eroi della storia.
Spartaco con la faccia di Kirk Douglas, Garibaldi, Carlo Marx, Errico Malate‐sta. Non ricordava più
niente di storia, né le guerre puniche ne lo scoppio della prima guerra mondiale, e neppure i morti
causati dalla seconda. Un miliardo, forse due. Pensò che i m°rti sono discreti, che non si dispiacciono
di essere dimenticati, che ti lasciano libera. Puoi dimenticare l'anniversario della loro morte e non
visitarli mai, senza offesa.
Era difficile camminare sul selciato sconnesso. Cominciava a sentirsi le caviglie indolenzite.
Quando riaffiorava il sudore si fermava e fingeva di interessarsi a un vecchio portone, a una
madonnina impolverata, addirittura a un'automobile. Se non c'era proprio niente da guardare
fissava l'orologio, o scrutava in cielo, come se aspettasse l'arrivo di un'astronave. Uscendo da un
vicolo poco illuminato si accorse di aver perso l'orientamento. Non sapeva più dove andare.
Camminò a caso per un po', senza allarmarsi. Riconosceva i singoli palazzi, i portoni, i negozi, ma tutti
insieme formavano una strada sconosciuta. Nel giro di pochi minuti sbucò in una piazzetta familiare,
dove aveva giocato da bambina, e la città riprese il suo solito assetto. Passata del tutto l'ansia dello
smarrimento pensò che era stata una bella sen‐sazione, forse anche brutta mentre la viveva, ma era
stato bello ritrovarsi dopo essersi perduta.
Tornò a casa attraverso il centro, sbucando nella piazzetta del vecchio mercato. Attorno al
locale notturno pullulavano ragazzi, e i bar della zona ne vomitavano altrettanti. Lunghe file di
motociclette, macchine aggrovigliate nei posteggi, musiche che si intrecciavano. Giunta davanti a
casa sua notò che i chiodi non c'erano più, e le facce dei ragazzi non sembravano diverse dal solito.
Nell'ascensore ebbe un piacevole brivido di freddo. Si strinse nella giacca di cotone e si sfregò le
braccia. La stanchezza aiuta a dimenticare, è come una medicina. Chiuse persiane e finestre, tirò le
tende, e si addormentò quasi subito.
Il giorno dopo le raccontarono che un chiodo si era piantato nel piede di un ragazzo.
L'edicolante dava la colpa ai ragazzi stessi che, per chissà quale bega di bande, si lanciavano
manciate di chiodi. Ci mancavano i chiodi, non bastavano le pisciate con licenza parlando. Luisa gli
rispose scuotendo il capo e sorridendo. Non aveva compiuto un gran gesto, a pensarci bene. Doveva
sorvegliare i suoi nervi, e rispettare i programmi stabiliti. Tra questi c'erano anche alcune letture
importanti. Aveva già letto, sia pure con molte difficoltà, due interi capitoli di un gigantesco manuale
di economia generale. Quel giorno cominciò a leggere la Bibbia. Anche se era appartenuta a sua
madre non l'aveva mai aperta e non sapeva orientarsi. Ricordava soltanto gli episodi dei Vangeli che
le raccontavano da bambina. Si fermò per caso sul Vangelo di San Giovanni e si immerse nella
lettura, senza trascurare neppure una nota di commento. Lo lesse e lo rilesse, annotando in un
quaderno le frasi più importanti.
Segnò con cura i nomi di due luoghi: il torrente Cedron e il colle del Cranio, Gòlgota in ebraico.
Immaginava con molti particolari questi due luoghi cruciali della vicenda. Vedeva le palme, la luna, le
nubi lunghe e nere, drappelli di soldati romani che si muovevano nella poca luce, carri tirati da un
cavallo, casette fresche di calce. Quei luoghi esistono, non c'è dubbio. Le procurava una strana
eccitazione pensare a storie così antiche. Duemila anni. Cercò di immaginarsi quel tempo mettendo
in fila venti uomini di cent'anni. Non erano tanti. Al cimitero aveva visto la tomba di un uomo morto
a centotré anni. Venti tombe di centenari e si sprofondava in quel passato lontano. Il torrente
Cedron, il Gòlgota, le casupole bianche, il deserto. Un tempo corrispondente a venti tombe non si
poteva considerare eccessivo. Ma uomini che erano stati capaci di inventare la storia bellissima di
E.T non potevano aver inventato qualunque altra storia? Rilesse decine di volte un rigo dei suoi
appunti: "E lui il discepolo che attesta queste cose e le ha scritte". E come quando metteva il dito su
una cifra capace di determinarne infinite altre stabilì che quello era il centro del libro. E di fronte a
quel centro suo padre, e alla fine anche sua madre nella clinica di San Francesco, aggrottavano la
fronte e dicevano no. Non credevano. Purtroppo, non ci credevano. "Se non credete in me credete
nelle mie opere." Ma quali opere? Erano soltanto Parole.
Doveva pensarci con calma, non liquidare su due piedi mtera questione. I dubbi religiosi le
risvegliarono il cervello c°me un calcolo molto difficile. Era necessario conoscere bene i testi, si disse
con scrupolo scientifico, prima di formarsi un'opinione personale. Accese la radio e decise di lavare
le finestre anche se era buio. Si sentiva bene e voleva approfit‐tarne. Le persiane le aveva lavate di
recente, erano ancora abbastanza pulite. Dalla sua scala pieghevole poteva vedere quasi tutta la
strada, piena di motociclette e ragazzi. Il rumore del pallone non cessava mai, dal pomeriggio alla
sera. Cercò di ignorarlo e continuò a pensare ai deserti, dove apparivano angeli immacolati o
bugiardi furbissimi. In quel tempo i deserti pullulavano di angeli: entravano nelle case e nelle tombe,
volavano sulle dune, accompagnavano i santi. Forse solo le anime di bambini non nati sono angeli
veri, puri come il vento fresco che pulisce il cielo sopra ai giardini e asciuga il sudore. Mise il panno
nel catino e pensò: chiedo nel tuo nome di vedere uno dei tuoi angeli almeno una volta, anche
soltanto un secondo. Guardò negli angoli della stanza, sui mobili, attorno alle luci dei lampioni. Si
sarebbe accontentata di un angelo grande come una bambola. L'angelo non apparve e Luisa si sentì
sola. Allora chiese di poter rivedere suo padre e sua madre, ma non li vide. Doveva essere colpa sua.
Forse non sentiva più la loro mancanza; provava anzi uno strano sollievo a saperli usciti di scena. La
facevano sentire più libera. Ora sarebbero vecchi e malati, e umiliati dal bisogno di cure. Per fortuna
era sola e poteva pensare alle cose importanti. Una croce sul teschio, il Figlio dell'Uomo innalzato
sulle genti. E quando tornerà a svegliarci occuperà tutto lo spazio del cielo. Le venne in mente una
vecchia strada infangata. Due piedi nudi che procedevano a fatica nella melma, e poi case di pietra e
piccole cucine illuminate da mozziconi di candela e vecchie lampade. Sentì nel naso l'odore del suo
passato, dell'umidità e della terra. Poi si accorse che l'umidità stava aumentando, che addirittura
non ce la faceva più a respirare, che la testa le girava. Si affrettò a scendere dalla scala, ma nella
fretta mancò l'ultimo gradino e cadde in avanti, rovesciando il catino pieno d'acqua proprio sul
tappeto. Con le mani tremanti si palpò subito braccia e gambe in cerca di fratture. Per fortuna non si
era fatta niente piccoli dolori qua e là, alle ginocchia e a un polso, un formicolio diffuso in tutto il
corpo.
Si mise seduta sul tappeto e rise per lo scampato pericolo. Pensò che la frase più bella che aveva
letto nel pomeriggio era quella che descriveva Gesù davanti al corpo di Lazzaro: "Gesù pianse".
Come si poteva mentire su un fatto del genere? Continuò a pensarci, mentre davanti ai garage si era
accesa una vera partita di calcio con tanto di tifo, e il frastuono era insopportabile.
Il rumore della palla che rimbombava nel cortile sarebbe stato il rumore di fondo della sua
estate, doveva rassegnarsi. I ragazzi aumentavano di sera in sera. Luisa cercò di contarli e arrivò fino
a duecento, ma siccome si muovevano di continuo da un marciapiede all'altro dovette rinunciare.
Dovevano essere almeno cinquecento. La palla continuava a colpire il muro ogni venti, trenta
secondi. Poi qualcuno gridava di gioia perché il muro dei garage era la loro porta. Per non arrabbiarsi
decise di riguardare le foto buttate alla rinfusa nel cassettone della camera piccola. La incuriosiva
vedere le stesse foto che aveva guardato Bruno cercando quella del luccio. Lo strato superficiale del
cassettone era quasi tutto occupato dalle foto del viaggio in Grecia. La loro vera luna di miele, fatta
due anni prima di sposarsi. Il loro grande trasporto sessuale. Passavano gran parte del tempo in
camera. Proprio nella casetta dietro l'ombrellone di paglia. Il traghetto, il suo primo paese straniero.
L'aragosta viva, la cernia trafitta ormai agonizzante, la bistecca di cernia alla brace, profumata alle
erbe. Fammi quello che vuoi!, gli aveva gridato durante un amplesso focoso. Fammi quello che vuoi!
Le sembrava comico, ma l'aveva gridato davvero, con quella faccia allegra fissata per sempre nei
ritratti, e chissà quanti turisti l'avevano sentita.
Poi scavò tra le foto più vecchie. Lei con sua madre, il primo vestito, la cresima, lei con sua
madre e suo padre in bicicletta. La salita delle suore. Il matrimonio dei suoi genitori. Poco prima
gridava dentro di sé Fammi quello che vuoi! e adesso quasi piangeva. Chissà se suo padre l'aveva
vista anche in quei giorni d'estate, laggiù in Grecia. I morti vedono tutto e non si scandalizzano.
Come noi quando vediamo i gatti che si accoppiano. Una frenesia estiva che serve a salvaguardare la
specie. I morti guardano con un distacco che non fa provare vergogna. Ammesso che guardino.
Uomini e donne che mangiano e fanno la cacca, bello spettacolo. Prese la foto del matrimonio dei
suoi genitori e andò a sistemarla sulla credenza del soggiorno. Prima o poi doveva farla incorniciare,
così afflosciata faceva tristezza. Accese il fuoco sotto gli involtini e tornò a guardare la foto. Il padre
era troppo magro e sua madre aveva l'ombra dei baffi. Gli abiti, brutti e rigidi, sembravano tagliati
con l'accetta, e dovevano pesare come coperte.
