Filosofia Spirito Jenese - Natura e Geist

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SIFP - Società Italiana di Filosofia Politica

29/06/2005 - Carla Maria Fabiani - Il lato inquieto dello spirito. Osservazioni su alcuni momenti
della filosofia dello spirito jenese di Hegel

[1] [2]
Il male è il niente in sé, il puro sapere di sé – quest’inferno dell’uomo chiuso in se stesso

Lo spirito, in quanto assoluto spirito etico, è essenzialmente come il negativo infinito, il togliere la natura in cui esso
è divenuto a sé un che di altro, il porre la natura come se stesso, e poi l’assoluto godimento di se stesso, giacché ha
[3]
ripreso in sé la natura .

1. Da dove sorge lo spirito. La sua prima natura

Lo spirito sorge dalla natura: e più precisamente si presenta, in questi due corsi di lezioni tenute da Hegel a
Jena tra il 1803-04 e il 1805-06, come l’elemento etereo della coscienza che si emancipa dalla determinazione
meramente organica e particolaristica del mondo animale-terrestre. Lo spirito è coscienza, proprio in quanto
interiorizza le infinite distinzioni – o le singolarità dell’uno numerico come le chiama Hegel – del mondo animale;
[4]
le interiorizza concependole. «Questo concetto dello spirito è ciò cui si dà il nome di coscienza» . Lo spirito si
chiama coscienza; ma a cosa esattamente pensiamo quando diciamo, appunto, coscienza? Al sorgere del mondo
umano, al suo levarsi, alla sua preistoria; alla fenomenologia dello spirito umano, il quale, certo, si innalza sul
mondo animale dal quale pure proviene, poiché lo comprende (e non viceversa), ne comprende la precipua
infinità, interiorizzandola, smaterializzandola nell’etere della sua coscienza.
[5]
«[La coscienza] è l’essere uno della distinzione che è e della distinzione tolta [aufgehobenen].» Hegel
considera due piani della medesima realtà: natura (mondo animale) e spirito (mondo dell’uomo).
Nel mondo animale la singolarità-alterità è irriducibile e costitutiva (ci troviamo di fronte a una serie infinita di
molti uno numerici, di individui giustapposti), è l’essenza stessa di questo mondo: l’animale è così e non
altrimenti. L’uomo invece è così e altrimenti: è un singolo che pensa la sua singolarità. Esso è la distinzione e al
contempo il superamento della distinzione: questo processo avviene nell’elemento etereo della coscienza, nel
pensiero. Questo processo è lo spirito, ossia l’uomo che si concepisce; ma ciò non vuol dire che l’uomo non sia
anche e innanzitutto animale, natura organica, natura in genere, terra, ecc. Ciò vuol dire semplicemente che il
mondo dell’uomo si distingue dal mondo animale (l’essere uno della distinzione che è) superando proprio la
fissità della distinzione che caratterizza quel mondo (la distinzione tolta).

L’essenza della coscienza è di essere immediatamente, in una eterea identità [ätherischen Identität], assoluta unità
dell’opposizione. Essa può essere ciò solo perché immediatamente, per quanto è in sé opposta, entrambi i membri
dell’opposizione sono essa stessa, sono in essi stessi, in quanto membri dell’opposizione, immediatamente il contrario di se
[6]
stessi , la differenza assoluta, differenza che si toglie ed è tolta, cioè sono semplici .

Dunque, in natura, l’unica forma di vita che si mostra capace di interiorizzare, smaterializzandola, l’alterità
sussistente è la coscienza umana. Il processo di differenziazione assoluta – la coscienza pensandosi, e cioè
vivendo come coscienza, distingue sé da sé – nel quale è immersa essenzialmente la coscienza, è una
dimensione di immediata e semplice identificazione di sé con sé. I membri dell’opposizione si sanno tali; sanno
di appartenere a un’opposizione ideale, che si toglie. La vita della coscienza è questa dimensione eterea del
concepire sé come altro da sé, permanendo tuttavia presso di sé. Non è solo una dimensione mentale; lo è
anche. È lo spirito che sorge dalla natura come coscienza. La vita della coscienza che «in quanto suo concetto
[7]
[als sein Begriff] si è sollevata immediatamente dall’organizzazione animale» . È la coscienza che pensa se
stessa. Ma, aggiunge Hegel, siamo noi che, finora, con il nostro conoscere, abbiamo sollevato lo spirito dalla
dimensione naturale, nella quale esso sta di fatto come altro da sé: esso dorme nella natura, è “spirito
nascosto”. Se volessimo trovare nella dimensione naturale lo spirito, noi non vedremmo nulla. Lo spirito non si
cerca e non si vede a occhio nudo. Esso sorge propriamente allorquando il nostro conoscere viene a identificarsi
col conoscersi dello spirito stesso.
Ma come avviene esattamente questo ‘salto’ e cioè questa sorta di personificazione dello spirito? Lo spirito, si
è detto, è questa vita dell’essere umano, il quale naturalmente si comporta come coscienza. Eppure, questo suo
naturale comportarsi lo porta a negare la stessa dimensione naturale. Negare la dimensione naturale vuol dire,
per lo spirito, assumere una forma non immediatamente naturale.

Questa relazione negativa [negative Beziehung]alla natura è in generale il lato negativo dello spirito, o è il modo in cui esso
si organizza in sé come questo negativo; il modo, cioè, in cui diviene totalità della coscienza del singolo; giacché la coscienza in
quanto attiva, in quanto nega, toglie l’essere del suo essere-altro, è la coscienza come un lato di se stessa, come coscienza
[8]
soggettiva [subjectives Bewuβtseyn], ovvero coscienza come singolarità assoluta .

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Il soggettivo – o il lato attivo della coscienza ovvero il singolo che pretende universalità – è propriamente lo
spirito; l’attitudine spirituale di negare il naturale, il dato immediato. Questa finalmente è una dimensione tutta
umana. È inoltre una dimensione in cui la coscienza esiste come e nella mediazione. Abbiamo cioè abbandonato
l’immediatezza della determinazione naturale, per cui l’animale, che lo voglia o no, è determinato, poniamo,
come animale selvatico o animale domestico. L’attività della coscienza crea invece le proprie determinazioni. In
altre parole, la coscienza come soggetto attivo si determina essa stessa nella realtà, prendendo forma di medio.
È una sorta di personificazione dello spirito nella coscienza del soggetto, o meglio nella coscienza di essere
soggetto e soggetto attivo. In questo senso allora Hegel può dire che appena la coscienza «pone in se stessa la
[9]
riflessione che fin qui era la nostra» essa diviene l’idealità della natura, ossia è il divenire dello spirito.
Lo spirito ha a che fare positivamente con se stesso solo in quanto nega la natura; il negare la natura non
corrisponde più a quella eterea e rarefatta dimensione da cui eravamo partiti, una dimensione ancora tutta
naturale, tanto che Hegel ci tiene appunto a precisare che là era solo la nostra riflessione che intravedeva lo
spirito. Esso invece sorge in quanto tale solo come medio. Nella natura lo spirito dorme.

