I castelli di Athlin e Dunbayne
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Ann Radcliffe
Ann Radcliffe (1765–1823) was an influential author of Gothic literature and one of the most popular writers of her era. In addition to The Mysteries of Udolpho, her six novels include The Italian and The Romance of the Forest.
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Anteprima del libro
I castelli di Athlin e Dunbayne - Ann Radcliffe
GEMME
Ann Radcliffe
I castelli di Athlin e Dunbayne
Titolo originale dell’opera:
The Castles of Athlin and Dunbayne
ISBN 978-88-9296-904-9
Traduzione: Giorgia Mattavelli
© 2023 Leone Editore, Milano
www.leoneeditore.it
I
Sulla costa nordorientale della Scozia, nella parte più romantica delle Highlands, si ergeva il castello di Athlin, costruito sulla sommità di una scogliera che emergeva dal mare. Era ammirabile per la sua antichità e la sua struttura gotica, ma ancor di più per le virtù dei suoi abitanti. Era la dimora dell’ancora bellissima vedova, e dei figli del nobile conte di Athlin, che era stato ucciso per mano di Malcolm, l’orgoglioso, dispotico e vendicativo barone di una terra vicina. Malcolm risiedeva ancora a qualche miglio dal castello di Athlin, in tutto lo sfarzo che il suo potere feudale gli concedeva. L’invasione del dominio di Athlin era stata il culmine dell’ostilità che sussisteva tra i due signori. Tra i loro clan c’erano stati frequenti scontri, da cui quello di Athlin era generalmente uscito vittorioso.
Malcolm, con l’orgoglio ferito dalla sconfitta del suo popolo, l’ambizione frenata dall’autorità di Athlin, e il potere del conte a rivaleggiare con la sua magnificenza, covò per lui quell’odio mortale che, in una mente altezzosa e sregolata come la sua, viene naturalmente stimolato quando non lo si fa sfogare, e decise di uccidere il conte. Pianificò tutto con la sua tipica prontezza e, in una battaglia a cui parteciparono tutti i capoclan in persona, escogitò con particolare sottigliezza di incastrare il conte, accompagnato da un piccolo manipolo di soldati, nei suoi inganni. Poi lo uccise. Ne derivò un fuggi fuggi generale del suo esercito, seguito da un terribile massacro; solo in pochi sopravvissero per raccontare l’orribile catastrofe a Matilda. La contessa, sopraffatta dalla notizia e ormai senza uomini sufficienti per vendicarsi, impedì che le vite dei pochi rimasti venissero sacrificate in un debole tentativo di rappresaglia, e fu costretta a sopportare in silenzio il suo dolore e le sue ferite.
Inconsolabile per la morte del marito, Matilda si era ritirata dalla vita pubblica nel suo castello, antico baluardo del governo feudale, e lì, circondata dal suo popolo e dalla sua famiglia, si era dedicata completamente all’educazione dei figli. Un figlio e una figlia erano tutto ciò che le era rimasto di cui prendersi cura, e le loro crescenti virtù promettevano di ripagare tutta la sua amorevolezza. Osbert aveva compiuto diciannove anni: la natura gli aveva donato una mente ardente e suscettibile, a cui l’educazione materna aveva aggiunto raffinatezza ed elasticità. Nella sua immaginazione brillavano sprazzi di una mente geniale, e il suo cuore, raffreddato dal tocco dello sconforto, risplendeva di tutto l’ardore della benevolenza.
Quando ci affacciamo al mondo per la prima volta e iniziamo a notare gli oggetti che ci circondano, la nostra giovane immaginazione intensifica ogni scena e il cuore mite si espande tutto intorno a essa. La felice benevolenza dei nostri sentimenti ci spinge a credere che tutti siano buoni, e ci chiediamo meravigliati perché nessuno sia felice. Ci infiammiamo di indignazione di fronte a un atto di ingiustizia, e ai vizi insensibili di cui ci viene narrato. Dinanzi a un racconto di sofferenza le nostre lacrime scorrono, come pieno tributo alla pietà. Davanti a un atto di virtù il nostro cuore si dispiega, la nostra anima si strugge, benediciamo l’azione e ci sentiamo noi i suoi esecutori. Mentre avanziamo nella vita, l’immaginazione è costretta a rinunciare a una parte del suo dolce delirio; a malincuore siamo condotti alla verità attraverso i sentieri dell’esperienza; e gli oggetti della nostra affettuosa attenzione vengono visti con occhio più severo. Ed ecco che appare una scena cambiata: volti corrucciati dove un tempo c’erano sorrisi, ombre scure dove c’era il sole; passioni meschine o disgustosa apatia macchiano i tratti dei principali soggetti in scena. Ci indigniamo per una prospettiva così miserabile, e corteggiamo di nuovo le dolci illusioni dei nostri primi giorni ma, ahimè, sono fuggite per sempre! Costretti, dunque, a vedere gli oggetti nella loro forma più autentica, la loro deformità ci risulta, gradualmente, meno dolorosa. Il fine tocco della suscettibilità morale diventa insensibile per la frequente irritazione, e ci mescoliamo con il mondo talmente spesso, che alla fine veniamo aggiunti al computo dei suoi adepti.