L'estate avanzava, il caldo si faceva asfissiante. Luisa si svegliava presto, quando la città ancora
dormiva, e faceva colazione davanti alla finestra spalancata sull'alba rosa e azzurra. Soltanto i
rondoni erano svegli e sfrecciavano silenziosi in grandi cerchi. L'alba serena, che guardava con
piacere, era anche una grande minaccia di caldo, che infatti esplodeva già attorno alle sette. Andava
a passeggio sempre più presto, quando in strada si muovevano soltanto i camion della nettezza
urbana e quelli dei lattai, e presto tornava a rifugiarsi a casa, dove poteva togliere i vestiti e fare
quante docce voleva. Acquistò un condizionatore trasportabile, che teneva acceso soltanto nelle ore
più calde perché le dava il mal di testa. Davanti alla poltrona il suo vecchio ventilatore funzionava
fino a sera. Ormai stirava soltanto prima che spuntasse il sole, ascoltando alla radio un programma
per camionisti. Non riusciva quasi mai a rispettare gli orari stabiliti. Mangiava senza appetito, e
soltanto dopo il tramonto. Leggeva a lungo, soprattutto i gialli di Nero Wolfe, e seguiva i telegiornali,
con grande interesse quando succedeva qualcosa di clamoroso come guerre o stragi, e con profonda
tristezza quando si parlava soltanto di politica. Se due eserciti si affrontavano, se si levava in volo
l'aviazione militare, allora la sua giornata cominciava bene.
Le dispiaceva vedere le immagini di popoli in fuga, di bambini affamati e feriti, di giovani soldati
allineati sulla terra, ma ognuno aveva la sua battaglia da combattere. Lei aveva la sua contro la noia,
che certi giorni la faceva soffrire quasi quanto il caldo e i rumori. Leggeva anche i Vangeli e brani dal
Vecchio Testamento, che però di solito non le piaceva. La creazione del mondo, Adamo ed Eva, il
Faraone: favole per adulti, inspiegabili capricci di Dio. Costruiscimi un altare di legno d'acacia
ricoperto d'oro puro, e sia di puro olio d'oliva il combustibile delle lampade, e di lino fine ritorto gli
abiti dei sacerdoti, di porpora violacea e scarlatta, di cremisi... Dettagli descritti minuziosamente,
questo era gran parte della Bibbia. Un continuo affidarsi a Dio, e mai risposte alle domande degli
uomini. Lei non rubava, non fornicava, non diceva il falso: dal punto di vista delle leggi era a posto.
Ma non per questo poteva considerarsi senza peccato. Lei non faceva l'amore con nessuno perché
non ne aveva più voglia, e non rubava perché il furto era contrario alla sua natura. Dopo un'oretta di
letture sacre tornava a Nero Wolfe. Aveva scoperto che i gialli si possono leggere anche senza capire
proprio tutto. Si immergeva nella lettura e per un po' riusciva a dimenticarsi del caldo. Alternava due
abiti leggeri di cotone, ampi e senza pretese, due sacchi quasi, ma a volte si sentiva soffocare
ugualmente. Nelle ore centrali del giorno il caldo la faceva boccheggiare. Beveva molta acqua fresca,
che però non riusciva a raffreddare la fonte del suo calore, che nasceva dal cuore e si irradiava nel
petto, fermandosi appena sotto la pelle raffreddata dall'aria condizionata. Anche il suo nuovo neo,
probabilmente arrossato dallo sfregamento contro il reggiseno, si era gonfiato e le causava un
prurito continuo e irresistibile.
Per sfuggire il caldo e non pagare le costose tariffe dell'alta stagione, prenotò il suo solito
alberghetto sul mare. Sarebbe partita anche subito, ma il padrone le aveva detto cbe erano un po' in
ritardo con i lavori di ripristino. Così segui il consiglio del suo giornalaio e si iscrisse a un corso di
nuoto per pensionati nella piscina comunale. Naturalmente non aveva bisogno di lezioni di nuoto ma
quello era il modo più economico per andare ogni giorno in piscina. Quando il caldo si faceva
insopportabile, verso mezzogiorno, lei usciva con la sua grande borsa sportiva e restava fuori almeno
fino alle sei. Tra un bagno e l'altro mangiava una pizza, un gelato beveva qualcosa di fresco, e
soprattutto leggeva riviste. Appena sentiva caldo di nuovo tornava a immergersi. Nuotava
pochissimo, anche per non perdere in acqua il cerotto che copriva il suo brutto neo. Stava quasi
sempre in piedi dove si toccava, e camminava lentamente da un bordo all'altro della piscina. Fece
conoscenza con una signora della sua età, una bionda ancora in ottima forma, e ogni tanto
commentavano gli articoli che leggevano nelle riviste o parlavano del caldo e del buco nello strato
d'ozono. Si chiamava Laura, era proprietaria di un piccolo albergo dato in affitto da anni e aveva la
passione della pittura. Una di quelle donne elastiche e agili che un uomo definirebbe sinuosa.
L'aveva notata proprio per il suo modo aggraziato di muoversi. E poi l'aveva studiata con attenzione,
e un giorno aveva risposto con un sorriso al suo saluto. Che donna vitale, allegra e malinconica
insieme, tutto nella misura giusta. Doveva essere stata una donna molto bella, in fondo lo era
ancora. Soltanto una signora riesce a vedere la bella ragazza nascosta nel corpo appesantito di
un'altra signora. Peccato. Lei la vedeva bene.
Un giorno uscirono insieme dalla piscina e andarono a casa di Laura per guardare i suoi quadri.
Abitava in centro anche lei, e divideva la casa con sua figlia, una ragazza di venticinque anni. Era una
grande casa antica e ben conservata, che occupava gli ultimi due piani di un albergo che non aveva
mai notato. Le tele erano accumulate a decine in una stanza grandissima con tre finestre. Laura
dipingeva esclusivamente fiori nel pieno della fioritura: dal piccolo mazzolino di campagna alla
grande composizione di superbi fiori esotici. Tutti resi con grandi pennellate e senza risparmiare sul
colore. Luisa non s'intendeva di pittura ma le sembrarono bellissimi e le fece i suoi complimenti più
sinceri. In un angolo, dentro una grande cornice di legno, notò la foto di un uomo, e Laura ridendo le
presentò suo marito.
"È vero che purtroppo vivono meno" disse servendo il te freddo. "L'ho sentito dire da uno
scienziato, non è una scemenza..."
Poi parlarono dei rumori del centro, insopportabili quando si sta con le finestre aperte, del
traffico e delle moto, e anche della pensione al mare dove Luisa sarebbe andata pochi giorni dopo.
"Quando lavoravo non vedevo l'ora di partire per il mare. Adesso ci vado quasi per dovere. Sarà
che sto poco bene."
Prima di uscire Laura la costrinse ad accettare un piccolo quadro, una bellissima famigliola di
violette, che avvolse senza riguardi in due fogli di giornale. Disse che avrebbe ricambiato la visita, e
sembrava sincera.
Luisa andò verso casa portando con esagerata attenzione le sue belle violette, felice come una
bambina che ha ricevuto un regalo imprevisto. Le appese subito sopra al divano, alla parete più
importante della casa, e controllò che si vedessero bene anche dall'ingresso. Passò almeno un'ora a
rimirare il suo unico quadro, da vicino e da lontano, apprezzando in modo particolare due grosse
gocce di viola colate da un petalo, che davano l'impressione di voler colorare anche l'erba del prato.
Le piaceva quell'abbondanza di colore, la vitalità che esprimeva, la stessa vitalità che sprizzava dagli
occhi chiari di Laura. Non faceva che ripetere: che bel quadro, che bella signora, che bella vicina di
casa.
Tre giorni dopo partì per il mare, anche se non aveva più voglia di andarci. Le sue ore preferite,
quelle serali, furono guastate da un nuovo campo di beach‐volley aperto fino all’ora di cena. Anche il
famoso fritto di pesce dell'albergo era diventato unto e molliccio e restava quasi tutto nei piatti.
Dopo una settimana di emicranie e di mal di stomaco si Sventò la malattia di un parente e tornò
a casa, benevolmente accolta da un magnifico temporale pieno di fulmini. Le fece piacere rivedere il
suo canarino, ospitato come ogni estate dalla zia di Giancarlo, una simpatica signora che allevava con
passione decine di canarini. Riportandolo a casa sotto il temporale gli fischiò tutto il tempo per
festeggiarlo e fargli coraggio. Quando lo portava in macchina metteva la gabbia sul sedile di destra e
la legava con la cintura di sicurezza, ma lui riprese a cantare soltanto quando fu in casa, accanto al
festoso rumore dell'acqua che Luisa lasciò scorrere per lui. "Bentornato" gli disse mettendogli l'osso
di seppia.
Aveva fatto bene a tornare a casa. Gli inquilini della mansarda erano al mare, e anche i ragazzi
del bar sembravano sfoltiti, e meno rumorosi del solito. Al temporale che l'aveva accolta ne
seguirono altri, e la temperatura per qualche giorno si mantenne accettabile. Soltanto al mattino
continuava a sentirsi poco bene, un regalo delle cattive cene che le avevano propinato al mare.
Quando tornò il caldo riprese a frequentare la piscina, ma Laura non si fece più vedere e non trovò
altra compagnia. I soliti vecchi, i malati, i depressi. Le vittime dell'estate.
10.
Piombò nell'autunno, poi nell'inverno, quasi senza accorgersene. Le settimane scivolavano via
oziose e uguali, e non le dispiaceva. Nei giorni di pioggia usciva di casa soltanto per la spesa
essenziale, tre o quattro cartocci in tutto e qualche rivista.
Alle piogge seguì la nebbia, e subito venne il gelo di un gennaio freddissimo. Poveracci quelli che
dovevano uscire presto per andare al lavoro. Anche lei era uscita migliaia di volte con il buio e non
doveva commuoversi per gli altri. Se si svegliava molto presto pensava a Walter e a Giancarlo che si
dirigevano assonnati verso la superstrada, o immaginava Renata in ritardo, con sciarpa, cappello e
guanti di montone, e quasi le sembrava di sentirla brontolare. Era strano passare in casa quelle
mattinate d'inverno, ad aspettare sotto le coperte che sorgesse il sole, ascoltando la radio e
sgranocchiando biscotti alle mandorle. Si godeva il caldo e le sue comodità, ma non riusciva a sentirsi
completamente riposata. Anche se dormiva a lungo si svegliava sempre con la spiacevole sensazione
di non aver dormito abbastanza. Avesse riposato qualche minuto di più si sarebbe sentita benissimo.
