Gli Arabi in Sicilia
Gli Arabi in Sicilia
Gli Arabi in Sicilia
Teresa Costantino
Gesù e Maometto in visita a Isaia.
Gli Arabi
Gli Arabi sono originari del sud della Penisola arabica, anche se
non possiamo dire con certezza quale sia la loro vera provenienza.
Incerta anche l’etimologia. La parola Arab, quasi sicuramente signi-
fica nomade.
Iscrizioni assiro-babilonesi dall’IX al VI secolo a.C. fanno riferi-
mento agli “Aribi”, che con tutta probabilità sono da associare alle
tribù vassalle degli Assiri, che abitavano nella steppa siro-araba.
Scrive Umberto Rizzitano1: “… non è nemmeno da escludere la
loro partecipazione, fin da quell’epoca, al traffico commerciale tra il
Golfo Persico e la Siria, da dove le merci venivano avviate in Egitto
o smistate verso l’Arabia meridionale”.
La parola “arab” compare anche nell’Antico Testamento, ma non
sappiamo se si tratti di un vero etnico o di un generico appellativo,
anche perché, come vedremo successivamente, potrebbe essere sola-
mente un’attribuzione fatta a quasi tutti i nomadi. Bisogna, infatti,
considerare che tuttora in parecchie parti dell’Oriente il termine
A‘ràb ed Arab viene attribuito al nomade.
La parola “Arabia” comincia a fare la sua comparsa nei docu-
menti cuneiformi persiani, solo nella prima metà del VI secolo a.C.,
indicando prettamente i territori settentrionali e nord-orientali.
Diverse sono invece le citazioni classiche. Il termine Arabo e
Arabi per numerosi scrittori greci come Strabone, Eratostene,
Erodoto ed Eschilo, rappresentava quasi tutta l’Arabia. Un’ultima
annotazione, prima di entrare nella parte storica vera e propria. Il
Corano non identifica con il nome Arabo la popolazione dell’Arabia,
ma con A‘ràb indica i nomadi e i beduini distinguendoli dai cittadi-
1
Umberto Rizzitano, storico e docente di lingua e letteratura Araba.
7
ni della Mecca e di Medina, ciò non toglie che dopo l’avvento di
Maometto, e della religione musulmana il nome arabo si profuse in
tutti i mari e regioni dell’Asia, Africa e Europa. « Pertanto – scrive
Rizzitano – il termine, forse nato e tenuto a battesimo quale sinoni-
mo di « beduino », dopo essere servito a distinguere le genti della
penisola e della limitrofa steppa siria-arabica e successivamente a
designare, con una logica estensione del suo significato iniziale,
anche le popolazioni fuori d’Arabia che le conquiste islamiche ave-
vano arabizzato dalla Mesopotamia al Marocco, all’Andalusia, alla
nostra Sicilia, si trovò – forza di una razza che nell’Islàm aveva tro-
vato nuovi motivi di coesione – ad indicare tutta l’ecumene musul-
mana. »2
2
Umberto Rizzitano, Storia degli Arabi, Manfredi Editore, Palermo 1971,
pag. 11.
8
Gli Arabi in Sicilia
3
Rinaldo Panetta, I Saraceni in Italia, Mursia, Milano 1973, pag. 21.
9
e Baghdàd sede del governo centrale. Le stirpi erano diverse, e sep-
pure tutti combattessero nel nome di Maometto, Berberi e Andalusi
aspiravano a qualcosa in più che essere vassalli di Baghdàd e
Damasco.
Tornando al nono secolo, le popolazioni musulmane, avevano una
gran voglia di espandersi e visto che la cosa era ben riuscita in
Spagna con l’Andalusia, dove ormai i Mori (così furono chiamati
dagli Ispani le popolazioni arabe) si gettavano a capofitto per scorre-
rie marinare nel Tirreno, portarono la loro guerra santa (gihàd) in
Sicilia e ben oltre.
Un’altra scorreria (825) è narrata dallo storico Rocco Pirri che
annota anche la presa di Girgenti (?) nello stesso anno.
« All’aprirsi del nostro secolo IX, proprio nell’800, quando
Carlomagno era coronato imperatore in Roma, il suo rivale e corri-
spondente Harùn ar-Rashìd compiva da Baghdàd il primo passo di
sfaldamento dell’impero unitario dei califfi: l’investitura del gover-
no d’una provincia periferica, in questo caso la romana Africa
(l’Ifrìqiya degli Arabi e attuale Tunisia, da cui dipendeva più o meno
effettivamente il resto del Maghrib fino all’Atlantico) concedendola
quale ereditario appannaggio al governatore locale, Ibrahìm ibn al-
Aghlab. »4 Fu questo l’atto della nascita dell’Emirato d’Occidente
che diede inizio alla dinastia degli Aghlabiti di Qairawàn anche se
ufficialmente vassalli del Califfato abbàside.
Ormai, si era ben capito, i Saraceni erano ben disposti alla con-
quista della Sicilia, e l’occasione la diede la richiesta d’aiuto del
greco Eufemio, ribelle di Siracusa. L’imperatore bizantino Michele
Balbo stava sostenendo un’aspra lotta nell’Asia contro quello, che lui
sosteneva essere un usurpatore, Tomaso. Era governatore nell’isola il
protospatario Fotino (arrivato nell’826) che volle vendicare il suo
precedente che aveva subito la ribellione dei soldati siciliani. Per
dimostrare di essere un duro, e di saper soffocare le ribellioni, accu-
sò uno dei nobili e più ricchi, il turmarca Eufemio, di aver rapito una
monaca dal convento. Le date tuttavia sono discordi, in quanto alcu-
4
Gabrieli, Scerrato, Gli Arabi in Italia, Garzanti, Scheiwiller, Milano, pag.
36.
10
ni parlano dell’ 827 altri dell’ 825 e altri ancora dell’826. Anche i
fatti sono narrati in maniera simile ma con qualche discrepanza.
Costui nell’826 si ribellò all’Imperatore ed ebbe la capacità di scon-
figgere Fotino e di proclamarsi egli stesso Imperatore. Ma non fece
i conti con le congiure dei parenti. Due suoi cugini, Palata e Michele
(governatore di Palermo) organizzarono una rivolta contro di lui e
forzando le difese di Siracusa, vi entrarono e lo costrinsero alla fuga
in Africa.5 Un’altra versione è quella del governatore Palata che
inviato dal governo bizantino a Palermo (? La capitale Bizantina era
Siracusa) nel 827 (? Altre fonti danno 826) s’innamorò d’Omoniza,
la bella moglie del capo delle milizie Eufemio, che a sua volta l’a-
veva strappata alla sua vita da monaca. « Il sopruso provocò un acuto
risentimento nel siciliano, il quale, radunati dei « picciotti » validi e
decisi a cacciar i Bizantini, si mise alla loro testa e dette via a una
sanguinosa rivolta. Poiché l’esito si profilava incerto, Eufemio, per
non soccombere alla repressione condotta con forze ordinate e supe-
riori, rigettò, per disperazione, al peggior partito e corse in Africa
chiedere aiuto ai Saraceni ».6
Da questo importante episodio che determinerà la storia della
Sicilia per oltre due secoli si possono dedurre due punti principali. Il
primo è nell’intravedere in Eufemio un gesto di ribellione verso i
Bizantini per una Sicilia libera; il secondo è tratto dall’episodio della
monaca rapita che ricalca tante situazioni delle guerre dell’antichità,
ma anche quella più vicina della conquista araba della Spagna, dove
per antefatto viene narrata una circostanza analoga. D’altra parte era
chiaro che Eufemio non potesse chiedere aiuto ai principati italiani
centro-meridionali giacché essi riconoscevano l’autorità bizantina,
né ricorrere all’imperatore franco Carlo Magno a cui non interessa-
vano minimamente le sorti della Sicilia dei Patriarchi ortodossi.
5
La strana storia che circonda Eufemio è narrata in diverse sfaccettature da
tanti autori, tra cui Cedreno e Zonara e poi dagli storici Fazello e Caruso.
Il nostro riferimento è quello che si legge nelle Lettere del Codice Arabo.
6
Panetta, I Saraceni in Italia, Mursia, Milano 1973, pag. 27.
11
Bizantini, promettendogli anche un grosso tributo. Correva l’anno
827, quando l’emiro Allàh convocò il consiglio dei dottori in legge e
ottimati per dibattere il progetto d’intervento bellico in Sicilia. I pare-
ri furono discordi soprattutto tra i due kadì locali, Abu Muhriz e Asad
ibn al-Furàt. Il primo era per prendere tempo, anche per via di una tre-
gua marittima firmata coi Bizantini; il secondo, un giurista, per un
intervento immediato. Prevalse il secondo che riuscì a persuadere
l’assemblea e l’emiro all’intervento e, ad avere anche il comando
della spedizione. Sinàn (lancia) Asad (leone) ibn al Furàr (Eufrate, il
fiume della tradizione islamica), giurista, (faqìh = colto, esperto) già
settantenne (per alcuni settantasette), non era un arabo puro, ma aven-
done studiato a lungo le dottrine si era arabizzato, sia nella lingua che
nella religione musulmana, diventandone un seguace e un promulga-
tore efficace. Avendo studiato secondo il modello islamico, ascoltan-
do i maestri di Baghdàd e Medina, si era promesso alla propagazione
della fede con una la fiducia cieca nell’appoggio divino.
Così alla sua veneranda età, ricco della parola del Profeta, si tra-
sformò in condottiero d’armi alla conquista della Sicilia: « Datevi
anima e corpo alla ricerca della scienza, raccoglietene quanto più
possibile, ma sappiate tenacemente resistere e sopportare i travagli
cui essa vi sottoporrà, e ricordate soprattutto che ne avrete assicura-
to il premio in questa e nell’altra vita. »7 Queste le parole pronuncia-
te alle truppe nel ribàt di Susa prima di salpare per la Sicilia.
Ebbe inizio quella che i Musulmani chiamarono gihàd “Guerra
Santa”. Presero parte alla spedizione circa 10 mila uomini, Arabi,
Persiani, Berberi della tribù di Howâra e forse anche Andalusi, 100
navi, 700 cavalli e la legione di Eufemio (non operativa). La Sicilia si
preparava così a cambiare ancora una volta padrone, dalla tirannia di
un Imperatore cristiano a quella di un emirato musulmano. Scrive lo
storico e arabista Michele Amari: « In una parola, la Sicilia era dive-
nuta dentro e fuori bizantina; ammorbata dalla tisi di un Impero in
decadenza; sì che, contemplando le misere condizioni sue, non può
rincrescerci il conquisto musulmano che la scosse e la rinnovò ».8
7
F. Giunta, U. Rizzitano, Terra senza Crociati, Flaccovio Editore Palermo,
1967, pag. 16.
8
M. Amari, Storia dei Musulmani di Sicilia, Clio, Catania, 1993.
12
I Saraceni s’imbarcarono a Susa, il 15 di rabî (anno 212
dell’Egira) ovvero il 14 giugno 827 (altre fonti danno il 15 giugno),
e dopo tre giorni di viaggio approdarono a Mazara, città scelta dallo
stato maggiore aghlabita per la sua vicinanza all’Ifrìqiya e forse
anche il luogo dove i ribelli aspettavano il loro capo Eufemio. Il 15
luglio avvenne il primo scontro con i Bizantini comandati dal
Patrizio Balata, i quali s’affrontarono in una località detta (forse)
Rahl Balata9, dove i Greci furono sconfitti e in massima parte truci-
dati. I rimanenti fatti schiavi e mandati in Africa. Balata riuscì a fug-
gire, prima ad Enna e poi in Calabria, dove però fu ucciso dagli stes-
si Bizantini. Da quel primo terrore nacque una leggenda che lo stori-
co del XIV sec. Tommaso Fazello narrò nel suo libro De Rebus
Siculis.10
“Secondo la leggenda, l’emiro di Barberia, inviò in Sicilia 40.000
guerrieri, fra i quali un capo di nome Halcamo. Costui, sbarcato a
Mazara, diede alle fiamme le proprie navi, per significare che, ormai,
non era più questione di tornare indietro e che la Sicilia, in un modo
o nell’altro, doveva essere occupata. Poi s’impadronì di Selinunte e,
per domare subito l’Isola con un esempio ammonitore, prese vari cit-
tadini e li fece cuocere vivi in caldaie di rame. In seguito a tale epi-
sodio, le altre città, terrorizzate, si arresero. Volendo, però, il capo
saraceno prepararsi a qualsiasi eventualità, edificò un castello, che da
lui prese il nome, e vi stabilì la propria dimora. I Siciliani, riavutisi
dal primo sgomento, assediarono il castello, ma Halcamo resisté,
fino a che dall’Africa non giunse un nuovo contingente di saraceni,
che sottomisero definitivamente gli insorti”.11 Questa è anche la leg-
genda che avvolge la nascita della città di Alcamo e del suo castello.
Subito dopo i Musulmani ripresero l’invasione dell’Isola, dirigen-
dosi a Siracusa, capitale dei Rûm. Questa volta non s’inoltrarono nel-
l’aperta campagna né tra i sentieri rupestri, ma percorsero la strada
romana che dalla costa meridionale porta alla foce del fiume Salso.
Lungo il percorso, comunque, Asâd, poneva dei presidi, in modo da
9
M. Amari, Storia dei Musulmani di Sicilia, Clio, Catania, 1993.
10
La leggenda viene riportata dalla nota del libro di Rinaldo Panetta pag. 29.
11
Tommaso Fazello, De Rebus Siculis, deca II, lib. VI, cap. I.
13
salvaguardare la sicurezza della milizia che si andava spostando.
Durante il cammino verso la capitale, ad Acri, sembra che sia stato
raggiunto da alcuni nobili del luogo che gli offrirono una cospicua
somma (forse 50.000 soldi d’oro) affinché non distruggesse le loro
città. Asâd, però, non ebbe esitazioni, perché si rese subito conto che
le offerte sarebbero servite solamente a far guadagnare loro tempo
nell’organizzazione della difesa delle città. Così riprese la marcia
verso Siracusa. Cominciò, quindi, la lunga e indomita resistenza
della Capitale, che fece capire ai Saraceni quanto sarebbe stato diffi-
cile espugnarla. Nel frattempo la flotta musulmana si era portata
nelle vicinanze del porto di Ortigia, mentre l’esercito si accampava
nelle grotte latomie, alias Paradiso, Santa Venera, Navauteri e
Cappuccini. L’esercito di Asâd riuscì ad assaltare la città alcune
volte, ma i Siracusani ebbero la forza di ricacciarli sempre fuori. La
resistenza così si protrasse per mesi e mesi, mettendo in grave diffi-
coltà i saraceni che dopo aver fatto razzia di tutto ciò che vi era nei
dintorni, non ebbero più nulla da mangiare. Così, stanchi, affamati e
delusi da una guerra senza fine e, con la certezza di un arrivo immi-
nente d’una pestilenza, cercarono una via per un ritiro. Asâd, in que-
sta difficile situazione, dove i suoi soldati erano costretti a mangiar-
si i cavalli, dovette subire anche una sommossa interna da parte di
Ibn Qadîr, che non solo voleva smettere l’assedio, ma addirittura tor-
nare in Ifrìqiya, per la salvezza dei Musulmani.
In verità i Saraceni pensavano che: « La vita di un musulmano è
più preziosa di tutte le ricchezze dei Rûmi ». Asâd, alle richieste del
capo dei rivoltosi rispose con la sua vasta conoscenza della religione
islamica: « Non sono io quello che farà tornare indietro i musulmani
usciti in guerra sacra, mentre hanno ancora tante speranze di vittorie
». Questo però non bastò a calmare i rivoltosi, che anzi tentarono di
ucciderlo. A questo punto Asâd, fece prendere il capo di essi, Ibn
Qadîr, e lo fece frustare, davanti ai suoi sostenitori, e questo bastò a
domare la piccola rivolta. Intanto dall’Africa arrivarono i rinforzi
richiesti, perciò i Saraceni si rincuorarono e intensificarono l’assedio
a Siracusa. Ma anche ai Siracusani giunsero rinforzi da parte di
Michele il Balbo, governatore bizantino di Palermo, solo che Asâd lo
venne a sapere con qualche giorno d’anticipo e quindi poté prepara-
re alcuni trabocchetti, scavando e camuffando delle fosse sul terreno
14
dove si sarebbero affrontati. I cristiani subirono un’autentica batosta,
finendo per essere trucidati. E questo perché finirono nelle buche pre-
parate e nascoste dai saraceni. A questo punto i musulmani strinsero
l’assedio a Siracusa senza però riuscire a prenderla. Dopo dieci mesi
i cittadini siracusani, ormai sfiniti dal lungo assedio, chiesero una
tregua e un accordo, che fu però rifiutato da Asâd, sicuro ormai del-
l’imminente capitolazione dei greci. Ma non fu così per due motivi.
