The Complete Works of Luigi Barzini
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The Complete Works of Luigi Barzini
This Complete Collection includes the following titles:
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1 - L'Argentina vista come è
2 - Peking-Paris im Automobil
3 - The Little Match Man
4 - Al fronte (maggio-ottobre 1915)
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The Complete Works of Luigi Barzini - Luigi Barzini
The Complete Works, Novels, Plays, Stories, Ideas, and Writings of Luigi Barzini
This Complete Collection includes the following titles:
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1 - L'Argentina vista come è
2 - Peking-Paris im Automobil
3 - The Little Match Man
4 - Al fronte (maggio-ottobre 1915)
Produced by Carlo Traverso, Barbara Magni and the Online
Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This
file was produced from images generously made available
by The Internet Archive)
LUIGI BARZINI
L’ARGENTINA
VISTA COME È
MILANO
Tipografia del CORRIERE DELLA SERA
1902
PROPRIETÀ LETTERARIA.
[iii]
PREFAZIONE
Dall’Italia emigrarono nello scorso anno mezzo milione di abitanti. L’emigrazione nostra, sorta, continuata e aumentata fino a queste spaventose proporzioni in mezzo a troppa indifferenza, è venuta ad un tratto ad imporsi alla nostra preoccupazione come uno dei problemi più gravi, più complessi e più urgenti.
[iv]
È questa emigrazione un indice della nostra forza, del bisogno d’espansione nostro, o della nostra miseria, o della nostra ignoranza, o di tutto un po’? Ubbidisce essa a leggi naturali e ineluttabili, o è—in parte almeno—provocata artificialmente—profittando della credulità, della duttilità e della ignoranza delle masse infime della nostra popolazione—a scopo di lucro da parte di agenti d’emigrazione o a scopo di rinsanguare e rinforzare della nostra forza e del nostro sangue lontane nuove regioni? Nell’emigrazione non vi sarebbe forse un po’ della « tratta »? Le nuove condizioni nelle quali viene a trovarsi l’emigrante italiano sono migliori o peggiori di quelle che lascia? Quali sono i vantaggi o gli svantaggi diretti e indiretti che da tale emigrazione vengono alla Madre Patria? Quali i rimedî possibili ai mali? Ecco i quesiti la cui soluzione s’è imposta.
Il Governo ha creato nuove leggi sulla emigrazione, e il Commissariato di recente istituzione, presieduto e amministrato con zelo e amore, comincia a portare i suoi frutti. Ma indipendentemente da ciò l’opinione pubblica, dalla quale tutto emana, non è restata più a lungo indifferente. I mali sono giunti a tal punto che le lontane miserie di tanti, di troppi nostri emigranti, hanno avuto un grido che è risuonato fino qui, ed ha fermato imperiosamente il nostro pensiero su quelle miserie, vecchie miserie e che ci sembrano nuove.
Il Corriere della Sera colse l’occasione della emigrazione italiana al Canadà avvenuta l’anno passato, nella fine di marzo, per seguire passo passo l’odissea dolorosa di quegl’infelici strappati alle loro case dalle bugiarde lusinghe d’una speculazione infame, e abbandonati alla miseria e agli stenti. Il nostro Eugenio F. Balzan, il quale unito a quegli emigranti compì con loro il viaggio dall’Italia al Canadà, ossia dall’illusione alla verità, rivelò gl’inganni, gli sfruttamenti, gli abusi, i soprusi e le ingiustizie delle quali migliaia di nostri concittadini sono state le vittime; e le sue relazioni ebbero una profonda eco.
[v]
Questo nostro interessamento ci procurò l’onore d’una lettera del senatore Pasquale Villari, con la quale l’illustre Presidente della Dante Alighieri incoraggiava un più vasto studio del fenomeno emigratorio, e risolvemmo di affrettare l’esecuzione d’un antico nostro progetto: esaminare da presso la vita dei nostri emigranti nel loro nuovo ambiente, vedere la loro nuova situazione morale e materiale. E cominciammo dall’Argentina, che è il paese dove vive il maggior numero d’italiani, e dove per cinquanta anni si è diretta la più grande corrente della nostra emigrazione.
Ecco l’origine e lo scopo delle lettere argentine del nostro redattore Luigi Barzini, pubblicate nel Corriere dal novembre dello scorso anno al settembre di questo. Sono lettere oneste e coscenziose, che presentiamo ora raccolte in volume perchè su tante verità è necessario un po’ insistere, e disgraziatamente gli articoli di giornale nascono, vivono e muoiono nel corso d’una sola giornata.
Speriamo di non aver fatto opera completamente sterile, e di aver portato, nel limite delle nostre forze, un contributo allo studio dell’emigrazione che tanto ci sta a cuore.
Il CORRIERE DELLA SERA.
INDICE
Prefazione
Pag.iii
L’addio
»1
Sfogliando una guida
»6
Qua e là per Buenos Aires
»13
Gli allucinati
»22
La crisi Argentina—Troppa Buenos Aires
»31
L’Argentina e il capitale inglese
»39
Le nostre lettere dall’Argentina—Continuando
»45
Le basi dell’oligarchia Argentina
»55
Il Governo in azione
»64
La giustizia Argentina
»73
La polizia Argentina
»84
L’esercito argentino
»93
Il lusso nell’Argentina
»102
Ricchezze e miserie
»113
Andando all’Estancia
»125
Vita mandriana
»134
Il lavoro italiano nell’Argentina
»144
Errori e difetti dell’emigrazione italiana
»154
Unioni e scissioni
»166
I figli degli italiani
»173
Nelle campagne argentine: « peoni » e « medieri »
»185
Nelle campagne argentine: i « coloni »
»194
La tutela della Madre Patria
»204
Concludendo sull’Argentina
»217
[1]
L’ADDIO.
[Dal Corriere della Sera del 19 novembre 1901.]
Da bordo del Venezuela, 12 ottobre.
Chi può udire senza commozione profonda il grido che si leva da una nave carica d’emigranti, nel momento della partenza, quel grido al quale risponde la moltitudine assiepata sulle banchine, urlo disperato di mille voci rauche di pianto? Gridano addio! E par che gridino aiuto!...
L’addio! Non c’è cosa più amara e più dolorosa. Tutta l’umana sofferenza può essere espressa in questa parola: addio! In fondo ad ogni nostro dolore possiamo trovare sempre un addio: a qualche cosa o a qualcheduno.
Io non dimenticherò mai la triste partenza di questo vapore che mi trasporta al di là dell’Atlantico; forse perchè anche io, partendo, mi sento un po’ compagno agli emigranti che sono a bordo. E anche perchè nella noia e nella disillusione dei viaggi vi sono due grandi emozioni, due sole, alle quali nessuno può sottrarsi: la partenza e il ritorno.[2]
***
Quando si ode a bordo l’avvertimento: « Chi non è passeggiero, a terra! » comincia un momento di strazio. Pare che soltanto allora chi parte abbia nettamente il sentimento dell’irreparabile. Si direbbe che vi fosse in ogni anima questo pensiero: potrei ancora non partire! Ciò dava coraggio.
« Chi non è passeggiero, a terra! »—ripetono delle voci indifferenti di marinai. Scoppiano i pianti fra la povera folla accampata sui ponti; si annodano abbracci lunghi, violenti, disperati; le facce lacrimanti si reclinano sulle spalle scosse dai singhiozzi; delle parole interrotte e affannose s’intrecciano: Ricorda!... Scrivi!... Torna, torna!...
« A terra! A terra! »—ammoniscono crudelmente i marinai: e comincia per la passerella la dolorosa processione di chi rimane. Non sono molti. L’amaro conforto dei saluti non è per tutti. È una folla varia che si dispone lungo la banchina, con le pallide facce attente alla nave, aspettando.
Vi è qualche cosa di funebre in questa attesa. Infatti la partenza di un emigrante per un lontano paese ha un po’ della morte. Egli muore alla sua vita consueta. Muore per i suoi, muore per il suo paese, sparisce verso l’ignoto. Egli forse pensa vagamente ad un ritorno, è vero; la sua morte ha una speranza di risurrezione. Ma nel momento del distacco il turbine del dolore disperde ogni sogno. Egli ha l’occhio perduto e il viso desolato di chi si trova di fronte all’abisso insondabile di un’altra vita. Questa morte è peggiore della vera, dell’ultima, in ciò: che qui vi è la desolazione di chi parte aggiunta alla desolazione di chi rimane. Questi due dolori di fronte, dalla riva alla nave, si nutrono l’uno dell’altro fino alla disperazione.[3] Le anime legate d’affetto sono come specchi che si mandino le immagini: ciò che vi passa dentro si riflette centuplicato all’infinito.