Di mattina, nonostante lo zucchero dei biscotti, continuava a sentirsi debole. Ogni tanto chiudeva gli
occhi e ascoltava il ronzio cupo del sonno insoddisfatto. Non era abbastanza stanca per dormire e
non aveva energie sufficienti per alzarsi dal letto. Comunque con la debolezza poteva convivere, in
fondo non aveva niente da fare, e sarebbe stato un gennaio abbastanza piacevole se un pomeriggio
non si fosse accorta per caso che le ghiandole delle ascelle si erano gonfiate. Stava guardando dopo
tanto tempo le violette di Laura e per scaldarsi le mani le aveva infilate sotto le ascelle. Da vicino non
c'erano violette, soltanto pennellate di viola sovrapposte a caso a pennellate di verde, a loro volta
sovrapposte a pennellate di marrone. Insomma un inganno. E proprio mentre rifletteva sulla falsità
delle violette le sue dita scoprirono le ghiandole.
Non provò angoscia, non si ribellò; le labbra le si inarcarono in giù e si sentì delusa. Restò a
lungo quasi ipnotizzata dal quadro, gli occhi sulle violette e le braccia incrociate sul seno, le dita
intente ad analizzare ogni singola ghiandola ingrossata. Era come infilare le dita in un nido di piccioni
pieno di uova. Il neo lo aveva nascosto con un cerotto e non ci pensava più, ma contro le ghiandole
che poteva fare?
Si ricordò dell'appuntamento fissato con il suo medico ma era ovvio che non sarebbe andata.
Non ebbe neppure bisogno di deciderlo. Ci vuole coraggio, per affidarsi alle cure, o si deve essere
ignoranti, gente senza esperienza. Lei aveva visto soffrire suo padre, sua madre, aveva visto troppo.
Se deve passare passerà, se non deve passare precipiterà più in fretta. Anche se ormai niente faceva
sperare che sarebbe guarita, doveva ammetterlo. Quelle ghiandole erano troppo schifose. Non
poteva davvero mostrarle al suo medico, dovevano restare segrete, anzi precisò con molta solennità:
assolutamente segrete. Un brivido profondo le salì lungo la schiena fino alla nuca. E soltanto paura,
si disse. Tutti la credevano coraggiosa e invece lei aveva più paura degli altri. Tanta paura che non
aveva neppure il coraggio di confessarla. Aghi che succhiano il sangue, forbici che tagliano la pelle,
tubi nella gola. La sala delle torture. L'aveva intravista due volte e non voleva rivederla. Non voleva
neppure immaginarla.
Tornò alla sua poltrona e si coprì bene, poi accese la te‐levisione e cercò di seguire un vecchio
film appena iniziato. Aveva un segreto, si ripeteva, e le faceva bene ripeterselo. Se conservava il
segreto anche con se stessa si sarebbe salvata.
Ogni tanto guardava le violette, che da una distanza ra‐gionevole tornavano a sembrare
morbide violette, oppure guardava fuori, dove stava facendo buio. Il cielo era terso, ancora rossastro
sopra i tetti di fronte. In alto brillavano le prime grandi stelle. Si annunciava un'altra notte di gelo,
una bella notte silenziosa.
Finito il film si preparò una cena leggera, riso in brodo e stracchino. Rinunciò senza fatica al vino
rosso e al caffè, ma non alla sigaretta del dopocena, che fumò con piacere sfogliando una rivista.
Verso le undici si toccò di nuovo le ghiandole sotto le ascelle, e verificò che non le facevano male.
Secondo un articolo che aveva letto di recente l'assenza di dolore era sempre un buon segno. O
diceva il contrario? Non lo ricordava. Dopo il telegiornale della notte spense la tivù e abbassò le luci.
Il silenzio era perfetto. Sui tetti brillava la brina, il cielo era nero e blu profondo, sterminato. Un
uccello notturno, forse l'unico essere vivente in giro a quell'ora, volò da un tetto all'altro. Luisa restò
a lungo in piedi davanti alla finestra, le mani e le gambe ben scaldate dal termosifone e lo sguardo
fisso sui tetti scuri delle case. Pensò a suo padre e a sua madre, che apparvero silenziosi dentro di lei
e ora la guardavano senza guardarla, con gli oc‐ chi inespressivi che avevano in fotografia.
Non avevano niente da dire. Forse erano sempre lì, giorno e notte, col tempo buono e col
tempo cattivo. La sua casa attirava i morti, come i feriti attirano gli avvoltoi. I morti non sentivano
freddo né caldo, erano immateriali, perfetti. Ma se erano perfetti che bisogno avevano di lei?
Manifestavano così il loro affetto? Fulminando una dopo l'altra le sue lampadine? Nel giro di pochi
giorni se n'erano rotte tre, in corridoio, nel ripostiglio e nella cameretta degli ospiti. Un fenomeno
strano in cui poteva riconoscere l'irruenza di suo padre. Come quando la ritrovava nei cortei
sindacali o politici dove la portava di nascosto dalla madre. Lui discuteva, litigava, e presto la perdeva
nella folla, ma ogni volta la ritrovava. Forse la lasciava allontanare soltanto qualche metro, non la
perdeva di vista. Pochi istanti di paura e lo vedeva arrivare sgomitando, spostando gli uomini come
pupazzi. L'afferrava e la metteva in salvo sulle spalle. Allora lei alzava il braccio e il mondo cambiava,
lei era la regina d'Egitto e la marea di teste ondeggiava proprio verso di lei. I suoi sudditi. Che la sa‐
lutavano con la bandiera rossa dell'impero, e lei ricambiava sventolando signorilmente la sua
bandierina, rispondendo a tutti per non offendere il suo popolo.
Ora, per riprendersela, il padre cercava di apparire con tutte le sue forze, ma riusciva soltanto a
fulminare le lampadine. Non aveva più corpo, poveraccio. Lo spirito era schizzato fuori dal corpo e
vagava libero nello spazio. Caldo o freddo che fosse. Gli spiriti dei suoi cari non le facevano paura.
Anche perché non li sentiva davvero. Era lei che li immaginava. Le faceva più paura immaginarli
assenti com'erano in realtà.
Strane violette, a guardarle bene, bellissime e nauseabonde, dolciastre, portatrici di morte.
Insieme a loro era arrivato anche il male. Strana coincidenza. Pensò a Laura come a un demonio. E
quando un giorno Laura la chiamò per annunciarle una visita lei la trattò con freddezza, come aveva
fatto negli ultimi tempi con Renata. Sto partendo, le disse, mi dispiace. Il demonio in persona, quella
donna. Lo si capiva dall'allegria, dalla salute. Da quella gran chioma bionda ancora viva e giovane
come un cespuglio d'erbaccia. Forse esagerava, ma l'idea di fare conversazione le dava la nausea e le
aumentava la debolezza. Con quella poi, con quella vecchia vestita da giovane!
Per fortuna scoprì che c'era una partita di calcio, non capì bene per quale coppa o campionato.
Da qualche tempo le piaceva guardare le partite di calcio. Seguiva anche una trasmissione sportiva.
Si commuoveva quando intervistavano un giocatore sconfitto alla fine della partita: sudato, mesto,
stanco di una stanchezza mortale, a faccia bassa. Ragazzi non è mica la fine del mondo perdere una
partita di calcio! Li consigliava così ma conosceva il loro malumore. Gli uomini giovani non sanno
perdere, non lo sopportano. Smise di seguire la partita e cominciò a pensare a Bruno. Non vedeva
più le due squadre che si affannavano dietro al pallone, si ritrovò con Bruno come se lo vedesse
davvero, come se la sua casa fosse la barca, con Bruno silenzioso ai remi. Era bravissimo a remare.
Aveva la barba di due o tre giorni, i muscoli delle spalle erano tesi e rotondi. Il rumore dolce
dell'acqua, che piaceva anche a lei. Sul fondo della barca due dita d'acqua ormai calda e grigiastra, e
una canna da pesca che ci rotolava dentro con uno strano rumore. Era il mulinello, che batteva sul
legno a ogni spinta del remo. "Cinque barbi" disse Bruno soddisfatto. E aggiunse ridacchiando: "Gran
pescatore di barbi". Era stato tenero, dicendo così. Quando usci‐vano in barca stavano bene. Solo
barbi, povero caro, mai una trota.
Si alzò con il sorriso sulle labbra e andò a prendersi un'oliva. La scelse grande, verde smeraldo, e
la trovò buonissima. Da settimane consumava soltanto biscotti, riso in brodo e olive. Quando soffriva
di acidità di stomaco mangiava appena tre o quattro olive, di quelle grandi e verdi che durano più a
lungo di una caramella d'orzo. Quel giorno ne aveva mangiate sei. Finocchio selvatico, acqua e sale, il
velo argentato che si forma sull'acqua. Le piaceva bere acqua fresca dopo aver mangiato un'oliva.
Che straordinaria sensazione di fresco, di aromi moltiplicati dall'acqua. Restavano poche olive in
fondo al barattolo, ormai in frigo c'era poco di tutto. Il pensiero di uscire le sembrò assurdo e decise
che il giorno dopo avrebbe telefonato al salumiere. Non l'aveva mai fatto, per una volta poteva
approfittarne.
Per fortuna nel mondo ci sono olive e poltrone comode, programmi televisivi fatti per passare il
tempo, e anche film, libri gialli, salumieri che ti portano la spesa a casa, canarini che cantano. Negli
altri appartamenti si preparava la cena, i rubinetti si aprivano e si chiudevano, molti tiravano lo
sciacquone, seguivano telegiornali e cartoni animati, o trasmissioni a premio. L'uomo del piano di
sopra, un giovane atletico, orinò vigorosamente, tanto che Luisa alzò lo sguardo al soffìtto. Un lungo
zampillo chiassoso proprio sulla sua testa, al quale rispose il canarino con un canto dolcissimo. Se i
suoi vicini vivevano normalmente non li detestava, anzi le facevano compagnia, non si arrabbiava se
ogni tanto cadeva in terra qualcosa. Lo sapeva anche lei, i coperchi cadono facilmente, e dopo il
fracasso cominciano a ruotare minacciosi annunciando nuovi fragori. Erano pacifici rumori domestici.
Le macchine che si affrettavano verso casa erano anch'esse semplici mezzi di trasporto con il
riscaldamento al massimo. Santo inverno, pensò Luisa, beate le città gelide, che saranno sempre
piene di pace.
Dopo il calcio iniziò una trasmissione d'intrattenimento, condotta da due presentatori molto
eleganti, un uomo e una donna, garbati, colti, ma anche semplici e spiritosi. Non si notava quasi mai
che stavano recitando. L'uomo, in particolare, aveva l'aria da bambinone intelligente e ben educato,
e ogni tanto si metteva al pianoforte e cantava una vecchia canzone. Nella loro trasmissione
apparivano attori, uomini politici, celebrità internazionali, dall'Australia, dall'Africa, dall'America. I
presentatori facevano domande intelligenti e sembravano vecchi amici di tutti. Come diavolo
facevano a conoscere tante persone, e tanti film, e libri, concerti... Luisa era pronta a riconoscere la
superiorità degli altri quando era così manifesta. I due presentatori guadagnavano senz'altro un
ottimo stipendio, molti milioni al giorno certamente, ma quante qualità avevano. E quante
conoscenze, e spigliatezza, simpatia. Cercava di immaginarli nella loro vita privata ma non ci riusciva.