Ciò che qui esiste è la notte [die Nacht], l’interno della natura [das Innre der Natur] – un puro Sé [reines Selbst]; in
fantasmagoriche rappresentazioni tutt’intorno è notte, improvvisamente balza fuori qui una testa insanguinata, là un’altra figura
bianca, e altrettanto improvvisamente scompaiono. Questa notte si vede quando si fissa negli occhi un uomo – si penetra in una
[10]
notte, che diviene spaventosa [furchtbar]; qui ad ognuno sta sospesa di contro la notte del mondo [die Nacht der Welt] .

Hegel parla proprio di inconscio, e cioè di una identità inconscia fra spirito e natura, fra io e mondo, tanto
che, egli dice più avanti che, a proposito del tempo concettualmente inteso dalla filosofia, in ultima istanza la
filosofia «è uomo in generale ― e non appena c’è il punto dell’uomo, c’è il mondo, e non appena c’è il mondo,
[11]
c’è l’uomo. Un colpo solo li crea entrambi.» Certo, il cammino dello spirito è segnato proprio da una
irresistibile e costante tensione verso la differenziazione dalla natura e dal tempo della natura. Il suo risveglio da
quella dimensione inconscia e spaventosa – una sorta di incubo o sonno-sogno molto agitato – di fatto si attua
nella scissione e, come abbiamo visto, nell’atteggiamento negativo dello spirito verso la natura. «Questa
scissione è l’eterno creare, cioè il creare del concetto dello spirito […] esso è la storia del mondo. In questa si
toglie il fatto che soltanto in-sé la natura e lo spirito siano un’essenza […] L’uomo non diventa padrone della
natura finché non lo è diventato di se stesso. La natura è il divenire lo spirito in sé; perché questo in-sé ci sia, lo
[12]
spirito deve comprendere se stesso.»
Dunque lo spirito alberga in due dimensioni o in due aspetti della medesima dimensione: nella natura esso è
[13]
l’inconscio, quest’unità immediata ma instabile fra natura e natura umana , nello spirito (nella natura
propriamente umana, potremmo dire) esso è la comprensione di sé e del suo mondo, della sua opera.

2. Lo spirito di un popolo. La mediazione

Così che esiste parimenti un grande individuo universale [ein grosses allgemeines Individuum] come lo spirito di un popolo
[der Geist eines Volkes] che è in modo assoluto come un essente negli individui, che sono i suoi organi, le sue singolarità, ma
proprio perciò è anche come l’opposto ad essi; esiste cioè come oggetto della loro coscienza singola, come un esteriore
[aüsseres] in cui essi tanto sono assolutamente uno in lui, quanto si separano e sono per sé. È l’unità universale e l’assoluto
[14]
medio [absolute Mitte]degli individui […] .

Facciamo ora un passo avanti, tralasciando pur numerose e importanti questioni concernenti la concezione
[15]
hegeliana della natura ; ciò che qui si vuole sottolineare è in effetti il concetto di mediazione.
Che cosa esattamente sia, in questo contesto, la mediazione secondo Hegel, può forse risultare chiaro – in
tutta la sua complessità – se andiamo a vedere in che veste si presentano i medi, ovvero letteralmente i mezzi
mediante i quali la coscienza dell’uomo si comporta consapevolmente come spirito; ossia come coscienza umana
consapevole della sua potenziale autonomia e forza negativa nei confronti delle determinazioni naturali (nella
fattispecie dei quattro elementi della natura fino all’etere, il quinto elemento). «Quella prima vincolata esistenza
della coscienza in quanto medio è il suo essere come linguaggio, come strumento, e come il bene-di-famiglia.
[16]
Ovvero, come semplice essere-uno, è memoria, lavoro, e famiglia.» La coscienza è qui proprio l’individuo
umano attivo nei confronti di altri individui, in un contesto di massima reciprocità, di riconoscimento, ma anche di
massimo conflitto. In ogni caso in un contesto per nulla etereo o formale o mentale: qui conta proprio la
consistenza materiale, vitale e attiva del mezzo. L’essere umano, in altri termini, è un essere cosciente nella
misura in cui è individualmente attivo, o meglio è determinato come individuo fra individui. Allora, il medio del
linguaggio fa sì che l’individuo cosciente si distingua dagli altri con cui parla; con lo strumento si distingua da ciò
verso cui è attivo per mezzo di esso; nel bene-di-famiglia dai membri della sua famiglia. L’attività della sua
coscienza, la sua vita, è mediazione o individuazione.
Ma, aggiunge Hegel, «Quella prima vincolata esistenza è il suo essere come linguaggio, come strumento, e

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[17]
come possesso; la seconda forma dell’esistenza, però, in quanto popolo» . È un’esistenza vincolata quella
dell’individuo, in quanto esso è letteralmente legato all’esteriorità del mezzo (linguaggio, strumento, possesso),
affinché possa mantenersi in vita; sebbene certo l’attività di ciascun mezzo sia esercitata in un contesto unitario
e interno alla coscienza individuale: nella memoria, nel lavoro e nella famiglia. Ma vi è un livello di coscienza
superiore, poiché non vincolato, rispetto a quello puramente individuale. Esso è proprio lo spirito o la coscienza
di un popolo.

Lo spirito del popolo deve diventare eternamente l’opera [Werke], ovvero esso è soltanto in quanto un eterno diventare lo
spirito [ein ewiges Werden zum Geiste]. […] e poiché quest’opera comune di tutti è l’opera di essi in quanto essenti-coscienti,
essi in ciò si trasformano in un che di esteriore, ma questo esteriore è il prodotto del loro operare [That], è soltanto quale essi
lo hanno fatto, […] e in questa esteriorità [Aüsserlichkeit] […] in quanto medio, essi intuiscono se stessi come un popolo [als
Mitte schauen sie sich als Ein Volk an] […]. L’assoluto divenire di questa idea dello spirito a partire dalla sua natura inorganica,
cioè dalla natura inorganica dello spirito etico [aus seiner unorganischen Natur des sittlichen Geistes], è la necessità del suo
agire nella totalità della sua opera. […]. La natura inorganica dello spirito etico non è però ciò che noi chiamiamo generalmente
[18]
natura […] .