Tutti tacciono perchè tutti sentono che parlare sarebbe piangere. Solo qualche voce mormora ogni tanto: coraggio! E dei singhiozzi rispondono. Un emigrante arriva in ritardo, correndo, seguìto da una donna. Hanno il volto acceso dalla corsa e tutto bagnato di lacrime. Sul limite dell’imbarcadero si abbracciano strettamente, senza una parola, mentre i facchini pronti a ritirare la passerella gridano: Presto! Poi l’uomo si svincola e si slancia a bordo, come fuggendo. Lo segue lo sguardo desolato della donna che rimane immobile, stordita. Nessuno bada a questa scena; il dolore rende egoisti, cioè crudeli; i dolori degli altri sono spesso di conforto ai proprî.
***
Nel silenzio si odono i comandi dall’alto della plancia: i fischi dei segnali trillano degli ordini. Da tutto intorno viene intenso il tuono della vita, il palpito della città indifferente. I trams elettrici fuggono rombando lungo la via di circonvallazione e suonano allegramente le loro campanelle. Il frastuono d’un treno in partenza si spegne nel tunnel che va a sboccare nella luminosa San Pier d’Arena. Un mondo di gente passa lontano senza fermarsi, senza volgersi, inconsapevole dei mille drammi che lì a due passi hanno nella partenza imminente un unico epilogo. Dalle colline scende il vento fresco e porta gli ultimi profumi della terra. I giardini non sono mai stati così verdi e belli, così crudelmente allettevoli. Il colossale Nettuno della villa Doria, guarda dal folto degli alberi con profondo disdegno il suo regno antico, il mare; pare che dica: Qui, qui si sta bene! Genova tutta sorride al sole....[4]
I preparativi fervono. Le grandi braccia lente delle gru hanno posto nella stiva aperta le ultime casse. Erano bagagli d’emigranti, poveri bauli di legno grezzo, cesti, vecchi cofani borchiati di ferro che gemevano sotto la stretta delle funi. La passerella viene ritirata. Nulla è più fra la terra e la nave. Si ode un comando. Gli argani di prua si mettono a girare con frastuono: l’àncora sale, esce lentamente dal mare bagnata e scintillante. Gli ormeggi si allentano. Sotto alla poppa l’acqua comincia a ribollire, si forma un vortice da cui la spuma fugge in tumulto spandendosi lontano: l’elica è in moto.
Gli emigranti si accalcano ai parapetti, si arrampicano agli attacchi delle sartie, lottano per un posto, pallidi, silenziosi, risoluti.
Il piroscafo si sposta: lentamente lentamente scorre lungo la banchina. La folla muta lo segue passo passo facendo dei segni d’addio. Qualche fazzoletto sale agli occhi, ma per poco; non c’è tempo di piangere, si vuol vedere, vedere fino all’ultimo, vedere fino che è possibile: i momenti sono preziosi. Gli occhi non si distolgono un istante dalla nave; occhi rassegnati e dolenti, nei quali con l’espressione della sofferenza vi è tanta dolcezza d’implorazione. Chi soffre rassegnato ha lo sguardo del vinto che domanda pietà, ed emana da lui tutta la poesia della sconfitta. Una povera donna solleva sulla testa un bambino che saluta con tutte e due le manine, ridendo.
Ad un tratto il vortice di spuma diventa tempestoso, l’elica comincia a pulsare rapidamente facendo vibrare la nave tutta. La terra si scosta. Allora delle voci si levano, dei pianti mal contenuti scoppiano. Poi, improvvisamente, dai fianchi del piroscafo si sferra il grido disperato che stringe il cuore, l’urlo che quasi non sembra più umano: Addio!! E mille braccia si tendono verso la terra e si agitano quasi nell’inane sforzo d’un ultimo amplesso.[5]
***
Addio! risponde la folla già confusa sullo scalo. Sopra di essa biancheggiano i fazzoletti agitati, e ogni fazzoletto è riconosciuto da bordo come se fosse un volto, è seguìto fissamente, avidamente. Quel puntino bianco che sfarfalleggia sulle teste ripete ancora una volta tutto quel mondo di cose inesprimibili che le anime sanno dirsi quando il pianto rende muta la bocca.
Ogni cosa sparisce lontano; gli uffici doganali e i docks del ponte Federico Guglielmo non sembrano più che casette biancheggianti al sole. Si passa vicino ad una nave-scuola, dalla quale arrivano le allegre battute d’una marcia militare; dei ragazzi in uniforme marinaresca si affacciano al parapetto agitando i berretti. Il nostro piroscafo silenzioso si allontana scivolando sull’acqua calma e serena. Sopra un carboniere, dei marinai in catena eseguiscono una manovra, e il loro canto lietamente si spande nella quiete del porto. Si gira il Molo Vecchio, dietro al quale spunta la foresta delle alberature veliere, un intreccio folto di sartie, di scale e di pennoni che spicca sull’azzurro immacolato del cielo; il mare scherza in mille modi sugli scogli intorno alla lanterna. Allegri squilli di tromba vengono da due navi da guerra ancorate al Molo Lucedio; dei canti lontani pare che si chiamino. I gabbiani si rincorrono a fior d’acqua gridando, come per giuoco. Girando il Molo Giano per uscire dal porto, Genova intera si apre allo sguardo, vigilata dai forti, incantevole. Vi è per tutto una gioiosa aria di festa!
Poco a poco ogni cosa fugge all’orizzonte e si annebbia. La faccia della Patria impallidisce lontano, ma lungamente ancora corrono su di lei fervide le ultime carezze dello sguardo nostro....
[6]
SFOGLIANDO UNA GUIDA.
[Dal Corriere della Sera del 5 dicembre 1901.]
Da bordo del Venezuela.
Mi è capitato per le mani un opuscolo interessante. Lo ha trovato interessante, prima anche di me, il Governo argentino, tanto che ha creduto bene di autorizzarne la compera di quindicimila copie per farle distribuire gratuitamente in Italia. Si tratta di una Guida dell’Emigrante Italiano alla Repubblica Argentina.
È un opuscolo scritto con una certa sincerità, e perciò in fondo onesto, e mi guardo bene di metterlo in un fascio con le infami pubblicazioni di propaganda che circolano per certe nostre campagne dove più infierisce l’epidemia dell’emigrazione. È appunto perchè è scritto con sincerità che è interessante. L’Argentina, si capisce, vi è chiamato il « paese ideale »; vi si dice che « non esiste nessun paese nel mondo dove gl’italiani possano star meglio che nella Repubblica Argentina », nella quale si sono date convegno tutte le benedizioni del cielo e della terra. Ma fra la relazione di tante cose belle e seducenti si leggono delle frasi, destinate forse a smorzare il disinganno, frasi[7] che dovrebbero far molto meditare gli emigranti nostri, se l’uomo preso dal furore migratorio fosse un essere ragionevole.
Sono granelli di sincerità: « Gli operai debbono essere decisi a far di tutto, ad andare da qualunque parte.... I loro lavori, come pure quello dei campi, risulteranno pesanti, forse più pesanti che i lavori analoghi che si fanno in Italia.... Gli emigranti debbono rassegnarsi a tutto (nei primi tempi) e andare in America con l’idea che i principî saranno duri e penosi... Il collocamento degli artigiani non è tanto facile (paragonato a quello degli agricoltori) e più d’una volta non potranno lavorare subito nel loro mestiere e dovranno rassegnarsi a fare qualunque cosa per pesante che sia. Quando ciò succede, molti maledicono l’ora in cui venne loro in mente d’imbarcarsi, abbandonandosi a sfoghi del tutto ingiustificati... Gli emigranti a cui si offre un occupazione fuori di Buenos Aires l’accettino subito ed abbiano la decisione di andare dappertutto. In Buenos Aires è molte volte impossibile la collocazione.... Gli emigranti si debbono rassegnare alle contrarietà dei primi tempi, vivendo male, adattandosi a qualunque lavoro, senza debolezze, nè abbattimenti. Altrimenti sarebbe meglio che non si muovessero dal loro paese, perchè in qualunque nazione d’America si dirigessero troverebbero di peggio.... Quelli che emigrano debbono essere sempre persuasi che per aprirsi una strada, per vivere, e fare alcuni risparmî, dovranno sopportare le fatiche più penose, sottomettersi ai lavori più pesanti. Meglio per loro se la realtà sarà poi meno fosca delle previsioni.... »
***
Tutto ciò è naturale. L’America come si presenta alle fantasie e alle speranze di tanta povera gente non è mai esistita, neppure all’epoca dei Guarany. In tutti i[8] paesi del mondo sono i forti che resistono e che trionfano dopo lunghe lotte e fatiche: anche in America. Ed è questo che dovrebbero capire gli allucinati che continuano ad essere attratti laggiù dal sogno di facili ricchezze.