Il primo per lo smisurato orgoglio dei siracusani, il secondo per una
pestilenza che colpì l’esercito saraceno.
Asâd ibn al-Furàt morì nell’estate dell’828, vittima probabilmen-
te di questa epidemia, scoppiata fra le truppe saracene, le quali fino
alla conquista di Palermo (831) continuarono a vivere all’aperto o
accampate in piccole fortificazioni. Purtroppo non si conoscono né la
data, né il luogo della morte e della sua sepoltura. Tuttavia da uno
scritto di un cronista del XII secolo, al-Màusili, si apprende che la
tomba di Asâd era, nel suo tempo, fra i luoghi meta di pellegrinaggio
da lui visitati in Sicilia.12 Del resto Asâd, era considerato un sant’uo-
mo o meglio « Ed ancora diremo, ripetendo qui quanto abbiamo
scritto in altra occasione, che se Asâd non fosse deceduto da com-
battente per la guerra santa (in arabo mugiahid) lontano dalla propria
terra, in una località della Sicilia orientale di cui non è facile conget-
turare l’esatta ubicazione, le sue spoglie, al pari di quelle di perso-
naggi anche meno illustri, sarebbero state certamente raccolte e con-
servate in un mausoleo degno della fama terrena del giurista ».13
Con la morte di Asâd e con gli uomini debilitati e morenti per il
morbo, i saraceni cominciarono a subire frequenti disastri, oltretutto
era arrivata notizia che un esercito Rûmi era sbarcato in Africa e si
dirigeva verso la capitale Al-Qayrawân. I saraceni, nominato il suc-
cessore di Asâd, nella persona di Muhammad ibn Abi’l-Giawari, si
fecero prendere dal panico, e cercarono di guadagnare il largo con le
12
al-Màusili è autore di Guide des lieux de Pélerinage, uno scritto edito e
tradotto in francese da J. Sourdel-Thomine, Damasco 1953 a pag. 54 del
testo in arabo.
13
Storia della Sicilia, Società editrice storia di Napoli e della Sicilia,
Palermo 1980, vol. III, pag. 125.
15
loro navi, ma all’uscita del porto grande di Siracusa trovarono una
gran flotta composta da Greci e Veneziani, arrivati in aiuto dei
Siracusani. Debilitati ma indomiti decisero di ritornare sui propri
passi e dopo aver distrutto i propri legni, fuggirono verso i monti
Iblei.
14
Bisogna dire che la parte occidentale degli Arabi era rappresentata dai
Berberi, che abitavano la Tunisia.
15
Panetta, ibidem, pag. 35.
17
divampa alta nel cielo di Delhi fino a Granata! Dissi che il Grande è
sempre come la folgore piombata dal Cielo; il resto degli uomini,
come puro combustibile, l’attendeva per infiammarsi a sua volta ».16
16
Tomas Carlyle (1795-1881), storico e saggista scozzese.
17
Panetta, ibidem, pag. 39.
18
Galeotta: galea sottile da combattimento.
18
Roma saccheggiando la basilica di San Paolo e arrivando anche al
Vaticano, dove sorge la basilica di san Pietro. Si diedero a distrugge-
re tutto, depredando, incendiando case e ville e riducendo gli altari in
mangiatoie di cavalli. Scrisse Benedetto da S. Andrea: « Amareni
(n.d.a. Saraceni) ingressia Centumcellensi portu, impleverunt facies
terrae sicut locuste… Facta est Tuscia provincia desolata… Mater
omnium Ecclesiarum in opprobrium ».19 La cosa ricordò ai Romani
l’invasione di Roma da parte dei barbari.
19
Benedetto da Santo Andrea, Chronicon, apud Georgium Henricum Pertz;
“Momumenta Germaniae Historiae”, t. III, p. 712, Hannover, 1839.
Copia posseduta dalla Biblioteca Fardelliana di Trapani. Un'altra copia è
citata dal Panetta nel suo libro, ma di cui non viene data la provenienza.
20
Deburigny, Storia della Sicilia tradotta dal francese da Mariano Scasso,
Dalle stampe del Solli, Palermo, 1788.
Copia posseduta dalla Biblioteca Fardelliana di Trapani.
19
che aveva indotto i Saraceni ad invadere la Sicilia e che per questo
era ormai tristemente noto e odiato. Eufemio riuscì ad avere un
incontro con alcuni capi della città a cui espose il suo piano che era
quello di non portar guerra alla città, risparmiando case e uomini.
Secondo le fonti arabe, i rappresentanti di Enna (Kasr Jânna) chiese-
ro di poter prima parlare con la cittadinanza e di dare poi la risposta.
Cosa che Eufemio accettò. La risposta arrivò nel pomeriggio: l’in-
gresso alla città veniva concesso. Scrive Panetta «Tutti erano dispo-
sti ad accettare quanto Eufemio aveva proposto: rinnegare Michele
Balbo, che governava l’isola in nome dell’imperatore di Bisanzio, e
giurare fedeltà a lui, infine far entrare in città e accogliere, come
amici, i Saraceni. Unica condizione che i cittadini ponevano era che
la cerimonia del giuramento si facesse l’indomani, in un determina-
to luogo, a mezza strada tra le mura e il campo dei musulmani. Sul
posto sarebbero convenuti: da Enna, i notabili e, dal campo Eufemio
con una piccola scorta dei suoi. La cerimonia doveva essere tutta
siciliana, cioè con assoluta esclusione del rappresentante bizantino
presente in città e dei musulmani presenti in campagna. Tanto più
(aggiunse il notabile) che, fra i cittadini di Enna v’erano due fratelli,
già compagni dello stesso Efeumio, i quali non vedevano l’ora di
riabbracciare il vecchio amico ». Ed oltre a tutto, imposero ad
Eufemio e alla sua scorta di presentarsi disarmati. La bramosia di
diventare imperatore dovette sicuramente accecargli il cervello, giac-
ché accettò tutte le condizioni. E questa fu la causa della fine della
sua avventura e della sua morte. Nella notte i complottanti prepara-
no la trappola per l’ingenuo Eufemio. Portarono e nascosero le armi
che sarebbero servite all’uccisione di chi aveva tradito i Siciliani. La
trappola scattò all’alba. I notabili si recarono al luogo dell’incontro e
ricevettero il turmarca in gran pompa e, subito dopo si presentarono
i due vecchi amici che abbracciarono Eufemio e poi mentre l’uno gli
teneva la testa, l’altro gli vibrava un colpo di spada alla nuca, lascian-
dolo a terra, morto. Correva l’anno romano dell’829.
21
B. Lagumina, Catalogo delle monete arabe esistenti nella Biblioteca
Comunale di Palermo. Palermo 1892.
22
M. Amari, Storia dei Musulmani di Sicilia, Clio, Catania 1994, pag. 199.
23
L'Amari scrive che la città dove si rifugiarono gli appestati potrebbe esse-
re anche Mazara.
21
Spagna si dileguavano, quelli dell’Ifrìqiya, rinforzati dalle truppe
liberate a Mineo presero ad assaltare Palermo.
24
Michele Amari, op. cit., pag. 204.
22
Tuttavia qualcuno riuscì a salvarsi, tra cui il vescovo Luca, e il
governatore bizantino della città, Simeone, che fuggirono con una
nave.
Con la presa di Palermo si veniva a consolidare il potere Saraceno
nella Sicilia occidentale che della città ne avrebbero fatta la futura
capitale. Dopo anni vissuti nella libera campagna s’insediarono nella
città, avviando le strutture per un vivere civile e studiando la strate-
gia militare per la conquista dell’intera Isola. Il primo luogotenente
aghlabita dell’isola fu Abû Fihr Muhammad ibn Abd Allàh (832-33),
cugino dell’emiro Ziyadat Allàh. Prima di riprendere gli assedi per la
conquista delle altre città trascorreranno due anni, periodo questo,
che servì sicuramente al rafforzamento e alla ricostruzione della città
di Palermo. Nell’833 Abû Fihr cominciò le offensive verso
Castrogiovanni, divenuta il quartiere generale dei Greci, ma in veri-
tà, gli assalti, non andarono aldilà di alcuni succosi bottini. Nell’835
Abû attaccò la roccaforte riuscendo ad espugnarla ma non a conqui-
starla. Scrive Panetta:
« Entrato negli alloggiamenti li saccheggiò e prese molti prigio-
nieri, fra cui la stessa moglie e un figlio del comandante delle mili-
zie ».25
La vittoria definitiva non arrivò mai e, Abû Fihr, non riuscendo a
frenare i suoi subalterni, a cui non risparmiava alcun sopruso, venne
assassinato proprio da una cospirazione ordita da essi.
Il comando musulmano fu preso da Fadhl-ibn-la’kûb, che si fece
notare con due scorrerie, una nelle vicinanze di Siracusa e l’altra
dalle parti di Enna. « …poiché leggesi che un patrizio andò con gros-
so stuolo a tagliar il cammino ai Musulmani. Se non ch’essi furono
pronti ad afforzarsi in un aspro terreno e boscaglie intricate, ove il
nemico non osò assalirli. Aspettato invano insino a sera che scen-
dessero quelli a combattere, le genti del patrizio, com’era l’indole
delle milizie bizantine, più neghittose che vigliacche, si partirono,
sciolsero gli ordini nella ritirata. Andandosene i Musulmani, saltavan
fuori da loro rupi, caricavano il nemico d’una carica vera, dicono gli
annali, e lo sbaragliavano: il patrizio, ferito di parecchi colpi di lan-
25
Rinaldo Panetta, ibidem, pag. 49.
23
cia, cadde da cavallo, ma fu valorosamente difeso da’ suoi, tanto che
sel portarono fuggendo così mal concio, abbandonando armi, arnesi,
cavalli ».26
Fadhl fu sostituito da un altro principe di sangue aghlabita, Abu’l-
Aghlab Ibrahim ibn Abd Allàh ibn el Aghab, nipote dell’emiro
Ziyadat Allàh. Partì dall’Africa l’11 settembre dell’83527 con una
flotta di fuste, facendo rotta verso Palermo, e ancora al largo fu
affrontata da una flotta bizantina di dromoni, navi greche armate con
tubi da dove fuoriusciva del fuoco, che costrinsero gli Arabi a rifu-
giarsi al più presto nella capitale. Sembra, secondo alcune fonti, che
avessero portato con loro una harrâka, una nave greca che avevano
catturata durante la battaglia. I Saraceni la chiamavano harrâka, cioè
incendiaria, perché per molto tempo non capirono come questi legni
potessero sparare proiettili di fuoco.
Ibrahìm governò per sedici anni, nel corso dei quali si occupò
moltissimo della vita politica e amministrativa dell’Isola, preferendo
affidare la programmazione militare a dei veri professionisti, anche
se lui stesso partecipava alle riunioni dello Stato Maggiore. Il suo
governo fu in ogni modo molto positivo e la sua competenza ed ener-
gia gli assicurò molti consensi. Ibrahìm, durante il suo regno, perché
di vero regno si deve parlare, riuscì a consolidare i presidi già esi-
stenti nell’Isola, e a crearne altri, tornò ad attaccare Castrogiovanni,
cercando di tenere a bada il centro della Sicilia, cinse d’assedio
Cefalù ed espugnò Platani, subito dopo conquistò Caltabellotta e
Corleone. Tra l’839 e l’841 tutta la Sicilia Occidentale era ormai
musulmana: si era formata una delle tre zone, la Valle di Mazara, in
cui dopo la conquista, l’Isola sarebbe stata divisa dal punto di vista
amministrativo. Seppure con discrepanza di un anno (835 o 836)28,
26
Michele Amari, ibidem, pag. 209. Anche la fonte della nomina di Fadhl è
dell'Amari.
27
Secondo altre fonti era il settembre dell'836. Storia della Sicilia, ibidem,
vol. III, pag. 129.
28
Michele Amari: “Venne con una armata in Palermo, capitale della Sicilia,
come già la chiama un cronista, di mezzo ramadhan del dugentoventi (11
settembre 835) …”, pag. 210.
24
anche Abû al-Aglàb fece alcune razzie riuscendo ad arrivare fino alle
pendici di Castrogiovanni, rastrellando un notevolissimo bottino e un
eccezionale numero di prigionieri. Inviò anche delle fuste verso le
isole Eolie, e altre verso le coste del palermitano fino a Messina, con
azioni evidenti di saccheggiare e depredare quegli abitanti. Durante
la navigazione, i legni, di Abû al-Aglàb, si scontrarono con una pic-
cola flotta greca, che distrussero, e ai marinai, fecero mozzare la
testa. Un’altra spedizione fu diretta verso Pantelleria, dove aveva
saputo che si trovava una flotta bizantina, ma in realtà vi era una sola
fusta, che fu completamente distrutta. Anche i marinai e i soldati
greci di stanza nell’isola furono uccisi crudelmente. I Musulmani
presero a fare altre scorrerie lungo la costa tra Palermo e Messina
fino a Castelluccio, una roccaforte ben difesa, dove, gli abitanti e le
milizie greche li travolsero. Nell’837, Abû al-Aglâb mandò una
squadra navale al largo di Palermo, dove si scontrarono con i legni
greci. Lo scontro arrise ai Saraceni che riuscirono a catturare anche
una decina di navi. La sconfitta comunque bruciò alquanto ai
Bizantini, tanto che il patrizio greco, governatore della Sicilia, deci-
se di organizzare un esercito e attaccare gli Arabi nelle vicinanze di
Castrogiovanni, dove i Musulmani erano accampati. Nello scontro
gli Arabi ebbero la peggio e Abd as-Salâm, che li capitanava fu fatto
prigioniero. Scrive Panetta: « stavolta i Musulmani ebbero la peggio,
tanto che abbandonarono il campo, lasciando morti sul terreno e una
gran quantità di prigionieri, fra cui lo stesso Abd as-Salâm, il quale
fu, poi, scambiato, sembra, con il capo della squadra navale bizanti-
na, che era stata sconfitta poco prima ».29
La rivincita però arrivò puntuale. Decisi a riprendersi gli uomini
fatti prigionieri, i Saraceni, approfittando della scoperta di un sentie-
ro che portava dentro la città di Enna, vi entrarono in forze e al grido
Akbar-allâh (Allâh è il dio più grande) uccisero i soldati di sentinel-
la e assaltarono la città. Dopo una breve resistenza e rintanatosi nella
fortezza, il comandante greco, chiese di scendere a trattative, che i
Saraceni accettarono di buon grado, purché fossero liberati i loro pri-
gionieri. Nello stesso tempo un’altra milizia musulmana attaccava
29
Rinaldo Panetta, ibidem, pag. 51.
25
Cefalù (in arabo Gefalûdi) che comunque resistette egregiamente.
Neanche nella primavera dell’anno successivo (838) i Saraceni
riuscirono a piegare la resistenza dei Cristiani, che fra l’altro rice-
vettero dei rinforzi bizantini da parte del mare, e quindi furono in
grado di contrattaccare, facendoli ritirare.
In quell’anno 223 dell’Egira, cioè l’838, in Ifrìqiya diventava
emiro Abû Iqàl al-Aghlab fratello del defunto aghlabita Ziyadar
Allàh, il quale non modificò la politica verso la Sicilia ed anzi prov-
vide subito all’invio di consistenti rinforzi. Tra l’839 e l’840 furono
conquistati e costretti alla resa i presidi di Platani, Caltabellotta,
Marineo, Geraci, Corleone, Girgenti e altri di cui non si riesce ad
identificarne i nomi riportati dai cronisti arabi. Nell’840 la « guerra
santa » nella Sicilia Occidentale era conclusa, ma non mancò il soli-
to attacco al territorio di Castrogiovanni, dove i Saraceni diedero
fuoco alle case, ai villaggi, saccheggiando e predando tutto quello
che c’era. Anche i contadini furono portati via legati ad una fune.
L’episodio è reso ancora più brutto dal fatto che i Cristiani arroccati
in città non fecero nulla per intervenire a difesa della povera gente.
30
Panetta, ibidem, pag. 59.
27
Il 17 gennaio dell’851 moriva, Abû ‘l-Aghlâb Ibrahìm ibn Allàh,
che era stato al governo per ben sedici anni, e che aveva trasformato
e arricchita Palermo, dove finivano gli schiavi e le ricchezze delle
città conquistate. Secondo fonti arabe, sarebbe stato un sovrano
degno della “guerra santa” che aveva combattuto in nome di
Maometto, e in effetti, senza essersi mai mosso da Palermo, fu lo
stratega di tutte le battaglie vinte contro i Rûmi. Come avevamo già
detto, ad Ibrahìm, seguì Abû ‘l-Aghlâb al Abbàs ibn al-Fadl ibn
Ya’qùb (851-61), che era diventato famoso per aver condotto l’asse-
dio di Butera.