Vedeva appena un grande salone, il pavimento di legno pregiato pieno di tappeti color pastello, due
lunghi divani di pelle. Nient'altro.
A metà trasmissione le tornò la nausea. In quei momenti sentiva un odore sgradevole, simile a
quello della carne grigliata. Correva sempre in bagno anche se sapeva che non avrebbe vomitato. Si
sciacquava la bocca e si rinfrescava la fronte. Poi si sistemava i capelli e tornava in soggiorno. Sapeva
bene di essere sola anche lì ma i due presentatori erano una sorta di rappresentanza del genere
umano, e comunque certe cose si devono fare sempre in bagno, come tagliarsi le unghie o
schiacciarsi i punti neri.
Si avvolse nella coperta e riprese a seguire la trasmissione Stava male e bene nello stesso
momento. Le sensazioni si intrecciavano. In un minuto poteva passare tre volte dall'infelicità più
tetra alla più luminosa felicità. Pensava spesso allo stupendo mese di gennaio, gelido e solare,
generoso nei suoi tramonti e nelle sue aurore, e bello anche nel vento. Bello, brutto. Bene, male. Nel
loro continuo alternarsi cominciò a dubitare della loro realtà. La casa invece restava sempre sua, la
poltrona restava comoda, la televisione accesa. Non dimenticava mai l'enorme privilegio della sua
condizione, che le consentiva di chiudersi in una casa ben riscaldata nel mese più freddo dell'anno.
Provava addirittura uno strano disagio, un senso di colpa mutov temeva di essere individuata e
condannata dagli altri. Come sempre si addormentò tardi davanti alla televisione, poi andò in
camera, infreddolita e a occhi socchiusi per non svegliarsi del tutto. Pensando soltanto che dormire è
la cosa più bella del mondo. Quella sera lasciò accesa la luce della cucina, e al mattino non se ne
accorse. Continuava a stupirsi della scarsa durata delle lampadine ma le lasciava accese giorno e
notte. Quando furono le nove telefonò al salumiere, e chiese al garzone di comprarle anche alcune
lampadine e una stecca di sigarette. La sua lista della spesa era così lunga che poteva chiedere una
cortesia in omaggio. Il ragazzo le promise che sarebbe passato attorno alle dieci, e lei si preoccupò di
fare un po' d'ordine. Era debole ma senza malesseri particolari, e di ottimo umore; soltanto un po'
lenta nei movimenti, obnubilata dal sonno che non riusciva a soddisfare. Anche se in due o tre
puntate dormiva almeno dieci ore al giorno, e non le bastava mai. Il corpo si difendeva dai suoi
acciacchi con il sonno. Verso le die‐ci> puntuale, suonò il garzone, che dopo averla cercata a lungo e
chissà perché al piano di sotto, salì a piedi con tre grandi borse alla sua porta spalancata.
"Sta poco bene?" le domandò con la grazia particolare dl chi è costretto alla gentilezza.
"Sarà la vecchiaia" gli disse, e lo fece accomodare. "Non ho niente di contagioso" aggiunse
contando i soldi. Le sembrò giusto dargli una buona mancia, e il ragazzo si sentì in dovere di mettere
in ordine la spesa, nel frigo e sui ripiani in cucina. Cambiò in un batter d'occhio anche le lampadine
fulminate. Poi le si avvicinò e le disse grazie per la mancia.
Luisa sentì un profumo straordinario che la stordì. Era l'aria fresca che usciva dai polmoni del
ragazzo.
"Può essere che chiami qualche altra volta" gli disse trattenerlo ancora un istante.
"Quando vuole, noi siamo là" rispose lui raggiungendo con due passi la porta.
Abbiamo riempito i granai, si disse Luisa. Guardò nel frigo, ora pieno di pacchetti, e mise ordine
nei pensili. Lasciò fuori i grandi barattoli di olive e i biscotti. Scaldò sulla fiamma di un fornello il
coperchio delle olive e lo girò senza difficoltà. Erano deliziose, le nuove olive, più buone delle
precedenti. Si sentiva di più l'aroma del finocchio selvatico. Mangiò anche un po' di pane fresco, e
siccome il canarino la fissava curioso gli regalò una bella foglia d'insalata. Poi lucidò gli occhiali e
cominciò a leggere un giallo.
Nel pomeriggio, mentre seguiva un documentario, telefonò sua cugina, che sapeva vagamente
dei suoi acciacchi.
"Sto guardando una scalata" le disse per tagliare corto, "c'è un ragazzo appeso come un ragno,
un precipizio da far paura." Effettivamente le immagini un po' mosse sullo schermo mostravano un
momento mozzafiato di una scalata: il cielo attorno allo scalatore e sopra lo sperone di roccia dal
quale penzolava era di uno stupendo turchese.
Ma sua cugina non amava la montagna. La inondò di come stai, ma cammini, il dottore, e la
spesa, e perché un garzone quando ci sono io, e così via.
"Non mi manca niente, grazie" disse Luisa alzando un po' la voce. Lei odiava le insistenze. Si rese
conto di avere esagerato e ammise di sentirsi nervosa. La salutò simulando un tono affettuoso, tanto
che le venne fuori una vocina stridula. Anche sua madre esagerava nei ringraziamenti. Ringraziava i
negozianti, i venditori di spazzole, l'omino che veniva a leggere il contatore. Lo ricordava bene quel
sorriso dolce che accompagnava sempre il grazie, e che a lei sembrava buttato via, regalato a
sconosciuti che non lo meritavano. Forse qualche uomo si faceva delle illusioni, su quel sorriso. La
bocca di sua madre non era troppo grande né troppo piccola, era perfetta. Iniziava con due profonde
fossette, e dalle fossette partivano due linee sottili che la incorniciavano. Dentro c'era il sorriso,
anche quando sua madre era annoiata e non parlava con nessuno, o lavava i piatti, le sua labbra
restavano leggermente all'insù e sembrava che sorridesse. Quando diceva "grazie" le labbra si
aprivano, e si mostravano i suoi denti compatti, disordinati soltanto dagli ultimi mesi della malattia.
Il sorriso alla fine fu deturpato, ma le labbra restarono bellissime fino all'ultimo. Anche da morta il
viso di sua madre era bello e sereno. Non doveva ricordarla sempre con quel viso di morta. Le
settimane e i mesi del suo lungo martirio. Poteva anche non pensarci, se voleva, ma quelle
settimane, istante dopo istante, erano sempre dentro di lei, e sarebbero morte soltanto con lei. Le
braccia devastate dalle fleboclisi. La pelle cadente delle braccia. I tagli, i segni dei punti. Le piaghe.
Altro che tre giorni di croce. Lo constatò senza malizia, per pura verità. Sua madre era morta come
Gesù, suo padre era morto come Gesù, senza polmoni e col cuore marcio. Lunghe crocifissioni.
Entrambi erano rimasti belli anche da morti. Li ricordava più belli dei loro compagni di morte. La
vecchietta con la pancia gonfia e il rosario da poco prezzo, con la faccia che era già un teschio e
apparteneva da anni al regno dei morti. Il vecchio di cera, piccolo come un bambino. La giovane
donna pianta dal marito e addirittura dalle infermiere che l'avevano accudita per giorni. La morfina,
il primario che non voleva dare la morfina a sua madre per non farla diventare tossicomane. Il
primario cattolico. Gli augurò per l'ennesima volta di provare gli stessi dolori di sua madre. Però il
sorriso di sua madre era bellissimo, tutte la invidiavano per quel sorriso, tutti con lei diventavano più
gentili. Luisa chiuse gli occhi beata e si immaginò quelle labbra che si avvicinavano a lei, alla sua
fronte, e la baciavano, con tanta delicatezza che le venne un brivido e poi le spuntarono addirittura
due piccole lacrime.
Poteva essere qualunque ora. Le sei di sera ma anche le undici, forse le tre. Comunque avevano
suonato alla porta, e continuavano a suonare con insistenza. Si rassegnò al fastidio e andò a
rispondere. Era sua cugina, che la disturbava per la seconda volta nello stesso giorno. Si guardò e si
accorse di avere la vestaglia aperta e il pigiama tutto spiegazzato. Fece appena a tempo a mettersi
un po' in ordine quando apparve, irruenta e piena di salute, sua cugina.
"Credevi che avrei rinunciato tanto facilmente?" le disse spavalda.
"Che sorpresa" sussurrò Luisa. Ma non riuscì a dirle che le faceva piacere.
La cugina entrò e si tolse guanti e montone, e poi sciarpa e golf di lana bluastra.
"Con 'sto tempo come si fa a non ammalarsi" disse se‐dendo sul divano nuovo.
"Infatti eccomi qui."
Luisa sedette in poltrona e cercò di pettinarsi alla meglio con le mani.
"Non devo fare una buona impressione" disse cercando di sorridere.
"No. Se è per questo non hai una bella cera. Luisetta bella bisogna curarsi, non siamo più
ragazzine."
"Ma neanche vecchie bacucche" ribatté lei.
"Se non te lo dico io non te lo dice nessuno" riprese la cugina. "Hai davvero un brutto aspetto,
me lo sentivo. Tu che fai venire il garzone con la spesa come se non avessi nessuno. Domani ti porto
qualcosa di pronto."
"Ho già tutto."
"E se fossi meno selvatica potrei anche dirti: fai una valigia, ti copri bene e vieni via con me. C'è
una camera vuota che non usiamo mai. C'è anche il bagno." Luisa ci pensò qualche secondo e
cominciò a ridere.
"Ma per carità... " le sfuggì. E non aggiunse altro perche non voleva offenderla. Avrebbe potuto
dirle: non so che ore sono, non so neanche il giorno, non mi ricordo se ho cenato ma non verrei da te
neanche se fossi in punto di morte. Piuttosto chiamerei il medico. Ma lo pensò soltanto per assurdo.
Comunque sua cugina incassò la risata e rimase a lungo in si‐lenzio. Forse stava pensando: se è
cattiva come al solito vuol dire che non sta tanto male.
"Cosa guardavi?" le chiese volgendo il suo sguardo preoccupato alla televisione accesa.
"Niente di speciale." C'era una trasmissione sulla borsa. Noiosa e incomprensibile, quindi non
riuscirono a fingere di interessarsene.
"Secondo me hai un po' di esaurimento" disse la cugina. "Anche andare in pensione così, non è
mica uno scherzo... "
"Il medico mi ha trovato in forma" mentì Luisa. "Acciacchi dell'età, l'osteoporosi... Ma per il
resto tutto bene." In realtà pensò che sua cugina aveva ragione. Era esaurita. Ne aveva tanto sentito
parlare e ora toccava a lei. Un forte esaurimento.