Dovrebbero capire che « rassegnandosi a viver male, adattandosi a qualunque lavoro, senza debolezze, nè abbattimenti », potrebbero ben restare nella loro Italia che è pur sempre « il paese del mondo dove gli italiani possano star meglio »—senza offendere la Repubblica Argentina. Dovrebbero capire che se facessero in patria quanto la necessità fa far loro laggiù, se profondessero nel loro paese tutte le energie con le quali fanno ricchi quei lontani paesi, se i sacrificî e il lavoro bestiale ai quali li spinge, una volta emigrati, la disperazione come una sferza sanguinosa, li riserbassero per la bella terra che li ha visti nascere, se le iniziative che essi trovano quando lontani e perduti il bisogno li stringe, le avessero a casa loro, troverebbero bene in Italia la loro America, ma quella delle leggende, e più bella, e più cara.
Ma è la miseria che li spinge ad emigrare: lo dice anche la Guida dell’Emigrante Italiano alla Repubblica Argentina. Pare quasi che la giovane America ci stenda una mano caritatevole, a noi vecchi miserabili, prendendoci un po’ di braccia. Ah! la nostra miseria, noi la gridiamo. E la miseria d’America, della terra promessa? E gli scioperi argentini? E i diecimila disoccupati di Buenos Aires? E coloro che tornano da laggiù sfiniti, con la volontà spezzata? E quelli che non possono nemmeno tornare perchè non ne hanno la forza? E coloro che finiscono nell’atorrantismo, la forma più abbietta e vilipesa della povertà? Di fronte agli arrivati che conosciamo, quanti caduti, ignoti, lontani, dimenticati?
La Guida dell’Emigrante, parlando delle fortune fatte da molti lavoratori italiani nell’Argentina, dice:[9]
« Sappiamo che fra gli emigranti ve ne sono che soffrono ogni genere di angoscie, contrarietà e privazioni prima di trovare una via meno aspra, se pur la trovano, ciò che non a tutti succede. » Ma tuttavia, diamine, c’è chi arriva a farsi una bella posizione, e « si suol citare, come esempio, in Buenos Aires, un fabbro che finì per possedere una gran fonderia e un gran numero di case. » Ebbene, un fabbro è poco, e poi il fabbro di Buenos Aires, non lo abbiamo noi in cento e cento edizioni? Non vediamo in tutte le nostre città operai industriosi e intelligenti, uomini di volontà e di costanza che arrivano a mettersi alla testa di industrie, e che giungono ad avere la loro « fonderia con gran numero di case? »
E via, rompiamo l’incanto che circonda ancora l’America nella mente del nostro popolo. L’America è un paese dove si soffre, dove si piange e dove si soccombe, come in tutto il mondo. Laggiù la lotta è meno disciplinata ed è perciò violenta, terribile: alla curée della ricchezza corrono mastini forti ed agguerriti. E non sono di quei mastini che possa fornire l’emigrazione nostra. L’emigrazione italiana è un’emigrazione di muscoli. Questa Guida dell’Emigrante, dice: « Oltre i deboli rachitici, gli sconciati e i vecchi, non debbono emigrare coloro che hanno studiato, che hanno ricevuto un’educazione più o meno scelta. » Nè muscoli infermi, nè teste sane dunque. Sono buone braccia che si vogliono da noi, ma niente altro che buone braccia. E noi le diamo.
Quest’opuscolo che sfoglio, sulla cui copertina, come una vidimazione ufficiale, spicca il bollo del « Consulado de Milan », è una chiara e facile esposizione di consigli, alla portata delle intelligenze semplici. Dalla lettura di questi consigli all’emigrante italiano si forma a poco a poco la netta visione di che cosa sia veramente l’emigrazione laggiù: come dai consigli del medico si capisce il male.[10]
L’emigrazione non è l’effetto naturale della legge della domanda e dell’offerta di lavoro, come asserisce la prefazione dell’opuscolo. Nei centri argentini vi è pletora di mano d’opera, specialmente a Buenos Aires che attraversa una crisi non indifferente, e la Guida infatti cerca in ogni pagina di persuadere l’emigrante ad internarsi nei campi, risolutamente, senza paura della distanza, e subito. Nella colonizzazione è la ricchezza del paese, il quale ne risente i vantaggi, mentre tutto il passivo di vite, di lavoro e di denaro grava sui pionieri dispersi nelle estancie delle Pampas. Si vuole un’emigrazione stabile: la Guida trova assai più vantaggiosa per gli emigranti « l’emigrazione con carattere definitivo » e consiglia loro di « mettere in ordine i loro affari come se non dovessero tornar più » prima di partire. Li pone in guardia contro il dolce mal della patria; « bisogna guardarsi da questi sentimentalismi che causano malessere e inquietudini e inducono a commettere leggerezze di cui più tardi ci si pente »; la leggerezza, si capisce, è il ritorno. « Queste vacillazioni recano un danno enorme agli emigranti. » « Del resto hanno la loro poesia e le loro attrattive anche le pianure argentine con i loro orizzonti infiniti. » « Per fortuna gli italiani sono quelli che più facilmente si radicano nella Repubblica Argentina; i più, nondimeno, tardano a convincersi che devono considerare l’Argentina come loro residenza definitiva, come loro seconda patria. » Coloro che non hanno tali debolezze « ottengono un immenso vantaggio su quelli che solo pensano al ritorno ».
È logico. La Guida vede l’emigrazione francamente e nettamente dal punto di vista argentino, soprattutto quando, parlando dei risparmî degli emigranti, consiglia « coloro che hanno qualche maggiore conoscenza di queste cose » a comperare titoli degli imprestiti interni della Nazione, perchè « i tracolli e le sospensioni di pagamento di altri tempi non si ripeteranno ». Ma dal[11] punto di vista italiano? Non è doloroso e umiliante? Questa sottrazione continua delle nostre forze vive, questa trasfusione del sangue nostro per la rigenerazione di paesi lontani, dovuta principalmente alla ignoranza delle nostre masse, non è cosa ben triste?
E non siamo troppo ottimisti sui vantaggi riflessi che la madre patria può avere dalla emigrazione: lo stato civile dei Consolati c’insegna che l’italianità normalmente si perde alla prima generazione: e tutti gl’italiani che da cinquant’anni sono passati nell’Argentina hanno procurato alla loro madre patria solo un terzo della esportazione che ha l’Inghilterra laggiù; e non vi sono che ventimila inglesi nell’Argentina. Inglesi, beati loro, da padre in figlio e da figlio in nipote, come se vivessero in pieno Regno Unito.
***
La Guida dell’Emigrante se la prende un po’ col Governo italiano perchè intende d’occuparsi dell’emigrazione. « Tutte le nazioni d’Europa—dice—hanno dell’emigrazione, in scala maggiore o minore: ma l’Italia è l’unica nazione dove si parla continuamente di misure, di protezioni, di leggi, di colonie (che poi non sono tali) ». Se la prende col Governo « perchè insomma con tanto parlare di colonie e di protezioni non si fa che irritare suscettibilità attendibili e creare diffidenze e sospetti ».
Sì, tutte le nazioni hanno degli emigranti: ma sopra 1,765,784 emigranti europei sbarcati nell’Argentina dal 1857 al ’98 1,093,112 erano italiani. Abbiamo diritto di occuparcene. E poi che cosa ha fatto il Governo italiano con la sua nuova legge per l’emigrazione e il[12] relativo complicato, burocratico e fiscale regolamento? Ha reso più facile il viaggio, ha provveduto perchè gli emigranti abbiano a bordo tanta carne, tanto pane e tanti metri cubi d’aria respirabile durante il tragitto.
Come se il complesso fenomeno dell’emigrazione consistesse in quei venti giorni di navigazione!...
[13]
QUA E LÀ PER BUENOS AIRES.
[Dal Corriere della Sera del 24 dicembre 1901.]
Buenos Aires, novembre.
La più grande caratteristica di Buenos Aires è quella di non avere nessuna caratteristica. Buenos Aires è un po’ di tutto. Un Santos Dumont capitato qui, supponiamo, con la macchina per volare, si troverebbe estremamente imbarazzato a giudicare, dall’alto, in quale paese del mondo il vento, o il motore, lo avessero condotto.
