Una Vita Sprecata
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Info su questo ebook
In questo libro, l’autrice si racconta senza paura e, pagina dopo pagina, ci permette di entrare nella sua vita.
Cieca dalla nascita, Alessandra ha sempre lottato con forza e grinta per ottenere la propria indipendenza.
Il suo è stato un lungo percorso che, compiuta la maggiore età, l’ha portata a distaccarsi da una famiglia rigida e soffocante, a rialzarsi dopo una serie di relazioni sbagliate e, infine, a vivere da sola con semplicità e tenacia.
Un libro a tratti crudo che scava nei momenti più bui di un’esistenza.
Quello di Alessandra è un messaggio, un monito per le istituzioni assenti e per l’indifferenza e la noncuranza delle persone.
Alessandra Piccolo è nata a Eraclea il 14/03/1966.
Una Vita Sprecata è il suo romanzo di esordio.
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Anteprima del libro
Una Vita Sprecata - Alessandra Piccolo
Prologo
Come è possibile mettere un’esistenza su carta?
Semplice, non lo è.
Questa impossibilità comunque non mi fermerà nel riflettere e scrivere liberamente, proseguirò pagina dopo pagina senza lasciarmi frenare dai limiti dell’inchiostro.
In questi giorni guardando a fondo dentro me stessa ho rivissuto momenti che pensavo perduti ma che ho riscoperto vivi e concreti, quasi da toccare con mano.
Alcuni ricordi sono belli come i fiori che sbocciano nelle campagne.
Altri lo sono meno, anzi sono quasi fastidiosi e come nemici tornano tutti insieme nella mia mente, all’assalto.
La mia non è stata una vita semplice ma posso dire, anche con un pizzico di orgoglio di aver lottato e superato tutto quanto.
Si dice che è nelle circostanze difficili che emerge il valore di una persona e che è nei momenti difficili che viene forgiata la nostra vera natura.
Io di questi momenti ne ho vissuti diversi, forse è anche questo il motivo che mi ha spinta a scrivere questo libro per capire e farmi capire.
Chi ha vissuto momenti del genere sa bene come è facile essere fraintesi da coloro che ci circondano, capita così spesso, molte persone non hanno la più pallida idea di cosa stiamo vivendo ma sono pronti con consigli non richiesti e con il loro vuoto ottimismo.
In questo libro parlerò della mia vita e di tutto ciò che ho affrontato e non mi limiterò a descrivere le qualità che mi hanno permesso di sopravvivere a tutto, no, metterò anche in luce i difetti, gli errori e tutte le cose nascoste che mi hanno resa nel bene e nel male ciò che sono.
Lo dedico in parte a coloro che come me hanno sofferto.
Capitolo I
L’odore della campagna
Sono nata nel Veneto, per l’esattezza ad Eraclea in provincia di Venezia, una realtà famosa per la sua frazione sul mare, con le sue dune di sabbia dorata e le sue onde cristalline.
Eraclea è famosa anche per la sua pineta verdeggiante e la vicinanza alla foce del Piave.
Io sono nata lontano dalla costa, nell’entroterra, in aperta campagna da una famiglia patriarcale veneta, tipica in quegli anni.
Le generazioni che mi hanno preceduta vivevano di mezzadria, un sistema che prevedeva, tramite un contratto agricolo, la divisione del raccolto tra il proprietario del campo e il mezzadro colui che lo lavorava.
Questo sistema si è protratto per la nostra famiglia sino al 1975.
Il proprietario terriero propose alla mia famiglia e a tutti i suoi mezzadri la cessione della casa colonica e la stalla.
Inoltre ci avrebbe lasciato cinque campi e la possibilità di acquistarne altri due.
La mia infanzia è stata bella, la ricordo adesso con semplicità, ricca di momenti d’affetto e di gioco.
Ero una bambina vivace e ben educata, ho sempre gioito, sin dai primi anni di vita, della natura che mi circondava.
La campagna mi permetteva di vivere una libertà assoluta, primitiva e genuina.
Da piccola passavo gran parte delle mie giornate giocando tra l’erba fresca dei campi oppure arrampicandomi, senza alcuna paura, sui rami più alti degli alberi.