Cambiò canale e si fermò su una trasmissione musicale, che per fortuna distrasse sua cugina. A
lei invece venne voglia di olive. Andò in cucina e mise qualche oliva nel piatto.
"Assaggia" disse alla cugina, "sono buonissime." Voleva liberarsene e le offriva le sue amate
olive. La cugina ne divorò quattro o cinque senza fare commenti, e lanciò due noccioli fuori dal
posacenere. Masticava ruminando come una mucca, del resto aveva avuto l'educazione che aveva
avuto. Ora si era un po' tirata su ma la rozzezza non c'è vestito che la nasconda. Cinque olive, mentre
lei teneva ancora in bocca la sua, quasi intera.
"Hai posteggiato qua sotto?" le chiese.
"Davanti al portone. Stasera non c'è nessuno. Certo che sono una disgrazia tutti quei ragazzacci
del bar."
"Lo so, lo so." Le sembrò un argomento troppo intimo Per discuterlo con sua cugina.
'Siringhe ne trovi?"
"No, siringhe no. Ma sono fastidiosi lo stesso."
"Peccato perché qua è proprio carino. Il centro è sempre il centro, i tetti, i campanili. Noi
vediamo quattro alberelli di Natale e un po' di balconi. C'è il supermercato sotto casa, questo sì, è
una bella fortuna. Scendo senza cappotto anche solo per il pane."
"Che ore abbiamo fatto?" chiese Luisa.
"Le nove e mezzo. Te ne vai a letto?"
"Sì, quasi quasi me ne vado a letto."
La cugina divorò un'altra oliva, e attaccò con le sue rac‐comandazioni. Segno che stava per
andarsene. A un certo punto si alzò e cominciò a rivestirsi. Mentre infilava il maglione entrò in
camera da letto e ci guardò dentro senza remore. Uscendo accese la luce nella camera piccola e
guardò anche quella attentamente. Luisa spense la televisione e andò a salutarla sulla porta.
"Resto in casa finché fa freddo" le disse per mostrarsi ra‐gionevole e paziente, e quindi per nulla
bisognosa di attenzioni. Chiuse la porta e pensò con piacere: ci sarà da ridere quando apriranno il
testamento. Peccato non poter assistere. Poi si pentì del suo pensiero cattivo e pensò che avrebbe
potuto lasciare qualche soldo in più almeno a sua nipote Cristina. Aveva un ricordo troppo dolce
delle mattinate nei palaz‐zetti dello sport. Le sembrava di sentire ancora il profumo delle cotolette di
vitello che preparava alle cinque di mattina quando si gareggiava in altre province. Erano il piatto
preferito della sua campionessa. Prima di metterle nei panini le asciugava dall'olio di cottura con un
tovagliolo di carta, perché rimanessero croccanti come piacevano a Cristina. Era uno scricciolo ma
mangiava come un uomo. Accidenti a quelle maledette qualificazioni! Si era emozionata ma anche
così meritava almeno il secondo posto. E poteva battere anche la prima. Sarebbe andata alle
Olimpiadi, se avesse insistito. Ma sì, le avrebbe lasciato almeno cinque milioni in più, le aveva voluto
troppo bene. Decise di tirare fuori il testamento per correggerlo ma fece soltanto pochi passi. Si
fermò e si toccò le ghiandole ingrossate. Se ne era dimenticata. Era bravissima a dimenticare le cose
spiacevoli. Erano sempre lì.
Le venne paura e tornò a riavvolgersi nella coperta. Rimpianse gli anni di buona salute, quando
la bocca profumava e lo stomaco faceva il suo lavoro in perfetto accordo con il resto del corpo.
Ricordò corse e nuotate, e decine di giorni felici che ormai soltanto lei ricordava. Le tornò in mente
anche il suo medico. Pensò che forse avrebbe potuto aiutarla. Ma se invece non poteva fare niente
per lei non si sarebbe sentita anche peggio di come si sentiva? I medici non l'avrebbero forse
torturata inutilmente come avevano fatto con sua madre? Da sola, se voleva, poteva ingannarsi
facilmente. Non hai niente, sei solo esaurita, ti passerà. Le faceva bene, dirselo. Così le tornava il
sonno.
Nei giorni e nelle settimane che seguirono imparò a lottare contro il panico. Il panico insorgeva
sempre all'improvviso, a partire dal centro del petto, ma dopo qualche minuto il cervello si stordiva e
produceva pensieri balordi. Sono tutti vivi e se ne fregano di me. E chissà per quanto tempo
vivranno. Vanno in macchina, progettano le vacanze, e sé immaginano una donna gravemente
ammalata la compatiscono di cuore dicendo "è la vita" e poi non ci pensano più. Del resto che
diavolo avrebbero dovuto fare, non poteva accusarli di niente. Invidiava la loro salute con
un'intensità inaudita, a volte con ferocia. Se ne andavano in giro, quelli là, con la loro bella aria fresca
nei polmoni. Mentre lei restava sola a battersi contro la paura, che a un certo punto fuoriusciva da
lei e invadeva gli oggetti che la circondavano. Il posacenere diventava strano. La penna accanto al
telefono la faceva piangere. Il suo accendino rosso la disgustava. Il suo corpo era inospitale, la sua
casa inospitale, la città inospitale. Non doveva cercare di soffocare il panico. Doveva lasciarlo
sfogare. Doveva immaginare la tomba, la putrefazione, il niente. Se le veniva da piangere piangeva
più a lungo che poteva. Alla fine, spossata e con un po' di emicrania, il panico si spegneva e poteva
finalmente dirsi: passerà, è l'esaurimento, passerà. Poi aggiungeva qualcosa nella lista della spesa
che avrebbe letto al telefono, o leggeva due pagine di un giallo e si addormentava davanti alla tivù.
11.
Acqua e zucchero, olive, un po' di tè molto dolce al limone. Non mandava giù altro. Le giornate
si allungavano, la temperatura saliva. Era primavera. Il neo sulla sua clavicola non era più un neo.
Ormai lo sapeva. Era diventata brava a cambiare i cerotti in bagno senza accendere la luce, ma
l'aveva toccato. Le ghiandole non erano cambiate affatto e ci si era quasi abituata. Forse le aveva da
tanto tempo e non se ne era mai accorta. Il neo invece era diventato più grande. Non era un neo.
Una notte si fece coraggio e lo guardò, anche perché non era più contenibile neppure da due
grandi cerotti. Sembrava la cacata nera di un animale selvatico. Secco e nero, assomigliava anche alla
lava. Lo toccò con la punta del dito e lo trovò insensibile al tatto. Non faceva troppo schifo. Ma
mentre lo guardava si accorse che emanava cattivo odore e si spaventò, si spruzzò un po' di profumo
e decise di chiamare un medico, o l'ambulanza, la polizia, sua cugina, Walter, Renata, insomma tutti.
Soltanto così, elencando i nomi e con il telefono a portata di mano, riuscì a calmarsi. Dicendosi tra un
minuto chiamo. Sarebbero qui in un attimo, non mi lascerebbero sola. Ancora un minuto e chiamo.
Non riconosceva mai per tempo il suo vero nemico, era una stupida, una donnetta! All'improvviso la
poltrona le sembrò scomoda e andò a sdraiarsi sul divano stringendosi il telefono al petto e acca
rezzandolo come una cosa cara. Sul divano l'aria del condi zionatore arrivava come un vento leggero
e pulito, sembrav quasi di stare in campagna. Le rondini volavano e strillava no. Si concentrò sul suo
respiro, immaginò la strada lunga e impervia che doveva percorrere, una grotta di carni oscure senza
un filo di luce, su su fino alle labbra, e poi altra aria fresca spinta nei polmoni, che fatica, la stessa
lunga strada, su e giù, dentro e fuori, un alito di vento lungo pochi centimetri, come una sigaretta,
come un piccolo animale che non sa più dove andare, se su o se giù in quella buia grotta di carne.
Com'era faticoso tenersi in vita, che lavoro instancabile quello del corpo. E non gli aveva mai fatto un
complimento, non ci aveva mai badato.
Niente dottori, si disse orgogliosa. Un corpo così esperto non si ammazza facilmente. Doveva
lasciarlo fare, proteggerlo con il segreto più assoluto, sottrarlo agli influssi nefasti degli altri. Se dici
che stai male sei spacciato, il semplice dirtelo ti uccide. Dove c'è un po' di felicità cercano tutti di
infiltrarsi, e se non possono portarti via quello che hai si sforzano di sporcartelo. Allo stesso modo i
virus e le malattie ti invadono perché tu sei il loro cibo, approfittano della tua debolezza e ti
mangiano vivo. Ragazzi disgustosi, virus, zanzare, pappemolli, pupazzetti di plastica, non c'è
nient'altro sulla faccia della terra. Perché restare, allora? Oh, se avesse avuto una figlia si sarebbe
battuta. Pensò al coraggio che deve avere una madre, il coraggio più disperato, che mentre stai
crepando ti fa serrare i pugni e pregare e magari bestemmiare, perché non si può accettare l'idea di
lasciare un figlio. Sì, anche bestemmiare. Anche una bestemmia, alle orecchie di Dio, può giungere
come una preghiera. Lei aveva fatto la sua parte, ora toccava a Dio fare la sua. Se esisteva. Se non
esisteva, una persona senza figli come lei poteva fregarsene di tutto.
C'era qualcosa di comico anche nel dolore. Che adesso si irradiava leggero dalla schiena,
soprattutto dai reni, fino alle gambe. Cercò di capire in cosa consistesse realmente il dolore. E della
stessa materia dei pensieri, non è come il fuoco o come il gelo. È il dolore stesso, se esagera, a non
prendersi più sul serio. Il cattivo odore che usciva dai due cerotti, quello sì che era un problema. Il
profumo che si era spruzzata lo copriva soltanto in parte.
Non telefonò a nessuno. Mise insieme tutti i profumi che aveva in casa e li provò uno dopo
l'altro. Scoprì che quello un po' troppo da signora, che non le era mai piaciuto, era il più adatto
contro il cattivo odore, e decise di tenerlo sempre a portata di mano.
Se non si agitava le ore volavano, i giorni e le notti volavano. L'elenco sempre più breve della
spesa e la telefonata settimanale dal salumiere erano tutti i suoi impegni. Il garzone non le faceva
domande, si era abituato alla mancia e alla sua condizione di malata, e le sbrigava volentieri
parecchie piccole commissioni. Le faceva piacere vederlo. Lo trovava addirittura carino, e buffo;
doveva essere insoddisfatto delle sue basette, che cambiavano sempre di forma. Un giorno pensò
che sarebbe stato bello baciarlo, e ridendo di sé quasi si scusò di averlo pensato. In realtà non aveva
nessuna voglia di essere baciata. Cercava soltanto di distrarsi. Non teneva neppure il conto dei giorni
che passavano. Il cielo e le nuvole, o la luna, le stelle, non le dicevano niente di speciale. Un bicchiere
o una stella erano la stessa cosa.
