Ultimo di trentamila: Il romanzo di un eroe dello Stato
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Anteprima del libro
Ultimo di trentamila - Roberto Gugliotta
Roberto Gugliotta
ULTIMO DI TRENTAMILA
Il romanzo di un eroe dello Stato
I edizione: aprile 2023
© 2023 Roberto Gugliotta
Responsabile della pubblicazione Roberto Gugliotta
EllediLibro by Arpod
www.elledilibro.it
Il libro
Il mondo di Giacomo Sereni si regge su pochi assiomi basilari: c’è il bene e c’è il male, il crimine e l’onestà, il sacrificio e la lotta alle sopraffazioni.
Carabiniere per vocazione, il suo idealismo si infrange contro l’esito del processo al Capitano Ultimo in seguito alla cattura del boss dei boss, Totò Riina. Uomo in crisi, tradito dallo Stato e distrutto dopo la morte della moglie, Giacomo decide di lasciare l’Arma. Da questo momento avrà inizio per lui una discesa vertiginosa verso l’annullamento di sé, fino a sparire letteralmente, diventare invisibile tra gli invisibili, sperso nell’esercito dei trentamila senza tetto che popolano come fantasmi le vie delle nostre città. Tra cronaca e noir, romanzo di formazione e duro affresco sociale, 30.001 è la storia di un rifiuto, di una fuga disperata che è come un grido di protesta, l’unica arma a disposizione di chi ha perso tutto, anche sé stesso, e deve toccare il fondo prima di tentare la risalita.
L’autore
Roberto Gugliotta, messinese, direttore del quotidiano online IMG Press (www.imgpress.it), è autore di romanzi che si occupano di storie di mafia e di saggi sulla politica. Nel corso della sua attività ha collaborato con l’«Indipendente», il «Giornale», il «Corriere della Sera», «Sette», «Io donna», «Famiglia Cristiana», «l’Espresso». Insieme a Gianfranco Pensavalli ha pubblicato nel 2008 per Fazi Editore il romanzo Mi chiamo Maurizio sono un bravo ragazzo ho ucciso ottanta persone e nel 2010, insieme a Giovanna Vizzaccaro, sempre per Fazi, il romanzo Il picciotto e il brigatista.
In memoria di Teresa, Rosa, Anna e Sara Briguglio.
La vostra vita è stata una lezione di coraggio, sono cresciuto con i vostri valori
Io sono entrato nell’Arma della povera gente,
nell’Arma che aiuta chi non ha niente e difende il debole dal criminale.
È un’Arma bellissima che vive nelle strade,
negli occhi di carabinieri che credono nell’onestà,
nella lealtà e nella solidarietà come si crede a una religione
che è la religione di chi aiuta il prossimo senza volere niente per sé
È vero che l’Arma è comandata
da chi non ha mai indossato gli Alamari,
ma a volte è capitato che chi non aveva gli Alamari
ha dimostrato di amare l’Arma e chi aveva gli Alamari l’ha solo usata
ULTIMO
PRIMA
Prologo
Come un colpo di pistola: questo è l’effetto che fa l’attesa di una sentenza.
Il mio avvocato si è dato un’occhiata intorno, ha fissato per qualche istante il pavimento, poi me. Il cadavere di un uomo, starà pensando, glielo leggo negli occhi. Io invece penso solo a quanto importi poco la mia innocenza.
Quando si è faccia a faccia con la realtà nuda e cruda, la vita rallenta un po’, sembra lasciarti il tempo di incassare. Infatti, solo per un attimo, tutto mi è sembrato calmo: la stanza balla e il giudice scompare. Tra l’imbarazzo e la tensione, devo confessare di aver pensato che una scena del genere al cinema mi avrebbe fatto ridere, però in aula non ha riso nessuno − tanto meno io. Non per non fare brutta figura, sia chiaro. Non esiste più nessuna brutta figura da fare o impressione peggiore da dare. Mi serve un miracolo.
Siamo tutti Ultimi
Inverno, cinque di pomeriggio, praticamente notte. Il tribunale si era ormai svuotato, persino il cancelliere era irreperibile. L’agitazione si alternava alla rabbia. I riscaldamenti erano al minimo e mentre l’umidità mi invadeva completamente le ossa, feci un rapido resoconto mentale della giornata: ore 6:15 sveglia; ore 9:03 volo destinazione Sicilia. Per raggiungere il luogo del giudizio, il tragitto si era fatto simile a una moderna Via Crucis: Capaci, Stazione Centrale, Mercato, quindi il Golgota, il lungo vialone delle buone intenzioni. Poi, l’attesa del processo. Poco prima delle 13:00 e dopo cinque caffè, due acque minerali e un toast, arrivò il mio faccia a faccia con la Legge. Nel frattempo, nessun volto amico.
La persona offesa non si era presentata, in compenso il suo avvocato, che appariva più disturbato che preoccupato, era ben visibile. Parlava a raffica e io facevo fatica a seguirlo.
Il mio censore batté la mano sul fascicolo zeppo di fogli, sollevando una nuvoletta di polvere, mi guardò al di sopra degli occhialini e – a modo suo – stabilì una sorta di sentenza. Messaggio recepito: pari e dispari, questa volta ha detto male a me. La decisione del tribunale aveva irritato il mio avvocato e tranquillizzato l’altra metà del tavolo, timoroso di dover comunicare al suo importante cliente di dover gestire in caso di sconfitta, un rompiscatole.