Fu eletto dai suoi a suffragio universale e la carica gli fu subito
ratificata, dal califfo di Qairawàn. Con il suo avvento cambiava il
modo di governare in Sicilia, in quanto si passava da un politico ad
un militare.
31
La fonte araba è quella di Ibn al-Atìr, riportata da Michele Amari nel vol.
I, p. 459 della Storia dei Musulmani di Sicilia.
28
scorrerie di Al-Abbâs, si fecero più frequenti. Nell’856, ebbe modo
di accamparsi sul monte Alterina, nelle vicinanze di Enna (a circa 8
miglia) e da qui fece partire alcune spedizioni per razziare tutto quel-
lo che gli capitava e soprattutto fare prigionieri da vendere come
schiavi. In questo fu famoso il fratello Alì, uomo rude e senza mora-
le, che arraffava tutto quello che gli si offriva e non. Nella spedizio-
ne estiva dell’857, « Sciaifâh », come lo chiamavano i saraceni, si
scontrò con le truppe bizantine d’istanza a Enna e, dopo averle scon-
fitte le costrinse a rifugiarsi in città. Dopodiché spinse i suoi verso la
Sicilia Orientale, in modo da mettere a ferro e fuoco tutta la zona che
va da Siracusa a Taormina. Di ritorno verso Palermo assalì la città di
Gagliano Castelferrato, tenendo, per due mesi, gli abitanti asserra-
gliati. Questi privi d’ogni rifornimento, a breve vennero a patti,
offrendo ad Al-Abbâs la somma di 15.000 dinâr, che egli rifiutò non
accontentandosi del denaro, ma pretendendo la distruzione della for-
tezza e la consegna di tutti gli individui validi, lasciando a loro solo
una piccola minoranza. Alla fine gli abitanti, presi dalla fame, cedet-
tero e furono fatti schiavi. Nello stesso anno Al-Abbâs, riuscì a pren-
dere Cefalù, senza colpo ferire, in quanto gli abitanti lo lasciarono
entrare in cambio della loro libertà. Le gesta di Al-Abbâs, e di suo
fratello Alì si fecero più audaci e nell’858 s’inoltrarono anche
nell’Adriatico. Con il pretesto di aiutare i Saraceni di Puglia in lotta
con i Bizantini, Alì si portò con una flotta nella terra lunga, dove si
scontrò con quaranta salandre bizantine, di cui riuscì a catturarne una
ventina, con le rispettive ciurme. Il tutto, avvenne però, con troppa
facilità e Alì che non s’aspettava la reazione del nemico: in breve
invece si vide raggiunto e costretto a combattere. Era al comando
delle salandre cristiane, Giovanni il Cretese, uomo caparbio e abile
comandante, che raggiunte le fuste saracene, gli diede battaglia,
infliggendo una dura lezione ad Alì e alle sue ciurme. Il comandante
bizantino recuperò le sue navi e ne catturò una ventina e Alì riuscì a
salvarsi a mala pena alzando le vele per Palermo con i resti della sua
flotta.
Risentito per questa improvvisa batosta, Al-Abbâs, cercò di con-
quistare definitivamente la città di Enna, la rocca che aveva resistito
un trentennio ai loro assalti e che rappresentava il centro della Sicilia
e della resistenza bizantina. Dopo aver mandato diversi contingenti a
29
predare le zone limitrofe della roccaforte, decise che era arrivato il
momento dell’attacco decisivo a Castrogiovanni. L’occasione gliela
diede, secondo una fonte araba, un anziano prigioniero bizantino,
che per aver salva la vita, guidò i Saraceni verso l’accesso segreto
della città. Furono mille cavalieri e settecento fanti a sorprendere le
sentinelle nel sonno, ad aprire le porte e a massacrare gli abitanti.
Scrive il Panetta: « Al-Abbâs gli promise la vita e prese a organizza-
re in silenzio la spedizione: mille uomini a cavallo e settecento uomi-
ni a piedi, tra i più valorosi e decisi, inquadrati in drappelli di dieci
uomini ciascuno. Poi, capitanando egli stesso la formazione, uscì di
notte da Palermo. Anziché passare per la solita via montana di
Caltavuturo, aspra e difficile nell’inverno, seguì l’altra più lunga, ma
più agevole, che conduce a Caltanisetta, nei pressi si fermò. Da lì
spedì a Enna, distante solo sedici miglia, una masnada di forti guer-
rieri, al comando di Rabâh, valoroso capitano, il quale conduceva
seco, legato a dovere, perché non scappasse all’ultimo momento, il
traditore dei Rûmi. Costui guidò di notte i musulmani verso la parte
settentrionale della città, a picco sulle rocce. Fatte appoggiare le
scale che erano state portate al seguito, gli uomini salirono fin sotto
le mura. Era l’alba, l’ora fatale per le sentinelle, perché credendo
passato il pericolo notturno, si lasciarono vincere dal sonno.
Il traditore condusse i nemici alla bocca d’un acquedotto che si
apriva sotto le mura: introdotti nel cunicolo a uno a uno, i musulma-
ni sbucarono fuori nel centro della cittadella: là s’avventarono contro
i soldati bizantini, che sonnecchiavano presso i fuochi, e li uccisero
tutti trapassandoli con le loro lance acuminate; dopo di che corsero ad
aprir le porte della fortezza, poste sulla parte di mezzogiorno ».32 Al-
Abbâs con il suo contingente entrò nella roccaforte saccheggiandola
e uccidendo tutti i soldati cristiani. Era il 26 gennaio dell’859 e i
Musulmani celebrarono con la preghiera del mattino, una delle cin-
que imposte. Si dice che il giorno dopo fu costruita una rudimentale
moschea in cui al-Abbâs sovrintese alla preghiera del venerdì.33
32
R. Panetta, ibidem, pag. 100-101.
33
Narrano i cronisti arabi, che fu trasformata la principale chiesa di Enna in
moschea.
30
La grande vittoria di al-Abbâs, ebbe echi sia in Africa che a
Baghdàd. Il fantastico bottino e la grandissima quantità di schiavi,
fece sì che alcuni oggetti di pregio, schiavi e schiave, fossero regala-
ti all’emiro aghlabita, Abu Ibrahìm Ahmad, e che, altri arrivassero al
Califfo al-Mutawakkil.
A Bisanzio, l’imperatore Michele III detto « l’ubriaco » cercò di
correre ai ripari, anche se come al solito, a modo suo, in ritardo e
sotto la pressione dei delegati. Dispose così di inviare un esercito a
comando del patrizio, Costantino Contomita, che a sua volta, nell’e-
state dell’860 partì con 300 salandre verso i lidi siciliani.
Sbarcati a Siracusa, all’inizio dell’autunno e, unitisi alle forze
bizantine locali, si portarono verso la costa settentrionale. La notizia
del loro arrivo rese vitali i siciliani che si sollevarono al nemico.
Così, città come Caltabellotta, Platani, Caltavuturo e Butera si ribel-
larono e inviarono i loro uomini a sostegno dei Cristiani che cerca-
vano di avvicinarsi a Palermo. Al-Abbâs andò incontro ai Bizantini
e li sbaragliò, poi si rivolse verso le città ribelli e le ridusse all’ob-
bedienza. Intanto, il patrizio Costantino Contomita, riorganizzate le
truppe, si diresse verso Cefalù, dove la flotta imperiale fu sconfitta e
messa in fuga, ripiegando verso Siracusa. Erano passati undici anni
dal suo arrivo in Sicilia e oramai l’Isola si poteva considerare una
terra musulmana, mancava solo la roccaforte dei Bizantini: Siracusa
la capitale, per importanza seconda solo a Bisanzio, il simbolo cri-
stiano dell’occidente. Al-Abbâs, di rientro da un’incursione estiva nel
territorio di Siracusa, arrivato alle grotte di Macara, si ammalò di
polmonite e in soli tre giorni morì. Al-Abbâs lasciò la vita terrena il
14 agosto dell’861, il 13 secondo l’Amari.34
L’ora di Siracusa
La successione ad Al-Abbâs, fu più difficile del previsto. Il primo
ad essere nominato governatore fu Ahmad ibn Ya’qùb, zio di al-
Abbâs, il secondo fu il figlio, Abdallàh, ma nessuno dei due riuscì a
34
Scrivono i cronisti arabi che il suo corpo fu inumato poco distante dalla capi-
tale bizantina. Da parte dei Rûmi, il suo corpo fu subito bruciato e le sue
ceneri buttate in mare, affinché non insozzasse ancora la terra siciliana.
31
governare. Così fu inviato a Palermo, Khafâgia (862-69), uomo di
fiducia della dinastia aghlabita, che arrivato a Palermo nel luglio
dell’862, tentò subito di mettere a posto l’intricata situazione gover-
nativa interna. In effetti, il problema insorto era tra due popolazioni
musulmane, gli Arabi e i Berberi: gli uni si reputavano superiori agli
altri. Tuttavia Khafâgia, in questa prima fase e, nel giro di un anno,
fu in grado di soffocare questi piccoli focolai, in seguito si dedicò
alla conquista di Siracusa. La capitale bizantina continuava a resiste-
re, per cui Khafâgia, prese a saccheggiare tutte le zone limitrofe, al
fine di fiaccarne la resistenza. Intanto caddero nell’864, Noto, la città
in cui passò gli anni giovanili il poeta arabo di Sicilia, Ibn Hamdìs,
e successivamente Scicli. Pochi anni dopo Khafâgia e suo figlio
Muhammad, con una lunga campagna riuscirono a far capitolare le
città di Ragusa e Troina (867) e altre di cui non siamo in grado di
dare il nome per la difficoltà di decifrare i toponomastici arabi di
alcune città siciliane.
La situazione intanto a Bisanzio si faceva molto delicata, in quan-
to l’imperatore Michele III veniva improvvisamente assassinato e, al
suo posto veniva posto un macedone, Basilio I che risulterà il fonda-
tore di una nuova dinastia. Il suo primo proposito fu quello di com-
battere in tutti i modi i Musulmani e di riprendersi tutto il territorio
che essi avevano tolto all’impero. L’azione gli riuscì in parte, ripren-
dendosi una parte dell’Italia meridionale che gli era appartenuta.
Scrive l’Amari: « Basilio, dico, dopo tante brutture e misfatti, regnò
con vera gloria. Riforniva lo erario senza aggravare i sudditi; cessa-
va gli scandali ecclesiastici; raffrenava gli abusi dell’azienda; facea
compilare un codice di leggi che porta il suo nome; sopra tutto risto-
rava la milizia, riformandovi ogni ordine, a comiciar dalle paghe,
dalla leva dei soldati, dagli esercizii di mosse e d’armeggiare, fino
alla virtù della disciplina e alla scienza strategica. Pertanto la vittoria
sotto gli auspici suoi tornò ai vessilli bizantini. »35
Fece arrivare così forze fresche a Siracusa, anche se Khafâgia,
riuscì, prima del loro arrivo, ad infliggere, sensibili perdite.
Successivamente i Musulmani fecero un tentativo di prendere
35
M. Amari, ibidem, pag. 237.
32
Taormina, che però per negligenza di coloro che erano entrati per
primi, fallì. Anche in questo caso, avvenuto nell’869, si racconta da
parte dei cronisti arabi, che un traditore si offrì di guidare i saraceni
per un sentiero noto solo a lui. Si ripete così la stessa vicenda rac-
contata per l’entrata ad Enna, il che ci lascia molto perplessi e, se
anche la conclusione è diversa, questa figura del bizantino traditore
sa tanto di racconto folclorico. Fallito il tentativo con Taormina, si
dedicarono a conquistare la città di Tiracia36, che cadde facilmente.
Durante un ennesimo assalto a Siracusa, il 15 giugno 869, Khafâgia,
fu ucciso nei pressi di Dittaino, per mano di un traditore berbero. Le
cause non sono molto chiare, ma si presume che il problema sia stato
una situazione un po’ particolare in cui si trovava in quel momento
Palermo. Il successore fu il figlio Mahammad, che per un anno pre-
ferì non muoversi da Palermo. Nell’870, Mahammad riuscì a pren-
dere Malta37, per poi difenderla dal tentativo di un ritorno bizanti-
no38. Ma anche Mahammad ibn Khafâgia, come il padre, fu assassi-
nato il 27 maggio dell’871, senza essere riuscito a partecipare a nes-
suna impresa. Da questo momento comincia una sequenza di emiri,
almeno sei, che si succederanno l’uno all’altro nel giro di tre anni.
Questa instabilità fu dovuta quasi sicuramente ai continui tentativi di
colpi mano, che i governatori della Sicilia, subivano continuamente
nella capitale. La cronologia e i nomi dei successori sono alquanto
incerti, a causa delle imprecisioni dei cronisti, tuttavia tenteremo lo
stesso una ricostruzione più veritiera possibile. La colonia siciliana
eleggeva capitano Mohammed-ibn-Abi-Hossein che però non veni-
va confermato dall’emiro d’Africa, il quale invece nominava gover-
natore, Ribbah-ibn-Ia’kûb-ibn-Fezâra (871). Ma a Palermo conti-
nuavano i tradimenti e i raggiri, per cui il governo ne venne comple-
tamente paralizzato. Ribbah, dopo poco tempo, tra novembre e
dicembre dell’871, moriva e, subito dopo anche suo fratello, che era
stato nominato wâli della Gran Terra (Italia meridionale), Abd-Allah.
36
Secondo l'Amari sarebbe l'odierna Randazzo.
37
Secondo altre fonti Malta fu presa da Abu Malik Ahmad nell'869.
38
Secondo l'Amari, Malta fu conquistata nell'869 dai Musulmani d'Africa, e
Mahammad, nell’870 la difese dall'attacco bizantino, pag. 244.
33
Quindi fu eletto, Abu-Abbâs-ibn-Ia’ kûb-ibn-Abd-Allah, che però
morì dopo appena un mese. Gli successe, il fratello, Ahmed-ibnIa’
Kûb39. Venuto meno anche Ahmed, morto nell’872, gli succedeva un
Hosein-ibn-Ribâh, prima confermato dall’emiro d’Africa, e poi
rigettato. Così fu inviato dall’Africa un reggente del casato aghlabi-
ta (873), Abu-Abbâs-Abd-Allah-ibn-Mohammed-ibn-Abd-Allah,
figlio del primo governatore della Sicilia, che però non trovandosi a
proprio agio, chiese di tornare in Africa. Nello stesso anno fu quindi
nominato un altro della stessa dinastia, Abu Malik Ahmad ibn Umar,
detto l’Abbissinio, che, pur durando qualche anno (tre o quattro) non
riuscì a muoversi da Palermo, dove sicuramente la lotta per il pote-
re, stava causando una grave instabilità del governo.
Per rendere la successione degli eventi più precisa, bisogna, per
forza di cose, guardare a quello che succedeva nella penisola.
La solerzia di Basilio I il Macedone, lo portò all’alleanza con
Ludovico II (concordia discors) contro gli Arabi. Combinarono così
l’attacco alla città di Bari che era in mano musulmana, ma non si sa
il perché, ad attaccare furono solo le forze di Ludovico II (871) che
costrinsero alla resa la città. « Né ebbe esito più felice un concorde
tentativo di concorre – con la flotta Bizantina, con l’esercito dei
Franchi – alla liberazione della Sicilia: neppure di fronte al comune
nemico i due Imperi sentirono l’impulso alla mutua collaborazione
sul piano militare, prevalendo nei due massimi esponenti della cri-
stianità – Ludovico II e Basilio I – recriminazioni e diffidenze che
mentre resero irrealizzabile una vita condominiale franco-bizantina
nell’Italia centro-meridionale, facilitarono in essa la presenza dei
Saraceni ed il loro inserimento in quel giuoco politico-militare delle
due parti in lizza, spinto spesso fino alle estreme conseguenze: una
situazione, dunque, estremamente favorevole per l’ulteriore consoli-
damento delle posizioni musulmane nel meridione del Continente. »40
Uno degli episodi più tristi del conflitto tra Saraceni e Bizantini-
Franchi, fu nell’871, con la cattura di Ludovico II a Benevento, che
39
Scrive M. Amari: “fratel suo o d'altra famiglia, che variano in ciò i croni-
sti”.
40
Storia della Sicilia, ibidem, pag. 136.
34
fu tenuto prigioniero per oltre un mese. Approfittando della sua pri-
gionia e della rivalità dei vari capitani cristiani, gli Arabi, comanda-
ti da Abd Allàh ibn Ya’qùb, nel settembre dell’871, s’impadronirono
di quasi tutto il territorio salernitano, riuscendo ad arrivare a
Benevento e, a depredare, Capua e Salerno. Morto tra la fine dell’871
e l’inizio dell’872, come avevano già detto, Abd Allàh ibn Ya’qùb,
venne sostituito da un certo Abd-al-Malik, che subì una clamorosa
sconfitta ad opera di Ludovico II, che nel frattempo si era liberato.