Siamo partiti, per così dire, dal puro etere della coscienza immersa in un sonno-sogno naturale e solo
potenzialmente spirituale; dopodiché abbiamo visto come la coscienza si sia destata e individualizzata attivandosi
nella natura attraverso potenze (la potenza del linguaggio, dello strumento, del possesso familiare), le quali
sono i mezzi attraverso cui l’individualità coscienziale si riconosce come un’unilateralità di un contesto
[19]
decisamente più ampio . Ma dobbiamo, a questo punto, considerare la mediazione etica o, come dice Hegel,
l’opera dello spirito di un popolo, la sua seconda natura. Essa assume un carattere ambivalente a seconda del
punto di vista da cui la si consideri. Se ragioniamo in termini di individualità essa è una vera e propria seconda
natura, nella quale l’individuo si trova immerso (come l’educazione impartita al bambino dai genitori, per lui è
una dimensione data immediatamente, sebbene sia un fatto culturale); se invece la consideriamo come totalità
organica e non solo come sostanza etica ma come soggetto, essa è proprio lo spirito, distinto nettamente dalla
dimensione naturale. Esso è storia innanzitutto. È la storia moderna che raccoglie dentro di sé l’eredità del
Cristianesimo e della Rivoluzione francese. Dal punto di vista della storia della filosofia, Lo spirito delle leggi di
Montesquieu e Il principe di Machiavelli costituiscono i due riferimenti a cui Hegel si ispira, e ispira i suoi
studenti, muovendo invece una critica esplicita alla Repubblica di Platone, la quale, non comprendendo il
principio dell’individualità, non può essere presa come esempio dell’eticità moderna. D’altra parte notiamo un
Hegel nettamente aristotelico quando si appresta a criticare la forma di contratto originario da cui la comunità o
[20]
l’unione statale dovrebbe scaturire: «Aristotele: l’intero è per natura prima delle parti» .
È proprio invece la mediazione, ovvero il principio dell’individualità, il principio dei tempi moderni, che
[21]
caratterizza specificamente lo Stato, l’opera etica dello spirito di un popolo : mediazione fra singolarità e
universalità, le quali non costituiscono due entità separate ma due orientamenti convergenti del medesimo
processo. «La forma universale è questo farsi-universale del singolo, e divenire universale; ma non si tratta di
una cieca necessità, bensì di una necessità mediata dal sapere […]. Nel fatto che io ho il mio Sé positivo nella
volontà comune consiste l’essere-riconosciuto come intelligenza, come saputo da me, in quanto la volontà
comune è posta da me; nel fatto che io in ciò ho il mio Sé negativamente consiste l’essere-riconosciuto come
[22]
mia potenza, come l’universale che è il negativo di me, […] mediante l’alienazione. […]» . Abbiamo da una
parte una totalità organica, il potere dello Stato moderno, nella quale si aliena lo spirito del popolo, come spirito
degli individui in quanto tali, che riconoscono di essere solo parte dell’intero; d’altra parte però la loro coscienza
non viene annullata (insomma non siamo nell’Atene di Socrate), perché essi sanno che di quell’intero sono gli
artefici. Questo è il Sé, di cui parla Hegel, ossia una presa di coscienza, potremmo dire, collettiva e storicamente
determinata. Il Sé dei tempi moderni si presenta proprio come l’attività intellettiva e pratica (l’opera etica) dello
[23]
spirito degli individui riuniti in comunità: lo Stato moderno .

3. Il lato inquieto dello spirito. La sua seconda natura

«Nulla è più storico dello spirito hegeliano: esso è greco, romano, cristiano, francese, tedesco: è
essenzialmente quell’insieme di fatti di cui si occupa il sesto capitolo della Fenomenologia e che esprimono una
cultura, la cultura dell’uomo moderno che, in particolare, ha vissuto l’esperienza della rivoluzione francese. […]
l’uomo greco vive libero nella sua città, […]. Tuttavia questa quiete etica viene presto turbata, perché fattori
inconsci si risvegliano e la mettono in crisi. L’Antigone sofoclea rappresenta eminentemente questa lacerazione
[…]. Ha inizio la grande scissione, la grande avventura dello spirito, il cui senso è ricostituire l’unità […].
All’interno di questa avventura ha un ruolo essenziale il mondo della ricchezza, il mondo dell’avere, del valore di
scambio, del danaro. Questo mondo è definibile come mondo dell’intelletto […]. Ora mentre il sapere assoluto
disaliena l’individuo rendendolo pienamente cosciente di sé, la realtà storica a esso corrispondente, in sostanza
lo Stato moderno, non supera il problema della ricchezza. La cultura dell’uomo moderno, la cultura hegeliana

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che ha avuto ragione delle filosofie della riflessione (questa è almeno la sua persuasione), è in grado di
comprendere la logica della ricchezza, ma non di dominarla realmente. Una situazione che potrebbe ricordare
l’illusione trascendentale di Kant. Ma risolvere questo problema, risolvere in generale i problemi politici, non è
compito del filosofo, almeno non è compito del filosofo hegeliano, a cui spetta conoscere e non cangiare il
[24]
mondo. Cangiare il mondo è compito dell’uomo d’azione.»
Prendiamo le mosse da questa breve citazione proprio per introdurre l’ultimo paragrafo del presente lavoro.
Il nostro intento è quello di presentare le lezioni di Jena come una sorta di fenomenologia dello spirito, certo
diversa da quella del 1807 pubblicata da Hegel, in ogni caso anch’essa da considerarsi come il racconto post
festum della “grande avventura” dello spirito, cioè in sostanza della cultura dell’uomo moderno. Un racconto il
cui punto di vista non coincide certo con il già vissuto dalla coscienza. Una sorta di autobiografia dello spirito, in
cui il soggetto che ha operato, e che solo poi si racconta, è però sempre lo stesso; cambia solo il punto di vista.
Questo lungo cammino, si è visto, ha alle sue spalle una preistoria dello spirito; una sorta di stato di
semicoscienza dello spirito o una dimensione in cui prevale su di esso l’elemento naturale e inconscio ovvero una
identità immediata tra spirito e natura, l’antropologia dello spirito.
Lo spirito in quanto tale presuppone invece ch’esso sia sveglio e cioè si renda autonomo dalla natura, per ciò
che riguarda appunto l’elemento della coscienza. Tutto ciò per Hegel costituisce un fattore di emancipazione e di
uscita dell’uomo da condizioni di minorità; nel corso di questa lunga e accidentata storia di emancipazione,
determinante e decisiva è la potenza del mezzo (linguaggio, strumento, possesso), con il quale l’uomo distingue
di volta in volta sé, come coscienza, da ciò che coscienza non è in alcun modo o che impedisce che coscienza vi
sia. Altrettanto determinate e decisiva è poi la consapevolezza del principio dell’individualità che l’essere umano
acquisisce in comunità: eminentemente, abbiamo visto, in età moderna, nello Stato moderno o nello spirito dei
popoli moderni.
Detto questo, però, proprio per ciò che riguarda la potenza dello strumento, e cioè per ciò che riguarda,
potremmo dire, l’aspetto pratico e poi più propriamente etico dell’emancipazione coscienziale, secondo Hegel vi
sono o si ripropongono delle forti e irriducibili resistenze, che impediscono una piena spiritualizzazione del
mondo dell’uomo.