Io non ho portato nessun uomo alla rovina, questo mi ripetevo. Ho solo rivelato la natura di alcuni personaggi. La verità dei fatti e gli inferni che uno come me ha dovuto attraversare per vedere riconosciute le proprie ragioni hanno sempre interessato pochi, perché significherebbe scoprire le ragioni di un paese schiavo del potere. Per dirla come il mio avvocato: è sempre stata una guerra tra bande e se ne sei fuori la prendi in quel posto da tutti. Una guerra iniziata per strada che nel migliore dei casi finisce in una cella sovraffollata, senza alcun comfort, dove occorre morire due volte per superare la notte. E io, che per anni ho pensato di cibarmi di giustizia, ho ottenuto un biglietto per la casa stregata, la giostra infernale. Davanti a scelte così repentine un cittadino comune cosa può e deve pensare?
Certa gente non si può toccare, neppure sfiorare per sbaglio, e al mio avvocato gli toccava rivoltare pietra su pietra per provare a salvarmi il culo. A dire la verità l’eventuale stima che uno come lui avrebbe potuto provare per un qualsiasi rappresentante del tribunale pappa e ciccia con gente simile, è praticamente svanita alla luce di quello che abbiamo passato negli ultimi anni. Cercava di comportarsi da giudice imparziale ma, nonostante gli sforzi, intuivo il suo scetticismo su tutto quello che stava succedendo. «Ci sono molte prove contro di loro», ha detto «e tanti di quei reati commessi che avrebbero dovuto stare in galera già da un pezzo. Eppure, anche se Cristo tornasse sulla terra per testimoniare contro di loro, non cambierebbe niente. Continuerebbero, come già fanno, a gironzolare tranquilli per strada come se nulla fosse».
Fai molta attenzione al passato che ti crei, non puoi sapere quando busserà di nuovo alla tua porta. L’ho tenuta bene a mente questa legge del contrappasso che poi mi è piovuta addosso come una valanga, solo una manciata di merda in più sulla montagna. Ho guardato il mio avvocato come un amico, in attesa del commento che avrebbe segnato quella giornata nei miei ricordi e l’aroma degli anni a venire. Lui ha compresso una smorfia in un sorriso e poi ha detto «Benvenuto dalla parte dei cattivi».
Senza tempo non c’è vita
«Bussa e scansati».
L’appuntato eseguì l’ordine: una manata sulla porta e poi subito dietro a seguirmi. Dall’altra parte il silenzio.
Restai fermo, gambe leggermente divaricate con la mano destra sulla pistola, la sinistra lungo la gamba, in attesa.
In quell’angusto quarto piano c’era un odore forte di stantio, di aria consumata e finestre chiuse per giorni. L’ascensore era di quelli vecchi con la grata di ferro esterna e due piccole ante. C’erano tre porte lì sul pianerottolo. Il muro di legno era segnato da venature di muffa e silenzio. Da sotto filtrava una riga di luce, poi si sentì un rumore di passi che si allontanavano. Niente voci.
«Aprite, carabinieri!». Dall’altra parte ancora qualche cigolio sordo, appena accennato. «Aprite!». Dopo due minuti, l’appuntato era sempre dietro di me, alzando la voce diede il terzo avvertimento. Il respiro profondo dei due si faceva sempre più incontrollabile. L’odore cominciava a cambiare, le dita del maresciallo si muovevano piano sulla pistola.
La porta si aprì.
Percepivo la presenza dell’appuntato dietro di lui, sentivo che era teso e pronto. Percepivo che potevo fidarmi della sua spalla: mano ferma sulla pistola e occhi fissi sulla porta. Dietro di noi, all’inizio della rampa di scale, c’era un altro carabiniere. Fuori, in macchina, il quarto.
Spalancata la porta ci ritrovammo davanti un uomo disarmato: pantaloni della tuta azzurri, scarpe di tela, camicia bianca con qualche bottone aperto. Sapevo benissimo chi era.
«Non ti muovere». Aveva la pistola puntata su di lui. «Sei solo?», gli chiese sempre a voce alta guardando tutt’intorno. L’altro fece cenno di sì con la testa.
«Gaetano Marino, è in arresto. Non si muova».
L’uomo eseguì obbediente e i carabinieri entrarono nell’appartamento. L’appuntato cominciò a guardare in giro mentre io non staccavo gli occhi di dosso da Marino. L’uomo ormai in trappola, pian piano, sorrise lievemente.
«Dov’è Riina?», gridai. Entrambi sapevamo che l’obiettivo era il boss. Nessuna risposta. «Dov’è Riina?».
Marino non aveva intenzione di aprire bocca, marcò di più il suo sorriso, ma poi: «Bravi», disse «mi avete preso».
I boss della mafia sanno arrendersi con dignità se chi li arresta porta loro rispetto.
L’appuntato teneva sotto mira Marino, con le spalle a due metri dal muro, mentre ispezionavo rapidamente la casa. Dopo il piccolo disimpegno all’ingresso c’era la sala principale con un tavolo di medie dimensioni, la televisione, qualche sedia sparsa, un armadio. Una porta-finestra dava su un balconcino piuttosto spartano, non un fiore, non una pianta, solo cemento. A sinistra uno stretto corridoio portava verso un bagno piccolo e disadorno e ad altre due stanze. La prima piuttosto angusta con un letto singolo, un armadio e un’altra televisione poggiata su una poltrona in vimini. Non c’era anima viva. L’ultima camera ospitava un letto matrimoniale, un armadio a due ante e dall’altra parte una finestra; due comodini senza suppellettili o luci. In bella vista, una foto incorniciata: un uomo, maglietta bianca e sandali al centro di piazza San Marco a Venezia, intento a dar da mangiare ai piccioni. Salvatore Riina, il boss dei boss: noto come u curtu.
Quattro poveri stronzi che aspettavano
Sono Giacomo Sereni, professione carabiniere, per la precisione maresciallo. All’età dei principi e nel massimo sentimento dei valori, ero impegnato in un servizio di appostamento per catturare Salvatore Riina, latitante boss tra i più