Sulla piana e sterminata distesa di case vedrebbe delle guglie tedesche ornate di trafori in ferro, come certi tetti della vecchia Norimberga, vicino a basse terrazze candide e disordinate ricordanti Cadice! Scorgerebbe le cinque cupolette tradizionali di una chiesa russa e più lontano due campanili spagnuoli: e cupole italiane gettanti la loro ombra sopra le mansardes di un casamento parigino: e palmizi come alla Favorita e platani come all’« Avenue des Champs-Elisées. » Volta a volta si crederebbe arrivato in tutti i paesi d’Europa, l’infelice aereonauta!
Buenos Aires si può dire infatti una specie di campionario[14] di capitali europee; nemmeno la più piccola sfumatura di colore locale. Vien quasi voglia di chiedere, come er re de Spagna portoghese dei sonetti di Pascarella:
Ma st’America c’è? ne sete certo?
Si esce da una brutta copia di « boulevard » parigino—chè tale è l’Avenida de Mayo, la principale via della città—e si trova nella « Plaza de la Victoria », un perfetto square londinese, ombroso e verde con la sua fontana che getta acqua nei giorni solenni, e il suo bravo monumento equestre, una specie di « cavallo di spade », rappresentante il generale Belgrano. Di fronte al generale biancheggia quel curioso obelisco celebre sotto il nome di « Piramide de Mayo », eretto per « perpetuar el glorioso pronunciamiento de independencia », funzione che esso, per quanto composto di stucco, compie coscienziosamente da novant’anni. È il capolavoro d’un povero mastro muratore italiano, un certo Podestà, divenuto architetto per bisogno. Si sa, l’italiano
Er talentaccio suo se l’ariggira.
L’opera dell’oscuro nostro compatriotta è ingabbiata da un’armatura costellata da lampadine elettriche che si accendono nelle sere di festa: una volta all’anno si dà al tutto una buona mano di vernice. Questo è il più antico e il più sacro monumento della Repubblica Argentina, intorno al quale si compiono le cerimonie patriottiche e le dimostrazioni; mèta dei corteggi e dei pellegrinaggi, tribuna dell’eloquenza commemorativa.
La manìa d’ingombrare i monumenti con il permanente preparativo della luminaria è generale. L’illuminazione pare considerata qui come una cosa importante, indispensabile, che bisogna aver sempre pronta sotto mano per ogni circostanza. Oh! « sangre español! » [15] Anche la cattedrale, per esempio, che sta nello stesso square incastonata fra un paio di Banche, ha i capitelli e le colonne del suo brutto portico corinzio percorsi da grossi tubi di gas neri che sembrano fasce di lutto.
Eppure—chi lo direbbe?—questa chiesa, e i suoi tubi, formano l’orgoglio dei bonearensi. Un ex-ministro argentino, grande uomo, celebre per aver mangiato molti milioni sulle opere di salubrità durante l’indimenticabile presidenza di Juarez Celman, davanti al Pantheon a Roma, esclamò: « Muy bonito, si, però, nuestra catedral es mas bella y grandiosa! » Egli di tali sue impressioni geniali ha composto dapprima delle corrispondenze europee al più diffuso giornale di qui, la Prensa, e poi anche un libro, dove ha trovato modo di dichiarare che San Pietro e i Palazzi vaticani con le relative loggie e musei non valgono la Galleria delle Macchine dell’Esposizione di Parigi. Davanti alle Pinacoteche fiorentine ha avuto questa meditazione: Quanti milioni gettati via, mentre oggi la fotografia rende così bene la verità della vita!
Sembrano scherzi, ma no, si tratta di cose scritte, e soprattutto lette, sul serio. L’ottimo ex-ministro rispecchia abbastanza fedelmente l’opinione dei suoi concittadini. Qui si pensa così della nostra arte, delle nostre grandezze, delle nostre glorie!
***
Lasciato lo square dall’obelisco patriottico per entrare in certe vie laterali, pare trovarsi nella City, parlo della City londinese, col suo asfalto, le sue Banche, le sue agenzie e la sua folla. Calle Reconquista somiglia a Lombard Street. Banco di Londra e Rio della Plata, Banco di Londra e Brasile, Banco britannico dell’America del Sud, poi Banco Anglo-Argentino,[16] e lì presso il « River Plate Trust », la « Loan y Agency Comp. », e la « New Zealand and River Plate Lond Mortgage Comp. », e la Società Ipotecaria Inglese, una quantità d’istituti finanziarî inglesi fra i quali le altre Banche francesi, spagnuole, tedesche, argentine e italiane, stentano a formare la maggioranza numerica. Biondi commessi in soprabito e cilindro, con le cartelle dei valori sotto il braccio, vi vengono addosso, vi urtano e si allontanano gettandovi un frettoloso: « I beg your pardon! »—Si odono dei rapidi: « Good morning! »—« Good bye! »—« Come è l’apertura del London Exchange? »—« All right! »
Qui le mani inglesi manipolano le finanze della Repubblica. Gl’inglesi sono i veri padroni dell’Argentina; essi hanno tutte le ferrovie, il porto, le opere colossali dell’acqua potabile, i trams, tutte le principali imprese; un investimento di un seicentocinquanta milioni di franchi, senza contare i prestiti allo Stato. La capitale finanziaria dell’Argentina è Londra. Dal London Exchange viene tutti i giorni la parola d’ordine. Nei nebbiosi dintorni della Mansion House può decretarsi la sorte di questo Stato, che esiste solo in grazia dei capitali inglesi e delle braccia italiane.
Gl’inglesi a Buenos Aires formano proprio l’« imperium in impero », anzi direi meglio l’« imperium in... repubblica. » Essi formano una potenza a loro. Vivono completamente separati. Chiusi gli ufficî, alla sera, essi corrono alla stazione del « Retiro », e i « dinner trains », pronti per loro, li portano a Belgrano e a Flores, ameni quartieri pieni di giardini e di villette inglesi, che rammentano vivamente i gentili e melanconici sobborghi aristocratici di Londra. A traverso le cancellate dei parchi, profumati da superbe magnolie fiorite, i passanti possono seguire le partite di lawn-tennis, di cricket, di foot-ball che si svolgono sull’erba dei prati; e alla sera, dalle verande aperte, intravvedono il pranzo di famiglia, silenzioso[17] e cerimonioso come in pieno West-End; un’eletta raccolta di gentlemen in abito da società e di ladies in décolletée. Oh! Quell’abito! Vi sono degli inglesi che vivono all’interno, in estancie lontane dal consorzio umano, soli, nella pampa, e che si mettono in frack per andare a tavola!
Quando gl’inglesi hanno voglia d’un po’ di spettacolo, si fanno concedere il Teatro dell’Opera, vi mettono in scena una produzione inglese, e loro se la recitano, se la cantano, se la ballano e se l’applaudiscono, infischiandosene del mondo intero. Giusto adesso essi danno all’Opera un’operetta popolare inglese, il « San Toy », nella quale si possono ammirare delle rispettabili ladies che ballano il passo a due con pudibonda grazia, e delle venerande misses dagli occhiali e i denti rilegati in oro, le quali, vestite da cinesi, cantano:
« Siamo le mogli dell’Imperator!
« Ma qualche volta facciamo del... flirt!... »
Lettori, fuggiamo!
***
Due quadri a ponente della City si trova una via che per il suo aspetto ricorda il Corso di Roma: è la Calle Florida, il centro dell’eleganza bonearense. I lettori comprenderanno il significato di quei « due quadri a ponente ». Essi sanno bene come Buenos Aires sia—a somiglianza di tutte le città moderne—costruita a quadrigliato; le strade, tutte eguali in modo desolante, s’intersecano ad angolo retto, alla stessa distanza, formando dei quadri: una cosa più noiosa della nebbia. Il quadro è la base delle distanze, l’unità di misura: gl’indirizzi vengono indicati così: tanti quadri a destra e tanti a sinistra e siete arrivato. Par di camminare sopra una scacchiera; infatti per andare[18] alla Posta io debbo fare il « salto del cavallo »; per andare alla Banca marcio come la « torre », sempre dritto; e vado al club seguendo le regole dell’« alfiere ». Roba da diventar matto, anzi... scacco matto!