Questa sconfitta tuttavia non cambiò la scena politico-militare
dell’Italia del sud. Dopo questa parentesi dovuta, torniamo ai fatti
siciliani e ai tentativi di conquista di Siracusa. Il primo tentativo fu
fatto dal governatore Abu Malik Ahmad ibn Umar, che con le sue
scorrerie mise a repentaglio più volte la capitale bizantina, ma fu
improvvisamente sostituito, nell’estate dell’877 da Giafâr ibn
Muhammâdat-at-Tamimi. L’emiro ebbe, come suo obiettivo, lo stes-
so del predecessore: Siracusa. Il percorso che fece per avvicinarsi e
per attaccarla però fu diverso, in quanto si portò prima a razziare,
Rametta, Taormina e Catania e quindi si diresse verso Siracusa. La
notizia che i Musulmani erano diretti verso la città, arrivò quasi subi-
to, mettendo in subbuglio e nel panico gli abitanti che avevano resi-
stito 50 anni all’assedio saraceno. Giafâr, pose l’accampamento
addirittura nell’antica cattedrale, che si trovava fuori le mura, essen-
do allora Siracusa divisa dall’isola antica di Ortigia e separata da
terra soltanto da un piccolo tratto di mare (dove oggi si trova la dar-
sena). A nord, nell’insenatura c’è il promontorio del Porto Piccolo,
nel lato opposto, a sud, dove sussiste una grande insenatura, vi è
invece, il cosiddetto Porto Grande. Fuori dall’isola, esisteva un gran-
de quartiere, dove, in passato si era estesa Siracusa e dove avevano
edificato la loro cattedrale. Il quartiere fu fatto immediatamente eva-
cuare, dal patrizio greco che governava la capitale, e gli abitanti si
rifugiarono entro le mura. Esse furono subito fatte presidiare dalle
milizie che serrarono e trincerarono le porte della città. I Saraceni
attaccarono subito con ferocia, bloccando Ortigia sia da terra che via
mare. Con grossi mangani cominciarono a scagliare enormi pietre
verso le mura cercando di fare breccia, poi con le scale tentarono di
penetrare nell’abitato, ma Siracusa reagì botta su botta, difendendosi
con caparbietà, con sassi, bastoni, spade, balestre, giavellotti, olio
35
bollente e ributtando giù dalle scale gli assalitori. Giafâr, fece diver-
si tentativi, ma i mesi passavano e Siracusa resisteva magnificamen-
te. Scrive Panetta: « I mesi passavano e la città non cedeva, Giafâr
sapeva che, dentro di essa, incominciavano a mancare i viveri e che
la popolazione era in preda a epidemie. Allo scopo di serrare i tempi,
fece costruire dei mangani ancor più grossi e più precisi di quelli già
in azione. »41 Sulla resistenza di Siracusa vi è la testimonianza ocu-
lare di una vittima, il monaco Teodosio, il quale riferì sulla sua
Cronicon: « Lunga, e vigorosa resistenza frattanto fecero gli
Assediati, e fin si ridussero a cibarsi di sole erbe, e dei cuoi; tritate
l’ossa degli animali si gramolavano a guisa di farina; un moggio di
grano costava 150 monete d’oro bizantine, un moggio di farina 200,
un’oncia di pane costava una moneta d’oro, una testa di cavallo o
d’asino 20, un giumento intiero 300. »42 I poveri mangiavano cuoio,
oppure divoravano i cadaveri dei quali non v’era penuria. A Bisanzio
si sapeva della situazione di Siracusa, così l’Imperatore Basilio,
mandò l’ammiraglio Adriano a capo di una squadra di dromoni, ma
partito da Costantinopoli si rifugiò nel porto di Monembasia nel
Peloponneso e qui rinviò troppo la partenza « e tanto aspettovvi un
vento fresco con il quale far vela verso Siracusa, che certi demonii
che bazzicavano nella selva d’Elos, dice gravemente la Cronica del
Porfirogenito, e poi certi soldati scampati da Siracusa sur una barca,
gli dettero avviso che già vi sventolassero le insegne musulmane.
Allora corse a Costantinopoli a serrarsi in una chiesa e domandare
pietà a Basilio; il quale gli perdonò la vita. »43
La vigliaccheria del patrizio bizantino, portò i Saraceni a stringe-
re l’assedio, bloccando Siracusa sia da terra che dal mare. A questo
punto, sopraggiunto l’inverno, Giafâr fece ritorno a Palermo, ma una
congiura, di cui, forse, aveva avuto sentore, gli fu fatale e venne ucci-
so per mano di una sètta musulmana avversaria.44 A primavera alle
porte di Siracusa arrivò Abû Isâ, figlio di Muhammâd ibn Qurûb,
41
R. Panetta, ibidem, pag. 127.
42
Teodosio, da I Musulmani di Sicilia di M. Amari vol. I, pp. 539-540.
43
M. Amari, op. cit., pag. 252.
44
Vedi appendice 1. Cronaca di Caambrige.
36
gran ciambellano di Ibrahîm l’Abissino. Sul finire del mese d’aprile
dell’878, le macchine da guerra fatte istallare da Giafâr, ripresero a
scagliare pietre contro le mura della città, riuscendo a diroccare la
torre che stava davanti al porto grande. Cinque giorni dopo, la torre
crollava e con essa anche una parte della vicina cortina. Da quella
breccia i Saraceni tentarono di entrare ma furono respinti dai difen-
sori siracusani che con il suo valorosissimo patrizio cominciarono la
loro resistenza fino all’ultimo. Le speranze erano in un aiuto da
Bisanzio, nell’ammiraglio Adriano, che loro sapevano diretto verso
la loro città. In caso contrario era sicuramente la fine di ventimila
abitanti, che erano ridotti alla fame, ammalati e feriti. Scrive il
Panetta: « Tutti combattevano alla disperata, dove e come potevano,
attenti a non far mettere piede entro le mura ai Saraceni. Le donne
aiutavano gli uomini, portando viveri e acqua e medicando feriti; i
preti confortavano i moribondi e pregavano nelle chiese. »45
Isolati da terra e dal mare, i Siracusani si videro perduti, ma tut-
tavia ebbero la forza di resistere ancora altri venti giorni. Le crona-
che narrano anche di un certo Niceta da Tarso, strano individuo
bizantino che dalla torre andava insultando i saraceni, chiamandoli
vigliacchi e insultando Maometto: gli fu promesso un trattamento
particolare appena i saraceni fossero entrati in città.46 Dopo i conti-
nui attacchi, vi fu una sera di calma. Fu il 20 maggio dell’878, che i
difensori poterono passare la notte senza combattimenti e, all’alba il
patrizio greco con i difensori decisero di rifocillarsi, lasciando di
guardia sulla torre il soldato Giovanni Patriano e qualcun altro.
Improvvisamente, alle sei del mattino del 21 maggio dell’879, le
macchine da guerra ricominciarono a sparare pietre sempre più gros-
se verso la torre (diroccata) detta del Malo Augurio, e in poco tempo
la presero. Il patrizio con i suoi fedeli, spade in pugno, tentò un inter-
vento, ma era tardi, i Saraceni erano ormai penetrati nella città, ma si
continuò a combattere. Una gruppo di bizantini si scontrarono pres-
so la chiesa di san Salvatore, ma furono trucidati, dopodiché, abbat-
tuta la porta, vi entrarono, trovandosi davanti molti cittadini: donne,
45
R. Panetta, op. cit., pag. 130.
46
Niceta di Tarso fu scorticato vivo. Deburigny, op. cit., pag. 201, nota 149.
37
fanciulli, vecchi, infermi, preti, frati e monaci. Non ebbero pietà per
nessuno. Subito dopo si recarono presso la cattedrale: « Nella catte-
drale l’arcivescovo Sonofrio insieme con tre sacerdoti (tra i quali era
Teodosio) si nasconde tra l’altare ed episcopio; sono tratti dal loro
nascondiglio, si danno a conoscere, consegnano i vasi preziosi, che
pesavano 5000 libbre, e ottengono salva la vita dal capo degli inva-
sori ».47 Samûm li fece rinchiudere nel sotterraneo dell’arcivescova-
to, dove i Saraceni avevano istallato il loro quartiere generale.
Durante tutta la notte gli occupanti si diedero al saccheggio e al mas-
sacro della città.
Intanto il patrizio greco, si era rifugiato in una torre assieme a set-
tanta nobili della città. Proprio alle prime ore dell’alba però, furono
stanati e presi, e condotti in piazza dove sarebbero stati passati per le
armi. Il monaco Teodosio, a cui dobbiamo tutti i particolari di questa
vicenda, scrisse che il patrizio greco seppe morire con coraggio (a
testa alta) e anche i settanta nobili furono altrettanto valorosi. Tutti
gli altri furono legati alla fune e ammassati e quindi massacrati con
spade, bastoni, lance e ferri acuminati.48 Si parla secondo alcune fonti
arabe di 4000 persone. Il bottino fu sontuoso, un milione di monete
d’oro. Mai i Musulmani, durante le loro invasioni, erano riusciti a
razziare un bottino così succulento. Durante i mesi successivi furono
abbattute le fortificazioni, le case e le chiese e in agosto se ne torna-
rono a Palermo, portando seco anche i prigionieri. La notizia della
presa saracena di Siracusa ebbe echi anche nella capitale musulma-
na, Al-Qayrawân, dove fu festeggiata nelle moschee con cerimonie
di ringraziamento ad Allâh. I prigionieri, come detto, furono traspor-
tati a Palermo dove vennero rinchiusi in catene nei sotterranei delle
carceri. Tra loro, Teodosio autore della descrizione della caduta della
capitale dei Rûmi, il vescovo Sofronio e quello di Malta. Dopo una
lunga prigionia sembra che siano stati riscattati da un certo Abuliti,
47
Adolfo Holm, Storia della Sicilia nell'Antichità, Carlo Clausen, Torino
1901, vol. III, pag. 609.
48
Secondo il Deburigny, op. cit., la lettera del monaco Teodosio fu rinvenuta
nella biblioteca del SS. Salvatore di Messina. La nostra menzione è tratta
da Rocco Pirri, Not. Eccles. Syrac.
38
nell’885.49 Così scrisse Teodosio, mentre languiva in carcere: « Così
campammo, e pur ci minacciarono di morte ogni dì ».
La conquista di Siracusa segnava la definitiva conquista degli
Arabi della Sicilia, anche se il potere bizantino restava ancora rap-
presentato simbolicamente dalle città di Taormina, Rametta e
Catania, e la nascita di una nuova capitale, Palermo, dove i saraceni
ormai avevano posto il governo e che consideravano la loro città.
49
Cronaca di Cambrige.
50
Dalle cronache non siamo in grado di stabilire se Giafâr, sia stato ucciso
prima o dopo la caduta di Siracusa, in quanto si conosce solamente che
rientrò a Palermo nell'autunno dell'877. M. Amari scrive che Giafâr, fu
assassinato dai suoi familiari su istigazione di due principi aghlabiti, tenu-
ti prigionieri dallo stesso Emiro.
51
Secondo il cronista arabo Bayân.
39
anno i Bizantini, forti dei successi ottenuti, con una flotta di 140
legni, al comando del capitano Nasar, cristiano d’origine siriana, si
misero a caccia delle navi musulmane, che sconfissero al largo di
Milazzo. Nasir poi, forse su decisione di Basilio, si diresse verso
Palermo, attraccando però a Termini o Cefalù da dove si diede alle
scorrerie interne per infastidire i Musulmani. Proprio nell’880, fon-
darono la città di Basileàpolis, cioè la Città del Re, sulle Madonie, in
altitudine, dove probabilmente avevano stabilito l’accampamento.
Secondo l’Amari dovrebbe trattarsi della città di Polizzi Generosa,
dove i Bizantini si stabilirono per dare filo da torcere ai Saraceni. 52
Numerosi furono i colpi di mano dei Bizantini, che uscivano per terra
e per mare riuscendo a mettere in crisi i Musulmani, i quali veniva-
no colti di sorpresa e si lasciavano predare.
Intanto dall’Ifrìqiya, fu mandato un nuovo governatore, al-Hasân
ibn al-Habbâs, che dovette subito occuparsi delle lotte intestine della
città di Palermo. Era ormai chiaro che i giochi di potere si stessero
“giocando” tra due popolazioni musulmane diverse: Arabi e Berberi.
Come vedremo in seguito questa lotta sfocerà in una guerra civile e
fratricida. Al-Hasân, volle anche tentare di liberarsi dei Bizantini di
Polizzi e in un’azione di razzia si scontrò con le truppe cristiane, gui-
date dal siriano Barsamio, che furono travolte e annientate. Sempre
nell’881, a fine estate, una banda guidata da un tal Abû al-Tâwr, si
scontrò con i bizantini a cinque miglia da Polizzi, forse la città di
Caltavuturo53, subendone una cruenta sconfitta.
Al-Hasân fu sostituito da Muhammâd ibn al-Fadl, il quale con la
ferocia di un assassino sanguinario, non solo saccheggiò tutte le zone
limitrofe di Catania, ma assaltò i bizantini sulle Madonie, massa-
crandoli. Non contento dello sterminio mozzò 3000 teste dei nemici
e, infilzati su bastoni, li inviò a Palermo (882). Finì così la breve esi-
stenza della Città del Re. I superstiti si rifugiarono nelle vicinanze
dell’Etna e di Catania, dove i Rûmi ancora resistevano.
52
M. Amari scrive che Polizzi fu fortificata dal conte Ruggiero, e che per
questo gli viene attribuita anche la fondazione della città.
53
M. Amari, op. cit., pag. 265. Caltavuturo significa rocca di Abu Thûr,
“Quel dal Toro”.
40
Negli anni successivi, tuttavia le campagne di Catania e Rametta
subirono razzie e saccheggi, e molti uomini e donne furono fatti
schiavi. Gli Arabi tuttavia non arrivarono mai sui monti Peloritani,
dove era situata la rocca di Rametta, che oramai dava asilo agli scam-
pati Bizantini. I saccheggi saraceni si protrassero per tutti gli anni
883, 884, 885. Palermo, intanto non aveva pace. La guerra tra
Berberi e Arabi sfociò in una vera guerra civile. I Berberi si erano
sistemati a Girgenti e contendevano a Palermo il ruolo di capitale e
dell’emiro che doveva governare l’Isola. Una breve tregua tra le due
parti, dall’887 all’889, fu dovuta al ritorno della flotta bizantina,
comandata dal navarca Niceforo Foca, inviato dal nuovo imperatore
bizantino Leone. Nel settembre dell’888, le due flotte si scontrarono
a Milazzo, dove gli Arabi comandati da Sawdân, che aveva mosse le
sue fuste per invadere la Calabria, distrussero completamente la flot-
ta Rûmi. Quasi una vendetta, per la sconfitta che i Musulmani ave-
vano ricevuto, otto anni prima, nelle stesse acque.
Nell’889, Sawdân, tentò di asserragliare Taormina, che era stata
ricostruita dai Bizantini, ma dovette desistere e tornare repentina-
mente a Palermo, in quanto gli eventi della lotta civile si erano acui-
ti. In effetti, oltre alle lotte intestine, per la supremazia della capita-
le, tra Berberi e Arabi si evidenziava anche un tentativo d’indipen-
denza dall’Ifrìqiya dove regnava l’emiro Ibrahìm II detto il pazzo.
Tuttavia l’Emiro, tentò la via della diplomazia e mandò a Palermo
due cadì, con l’intento di far recedere i contendenti. In un primo
momento la cosa riuscì, tanto da permettere ad uno dei cadì di gover-
nare fra l’897 e l’898. La pace interna tuttavia durò poco, perché le
intemperanze tra Arabi e Berberi ripresero e Ibrahìm II fu costretto
ad intervenire. Ancora una volta fu un tentativo diplomatico: fu pro-
messa un’amnistia in cambio della consegna dei responsabili delle
rivolte. Il compromesso fu accettato e a governo della Sicilia fu
rimesso Abu Malik Ahmad ibn Umar, soprannominato al-Hàbashi,
che vi era stato già due volte, nell’875 e nell’887/88. Uomo navigato
ed esperto, cercò di fare l’ago della bilancia tra Berberi e Arabi,
senza però riuscirci. Ibrahìm, nell’estate del 900, dovette ancora una
volta intervenire, mandando a Palermo, il proprio figlio a capo di una
flotta navale. Abu’l-Abbàs Abd Alàh, dovette ricorrere allo scontro
per entrare in città, giacché gli Agrigentini accusarono i Palermitani
41
dell’aggressione, e questi rifiutatisi di consegnarsi al governatore, si
organizzarono contro di lui. Sconfitti fuggirono nella Sicilia
Orientale dove ancora vi erano i Bizantini.