Mary, che aveva solo diciassette anni, aveva già raggiunto traguardi riservati a età più mature, ma con la commovente semplicità della giovinezza. L’eleganza della sua figura era inferiore soltanto a quella della sua intelligenza, che le illuminava il volto donandole un’espressione senza eguali.
Erano trascorsi ormai dodici anni dalla morte del conte e il tempo aveva smussato gli acuti spigoli della tristezza. Il dolore di Matilda era declinato in una gentile e non spiacevole malinconia, che conferiva un’aura interessante e delicata alla naturale solennità della sua persona. Fino ad allora si era dedicata esclusivamente a coltivare le virtù che la natura aveva piantato nei suoi figli con il suo tocco lieve, e che sotto l’influenza geniale del suo sguardo, erano fiorite trasformandosi in bellezza e forza. Nel suo cuore ora crescevano nuove speranze e premure: i suoi cari figli avevano raggiunto un’età pericolosa sia per la sua vulnerabilità sia per l’influenza che l’immaginazione genera sulle passioni in quel momento della vita. Presto si sarebbero formate le idee che avrebbero segnato per sempre il loro destino. L’ansiosa madre viveva solo per i figli, eppure aveva un altro motivo di preoccupazione.
Quando Osbert aveva appreso la storia della morte di suo padre, il suo giovane cuore si era acceso di desiderio di vendetta. Il defunto conte, che aveva governato con la vera solennità del potere, era adorato dalla sua gente; tutti erano bramosi di vendicarlo ma, oppressi dalla generosa benevolenza della contessa, soffocavano i loro mormorii nel silenzio. Eppure, continuavano a nutrire affettuosamente la speranza che il loro giovane Lord, un giorno, li avrebbe condotti alla vittoria e alla vendetta. Ora era arrivato il momento in cui iniziavano a vedere questa speranza, conforto di molti nei momenti difficili, diventare finalmente realtà. Le sue tenere paure di madre non avrebbero permesso a Matilda di rischiare le ultime consolazioni che le erano rimaste. Impedì a Osbert di essere coinvolto in tutto questo. Lui si sottomise in silenzio, e si sforzò di impegnarsi nei suoi studi, per reprimere la pulsione verso le armi. Eccelleva in tutte le attività in cui si dilettavano gli uomini del suo rango, ma in particolare nell’esercizio militare, poiché era adatto alla nobiltà del suo animo, e si compiaceva segretamente nel credere che un giorno questo l’avrebbe aiutato a vendicare la memoria del defunto padre. Il suo fervente intelletto lo indirizzava verso la poesia, e lui vi si lasciava trascinare. Amava vagare attraverso i romantici paesaggi delle Highlands, dove la natura selvaggia gli ispirava tutta la passione di quest’arte.
Le vedute angoscianti e imponenti lo compiacevano più di quelle calme e tranquille e, avvolto nelle vivide visioni della sua immaginazione, spesso si perdeva nella terribile solitudine.