Calle Florida dunque è la via dello chic; lì sono i negozî più ricchi, i bars e i caffè più in voga, lì gli eleganti portano a spasso le loro cravatte e le eleganti le loro ultime toilettes parigine. Calle Florida è tributaria in tutto a Parigi; sì, dall’epoca della penultima Esposizione mondiale. Da allora Parigi—unica fra le città europee—gode della stima presso gli argentini. Il « hijo del pais »—il figlio del paese—quando vuol visitare il nostro vecchio ed arretrato continente non ha altra mèta che Montmartre; esplora il « Moulin Rouge », lascia i suoi pesos nei dintorni della place Blanche, e ritorna in patria completamente soddisfatto. A Parigi vivono sempre degli argentini, il cui numero varia anche a seconda della situazione politica; in certe circostanze, per esempio, quando c’è la minaccia d’una guerra col Cile, il viaggiare esercita qui un’attrattiva irresistibile.
Parigi è l’unico termine di paragone con Buenos Aires; giorni sono, al « Grand Prix » di trentamila pesos all’Ippodromo, un diplomatico—che potrebbe anche essere italiano—diceva ad una signora argentina moglie del direttore d’uno dei migliori giornali bonearensi, accennando all’elegante concorso: È un bellissimo spettacolo che forse nemmeno da noi è dato di vedere spesso! La dama si volse sdegnosamente rispondendo: « Sappiate, signore, che soltanto a Buenos Aires e a Parigi si può ammirare una simile cosa! » Poche signore bonearensi avrebbero dato altra risposta. Parigi è nella loro mente il compendio di tutto il bello e di tutto il buono che possegga l’Europa.
Esse non hanno altra ambizione che di rassomigliare a delle parigine. Tutte, senza eccezione, cominciano col trasformare la loro bruna carnagione con[19] l’impiego, senza economia, di tutte le colorazioni che la chimica ha escogitato a questo scopo, dal bianco per il collo al rosato per le gote, dal carminio per le labbra al livido per gli occhi; s’inondano di profumi; s’abbigliano con quanto la moda boulevardière lancia di più vivace e di più ardito. E riescono nel loro intento. Lo straniero che non è ancora al corrente della strana manìa universale, rimane choqué del gran numero di... parigine che vede.
Alla sera tutto questo mondo si ritrova nel parco di Palermo sulle verdi rive del Rio della Plata; lungo le avenide, bordate di palme rigogliose, gli equipaggi sontuosi sfilano lasciando fra i pedoni una scìa d’ammirazione e di maldicenza. Al di là del parco, delle villette e dei giardini si seguono; nel silenzio della campagna, la vita tumultuosa si spegne. La pampa incomincia; essa porta l’infinita e squallida uniformità della pianura fino alla città: Buenos Aires è come un’isola circondata da questo oceano erboso. Nulla viene a rompere la linea sterminata dell’orizzonte, fuori degli innumerevoli elevatori a vento dei pozzi artesiani, grandi ruote a palette sopra armature d’acciaio, che fanno pensare a scheletri di fuochi d’artificio rimasti da un immenso e misterioso festival.
***
Dal lato opposto della città gli eleganti non vanno mai. Vi è la Boca del Riachuelo, uno strano rione, un paese quasi, dalle piccole case di legno, di ferro zincato, di casse da petrolio; qualche volta anche di mattoni. Dalle vie sterrate, sulle quali il vento solleva il polverone a vortici, si scorgono piccoli recinti pieni d’immondizie, depositi di vecchi cerchi di botte, di mobili a pezzi, di cenci, di roba d’ogni genere raccolta certamente per la strada e radunata non si[20] sa perchè, forse per quella strana manìa collezionista che accompagna talvolta la miseria. In alcuni cortiletti al piede di alberi rachitici bruciati dal sole, vegetano pomodori ed erbaccie fra i quali razzolano i polli. In certi punti il terreno è paludoso; le vie sboccano in veri pantani. Qui le case sono costruite sopra palizzate, come quelle dei villaggi lacustri; l’acqua marcisce intorno alle abitazioni, tutta coperta da muffe verdi. In alcune strade meno frequentate pascolano liberamente dei buoi, che gettano al vento il loro muggito lamentoso. Per ogni dove piccoli negozî oscuri di almacen dove si vende di tutto; povere mostre polverose coperte di mosche; osterie dalle quali esce il tanfo caldo del vino come dalla bocca d’un ubbriaco; loschi caffè dove non si prende il caffè...
La Boca migliora in prossimità del fiume; vi si vedono dei grandi depositi di legname e di ferro, delle agenzie, degli ufficî. I caseggiati si serrano uno contro l’altro in disordine, come se si affollassero verso lo scalo per osservare curiosamente le golette, i brigantini, i trealberi, i velieri d’ogni forma che ancora preferiscono dar fondo al Riachuelo per antica consuetudine.
La Boca del Riachuelo è genovese. Qui l’aspro dialetto ligure è la lingua comune. I genovesi sono pressochè i soli italiani che vivano riuniti in Buenos Aires, che abbiano formato una comunità separata, e che s’impongano talvolta anche alle autorità ora per avere una « Calle Ministro Brin », ora per reclamare il diritto ad un corpo di pompieri speciale, italiano. Sono marinai e figli di marinai, gente che vive sempre del mare; scaricatori, piloti, battellieri, qualche armatore di velieri: alcuni passati poi al commercio e divenuti grossisti, almacenieri; e osti e mestieranti. Solo gli arricchiti lasciano la Boca.
Tutti gli altri italiani—ve ne sono più di duecentomila in Buenos Aires—vivono dispersi per l’immensa città. Oh! ma non è difficile trovarli![21]
I venditori ambulanti che trascinano la loro triste vita sui marciapiedi sono tutti italiani. Questo si dice ufficialmente avere in mano il piccolo commercio. Sono italiani i terrazzieri che scavano le fogne, i lastricatori delle vie, i muratori arrampicati sui ponti, tutti coloro che compiono i lavori più rudi, gli operai in genere. Basta correre là donde viene il batter d’un martello, dove stridono delle macchine, dove romba un lavoro qualunque esso sia, dove si fatica, per trovare gl’italiani. Non v’è pietra, si può dire, che non sia stata messa a posto da mani italiane; dalle mani italiane è uscita la Buenos Aires d’oggi con i suoi casamenti tedeschi e francesi e le sue ville inglesi.
No, non è difficile trovarli i nostri connazionali! Fra i palazzi sontuosi, anche nelle più belle calles e avenidas—con quella promiscuità che caratterizza questo caos che è Buenos Aires—vi sono delle porticine ai cui stipiti la miseria ha lasciato la sua sudicia traccia. Sono gl’ingressi ai conventillos, le case immonde dove vivono ammassati i poveri. Anche lì si parla italiano!
Fortunatamente vi sono palazzi e ville abitati da molti connazionali nostri, e ciò conforta. Ma lì, lettori miei, normalmente non si parla più italiano; la nostra lingua vi è bandita.
Lì generalmente « se habla la lengua del pais!... »
[22]
GLI ALLUCINATI.
[Dal Corriere della Sera del 13 gennaio 1902.]
Buenos Aires, dicembre 1901.
Vengono e vengono gli allucinati, sempre, a migliaia e migliaia, tutti i giorni. Essi seguono follemente il loro miraggio, abbacinati; non sanno nulla, fuori che questa è la terra dove « si fa fortuna »; ignoranti e incoscienti, senza volontà e senza idee, spinti da una forza misteriosa e mostruosa, quasi un esercito di ipnotizzati, attirati da questa terra come i vascelli dall’isola fatata nella leggenda araba.
È inutile che i giornali onesti gridino al mondo la grande crisi che affligge questo paese: essi vengono. È inutile che le ricerche imparziali facciano conoscere che nella sola città di Buenos Aires quarantamila operai almeno sono senza lavoro; che tanta parte e migliore della campagna ha perduto i raccolti, tanto che lo Stato distribuisce le sementi; che il malgoverno ha rovinato i commerci, distrutto il credito, paralizzato lo sviluppo industriale, colpito a morte la libertà e la giustizia: essi vengono. È inutile che ogni giorno[23] le liste dei ricercati dai Consolati dimostrino la scomparsa di migliaia e migliaia di emigrati, dispersi, spariti nelle solitudini delle pampas forse, perduti in lontane estancias, finiti non si sa dove, non si sa come: essi vengono. È inutile che i consoli, di fronte alla immensa miseria che chiede tutti i giorni il loro aiuto, sconsiglino l’emigrazione: essi vengono. Vengono, increduli al male, quasi convinti che il volerli dissuadere significhi solo il volerli escludere dalla loro parte di fortuna, sostenuti e consigliati non si sa da quale demonio.