Normalizzato il governo, Abu’l-Abbàs si diede alle scorrerie e al
tentativo di prendere Catania. Nella primavera del ’901, razziò
Taormina, assediò Catania, senza però riuscire ad entrare, quindi
attraversò lo Stretto e si diresse a Reggio Calabria, che pur difesa dai
bizantini, fu presa e razziata il 10 luglio dello stesso anno.54 I paesi
delle regioni furono molto colpiti dall’evento e pur di non subire
attacchi e razzie, offrirono ad Abu’l-Abbàs, l’amân, un tributo di
denaro e d’oro, al fine di essere risparmiati. Nel frattempo, i
Cristiani, mandarono una flotta a Messina, ma Abu’l-Abbàs, che
stava trasferendo a Messina tutto ciò che aveva razziato, compresi gli
schiavi, li sorprese nel porto, li sconfisse e gli catturò ben trenta navi.
Dopodiché fece demolire le mura della città. Subito dopo s’inoltrò
sulla terra ferma, dove sapeva che stavano arrivando delle truppe
nemiche inviate dai duchi di Spoleto e di Camerino. Lo scontro fu
violentissimo e le forze cristiane furono massacrate.
Successivamente, sembra in Luglio, se ne tornò a Palermo, dove
inviò al padre la parte migliore del bottino. Ibrahìm, però venne a
sapere che il figlio aveva risparmiato la vita a molti bizantini e, scris-
se lo storico Deburigny – nel suo ritorno fu male accolto da suo
padre, perché non seppe maggiormente profittare delle vantaggiose
occasioni. Ibraimo quindi venne egli stesso in Sicilia.55
In realtà Ibrahìm II, fu improvvisamente rimosso dal Califfo di
Baghdàd, e il suo posto fu preso dal figlio Abu’l-Abbàs. Lo spode-
stato invece di far ritorno a Baghdàd, si recò in Sicilia per combatte-
re una guerra santa personale. Sbarcato a Trapani si avviò subito
verso Palermo, dove arrivò nella prima decade del mese di luglio del
’902. Organizzato un folto esercito si portò versò Taormina, dove si
accampò. L’esercito bizantino era capitanato da Costantino
Caramalo e Michele Caratto che si scontrarono con i saraceni a
54
Alcune fonti riferiscono la data del 10 giugno del ’901, altre il 10 luglio del
’902.
55
Deburigny, op. cit., p. 205.
42
Giardini, dove vennero sconfitti. Così Ibrahìm, con il suo esercito
penetrò nella città, riuscendo ad espugnare anche la fortezza de La
Mola, che fu difesa male dai Greci. Subito dopo, era domenica 1 ago-
sto 902, con i suoi facinorosi, recitando i versetti del Corano, entrò
in città. Taormina fu saccheggiata, devastata e data alle fiamme e i
suoi abitanti, compreso il vescovo Procopio, furono passati per le
armi. A breve sarebbero cadute Demona, Rametta ed Aci.
« I Greci erano sbarcati in Sicilia nel 735 a.C.; nel 902 perderono
quasi ultimo questo luogo medesimo. La lingua greca era stata par-
lata in Sicilia per 1637 anni da liberi cittadini. L’ellenismo aveva
impiegato molto tempo prima di prendere il sopravvento sulle altre
nazionalità dell’isola, e per lungo tempo anche era durata la lotta per
la distruzione di esso. Ma quanto più fu tardo, tanto più radicale ne
fu l’annientamento. »56 Quello che sostiene lo storico tedesco è solo
in parte vero, in quanto in mezzo ai Greci e per lungo tempo vi furo-
no, prima i Cartaginesi, poi i Romani e infine l’Impero d’Oriente fon-
dato da Costantino il Grande.
Lo spietato Ibrahìm, aveva un progetto ben preciso, quello di
valicare lo stretto di Messina ed arrivare a Roma e, in seguito, addi-
rittura prendere Bisanzio. Era settembre il mese del ramadân e i fana-
tici guerrieri di Allàh, attraversarono lo stretto (il giorno 3), dirigen-
dosi verso Cosenza. Si accamparono nella Valle dei Crati, per dare
poi inizio all’assedio di Cosenza. La città si difese magnificamente,
ma il meridione d’Italia fu messo in apprensione da quest’impresa,
per questo ad Ibrahìm, furono mandati degli ambasciatori per trova-
re una soluzione diplomatica, ma il « Brachìmo » non solo li fece
attendere parecchi giorni, ma li rimandò via malamente senza averli
ascoltati. Intanto, durante l’assedio alla città di Cosenza, tra i musul-
mani si sviluppò una violenta dissenteria, che frenò il loro slancio e
causò molte vittime. Tra esse vi fu anche, Ibrahìm, che colpito dal-
l’epidemia, si nascose nella chiesa di San Michele, che si trovava
nella periferia della città, e lì, tra spasimi e dolori, si spense sabato 23
ottobre del 902, all’età di 53 anni.
Il comando delle operazioni fu così dato al nipote, Ziyadât Allâh,
56
Adolfo Holm, op. cit., vol. III, parte I, p. 611.
43
il quale condusse le trattative con i Cosentini, riuscendo ad ottenere
dei buoni risultati. Dopodiché riattraversò lo Stretto per tornare a
Palermo, portando con sé il cadavere dello zio e tutto quello che ave-
vano razziato. Ad Ibrahìm, fu data sepoltura a Palermo anche se
alcuni cronisti parlano di un suo trasferimento ad Al Qayrawân.57
Vi sono alcuni cronisti cristiani che avvolgono nella leggenda, la
morte del « Brachìmo ». Narrano che il malvivente sia stato colpito
da un fulmine mentre profanava, con la sua presenza, la chiesa di S.
Michele.58 Con Ibrahìm finiva la dinastia degli Aghlabiti.
I Fatimiti
« Siamo all’epoca dell’aghlabita Abu Ishàq Ibrahìm II (875-902);
nella zona orientale della Berberia era già comparso il missionario
shiita Abu Abdallàh con lo scopo di spianare la via al Mahdi fatimi-
ta Ubaidallàh, capo degli Ismailiti, una delle numerose sette più o
meno velleitarie sul piano dell’eredità califfale in cui si era fraziona-
to lo shiismo a partire dal secolo X ».59
Il fatimismo fece la sua comparsa in Sicilia nel 910 con l’arrivo
del governatore al-Hasn ibn Ahmad, detto Ibn Abi Khinzìr, già pre-
fetto di Al Qayrawân. Per la prima volta si ebbe però anche una
nomina ad Agrigento, dove il governatore inviò il fratello Ali. Si
acuiva così di fatto, quella frattura tra Berberi che in Ifriqiya erano
proclivi al fatimismo e Arabi di Palermo che ancora erano Aghlabiti
ma anche autonomisti. L’aristocrazia palermitana avrebbe voluto
ormai un emirato autonomo ma l’arrivo di un governatore fatimita
sfociò ancora una volta in guerra civile. Al fine di porre termine a
quest’intricatissima situazione, il governatore non trovò di meglio
che inventarsi un tradimento, ma fu scoperto facilmente dai
Palermitani che lo imprigionarono. Fu quindi inviato in Sicilia un
nuovo delegato, che però non soddisfece nessuna delle due fazioni,
57
Per la morte di Ibrahìm, si fa riferimento a quanto scritto da Michele Amari
a pag. 116-17 , vol. II, op. cit.
58
I cronisti cristiani sono, Lupo Protospata in Chronicicon e il Chronicon
Barenze, tutti e due del ’902.
59
U. Rizzitano, op. cit., p. 166.
44
però ebbe il merito di metter d’accordo, seppur momentaneamente,
Arabi e Berberi, che così, nel 913, diedero il governo al loro uomo di
fiducia: Ahamad Ibn Ziiyadat Qurûb o Qurhub (913-916).
Nell’estate dello stesso anno e, nel rispetto dei suoi predecessori,
inviò una spedizione in Calabria, riportando un grosso bottino.
Qurûb, in ogni modo aveva una grande aspirazione, quello di ren-
dersi indipendente dall’Africa e per questo si fece conferire il titolo
d’emiro dal califfo di Baghdad, suscitando le proteste del potente al-
Mahadî. Ma nessuna di queste cose poteva conferirgli un potere più
forte sul territorio, per cui fece l’unica cosa che poteva dargli politi-
camente sicurezza governativa: l’abolizione dalla khutba (il sermone
religioso della preghiera del venerdì) del nome dell’imàm fatimita,
sostituendolo con quello ortodosso del califfo abbàside, che per que-
sto motivo gli spedì un diploma d’investitura. Da Baghdàd, gli arri-
varono le insegne del potere, in altre parole, bandiere nere, barraca-
no nero, collana d’oro e anelli. Da Palermo ebbe l’acclamazione del
popolo il 18 maggio 913.
Il problema dello scisma tra gli ortodossi del califfato di Baghdàd
e quello fatimita dell’Africa cambiava la vita degli aghlàbiti che sub-
irono pressione e angherie e soprattutto vedevano svuotato il loro
contenuto ideologico religioso da questi berberi che pensavano di
dover attendere un messia « con il quale avrebbe avuto inizio l’era
del trionfo della giustizia ».
« E fu Ubaid Allàh che nel 910 inaugurò quella parusia di stam-
po islamico e con essa un califfato – anzi un imamato ossia, “dire-
zione suprema” della comunità islamica da parte dell’ “imàm” – che
per oltre due secoli e mezzo tenne testa a quello ortodosso (e pertan-
to considerato legittimo) di Baghdàd. »60
Nel 914, ancora una volta, Ibn Qurhub, mandò una flotta in
Calabria, che dopo aver saccheggiato quei territori, si rimise in navi-
gazione per attraversare lo stretto. Giunti, a Gallico, nelle vicinanze
di Reggio, la flotta fece naufragio, perdendo parecchie fuste.
Ritornati a Palermo però, il governatore fu costretto a rimetterla in
navigazione per la Tunisia, dove si scontrò con una flotta fatimita che
60
Storia della Sicilia, ibidem, p. 144.
45
era in rotta per l’Isola.61 Ibn Qurhub, non s’illuse d’aver risolto tutti
i problemi dell’Isola, ed era consapevole di non essere riuscito a
risolvere le contese tra Berberi e Arabi, anzi non passava giorno che
i primi non alimentassero focolai e complotti. Le promesse fatte al
momento dell’accettazione dell’incarico stavano venendo meno ed
era sorretto solamente dagli Arabi, mentre ad Agrigento tra Berberi
si respirava una continua aria di cospirazione, alimentata quasi sicu-
ramente dai Fatimiti.
A Bisanzio, intanto, governava, l’imperatrice Zoe, reggente del
figlio minorenne Costantino Porfirogenito, che avendo nei Bulgari, il
problema più serio e non potendo difendere la zona meridionale
dell’Italia, chiese nel ’915, ad Ibn Qurhub una tregua, affinché ces-
sassero gli attacchi alla Calabria e nelle Puglie. Il trattato tra le due
parti, venne firmato a vantaggio di Ibn Qurhub, che in cambio della
fine dei saccheggi, percepiva una somma di 22.000 monete d’oro
bizantine. Questo trattato, però, incontrò le ostilità dei Berberi agri-
gentini, che avrebbero preferito continuare le scorrerie nelle terre dei
Rûmi, dove il bottino era di gran lunga superiore. Così si arrivò
all’insurrezione. Capeggiati da Abû detto il Peloso, figlio di Giafâr,
riuscirono a sollevare e, ad estendere la ribellione in quasi tutta la
Sicilia, senza dimenticare di chiedere aiuto ad al-Mahdî in Africa.
Ibn Qurhub, decise così di rinunciare alla carica di governatore e
di andare in esilio in Andalusia. Ma mentre si accingeva alla parten-
za, il 16 luglio 916, fu sorpreso insieme ai suoi cari, prossimo all’im-
barco, da alcuni rivoluzionari, che li catturarono e poi l’inviarono in
Africa. Qui il Mahdî, li fece ferocemente massacrare. La rivoluzione
ebbe però un successo effimero, poiché ad essa seguì una controri-
voluzione, con cui il fatimismo siciliano, assieme a quello africano,
si liberarono degli avversari che, in quel breve periodo, si erano assi-
curati la preferenza dei Musulmani. Ma il tempo della pace in Sicilia
non era ancora arrivato. Dall’Africa fu inviato un esercito capitana-
to da Abu saìd Musa detto ad-Daif (916-917), al quale però, i Berberi
girgentini, impedirono di entrare a Palermo. Ma, per la verità, anco-
61
Il Panetta, op. cit., dà la flotta per distrutta, altre fonti invece parlano di vit-
toria.
46
ra una volta, quell’esercito mandato da al-Mahdî a reprimere la
Sicilia, mise d’accordo Arabi e Berberi. Lo scontro fu durissimo, le
truppe africane tennero assediata la città di Palermo per sei mesi dalla
parte del mare (l’attuale Cala), fino a quando, nel marzo del 917 si
avvenne ad una tregua, condizionata dalla consegna dei due capi
della ribellione (tra questi vi era il Peloso), agli africani.
« Abu Saìd poté entrare a Palermo dove, venendo meno a quanto
convenuto, sguarnì la città di ogni apprestamento militare, vi pose
una taglia, imprigionò gli elementi più facinorosi e se ne torno in
Ifrìqiya con le forze di terra e di mare con cui era arrivato, lasciando
al governo dell’isola Salim ibn (Abi?) Rashid (917-937). »62
Con Salim la Sicilia ebbe, per un ventennio, un governo stabile e,
anche una certa tranquillità politica. I Fatimiti portarono delle novi-
tà nel modo di governare, contrariamente ai loro predecessori essi
non si occuparono direttamente della guerra, lasciando distinte le
faccende politiche da quelle militari. Il governo e l’amministrazione
civile venivano affidati al « wali » (governatore), ai militari di car-
riera, provenienti dall’Africa, l’arte della guerra. Dopo quasi venti
anni, nel 937, Girgenti si rivoltò contro Ibn Imràn, delegato da Salim
nella città, che fu sopraffatto a Caltabellotta. Subito dopo i Girgentini
si mossero su Palermo, ma i Palermitani resistettero, per poi ribellar-
si anche loro contro il governatore. Dall’ifriqiya, il nuovo emiro,
secondo della dinastia Fatimita, al-Qaim (934-946) figlio di Mahdi,
sollecitato dai nobili della capitale, provvide a sostituire tutti i fun-
zionari del governo di Salim. Questa volta il nuovo comandante,
visto il momento, fu un militare, Abu’l Abàs Khalìl ibn Ishàq (937-
941) che arrivò a Palermo con un grosso esercito. Il nuovo emissario
dei Fatimiti, si mise subito a lavoro facendo costruire una cittadella,
al Khàlisa, « la eletta », che i cronisti medievali chiamavano la Kalsa,
o Chalcia o Halcia. Nacque così una piccola città fortificata, dove
ebbero alloggio il nuovo governatore, gli uffici e le truppe arrivate
dall’Ifrìqiya. La cittadella era dotata di quattro porte, di servizi pub-
blici, moschee e dell’armeria. Ma i Berberi di Girgenti ripresero l’i-
niziativa con una nuova rivolta e nel 938 riuscirono a sconfiggere i
62
Storia della Sicilia, ibidem, pag. 147.
47
Fatimiti, dove cadde Ali ibn Abi’l-Husain, genero di Salim e capo-
stipite della dinastia dei Kalbiti. Khalìl, riuscì a reagire e assediò la
città per otto mesi. L’anno successivo la ribellione scoppiò su tutta la
Valle di Mazara e nel tentativo di cacciare via i Fatimiti dalla Sicilia,
gli insorti si rivolsero all’imperatore bizantino, Romano Lecapeno
(920-944). Questi colse l’occasione per mettersi contro al-Qaim,
mandando gli aiuti richiesti che però non furono bastevoli. Nel
novembre del 940 i ribelli si piegarono alla forze del nemico. «
Finalmente nel 941, parendogli la situazione soddisfacente, il luogo-
tenente fatimita se ne tornò in Ifrìqiya, lasciando nell’isola due vice-
emiri quali amministratori delegati: ibn Attàf ed ibn al-Kufi, “il
capobargello, e il capo-riscotitore”, come scrisse l’Amari »63
I Kalbita
Nel 947, si insedia la dinastia della famiglia dei Kalbiti, fiduciari
dei Fatimiti, che rendono l’emirato ereditario e che amministreranno
l’isola per quasi cent’anni. Arrivava così anche l’autonomia
dall’Africa, perché i Fatimiti impegnati a trasferirsi in Egitto (973),
lasciarono nelle mani dei Kalbiti il potere e le terre conquistate. Ma
quello Kalbita fu anche il secolo più brillante degli Arabi in Sicilia,
che aprirono all’arte e alla cultura.