α) la divisione del lavoro [ die Vereinzelung der Arbeit] accresce la quantità del prodotto; […] β) Il lavoro diventa sempre
più assolutamente morto [todter], diventa lavoro-di-macchina, l’abilità del singolo diventa sempre più infinitamente limitata e la
coscienza degli operai di fabbrica viene degradata fino all’estrema ottusità; γ) e la connessione del singolo tipo di lavoro con
l’infinita massa dei bisogni nel suo insieme diventa del tutto inafferrabile, e diventa una dipendenza cieca [blinde Abhängigkeit]
[…]. Il bisogno e il lavoro, sollevati a questa universalità, formano così per sé, in un grande popolo, un immenso sistema di
comunanza [System von Gemeinschafftlichkeit ] e di dipendenza reciproca; una vita del morto moventesi in sé, che nel suo
movimento si muove di qua e di là ciecamente e in modo elementare, e come un animale selvatico [als ein wildes Thier] ha
[25]
bisogno di un continuo e rigido domino e addomesticamento .

L’universale [Das Allgemeine] è α) pura necessità rispetto al singolo lavoratore; questo ha la sua inconscia esistenza
nell’universale, la società è la sua natura [die Gesellschafft ist seine Natur], dal cui movimento elementare, cieco egli dipende,
che spiritualmente e fisicamente lo conserva oppure lo sopprime [aufhebt]. […] Una quantità di gente viene quindi condannata
ai lavori di fabbrica e di manifattura, ai lavori delle miniere, e così via; lavori che ottundono completamente […] e tutta questa
quantità di gente è abbandonata alla miseria, che in nessun modo può trovare rimedio. Compare l’opposizione della grande
ricchezza e della grande miseria […] a chi già ha, a questo vien dato. […] Questa ineguaglianza di ricchezza e miseria, questo
bisogno e questa necessità [diese Noth und Nothwendigkeit] diventano la più alta scissione della volontà [die höchste
[26]
Zerrissenheit des Willens]― interna ribellione e odio .

Ci troviamo nel mondo della ricchezza, dell’economia politica classica con le sue leggi, ci troviamo,
letteralmente, nel mondo del lavoro smithianamente inteso da Hegel. Il riferimento alla Ricchezza delle Nazioni
[27]
di Adam Smith è esplicito e assai lungo nel testo . Non peregrino il riferimento e l’analogia del testo di Jena
con il fenomeno della plebe della Filosofia del diritto del 1821; ma anche con l’estraneazione del mondo della
ricchezza nella Fenomenologia dello spirito (VI capitolo), con la figura del nipote di Rameau, l’intellettuale plebeo
e il suo linguaggio della disgregatezza. Da notare come il problema della plebe e quello dell’estraneazione
rimangano insoluti, non perché Hegel non voglia, ma piuttosto perché ritiene di non poterli risolvere. Così anche
per la «bestia selvaggia» di Jena.
L’età moderna presenta delle fratture, dei punti critici; la moderna eticità, lo Stato moderno, non sono esenti
da problemi che ne affliggono l’interna razionalità. Vi sono delle difficoltà che rendono la società e lo Stato
moderni per certi aspetti essenzialmente incoerenti; inoltre, questi aspetti, introducono irrazionalità e soprattutto
violenza in un contesto che dovrebbe invece averle escluse definitivamente. Una seconda natura si erge di fronte
allo spirito; e non si presenta certo come natura amica, sebbene sia opera dell’uomo stesso. È questa o sembra
essere questa l’inquietudine che affligge la coscienza dei popoli moderni. E questo sembra essere il nervo
scoperto (scoperto anche da Hegel) della cosiddetta modernità.
Vogliamo concludere – senza alcuna pretesa di esaustività – rimandando al testo di un autore, Eric Weil, il
quale si è occupato di Hegel e specificamente del problema che Hegel ha individuato e così lucidamente, a
nostro parere, esposto fin dagli anni di Jena, ma poi, senza sostanziali modifiche, anche nella Filosofia del diritto
del 1821. Il brano di Weil si presenta come commento alle parole hegeliane della Filosofia del diritto del 1821.

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L’interpretazione weiliana dello Stato hegeliano è tale che ci permette di concludere questo nostro intervento
sottolineando la piena modernità dello Stato descritto da Hegel; lo Stato hegeliano è moderno proprio perché
messo in crisi da fattori generati in seno alla moderna società. Il testo di Weil apre così una linea interpretativa,
da noi condivisa, che si libera decisamente di numerosi pregiudizi che hanno spesso accompagnato, senza per
altro aiutarci nella comprensione, la lettura dei testi hegeliani: lo statalismo di Hegel, la fine o la chiusura della
storia da lui arbitrariamente operata, il logicismo applicato come dall’alto a una realtà ad esso estranea, ecc. Ma
leggiamo Weil.
«Ciò che preoccupa Hegel, è prima di tutto l’apparire di questa folla, di questa massa, di questa plebe che
conserva nei riguardi dello Stato il punto di vista del negativo, […] una opposizione […] al fondamento stesso
dello Stato. Ora, ed è questo il punto decisivo, la società produce necessariamente questa plebe. […] “Di contro
alla natura, nessuno può affermare un diritto. Ma nello stato sociale, ogni difetto assume subito la forma di un
torto […].” Giungiamo qui al centro della concezione hegeliana dello Stato: questo torto, commesso dalla società
costituita in pseudo-natura (in necessità inconsapevole), che crea la negatività della plebe, non può essere
riparato dalla società, appunto perché essa non ha voluto questo torto: in quanto pseudo-natura, essa non
vuole, non può volere; perché – ed è la stessa cosa – è senza ragione. […] Della questione inevitabile che si
interroga sul da farsi Hegel non si è interessato: non era un economista e nemmeno uomo politico; voleva
parlare di ciò che è e di ciò che era possibile (o impossibile). Ma tale ricerca ha prodotto risultati che vanno
lontano. […] La guarigione verrà, […] certamente attraverso guerre, […]. Essa verrà anche mediante lo Stato
[…] dacché, se è insufficiente, esso è e resta la verità dell’epoca. […] Lo Stato hegeliano muore: prova ne è che
la filosofia hegeliana dello Stato è stata possibile. […] “Per dire ancora una parola su questo modo di dare
ricette (indicanti) come deve essere il mondo, la filosofia, in ogni caso, arriva sempre troppo tardi. Pensiero del
mondo, essa appare soltanto all’epoca in cui la realtà (Wirklichkeit) ha ultimato il suo processo di formazione e
si è compiuta. […] Quando la filosofia dipinge grigio su grigio, una forma della vita è invecchiata e non si lascia
ringiovanire dal grigio sul grigio; essa si lascia solo conoscere; l’uccello di Minerva non prende il suo volo che al
[28]
calar della notte”. Una forma della vita è invecchiata.»