Ogni nave che arriva ne scarica migliaia sulle banchine del Porto Madero. Il loro numero è pubblicato vicino alle note di carico: essi sono una merce d’importazione. Dal gennaio ne sono sbarcati sessantacinquemila. Nel solo mese di ottobre sono arrivati dodicimila emigrati, dei quali diecimila italiani. In questi ultimi tre giorni sono arrivati tremila e ottocento emigrati, in gran parte nostri connazionali.
L’« Hôtel de Inmigrantes » è gremito. Il lavoro di sparpagliamento di questa gente per tutta le Repubblica procede alacremente. Annesso al ricovero per gli emigrati v’è l’« Oficina de Trabajo » che riceve le domande di mano d’opera e distribuisce il lavoro; gli emigranti con le famiglie sono trasportati sul posto del lavoro a spese dello Stato. Teoricamente l’organizzazione è bella, ma il suo funzionamento è troppo spesso inumano. I lavori per i quali si richiede la mano d’opera sono ben sovente temporanei; quando sono finiti, gli operai vengono licenziati; i miseri rimangono senza risorse in mezzo ad un paese sconosciuto, soli, inascoltati, ignorati. E non possono tornare indietro; l’emigrante può viaggiare gratis su tutte le linee della Repubblica, ma solo in una direzione: avanti, verso la periferia. L’Argentina ha bisogno di dicentrare la popolazione; la legge è sapiente, ma spietata. Giunti all’interno, gli emigranti sono praticamente prigionieri del paese. Alcuni tentano il ritorno[24] a piedi fra disagi gravi ed anche pericoli. Non sono molti giorni che una famiglia italiana di quattro persone, fra cui una bambina, è tornata a Buenos Aires da Tucuman (milleduecento chilometri) a piedi, traversando il terribile deserto delle Salinas. Inoltre l’« Oficina de Trabajo » non si cura di esaminare le capacità degli individui per distribuirli logicamente secondo i climi o i lavori. La personalità sparisce, un emigrante vale l’altro, gli uomini diventano cose, macchine che non costano nulla e che arrivano in abbondanza. Si domandano cento uomini per il raccolto dello zucchero nel Salta o nel Chaco? Ebbene, si mandano i primi cento che capitano a compire quel lavoro al quale gl’indi stessi si rifiutano. Gli emigranti possono non accettare, è vero, ma questa povera gente sente nominare il Chaco per la prima volta!
Nell’« Hôtel de Inmigrantes » sono accampati come un’armata alla vigilia della battaglia. Il paragone viene naturale. Di fronte a tanta forza incosciente si prova quella pietà profonda che solleva la vista di soldati partenti allegramente per la guerra. Quale sorte li aspetta? Queste sono le ultime ore che trascorrono insieme: il bastimento rappresentava ancora un pezzo di patria; questo rifugio continua ancora la vita di bordo. È un immondo lazzaretto della miseria, ma li tiene uniti. Fra poco saranno dispersi a centinaia di leghe da qui e non sapranno, nemmeno vagamente, dove si troveranno. Non potranno—come il Maomettano che prega volgendosi alla Mecca—volgersi verso un punto dell’orizzonte pensando: l’Italia è là. Non ho trovato che un solo emigrante, sopra tanti che ho interrogato, capace d’indicarmi l’America sopra una carta geografica che presentavo loro!
È questa immensa ignoranza che li rende docili, sicuri e preziosi per il paese. Dove cadono si attaccano e producono, come il seme. L’idea della prosperità che verrà li rende rassegnati a tutto, come una[25] volta l’idea del paradiso; poi, nell’ora del disinganno, sono rassegnati per abitudine. Essi formano la vera ricchezza del paese; non esiste un « hijo del pais » che coltivi la terra: per lui c’è l’impiego, l’affare, la speculazione, il giuoco. È il lavoro dello straniero—e dicendo straniero si può quasi significare italiano—che ha sviluppato le risorse della terra, che ha reso possibili le industrie, attivato il commercio, creato in mezzo secolo l’Argentina d’oggi.
Questo Governo conosce il valore inestimabile dell’emigrante, la massima dell’Alberdi « gobernar es poblar » è sempre applicata: l’emigrazione è incoraggiata con opuscoli, con pubblicazioni, con conferenze tenute all’estero e principalmente in Italia; la diminuzione dell’emigrazione ha destato allarmi, provocato provvedimenti. Eppure, questa merce umana così preziosa, è ricevuta e trattata qui con molta meno cura dell’altra merce, quella in balle! Per le casse di carta o di cotone vi sono dei grandi edifici in muratura, dei docks superbi ventilati e asciutti, muniti di ascensori, ben situati sugli scali fra larghe vie in cemento. Per gli emigranti vi è una grande baracca di legno cadente e infetta, nella quale vengono condotti come mandrie all’ovile da inurbani impiegati.
***
L’« Hôtel » degli emigranti (lo chiamano Hôtel!) sorge su quella landa indefinibile, irregolare, fangosa, che sta fra il torbido e tempestoso Rio della Plata e la città, una striscia di terra che si direbbe la zona neutra fra il possesso delle acque e quello degli uomini. Tutto intorno dei pantani putridi coperti da una superba vegetazione acquatica mettono un po’ di verde sul piano squallido e un po’ di miasmi per l’aria.
L’« Hôtel », di legno, ha una forma strana, sembra[26] un gasometro munito di finestre. Dei tetti bassi, neri e irregolari gli si aggruppano intorno. Nel mezzo all’edificio principale, al gasometro, vi è un cortiletto circolare, oscuro, umido, una specie di pozzo, sul quale si aprono le porte delle camerate. Un sistema di logore scalette di legno, che dà all’ambiente l’aspetto d’un retroscena, permette l’accesso ai piani superiori. L’acre odore dell’acido fenico non riesce a vincere il tanfo nauseante che viene dal pavimento viscido e sporco, che esala dalle vecchie pareti di legno, che è alitato dalle porte aperte; un odore d’umanità accatastata, di miseria.
L’infinito armento umano ha lasciato sulle cose, nell’aria, per ogni dove le sue tracce. Le pietre delle soglie sono consunte; gli angoli sono smussati, scavati, allisciati e anneriti dalle centinaia di migliaia di mani che vi hanno strisciato su. Più in alto, all’altezza dei volti, le tavole serbano dei segni più vivi di questo doloroso passaggio: li direi le tracce delle anime. Sono nomi, date, frasi d’amore, imprecazioni, ricordi, oscenità raspati sulla vernice o segnati colla matita, talvolta intagliati nel legno. Il disegno più ripetuto è la nave; il loro pensiero guarda indietro!
Il cortile, l’andito, gli spiazzi fra le baracche, le quali circondano l’edificio a gasometro, sono affollati d’emigranti. Vestono gli abiti migliori, messi il giorno dell’arrivo per un curioso sentimento di dignità. Alcuni, sdraiati rinfusamente sui sacchi dei loro cenci, sonnecchiano o pensano; altri passeggiano a gruppi discutendo, si affollano alla porta dell’« Oficina de Trabajo » col cappello in mano, rispettosamente: altri giuocano; delle ragazze si pettinano l’una con l’altra; dei bambini macilenti giuocano sul pavimento gridando; delle donne allattano. V’è il disordine triste d’un bivacco zingaresco: si grida, si ride, si canta e si piange. Ma i più restano immobili e silenziosi, stupiditi, indifferenti, stanchi, con gli occhi senza sguardo, aspettando.[27] La nostalgia li afferra, quella nostalgia istintiva della bestia catturata, un torpore doloroso. Sulle faccie sono i segni non dubbî d’un viaggio penoso, in alcuni occhi brilla la febbre.
Ma ecco che si sente il suono d’un organetto, di quella fisarmonica che è l’istrumento prediletto dei nostri contadini; molti fanno cerchio, qualcuno balla. Una donna singhiozza.
Le camerate sono silenziose. Lì cercano rifugio i solitarî: coloro che vogliono nascondere il dolore. Dalle fessure delle pareti sconnesse entra sibilando il vento, questo freddo e polveroso pampero, e l’edificio ne è scosso. Nella penombra s’intravvedono delle figure umane immobili, sedute o distese sugli immondi tavolacci. Nel vedere entrare un estraneo, gli uomini si levano lentamente in piedi con impacciato rispetto. Nella loro paziente aspettativa, l’arrivo d’un estraneo porta sempre un po’ di speranza. Un pover’uomo tiene in braccio un bambino evidentemente malato. Il piccino abbandona la testa sulla spalla del padre, respira affannosamente e chiede da bere con voce lamentosa. L’uomo è un meridionale muratore; interrogato sul suo piccino, risponde:
—La notte fa freddo qui, s’è perduto il nostro bagaglio e non abbiamo di che coprirci... Tanti bambini sono malati!