Seguiva volentieri le partite di calcio e per fortuna ne trasmettevano parecchie in quel periodo.
Lo sforzo straordinario dei calciatori, quei polpacci forti, quei salti, quei colpi e quelle cadute, quella
capacità di rialzarsi. Non si stancava di ammirarli, come fossero tutti figli suoi che la riempivano
d'orgoglio. Alti e forti. Forse a suo padre sarebbe piaciuto un figlio maschio, alto e forte, anche a
Bruno sarebbe piaciuto.
Oltre alle rondini svolazzavano molti altri uccelli attorno alla casa, passeri, certamente, e forse
tortore. Il suo canarino cercava di dialogare con tutti, imitando anche il semplice richiamo del
passero. Luisa non aveva mai ascoltato con attenzione il canto degli uccelli liberi. Lo scoprì un
pomeriggio. Clacson e gridi di ragazzi giù in strada, in alto gli uccellini indifferenti ai rumori, immersi
nei loro melodiosi sciami di suoni. I singoli richiami potevano non significare niente, per questo non li
aveva mai notati, ma tutti insieme formavano una musica ondeggiante che doveva avere un senso
preciso. Neanche il passaggio chiassoso di un merlo, che gridò da una finestra all'altra, riuscì a
interrompere la festa. Gli uccellini ignorarono anche lui, cantavano soltanto tra loro: e facendo
attenzione si distingueva quello impertinente, quello col fischio da ragazzaccio, quello monotono,
quello ostinato. Cantanti del loro livello avrebbero dovuto trovare insopportabili i rumori della
strada, e invece cantavano.
Ne individuò uno che aveva la voce sottile come quella di un grillo, ma che in un secondo
emetteva almeno dieci note, pianissimo, e se lo immaginò minuscolo e con il becco aguzzo, tutto
occhi e piume. Un niente anche paragonandolo al suo canarino. La pelle, sotto le piume, doveva
essere quasi trasparente, e il suo piccolo cuore doveva pulsarci dentro come un miracolo. Immaginò
quel cuoricino appoggiato sulla punta dell'indice e fissando il suo indice sollevato si commosse.
Una volta sentì anche il verso sgraziato delle anatre, che dovevano essersi levate in volo sopra il
laghetto del parco. Lo facevano di rado, e sempre verso il tramonto. Forse erano matrimoni di
anatre, cortei volanti.
Al telefono, che ogni tanto squillava, non rispondeva mai. Aveva detto a Renata e a sua cugina
che sarebbe partita per le terme.
Quando squillava le veniva in mente Laura. Fantasticò anche una storia. Laura che suonava il
suo campanello, Laura che si commuoveva del suo stato e l'assisteva giorno e notte, e le preparava
straordinarie tisane che la facevano guarire. Lei si svegliava un mattino e si accorgeva di essere
completamente guarita. Sono guarita! raccontava nella sua fantasia alle persone che incontrava, al
ragazzo del salumiere e al verduraio, ai vigili urbani, forse a Renata, a sua cugina...
Sognò più di una volta di essere guarita, ma era un sogno sbagliato che le faceva male. Non
guariva, e non migliorava, anzi peggiorava. Si sentiva sempre più debole e fragile. Camminava il
meno possibile e molto lentamente, per il dolore alle gambe e per la paura assurda di spezzarsi, di
cadere a terra con tutte le ossa rotte. Si sentiva le ossa di vetro, doveva stare attenta a non
romperle, attentissima. Così andava in bagno scivolando lentamente sulle pantofole e sostenendosi
alle pareti del corridoio.
Quando gli inquilini del piano di sopra tornarono da un viaggio, il loro balcone si riempì di
enormi tute da sub messe ad asciugare e i passeri cambiarono balcone. Riecco i mostri, si disse Luisa
sconsolata. Le tute oscillavano un po', c'era un alito di vento, e lei, che poteva vederne appena
qualche centimetro, si accorse che erano oggetti molto esotici: dove saranno state, quelle tute...
L'oceano, i grandi pesci dei documentari, i coralli, le meduse... Che coppia, i due della mansarda,
sembravano tonti e invece si avventuravano negli oceani.
Finora nessuno degli inquilini si era accorto del suo stato. Li sentiva quando uscivano e quando
tornavano, quando camminavano in casa e parlavano forte, quando orinavano o apparecchiavano o
accendevano la tivù. Anche i ragazzi del bar erano aumentati a dismisura. Un'infinità di persone
vocianti fino alle tre del mattino. Anziché agitarsi, com'era successo lì per lì all'arrivo della coppia del
piano di sopra, iniziò una fase nuova che la stupì molto.
Scoprì che il suo corpo si era adattato alla nuova situazione e che cominciava a cavarsela.
Poteva camminare quasi normalmente, piano ma senza trascinare i piedi. Poteva addi‐rittura
mangiare gli spaghetti al burro con molto parmigiano sopra. Se non cercava di fare in fretta poteva
anche passare l'aspirapolvere e dare lo straccio in cucina. Mentre gli puliva la gabbia verificò che il
canarino non aveva nessuna intenzione di scappare, e non approfittava della lentezza dei suoi
movimenti. Il fondo della gabbia era aperto e lui si dondolava tranquillo becchettandosi le piume.
Così decise di lasciargli sempre aperto lo sportellino della gabbia. Ormai era adulto e non si sarebbe
fatto male svolazzando contro i muri.
Era un uccellino posato e gentile. L'essere più fragile e più dolce del mondo. Luisa aveva paura
di dimenticare il mangime e di lasciarlo morire di fame. Certi giorni, dopo la terribile scoperta della
macchia, si era ricordata di togliergli il telo soltanto dopo mezzogiorno. Doveva prevenire ogni
pericolo, pensare a tutto adesso che era lucida. In certi momenti si sentiva così confusa.
Nelle ore più calde si sdraiava sul divano, che aveva coperto con un bel lenzuolo di lino, e
sognava a occhi aperti o guardava la tivù. Se il canarino faceva una timida sortita dalla gabbia si
divertiva a guardarlo. Saltellava a lungo sul tappeto e si guardava attorno, qualche volta
sostenendosi con molta eleganza su una zampa sola. Guardava soprattutto lei, distesa sul divano,
che gli sorrideva e gli fischiava un richiamo. Poi all'improvviso volava sull'armadio e da lì tornava
nella gabbia a mangiare. Dormiva e cantava soltanto nella gabbia.
Per non vedere continuamente la sua brutta macchia un pomeriggio Luisa si mise attorno al
collo un vecchio asciuga‐mano di lino, fissato in basso dall'elastico del pigiama. Quando si guardò
allo specchio grande della camera da letto rise di sé, perché si trovò simile a un pianista che vedeva
spesso in tivù, con gli occhiali come i suoi e il foulard di seta sotto la camicia da sera. Tutta bianca nel
suo grande pigiama, il viso stanco, magra come non era da anni, gli occhiali illuminati da un raggio di
sole che filtrava tra le persiane, poteva sembrare anche una suora ammattita.
In strada gridavano, passavano con le moto, gli uccelli cantavano sui tetti, un signore della
televisione commentava con passione sproporzionata una partita di tennis. Un passero giovane si
posò sul davanzale della cucina e la guardò senza paura. Aveva le piume lucide e lo sguardo fiero, gli
occhi lucidi di giovinezza. Tutti gli esseri che la circondavano avevano più vita di lei.
Il sole si fece arancione e illuminò, dorandoli, i sopram‐mobili e il tappeto. Un raggio colpì il
candeliere di cristallo e fu un tripudio di luci che la incantò, l'arcobaleno intero disteso in una lunga
curva sul tappeto bianco. Poi vide suo padre. Forse lo immaginò, forse lo sognò, ma senza muoversi
di un millimetro dal suo divano neppure in sogno. Suo padre in carne e ossa, seduto davanti a lei.
Vestito a festa e con i baffi curati, ma con la faccia seria. Si guardarono per pochi secondi, poi lo
sguardo di Luisa scese verso il basso perché voleva vederlo intero e si accorse che la figura di suo
padre era antica. Le scarpe erano nuovissime ma di un modello mai visto. Leggermente impolverate.
E dove poggiavano i tacchi il tappeto non si schiacciava.
Il passero era tornato a fissarla, e la sfidava con il suo richiamo. Anche la cucina era dorata dal
sole, anche il marmo e le pentole, anche il passero impertinente, che doveva aver fatto amicizia con
il canarino. Suo padre sembrava scomparso, ma se chiudeva gli occhi lo sentiva ancora lì, avvolto
nell'odore di vecchie stoffe. Ricordò quando le aveva detto ridendo: "Ti perdono, e se non volessi
essere perdonata ti perdono lo stesso". Veniva dall'osteria, era un po' brillo. La stoffa pesante della
sua giacca. Riaprì gli occhi e guardò ancora il passero, che ora le voltava la schiena e cantava alla
strada. Lo vedeva benissimo, anche se era ad almeno cinque metri di distanza. Si toccò
istintivamente gli occhiali e si accorse che non li aveva. Infatti erano appoggiati sul tappeto, accanto
a una rivista. Spalancò bene gli occhi e tornò a guardare il passero. Ci vedeva anche senza occhiali,
anzi ci vedeva meglio, come non ricordava di avere mai visto, neanche da ragazza.
Vedeva perfettamente anche la televisione. Quante cose incredibili stavano succedendo nel suo
corpo. Si tirò su piano piano e andò alla finestra ridacchiando come una bambina. Quel che vedeva
era un miracolo straordinario: il blu scuro del cielo, l'azzurro terso, più in basso, interrotto dal profilo
nero dei tetti, il giallo caldo che illuminava le cucine, un bambino nella casa di fronte che guardava la
tivù, la tovaglia rossa già pronta in sala da pranzo, e i divani, le foto appese ai muri. Le luci che
circondavano il tettuccio dell'edicola erano delle semplici scatole di vetro che contenevano tre neon,
e non le grandi righe infuocate che vedeva da anni. Non pensava che le cose fossero così ben
separate tra loro. I ragazzi, le luci delle loro motociclette, le targhe, l'insegna del bar: tutto
perfettamente a fuoco.
