Il dramma del Sayōnara Party
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Anteprima del libro
Il dramma del Sayōnara Party - Francesco Pellegrini
PROLOGO
Miei cari lettori, sono qui ora a raccontarvi una vicenda angosciante che mi è capitata di recente, e della quale desidero rendervi partecipi. Vorrei condividere con voi un episodio che mi ha sconvolto tremendamente. Ripongo la speranza di catturare il vostro interesse con un fatto che io reputo talmente insolito (termine questo molto vago ma perfetto da usarsi per ora) e irripetibile (me lo auguro) da non poter essere ignorato e dimenticato. Ho deliberato che, onde evitare rischi indesiderati e facilmente prevenibili, valesse la pena consegnarlo alla memoria, e mi accingo ora a parlarvene, riportandolo per iscritto.
Qualora vogliate seguire le mie vicissitudini, di seguito esporrò i fatti per come si sono svolti. Per il momento però, mi dedicherò a una doverosa introduzione e a un'opportuna contestualizzazione, per poi passare al fatto in questione.
Per ora non vorrei anticiparvi altri particolari che verranno di seguito; ad esempio, preferirei non rivelarvi or ora se io sia stato o meno implicato nel fatto, o\e se abbia subito chissà quali conseguenze.
Le buone maniere mi esorterebbero a fornirvi una breve descrizione delle mie fattezze, prima di procedere con la narrazione vera e propria, ma io non ho nulla da dirvi di me che sia così interessante da sapersi. Se fossi un individuo interessante, magari per vanità sarei portato a parlarvi di me profusamente, ma visto che non posso reputarmi tale, mi rimetto a un'autopresentazione sommaria che potrebbe risultare utile per ciò che verrà approfondito nel prosieguo della narrazione.
Sono un normalissimo studente, che studia e non studia, che si diverte e non si diverte, che quando studia ovviamente non si diverte, e che invece quando si diverte ama talvolta studiare la gente. Credo lo si possa considerare un mio tratto distintivo. Mi ritengo una persona riflessiva e osservatrice critica di ciò che la circonda.
Sono un ragazzo (cresciuto), che ha vissuto situazioni paradossali, così paradossali da non riuscire a tenersele per sé, e quindi mi sono deciso a condividerle con gli altri. Sono un ragazzo (cresciuto), che ha vissuto esperienze come ne hanno vissute tanti altri, tante altre persone, ma, a differenza delle altre persone, ha avuto il coraggio, la temerarietà, la spregiudicatezza e la sfrontatezza di volerne parlare. Tutto qui.
Mi ero recato in Giappone per un viaggio di studio. Vissi quasi novanta giorni nel Paese del Sol Levante, inestendibili, quanti sono consentiti dal visto turistico, che non permette di allungare la propria permanenza in qualsiasi nazione si progetti di andare per rimanervi a lungo termine; e il termine di novanta giorni non sarebbe stato quindi prolungabile, qualora lo avessi desiderato. Dopo quel che accadde non lo avrei desiderato affatto, sia chiaro, non vedevo l'ora di tornarmene a casa.
Anche se non fosse accaduto quello che è accaduto, probabilmente a malincuore mi sarei dovuto rassegnare a ritornare lo stesso. Contravvenire alle leggi vigenti non si sarebbe rivelata una mossa astuta. Sarei stato un temerario e le conseguenze sarebbero state tremende, inenarrabili. Non ci voglio neanche pensare. Orbene, devo ammettere per inciso di aver ottimizzato al meglio quel breve periodo di studi, non ho nulla da rimproverarmi in merito.
Conserverei nel complesso un bel ricordo di questa permanenza, se non fosse successo quel che è successo. Quel che è accaduto ha ammorbato questo bel ricordo, se questo termine può ritenersi pertinente in un contesto simile. Ho ancora enorme difficoltà a metabolizzarlo completamente. Ogni volta che penserò a questo soggiorno, non potrò fare a meno di collegarlo a questo episodio, e viceversa, che è ancora peggio.
A prescindere dall'episodio in sé, ammetto di aver vissuto una bella esperienza, ricca di contenuti edificanti e di piacevoli soddisfazioni. Sono convinto, inoltre, di aver sfruttato al meglio il poco tempo a mia disposizione, ma con notevole profitto. Tuttavia, quel che non si può cancellare o rimuovere per destinarlo altrove, rimarrà per sempre, è incontrovertibilmente lapalissiano.
Era stata l'Università a offrirci, a me e ai miei colleghi di studi, l'occasione di mettere in pratica quello che fino a quel momento avevamo appreso dai nostri studi partecipati solo nella teoria. La mia università aveva preso degli accordi con diverse Scuole di Lingua del Giappone, per cui io e i miei colleghi, qualora lo avessimo desiderato, avremmo potuto frequentare un trimestre in una di queste scuole e il voto finale alla conclusione del corso sarebbe valso come esame universitario di lingua d'indirizzo del trimestre di pertinenza. Si sarebbe attuata una conversione per cui il voto sarebbe stato espresso in trentesimi.