—Come s’è perduto il vostro bagaglio?
—Non lo so: veniamo da Salerno: all’imbarco un signore ha domandato a me e ad alcuni miei compagni le ricevute del bagaglio. Arrivati qua, non abbiamo trovato più niente.
—E non avete più le ricevute?
—No, niente!
Si tratta di uno dei soliti furti agli emigranti. Alcuni di questi poveretti sono stati derubati a bordo; per essi i compagni di viaggio hanno raccolto fra loro delle piccole somme, offrendo quel poco che potevano.[28] E questi poveri parlano della loro elemosina con una semplicità sublime.
***
La sera scende triste su questo luogo di miserie. Essa, come una vecchiaja quotidiana, porta tutta la melanconia, la stanchezza, il disinganno della giornata trascorsa. Il magro pasto—un pezzetto di puchero galleggiante in acqua sporca che dovrebbe essere brodo, e un pezzo di pane—è divorato in silenzio. I quattro cinque impiegati dell’« Oficina de Trabajo » se ne vanno; un « vigilante » indiano, legittimo discendente degli antichi timbues, e ora rappresentante il potere esecutivo, gira i cortili ispezionando; il direttore del ricovero, cioè dell’Hôtel, un ometto calvo, barbuto e mellifluo, succhia il mate sulla porta del suo ufficio e sorveglia distrattamente lo sfilare degli emigranti che entrano nelle loro camerate. Si accendono qua e là delle lampade alla cui luce rossastra la scena prende un aspetto sinistro.
Nell’oscurità si è spenta ogni gaiezza. Nessuno più ride o canta, non si parla nemmeno: si bisbiglia. La notte è scesa anche negli animi. Pare che la speranza non sia visibile che alla luce del sole. Se un chiarore improvviso diradasse queste ombre non si scorgerebbero che volti mesti, pensosi, attoniti o piangenti. In un angolo lontano la fisarmonica riprende sottovoce, timidamente il suo suono asmatico e singhiozzante. Il legittimo discendente degli antichi timbues la fa tacere. Nelle camerate si dorme o si sospira.
Nel fetido cortile a pozzo, divenuto deserto, il pompiere di guardia si arrotola una sigaretta e se l’accende. La penombra lascia appena scorgere tutt’intorno dei cartelli con la scritta: Es prohibido fumar.
Dalla vicina stazione del Retiro arrivano gli urli laceranti delle sirene. Il rumore della città, come il muggito[29] d’un mare, viene ad infrangersi contro queste solitudini tetre. È l’ora in cui Buenos Aires comincia a divertirsi. L’orizzonte è tutto rischiarato dal crepuscolo livido della luce elettrica.
***
Alcuni emigranti hanno qui dei parenti o degli amici: possono trovare consiglio e appoggio; il loro collocamento è meno difficile e meno cattivo. Altri—meridionali in gran parte—vengono in questa stagione per lavorare ai raccolti, e a febbraio tornano in Italia. Molti di essi hanno l’abitudine a tale emigrazione periodica, come le rondini; conoscono il paese, guidano gl’inesperti, si lasciano condurre a spese del Governo argentino senza spendere un centavo, e raggranellano qualche cosa. Gli altri, la grande massa, sono venuti qua alla cieca, con le loro famiglie, senza sapere nulla. Sono gli allucinati. La sorte che li aspetta in questo momento, in cui antichi emigranti lasciano certe regioni divenute ingrate al lavoro, può essere terribile. Un ministro argentino diceva giorni sono: « L’emigrazione è necessaria, ma, dato il momento, sono preferibili diecimila emigrati di meno che diecimila disoccupati di più! »
Dissipata un po’ la diffidenza, abituale nel contadino, ho domandato a molti emigranti:—Perchè siete venuti in America?
I più rispondono:—Per tentare la sorte!—oppure:—Tanti vi hanno fatto fortuna, proviamo anche noi! Per essi l’America è una lotteria; giuocano, e mettono la vita per posta. L’idea di venire qua li prende come un’ossessione, s’impadronisce di loro per contagio. Molti vengono perchè hanno conosciuto della gente venuta prima di loro, semplicemente. Un campagnuolo veneto che emigrava, faceva gli addii; un amico[30] gli disse:—To’, voglio partire anche io!—E tutti e due con le loro donne sono venuti in America, come si fosse trattato di far due passi. Un contadino piemontese mi ha detto:—Ho emigrato perchè v’è qui mio fratello.
—Meno male! E dov’è tuo fratello?
—Non lo so. Ci scrisse tanti anni fa dalla Terra del Fuoco dove era occupato a tagliar boschi, poi non ha scritto più.
E quest’uomo, che non sa nemmeno cosa sia la Terra del Fuoco, che non conosce la sorte di suo fratello, lascia tutto e viene qua con i suoi figli, attirato dall’ignoto. Nessuno si è informato delle condizioni dell’Argentina oggi—già per molti America, Buenos Aires e Argentina sono sinonimi!—nessuno ha pensato a chiedere dei consigli alle autorità. Hanno tutti una grande diffidenza dei consigli, li ascoltano con l’aria di crederci e non crederci. La paura d’essere ingannati è caratteristica in loro; ad essa sola del resto i contadini debbono l’immeritata fama di scaltri. In ogni cosa che si dice temono un tranello. I più franchi domandano:—Ma voi che interesse avete a dirci così e così?
—Per il vostro bene!
Essi scuotono la testa increduli—e disgraziatamente non a torto—che il loro bene stia a cuore a qualcuno. Sono imbevuti di false idee leggendarie sulle favolose ricchezze del paese, la incredibile fecondità del suolo, la cortesia e bontà degli abitanti, sempre le stesse, che basterebbero da sole a provare l’esistenza di agenti catechizzatori.
Bisognerebbe ricercarne alcuni dopo un anno di America e rimandarli al paese nativo a narrare sinceramente le loro avventure. Sarebbe il miglior rimedio contro questa emigrazione cieca e disordinata, senza organizzazione, senza guida, senza protezione, che è per la Madre Patria un grande dolore, e una ancora più grande umiliazione!
[31]
LA CRISI ARGENTINA
TROPPA BUENOS AIRES.
[Dal Corriere della Sera del 14 gennaio 1902.]
Buenos Aires, dicembre 1901.
L’Argentina è in preda ad una grave crisi; crisi di tale estensione che parlare di essa significa parlare di tutto. L’intera vita della Repubblica ne è affetta. Non è la malattia d’un organo; è la malattia dell’organismo. Ne soffrono tutti: è come se l’aria a poco a poco fosse divenuta meno respirabile; i ricchi come i poveri sentono l’affanno della soffocazione.
Il debito pubblico è difficile a precisarsi; si conta a miliardi, non a centinaia di milioni; cioè ammonta a una cifra spaventosa rispetto alla popolazione del paese. L’alto cambio sull’oro rende gravosissimo il pagamento degli interessi dei prestiti esteri, il quale pagamento, del resto, non è regolare che sui preventivi. Ordinariamente si pagano questi interessi con nuovi prestiti a breve scadenza. Si allarga il male. Il dissesto è generale. Agli impiegati ora si paga lo stipendio se si può. Vi sono degli impiegati che debbono avere fino a tre mesi di stipendio. Le somme dovute dallo Stato a privati—riconosciute con regolari mandati di pagamento—non vengono pagate.[32] Occorrono pressioni, inframmettenze extra-legali, pots de vin. Questa ritrosia del Governo al pagamento dei debiti ha persino fatto sorgere un nuovo mestiere: quello di tramitador. Il tramitador è una persona che vende la sua influenza; egli s’incarica di far pagare dalla tesoreria i mandati di pagamento dei clienti, e si prende perciò il venti o il trenta per cento sulle somme. L’immoralità diventa abituale. Non basterebbe un libro ad enumerare le mangerie, i furti, le irregolarità che si verificano abitualmente nelle amministrazioni del Governo argentino, ai quali si deve non poco l’aggravamento della situazione generale.