Fu durante uno di questi vagabondaggi che, dopo aver deviato per alcune miglia sulle colline coperte di brughiera, che omaggiavano l’occhio con i vividi profili di una natura selvaggia, rocce accatastate su rocce, cascate e vaste lande inesplorate, Osbert smarrì il sentiero che lui stesso aveva tracciato; cercò invano qualche punto di riferimento e il suo cuore, per la prima volta, sentì la repulsione tipica della paura. Non si vedeva alcuna traccia di esseri umani, e il terribile silenzio del luogo era interrotto solo dal fragore dei torrenti lontani e dal gracchiare degli uccelli sopra la testa. Osbert gridò, e gli rispose soltanto l’eco profondo delle montagne. Rimase per qualche tempo in uno stato di silenzioso timore, non del tutto spiacevole, ma che presto si intensificò fino a diventare un terrore insopportabile; cercò di tornare indietro, disperato, e quasi senza più speranza. La sua memoria non gli restituiva alcuna immagine di com’era arrivato lì; dopo aver vagato per qualche tempo, arrivò a un valico stretto, che superò, sopraffatto dalla fatica e dalla ricerca infruttuosa: non era arrivato molto più avanti, quando un’inaspettata apertura tra le rocce gli palesò improvvisamente davanti agli occhi il luogo più meravigliosamente romantico che avesse mai visto. Era una valle quasi completamente circondata da una barriera di rocce selvagge, la cui base era ombreggiata da fitti boschi di pini e abeti. Un torrente, che scendeva dalle alture e si intravedeva tra gli alberi, correva con incredibile impetuosità fin dentro un piacevole laghetto che si estendeva attraverso la vallata e si perdeva nelle profonde gole delle montagne. Sul fondo pascolavano mandrie di bestiame, e gli occhi felici di Osbert furono benedetti dalla vista di abitazioni di uomini. Infatti, in lontananza, sulla sponda del torrente, erano sparsi dei cottage ben tenuti. Dinanzi a questa visione, il suo cuore si rallegrò così tanto che Osbert dimenticò di dover ancora ritrovare la strada che l’aveva condotto a quella valle paradisiaca. Era appena tornato a quest’angosciante realtà, quando la sua attenzione fu nuovamente catturata dalla figura virile di un giovane contadino delle Highlands, che avanzava verso di lui con aria benevola; dopo aver appreso la sua afflizione, si offrì di portarlo al suo cottage. Osbert accettò l’invito, e i due serpeggiarono giù dalla collina, attraverso un sentiero oscuro e intricato, insieme. Giunsero a uno dei cottage che il conte aveva osservato dall’alto; entrarono, e il contadino presentò l’ospite a un rispettabile, anziano uomo delle Highlands: suo padre. Una graziosa ragazzina portò a tavola cibo e bevande e Osbert, dopo essersi servito e aver riposato un po’, se ne andò, accompagnato da Alleyn, il giovane contadino, che si era offerto di fargli da guida. La lunghezza della camminata fu smorzata dalla conversazione. Osbert rimase affascinato nello scoprire nel compagno una certa solennità di pensiero, e un modo di percepire i sentimenti simile al suo. Mentre camminavano, passarono a una certa distanza dal castello di Dunbayne. Questa vista suscitò in Osbert un’amara riflessione, e gli provocò un sospiro profondo. Alleyn faceva delle osservazioni sulla politica d’oppressione dei signori, e portò come esempio il barone Malcolm. «Queste terre» disse «sono sue, e sono a malapena sufficienti a mantenere il suo popolo miserabile, che, schiacciato dalle tasse, è privo di cultura, tratti che altrimenti avrebbero reso ricchezze al loro signore. Il suo clan, oppresso da questi fardelli, minaccia di ribellarsi e farsi giustizia da solo con la forza delle armi. Il barone, con arroganza, ride della loro sfida ed è inconsapevole del pericolo; infatti, se dovesse esserci un’insurrezione, altri clan si unirebbero alla causa con entusiasmo per distruggerlo e ripagare quel tiranno e assassino con la sua stessa moneta.» Sorpreso dall’audacia di queste parole, pronunciate con un’energia fuori dal comune, il cuore di Osbert iniziò a battere forte e dalle sue labbra esplose un «Per la miseria! Mio padre!» Alleyn rimase inorridito, perplesso per l’effetto che il suo discorso aveva prodotto; poi, in un attimo, tutta la verità gli fu chiara: davanti a lui c’era il figlio del Lord che gli avevano sempre insegnato ad amare, e la cui triste storia gli era stata impressa nel cuore fin da bambino; si gettò ai suoi piedi e gli abbracciò le ginocchia con ardore romantico. Il giovane conte lo fece alzare, e le parole che seguirono, pronunciate da Alleyn, lo risvegliarono dal suo stupore, e fecero sì che i suoi occhi si riempissero di lacrime di gioia mista a dolore.
«Ci sono altri clan pronti come il vostro a vendicare i torti subiti dal nobile conte di Athlin: i Fitz-Henrys, per esempio, sono sempre stati caratterizzati da grande virtù.» Mentre parlava, sul volto del giovane si estese un bagliore di cosciente solennità, e i suoi occhi si animarono di orgoglio. La nobile causa infiammò il cuore di Osbert, ma l’immagine della madre in lacrime gli balenò in mente, e spense tutto il suo ardore. «Amico mio» disse lui «verrà il giorno in cui il vostro generoso entusiasmo sarà ricompensato con la giusta riconoscenza.» Il forte attaccamento di Alleyn per suo padre ritornò nelle profondità del suo cuore.