4. Riflessioni a margine

Si aprono ulteriori questioni interpretative che investono innanzitutto il rapporto fra la Filosofia del diritto (o,
se si vuole, le filosofie del diritto) e la concezione hegeliana della storia e della storia del mondo (con riferimenti
alla ‘mondialità’ come l’autentico stato di natura e quindi alla «guerra» e al Kant della pace perpetua); non da
escludere anche la questione se il problema della plebe possa avere una rilevanza specificamente morale
(sempre con opportuni riferimenti al soggetto morale di Kant); poi, la questione dell’inconscio, legato sempre in
Hegel al naturale e all’uomo prefenomenologico o dell’antropologia. Insieme a tutto questo, la considerazione di
come esattamente Hegel abbia restituito nei suoi testi l’eticità e il mondo dell’eticità, proprio in quanto seconda
natura. Infine, ma non al margine, si apre la questione del genere, inteso proprio aristotelicamente, come
continua produzione degli esseri della medesima specie: la riproduzione del genere umano non sembra essere
pienamente garantita dalla società e dallo Stato moderni, stando almeno a come Hegel ce li ha voluti
presentare.
Potremmo, qui solo schematicamente, rinviare ad alcuni luoghi hegeliani che più ci indirizzano verso tali temi,
da approfondire però in altra sede. Procediamo per punti.
1) il sorgere del fenomeno economico-politico della plebe nei Lineamenti (1821) si presenta problematico in
quanto potenzialmente sovversivo dell’ordinamento politico in cui Hegel viene a collocarlo – la monarchia
ereditario-costituzionale e il sistema costituzionale per ordini (Stände)
2) la soluzione o il tentativo di soluzione che Hegel prospetta si risolve in una serie di misure di politica
economica al dunque fallimentari: la carità, l’aumento dell’occasione di lavoro, la colonizzazione
3) la colonizzazione, nella fattispecie, rinvia il problema, proprio a detta di Hegel, in altre regioni del mondo
(incombe il “cattivo infinito” in termini logici), ma soprattutto rinvia il problema, a nostro parere, in un quadro di
rapporti internazionali che vede l’esercizio delle singole sovranità nazionali potenzialmente, o meglio
irreparabilmente conflittuale (la critica alla pace perpetua e al contratto di Kant)
4) non è un caso che Hegel consideri lo “stato di natura” nozione appropriata per descrivere lo scenario
politico internazionale e non quello nazionale: la storia del mondo è tribunale supremo per i singoli Stati e per i
singoli popoli, è un mattatoio, in cui, soprattutto con la violenza ossia con la guerra, si decide il destino del
singolo stato
5) in questo senso, con la colonizzazione, il problema dell’antagonismo sociale interno viene, per così dire,
proiettato in un quadro mondiale che, invece di risolvere, diremmo che complica il fenomeno economico-politico
della plebe
[29]
6) d’altra parte, il punto di vista della plebe è quello di covare odio e rancore ovvero, come Hegel dirà nei
Lineamenti, essa ha il «sentimento [Gefühl] del proprio torto» ma non il pensiero o la coscienza di esso
7) in altre parole, la plebe dei Lineamenti (o il lavoratore degli scritti di Jena) non sorge in un contesto di
riconoscimento operante (non vi sono istituzioni politiche che possano riconoscerla, ed è perciò sovversiva); ma,

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anche dal punto di vista ‘sociologico’, essa rappresenta forze inconsce, inconsapevoli e cieche, ovvero il moderno
mondo della ricchezza (pensiamo alla divisione del lavoro smithiana e alla mano invisibile), che, dal punto di
vista hegeliano, produce realtà quantitativamente progredite, nelle quali però viene a mancare lo spirito ossia
l’intersoggettività: realtà patologiche, esattamente come quelle descritte da Hegel nell’Antropologia sistematica,
dove, in sostanza, manca il linguaggio, il Dasein dello spirito, l’intersoggettività-riconoscimento-alterità
8) allora, si potrebbe pensare a una persistenza o pervasività delle questioni etiche e morali in Hegel con
riferimento alla problematica nozione di Gattung, che, in effetti, non ha garantita piena sussistenza né in un
quadro nazionale (la plebe è riprodotta come irriproducibile) né mondiale (il genere umano non è il soggetto
della storia del mondo, lo è piuttosto il conflitto fra nazioni)
9) in questo senso, si potrebbe pensare, ma qui solo lo accenniamo, a un Hegel che non intende ‘conciliare’ o
conchiudere eticamente o politicamente la storia; viceversa, l’età moderna presenta fratture etiche e morali
talmente insanabili, le quali, proprio perciò, rendono urgente una riflessione filosofica totalmente aperta.