Ero vispa e imparavo tutto molto in fretta, già all’età di quattro anni andavo benissimo in bici senza aver alcun bisogno del supporto delle altre due rotelle.
Sono nata non vedente ma questo non ha mai ostacolato la mia voglia di imparare e di giocare.
Da piccola stavo sempre fuori e preparavo delle torte
di terra che guarnivo con delle pietruzze o delle foglie e dei ramoscelli caduti dagli alberi.
Mia madre mi ha sempre lasciato fare quello che facevano gli altri bambini e grazie a ciò io sono cresciuta forte ed indipendente.
Un’infanzia spensierata, anche se devo ammettere con rammarico che non trascorrevo molto tempo con i miei fratelli e sorelle.
Io sono l’ultima di una famiglia numerosa, siamo dieci fratelli, quando nacqui loro erano già molto più grandi, alcuni di loro fidanzati e uno in procinto di sposarsi.
La maggior parte del tempo lo trascorrevo con le mie nipoti che avevano all’incirca la mia età, quando avevo sette anni avevo già sette nipoti, tutte femmine con le quali giocavo.
Nasceva un nipote all’incirca ogni anno, credo che questa fretta
di concepire fosse data dalla ricerca del figlio maschio, all’epoca ancora privilegiato e più agognato delle femminucce.
Tra i miei nove fratelli due sono come me, non vedenti, i miei genitori per fornirgli una buona educazione e una preparazione adeguata li mandarono in un collegio a Trieste, città nella quale abito tutt’ora.
Ben presto anche io fui iscritta in questo collegio, ricordo ancora chiaramente i pianti e la tristezza di quel giorno, non volevo lasciare la mia casa e la mia amata campagna.
Vedere i miei andare via fu un duro colpo per me e per loro.
Mio padre e mio fratello maggiore non salirono nemmeno ai piani per salutarmi, fu un momento troppo forte per loro.
Mio fratello maggiore, che quel giorno ci accompagnò in macchina, era padre e capiva bene lo sconforto nel dover lasciare una figlia in collegio.
Salirono per salutarmi solo mia madre e mia sorella, futura insegnante.
Mio padre e mio fratello non volevano farsi vedere in lacrime, dovevano preservare quell’immagine da uomini duri e tutti di un pezzo che veniva quasi imposta in quegli anni.
I primi giorni nel collegio furono terribili, piangevo e urlavo spesso, non volevo rimanere lì ma con il tempo, incoraggiata anche dall’aria festosa di carnevale che si respirava in quei giorni, mi abituai al nuovo ambiente.
Il ritmo della vita nel collegio era scandito da un orologio semplice, la mattina si andava a scuola, si frequentavano diverse lezioni e si imparavano molte cose nuove.
Ricordo la mia maestra Isabella una donna siciliana, preparata e capace, lei mi ha insegnato tanto, ancora oggi a distanza di vari anni le devo molto per il suo insegnamento.
Scoccata l’ora di pranzo lasciavamo l’aula, mangiavamo e ci riposavamo in vista delle attività pomeridiane.
Il pomeriggio era occupato dal cosiddetto doposcuola
che consisteva in una serie di varie attività che completavano la nostra formazione.
Si lavorava a maglia, si praticava sport in palestra e poi si suonava il pianoforte.
Quella di suonare era per me l’attività più incresciosa, anche a distanza di tempo non so spiegare bene il perché odiassi tanto questa attività.
Forse perché era obbligatoria o semplicemente mi sentivo attratta da altro.
Probabilmente a causa dell’insegnante che c’era, che non mi fece mai appassionare alla materia.
Una delle cose che amavo fare in collegio era recitare, avevamo a disposizione un vero palcoscenico e le insegnanti allestivano spesso spettacoli anche in base alla festività o alla ricorrenza che si presentava nel corso dell’anno scolastico.
Io brillavo in questo, nella recitazione, grazie anche alla mia memoria infallibile riuscivo nei ruoli più lunghi e difficili.
Spesso le maestre di altre classi mi cercavano e volevano che partecipassi anche ai loro spettacoli.