Quando raggiunsero il castello era già sera, e il conte ospitò Alleyn per la notte.
II
Il giorno seguente si sarebbe svolta la festa che il conte organizzava ogni anno per il suo popolo, e Osbert non poteva permettere che Alleyn partisse prima. La sala da ballo era piena di tavoli, danze e risate risuonavano in tutto il castello. Era tradizione che, quel giorno, la gente portasse con sé le armi, in perpetuo ricordo di quando, due secoli prima, un clan nemico aveva tentato di sorprenderli durante i festeggiamenti.
Al mattino si svolsero i tornei, cui tutti volevano partecipare per i premi onorari conferiti al vincitore. La contessa e l’amabile figlia guardavano dai bastioni del castello, le gare si svolgevano nella piana sottostante. La loro attenzione fu catturata, e la loro curiosità risvegliata, dalla presenza di uno straniero, che maneggiava la lancia e l’arco con una destrezza degna di qualsiasi premio di cavalleria. Era Alleyn. Ricevette la palma della vittoria, come da tradizione, dalle mani del conte, e l’umiltà con cui la accettò incantò tutti gli spettatori.
Il conte onorò la celebrazione con la sua presenza. Alla fine, tutti gli ospiti alzarono i calici con la mano sinistra, brandendo la spada con la destra, e bevvero alla memoria del loro defunto signore. Nella sala riecheggiò il brindisi generale. Osbert sentì nel cuore sete di guerra. La gente congiunse le mani e bevve in onore del figlio del suo ultimo signore. Osbert capì il segnale e fu sopraffatto dall’emozione: qualsiasi considerazione fatta in passato cedette al desiderio di vendicare suo padre. Si alzò in piedi e arringò il clan con tutto l’ardore della giovinezza e del suo orgoglio ferito. Mentre parlava, sui volti della gente si dipinse un bagliore di gioia impaziente; un sonoro mormorio di applausi attraversò l’assemblea e, quando si fermò, ogni uomo, incrociando la spada con quella del vicino in un sacro pegno d’unione, giurò che non avrebbe mai abbandonato la causa in cui ora si impegnava, finché la vita del nemico non avrebbe ripagato il debito di giustizia e vendetta.
Alla sera arrivarono al castello le mogli e le figlie dei contadini, per prendere parte alla festa. La contessa e le sue dame erano solite osservare le esibizioni di canto e danza dalla galleria, e un’antica usanza prevedeva che la figlia del signore onorasse la ricorrenza esibendosi in una danza tradizionale scozzese con il vincitore del torneo mattutino. Quel giorno il vincitore era stato Alleyn, che ora osservava la graziosa Mary entrare nella sala, accompagnata da Osbert, e venirgli presentata come sua compagna nella danza. La fanciulla accettò con grazia i suoi omaggi. Era vestita con il tradizionale abito delle Highlands e le sue belle trecce ramate, che le ondeggiavano sul collo, erano ornate solo da una ghirlanda di rose. Si muoveva sulle note della musica con i passi leggeri tipici delle Grazie. Durante la danza nella sala regnò un profondo silenzio, e solo alla sua conclusione si alzò il lieve mormorio di un applauso. L’ammirazione degli spettatori si divideva tra Mary e il vincitore straniero. Poi, lei si ritirò nella galleria, e la notte si concluse con gioia per tutti eccetto che per il conte e Alleyn; ma il motivo e la natura delle loro inquietudini erano fortemente diversi. La mente di Osbert riviveva i principali avvenimenti del giorno, e il suo animo ardeva dell’impazienza di portare a termine gli obiettivi della sua devozione di figlio; allo stesso tempo, temeva l’effetto che i suoi piani avrebbero sortito sul tenero cuore di Matilda: decise comunque che glieli avrebbe svelati il mattino seguente, e che dopo qualche giorno si sarebbe deciso a portare avanti la sua causa impugnando le armi.
Alleyn, il cui cuore fino ad allora aveva sofferto per il dolore altrui, iniziò a esser messo di fronte al proprio. La sua mente agitata e irrequieta gli presentava solo l’immagine della nobile Mary; cercava di respingere il pensiero di lei, ma si sforzava così debolmente che questo continuava a insinuarsi nel suo animo! Compiaciuto, ma triste, non avrebbe ammesso nemmeno a se stesso di amarla. Siamo così ingegnosi quando tentiamo di nascondere a noi stessi qualcosa che ci fa del male. Si alzò all’alba e lasciò il castello colmo di gratitudine e di amore segreto, per preparare i suoi compagni alla guerra imminente.