[1]
G.W.F. HEGEL, Jenaer Systementwürfe I, Philosophie des Geistes, hrsg. v. K. Düsing u. H. Kimmerle, Hamburg 1975 (ID.,
Gesammelte Werke, Bd. 6, pp. 265-331); ID., Jenaer Systementwürfe III, Philosophie des Geistes, hrsg. v. R.-P. Horstmann unter
Mitarbeit v. J. H. Trede, Hamburg 1976 (ID., Gesammelte Werke, Bd. 8, pp. 185-287). Trad. it.: G.W.F. HEGEL, Filosofia dello
spirito jenese, a c. di G. Cantillo, Laterza, Roma-Bari 1984. Prendiamo qui in esame alcuni passi delle lezioni tenute da Hegel a
Jena tra il 1803-04 e il 1805-06. Ricordiamo Rosenkranz: “Hegel si lasciò convincere ad andare subito da Francoforte a Jena. In
questa città il fermento letterario vero e proprio era ormai terminato. […] Ma l’animazione era cresciuta. […] Per un’esatta
concezione del rapporto fra Hegel in veste di docente e Schelling, sarà opportuno indicare quali lezioni siano state tenute da
Schelling nel periodo in cui viveva a Jena assieme a Hegel.” (K. ROSENKRANZ, Hegels Leben, Berlin 1844; trad. it.: ID., Vita di
Hegel , a c. di R. Bodei, Vallecchi Editore, Firenze 1966, pp. 165 e sgg.). Comprendiamo quanto sia densa e complessa l’attività
hegeliana di docente a Jena: il rapporto con Schelling forse è la cifra che segna tutto il soggiorno di Hegel in quella città e che
potrebbe costituire il filo conduttore della sua produzione filosofica jenese, fino alla Prefazione del 1807. Ma noi in questa sede
vorremmo piuttosto dedicarci all’analisi dei testi sopraindicati, rimandando però il lettore a due testi che ci paiono quanto mai
utili per la comprensione testuale e bibliografica della produzione hegeliana giovanile e jenese: F. CHIEREGHIN, Dialettica
dell’assoluto e ontologia della soggettività in Hegel. Dall’ideale giovanile alla «Fenomenologia dello spirito», Verifiche, Trento
1980; R. FINELLI, Mito e critica delle forme. La giovinezza di Hegel 1770-1801, Editori Riuniti, Roma 1996. Per le citazioni
hegeliane indicheremo prima la pagina del testo tedesco con il riferimento al volume delle GW e poi, dopo il punto e virgola,
quella della traduzione in italiano.
[2]
G.W.F. HEGEL, Op. cit., Bd. 8, p.252n; p. 140.
[3]
Ivi , Bd. 6, p. 317; p. 54.
[4]
Ivi , Bd. 6, p. 266; p. 4.
[5]
Ibidem.
[6]
Ivi , Bd. 6, p. 273; p. 11.
[7]
Ivi , Bd. 6, p. 274; p. 12.
[8]
Ivi , Bd. 6, p. 275; p. 13.
[9]
Ivi , Bd. 6, 276; p. 14.
[10]
Ivi , Bd. 8, p. 187; p.71.
[11]
Ivi , Bd. 8, p. 287; p. 174.
[12]
Ibidem. Facciamo qui solo un breve accenno, senza poter entrare nel merito, a un testo di utile e preziosa lettura: F. LI
VIGNI, La dialettica dell’etico. Lessico ragionato della filosofia etico-politica hegeliana nel periodo di Jena, Guerini, Milano 1992.
L’autrice ci inserisce mirabilmente in una parte della produzione hegeliana a Jena restituendoci la dinamica lessicale e
concettuale dei testi hegeliani (non solo le lezioni jenesi sulla filosofia dello spirito ma anche il Naturrechtsaufsatz e il System
der Sittlichkeit), sulla cui base poi verrà sviluppata la tematica etico-politica, sia nella Fenomenologia dello spirito (il VI capitolo
soprattutto) sia nella Filosofia del diritto (1821), per ciò che riguarda, appunto, i temi e i problemi etico-politici
(linguaggio/riconoscimento, lavoro, famiglia, diritto, eticità, ecc.). Convinzione dell’autrice è che vi sia una forte differenza fra la
prospettiva indicata da Hegel nel primo corso di lezioni (1803-04) e quella invece sviluppata nel secondo corso (1805-06). In
sostanza, nel primo corso, Hegel introdurrebbe la nozione del «per noi», il punto di vista proprio dello spirito, che si distingue e
non si amalgama al punto di vista propriamente fenomenologico, cioè al cammino della coscienza, la quale vive e supera le
scissioni (fra soggetto e oggetto, singolare e universale, ecc.) costituendosi come medio di esse. In ogni caso, la consapevolezza
filosofica dell’intero o della conciliazione non sarebbe la sua specifica prospettiva. Nel secondo corso, invece, Hegel
abbandonerebbe, secondo l’autrice, proprio la prospettiva fenomenologica, per approdare a un atteggiamento propriamente
idealistico (che ricorda più l’Enciclopedia che la Fenomenologia del 1807), rivolto a seguire il rapporto e quindi l’evoluzione dello
spirito chiuso in se stesso. Cadrebbe, con ciò, l’elemento del medio o della coscienza come medio e si avrebbe invece una
dimensione coscienziale di esteriorizzazione, di oggettivazione dell’io nella cosa. Tutto questo viene presentato come problema,
considerato poi il fatto che, secondo l’autrice, in riferimento proprio a dinamiche etiche ed etico-politiche, le soluzioni hegeliane
non sarebbero pienamente soddisfacenti (la rappresentanza cetuale ad esempio non convince). Noi ci proponiamo di
approfondire in altra sede eventuali nostre divergenze di lettura, sia a proposito del «per noi» sia della concezione hegeliana
degli Stände. In ogni caso, vorremmo solo far notare qui come vi sia da parte di Hegel, in entrambi i corsi, la esplicita
consapevolezza che nel mondo della natura ed anche in quello dello spirito, permangano, nonostante tutto, dei residui di
incoscienza, di singolarità inconciliata con l’universale, di cieco automatismo, di accidentalità, ecc. Non vedremmo cioè, nella
razionalità hegeliana, la pretesa di far tornare i conti a tutti i costi. Una prova, forse, potrebbe proprio consistere nel modo in
cui Hegel recepisce, studia e fa studiare ai suoi studenti l’economia politica classica; una seconda natura, il mondo della
ricchezza, una natura selvaggia, indomita e indomabile da parte della ragione. Ma di questo più avanti.