Nel 948 arrivò a Palermo il primo kalbita, al-Hasan ibn Alì (948-
953), capitano del fatimita al-Mansùr, che si trovò subito impegnato
a reprimere una violentissima ribellione scoppiata a Palermo. Subito
dopo si portò a Messina per poi muovere verso alcune città della
Calabria, ree di non aver pagato il tributo (gizyâh) all’autorità musul-
mana. L’imperatore Costantino Porfirogenito, non volendo che le
sue città in Calabria pagassero questi tributi, da Bisanzio inviò un’ar-
mata contro al-Hasan; attraversato lo stretto, nel luglio del 951, attac-
cò Reggio che trovò evacuata. Al-Hasan puntò verso Geraci e
Cassano, costringendole a capitolare facilmente, perché il patrizio
bizantino e il comandante di Calabria avevano ripiegato verso
Otranto. Tuttavia lo scontro avvenne l’anno successivo, per la preci-
sione l’8 maggio 952. Dopo aver svernato a Palermo, al-Hasan passò
63
Rizzitano, op. cit., p. 196.
48
ancora una volta lo stretto, dando battaglia ai Bizantini sotto la città
di Geraci. Le forze greche erano comandate dal patrizio Giovanni il
Lungo e dallo stratega Malaceno, che dopo una coraggiosa difesa si
arresero ai saraceni. Il bottino fu molto ricco, ma anche macchiato di
sangue. Non contento, al-Hasan, assediò la cittadina di Geraci, che
fece una grande resistenza, ma che fu salva solo con una richiesta di
tregua fatta dall’imperatore Costantino Porfirogenito, tramite l’am-
basciatore Giovanni Pilato.
L’emiro accettò l’armistizio in cambio di un grosso balzello.
Dopodiché si diede al saccheggio del litorale ionico: furono depre-
date Roseto di Capo Spulico, tra Metroponto e Rossano e alcuni cen-
tri tra Capo Spartivento e Bruzzano. Dopo la Sicilia, gli Arabi ini-
ziavano a colonizzare anche l’Italia del sud. La città di Reggio era,
di fatto, in mano ai saraceni, così al-Hasan, proprio a centro di essa,
fece costruire una moschea, con relativo minareto, in modo che dal-
l’alto il muezzin potesse richiamare i fedeli alla preghiera. Tutto ciò
non piacque all’imperatore Costantino, che cominciò a preparare una
spedizione non solo verso gli arabi, ma anche verso i napoletani, rei
di essere spesso complici dei musulmani. Nel 956, Costantino,
messo insieme un esercito, composto da Traci e Macedoni, sotto il
comando del patrizio Mariano Argirio, e una flotta di navi al coman-
do di un certo Moroleone, li mandò a Napoli. Sbarcati nella città par-
tenopea, il patrizio Argirio, bloccò la città per terra e per mare,
costringendoli alla resa ed ad essere vassalli di Bisanzio. Con l’eser-
cito Argirio prese la strada per il sud, mentre la flotta, al comando di
Basilio, fece rotta verso Reggio. A questo punto, al-Hasan, fece
intervenire un esercito al cui comando mise il fratello Ammâr, che
dopo aver attraversato lo stretto si portò a Reggio. E qui, nella pri-
mavera del 957, si trovò chiuso dalle forze nemiche comandate dal
protocarèbo, Basilio, che, con un’azione ardita, entrò a Reggio e per
prima cosa abbattè la moschea. Non passò molto tempo che il proto-
carèbo levò le ancore e fece rotta per la Sicilia, dove andò a colpire,
con delle spedizioni punitive, le città di Termini, le zone limitrofe di
Palermo e addirittura Mazara, la città caposaldo dei saraceni, dopo la
capitale Palermo. A questo punto Hasân mandò una truppa di guer-
rieri, che però furono sbaragliati dai bizantini. Nel 958, Hasân, rag-
49
giunse il fratello Ammàn a Messina e si diressero verso Otranto,
dove si trovava il patrizio Argirio, ma, prima dello scontro, una gran
tempesta investì le fuste arabe, facendole affondare, per cui Hasân fu
costretto a rientrare a Palermo.64
La situazione politica, tuttavia, tra la Sicilia e i Fatimiti d’Ifrìqiya
era tesa, giacché i nobili siciliani erano ancora fedeli all’ortodosso
califfato di Baghdàd, in pieno contrasto con gli scismatici del gover-
no fatimita. A questo scopo al-Hasan, si recò a Mahdiyya, nuova
capitale fatimita (920) portando con sé i maggiori notabili dell’ari-
stocrazia palermitana. Qui essi resero omaggio ad al-Muìzz, quarto
sceicco fatimita, che li coprì di privilegi, facendogli dimenticare
qualsiasi preconcetto su di lui e sulla sua dinastia. Secondo l’Amari,
però, questa visita di al-Hasan, fu dovuta ad una richiesta d’aiuto,
affinché i saraceni potessero disporre finalmente di tutta la Sicilia,
compresa la Val di Noto e Val Demone a cui mancavano ancora qual-
che città. Nonostante esistesse un trattato di Pace tra Al-Mahdîa e
Costantinopoli, al-Muìzz, cedette alle richieste pressanti di al-Hasan,
mandando così in Sicilia le truppe necessarie ad intraprendere l’at-
tacco a Taormina. Radunate le forze, l’emiro, marciò alla conquista
degli ultimi domini bizantini dell’isola. Taormina cadde il giorno di
Natale del 962, dopo una resistenza di sette mesi. Dopo aver razzia-
to e fatto un numero altissimo di prigionieri, cambiò il nome della
città in Muizziyya, in onore del califfo al-Muìzz,65 collocandovi poi,
una guarnigione musulmana. A questo punto della Sicilia bizantina
non rimaneva che Rametta, una roccaforte a 30 chilometri da
Messina, perciò l’emiro palermitano non perse tempo e si portò, o
meglio mandò suo nipote Ammâr con le truppe, in prossimità della
rocca. E qui il 24 agosto del 963 cominciò l’assedio alla città, che
durò un anno e mezzo, e che costrinse i bizantini a vendere cara la
loro pelle per tutto l’autunno e l’inverno del 963 e la primavera del
64
In questo caso i cronisti arabi e quelli greci dissentono su quello che in
realtà successe, infatti gli Arabi affermano che prima della tempesta, loro
inflissero una dura sconfitta ai Bizantini. La versione da noi riportata è
quella di M. Amari, op. cit., vol. II, p. 290.
65
M. Amari, ibidem, p. 297.
50
964. Ai primi del 965, a Bisanzio, salì al trono il generale Niceforo
Foca, mortale nemico degli Arabi, che armò un esercito formato da
russi, traci, greci e macedoni e lo mandò in aiuto alla Valle Démone.
Giunti a Messina, a metà ottobre del 964, con una grossa flotta arma-
ta comandata dall’ammiraglio Niceta e una cavalleria affidata al
patrizio Emanuele Foca, la occuparono. Dopodiché tentarono di
tagliare le comunicazioni tra Palermo e l’accampamento di Rametta.
Le truppe cristiane di terra si spinsero anche a Taormina, Lentini e
Siracusa, riuscendo a cacciare i musulmani. Nel frattempo la flotta
del drungario Niceta dopo aver veleggiato lungo la costa, fece scen-
dere le truppe e le diresse verso Rametta, dove arrivarono il 25 otto-
bre. Dopo un primo insuccesso, le truppe bizantine, guidate da
Emanuele, attaccarono e dispersero le truppe saracene. Ma la vittoria
fu di breve durata. Ebbri di tanto successo i cristiani si dispersero nei
festeggiamenti, mentre i saraceni ricostituite le truppe ritornarono
all’attacco. L’episodio che influì negativamente tra i bizantini, fu la
morte del loro comandante, Emanuele, che si era lanciato a cavallo
contro i nemici, e mentre incitava i suoi a combattere, cadde dal nobi-
le animale e fu trucidato. Le forze bizantine, demoralizzate dall’epi-
sodio, furono travolte e distrutte. I morti, secondo le fonti arabe,
furono circa diecimila e grossissimo fu il bottino di cavalli e mate-
riale civile e militare di cui beneficiarono i musulmani. Il 15 novem-
bre di quell’anno, periva l’emiro di Palermo, al-Hasan, che come
riferisce l’Amari sarebbe morto per la contentezza della vittoria delle
sue truppe.66 Nel maggio del 965, i saraceni al comando di Ahmad o
Ammâr, nuovo governatore della Sicilia, dopo un lungo assedio,
riuscirono ad entrare a Rametta (oggi Rometta). Anche la flotta cri-
stiana dell’eunuco, Niceta, partito da Reggio per far rotta verso
Costantinopoli, si vide raggiunto a Messina dai legni di Ahmad, che
gli diedero fuoco. La battaglia dello Stretto fu cantata dal poeta
Andaluso Ibn Hani, cortigiano del califfo al-Muìzz.
66
M. Amari, ibidem, vol. II, p. 304.
51
firmarono un trattato di pace che li tenne lontano dalla guerra.
Ahmad avviò, così la fortificazione della città di Palermo e ne restau-
rò le mura, e dispose pure che ogni distretto fosse dotato di moschea
e cittadella. Palermo secondo alcuni cronisti arabi, riportati
dall’Amari67 in quel tempo contava quasi trecento mila abitanti «
…formicolava entro quartieri stretti, angusti e chiassosi, nei quali
facevano spicco le botteghe dei beccai, con carni appese all’aperto.
Fuori delle mura sorgevano i cosiddetti ribât, fitti e sporchi agglo-
merati di baracche, in cui vivevano i reduci delle guerre sante, gente
disordinata, senza un mestiere né voglia di lavorare, nonché tutto un
mondo di ruffiani, ladri, spie, prostitute, mendicanti e straccioni: un
mondo in cui avvenivano risse e delitti per accaparrarsi un posto al
mercatino o per qualsiasi pretesto che potesse procurare il guadagno
di qualche tarì, la moneta araba in corso nell’isola. »68 Descrizione
completamente diversa da quella fatta, qualche secolo dopo, dal
viaggiatore Giubair.
Intanto l’emiro Ahmad, dopo diciassette anni di governo, nel 969
fu richiamato, in Ifrìqiya, concludendo così la sua esperienza sicilia-
na. Agli inizi dello stesso anno, al-Muìzz decise di abbandonare il
mondo maghrebino, e si spostò in Egitto dove fondò la città di Il
Cairo. A Palermo intanto scoppiava una ribellione, ancora una volta
tra Arabi e Berberi, che quasi sicuramente moveva dalle concessioni
di privilegi tra gli uni e gli altri. Nel giugno del 970, deposto il reg-
gente Yaìsh, arrivò nella capitale il nuovo emiro, kalbita, Ali ibn al-
Hasan69 (970-982), fratello di Ahmad, il quale riuscì a portare la pace
nelle turbolente fazioni arabe e berbere.
67
Sono diverse le pagine che M. Amari dedica alla descrizione di Palermo,
tra queste vedasi il vol. II de I Musulmani di Sicilia.
68
Panetta, op. cit., p. 183.
69
La cronologia degli Emiri siciliani riporta che il suddetto Hasan = Abû 'al
Qâsim. M. Amari, Biblioteca Araba-Sicula, vol. II, p. 726.
52
aveva fatto già alcuni tentativi per impadronirsi dell’Italia meridio-
nale e, nonostante l’interesse di difenderla fosse comune a Bizantini
e Musulmani, i due popoli, presero strade diverse. Alla decisione di
lasciare l’alleanza con i saraceni, sicuramente influì un matrimonio
di parentela con i tedeschi. Nel 976, i Bizantini alleatisi con i Pisani,
piombarono a Messina con l’intento di riconquistare l’isola. L’emiro
Alì, però si portò rapidamente nella città costringendo Pisani e
Bizantini a fuggire. Non contento diede ordine al fratello di porsi
all’inseguimento, e arrivati a Cosenza, l’assediò, quindi saccheggiò
la vicina Céllara, infine, insieme raggiunsero la Puglia dove assedia-
rono Gravina, che pur di non essere saccheggiata pagò un forte tri-
buto. Nella primavera del 977, dopo aver saccheggiato Reggio si
diresse verso Taranto, trovatala svuotata dagli abitanti la bruciò.
Proseguendo la sua marcia in Puglia razziò le città di Otranto, Oria,
Gallipoli, Bovino e Capitanata per poi tornarsene a Palermo con un
ricco bottino. Nella primavera del 982, Ottone II, imperatore tedesco,
decise di attaccare le città dell’Italia meridionale, indi si portò a
Taranto. All’esercito di Ottone II si unirono le milizie italiane delle
baronie, marchesati e, anche i principi longobardi di Capua e di
Benevento. Espugnata Taranto, le truppe di Ottone II si scontrarono,
probabilmente a Capo Colonna, verso la metà di luglio, con le trup-
pe musulmane, guidate da Alì. Lo scontro fu favorevole ai tedeschi
che sconfissero e uccisero l’emiro palermitano. Ancora una volta
però i cristiani commisero l’errore di non inseguire e finire il nemi-
co, perciò i Musulmani riordinarono le truppe e si lanciarono contro
i Rûmi, che presi alla sprovvista furono annientati. In quel campo di
battaglia morirono molti uomini, la cronaca parla di quasi quattro-
mila, tra cui alcuni principi, come Landolfo di Benevento e di Capua,
il vescovo-conte d’Augsburg, Wernher e il vescovo di Vercelli che fu
portato ad Alessandria d’Egitto e solo dopo parecchi anni potè esse-
re riscattato. L’imperatore Ottone II si salvò a stento fuggendo lungo
il litorale dove fu tratto a bordo di una salandra. Come si è detto,
nello scontro era morto l’emiro Alì, che, ha scritto l’Amari, « rese il
merito al popolo che chiamollo “Il Martire”, ed affidò alla storia que-
sta epigrafe: Giusto, di specchiati costumi, tutto amore ai sudditi,
affabile, elemosiniere, che non lasciò ai suoi figliuoli né una moneta
53
d’oro, né una d’argento, né un pezzetto di terreno, avendo legato
ogni cosa in opere di carità. »70
Ad Alì successe il figlio, Giabir, che durò solamente un anno,
giacché, per il suo vergognoso comportamento, costrinse i Siciliani a
deporlo. Dal Cairo fu inviato a Palermo, Giafar ibn Muhammad
(983-985), cugino del predecessore, che però, nonostante fosse un
saggio amministratore, ebbe anch’esso, una durata breve. La dinastia
in ogni caso continuò con il fratello Abd Allàh ibn Muhammad (935-
998) e con il figlio dello stesso, Abu’-Futùh Yusuf (989-998), che
rimase in carica per un decennio. Abu’-Futùh Yusuf fu un ottimo
amministratore e politico. Lungi da intraprendere azioni piratesche e
scorribande, come i suoi predecessori, cercò di amministrare la giu-
stizia, e a debellare le azioni taglieggiatrici verso i cristiani da parte
dei musulmani. La corte Kalbita in questo decennio raggiunse il cul-
mine del benessere, dell’importanza e del credito. Considerando che
i Fatimiti in Egitto non avevano ormai più nessuna influenza, con i
Kalbiti si era ormai formata una nazione quasi indipendente.
Scarse sono le imprese di Yusuf, e le uniche riportate dai cronisti
greci parlano d’alcune devastazioni a Taranto nel 991 e di un assedio,
tre anni dopo, a Matera, città che si arrese per fame.
L’emiro palermitano nel 998 fu colpito da una forma di paralisi
che lo rese inabile a gestire gli affari governativi, per cui al coman-
do fu elevato il figlio Giafar (998-1019). Yusuf, che come detto, si
era dimostrato un ottimo amministratore e per questo si era guada-
gnato il titolo di « Thiqat ad-dàula », cioè « Fiducia dello Stato » che
gli veniva attribuito, non solo dagli addetti ai lavori, ma anche e
soprattutto dal popolo, con cui era stato magnanimo e giusto.
Giafar, ricevette l’investitura dai Fatimiti d’Egitto che gli fecero
pervenire le insegne del comando, la « Corona dello Stato » e la «
Spada della religione » « Taj ad-dàula wa Saif al-milla ». Ma non
sempre il figlio è degno erede del padre. Giafar, non mostrò capaci-
tà particolari, tranne quella di evitare azioni belliche. Scrive l’Amari:
« nelle sue mani casa kalbita diè la volta al comun precipizio delle
70
Michele Amari, Storia dei Musulmani di Sicilia, vol. II, pag. 385. Romeo
Prampolini Editore, 1935, Catania.