Il conte si svegliò da un sonno tormentato e raccolse tutta la sua forza d’animo per andare incontro alla tenera opposizione della madre. Entrò nei suoi appartamenti con passi vacillanti, il volto che tradiva le sue emozioni. Matilda fu presto informata di ciò che il suo cuore le aveva già preannunciato e, sopraffatta da un’orribile sensazione, si lasciò cadere priva di sensi sulla sedia. Osbert si precipitò in suo aiuto, e Mary e le domestiche la fecero tornare presto in sé e alla sua disgraziata condizione.
La mente di Osbert era lacerata dal più crudele dei dilemmi. Il senso del dovere di figlio, l’onore e la vendetta gli ordinavano di andare; l’amore di figlio, il rimorso e la compassione lo supplicavano di restare. Mary si gettò ai suoi piedi e, stringendogli le ginocchia con tutta l’energia del dolore, lo implorò di rinunciare al suo piano fatale, e di salvare così l’unico genitore che gli era rimasto. Le sue lacrime, i suoi singhiozzi, e la sua dolce innocenza erano anche più convincenti delle sue parole; tuttavia, niente era più straziante del dolore silenzioso della contessa. Mentre si sforzava di consolarla, Osbert fu sul punto di cedere, ma nella sua mente comparve l’immagine del padre in punto di morte, e questo segnò definitivamente la sua decisione. La sua ansia, tipica di una madre amorevole, mostrò a Matilda l’immagine del figlio sanguinante e spettrale, e lei rivisse la morte del marito con tutto il dolore angosciante che quel tragico evento le aveva impresso nel cuore, i cui tratti più duri erano stati leniti dalla clemente mano del tempo. È così bella la pietà, in tutti i suoi aspetti, che l’affetto ci spinge a credere di non poterla mai trasgredire, ma quando ostacola gli scopi di una virtù più forte diventa vizio. A infondere coraggio a Osbert per resistere all’influenza della madre erano delle convinzioni rigide, che alla fine lo spinsero alle armi. Convocò pochi uomini, tra i più abili e fidati del clan, e tenne un consiglio di guerra. Fu deciso che Malcolm avrebbe dovuto essere attaccato con il maggior numero di uomini possibile, e con la massima velocità che la meticolosa preparazione avrebbe consentito. Per evitare che il barone si insospettisse e si allarmasse, si accordarono affinché fosse comunicato che questi preparativi erano destinati a una missione di supporto al signore di un feudo lontano. Decisero che, quando sarebbero partiti per la spedizione, all’inizio sarebbero andati nella direzione opposta, ma che col favore delle tenebre avrebbero improvvisamente cambiato strada, virando verso il castello di Dunbayne.
Nel frattempo, Alleyn si impegnava a far appassionare i propri amici alla causa, con un successo tale che, in pochi giorni, ne reclutò un numero rilevante. Al caldo entusiasmo della virtù si era aggiunto un nuovo motivo per cui combattere. Non si trattava più soltanto del senso di attaccamento alla giustizia, che l’aveva inizialmente spinto all’azione. A dare ancora più forza a quel primo impulso di benevolenza era l’orgoglio di contraddistinguersi agli occhi della sua signora e di guadagnarsi la sua stima con i suoi zelanti sevizi. Il dolce pensiero di meritare la sua gratitudine smuoveva segretamente il suo animo, anche se lui ancora ignorava questa influenza. Si ripresentò al castello in questa condizione, e disse al conte che lui e i suoi compagni erano pronti a seguirlo non appena fosse stato dato il segnale. La sua offerta venne accettata con il caloroso rispetto che meritava, e gli fu comunicato di tenersi pronto all’attacco.