Era un'iniziativa interessante che l'Università soleva promuovere ogni anno per consentire ai propri studenti di impratichirsi e implementare le proprie competenze linguistiche in loco. L'unico inconveniente riscontrabile era che, a prescindere dalle tariffe agevolate d'iscrizione grazie alle quali si sarebbe potuto beneficiare di sensibili riduzioni pecuniarie (dovevano esserci infatti delle convenzioni che giustificavano queste scelte), l'esborso che lo studente si sarebbe dovuto sobbarcare era nondimeno considerevole. Ciononostante, quasi tutti gli studenti del mio anno avevano deciso di aderire a questa iniziativa con il loro entusiasmo, la loro determinazione, e le loro, lodevoli o meno, motivazioni recondite.
Credo che ognuno considerasse l'eventuale esperienza che avrebbe vissuta un po' come una tappa intermedia ma fondamentale nella propria formazione personale, tant'è che anch'io mi allineavo grossomodo con questo pensiero dominante.
D'altronde, prima o poi, a chiunque studi una lingua straniera è consigliabile recarsi nel Paese (o in uno dei Paesi) dove questa lingua viene parlata diffusamente, sia per migliorare le proprie competenze linguistiche sia per apprendere gli usi e i costumi del Paese nel quale andrà a vivere. L'intento principale sarebbe quello di arricchire il proprio bagaglio culturale acquisito precedentemente in una condizione di lontananza fisica e, perché no, procedere persino a un confronto diretto, per averne in definitiva un quadro completo, e all'occorrenza adattarvisi con il giusto approccio.
Nel nostro caso, al più sapendo che si sarebbe potuto beneficiare del sostegno dell'Università per le questioni pratiche, quest'esperienza risultava un'occasione da non perdere ed infatti, ribadisco, la maggior parte dei miei colleghi non se la fece sfuggire.
Dunque, lo studio in loco era stato eletto motivo principale per il quale l'iniziativa era stata avviata. Del resto, essendo stata concepita dalla stessa Università, sarebbe stato difficile che le si ricercasse un motivo diverso che la legittimasse agli occhi di tutti.
Sinceramente, tendevo ad allinearmi quasi del tutto con il nobile proposito avanzato dalla mia università. Anche per me lo studio in loco sarebbe stato un buon motivo per il quale avrei aderito a questa iniziativa, che si rinnovava ormai da qualche anno con risultati apprezzabili, confortanti e soddisfacenti per entrambe le parti. E così feci. Riscontrai che anche i miei colleghi si uniformavano più o meno sugli stessi nobili propositi.
L'occasione di trovarsi però in un Paese straniero tanto anelato e ricoperto di luci rutilanti e permeato di suoni roboanti avrebbe potuto traviare anche le menti più indefessamente inclini allo studio. Non era stato il mio caso, poiché avevo saputo come conciliare queste due entità che parevano incompatibili. Ad ogni modo, si potevano enumerare studenti che avevano già fatta in precedenza la loro scelta e vissuto il Paese nella sua intrigante complessità, spremendolo al massimo delle sue potenzialità. A prescindere che ci si potesse mostrare diligenti o meno nello studio, era la nostra integrità morale ad esser stata messa a dura prova di fronte al rischio concreto di farsi sedurre completamente da questo vortice inarrestabile di luci e suoni ammalianti che ci accompagnava come un leitmotiv ricorrente ovunque noi andassimo.
Ebbene, il Paese esercitava una forte attrattiva, specialmente nel nostro caso, su di noi che ne avevamo studiate le tradizioni approfonditamente e non vedevamo l'ora di poterle interpretare con i nostri occhi perennemente trasognati. Il rischio di smarrire la propria rettitudine in questo enorme paese dei balocchi era decisamente alto, ma bastava mostrarsi sufficientemente responsabili, frenandosi prima della perdizione ultima.
Vi erano diverse attrattive tentatrici ad alto tasso di assuefazione come, ad esempio, il karaoke, un vero must, sempre affollato. Al suo interno vi convenivano sia nativi sia stranieri, che avrebbero potute esibire le proprie abilità canore, senza provare alcuna vergogna se le voci fossero risultate grossolanamente impostate. Creava dipendenza anche la frequentazione assidua e l'incomprensibile mania delle Sale-giochi dalla progettazione che ricordava astronavi supersoniche in miniatura, con i loro suoni martellanti e le loro luci cangianti che lampeggiavano ad intermittenza, dove i fanatici arrivavano a perderci delle ore, o delle vite intere, invecchiando con il sorriso perennemente annidato tra le labbra gioconde. In ultimo, ma non per grado di frequentazione, esisteva un qualcosa la cui assenza avrebbe fatto esultare molte persone: il pachinko. A dir la verità ben poco frequentato da stranieri. I forestieri più temerari che vi facevano visita erano mossi per lo più dalla curiosità per una forma di intrattenimento che avrebbero avuto difficoltà a comprendere come mai creasse così tanta dipendenza in alcuni giapponesi.