54
dinastie musulmane, nelle quali ad una o due generazioni di guerrie-
ri succedettero per lo più i Sardanapoli, come se il naturale intristir
dei sangui regii s’affrettasse dentro le mura dell’harem, dove si sciu-
pa il padre, e la fiacca prole alla sua volta vi lascia un po’ di spirito
rimaso nella razza. »71
Era l’inizio della decadenza kalbita, almeno nelle cose di guerra.
Nella primavera del 1004, i saraceni, guidati da un certo Sciâfi, assal-
tarono Bari, costringendo il catapàno72 Gregorio, a rinchiudersi den-
tro la città. Assediata con violenza, Bari, resistette fino all’arrivo
della flotta Veneziana, capitanata dal doge Pietro Orseolo II, che
rifornì la città di viveri e poi si scagliò contro i musulmani. Dopo tre
giorni di combattimento, il 22 settembre, i saraceni levarono il
campo e fuggirono. Ancora una sconfitta, gli arabi, l’ebbero nella
battaglia navale di Reggio, dove nell’agosto del 1005 furono sconfit-
ti dai Pisani. Un’altra seria minaccia alla casata kalbita venne dal fra-
tello di Giafar, Alì, che nel 1015 si dichiarò indipendente dallo Stato.
Aiutato, come solito dai Berberi, cercò di impadronirsi del potere,
cosa che per fortuna non gli riuscì. Le truppe di Giafar, sconfissero i
ribelli e condannarono a morte Alì. Fu un grave disonore per il vec-
chio paralitico, Yusuf, che non riuscì ad evitare le gravi beghe fami-
liari. E nonostante i guai fisici, Yusuf, a distanza di quattro anni,
dovette ancora intervenire, a sanare l’aumento ingiustificato del
fisco, effettuato dal visìr di Giafar, al fine di rimediare alle esorbitanti
spese della vita di corte. A questi aumenti reagirono l’aristocrazia e
il popolo che assaltarono il palazzo dell’emiro. Provvidenziale fu
quindi, l’intervento del vecchio Yusuf, che sostituì Giafar con l’altro
figlio, Ahmad, detto al-Akhal. Tutto quello che era successo fu
messo nel dimenticatoio e al-Akhal (1019-1036), potè cominciare,
nel migliore dei modi, il suo governo. Cominciò così la fase costrut-
tiva della nuova Sicilia. Fu incrementata l’edilizia pubblica e civile,
fu potenziata l’agricoltura con nuovi sistemi d’irrigazione (di cui par-
leremo in un’altra parte del libro) e furono rese più sicure le città. Per
tutto ciò il califfo al-Hakan, onorò l’emiro del titolo di « Ta’yìd ad-
71
Michele Amari, ibidem.
72
Governatore bizantino.
55
dàula », cioè « Il sostegno dello Stato ». Per quanto riguarda le
imprese militari, troviamo tracce di esse (poche in verità) solo nelle
fonti latine. L’emiro non partecipò mai in prima persona a queste
spedizioni, ma le affidò al figlio Giafar, che aveva preso lo stesso
nome dello zio.
Arrivano i Normanni
L’errore più grave di al-Akhal, fu quello di aver insignito il figlio
Giafar dei suoi stessi poteri, anche se essi dovevano servire sola-
mente, a permettere al delfino, di poter prendere decisioni immedia-
te sul campo di battaglia. Ma il giovane non aveva né l’esperienza né
le capacità intellettuali per poter governare. Anzi aveva un debole
per l’intrico ed era incline al clientelismo, perciò, ad un certo punto,
si mise contro quelle famiglie che avevano fatto la storia dei musul-
mani in Sicilia. Il suo comportamento fu sleale, finendo con il calpe-
stare i diritti dei « veteres », appoggiando sul piano tributario nuove
genti. La ribellione armata fu la conseguenza di ciò, ed al-Akhal,
stranamente chiese aiuto ai Bizantini. I ribelli invece chiesero aiuto
al governo dell’Ifrìqiya, dove regnava la nuova dinastia degli Ziriti,
eredi dei Fatimiti. Così, al-Muìzz, spedì nell’isola il figlio Abd Allàh
con tremila fanti ed altrettanti cavalieri, i quali nel 1037, si scontra-
rono con le truppe bizantine, ricevendone una dura sconfitta. I bizan-
tini però, invece di sfruttare la situazione, decisero di ritirarsi
nell’Italia meridionale. La cosa indebolì Al-Akhal, che si ritrovò solo
ed attaccato dai ribelli. Fu, infatti, assediato nella fortezza di Khalisa
ed ucciso, lasciando l’isola nelle mani di Abd Allàh. Da questo
momento fanno la comparsa i Normanni.
Che qualcosa stava scricchiolando nel regno musulmano in Sicilia
si era già capito, ma la riconferma si ebbe quando Michele IV
Paflagone (1034-1040) inviò un esercito, supportato da un gruppo di
normanni, che sbarcati a Messina, ebbe la meglio sui saraceni. Nel
1040 si scontrarono ancora a Troina, a nord dell’Etna, dove gli arabi
al comando dell’emiro Abd Allàh, persero una sanguinosa battaglia.
Fu in questo combattimento che si segnalò, per abilità, Guglielmo
di Hauteville, detto Braccio di ferro, al comando di un reparto nor-
manno. I bizantini conquistarono Siracusa e il loro comandante
Giorgio Maniace, fece sì che tutti i presìdi fossero rinforzati per ogni
56
evenienza. Intanto Abd Allàh, anche se con molta difficoltà, riuscì a
rifugiarsi a Palermo. Di questa fuga però, il generale Maniace, accu-
sò l’ammiraglio Stefano, che a sua volta lo denunciò di doppio gioco
verso l’imperatore. Improvvisamente Maniace si trovò destituito e
mandato in carcere a Costantinopoli. Questi intrighi di palazzo rese-
ro però debole la posizione di Bisanzio nel meridione dell’Italia a
tutto vantaggio di un popolo emergente che presto si sarebbe reso
protagonista in Sicilia: i Normanni.
Su gli ultimi anni dei Musulmani in Sicilia tuttavia mancano le
fonti, per cui dobbiamo fare fede solamente alla bibliografia, la quale
a sua volta ha fatto man bassa di quello che ha scritto Michele Amari,
che pur esso ne lamentò la scarsezza. A Palermo la discordia era
sempre quella tra Arabi e Berberi, la cui convivenza era ormai diven-
tata impossibile. Abd Allàh capì che non ci sarebbe stato più spazio
per un suo governo, così ritornò in Ifrìqiya. I ribelli misero al gover-
no nel 1040 il fratello del defunto al-Akhal, al-Hasan, detto as-
Samsàm. La situazione politica-militare musulmana, peggiorò sem-
pre di più e, nonostante i Bizantini, non riuscissero ad andare d’ac-
cordo tra loro e perdessero città su città nel meridione dell’Italia in
favore dei normanni, essi si divisero sempre di più. Si addivenne che
la Sicilia si scisse in varie parti: Girgenti, Castronovo e
Castrogiovanni e relativi dipartimenti della Sicilia centrale, finirono
in mano di Alì ibn Ni’ma detto ibn al-Hawwàs, mentre quelli occi-
dentali, cioè Trapani, Marsala, Mazara e Sciacca, finirono in mano
ad Abd Allàh ibn Mankùt. Palermo invece finì in mano agli « shaikh
» (notabili municipali), con un’ammistrazione un po’ particolare,
dove aristocrazia e popolo vi prendevano parte. A Palermo aderì
anche la parte orientale dell’isola, anche se Catania (non ne cono-
sciamo la data) fu subito dopo presa da un certo ibn al-Maklati. A
complicare la situazione musulmana erano i troppi contendenti che
non si accontentavano che con il potere. Muhammad ibn Ibrahìm ibn
ath-Thumma fu uno di questi, che prima di diventare signore di
Siracusa, riuscì ad assassinare il gaito di Catania, ibn al-Maklati, a
cui tolse oltre la vita e la città anche la moglie, Maimuna. La sua
arroganza lo portò a proclamarsi califfo abbàside, (anche su questo
non possiamo essere sicuri), ed avere in mano quasi la totalità dell’i-
sola.
57
Se i Saraceni arrivarono in Sicilia, chiamati da Eufemio, i
Normanni, secondo un racconto, quasi leggendario, arrivarono per
richiesta di ibn ath-Thumma. E veniamo a questo racconto.
Maimura, presa in moglie da ibn ath-Thumma, era spesso martoria-
ta dal marito ubriaco, questa ad un certo punto chiese aiuto al fratel-
lo al Malati, che non aspettava altro che l’occasione giusta per sca-
gliarsi contro il cognato. I due si scontrarono con le truppe e ibn ath-
Thumma, ebbe la peggio. La sorte di tutta la Sicilia così cambiava,
perché anche Palermo si schierò dalla parte del vincitore, solo che
ibn ath-Thumma, chiese aiuto ai Normanni.73 Non sappiamo quanto
ci sia di vero in questa storia, ma nei racconti, seppur fantastici, un
pizzico di verità v’è sempre.74
Nel 1061, i Normanni, già padroni dell’Italia meridionale, attra-
versarono lo Stretto con centocinquanta cavalieri al comando di
Ruggero, raggiunto anche dal fratello Roberto il Guiscardo75, e insie-
me s’impadronirono di Messina. La loro conquista fu abbastanza
facile, essendo favoriti dalle discordie interne dei Musulmani, per cui
cominciarono a penetrare nei territori interni. Intanto una spedizione
della repubblica di Pisa penetrava nella città di Palermo (1063) facen-
do un bottino eccezionale. Nel 1068, Ruggero marciò verso Palermo.
Lo scontro avvenne a Missolungo, dove i Musulmani, usciti da
Palermo, furono sconfitti. Per far sapere alla capitale della sconfitta,
i Normanni presero i colombi dalle gabbie dei saraceni e gli misero
al collo dei messaggi imbevuti di sangue.76 Palermo cadde il 10 gen-
naio del 1072, dopo cinque mesi d’assedio. Un ultimo tentativo di
salvare la Sicilia, i Saraceni, lo fecero nell’estate del 1075, quando
dall’Africa si partirono 150 legni, diretti a Mazara, lì assaltarono per
otto giorni il castello, ma sorpresi dal conte Ruggero, venuto da
73
La vicenda viene narrata da Michele Amari, op. cit.
74
Scrive Deburigny: "Per i maneggi di sua sorella, da esso minacciata di
morte, i congiurati assassinarono il califfo Ackem Bianvilla nel 1020.
Quello Principe tant'oltre spinse la sua curiosa follìa, che voll'esser credu-
to un Nume." op. cit. p. 219.
75
L. A. Muratori, Annali, anno 1061.
76
M. Amari, op. cit., vol. III, p. 115.
58
Palermo, furono sbaragliati. Nel 1077 il conte Ruggero prese
Trapani, nel 1078 Taormina e nel 1081 Catania. Rimaneva libera e in
mano saracena Siracusa, governata da Ibn ‘Abbàd, detto Benavert,
nipote di Tamîm, emiro di Al-Mahdîa. Costui volendosi vendicare
delle conquiste normanne, nell’estate del 1085, organizzò una spedi-
zione nella cosiddetta « terra lunga ». A Nicotera affrontò una flotta
bizantina, annientandola, poi assoggettò la città e infine si spinse a
Reggio. Qui vi saccheggiò le chiese di S. Nicolò e S. Giorgio, poi
entrò nel monastero della Madre di Dio a Rocca d’Asino, e dopo
averlo depredato, ne portò via le monache, che destinò all’harem.
A tali notizie, il conte Ruggero che si trovava in Puglia per la
morte del fratello Roberto il Guiscardo, reagì mettendo assieme una
truppa di volontari e una flotta navale. Nel maggio del 1086 salpò
verso Siracusa. « A Messina fece sbarcare il figlio Giordano, giova-
ne ardente e coraggioso, con un forte nerbo di cavalleria, perché
andasse a quella volta per via di terra, aspettando la squadra al capo
di S. Croce (il promontorio che chiude a nord il golfo d’Augusta) a
non molte miglia da Siracusa. Giunto, a sua volta, in detta località, il
conte fece fermare le navi e spedì in avanscoperta, con una piccola
imbarcazione, il patrizio Filippo di Gregorio. Questi, insieme ad
alcuni siciliani, come lui travestiti da arabi, e che, come lui, sapeva-
no parlare la lingua, si addentrò nottetempo nel porto di Siracusa, per
contare le navi di Benavert. Il mattino dopo, 25 maggio 1086, impar-
tite le opportune istruzioni al figlio Giordano, il conte ordinò di
avanzare. La città venne stretta dal mare e da terra. La battaglia si
sviluppò immediatamente e divenne subito aspra e sanguinosa,
soprattutto per i musulmani, poiché gli arcieri e i balestri Rûmi,
rimanendo fuori del tiro delle saette nemiche, falcidiavano i difenso-
ri. »77 Lo scontro però si risolse in mare. Benavert, cercò di uscire dal
porto con la sua nave ammiraglia, dirigendosi verso quella norman-
na, qui fu affrontato direttamente dal conte Ruggero che lo colpì
ripetutamente. Il saraceno nel tentativo di sfuggire a cotale spada,
tentò di saltare su un’altra nave vicina, ma nel salto finì in mare, e a
causa della pesante armatura annegò. Lo scontro fu quindi vinto dai
77
Panetta, op. cit., p. 210.
59
normanni che presero e incendiarono tutte le navi nemiche. Siracusa
fu presa ad ottobre, dopo una lunga resistenza. Nel 1087 cadde
Girgenti e nello stesso anno, il 25 luglio, fu presa Enna, dove si era
arroccato un certo Chamût, chiamato dai Siciliani Camutto. Sempre
nello stesso anno caddero Caltanissetta, Licata, Ravanusa, Sutera e
tutta la zona della valle dei Platani.
Finiva così, almeno politicamente la Sicilia araba, ma ne nascerà
un’altra, che sarà la civiltà arabo-normanna. A suggellare l’inizio di
una nuova era, fu Guiscardo che, una volta conquistata Palermo nel
1072, volle lasciare un « amiratus » (dall’arabo « amir ») preposto ai
Musulmani della città.
61
Vita sociale
78
Gli Arabi in Italia, Garzanti-Scheiwiller Credito italiano, Milano 1979, p.
150.
62
secoli in sinodi e concilî d’Occidente, pii asceti taumaturghi, come
sant’Elia il Giovane, vissero o viaggiarono per l’isola nel secolo stes-
so della conquista araba ». Comunque molti cristiani si convertirono
all’Islam.
Come detto vi era una zona della Sicilia, la Val Démone, dove gli
arabi non colonizzarono, ma si attennero a far pagare loro solo un tri-
buto. Palermo nell’età Kalbita faceva trecentomila abitanti, e la Val
di Mazara (compresa Palermo) quasi cinquecentomila anime, com-
poste per lo più di berberi e arabi arrivati dall’Africa, ma anche da
siciliani. Arabi e berberi agitarono molto la storia interna dell’Islam
siciliano, con delle vere lotte di potere e arrivando a vere guerre civi-
li. Nonostante tutto furono gli arabi ad avere il sopravvento, sia sotto
gli Aghlabiti che i Fatimidi. Dal punto di vista costituzionale l’emi-
rato siciliano fu sempre sotto giurisprudenza dell’Africa, prima agh-
labita, poi fatimida e infine zirita, anche se sotto di loro, l’influenza,
seppure richiesta, fu quasi assente. L’isola era governata da un
emiro, amìr o wâli, che era nominato da Aghlabti di Qairawàn o da
Mahdiyya, che però, era in realtà, il solo padrone della provincia. Lui
dirigeva tutta l’amministrazione civile e militare, lui portava la guer-
ra, coniava monete, nominava i giudici, funzionari subalterni e pre-
siedeva alle pubbliche preghiere, almeno fino a quando nell’isola vi
fu un governo unitario (sotto i Kalbiti). Nel governo musulmano,
però compare, come riferiscono alcuni documenti, soprattutto a
Palermo, un sistema di oligarchia insolita. Un’assemblea di notabili,
la giamà’a, che affianca l’emiro e che talvolta lo sostituisce nelle
decisioni. La vita dei saraceni era, comunque, quella militare, a cui
dovevano aderire tutti gli uomini validi. Il giund, il ruolo dei com-
battenti, era quello di conquistare terre, schiavi e spartirsi il bottino,
ma man mano che venivano conquistate le terre, il ruolo militare si
fece meno affascinante, e molti preferirono diventare agricoltori,
artigiani e commercianti.