I preparativi vennero ultimati in pochi giorni, Alleyn e i suoi compagni vennero convocati, il clan radunato in armi e, con il giovane conte in testa, partì per la spedizione. Come andò la separazione tra Osbert e la sua famiglia lo si può facilmente immaginare; allo stesso modo, nonostante l’entusiasmo per la tanto attesa conquista, ad Alleyn non poté non scappare un sospiro, quando i suoi occhi si congedarono da Mary. La fanciulla, sulla terrazza del castello con la contessa, seguì con sguardo sofferente la marcia dell’amato fratello, finché non scomparve dalla sua vista; poi si voltò verso il castello, in lacrime, presagendo la futura disgrazia. Si sforzò, tuttavia, di assumere un’aria tranquilla, per ingannare le paure di Matilda e dare conforto al suo dolore. Matilda, la cui mente era forte tanto quanto era tenero il suo cuore, dal momento che non poteva impedire questa pericolosa impresa, raccolse tutta la sua forza d’animo per resistere al dolore infruttuoso e cercare il bene che quell’occasione poteva presentare. I suoi sforzi non furono vani; riuscì a trovarlo nella prospettiva che l’iniziativa avrebbe onorato la memoria del suo signore scomparso e le avrebbe reso giustizia con la testa dell’assassino.
Era calata la sera quando il conte lasciò il castello; seguì un percorso contrario finché il buio non favorì i suoi piani; allora si diresse verso il castello di Dunbayne. L’estrema oscurità della notte aiutò il loro piano, che consisteva in arrampicarsi sulle mura, cogliere di sorpresa le sentinelle, irrompere nei cortili interni brandendo le spade, e costringere l’assassino alla ritirata. Avevano calcato per molte miglia le cupe terre selvagge, senza l’aiuto del benché minimo bagliore di luce, quando improvvisamente il loro udito fu scosso dalla tetra nota del rintocco di un orologio, che batteva l’ora. I cuori iniziarono a battere al ritmo di quel suono. Seppero di essere vicini alla dimora del barone. Si fermarono per decidere il da farsi, quando fu concordato che il conte, insieme ad Alleyn e pochi scelti, sarebbe andato in perlustrazione del castello, mentre il resto dei soldati sarebbe rimasto a breve distanza, in attesa del via libera. Il conte e i suoi uomini proseguirono la loro marcia in silenzio. Intravidero una luce flebile e capirono che proveniva dalla torre di guardia del castello, e che ormai erano quasi sotto le sue mura. Si fermarono per un po’ in silenzio, per dar fiato all’attesa e sentire se qualcosa si muovesse. Tutto era avvolto dall’oscurità della notte, e a prevalere era il silenzio della morte. Ora avevano il tempo di esaminare con attenzione, per quanto fosse possibile, nonostante il buio, le condizioni del castello e l’altezza delle mura e prepararsi all’assalto. L’edificio era stato costruito con magnificenza gotica su una roccia alta e scoscesa. Le sue torri elevate li guardavano ancora minacciosamente, con orgogliosa sublimità, e la maestosità dell’edificio testimoniava l’antico prestigio dei suoi possessori. La roccia era circondata da un fossato, largo ma non profondo, sul quale c’erano due ponti levatoi, uno sul lato nord, l’altro su quello est; erano entrambi chiusi, ma divisi a metà, con una delle due estremità che giaceva sul lato della pianura. Il ponte a nord conduceva al grande ingresso del castello; quello a est a una piccola torre di guardia. Queste erano le uniche entrate. La roccia era quasi perpendicolare alle mura, che erano alte e possenti. Dopo aver esaminato la situazione, Osbert e Alleyn si lanciarono sul punto in cui la roccia appariva più accessibile, vicino all’entrata principale, e diedero il segnale agli uomini. Si avvicinarono in silenzio e, gettando delicatamente nel fossato i fasci di legna che avevano appositamente portato, costruirono un ponte su cui passarono in sicurezza, e si prepararono a risalire le mura. Fu deciso che un gruppo, di cui faceva parte Alleyn, avrebbe scalato le mura, colto di sorpresa le sentinelle e aperto il cancello al resto degli uomini, rimasto fuori con il conte. Alleyn fu il primo a issare la sua scala a pioli e arrampicarsi, immediatamente seguito dal resto del suo gruppo. Con molta difficoltà e qualche rischio, raggiunsero i bastioni in sicurezza. Attraversarono parte della piattaforma senza udire nessun suono, né voci né passi; tutto sembrava dormire in un sonno profondo. Alcuni uomini si avvicinarono alle sentinelle addormentate nelle loro guardiole e le catturarono; mentre Alleyn, con pochi altri, si precipitò ad aprire il cancello più vicino e ad abbassare il ponte levatoio. Erano riusciti ad arrivare a questo punto, quando venne dato l’allarme e immediatamente iniziò a suonare la campana. Nel castello cominciò a risuonare il clangore delle armi. Tutto sprofondò in tumulto e confusione. Il conte attraversò l’ingresso con i suoi uomini. Il resto dell’esercito lo stava seguendo, quando