Non era complicato esercitare un efficace sforzo di volontà per non eccedere nelle innumerevoli suggestioni e negli allettanti ammiccamenti che il Paese del Sol Levante scagliava ovunque come strali impazziti. Dal mio punto di vista, potevo sinceramente affermare che mi ero comportato coscienziosamente durante la mia permanenza nipponica, avevo seguito le lezioni con buon profitto, non avevo alcunché da rimproverarmi di sostanzialmente rilevante. Avevo fissato obiettivi raggiungibili, la mia buona volontà arrivava fino ad un certo punto, un discreto punto all'orizzonte delle mie ambizioni.
Si configurava più stimolante che indulgere in questi bizzarri intrattenimenti attivarsi invece a coltivare conoscenze straniere a livello internazionale. Ne feci e la cosa mi stupì quel poco. Ero partito in principio con un certo scetticismo. Conoscendo il mio carattere piuttosto chiuso ed introverso nutrivo il presentimento che sarebbe stato davvero complicato instaurare un qualche tipo di rapporto con persone di altri Paesi, con la loro cultura e i loro modi di porsi nei confronti dei foresti in genere, e in particolare delle persone provenienti da Paesi stranieri dei quali magari non nutrivano una qualche particolare stima preconcetta.
Credevo che avrei finito per avere a che fare principalmente con i miei colleghi italiani, dalle italiche origini, per una questione di abitudine legata alle tradizioni e alla lingua, e invece, con mio enorme stupore, ero riuscito a sciogliermi, tanto che mi relazionai con alcuni colleghi stranieri senza incontrare eccessive difficoltà comunicative.
Tirando le somme, non saprei come pronunciarmi in merito alle amicizie che ho coltivate per poi lasciarle in Giappone, financo se si possano definire tali. Non so se si possa parlare di vera amicizia in alcuni casi. Rimarrei sulla mera conoscenza o amicizia in nuce per i miei colleghi stranieri o conoscenti di colleghi stranieri. Mentre così mi capitava di intrattenermi con loro, ero fortemente consapevole di non possedere doti da preveggente che mi avrebbero consentito di affermare con assoluta certezza se in futuro da queste relazioni sarebbero potute nascere delle amicizie solide e durature nella lontananza che ci avrebbe divisi. Per il momento, mi faceva piacere sapere soprattutto di esser riuscito ad avere la meglio sulle mie paure, che all'inizio ero convinto mi avrebbero completamente inibito da qualsiasi approccio.
Si potrebbe parlare di amicizia in nuce anche per quel che riguarda la famiglia che mi ha ospitato durante questa breve permanenza nel Paese del Sol Levante. Nel qual caso, credo proprio che il rispetto reciproco, che caratterizzava il nostro rapporto nel gioco delle parti, possa tradursi in un'amicizia cordiale, che eventualmente spererei duri nel tempo, nonostante la distanza, e con le dovute proporzioni.
La Scuola di Lingua che avrei frequentato mi aveva trovato, prima che partissi, una famiglia ospitante, che migliore non avrebbe potuto. Me lo aveva comunicato preventivamente, ma non è che mi fossi formato particolari aspettative su chi mi avrebbe ospitato.
Speravo di capitare in una famiglia per bene, che si prendesse cura di me nei limiti concessi dalla discrezione che si suole usare tra persone che non si conoscono tra di loro, ma che con il trascorrere del tempo si conosceranno financo ad arrivare a poterci entrare in confidenza. Sarebbe stato terribile altrimenti, qualora fossi stato costretto a dover vivere per quasi tre mesi in una famiglia nella quale non mi fossi trovato affatto bene. Ero quindi finito bene, davvero bene, e me ne compiacevo.
Vi erano poi coloro i quali non avrebbero potuto dire la stessa cosa, i miei colleghi di studi, che si lamentavano giustamente di esser stati sfortunati con i loro abbinamenti. Erano capitati male e se ne rammaricavano. Le loro legittime lamentele non rimanevano però inascoltate, poiché nella Scuola di Lingua vi erano persone incaricate per far sì di rimediare a spiacevoli inconvenienti del genere. Qualora qualcuno si fosse trovato male nella famiglia ospitante, la Scuola di Lingua si sarebbe impegnata a trovare allo sfortunato inquilino un alloggio alternativo, che si sarebbe auspicato trattarsi di un alloggio definitivo. Definitivo, certo, poiché un'ulteriore lamentela avrebbe potuto generare dubbi sulla reale capacità di adattamento della persona che aveva manifestato così apertamente il suo disagio.
Per quel che mi riguardava da vicino, i membri della mia famiglia ospitante erano le persone, rispetto ad altre che avevo conosciute, che avrei portate per sempre nel cuore, ovvero finché la mia avventura in questo mondo non si fosse detta conclusa. Li consideravo un po' come la mia seconda famiglia. La mia famiglia nella lontananza fisica. Avevano contribuito a rendere questa permanenza memorabile in senso positivo, perché in senso negativo qualcosa d'altro me l'aveva resa ahimè memorabile.
Ordunque, mi trovo ora a non poter differire il tempo della mia sincera confessione; auspico a beneficio di chi vorrà proseguire con questa narrazione. L'impegno gravoso e angosciante che mi sono assunto non può essere ritrattato, giunti a questo punto. Non mi resta altro da fare che