In quarta elementare recitai la parte di Re Carnevale, con lunghi monologhi e battute complicate delle quali però non dimenticai mai neanche una parola.
Poi presi i panni di una principessa ed anche di altri fantasiosi personaggi.
Il teatro nel giorno dello spettacolo era sempre strapieno, brulicante di genitori e a volte anche di importanti personalità del periodo ed anche se io era una bambina introversa e timidissima sul palcoscenico riuscivo a vincere ogni paura ed eccellevo come pochi.
Il collegio era frequentato da molti bambini di famiglie venete, quasi tutti i bambini avevano perso la vista o vedevano molto poco.
Io non ero molto socievole però avevo un’amichetta del cuore Daniela con la quale frequentai tutti i cinque anni delle elementari, lei un pochino vedeva. Stavamo sempre insieme eravamo inseparabili!
Nel collegio io mi sono sempre sentita privilegiata poiché avevo alle spalle una famiglia che ci teneva a me e che mi seguiva in tutto.
Mi venivano a prendere in ogni ricorrenza o festività per poter festeggiare a casa, se passava del tempo da una ricorrenza all’altra mia sorella mi chiamava e in quel tempo non era una cosa semplice poiché noi come molti altri non avevamo il telefono a casa.
In più mia madre ci teneva molto che mi presentassi sempre in ordine e ben vestita, voleva che si vedesse che fossi istruita e tenuta bene.
Non eravamo una famiglia ricca ma grazie a quel poco che avevamo a me non è mai mancato nulla.
Un mese e mezzo dopo il mio primo carnevale in collegio sarebbe stato il mio compleanno, avrei compiuto sei anni, ricordo ancora che mia madre venne a prendermi per passare del tempo famiglia.
Mia madre non guidava e venne da me a Trieste in macchina accompagnata da mio fratello, l’unico con la patente.
Al ritorno mi riaccompagnò in treno, uno di quelli che seguiva il modello del periodo, con le panche in legno, che ora si vedono solo nei film. Forse quello fu l’ultimo anno della famosa terza classe.
Quella fu la prima volta che presi il treno, mezzo di trasporto che poi diverrà per me, in un futuro prossimo, un amico se non addirittura un compagno di vita.
Una volta divenuta più grande mi spostavo con il treno anche da sola, viaggiavo per raggiungere la mia casa in campagna, entrambi i miei genitori non avevano la patente e per andare in paese mi portavano in tandem.
Il rapporto con gli altri miei familiari era altalenante, le domeniche quelle che trascorrevo a casa, erano scanditi da una certa solitudine.
Del tempo passato con i miei fratelli ho il ricordo di Francesca la sorella ‘bella’.
Lei a soli quattordici anni faceva da babysitter a me e a sette nipoti.
Si occupava di noi quando la mamma e il papà andavano nei campi e ci preparava gustosi biscotti e golosi budini.
In più, in quei pomeriggi di domenica Francesca mi portava sempre all’oratorio, lei era una ragazza molto corteggiata con una fila infinita di spasimanti e con la scusa di portarmi a fare una passeggiata li incontrava.
Io anche se ero piccola ero sua complice.
Quando al ritorno mia madre mi chiedeva cosa avessimo fatto rispondevo che avevamo visto le amiche di Francesca, le solite i cui nomi erano ben conosciuti.
Le reggevo il gioco anche per le sigarette, se mia madre mi diceva «Vai a controllare la borsa di Francesca» io rispondevo sempre che non c’era nulla.
L’altra mia sorella, anche lei non vedente, decise di intraprendere la strada degli studi, motivo che la rese presto una persona arrogante e con la pretesa di comandare solo perché in possesso di un pezzo di carta.
Ricordo che sin da subito, verso la metà degli anni 70, a causa sua iniziarono dissidi e litigi tra i miei familiari.
Poi c’era Gianfranco il fratello piccolo, ha tre anni e mezzo più di me e ricordo che con lui a volte giocavo o partecipavo alle festicciole con i suoi amichetti.
I miei fratelli e sorelle erano tutti più grandi e impegnati nelle faccende della loro vita, io trascorrevo molto tempo con le mie nipoti ma questo rapporto