Il diritto classico musulmano, era ben chiaro sulla spartizione
delle terre conquistate: quattro quinti venivano distribuite come bot-
tino ai combattenti (fai’) e un quinto, il cosiddetto khums era riser-
vato allo Stato o al principe locale. Sembra che questo semplice prin-
cipio non sempre fu applicato in Sicilia. In piena età kalbita le terre
erano assegnate al primo occupante e ai coltivatori senza terre. In
63
pratica molti erano i coloni non autorizzati che s’impadronivano
delle terre e, questo successe soprattutto a Girgenti. Molte delle terre
da coltivare, comunque, furono donate all’inizio del X secolo, da
Ibrahìm ibn Ahmad, come dimostrano alcuni titoli di proprietà.
Questo modo di dividere le terre portò ad un cambiamento radicale
della vita economica isolana, perché, di fatto, interrompeva l’antica
piaga del latifondo. Venivano in questo modo, annullate le grandi
proprietà ecclesiastiche e laiche, così da far passare le ricchezze dalle
mani di uno solo a quelle di tanti. Lo spezzettamento creò una quan-
tità di piccoli fondi autonomi, dove fiorirono i giardini degli agricol-
tori arabi. Lo stato ad essi chiedeva solo un tributo, che era quello
della fornitura del legname per flotte mediterrane degli Aghlabiti
prima e Fatimidi dopo. In questo modo l’attività agricola, pastorizia
e commerciale diventava libera di ogni condizionamento. Il suolo
venne fecondato da sapienti lavori d’irrigazione. Il grano rimase sem-
pre la vera ricchezza della Sicilia, ma furono introdotti, il cotone, la
canapa, gli ortaggi e soprattutto ebbe inizio la coltivazione degli
agrumi. In quei due secoli fecero la comparsa la canna da zucchero,
i datteri e i gelsi. Il cotone purtroppo sopravvisse solo fino al XIV
secolo, poi rimase solamente nelle isole, tra cui Pantelleria. Possiamo
qui citare il Libro di Ruggero, redatto da Idrisi, che indica la fratta
secca di Carini, il lino di Milazzo, il cotone e lo hennè di Partinico e
la seta di San Marco, « così come quasi per la stessa età il norman-
no Falcando ci parla dei palmizi e degli agrumi palermitani, della
cannamele, della cottura del melasso e del raffinamento dello zuc-
chero. »79
Importante fu anche lo sfruttamento delle risorse minerarie. Nelle
zone dell’Etna furono estratti, oro, argento, ferro e piombo, mercu-
rio, zolfo, nafta, antimonio e allume, che con i tessuti e gli agrumi
furono esportati in Africa e Asia.
Sulla vita quotidiana durante questi due secoli abbiamo ben poco.
Una testimonianza l’abbiamo su Palermo da parte del monaco
Teodosio, che fu rinchiuso nelle carceri della città. Essa parla di una
città turbolenta « facce e favelle d’ogni genere, ma anche visi e atti
79
Gli Arabi in Italia, op. cit., p.161.
64
cristiani, l’emiro troneggiante dinanzi al suo palazzo, l’orribile car-
cere sotterraneo ». Di un secolo dopo, dell’età kalbita, è invece la
descrizione araba di Ibn Hawqal nel libro Forma e Terra (Surat al-
ard) che descrive la città in pieno sviluppo economico e culturale. La
descrizione si può leggere nella sua interezza in appendice di questo
libro.
65
Cultura - Letteratura
Sostiene Karim Hannachi, che per conoscere tutto quello che gli
Arabi riuscirono a comunicare alla cultura, occorrerebbero migliaia
di pagine, per questo noi saremo costretti a sintetizzare parecchio.
Nel periodo in cui la Sicilia fu sotto il dominio musulmano fino all’i-
nizio del XIII secolo, vi furono uomini di grande cultura, soprattutto
nelle moschee, in cui si studiavano e s’insegnavano la lessicografia,
la grammatica e le scienze religiose. Poi c’erano la giurisprudenza
(fiqh) la “hadith”, cioè la tradizione del profeta e la “qirà’a” (scan-
sione del Corano).
Il più rilevante linguista dell’Isola fu sicuramente Ibn Rashìq,
nato nell’Africa del nord nel 1000 ed emigrato a Mazara del Vallo,
dove scrisse una delle più belle opere poetiche del tempo, Kitab al
‘umda, inspirata alla vita e al paesaggio siciliano ma dai modi tipi-
camente musulmani. Ibn Ra#ìq, morì a settant’anni, lasciando prova
d’altissima poesia. Prima di inoltrarci ai riferimenti letterari, voglia-
mo ricordare i cultori siciliani di scienze craniche, quale il siracusa-
no Ibn al-F Fahhàm (1062-1122), il giurista al-M Màzari (m. 1141) e il
mistico o sufi agrigentino, al-K Karkunti (m. 983). Tra i grammatici,
filologi, retorici e i dotti siciliani al-K
Kattani (m. 1118) e Ibn Rashìq
(m. 1070). Un altro ricco di dottrina di nascita siciliana ma emigrato
in Oriente fu Ibn Zafar as-S Siqilli (m. 1171), autore di un trattato pare-
netico-narrativo « Conforti politici » dedicato a Ibn Hagiar, notabile
musulmano di Palermo, tradotto in italiano da Michele Amari. Tra i
filologi palermitani, il più grande fu Ibn Qattà’ (1041-1121), di cui
però si è persa l’opera, che così, lascia un grosso vuoto per la cono-
scenza della storia della letteratura arabo-siciliana dell’isola. Fu
autore di una Storia della Sicilia, andata perduta e di un compendio
dei poeti arabo-siculi, « Perla preziosa, sui poeti dell’Isola », di cui
66
si sono ritrovati solo dei frammenti. Probabilmente il tutto è andato
perso quando Ibn Qattà’, con l’avvento dei Normanni, decise di emi-
grare in Egitto. Si sa che l’opera era composta da ben 170 saggi sui
poeti arabi di Sicilia, dal X al XII secolo e, di questi sono rimasti
solamente 70. Altre indicazioni della stessa fonte sono state incluse
in un’altra antologia di poesia araba del V secolo dell’ègira (XI-XII
secolo), redatta dal segretario di Saladino, la Kharidat al qasr di
‘Imàd ad-din-Isfahani. L’Amari ebbe il merito di tradurli e di farce-
li leggere. Ecco come descrive Ali ibn ‘Abd ar-R Rahmàn un giardino
di aranci:
« Godi degli aranci che hai colto. La loro presenza è presenza di feli-
cità.
Tremolano sui rami i lor frutti come tremolano i seni delle belle,
snelle qual ramo di salice.
« Figli della Frontiera, non siete più miei fratelli in battaglia se non
attacco con quanti Araba sono fra voi il barbaro nemico! »
Fiori:
« Bevi su una vasca di ninfea, verde, dal boccio vermiglio. I suoi
fiori sembran cacciare dall’acqua lingue di fuoco »
Mare in tempesta:
« Dai cavalloni scatenati, dagli intimi sgorghi sfrenati sotto il soffio
d’un vento scatenato.
Pare che entro esso gli stalloni abbian visto le cammelle, e muggi-
scano spumanti di desiderio ».
68
Da ricordare anche i due Abd al-R RahmÞn, uno di Butera, l’altro di
Trapani, detto il segretario (alla corte di Ruggero), i quali lodano i
palazzi e i giardini reali di Palermo. Questi, a detta dei letterati, sem-
brano gli emblemi della poesia araba-sicula.
70
Architettura
73
Urbanistica
75
Toponomastica di origine araba
77
Strumenti chirurgici.
78
Medicina
82
Matematica
84
Ottica
85
Macchine e tecniche.
Bisogna fare un cenno a certi strumenti di precisione che gli Arabi
costruirono per aiutarsi nelle misurazioni e nelle osservazioni scien-
tifiche. Gli astrolabi e i planetari che mostravano il movimento dei
pianeti, che per la loro precisione si possono considerare gli antenati
degli orologi. Per quanto riguarda la bussola attribuita anch’essa agli
Arabi, sappiamo che in un primo momento fu dato come inventore
l’amalfitano, Flavio Gioia, che probabilmente ne era venuto a cono-
scere l’uso, attraverso gli Islamici. Dall’XI secolo i Cinesi sapevano
già che l’ago magnetizzato indicava il nord, ma loro affermavano che
questo strumento era stato introdotto dagli stranieri per la navigazio-
ne. Da quest’affermazione e dal fatto che i navigatori che trafficava-
no i mari cinesi erano musulmani, nasce l’attribuzione dell’invenzio-
ne della bussola agli Arabi. In ogni caso, questa, in Europa fu intro-
dotta dal francese Pierre de Maricourt, che di ritorno da una crocia-
ta, in una lettera “Epistola de magnete” (1269) rivelò l’uso del
magnete. Dopo più di trentanni il Gioia, che era un commerciante
marittimo riuscì attraverso gli scambi con gli Arabi a venire a capo
della bussola, che sicuramente perfezionò.
Un’altra perla araba è la carta. In Europa il primo mulino per la
carta fu costruito nel 1340 dagli Italiani, ma in Sicilia alla corte di
Ruggero, nel 1090, cioè due secoli prima, veniva scritto su carta il
primo documento cristiano. La carta non era siciliana ma veniva dal
mondo arabo, da QayrawÞn e non aveva la resistenza della pergame-
na, tanto che il conte Ruggero, nuovo padrone della Sicilia, dovette
rifare il documento. Gli Arabi conobbero l’arte della fabbricazione
della carta nel 751 quando internarono a Samarcanda dei prigionieri
di guerra cinesi. Alcuni di loro per riscattarsi mostrarono la loro mae-
stria nella fabbricazione della carta, così nel 794 gli Arabi costruiro-
no a Baghdad il loro primo mulino a carta, migliorandolo anche tec-
nicamente con l’apporto di lino e cotone.
Epigrafia
88
Monetazione araba in Sicilia.
90
Manoscritti Arabi
92
Nota sullo studio della cultura araba in Italia
In Italia gli studi seri e scientifici cominciano solo nel Seicento,
quando Antonio Giggei (m. 1632), traduce in latino, dal lessicografo
arabo Firuzabati il classico Thesaurus linguae arabile, nel periodo in
cui Federigo Borromeo fonda a Milano la Biblioteca Ambrosiana.
Dello stesso periodo è la traduzione latina e la pubblicazione a stam-
pa del Corano, del lucchese Lodovico Marraci, sia pure a scopi apo-
logetici. In Sicilia gli Arabi vengono riscoperti nel Settecento con
Giuseppe Vella (1750-1815), che nel risvegliare l’interesse regionale
allo studio della storia e dei documenti lasciati da Arabi e Normanni,
s’inventa false traduzioni di documenti e testi. Ma vi furono anche
degli arabisti seri, come Rosario Gregorio e il Mortillaro, che riusci-
rono a rileggere i vari testi con rigore scientifico. A loro seguì il più
grande arabista siciliano, Michele Amari (1806-1889), che diede ai
suoi studi una completezza e un valore scientifico di livello europeo.
Da Milano arriva intanto un grande studio sulla numismatica araba da
parte di Carlo Ottavio Castiglioni (1784-1849), mentre a Roma,
Michelangelo Lanci (1779-1867) iniziava lo studio dell’epigrafia.
Nell’Ottocento, per merito di Ignazio Guidi (1844-1915) e di
Celestino Schiapparelli (1841-1919), allievo dell’Amari, gli studi
Arabi e semitici in genere, diventano di grande rilevanza per il loro
straordinario livello scientifico. Nel Novecento lo studio s’intensifica
con un gruppo di studiosi di storia e filologia. Si tratta di Carlo
Alfonso Nallino (1872-1938), Leone Castani (1869-1935), Eugenio
Griffini (1878-1925), Michelangelo Guidi (1886-1946) e Giorgio
Levi Della Vida (1886-1967). Gli ultimi due, orientalisti, hanno dato
una svolta allo studio storico dell’Islàm, soprattutto a quello storico-
letterario, di cui però si era occupato a fondo anche Michele Amari.
Gli ultimi studi sono partiti da Umberto Rizzitano, Francesco Gabrieli
e Umberto Scerrato, senza contare i medievisti, come Francesco
Giunta, che si sono occupati e che hanno annotato gli avvenimenti
storici tra i vari stati italiani nel periodo dell’alto medioevo.
93
94
L’Italia di Idrisi.
Viaggiatori e geografi arabi
80
Il testo è riportato e tradotto da Michele Amari. Biblioteca Araba-Sicula
vol. II, p. 110.
102
pose il nome di ¤.stârah (Augusta).” Di Trapani abbiamo la sua ubi-
cazione geografica: “Tarâbulus (nome probabilmente storpiato)
Trapani, giace sopra il terzo angolo ed è circondata dal mare, con un
istimo che lo congiunge all’isola”.
‘Abû ‘Abd ‘Allâh Muhammad ‘ibn ‘Ahmad ‘al Ba¥ârî ‘al
Muqaddasî (il Gerosolimitano) (Le divisioni più acconce a far cono-
scere bene i climi della terra). Venne in Sicilia verso il 985, ma non
si conosce il suo Kitâb, cioè il suo giornale di viaggio, probabilmen-
te ha visitato Palermo di cui però riporta notizie sommarie, come
pure di Trapani, Mazara, Caltabellotta, Agrigento, Butera, Siracusa,
Lentini, Catania, Acireale, Paternò, Taormina, Petralia e Partinico.
Scrisse della Sicilia: « l’isola è vasta e bella; né i Musulmani ne pos-
seggono più nobile ». Sulla capitale invece scrisse: « Palermo, capi-
tale di ‘Isqillîah, giace a spiaggia di mare, in quell’isola. Avanza in
grandezza ?Al Fustât (il Canoro vecchio); se non che le fabbriche di
questi [Siciliani] son parte di pietra e parte di mattoni: onde [la città
comparisce] rossa e bianca. È circondata da sorgenti d’acqua o di
doccionati; e la bagna un fiume, chiamato Wâdî ‘Abbâs ». Di
Trapani scrisse: «’Itrâbini¥, Trapani. Giace sul mare: una città mura-
ta, i cui abitatori devono di un fiume ». Chiaramente non è una cosa
possibile perché non vi è nessun fiume nelle vicinanze della città di
Trapani, tutto al più si può trattare della città di Mazara.
‘Abû Hafs’Umar ‘ibn ‘al Wardî. Di lui Michele Amari riporta
solo il breve giudizio su Trapani. “Nel mare di questa città (Trapani)
si pesca il corallo, che vegeta in fondo come un albero. In Trapani è
anche un ponte di meravigliose (dimensioni?), ch’è lungo trecento
dirâ’ e largo venti”.
103
Le Tre Valli.
104
1. Appendice.
La cronaca di Cambrige
Il vero titolo di questa cronologia è Târîh ×azîrat Siqillîah, il cui
autore è ignoto. Secondo le fonti di Michele Amari dovrebbe essere
un “testimonio oculare” e quasi sicuramente cristiano e siciliano.
Visse a Palermo alla corte di un diwân dei principi Kalbiti nella
seconda metà del decimo secolo. Potrebbe essere stato o un segreta-
rio o un computista. Amari sostiene che “scrive l’arabo con certo
stento e con qualche forma volgare” e che rimane imparziale tra i
Musulmani e Cristiani.
Il testo arabo della cronica di Cambridge si chiama così perché si
trova in appendice ad un altro testo storico (gli Annali di Eutichio),
in un manoscritto custodito a Cambridge. Vi sono però due testi in
greco, uno alla Vaticana e l’altro alla Bibliothèque National di Parigi,
della stessa cronaca, forse gli originali da cui poi è stato tratto il testo
arabo ridotto. I due testi probabilmente sono stati composti tra la fine
del X e i primi dell’XI secolo e sono l’unica fonte sul periodo della
dominazione araba in Sicilia che sia giunta direttamente a noi, senza
dimenticare in ogni modo l’epistola del monaco Teodosio. La
Cronica fu pubblicata per la prima volta nel 1720 dal Caruso che la
ottenne tramite l’erudito Tommaso Hobart che a sua volta la richiese
ad un suo collega dall’Inghilterra, nella versione latina.
113
2. Appendice:
Descrizione di Palermo
e vituperi dei siciliani in Ibn Hawqal
120
Bibliografia e Fonti
122
123
Indice
Introduzione pag. 5
Gli Arabi » 7
Gli Arabi in Sicilia » 9
Vita sociale » 61
Cultura - Letteratura » 65
Architettura » 69
Urbanistica » 73
Toponomastica di origine araba » 75
Medicina » 77
Astronomia » 79
Matematica » 81
Ottica » 83
Macchine e tecniche. » 85
Epigrafia » 87
Monetazione araba in Sicilia. » 89
Manoscritti Arabi » 91
Nota sullo studio della cultura araba in Italia » 93
Viaggiatori e geografi arabi » 95
Appendice.»
1. La cronaca di Cambrige » 105
2. Descrizione di Palermo»
e vituperi dei siciliani in Ibn Hawqal » 113
Bibliografia e Fonti » 121