Passando dallo Stato alle altre amministrazioni pubbliche si trovano gli stessi mali nella stessa proporzione. La Municipalità di Buenos Aires naviga in pessime acque. Il Governo ha dovuto creare una specie di Comitato amministratore per evitarle il fallimento. Naturalmente anche qui gli impiegati non sono pagati. Non è molto che gli spazzini pubblici hanno fatto una dimostrazione ostile alla Intendenza municipale—brandendo le scope—per reclamare il pagamento degli stipendî arretrati. I maestri non sono meglio trattati degli spazzini. Immaginate da questi indici la miseria che si nasconde sotto la splendida vernice di questa grande Metropoli.
Vi sono migliaia e migliaia di persone in assoluta miseria. Al Consolato d’Italia è una processione continua di sventurati che vanno a domandare l’elemosina dei dieci e dei venti centavos per mangiare. Il minimo numero di disoccupati è calcolato a quarantamila; ma sono certamente di più.
L’industria langue, il commercio è arenato. La media totale degli affari commerciali è diminuita della metà. Avvengono dei fallimenti per milioni; cadono dei colossi. La somma dei fallimenti arriva a circa venti milioni di franchi al mese. A questa statistica fa riscontro quella dei suicidî. Uno dei più forti commercianti[33] stranieri, interrogato sulla gravità della crisi, mi ha detto:—La crisi è tale che non potrebbe essere di più!—Un altro commerciante, alla stessa domanda, mi ha risposto:—Immaginate che in seguito ad un male non curato sopravvenga la cancrena. Ebbene, la crisi del novantuno era il male; quella di oggi è la cancrena!
Questa è la situazione descritta in poche parole. Il male è tanto più grave in quanto che è profondo. Le cause sono molte; recenti e lontane, passeggiere e durevoli. Le lontane e le durevoli sono le principali, e perciò la guarigione è difficile.
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Una delle cause della crisi è l’accentramento a Buenos Aires di grande parte della vita argentina. Questa Repubblica dà l’idea d’un mostro che abbia un corpo piccolo e debole, ed una grande, smisurata testa. La popolazione della capitale è di più che 800,000 abitanti, e tutto il resto dello Stato non ha nemmeno quattro milioni. La sproporzione è enorme.
In un paese che, come l’Argentina, non ha altra vera ricchezza che la produzione agricola, che non possiede o quasi industrie, questa mostruosa capitale tanto popolata significa non solo che un’infinità di gente è completamente sottratta all’unico lavoro proficuo—quello dei campi—ma che tutta questa gente vive interamente alle spalle degli altri, e di una vita enormemente dispendiosa. Buenos Aires assorbe troppe risorse argentine. È un lusso, una « spesa di rappresentanza » che solo potrebbe permettersi un ricco popolo di cento milioni d’uomini.[34]
Buenos Aires occupa più di diciottomila ettari, ossia supera Parigi di settimila e Berlino di seimila e trecento ettari. Ha edifici grandiosi, grandi boulevards, parchi, ha centoquaranta chilometri di pavimentazione in legno, un porto che è unico nel suo genere, un impianto d’acqua potabile che è fra i primi del mondo, dei servizî pubblici straordinarî. L’esistenza di questa città è un fenomeno puramente americano, di quelli che sfuggono in parte alla nostra analisi.
La Buenos Aires d’oggi è sorta sull’antica città così, come un’impresa, come una speculazione ben lanciata, in forza di uno di quegli inesplicabili delirî collettivi che afferrano talvolta i popoli davanti alla prospettiva della rapida ricchezza. L’Argentina appariva il paese incantato che avrebbe pagato tutto e tutti, e la sua prosperità avvenire venne ipotecata in una febbre di affari, i quali non avevano altra base che delle speranze assurde. Le fonti della prosperità vennero trascurate per delle speculazioni fantastiche: l’Argentina vera fu perduta di vista.
Il credito illimitato apriva le Banche a tutti. Si creavano delle fortune in poche ore. Si costruiva, si costruiva come se l’Europa intera avesse dovuto rovesciarsi qua. I terreni aumentavano di valore fino all’incredibile. L’affarismo escogitava delle imprese favolose. Si arrivò a costruire qui vicino una città, La Plata, i cui terreni furono pagati fino a 150 volte il costo attuale. Ora La Plata è morta, e si visita come Pompei. I capitali e le braccia stranieri affluivano attratti da rimunerazioni enormi. L’oro correva a rivi. Il Rio della Plata meritava il suo nome. La disonestà trionfava. S’ipotecava per centomila lo stabile che valeva mille. Ogni sentimento d’onestà, di giustizia, di dignità, d’amor patrio erano travolti dalla febbre della ricchezza. I governanti arricchivano e lasciavano arricchire le loro clientele.[35]
La corrida, come fu chiamata, cioè la corsa di depositanti alle Banche, cominciò nel 1890 e finì nel 1891 col fallimento generale. Le Banche argentine fallirono. Il Banco della Provincia di Buenos Aires fallì per due miliardi. Era il terzo istituto di credito del mondo—prima di divenirne il primo istituto di.... discredito. Centinaia di milioni di sudati risparmî dei nostri emigranti furono perduti.
In quel violento, turbinoso accentramento d’affari e di lavoro si formò la Buenos Aires d’oggi, che così cara costa alla Repubblica. Alla sua vita manca la base.
Gl’interessi della capitale sono in contrapposizione a quelli delle provincie. Con ciò che è costato l’abbellimento, il lusso e la comodità di Buenos Aires, l’Argentina poteva mettersi comodamente in condizioni da vincere in tempo la concorrenza di quei paesi che hanno la stessa sua produzione: gli Stati Uniti, il Canadà, l’Australia, e fra poco si potrà aggiungere la Siberia.
Invece all’Argentina manca il primo elemento di successo, che sarebbe una viabilità a buon mercato e facile. La canalizzazione delle acque, la navigazione dei grandi fiumi che vengono tutti a riunirsi, come le stecche di un ventaglio, all’immenso Rio della Plata, hanno uno sviluppo insufficientissimo. Le ferrovie, tutte in mano di Compagnie inglesi, per il costo esagerato dei noli rappresentano uno sfruttamento rovinoso per il produttore. Le ferrovie hanno poi una sfera limitata d’azione lungo il loro percorso, tanto più ristretta quanto più elevato è il costo dei trasporti; e non esistono strade. Se si esce da Buenos Aires non si trovano comunicazioni. Tempo fa i soldati della guarnigione per recarsi ad un nuovo campo di manovre, qui vicino, smarrirono la strada. Dai grandi boulevards in asfalto illuminati a luce elettrica si passa al niente.[36]
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La conseguenza è che certi prodotti argentini portati qui vengono a costare come i prodotti analoghi europei sbarcati e sdaziati (e i dazî sono molto forti). Il vino di Mendoza, per esempio, costa quasi come il vino italiano.
In alcuni luoghi si lasciano i raccolti sulla pianta per l’impossibilità del trasporto. Si prende ciò che necessita per l’uso locale. Un diplomatico che ha visitato l’interno recentemente, mi raccontava delle enormi quantità di grano abbandonato che marcisce nei pressi delle stazioni ferroviarie per mancanza delle grandi somme necessarie al pagamento del trasporto.
La difficoltà delle comunicazioni rende lento e poco proficuo il lavoro di colonizzazione in tanti territorî, che per la loro fertilità si presterebbero a culture fortunate, ma che si trovano situati lontani dalle linee ferroviarie. La zona sfruttata deve essere forzatamente limitata. L’Argentina non può estrinsecare tutte le sue energie. È come un albero, ricco di frutti splendidi ma posti troppo in alto per arrivarvi con le mani. E mancano le scale.
Vi sono dei prodotti necessarî, per esempio il legname da costruzione, i quali vengono importati dal Canadà, dagli Stati Uniti, e persino dalla Norvegia, e che si trovano in enorme abbondanza nel paese. Il trasporto ne è impossibile. Si è costretti a comperare ciò che si ha in casa, e che si potrebbe anche vendere.
La produzione argentina si trova perciò in condizioni d’inferiorità sui mercati; il margine di guadagno è minimo. Basta che sopravvenga un ribasso nei prezzi perchè si verifichi un ristagno disastroso, come[37] avviene ora nel commercio della lana, la quale forma una delle più grandi produzioni del paese. Vi sono sul solo mercato di Buenos Aires dodici milioni di chili di lane giacenti.
L’Argentina, immensa e varia, avrebbe delle risorse inesauribili. Con tutte le condizioni difficili create al suo commercio, la sua esportazione ha superato, nel solo corso di quest’anno, l’importazione di circa cinquanta milioni di pesos oro, ossia duecento cinquanta milioni di lire. Ma la situazione creata a questo paese è tale che tutti questi milioni di superavit attivo bastano appena