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[13]
Nella Antropologia, più tardi, Hegel parlerà di anima, anima del mondo e anima individuale. Ebbene, potremmo qui forse
solo indicare la stretta analogia che sussiste fra l’anima e l’inconscio, la notte, il sonno-sogno dello spirito, la notte del mondo.
È una condizione pre-fenomenologica, pre-istorica, “infima” della coscienza come si dirà nella Logica, anche patologica. Manca il
lόgos, e cioè proprio il linguaggio. Manca l’uomo concreto con i suoi bisogni socialmente determinati. Manca infine l’ethos.
Eppure, anche in questa sfera immediata dello spirito noi possiamo parlare di ánthropos e cioè possiamo considerare in modo
assoluto – cioè con la speculazione e non con l’intelletto – la vita dell’uomo immerso nella dimensione naturale. Per questo
tema rimandiamo a F. CHIEREGHIN, L’Antropologia come scienza filosofica in: AA.VV., Filosofia e scienze filosofiche
nell’«Enciclopedia» hegeliana del 1817, a cura di F. Chiereghin, Quaderni di verifiche 6, Trento 1995, pp.429-454; per la
specifica logica sottesa alla nozione di anima, che ci riporta al Cominciamento della «Scienza della logica», rimandiamo a F.
VALENTINI, Le prime categorie della «Logica», in ID., Soluzioni hegeliane, Guerini e Associati, Milano 2001, pp. 143-157; F.
CHIEREGHIN, Principio e inizio in Hegel , in AA.VV., Hegel contemporaneo La ricezione americana di Hegel a confronto con la
tradizione europea, a cura di L. Ruggiu e I. Testa, Guerini e Associati, Milano 2003, pp. 523-543.
[14]
G. W. F. HEGEL, Op. cit., Bd. 6, pp. 270-271; p. 9.
[15]
Citiamo un testo di F. Chiereghin estremamente significativo in proposito: “Si comprende allora l’importanza decisiva che
acquista per Hegel il grande dibattito sulla filosofia della natura che si accende tra la fine del ’700 e gli inizi del 1800 nella
cultura filosofica tedesca. La filosofia della natura viene solitamente considerata come episodio storiograficamente rilevante
molto più in Schelling, in quanto occasione della rottura con Fichte, che in Hegel, dove viene fatta apparire come l’eredità
schellinghiana meno felice e più artificiosa trapassata nel sistema. L’insistenza hegeliana sul tema della filosofia della natura a
Jena aiuta invece a togliere quel dibattito dalla sua apparente esotericità e a restituirgli, al di là del suo rilievo meramente
culturale, un ruolo eminente per una corretta impostazione dell’analisi della realtà sociale.” (F. CHIEREGHIN, Dialettica
dell’assoluto, cit., pp. 63-64). L’estrema rilevanza teoretica, oltre che storiografica, di come Hegel in modo del tutto originale
abbia considerato il mondo della natura fin dagli anni di Jena ritorna nel testo sopraccitato di R. Finelli, alle pp. 267 e sgg. Vi
sono in effetti almeno due luoghi delle lezioni jenesi sullo spirito, concernenti la natura, che meritano di essere citati e
sottolineati. Da una parte abbiamo il riferimento al cieco fare della natura trasformato in un fare conforme a un fine dal lavoro
dell’uomo e, di conseguenza, la riconsiderazione della natura come natura umanizzata (universalizzata dalla mano dell’uomo),
senza nessuna concessione a note sentimentalistiche, romantiche, mistico-esoteriche: “Un singolo pollo – la sua esistenza
razionale consiste nel fatto che esso viene allevato e mangiato. Vento, corrente impetuosa, oceano possente, domato, solcato.
Non c’è da far complimenti con esso – misero sentimentalismo che si attiene al singolo”.(G.W.F. HEGEL, Op. cit., Bd. 8, p. 207;
p. 91n). Dall’altra la considerazione dello stato di natura come di un’indebita trasposizione di piani che confonde l’esserci
dell’uomo con il suo concetto: “Il diritto implica la pura persona, il puro essere-riconosciuto. Gli individui non sono così nello
stato-di-natura, bensì immersi nell’esserci. ― Trattandosi dell’uomo, egli è così nel suo concetto, ma nello stato-di-natura egli
non è nel suo concetto, bensì, in quanto essere-naturale, nel suo esserci . La questione si contraddice immediatamente: io
considero l’uomo nel suo concetto, non nello stato-di-natura. […] Il problema si pone così: che cosa è diritto e che cosa è
dovere per l’individuo nello stato-di-natura?” (G.W.F. HEGEL, Op. cit., Bd. 8, p. 214; p. 98n e p. 99). In sostanza, ritiene Hegel, la
nozione di stato di natura è a-concettuale; non ci spiega né l’individualità specificamente umana (l’uomo concreto, immerso nel
suo sistema di bisogni, dirà poi nel 1821), né il riconoscimento interpersonale, solamente il quale fonda il concetto e l’esistenza
del diritto. In ogni caso, lo stato-di-natura per Hegel non può spiegare o fondare nulla di giuridico: all’origine del diritto vi è sì
violenza, offesa, offesa mortale, ma non tra singoli irrelati, ma tra uomini, e cioè tra individui che, ricordando Aristotele, sono
politici per natura. Ma su tutto questo rimandiamo a G. DUSO, La critica hegeliana del giusnaturalismo nel periodo di Jena, in:
AAVV (a c. di G. Duso), Il contratto sociale nella filosofia politica moderna, il Mulino, Bologna 1987, pp. 311-362.
[16]
G.W.F. HEGEL, Op. cit., Bd. 6, p. 277; p. 16.
[17]
Ibidem.
[18]
Ivi , Bd.6, pp. 315 e sgg. ; pp. 52 e sgg.
[19]
Non tralasciamo la celebre, e oggi assai rivalutata, «lotta per il riconoscimento» [Der Kampf um Anerkennung] di cui Hegel
parla a lungo sia nel primo che nel secondo corso di lezioni. Essa si inserisce in un contesto giuridico di uscita dell’uomo dallo
stato di natura; dove l’individuo è il membro familiare, legato a un possesso materiale e fortemente intenzionato ad essere
riconosciuto dagli altri come singolo in quanto tale. “Nel riconoscere il Sé cessa di essere questo singolo Sé […] e questo
movimento toglie appunto il suo stato-di-natura […].” (G. W. F. HEGEL, Op. cit., Bd. 8, p. 215; pp. 99-100). È una dimensione di
intersoggettività dialogica e di azione; sebbene la dinamica della lotta riproponga il pericolo di una ricaduta o di una mancata
uscita dallo stato di natura. In altri termini, con il riconoscimento, abbiamo a che fare con la specificità dell’individualità umana
immersa nella comunità. Potrebbe essere, l’Anerkennung, considerata anche come una dimensione trascendentale dello spirito,
della coscienza morale; in ogni caso, corrispondente ad esperienze molto precise della storia dell’uomo. Certamente si presenta
come l’esperienza decisiva e assoluta di fronte a cui si trova la coscienza individuale dell’essere umano; una scelta di vita o di
morte; una contraddizione dell’agire in cui si imbatte l’individualismo esasperato. Se poi ci riferiamo alla Fenomenologia dello
spirito (1807), vediamo che in modo eminente l’età moderna sarà segnata da significative esperienze di riconoscimenti (anche
mancati), che porteranno alla dimensione dello spirito assoluto (assoluta intersoggettività). “Questo riconoscimento della
singolarità della totalità porta dunque con sé il nulla della morte. Ognuno deve sapere dall’altro se egli sia una coscienza
assoluta […]egli deve offenderlo, ed ognuno può sapere dall’altro se egli sia una totalità soltanto in quanto lo spinge fino alla
morte; ed altrettanto ognuno si mostra come totalità per sé soltanto in quanto si spinge egli stesso fino alla morte. […] Questo
riconoscimento dei singoli è quindi in se stesso una contraddizione assoluta; il riconoscimento non è che l’essere della coscienza
come una totalità in un’altra coscienza, ma, in quanto la coscienza come totalità diviene reale, essa toglie l’altra coscienza, e
con ciò toglie il riconoscimento stesso; questo non si realizza, ma piuttosto cessa di essere proprio in quanto è. Eppure la
coscienza è soltanto in quanto un essere-riconosciuto da un altro e nello stesso tempo è coscienza solo in quanto assoluto uno
numerico e come tale deve essere riconosciuta; ciò significa che essa deve volgersi alla morte dell’altro e alla sua propria
morte […].” (G.W.F. HEGEL, Op. cit., Bd. 6, pp. 311 e sgg.; pp. 49 e sgg.). Si apre evidentemente su ciò un problema di effettiva
realizzazione del riconoscimento, oltre che di corretta interpretazione dei testi hegeliani (il riconoscimento come
intersoggettività morale o come stato di natura e di violenza). In questa sede vogliamo solo sottolineare come certamente per
Hegel l’esito della lotta per il riconoscimento nella morte non appare soddisfacente; sarebbe una negazione assoluta (una
condizione pre-giuridica che semmai corrisponde proprio allo stato di natura), un annullamento che, a stretto rigore, non
corrisponde nemmeno alla realtà storica dei tempi moderni, dove, invece, ciò che sembra prevalere è piuttosto la negazione
determinata (la negazione che tesaurizza il negato). Tutto ciò in ogni caso qui, nelle lezioni jenesi prese in esame, dà luogo alla
mediazione universale dell’opera etica dello spirito di un popolo, dove l’individuo diventa persona. “Questa volontà consapevole è
ora la volontà universale. Essa è l’essere-riconosciuto; opposta a sé nella forma della universalità, essa è l’essere, realtà in
generale, e il singolo, il soggetto è la persona. La volontà del singolo è la volontà universale, e l’universale è la volontà singola