Tornò a sdraiarsi sul divano e passò parecchi minuti in contemplazione dei particolari della casa:
la trama delle tende, i confini netti dello schermo televisivo... Non riusciva a esaltarsi per la sua vista
rinata perché la sapeva collegata al male che l'aveva invasa, e il male era sotto l'asciugamano di lino
e la perseguitava col cattivo odore, come la voragine nera dei vecchi film quando si piomba nel
passato o dentro le fauci di una stella morta, o le montagne russe quando ti manca il fiato. Restò a
lungo con gli occhi ben chiusi per proteggersi dalla disperazione e si addormentò. Non aveva spento
il condizionatore e l'aria fresca entrò anche nei sogni, portando purtroppo anche un brutto demonio
a forma di maiale. Un maiale più largo che lungo, e dalla grande bocca, e artigliato per giunta. Voleva
qualcosa di preciso e lei stupidamente l'aveva dimenticata: la piccola nella culla! Aveva una bambina
e non poteva proteggerla. In bocca al demonio! che ora salta nel camino anche se a casa di Luisa non
c'era il camino e comincia a salire come un trapezista col suo cibo in bocca. Luisa si infila nella canna
fumaria e cerca di salire, e il camino è in realtà la sua tomba, perché la bambina è Luisa stessa e il
diavolo non era che la morte, che voleva lei soltanto.
Si svegliò ma non si stava agitando. Aveva avuto paura e il corpo non si era mosso. Non reagiva.
Soltanto quell'inutile regalo della vista, che in fondo le nuoceva, perché la casa le appariva meno
bella di prima, piena di difetti. Anche le stelle, semplici capocchie di spilli nel cielo, erano meno
interessanti. In tivù davano una bella commedia che aveva già visto. Proprio quello che ci voleva.
Poteva seguirla ogni tanto senza perdere il filo. Era molto bella la colonna sonora, dolce ballabile.
Poco dopo, in un bel momento del film, quand lui e lei si baciavano sotto un albero, si disse
sottovoce: è 1 fine, Luì, forse è arrivata la fine. Si sentì più emozionata eh spaventata. Emozionata
come una scolaretta alla prima gita. Presa da un'improvvisa dolcezza per sé immaginò che sarebbe
stato bello suonare il piano prima di morire, suonare per se stessa. Ma poteva accontentarsi delle
colonne sonore dei film. I minuti che passava immersa in un film erano minuti preziosi, perché non
pensava e non la assalivano attacchi di panico. Doveva soltanto evitare di muoversi bruscamente, a
volte bastava che muovesse una mano e i dolori si risvegliavano tutti insieme e cominciavano a
pulsare.
Neppure quella notte andò a dormire nel suo letto. Il vecchio lenzuolo di lino grezzo che copriva
il divano si manteneva fresco meglio delle lenzuola normali, e inoltre in soggiorno c'erano il
condizionatore e la tivù, la sua compagna preferita che non la costringeva a fare conversazione.
Benedetto chi l'ha inventata. Le dispiaceva non accendere quasi mai la lampada blu che aveva in
camera, l'oggetto più elegante di tutta la casa. Era molto stanca.
Non doveva vergognarsi di niente. Non si vergognava di qualcosa in particolare ma un po' si
vergognava e non sapeva perché. La sua vita era limpida. Se sentiva male poteva pregare. Buon
Signore Gesù mi rivolgo a te da modesta pensionata piena di piaghe puzzolenti e dolori. Pietà di me,
pietà di me. Anche se non credo in te e nel tuo santissimo regno abbi pietà di me. Signore pietà,
Cristo pietà. Se si affidava a qualcuno le si chiudevano gli occhi e si tranquillizzava. Si addormentò
senza sognare, e si svegliò quando il sole sorgeva e le rondini si inseguivano tra i tetti. Il canarino
cantava nella sua gabbia. Dormì ancora, a lungo e senza sogni, e quando si svegliò il cielo era azzurro
e pieno di rondini festose. Continuava a vederci benissimo. In televisione davano la replica del talk‐
show della sera prima. Non l'aveva spento prima di addormentarsi, anche tutte le luci del soggiorno
erano rimaste accese. Era un programma interessante e lo seguì volentieri.
A metà mattina il telefono cominciò a squillare, e squillò a lungo. Poco più tardi suonarono
ripetutamente anche alla porta. Poteva essere soltanto sua cugina. Forse doveva telefonarle di
nuovo, per toglierla di torno per qualche settimana. Verso l'ora di pranzo la chiamò e si finse allegra.
"Come dove sono?" le disse, "sono alle terme. Sto bene, certo che sto bene. Non so quando
torno."
Le raccomandazioni della cugina furono di maniera, copriti e non stancarti, ma prima di
riattaccare le disse: "Non sai quanto mi piacerebbe sapere cosa stai combinando, perché qualcosa
stai combinando". Luisa ne rise, e si lasciò strappare la promessa di qualche telefonata. Poi inventò
una scusa e mise giù la cornetta, prima che la cugina le chiedesse il numero di telefono delle terme
"per ogni evenienza".
Luì fa come gli elefanti: immaginò questa frase e la mise nella brutta ma cara bocca di Renata.
Anche se non era un'aquila aveva la sua bella sensibilità e il cuore tenero. Chissà se i figli
combineranno mai qualcosa di buono, o se già sono perduti come quelli del bar. Povera Renata, da
loro avrà un mucchio di dispiaceri e poche soddisfazioni.
Sentiva già da qualche minuto un canto diverso dai soliti. Erano tortore! Certo che erano
tortore! Le sarebbe piaciuto poterle vedere ma non se la sentì di alzarsi. Signore, pregò, fa che le
veda ora che potrei vederle così bene. Le fu concesso di vederle, anche se soltanto in volo, mentre
attraversavano il suo panorama dirette verso i giardini. Erano due tortore giovani dal volo elegante,
e da come volavano dovevano avere le idee chiare sul luogo da raggiungere, forse un bel ramo alto,
o il tetto del gelataio, dove qualche bambino le avrebbe ammirate.
Per molte ore non ebbe altre gioie. Era una giornata umida, giornata da male alle gambe. Pianse
anche un po', quasi sforzandosi, e bisbigliò tra i singhiozzi che non voleva morire. Il solito trucco per
addormentarsi. Infatti si assopì, ma ogni tanto riapriva gli occhi e contemplava una piccola crepa sul
soffitto, o una violetta di Laura, oppure seguiva il canto del canarino, o il richiamo delle tortore. Con
il passare delle ore l'asciugamano attorno al collo diventò opprimente. Se ne liberò giurando che non
si sarebbe guardata.
Nel pomeriggio ‐ il cielo si era annuvolato e c'era profumo di pioggia ‐ andò in bagno e fu
costretta a fare cose che non avrebbe mai voluto fare, ma venne a capo di un problema e quando
tornò sul divano ringraziò il Signore, unico spirito che di lei non aveva schifo.
Il suo sposo. Sorrise. Il suo sposo che non esiste, puro come una tortora.
La notte e il giorno ormai si confondevano. Apriva gli occhi e non si chiedeva neppure se era
giorno o notte. Finché durò questo stato di profondo torpore si sentì beata come una bambina.
Anche i dolori le sembravano lontani. Il corpo finalmente riposava. Lo sentiva più leggero, quasi
guarito. In realtà il suo corpo era gelido. Il condizionatore era troppo vicino, a un metro dai suoi
piedi.
Il rombo particolarmente violento di una moto la scosse ma lei non riuscì a riconoscerlo. Pensò
a un tuono che attraversava il cielo. Lo immaginò mentre precipitava in un lungo tunnel di nubi.
Lei dietro a volo d'angelo.
Luisa ascende al cielo tra le braccia del padre.
Suo padre era del Psiup ma è diventato un solitario che non crede più in niente. Abita là e porta
scarpe da festa bellissime, e un abito dal taglio antico.
Lei lo ha già visto una volta e sa che è lì.
Ma non c'è nessuno.
Nuvole come un campo di grano. Niente assoluto. Vento di cielo. Fuuu...
Non ci sono altri esseri. C'è il vuoto. Solo un vento antico nato chissà dove.
Qualcosa di completamente diverso.
In televisione trasmettevano un'interminabile partita di tennis, il tic‐toc le faceva compagnia
insieme alla voce premurosa del telecronista, che sembrava un buon diavolo. Non voleva disturbare i
giocatori parlando troppo forte e bisbigliava come in una chiesa.
Quando Luisa cominciò a tornare in sé, dispiaciuta e delusa perché era stata molto felice,
l'accolse la voce che le aveva fatto compagnia per tante ore insieme al tic‐toc delle palle da tennis, e
pensò di aver dormito il tempo di una partita. In realtà il torneo andava avanti da tre giorni.
Che stupida cosa svegliarsi. I dolori covavano sotto la pelle, che si svegliava più lentamente di
lei. Gli odori invece l'aggredirono subito. Soprattutto l'odore aspro dell'orina, che doveva salire dalla
strada. Le venne in mente la sua bambola antica e si infuriò: doveva essere in fondo al divano, o sulla
poltrona, comunque da qualche parte bene in vista, e invece non c'era. Doveva averla rubata sua
cugina, che era stata ladra anche da ragazza e infatti una volta l'avevano pizzicata in una profumeria.
La maledì e la odiò con tutte le forze che le restavano. Anche i soldi, le ruberà, non aspetta altro
quella vecchia bagascia. La conosceva troppo bene. Una che da ragazzina se lo prendeva di dietro
per restare vergine. E la figlia deve essere uguale a lei. Certo che le piace il centro storico, ci si
troverebbe a suo agio in mezzo a tutta la gentaglia rompiscatole e ladra esattamente come lei.
Arrabbiarsi, almeno per un po', le fece bene. Riprese colore e il corpo cominciò a riscaldarsi. I dolori
non erano poi così insopportabili. Un punto dell'anca che le aveva fatto molto male ora non si faceva
sentire e quasi le mancava, perché in quel punto il dolore conteneva anche un piccolo piacere fisico
che ora non riusciva a ricordare esattamente. Un pizzi‐chio sottile simile a quello che si nasconde nei
polpastrelli e che si può sentire premendo la punta delle dita contro il muro o negli angoli delle
porte. Si mise seduta e poi, molto lentamente, si alzò, usando la spalliera di una sedia come bastone.
Passando da una sedia all'altra poteva raggiungere con poca fatica sia il bagno che la cucina. Prima di
entrare in bagno si ricordò che non aveva l'asciugamano attorno al collo ed evitò diligentemente di
guardarsi allo specchio. Qualcosa la vide anche senza girarsi: più una sensazione che un vedere vero
e proprio. Una macchia scura alla base del collo. Il pigiama era sporco, e non fu facile toglierselo. Poi
si mise sotto il getto della doccia e restò immobile a lungo. Doveva essere molto prudente. Muoversi
lentamente, prendere piano i saponi, lavare con cura soprattutto le parti intime. Stando attenta a
non perdere l'equilibrio si sfregò bene anche la testa. Poi chiuse la doccia e cominciò ad asciugarsi.
Gettò a terra l'asciugamano bagnato e ci camminò sopra per non scivolare. Cercò di lavarsi anche i
denti, ma dovette sputare subito il dentifricio, che aveva un sapore nauseante e le dava il
voltastomaco.
Nascose la macchia con un asciugamano di cotone leggero che assomigliava a un foulard e
indossò un pigiama più ampio dell'altro. Sul pavimento si erano ammucchiate parecchie cose da
lavare. Sedette sul letto e contemplò impotente il mucchio di biancheria, che la lampada azzurra
faceva assomigliare a un ghiacciaio o a un presepe con tanto di grotta.
Giù in strada un ragazzo cantava a squarciagola per prendere in giro qualcuno, e altri gridavano
e ridevano. Sembravano un branco di cani. Al piano di sopra invece c'erano degli sconosciuti.
Qualcuno che parlava con la voce profonda, e una donna dall'accento straniero che ridacchiava
sensuale. Poi la voce profonda diventò allarmata e cominciò a gridare. Quando esplosero dei colpi di
pistola e iniziò il solito inseguimento con tanto di sirena Luisa capì che stava spiando un telefilm. Dai
passi le sembrò che la donna doveva essere sola in casa. Ecco, ora va in terrazza. Ora cambia
programma perché il telefilm è finito. Ora va in bagno, proprio sopra la sua testa, e si lava a lungo le
mani.
Davanti ai garage riprendeva il gioco del pallone lanciato contro il muro, e naturalmente
ricominciavano a gridare. Una grossa moto sfrecciò a tutto gas. Si ricordò del vecchio che aveva
sparato a un ragazzo e lo benedì con tenerezza. Forse stava languendo in una misera cella, o forse si
era impiccato per protesta, con grande soddisfazione di quelli che ancora versano lacrime di
coccodrillo sul povero giovane disadattato. I loro amministratori democratici! I reazionari saranno
farabutti ma loro sono furbi e falsi. Non lo diceva anche suo padre?
Qua e là nel quartiere si inseguivano le diverse sigle dei telegiornali. Stavano tutti con le finestre
aperte, di sicuro in mutande davanti alla televisione e speravano in un temporale che la facesse
finita con l'estate. Poveri illusi, domani finisce e dopodomani ricomincia. Lei non era più adatta a fare
questa vita, era buona soltanto per dormire. I ragazzi sembravano sempre di più, riusciva a sentire
anche il rumore che facevano camminando tutti insieme da un marciapiede all'altro. Pensò di
lanciare i suoi chiodi, pensò di lanciare anche se stessa, ma non si piacque. Le sembrava troppo
umiliante. Mezza nuda sfracellata al centro della strada. Le venivano i brividi solo a pensarci. Brividi e
sudore, di certo stuzzicato anche dalla doccia troppo calda. Che stagione marcia, l'estate. Ti lavi e sei
già sudata.
Signore, bisbigliò, prima stavo tanto bene. Fammi dormire in pace amen. Che mi sono proprio
stufata. Ho apprezzato tante cose, i tramonti gli spaghetti alle vongole la lampada azzurra che vedi
accesa qua accanto e anche la mia macchina e Renata e naturalmente i miei genitori, ma adesso
sono troppo malata e mi fa bene soltanto dormire, e poi sono sola e non dobbiamo interessare
nessun altro in questa faccenda. Grazie per non avermi fatto scoprire neanche da quella ladra di mia
cugina. Me ne vado volentieri, non me ne frega niente delle belle cose che lascio. Ma se la bambola
l'ha presa lei ti prego buttala nell'inferno dei ladri. E se invece l'ha presa Bruno, anche se non lo
credo, perdonalo perché è soltanto un povero cretino e tu lo sai.
La camera da letto, senza condizionatore, era decisamente troppo calda, inoltre il divano era
nuovo e le seccava d'averlo usato così poco. Anche questa lampada azzurra, pensò, se non la guardo
neanche cinque minuti al giorno che cavolo l'ho comprata a fare! Piano piano raggiunse le sedie e
seguì la strada della cucina. Bevve una tazza di tè e mangiò due o tre olive. Certo che il suo intestino
non poteva funzionare bene con un'alimentazione come la sua, ma non aveva fame, forse il fondo
dello stomaco si era consumato del tutto e il cibo cadeva direttamente negli intestini. Signore come
può vivere una donna senza stomaco? E pensò che forse le sue preghiere non venivano ascoltate per
un problema di forma. Anche se non conosceva le parole del rito decise che doveva dimostrarsi
arrendevole. Prese l'oliera e si versò un goccio d'olio d'oliva sull'indice, poi fece il segno della croce
sulla fronte e sulla bocca, e anche se non sapeva la formula disse chiaramente: questo è l'olio santo
del Signore. Lo disse a pochi centimetri dal canarino, che era fuori della gabbia e la fissava ben
accovacciato sulla piattiera. L'olio aveva un sapore straordinario, profumava di collina e corteccia, e
inoltre era caldo, non il caldo schifoso dell'acqua o del tè a temperatura ambiente, ma un caldo
nobile, un tepore che si stava estendendo anche sulla fronte e che doveva servire a farla sgusciare
fuori del corpo senza soffrire, come il neonato che esce da una madre di tanti figli.
Riempì d'acqua una bottiglia di plastica e la portò in soggiorno come scorta per la notte. I
ragazzi in strada adesso ridevano, molti con acuti in falsetto. Uuuu, Iiii, Uuuu... Doveva lasciarli
perdere, pensare soltanto alle sue povere gambe legnose e dolenti, alla bottiglia che le scivolava tra
le dita, alla presa sulle sedie che traballavano e minacciavano di abbandonarla, doveva stare attenta,
ma i rumori dei ragazzi sporcavano anche le sue preghiere e la facevano sentire ridicola. Non riusciva
a ignorarli del tutto. Neanche un vostro capello verrà dimenticato. Ma non è possibile che ragazzi
così meritino di essere ricordati, e per che cosa poi? Come me, del resto, che non sono più buona a
niente. Rivide per un istante l'infermiera che masticava gomma americana mentre appoggiava
l'indice sulla giugulare della madre, e pensò che nessuno avrebbe premuto il dito sulle sue vene. Che
privilegio, che fortuna.
Si sdraiò sul divano sospirando di piacere, anche perché lo trovò freschissimo e comodo. Le ossa
impiegarono alcuni minuti per adattarsi alla nuova sistemazione; sembravano prive di rotondità, se
le sentiva appuntite e taglienti contro la carne, e le inviavano l'ordine tassativo di non muoversi.
L'olio santo non giungeva fino a loro, in fondo erano soltanto la sua carcassa. Lei si sentiva uno
spirito separato dal corpo. Immersa nel cielo e nei voli di rondine, che ormai si preparavano a partire
per l'Africa. Serviva a questo il miracolo degli occhi, per seguire i loro voli perfetti. Forse era l'ultima
volta che le vedeva: pensò che significava anche questo.
Le restava un po' di rabbia per la bambola rubata, per la crudeltà di sua cugina, e in generale
per la crudeltà che viene a tutte le donne che hanno dei figli, e che in nome loro si sentono
autorizzate a ogni porcheria. Poi si corresse: non tutte, perché sua madre non era così. Non era
crudele con nessuno. Era sempre gentile. Strano però che non si facesse vedere. Soltanto suo padre,
col suo vestito di lana e le scarpe nuove. Non lo vedeva, in realtà, ma lo sentiva appena fuori del suo
campo visivo, esattamente davanti alla porta del bagno. Il suo cavaliere coraggioso. L'ultimo uomo
della città. Li senti, papà, gridano come maiali. Non hanno nessuna pietà. Il nostro quartiere è peggio
della morte.
Il male si fece così acuto che sembrava non avesse più origine da un punto preciso del corpo.
Tutto il corpo era il male. Se lo sarebbe strappato di dosso con le sue mani, ma riuscì soltanto a
lanciare lontano l'asciugamano e a strappare il pigiama. Senza rendersene conto emise per ore un
lamento continuo, acuto ma non forte, e nessuno dei vicini sentì niente. Si graffiò profondamente la
pelle attorno alla macchia e perse molto sangue. Non si accorse neppure che il canarino, ormai quasi
senza mangime, si era deciso a volare sul tetto di fronte.
Quando riuscì a calmarsi sprofondò nella contemplazione del cielo azzurro e bianco, e sentì di
nuovo il canto degli uccelli. Era molto debole ma anche serena. Nonostante l'odore di orina e di
fogna che saliva dalla strada. Le tornò in mente una vecchia barzelletta che le aveva raccontato
Bruno. I pomodori rossi marciano in fila nell'orto: io sono un pomodoro, io sono un pomodoro. Una
merda li segue tutta contenta... io sono un pomodoro, io sono un pomodoro. E l'ultimo pomodoro
della fila: macché pomodoro, tu sei uno stronzo. E tu allora? dice la merda, se sei un pomodoro
perché fai lo stronzo? Che bella barzelletta, la faceva ridere sempre. Il corpo non lo sentiva, era
immobile e freddo. Pensò che nell'aria c'era un tranquillo splendore e che lei ne faceva parte: poteva
andare avanti così chissà per quanto, settimane, mesi, anni, e non le dispiacque pensarlo. Era
circondata di pace. Se chiudeva gli occhi il mondo si riduceva a due palpebre calde che la coprivano
come due mani amorevoli. Le palpebre dividevano con il loro velo sottile quel che restava di Luisa
dal cielo. La sua finestra la città e il mondo intero sull'abisso del cielo. Soltanto due palpebre sottili e
morbide di fronte all'infinito. È la felicità, pensò, e fu il suo ultimo pensiero. Il respiro percorreva
ancora le sue vie oscure, ma quasi per caso. Entrava un po' d'aria e si perdeva nel corpo. Passavano
ogni volta molti secondi prima che il torace ritrovasse la forza per espirare, ma l'aria continuava a
perdersi e non usciva quasi niente. Il suo corpo non aveva più bisogno d'aria. Anche il cuore pulsava
appena ogni tanto. Era ormai notte quando smise di battere e le palpebre di Luisa si chiusero per
sempre.
I ragazzi gridavano, le televisioni urlavano e cantavano da mille appartamenti. Le luci in casa sua
erano tutte accese, anche quella blu che in camera da letto diffondeva un'illusione di freschezza. Il
volto di Luisa era sereno, sprofondato nel riposo.
La trovarono alcuni giorni dopo, e la portarono via due inservienti del comune. Il funerale e la
sepoltura avvennero rispettando alla lettera le sue ultime volontà. Alla cerimonia parteciparono
dieci persone, compresi il marito e i figli di Renata, che pianse per tutto il tempo. L'appartamento
invece venne ristrutturato e per due mesi gli abitanti del palazzo maledirono la polvere e i lavori. Alla
fine di ottobre ci andò a vivere sua nipote Cristina.