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― eticità in generale, ma immediatamente diritto.” (G.W.F. HEGEL, Op. cit., Bd. 8, p. 221-222; pp. 106-07). Sul tema del
riconoscimento rimandiamo segnatamente a L. SIEP, Anerkennung als Prinzip der praktischen Philosophie. Untersuchungen zu
Hegels Jenaer Philosophie des Geistes, Albert Verlag, Freiburg-München 1979 e ID., L’individualità nella Fenomenologia dello
spirito di Hegel , in AA.VV., Individuo e modernità Saggi sulla filosofia di Hegel , a c. di M. D’Abbiero e P. Vinci, Guerini e
Associati, Milano 1995, pp. 43-62. Segnaliamo anche il saggio di R. R. WILLIAMS, Forme mancate di intersoggettività nella
concezione hegeliana della coscienza nella Fenomenologia dello spirito, in AA.VV., Hegel contemporaneo La ricezione americana
di Hegel a confronto con la tradizione europea, a c. di L. Ruggiu e I. Testa, Guerini e Associati, Milano 2003, pp. 563-586. Sul
tema dell’Anerkennung, e più in generale sul tema dell’agire dell’uomo inevitabilmente inserito, secondo Hegel, in un contesto
intersoggettivo e contraddittorio dal punto di vista strettamente morale (con riferimenti precisi a Kant), rimandiamo a F.
VALENTINI, Soluzioni hegeliane, cit., alle pp. 61-98 e pp. 215-240. Ne citiamo un passo estremamente significativo: “Il punto di
approdo di questo processo, ossia l’oggettivazione di questa coscienza di sé dello spirito, è per Hegel il suo tempo, è lo Stato
moderno, nel quale non ha più luogo la virtù eroica, non vi ha più luogo la lotta per il riconoscimento, perché il
riconoscimento reciproco vi è operante. […] Ma ricordiamo l’aggiunta al § 432 dell’Enciclopedia dove Hegel dice che la lotta per
il riconoscimento può aver luogo soltanto «nello stato di natura, dove gli uomini sono soltanto come singoli » e che questa lotta
non si ha nella società civile e nello stato «perché qui quel che costituisce il risultato di tale lotta, ossia l’essere riconosciuto,
è già presente.» […]”. (F. VALENTINI, cit., p. 227 e p. 227n). Si sottolinea in sostanza che un conto è la lotta per il
riconoscimento e un altro conto è il riconoscimento realizzato. Sono due situazioni diverse: la violenza dello stato di natura (il
singolo come tale) e la razionalità dello stato di diritto dove propriamente alberga lo spirito (la persona).
[20]
G.W.F. HEGEL, Op. cit., Bd. 8, p.257; p. 144n.
[21]
Sul concetto di opera o di operare (Tun) in Hegel, si rimanda a G. V. DI TOMMASO, Il concetto di operare umano nel
pensiero jenese di Hegel , Zonno, Bari 1980.
[22]
G.W.F. HEGEL, Op. cit., Bd. 8, p. 255; pp. 142-143.
[23]
Qui, come poi anche nella Filosofia del diritto del 1821, lo Stato hegeliano è propriamente una monarchia ereditaria che
funziona esattamente, attraverso la mediazione degli Stände, come una monarchia costituzionale.
[24]
F. VALENTINI, Soluzioni hegeliane, cit., pp. 115-116.
[25]
G. W. F. HEGEL, Op. cit., Bd. 6, pp. 323 e sgg.; pp. 59 e sgg.
[26]
Ivi , Bd. 8, pp. 243 e sgg.; pp. 128 e sgg.
[27]
Cfr. G. W. F. HEGEL, Op. cit., Bd. 6, pp. 323 e sgg.; pp.59 e sgg.; Bd.8, pp. 225 e sgg.; pp. 110 e sgg. Il mondo della
ricchezza è comunque, per Hegel, un mondo di piena emancipazione per l’individuo. Perché è innanzitutto il mondo del lavoro, in
cui la “potenza dello strumento” emancipa l’uomo – e qui l’uomo è l’individuo borghese – dalla immediata naturalità del
soddisfacimento dei bisogni e dai rapporti di lavoro basati sulla dipendenza personale. Il lavoro e il lavoro borghese è un atto di
razionalità e di libertà. La classe dei mercanti è quella proba e progressiva; il denaro smaterializza i rapporti economici, li
spiritualizza. Ma appunto è un mondo inquieto, cioè inquieta lo spirito, perché ripropone allo spirito un’altra natura e più
precisamente una sorta di natura “cieca”, meccanicistica e ottusa, impermeabile alla ragione, non pienamente domabile, che
sfugge al controllo. Il mondo del denaro, della moneta sonante e della stessa organizzazione borghese del lavoro non si riesce
proprio a scuotere. Cioè a riformare – con misure di politica economica – o a sovvertire. La seconda natura dello spirito, quella
per così dire inquieta o il mondo della ricchezza, e cioè non lo Stato politico in quanto tale (la Costituzione, qui a Jena), è tale
proprio perché si autonomizza da chi pure l’ha prodotta, provocando danni all’intera comunità civile e statuale. Inoltre, si può
vedere qui come per Hegel la natura in genere (e anche la seconda natura o l’opera etica dello spirito) non sia un’entità altra
rispetto allo spirito. Natura e spirito sono piuttosto due situazioni diverse della medesima realtà. Certo i vocaboli sono distinti,
ma il processo è uno solo. Vi è uno stadio prespirituale in cui l’uomo primitivo è immerso, mentre l’uomo civilizzato si è
emancipato da questa dimensione. Da una parte abbiamo natura e spirito indistinti e cioè abbiamo uomo e mondo uniti in una
dimensione di identità immediata e inconscia; questa è la natura in quanto tale, all’interno della quale vi sono distinzioni di
piani, ma dove lo spirito è immerso senza godere di vita propria; non parla e non lavora. È una natura antropologica, non
spirituale. D’altra parte abbiamo lo sforzo dell’uomo di trascendere se stesso e quindi tale dimensione antropologica. Questo
trascendimento è propriamente lo spirito, la storia dell’uomo distinta dalla ‘storia’ della natura o dalla storia del mondo intesa
nella prima accezione. Dunque: natura e spirito, possiamo dire, sono la stessa realtà, sono però distinti grazie alla energia e
all’attività del secondo che, in quanto coscienza, distingue, distingue sé da sé, sé da altro da sé, ponendo e al contempo
superando la posta scissione.
[28]
E. WEIL, Hegel e lo Stato e altri scritti hegeliani , a c. di A. Burgio, Guerini, Milano 1988, pp.129 e sgg.
[29]
Cfr. HEGEL, Filosofia dello spirito jenese, trad. it., p. 58 e ss.; p. 129 e ss.

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